Pitti Peg e MEMORIE DELLA Ri ACCADRMIA DELLE SCIENZE DELL’ISTITUTO DI BOLOGNA SERIO NAA ENT HSONS TOMO IV. LIBRARY BOLOGNA GAMBERINI E 1894 ANNO ACCADEMICO 1893-94 MEMBRI DELLA KR. ACCADEMIA DELLE SCIENZE ACCADEMICI UFFICIALI PRESIDENTE Brugnoli Dott. Giovanni Cav. &; Grande Uffiz. $&; Comm. dell’ Ordine Serbo del Tokowo; Professore ordinario di Patologia speciale medica, Membro del Consiglio Accademico e Preside della Facoltà Medico- Chirurgica della R. Università di Bologna; Membro del Consiglio Sa- nitario Provinciale di Bologna. VICE-PRESIDENTE Taruffi Dott. Cesare Comm. $#; Professore emerito di Anatomia Patolo- gica e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bolo- gna ; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere. SEGRETARIO Cavazzi Ing. Dott. Alfredo, Professore straordinario di Chimica docima- stica nella R. Scuola d’ Applicazione per gl’ Ingegneri in Bologna. VICE-SEGRETARIO Santagata Dott. Domenico Cav. #; Professore emerito di Chimica inor- ganica nella R. Università di Bologna. AMMINISTRATORE GRAZIOSO Brugnoli Prof. Giovanni, predetto. i ge ACCADEMICI PENSIONATI 0 BENEDETTINI SEZIONE PRIMA. Scienze Fisiche e Matematiche. Beltrami Dott. Eugenio Comm. &; Comm. &; Cav. &; Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione ; Professore ordinario di Fisica matematica e di Meccanica Superiore nella R. Università di Roma; Pro- fessore emerito delle R. Università di Bologna e di Pisa; Membro effet- tivo del R. Istituto Lombardo; Socio corrispondente della R. Società di Napoli e della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio onorario della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena; Socio nazio- nale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Membro corrispondente della R. Accademia delle scienze di Berlino, e dell’Istituto di Francia; Socio estero dell’ Accademia di Gottingen; Socio corrispondente della Società matematica di Londra. Donati Dott. Luigi Cav. &; Professore ordinario di Fisica matematica nella R. Università di Bologna, e di Fisica tecnica nella R. Scuola di Applicazione per gl’ Ingegneri. Pincherle Ing. Salvatore Cav. &; Professore ordinario di Algebra e Geo- metria analitica e Incaricato di Geometria superiore nella R. Università di Bologna; Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei, e del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere. Riccardi Ing. Dott. Pietro Uffiz. &$; Comm. $; Professore ordinario di Geometria pratica nella R. Scuola d’ Applicazione per gl’ Ingegneri in Bologna (a riposo); Professore emerito della R. Università di Modena; Socio permanente della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Mo- dena; Socio corrispondente della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; Membro della Deputazione di Storia patria per le Pro- vincie Modenesi. Righi Dott. Augusto Cav. &; Cav. &; Professore ordinario di Fisica nella R. Università di Bologna, ed Incaricato dell’ Insegnamento della Fisica pei Farmacisti; Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia delle scienze di Torino, e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. I DIR A Ruffini Ing. Dott. Ferdinando Paolo Uffiz. &.; Comm. #&; Professore ordi- nario di Meccanica razionale e Rettore della R. Università di Bologna; Incaricato di Statica grafica nella R. Scuola d’Applicazione per gl’ Inge- gneri in Bologna; Professore emerito della R. Università di Modena; Membro del Collegio degli Esaminatori pei Licei e Ginnasi del Regno; Socio permanente della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Mo- dena; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Saporetti Dott. Antonio Cav. &; Professore ordinario di Astronomia e Direttore dell’ Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna. Villari Dott. Emilio Comm. &; Professore ordinario di Fisica ed Incaricato dell’insegnamento della Spettroscopia nella R. Università di Napoli; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei, della R. Società di Na- poli, del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere, della R. Accademia delle scienze di Torino e dell’ Accademia Pontaniana di Napoli; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Bombicci Porta Dott. Luigi Cav. &; Comm. $&; Professore ordinario di Mineralogia e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Incaricato di Mineralogia e Geologia applicate nella R. Scuola d’ Applicazione per gl’ Ingegneri; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e dell’ Accademia Pontaniana di Na- poli; Consigliere del Municipio di Bologna. Capellini Dott. Giovanni Comm. é&; Comm. &; Cav. &; Comm. con placca dell’ Ordine dell’ Aquila Rossa di Prussia; Grande Uffiz. dell’ O. della Corona di Romania; Comm. di 1* classe dell’ O. del Leone di Zaehringen (Baden); Gr. Uffiz. dell'O. di S. Marino; Comm. dell’ O. di Danebrog di Danimarca; Comm. dell'O. del Salvatore di Grecia; Comm. dell'O. della Stella Polare di Svezia; Comm. dell’ O. del merito scienti- fico di S. Giacomo della Spada di Portogallo ; Cav. dell’O. della Conce- zione di Portogallo; Cav. dell’ O. della Rosa del Brasile; Cav. della Le- gion d’onore di Francia; Uffiziale dell'O. ottomano del Medijdié; Deco- rato delle Palme dell’Istruzione pubblica di Francia; Medaglia d’oro dei siii Benemeriti di Romania; Dottore in Leggi honoris causa, della Univer— sità di Edinburgh; Senatore del Regno; Professore ordinario di Geolo- gia nella R. Università di Bologna; Dottore aggregato della classe di scienze fisiche nella R. Università di Genova; Presidente del R. Comitato Geologico Italiano; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della R. Società di Napoli; Presidente della R. Accademia Valdarnense del Poggio in Montevarchi; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei;. Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Membro onorario della. Società Geologica del Belgio. Cavazzi Prof. Alfredo, Segretario predetto. Ciaccio Dott. Giuseppe Vincenzo Cav. &; Comm. #; Preside della Fa- coltà di scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, e Professore ordinario di Anatomia e Fisiologia comparata e d’ Istologia normale nella R. Uni- versità di Bologna; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Cocconi Dott. Girolamo Uffiz. &; Comm. &; già Membro del Consiglio Superiore, della Giunta di pubblica Istruzione, e del Consiglio Supe- riore di Sanità del Regno; Professore ordinario d’ Igiene e di Materia Medica, Incaricato dell’ Insegnamento dell’ Ezoognosia e Direttore della R. Scuola Superiore di Medicina Veterinaria di Bologna; Segretario del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Professore emerito: della R. Università di Parma. Delpino Federico Uffiz. $&; Professore ordinario di Botanica, Direttore dell’ Orto Botanico nella R. Università di Napoli; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino. Santagata Prof. Domenico, Vice Segretario, predetto. Trinchese Dott. Salvatore Cav. 4; Comm. &; Membro del Consiglio Su- periore e della Giunta di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Anatomia comparata ed Incaricato dell’ Embriologia comparata nella R. Università di Napoli; Dottore aggregato della classe di scienze fisiche: nella R. Università di Genova; Socio ordinario residente della R. Società. di Napoli e dell’ Accademia Pontaniana di Napoli; Socio nazionale della. R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società italiana delle scienze.. & SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Albertoni Dott. Pietro Cav. &; Cav. &; Professore ordinario di Fisiologia sperimentale nella R. Università di Bologna; Socio corrispondente na- zionale della R. Accademia dei Lincei; Deputato al Parlamento. -Brugnoli Prof. Giovanni, Presidente e Amministratore grazioso, predetto. -Calori Dott. Luigi Comm. &; Comm. &; Cav. &; Professore ordinario di Anatomia umana nella R. Università di Bologna; Membro della Commissione pei testi di Lingua; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere, e della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena. Gotti Dott. Alfredo Cav. &; Professore ordinario di Clinica Medica e Chi- rurgica Veterinaria, e Incaricato dell’ Ostetricia Veterinaria e della Po- dologia nella Scuola Superiore di Medicina Veterinaria della R. Uni- versità di Bologna; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale di Bo- logna. Novaro Dott. Giacomo Filippo Comm. &; Membro del Consiglio Supe- riore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Clinica Chirurgica nella R. Università di Bologna. Taruffi Prof. Cesare, Vice Presidente, predetto. Tizzoni Dott. Guido Cav. &; Professore ordinario di Patologia generale nella R. Università di Bologna; già Membro del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna; Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei. ‘Verardini Dott. Ferdinando Cav. 4; Cav. &; Medico primario dell’Ospe- dale di Bologna; già R. Conservatore del vaccino per le Provincie del- l’ Emilia, delle Marche e dell’ Umbria; già Membro del Consiglio Sani- tario Provinciale di Bologna. ACCADEMICI ONORARI 0 NON PENSIONATI SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Colognesi Dott. Alfonso Professore di Matematica nel R. Liceo Galvani di Bologna. Cremona Ing. Luigi Grande Uffiz. &; Grande Uffiz. &; Consigliere Cav. &; Senatore del Regno; Vice-Presidente del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Matematiche superiori e Incaricato della Geometria analitica nella R. Università di Roma; Diret- tore della R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Roma; Direttore della Scuola di Magistero in scienze e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Roma; Professore emerito della R. Università di Bologna; Dottore honoris causa dell’ Università di Edimburgo e dell’ U- niversità di Dublino; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Socio ordinario non residente della R. Società di Napoli e del R. Istituto d’ incoraggiamento di Napoli; Socio corrispondente nazionale della R. Accademia delle scienze di Torino e della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena; Socio onorario della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Societa Italiana delle scienze; Membro stra- niero della Società R. di Londra; Membro corrispondente delle R. Ac- cademie delle scienze di Lisbona, di Berlino, di Monaco, di Amsterdam e di Copenaghen; delle Società R. di Edimburgo, di Gottinga, di Praga e di Liegi; Membro onorario dell’ Insigne Accademia Romana di Belle Arti, detta di S. Luca, della Società Filosofica di Cambridge e dell’ As- sociazione britannica pel progresso delle scienze; Membro straniero della Societa delle scienze di Harlem. D’ Arcais Ing. Francesco Professore ordinario di Calcolo infinitesimale e Libero insegnante di Analisi superiore nella R. Università di Padova. Fais Ing. Antonio Uffiz. &; Professore ordinario di Calcolo infinitesimale, Incaricato del Disegno d’ ornato e di Architettura elementare e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Cagliari; Professore ti- tolare di Matematica nel R. Liceo Dettori di Cagliari. 240} Filopanti Ing. Quirico Professore onorario della R. Università di Bologna; Deputato al Parlamento. Gualandi Ing. Francesco. Sacchetti Ing. Gualtiero Cav. #&; Rappresentante il Consorzio Universi- tario nel Consiglio direttivo della R. Scuola d’ Applicazione per gl’ In- gegneri di Bologna; Presidente del Consiglio Provinciale di Bologna; Consigliere del Municipio di Bologna; Deputato al Parlamento. SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Bertoloni Prof. Antonio Cav. #. Brazzola Dott. Floriano Professore straordinario di Patologia generale e di Anatomia patologica nella Scuola Superiore di Medicina Veterinaria della R. Università di Bologna; Direttore del Gabinetto Municipale di Batteriologia. È Ciamician Dott. Giacomo Cav. #; Professore ordinario di Chimica gene- rale nella R. Università di Bologna; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna; Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei. Emery Dott. Carlo Professore ordinario di Zoologia nella R. Università di Bologna: Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei. Fornasini Dott. Carlo Cav. &. Giacomelli Prof. Enrico. Gibelli Dott. Giuseppe Cav. &; Cav. è; Professore ordinario di Bota- nica, e Direttore dell’ Orto Botanico nella R. Università di Torino; Mem- bro residente della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio sopra- numerario della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo; Socio corrispondente nazionale della R. Accademia dei Lincei. Su) Scrie V. — Tomo IV. isa (Qi Morini Dott. Fauste Professore straordinario di Botanica nella R. Uni- versità di Messina; Libero insegnante con effetti legali di Botanica nella R. Università di Bologna. SEZIONE TERZA M'eidial'cim'a tea Ciano oiia Colucci Dott. Vincenzo Professore straordinario di Patologia generale e di Anatomia patologica nella Scuola Superiore di Medicina Veterinaria della R. Università di Pisa; Libero insegnante con effetti legali delle stesse materie nella R. Università di Bologna. D'’ Ajutolo Dott. Giovanni Libero insegnante con effetti legali di Anato- mia patologica nella R. Università di Bologna. Fabbri Dott. Ercole Federico Professore ordinario di Ostetricia, di Cli- nica Ostetrica, e della Dottrina delle malattie delle donne e dei bambini, nella R. Università di Modena; Socio attuale «della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena. Gamberini Dott. Pietro Cav. &; Uffiz. @&; Professore straordinario di Dermopatologia e Clinica dermopatica, Sifilopatologia e Clinica sifilo- patica nella R. Università di Bologna (a riposo). Massarenti Dott. Carlo Cav. #; Professore straordinario di Ostetricia, di Clinica Ostetrica e Pediatria nella R. Università di Bologna (a riposo). Murri Dott. Augusto Cav. &; Comm. &; gia Membro del Consiglio Supe- riore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Clinica Medica e Membro del Consiglio Accademico nella R. Università di Bologna; Professore onorario della libera Università di Camerino; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna; ex Deputato al Parlamento. Vitali Dott. Dioscoride Professore ordinario di Chimica Farmaceutica, Direttore della Scuola di Farmacia e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Membro del Consiglio Scolastico e del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna; Presidente onorario dell’ As- sociazione generale dei Farmacisti italiani. RR ACCADEMICI AGGREGATI rm SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Benetti Ing. Jacopo Uffiz. &; Comm. &; Professore ordinario di Macchi- mne agricole, idrauliche e termiche, e Incaricato dell’ insegnamento sul Materiale mobile delle strade ferrate e Direttore della R. Scuola d’Ap- plicazione per gl’ Ingegneri in Bologna. SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Mazzotti Dott. Luigi Medico primario dell’ Ospedale Maggiore di Bologna. ACCADEMICI CORRISPONDENTI NAZIONALI SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Battaglini Ing. Giuseppe Uffiz. é; Comm. 4; Cav. &; gia Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Ana- lisi superiore nella R. Università di Napoli; Socio Nazionale della R. Accademia dei Lincei; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino e della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena; Presidente della Classe di scienze fisiche e matematiche della R. Società di Napoli; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Blaserna Dott. Pietro Uffiz. &; Comm. #; Cav. ®; Senatore del Regno; già Membro del Consiglio Superiore e della Giunta di pubblica Istru- zione; Professore ordinario di Fisica sperimentale e Presidente della Fa- coltà di scienze Fisiche, Matematiche e Naturali nella R. Università di Roma; Vice-Presidente della Società geografica italiana; Socio corri- spondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio onorario della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; Segretario della R. Accade- mia dei Lincei per la classe di scienze fisiche, Matematiche e Natu- rali; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Boncompagni S. E. Don Baldassare dei Paincipi di Piombino; Mem- bro onorario della R. Accademia delle scienze di Berlino; Socio corri- spondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, della R. Ac- cademia delle scienze di Torino e della R. Accademia di scienze, let- tere ed arti in Modena; Socio residente dell’ Accademia Pontificia dei Nuovi Lincei; Socio onorario della R. Società delle scienze di Gòttingen. Brioschi Ing. Francesco Gran Cordone &; Gr. Uffiz. &; Cav. &; Gr. Uf-. fiziale della Legion d’ onore e Comm. dell’ Ordine del Cristo di Porto- gallo; Senatore del Regno; Membro del Consiglio Superiore e della Giunta di pubblica Istruzione; Professore ordinario d’ Idraulica e Diret- tore del R. Istituto tecnico Superiore di Milano; Professore emerito della R. Università di Pavia; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; So- cio onorario non residente della R. Società di Napoli; Membro della R. Accademia delle scienze di Torino; Presidente della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Socio cor- rispondente della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena; Socio onorario della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; Membro corrispondente dell’ Istituto di Francia e della R. Ac- cademia delle scienze di Berlino, di Gottinga, e di Pietroburgo; Membro delle Società matematiche di Londra e di Parigi. Denza Padre Francesco Comm. &; Uffiz. della Legion d’ onore di Fran- cia; Direttore dell’ Osservatorio Meteorologico del R. Collegio Carlo Alberto in Moncalieri e della Specula Vaticana; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena e dell’ Accademia Pontaniana di Na- poli; Socio Onorario della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo. De Rossi Prof. Michele Stefano Comm. dell’ Ordine di S. Gregorio Ma- gno; Socio corrispondente della R. Accademia di scienze, lettere ed go = arti in Modena; Membro corrispondente della Società geologica del Belgio. Felici Dott. Riccardo Cav. &; Comm. è; Cav. &; Professore ordinario di Fisica sperimentale e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Pisa; Membro del Consiglio direttivo della R. Scuola nor- male superiore di Pisa; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della So- cietà Italiana delle scienze. Negri Barone Cristoforo Grande Uffiz. &; Gr. Uffiz. &; Inviato straordi- nario e Ministro plenipotenziario (a riposo); 1° Presidente fondatore della Società geografica italiana; Consultore legale del Ministero per gli affari esteri; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia delle scienze di Torino. Palmieri Dott. Luigi Grande Uffiz. &; Gr. Uffiz. &; Cav. &; Senatore del Regno; Professore ordinario di Fisica terrestre e meteorologica, e Direttore dell’ Osservatorio meteorologico Vesuviano della R. Università di Napoli; Vice-Presidente dell’Accademia Pontaniana di Napoli; Socio residente della R. Società di Napoli; Segretario dell’ Istituto d’ incorag- giamento alle Scienze naturali di Napoli; Socio onorario della R. Acca- demia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Schiapparelli Ing. Prof. Giovanni Comm. &; Grande Uffiz. &; Cav. &; Comm. dell’ Ordine di S. Stanislao di Russia; Senatore del Regno; già Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; 1° Astronomo e Direttore del R. Osservatorio Astronomico di Brera; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Socio corrispondente della R. Società di Napoli; Socio onorario della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena e della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Pa- lermo; Membro della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio na- zionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Socieià Ita- liana delle scienze; Membro corrispondente delle II. Accademie delle scienze di Vienna, di Berlino, di Pietroburgo, dell’ Istituto di Francia; della R. Accademia Svedese; delle Accademie di Monaco, di Upsala, e di Cracovia; della Società astronomica di Londra, e della Societa I. dei Naturalisti di Mosca. e a Siacci Ing. Francesco Uffiz. &; Comm. #; Senatore del Regno; Tenente Colonnello nell’ Arma di Artiglieria; Professore ordinario di Meccanica superiore e Incaricato di Meccanica razionale nella R. Università di To- rino, e Professore di matematiche applicate nella Scuola d’ Applicazione delle armi di Artiglieria e Genio; Rappresentante il Ministero della guerra nel Consiglio di Amministrazione cella R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Torino; Membro residente della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società. Italiana delle scienze. Tacchini Ing. Prof. Pietro Comm. #5; Direttore dell’ Ufficio centrale di Metearologia e Geodinamica del R. Osservatorio astronomico del Col- legio Romano; Consigliere della Società geografica italiana; Socio cor- rispondente della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia delle scienze di Torino, del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena; Socio attivo della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; Membro: straordinario della Società R. di Londra. Tondini de’ Quarenghi Padre Prof. Cesare, Barnabita. SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Cannizzaro Stanislao Comm. &: Gr. Uffiz. &; Cav. &; Vice-Presidente. del Senato del Regno; già Membro del Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione; Professore di Chimica generale, Direttore dell’ Istituto Chi- mico e della Scuola di Farmacia e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Roma; Incaricato della Chimica docimastica nella. R. Scuola d’ Applicazione per gl’ Ingegneri in Roma; Socio ordinario non residente della R. Accademia delle scienze di Torino e della R. Società di Napoli; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere; Socio attivo della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Pa- lermo; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Membro corrispondente della R. Accademia delle scienze di Berlino e delle I. Accademie delle scienze di Vienna e di Pietroburgo; Socio straniero della R. Accademia delle- scienze di Baviera e della Società Reale di Londra. Pra (a Cossa Nob. Dott. Alfonso Comm. &; Comm. #; Comm. dell’ Ordine d’ I- sabella la Cattolica di Spagna; Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Chimica docimastica, e Di- rettore della R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Torino; Pro- fessore di Chimica minerale nel R. Museo Industriale Italiano; Membro del R. Comitato Geologico Italiano; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere, del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti e della R. Accademia delle scienze di Napoli; Socio ordinario non residente dell’ Istituto di incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli; Presidente della R. Accademia di Agricoltura di Torino; Socio dell’Accademia Gioenia di Catania; Accademico residente della R. Ac- cademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Socio ef- fettivo della Società Imperiale Mineralogica di San Pietroburgo. Costa Achille Comm. &; Uffiz. &; Professore ordinario di Zoologia nella R. Università di Napoli; Socio ordinario residente della R. Società di Napoli e dell’ Accademia Pontaniana di Napoli; Segretario della Società Italiana delle scienze detta dei XL. Omboni Giovanni Cav. &; Professore ordinario di Geologia, Direttore della Scuola di Farmacia e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Padova; Incaricato della Mineralogia e Geologia appli- cate ai materiali di costruzione nella R. Scuola d’ Applicazione per gli Ingegneri in Padova; Membro del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio corrispondente della R. Università di Napoli. Pavesi Dott. Pietro Cav. &; Uffiz. &; Comm. dell’ Ordine austriaco di Francesco Giuseppe; Professore ordinario di Zoologia nella R. Univer- sita di Pavia; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere; Membro della Società geografica Italiana. Saccardo Dott. Pier-Andrea Cav. &; Cav. &; Membro del Consiglio Su- periore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Botanica e Di- rettore dell’ Orto Botanico nella R. Università di Padova; Membro ef- fettivo del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio corri- spondente della R. Accademia delle scienze di Torino. Striiver Dott. Giovanni Comm. è; gia Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Mineralogia. nella R. Uni- versità di Roma; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Socio rio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino; Corrispon- dente della R. Società delle scienze di Gòttingen. SEZIONE TERZA M'editemm'afeta han ia Baccelli Dott. Guido Gran Cordone &; Gran cordone &; Cav. &; Cav. dell’ Ordine di S. Gregorio Magno; Comm. doll’ O. scient. di Federico di Prussia; Professore ordinario di Clinica Medica nella R. Università di Roma; Socio onorario della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; Presidente del Consiglio Superiore di Sanità del Regno; già Presidente della Camera dei Deputati; Membro onorario straniero dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio; Ministro dell’ Istruzione: pubblica. Bizozzero Dott. Giulio Comm. &; Comm. #; Senatore del Regno; Pro- fessore ordinario di Patologia generale nella R. Università di Torino; già Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Membro del Consiglio Superiore di Sanità del Regno; Membro residente della R. Ac- cademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Delegato della R. Accademia delle scienze di Torino nel- I Amministrazione del Consorzio Universitario; Vice-Presidente della. R. Accademia di Medicina di Torino; Membro della R. Accademia di Agricoltura di Torino; Socio straniero dell’ Accademia Cesarea Leopol- dino-Carolina Germanica nature curiosorumy; Socio corrispondente del kR. Istituto Lombardo di scienze e lettere, e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Bottini Dott. Enrico Comm. &; Professore ordinario di Clinica Chirur- gica e Medicina operatoria; Senatore del Regno. Giacomini Dott. Carlo Cav. &; Cav. #&; Professore ordinario di Anato- mia umana descrittiva e topografica e di Istologia nella R. Università di Torino; Socio della R. Accademia di Medicina di Torino; Membro re- sidente della R. Accademia delle Scienze di Torino. Golgi Dott. Camillo Comm. &; Membro del Consiglio Superiore e della Giunta di Pubblica ranridzi diet Rettore e Prof. di Patologia generale nel- le l Università di Pavia; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Socio corrispondente della R. Accademia delle Scienze di Torino. Nicolucci Dott. Giustiniano Uffiz. 4; Professore ordinario di Antropo- logia nella R. Università di Napoli; Ispettore onorario degli scavi e mo- numenti di antichità della Provincia di Caserta; Socio residente della R. Società di Napoli e dell’ Accademia Pontaniana di Napoli; Socio cor- rispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti e della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena; Uno dei XL della Societa Italiana delle scienze. Paladino Dott. Giovanni Cav. &; Presidente della Facoltà di scienze natu- rali, e Professore ordinario di Fisiologia e Istologia generale nella R. Università di Napoli; Professore ordinario di Zoologia, Anatomia gene- rale e speciale e di Fisiologia sperimentale nella R. Scuola Superiore di Medicina Veterinaria di Napoli. Sangalli Dott. Giacomo Cav. &; Comm. #; Professore ordinario di Ana- tomia Patologica e Presidente della Facoltà di Medicina e Chirurgia della R. Università di Pavia; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere. ACCADEMICI CORRISPONDENTI ESTERI SEZIONE TERZA Scienze Fisiche e Matematiche. Airy Sir Giorgio Biddel Cav. dell’ Ordine di Prussia pour le mérite: Mem- bro della Societa R. di Londra; Membro straniero della R. Accademia delle scienze di Berlino; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia delle scienze di Amsterdam, della R. Accademia Danese di scienze e lettere, e della R. Società delle scienze di Géòttingen, Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, e Serie V. — Tomo IV. 3 =" della Società Italiana dei XL; R. Astronomo dell’ Osservatorio di Green- wich (Londra). Boltzmann Dott. Lodovico Prof. di Fisica nell’ Università di Graz; Mem- bro dell’I. Accademia di scienze di Vienna; Membro onorario della R. Accademia delle scienze di Berlino, e Corrispondente della R. Acca- demia Svedese delle scienze; Membro della R. Società delle scienze di Gòttingen. Cayley Dott. Arturo Professore di Matematica nella Università di Cam- bridge; Membro corrispondente della R. Accademia Danese di scienze e lettere, e della Società R. delle scienze di Gòttingen; Socio Corri- spondente straniero della R. Accademia dei Lincei; Socio straniero della Società Italiana dei XL; Membro della Società Reale di Napoli e della Accademia R. delle scienze di Torino. Darboux Gastone Professore di Matematica della Facoltà delle scienze di Parigi; Membro dell’ Istituto di Francia; Membro corrispondente della R. Accademia Danese di scienze e lettere, e della R. Società delle scienze di Gottingen; Corrispondente della R. Accademia delle scienze di l'orino; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei. - Parigi. Fizeau Prof. Armando Ippolito Membro corrispondente della R. Acca- demia delle scienze di Berlino; Membro straniero della Società R. di Londra; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze; So- cio corrispondente straniero della R. Accademia dei Lincei - Parigi. Helmholtz (von) S. E. Ermanno Luigi Ferdinando Consigliere di Stato e Consigliere intimo; Gran Cordone «4; Socio corrispondente dell’ Isti- tuto di Francia; Socio ordinario, della R. Accademia delle scienze di Berlino; Membro onorario dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze della R. Ac- cademia delle scienze di Amsterdam, della R. Accademia Danese di scienze e lettere, e della Società R. di scienze di Géttingen; Dottore honoris causa della Facoltà di scienze Fisiche Matematiche e Naturali della R. Università di Bologna; Membro onorario straniero della Acca-. demia R. di Medicina del Belgio; Membro straniero della Società R. di Londra; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, della R. Acca- demia delle scienze di Torino, della R. Società di Napoli, e della So- cietà Italiana dei XL; Professore di Fisica nell’ Università di Berlino. Lecci RO cen Hermite Carlo Gran Croce della Legion d’ Onore; Prof. di Matematica alla Facoltà delle scienze; Membro dell’ Istituto di Francia; Dottore honoris causa della Facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Università di Bologna; Membro straniero della R. Accademia delle scienze di Berlino; Membro onorario dell’I. Accademia delle scienze di Vienna; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia delle scienze di Amsterdam, della R. Ac- cademia Danese di scienze e lettere, e della Società R. delle scienze di Géttingen; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, della So- cietà Italiana dei XL, della R. Società di Napoli, della R. Accademia delle scienze di Torino, della Società R. di Londra - Parigi. Janssen Pietro Giulio Cesare Membro dell’Istituto di Francia; Diret- tore dell’ Osservatorio d’ Astronomia fisica a Mewdon (Seine et Oise); Membro straniero della Società R. di Londra; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei. Lipschitz prof. Rodolfo Membro corrispondente della R. Accademia di scienze di Berlino ; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei - Bonn. Neumann Prof. Carlo Membro della Società R. delle scienze di Gòttin- gen - Leipzig. Neuman Francesco Ernesto Membro onorario dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Socio corrispondente della R. Società delle scienze di Géòttingen; Membro straniero della R. Accademia delle scienze di Berlino, della Società R. di Londra, e della R. Accademia dei Lincei; Professore nell’ Università di Konigsberg. Poncairé Dott. Giulio Enrice Membro dell’ Istituto di Francia; Profes- sore di calcoli delle probabilità e di Fisica Matematica; Corrispondente della R. Società delle Scienze di Gòttingen; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino - Parigi. Reye Prof. Teodoro Rettore dell’ Università di Strassburg; Corrispondente della R. Società delle scienze di Gòttingen. Tchebitchef Prof. Pafnutij Socio straniero della R. Accademia dei Lin cei; Membro straniero della Società R. di Londra - S. Pietroburgo. MRENR gee Thomson Sir Guglielmo Professore di Filosofia naturale nell’ Università di Glasgow; Comm. della Legion d’Onore di Francia; Cav. dell'O. di Prussia pour le mérite; Dottore honoris causa della Facoltà di scienze fisiche matematiche e naturali della R. Università di Bologna; Membro della Società R. di Londra; Membro onorario dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia delle scienze di Amsterdam, della R. Ac- cademia Danese di scienze e lettere, e della R. Società delle scienze di Gottingen; Socio straniero dell’ Istituto di Francia, della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della Società Italiana dei XL; Membro corrispondente della R. Accademia delle scien- ze di Berlino. Weierstrass Dott. Carlo Teodoro Guglielmo Professore di Matematica nell’ Università di Berlino; Dottore honoris causa della Facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Università di Bologna; Socio onorario della R. Accademia delle scienze di Berlino; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia Danese di scienze e lettere, e della R. Società delle Scienze di Gòttingen; Mem- bro straniero dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna, della R. Società di Londra, della R. Accademia dei Lincei, e della R. Accademia delle scienze di Torino. Wiedemann Gustavo Membro straniero della Società R. di Londra, della ‘ R. Accademia dei Lincei e della R. Accademia delle scienze di Torino; Membro corrispondente della R. Accademia delle scienze di BerlIno, della R. Accademia Svedese delle scienze e della R. Società delle scienze di Géttingen; Professore all’ Università di Lipsia. Yule Colonnello Enrico Membro della Società Geografica italiana - Londra. SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Agassiz Prof. Alessandro Direttore del Museo di Zoologia Comparata all Harvard College di Cambridge Mass.; Socio straniero della R. Acca- demia dei Lincei. Berthelot Prof. Marcellino, Segretario dell’ Istituto di Francia; Socio cor- MI È ‘rispondente della R. Accademia delle Scienze di Torino; Socio stranie- ro della R. Accademia dei Lincei - Parigi. Blanchard Prof. Carlo Emilio Membro dell’ Istituto di Erancia - Parigi. Bunsen Dott. Roberto Guglielmo Consigliere aulico; Professore di Chi- mica e direttore dell’ Istituto chimico nell’ Università di ZZeidelberg ; Dot- tore honoris causa della Facoltà di scienze fisiche, matematiche e na- turali della R. Università di Bologna; Membro onorario dell’ I. Aeca- demia delle scienze di Vienna; Membro straniero della R. Accademia delle scienze di Berlino e della Società R. di Londra; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia Danese di scienze e lettere, e della R. Societa delle scienze di GòOttingen; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, della R. Società di Napoli, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della Società Italiana dei XL. Daubrée Gabriele Augusto Direttore onorario della Scuola Nazionale delle Miniere; Professore di Geologia al Museo di Storia naturale di Parigi; Dottore Ronoris causa della Facoltà di scienze fisiche, matema- tiche e naturali della R. Università di Bologna; Membro dell’ Istituto di Francia; Membro onorario della Società Geologica del Belgio; Cor- rispondente della R. Accademia Danese di scienze e lettere e della R. Società delle scienze di Gòttingen; Membro straniero della Società R. di Londra, della R. Accademia dei Lincei, e della R. Accademia delle scienze di Torino - Parigi. Flower Prof. Guglielmo Enrico Membro della Società R. di Londra; Di- rettore del Dipartimento di Storia naturale al British Museum - Londra. Gaudry Dott. Alberto Membro dell’Istituto di Francia; Professore al Museo - Parigi. Hooker Sir Giuseppe Dalton Dottore honoris causa della Facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Università di Bologna; Vice-Presidente della Società R. di Londra; Membro corrispondente della R. Accademia delle scienze di Berlino, della R. Accademia Sve- dese delle scienze, della R. Accademia delle scienze di Amsterdam, della R. Accademia Danese di scienze e lettere, della R. Società delle scienze di Gòttingen; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia delle scienze di Torino e della R. Accademia delle 2700 scienze, lettere e belle arti di Palermo; Direttore dei Ro0ya/ Kew Gar- dens - Londra. Huxley Prof. Tommaso Londra; Socio straniero della R. Accademia dei IHimicels Leydig Dott. Francesco Dottore honoris causa della Facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Università di Bologna; Pro- fessore d’ Anatomia comparata nella Università di Wreburg; Ordinario. emerito dell’ Università di Bonn; Membro corrispondente della R. Ac- cademia Danese di scienze e lettere. Pautier G. P. Guglielmo - Parigi. Philippi Rodolfo Armando Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino - Santiago del Chili. Renard Dott. Carlo Consigliere privato; Presidente dell’ I. Società di na- turalisti di Mosca. Schrauf Dott. Alberto Professore di Mineralogia nell’ Università di Vienna; Membro corrispondente nazionale dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna. Schwendener Prof. Salvatore - Berlino. Sclater Filippo Lutley Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino; Segretario della Società Zoologica di Londra. Steenstrup Prof. Gio. Japetus Smith Professore di Zoologia nell’ Univer- sità di Copenaghen; Membro della R. Accademia Danese di scienze e lettere; Membro straniero della Società R. di Londra, e della R. Acca- demia dei Lincei; Membro corrispondente della R. Accademia delle scienze di Berlino, della R. Accademia Svedese delle scienze e della R. Società delle scienze di Gòttingen; Membro onorario della Società geologica del Belgio. Zittel (von) Prof. Carlo Alfredo Direttore del Museo di Paleontologia di Monaco; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei. Er DO SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Beale Dott. Lionello Smith Professore di Medicina pratica e già di Fi- siologia e d’ Anatomia Patologica nel King's College di Londra; Corri- spondente straniero dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio; Membro della Società R. di Londra. Bergh Prof. Rodolfo Medico primario nell’ Ospedale di Copenaghen. Billroth Dott. Teodoro Consigliere Aulico; Professore di Chirurgia e di Clinica chirurgica nell’ Università di Vienna; Dottore honoris causa della Facoltà di Medicina della R. Università di Bologna; Membro dell’ I. Ac- cademia delle scienze di Vienna; Membro onorario straniero dell’ Acca- demia R. di Medicina del Belgio; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze. Braun de Fernwald Cav. Prof. Carlo - Vienna. Gurlt Dott. E&. F. Professore di Chirurgia all’ Università di Berlino. Holmes Prof. T. - Londra. Hyrtl Dott. Giuseppe Consigliere Aulico; Professore emerito di Anatomia nell’ Università di Vienna; Membro dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Socio corrispondente della R. Società delle scienze di Gòttin- gen - Perchtoldsdorf, Sùdbahn (Austria). Janssens Dott. Eugenio Membro titolare dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio; Ispettore Capo del servizio d’ Igiene della città di Bruxelles. Koch Prof. Roberto Consigliere intimo Medico; Direttore honoris causa della Facoltà di Medicina della R. Università di Bologna; Corrispon- dente straniero dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio, e della R. Accademia delle scienze di Torino - Berlino Kéollicker (von) Dott. Alberto Dottore honoris causa della Facoltà di Me- dicina della R. Università di Bologna; Membro corrispondente della = ga R. Accademia delle scienze di Berlino e della R. Accademia delle scienze di Torino; Membro straniero della Società R. di Londra e Corrispon- dente della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia. Danese di scienze e lettere, e della R. Società delle scienze di Gòttin- gen; Professore di Anatomia nella Università di Wredurg. Leyden Prof. E. - Berlino. Lister Prof. Giuseppe Dottore honoris causa della Facoltà di Medicina. della R. Università di Bologna - Londra. Martin Dott. Eduardo - Berlino. Pasteur Prof. A. M. Luigi Dottore honoris causa della Facoltà di Medi- cina della R. Università di Bologna; Membro dell’ Istituto di Irancia e dell’ Accademia Francese; Membro onorario straniero dell’ Accademia R. di Medicina del. Belgio, della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia delle scienze di Amsterdam, e della R. Accademia. Danese di scienze e lettere; Membro straniero della Società R. di Lon- dra; Corrispondente straniero dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei; Professore onorario della Facoltà di scienze di Parigi. Ranvier Prof. Luigi Dottore honoris causa della Facoltà di Medicina. della R. Università di Bologna; Corrispondente straniero dell’Accademia R. di medicina del Belgio; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei - Parigi. Retzius Dott. Magnus Gustavo Dottore honoris causa della Facoltà di Medicina della R. Università di Bologna; Professore di Anatomia nel- l’ Istituto Carolinico di Stoccolma; Membro della R. Accademia Svedese delle scienze, della R. Accademia Danese di scienze e lettere; Corri- spondente della Società R. delle scienze di Gòttingen. Robin Prof. Carlo - Parigi. Schiff Prof. Maurizio Cav. &; Dottore honoris causa della Facoltà di Medicina della R. Università di Bologna; Membro onorario straniero dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio; Socio straniero della R. Ac- cademia dei Lincei - Ginevra. ae Virchow Dott. Rodolfo Professore di Patologia generale e di Anatomia Patologica nella Università di Berlino; Dottore honoris causa della Fa- coltà di Medicina della R. Università di Bologna; Socio ordinario del- la R. Accademia di Berlino; Membro straniero della Società R. di Lon- «dra; Corrispondente della R. Accademia Svedese delle scienze e della R. Accademia delle scienze di Amsterdam; Membro onorario straniero dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio, della R. Accademia dei Lin- cei, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Modena - Berlino. ACCADEMICI DEFUNTI NEGLI ANNI 1892-93 E 1893-94 Corradi Comm. Prof. Alfonso, Accademico onorario della Sezione di Me- dicina, morto in Pavia il 28 Novembre 1892. Owen Sir Riccardo, Accademico corrispondente straniero, morto il 19 Dicembre 1892 a Sheen Lodge nel parco di Richmond. De Candolle Prof. Alfonso, Accademico corrispondente straniero, morto a Ginevra il 4 Aprile 1893. Passerini Comm. Prof. Giovanni, Accademico corrispondente nazionale, morto a Parma il 17 Aprile 1893. Moleschott Senatore Comm. Jacopo, Accademico corrispondente nazio- nale, morto in Roma il 20 Maggio 1893. Razzaboni Comm. Prof. Cesare, Vice Presidente dell’ Accademia, morto in Bologna il 28 Luglio 1893. Serie V, «= Tomo IV. 4 Rivolta Cav. Prof. Sebastiano, Accademico corrispondente nazionale, morto a Torino il 14 Agosto 1893. Charcot Prof. Giovanni Martino, Accademico corrispondente estero, morto il 15 Agosto 1893. Scacchi Comm. Prof. Arcangelo, Accademico corrispondente nazionale, morto in Napoli il 12 Ottobre 1893. Hertz Dott. Enrico Rodolfo, Accademico corrispondente straniero, morto a Bonn il 1 Gennaio 1894. Van Beneden Prof. Pietro Giuseppe, Accademico corrispondente stra- niero, morto a Lovanio 1’ 8 Gennaio 1894. Gualandi Dott. Giovanni, Accademico onorario della Sezione di Medici- na e Chirurgia, morto in Roma il 19 Gennaio 1894. ETEROCARPIA ED ETEROMERICARPIA NELLE SNGIOSRPERME INVE E NIE ©FEGNIIZA PrRoFr. FEDERICO DELPINO (Letta nella Sessione del 26 Novembre 18983). $ I. - Preliminari. Posto che i frutti nelle piante superiori sono indubitabilmente apparec- chi designati alla duplice funzione di promuovere la dispersione dei semi e di proteggere gli embrioni in essi racchiusi dalle offese degli agenti esterni, è per sè manifesta, se non la necessità, almeno la convenienza che in ogni singola specie di piante tutti quanti i semi e pericarpii da essa prodotti sieno assolutamente uguali gli uni agli altri, e abbiano tutti in egual misura gli stessi caratteri rispondenti alle due funzioni sovrindicate. A questo concetto a priori risponde fino ad un certo punto la realtà; perocché la gran maggioranza delle angiosperme è data da specie isocar- piche ed isomericarpiche. Diciamo specie isocarpiche quelle dove tutti i frutti somigliano perfet- tamente l’un l’altro, e specie isomericarpiche quelle fornite di lomenti, sterigmi, polachenii, i quali a maturità si disarticolano in pezzi, l’uno al- l’altro uguali nei caratteri di forma, di funzione e di destinazione. Di queste specie isomericarpiche abbiamo numerosi esempi nei generi Malva, Althaea, Geranium, Euphorbia, Alisma, Ranunculus, Coronilla, Hedy- sarum ecc. Ma ogni legge ha la sua eccezione. E invero contro la generalità delle specie isocarpiche e isomericarpiche, si notano quà e colà, in diverse fami- glie, esempi notabilissimi di specie eterocarpiche ed eteromericarpiche. Nelle eterocarpiche i frutti sono diversi gli uni dagli altri e cadono in due, tre e talvolta perfino quattro forme distintissime. Nelle specie eteromeri- = agg carpiche i frutti sono tra lore uguali, ma allorché avviene la disarticola- zione o deiscenza, in ogni singolo frutto i pezzi o i carpidiì differiscono notevolmente gli uni dagli altri per caratteri di forma, di funzione e di destinazione. Tali fenomeni di eterocarpia e di eteromericarpia che a primo aspetto sì presentano come anomalie e incongruenze, non poterono a meno di attirare l’attenzione di parecchi tra quei naturalisti, che, seguendo 1’ indi- rizzo attuale della scienza, non si contentano di considerare semplicemente le forme organiche, ma vogliono indagare eziandio l’origine e le cause loro. Così, in questi ultimi anni, parecchie pubblicazioni si occuparono di quest’ ordine di fenomeni, fra cui primeggiano le seguenti, che riferiamo per ordine di tempo; e cioé: FRIEDR. HilpEBRAND, Die Verbreitungsmittel der Pflanzen, 1873, p. 116. AxEL W. LunpsTROM, Pflanzenbiologische Studien, II, 1877, pag. 73-77. FED. DELPINO, Note ed osservazioni botaniche, Decuria II, 1890, p. 10-13. E. Huri, ÙUeber geokarpe, amphikarpe und heterokarpe Pflanzen, 1890, pag. 8-9 e passim. HILDEBRAND (l. c.) si limita a citare tre casi; uno di spiccata eterocar- pia offerta dalle specie del genere Calendula, ove in ogni singola calatide nota due forme di achenii, gli uni sviluppati in un apparecchio dilatato cimbiforme adatto al trasporto mediante il vento, gli altri sviluppati in un apparecchio munito di tubercoli appiccicanti destinati ad attaccarsi alla lana o alle piume di animali. Il secondo caso implica eteromericarpia e sì riferisce al diachenio d’ un’ ombrellifera, Dimetfopia pusilla, di cui un mericarpio munito d’organi appiccicanti accenna ad eriofilia (1), l’altro in- vece a superficie liscia e dilatato in ala accenna ad anemofilia. Il terzo caso, che implica pure eteromericarpia, si riferisce alla Commelina coelestis e ad altre specie di tal genere, ove delle tre loggie ovariane, due sono deiscenti, e lasciano uscire i loro semi, mentre la terza loggia monosperma, non si apre giammai ed orlata da una porzione delle pareti delle loggie deiscenti, prepara un apparecchio alato designato alla traslazione mediante il vento. Ancora più circoscritte sono le ricerche di LuNnpsTRÒM (l. c.). Si rife- riscono al caso di eterocarpia dei generi Calendula e Dimorphoteca, dove l’autore segnala ire forme di achenii (una in più di quelle ammesse da HiLpEBRAND); achenii cioé dilatati ed anemofilij; achenii più ristretti od allungati muniti di organi appiccicanti, epperò eriofili; e finalmente achenii |. (1) Questo vocabolo che merita di essere adottato è stato proposto dal Signor ETT. MATTEI, ed è applicabile a quelle piante i cui frutti muniti d’organi appiccicanti, sono in correlazione con animali (pascolanti) forniti di vello. su Qi piegati ad anello e corrugati, imitanti curiosamente larve d’ insetti. Questi ‘ultimi l’autore considera come designati ad essere inghiottiti e disseminati da uccelli insettivori. i HurH (l. c.) abbraccia nei suoi studii una maggior quantità di specie ‘eterocarpe; cioé considera molte eterocarpe propriamente dette; poscia le ‘specie anficarpiche, vale a dire che producono frutti sotterranei e frutti ‘aerei, i quali naturalmente o poco o tanto differiscono gli uni dagli altri. Le cause che assegna alla eterocarpia sono o la funzione protettiva (per i frutti ipogei) e, per i frutti epigei, quando la anemofilia, quando l’eriofilia. HurH non ha posto grande attenzione al fenomeno della eteromericarpia ‘che fonde con quello stesso della eterocarpia. Per altro cita almeno due specie eteromericarpiche, cioè la Torilis nodosa e la Turgenia heterocarpa. Il breve studio pubblicato da me (l. c.) considera soltanto la eterocar- pia delle specie ipogeocarpiche, e quella che si rivela in alcuni affini ge- neri di cicoriacee (T7hrincia, Seriola, Zacyntha, Crepis, Hyoseris e Gero- pogon). Non è preso in considerazione nessun caso di eteromericarpia. Come si vede il materiale delle osservazioni é scarso; malgrado ciò, col- pito profondamente dai fenomeni osservati e guidato da una retta indu- zione, ebbi a rilevare una causa della eterocarpia, ben più estesa a gene- rale di quelle proposte dai tre succitati autori; e tale anzi da dominarle tutte e a sé completamente subordinarle. . Persuaso della. verità delle mie conclusioni, proseguii i miei studii in proposito, estendendoli anche alle piante eteromericarpe. Esaminai accu- ratamente tutte le specie eterocarpe ed eteromericarpe che potei procurar- mi, e vidi moltiplicarsi da ogni parte conferme delle mie precedenti con- ‘clusioni, e quindi ho divisato di produrre un lavoro esteso su tale argo- mento, sperando di aggiungere per esso alla fisiologia e biologia vegetale parecchie cognizioni importanti. Intanto pigliamo il punto di partenza dal mio scritto, qui riportando per intiero le conclusioni già da me formulate (1. c. pag. 10, 11). « Non basta che le piante maturino i semi. Conviene che questi a tempo ‘opportuno sì stacchino e riproducano la specie a maggiore o minore di- stanza dalla pianta madre. « La disseminazione non può avere per iscopo la dilatazione geogra- fica. Bensi la dilatazione geografica è un effetto non intenzionato della dispersione locale; e tanto più la dilatazione geografica sarà rapidamente effettuata, quanto più, caeteris paribus, sarà maggiore la distanza a cui possono da agenti esterni essere trasferiti i semi. Data un’isola deserta e dato che vi pervengano semi di Vicia e di Capsella Bursa, la seconda sarà di gran lunga più rapidamente dilatata. Ma non bisogna perdere di vista che anche la Vicia potrà a poco a poco conquistare tutto il territo- cla rio; e allora entrambe le specie, rispetto alla dilatazione geografica, sone da ultimo totalmente pareggiate, sebbene l’una sia sfornita d’ogni rapide: mezzo di traslazione dei semi. « Tutto ciò conferma che la dilatazione geografica non può essere scopo della disseminazione; e da ampiamente ragione del fatto, in appa- renza contradditorio, che alcune specie, molto sfavorite sotto il rapporto: di una rapida disseminazione, pure hanno un’area geografica di gran lunga più estesa d’altre specie, i cui semi, o immersi in polpa commestibile, ©. muniti di ale, di pappi, di uncini, sono disseminati a grandi distanze colla maggior facilità. « La disseminazione aduncue non è che una dispersione locale. Ma si debbono distinguere due dispersioni, una a piccolissima e quasi nulla di- stanza, l’altra a distanza più o meno considerevole. Entrambe sono utili, l’una per occupare i punti vicini, l’altra per occupare i punti lontani. E si vede che nelle piante vi sono predisposizioni per l’una o per l’altra dispersione. « Infatti le specie i cui semi hanno singolari disposizioni per volare, o che pure hanno uncini, o infine frutti commestibili è chiaro che provve- dono nello stesso tempo all’una e all’altra dispersione. « Vi provvede fino a un certo punto lo stesso cocomero asinino, per- ché quando il frutto, staccandosi, agisce come una siringa, i semi sono slanciati in modo che formano un vero trascico in linea retta, alcuni vi- cinissimi, alcuni più distanti. E lo stesso dicasi dei semi di tutt’ altra spe- cie fornita di disseminazione autodinamica. « È stato gia segnalato che le capsule ricche di piccoli e leggieri semi (Papaver, Antirrhinum, Campanula, Nicotiana, Oenothera, ecc.), sono ri- gidamente erette, in modo che la disseminazione è alquanto difficoltata. È. questa una disposizione acconcia oltremodo per provvedere a una longin- qua e a una prossima disseminazione, a tenore della forza evellente del vento. Il quale se é debole trascina alcuni semi, li abbandona in tutta vi- cinanza, se é forte o fortissimo, li trasporta a grandi distanze. « Ma in tutto questo non vi é fin qui divisione di lavoro. È meritevole. l’attenzione di quelle specie ove la divisione del lavoro si é effettuata; vale a dire che producono due maniere di semi, gli uni destinati a grandi distanze, gli altri assegnati a germinare in tutta prossimità. Allora per lo più il fenomeno é consociato a diversità di fecondazione, omogama per i semi assegnati a luogo di tutte prossimità, staurogama per i semi asse- gnati a essere disseminati a grande distanza. « Molte piante ipocarpogee producono due maniere di fiori e di frutti;. gli uni epigei e staurogami, i cui semi per maturare all’aperto possono. essere trasferiti a distanza; gli altri ipogei necessariamente omogami co (e cleistogami), i cui semi necessariamente non possono essere trasferiti ‘a nessuna distanza ». « La suaccennata divisione di lavoro non può essere più chiaramente ‘manifestata ». Ed é per l’appunto una consimile divisione di lavoro che ha prodotto la maggior parte dei casi di eterocarpia ed eteromericarpia, i quali ver- ranno, pianta per pianta, riferiti e discussi nelle seguenti pagine, utilizzando ‘a tale scopo non solo le mie osservazioni, ma quelle eziandio degli autori “succitati. $. II. - Cicoriacee eterocarpiche. Helminthia echioides Gaertn. Nelle Cicoriacee abbiamo parecchi interessanti casi di eterocarpia in mon pochi generi e specie; ma fra tutte la più importante è la eterocarpia dell’ Helminthia. La serie più interna dei filli dell’involucro calatidiano consta di circa otto organi ventricoso-carinati, i quali, nella loro cavità ventricosa, alber- gano, anzi racchiudono un’achena designata a non staccarsi giammai dalla pianta, salvoché per marcescenza, e si disvelano cosi per achene ragadioloidi (1), esercenti la funzione della disseminazione in loco. Le altre «e molto più numerose achene del disco sono libere, prontamente disgiun- gibili, adatte a volare, mediante un pappo stipitato, sotto l’impulso di quei venti che più o meno forti valgano a distaccarli dal ricettacolo calatidiano. Esse pertanto provvedono ad una disseminazione longinqua. Le achene ragadioloidi grandemente differiscono dalle achene libere, e qui le differenze si manifestano in guisa tale che è sommamente interes- sante ed istruttiva la loro comparazione, e viene in luce una concate- mazione di caratteri e di relative funzioni che porta a conelusioni im- portanti. Parallelo tra le achene ragadioloidi e le libere. Quest’ ultime sono impian- (1) La distinzione di achene ragadioloidi, involute entro una brattea, connesse perciò stabil- mente colla pianta, da non potersene liberare, se non che per un processo di marcescenza; e di achene libere, anemofile, è puro effetto della legge della divisione del lavoro da noi enunziata. HH genere RAagadiolus è instruttivo in proposito. Senza dubbio esso è una progenie derivata da una Cicoriacea eterocarpa (non molto dissimile per avventura alla Serzola aetnensis) in cui la «divisione del lavoro si è estinta, scomparvero Je achene designate alla disseminazione longinqua, «e-soltanto rimasero quelle designate alla disseminazione in /oco. Questo fenomeno d’estinzione -di funzione concretato nel genere RAagadiolus, autorizza l'appellativo di ragadioloidi a tutte «quelle achene che nelle Cicoriacee eterocarpee provvedono alla disseminazione in loco. —_3% —. tate su larga base, in curve, convesse all’esterno, concave dalla parte interna, quindi a sezione triangolare, liscie dalla parte della curvatura, pelose dal- l’altra parte, d’un colore biancastro sordido. Lo stipite del pappo e il pappo sussistono ancora, ma lo stipite é più breve della metà e il pappo. è più breve e mal conformato; esso è un organo inutile; perpetuasi ancora per causa ereditaria, giacché non può esercitare la sua funzione. Gli altri achenii sono diversissimi in tutto. Sono anch’essi sessili, ma. a base ristretta, sono retti e punto incurvi; di figura cilindrica un poco compressa; di un colore vivo testaceo-rossastro ; assolutamente lisci, e da ogni parte scolpiti da rughe trasversali subparallele più rilevate verso l’ a- pice. Lo stipite è assai lungo; più lungo il pappo, assai meglio elaborato e sviluppato. Per ciò che spetta alla diversità della funzione disseminativa, i sovra- detti caratteri sono per sé chiari e non abbisognano di commento. Resta però a dichiarare la funzione dei caratteri di colorito e superficie delle achene del disco o anemofile. La differenza per verità è saglientis- sima. Mentre gli achenii ragadioloidi, di color pallido, incospicui, hanno una superficie che non offre nulla di singolare, gli achenii del disco in- vece, oltre essere d’un lucente color testaceo, sono in maniera curiosa solcati trasversalmente, in guisa da somigliare dei piccoli coleotteri. Cosiffatta differenza che è tanto pronunziata giustifica la induzione che non piccolo deve essere il suo significato funzionale. Abbiamo qui certa- mente un fenomeno da aggiungersi a quei tanto numerosi che oramai nell’uno e nell'altro regno organico si conoscono sotto il nome di mi- mismo, e che generalmente hanno una funzione protettiva. E se parecchie farfalle, e numerosi ortotteri (Phy/lium, Bacillus ecc.) hanno per mimesi protettiva imitato forme vegetali, non deve parere strano che i semi di molte piante siano diventati entomomorfi, ed abbiano imitato corpi d’in- setti adulti, o anche larve e crisalidi. E nel caso attuale si comprende come siffatto mimismo torni inutile per gli achenii periferici destinati a rimanere sempre affissi alle piante, e possa, invece prestare grande utilità agli acheni del disco, dopo che sono stati disseminati dal vento. Non é ora tempo di discutere il probabile significato di cosiffatti mi- mismi. Ci riserbiamo di trattare tale argomento, verso la fine di questo lavoro, in apposito paragrafo, riferendo le varie opinioni state addotte in proposito e discutendole. Il caso della eterocarpia di Hel/minthia è uno dei più interessanti per» la nitidissima e razionale distinzione delle achene designate alla dissemi- nazione in loco da quelle designate alla disseminazione a distanza. Cite- remo ora altri esempi ove tal distinzione é meno pronunziata, e non per- tanto sono meritevoli di studio. a Barkhausia alpina L. Le calatidi sono assai grosse, lageniformi. — L’involucro interno co— stituito da circa 13 brattee o squame ventricoso-carinate involge altret- tante achene differenziate congruamente per la disseminazione in loco. Le achene del disco hanno i soliti caratteri corrispondenti alla disseminazione- longinqua per mezzo del vento. Le achene della circonferenza ossia ragadioloidi, quantunque provviste: di stipite equilongo e di pappo quasi egualmente sviluppato offrono per altro notevoli diversità. In primo luogo verso la base sono innestate colle relative squame, in guisa che offrono una grande resistenza alla disarticolazione; e per distac— carle bisogna rompere per un lungo tratto un tessuto assai tenace. Cosi è chiaro che nessuno degli agenti soliti può trasportare cosifatte achene,. le quali restano necessariamente aderenti alla pianta finché questa marcisca.. Diversificano per la figura. Esse sono incurvate, quadrilatere, compresse nel senso radiante. La porzione loro che risponde al carpidio interno è biancastra, peloso-tomentosa, la parte che risponde al carpidio esterno, è di colore più carico, carinata, pelosa. Le dimensioni sono maggiori. Anche l’ embrione è più voluminoso. Il pappo al menomo urto si stacca. Caratteri opposti dominano nelle achene del disco. Sono affatto prive di peli, di color giallo bruno, longitudinalmente multistriate con strie ospe- rate da denticoli brevissimi in su volti. Sono esili, fusiformi, munite di rostro lungo e sottile. Si disarticolano con gran facilità. Il pappo è attac- cato più solidamente. In complesso, quantunque siano in qualche grado entomomorfe, per altro hanno caratteri che accennano a un parziale seppellimento dei semi. Crepis Dioscoridis L. L’involucro si distingue per essere globulare e non ovoide, e ciò èé in collegazione col carattere generico della mancanza di stipite al pappo. La serie interna è costituita da circa 13 scaglie, grossamente e duramente carinate nella parte interna e concava, in cui sono solidamente infisse altrettante achene ragadioloidi. La differenza tra queste e quelle del disco é molto bene pronunziata ; esse sono incurve, triquetre, liscie, indisgiungibili, per cui restano sempre fino a marcescenza attaccate alla pianta. Sono per verità munite di pappo; Serie V. — Tomo IV. 5 ida ma questo cade con tutta facilità, e viste le contingenze, si rivela per un organo affatto inutile. Le achene del disco poi saltano agli occhi pel loro vivace colore. Sono subtriquetre e solcate longitudinalmente da circa nove coste trasversal- mente intaccate in guisa che ognuna di esse ha un’ apparenza d’un mi- nuscolo scarabeo. I loro caratteri mi sembra che portino piuttosto alla mi- mesi che al seppellimento dei semi, al rovescio che nel caso precedente. Infatti nella B. alpina gli achenii del disco premuniti d’ un lungo e solido rostro, e colle loro coste asperate da denticoli (sursum versis) sono mutate in aste destinate a penetrare innanzi senza poter dare addietro (1); mentre qui la forma di asta non ci è, attesa la mancanza dello stipite e la brevità degli acheni. Barkhausia foetida D. C. Anche questa specie presenta interessanti ed istruttive varianti. La calatide, in istato di fruttificazione, per la forma é simile a quella «della B. alpina, ma è più piccola. L’ involucro interno è costituito pari- menti da circa tredici squame carenato-ventricose, a ciascuna delle quali risponde dalla parte interna o concava un’achena di quelle che restano sempre unite alla pianta (ragadioloide). Le achene del disco sono astiformi con stipite molto lungo di colore castagno chiaro, longitudinalmente lineate con linee poco rilevate e tra- sversalmente intaccate. Al menomo urto esse si disarticolano dal ricettacolo e il pappo invece resiste non poco. Gli intaccamenti trasversali degli acheni, massimamente quelli più rilevati del rostro e dello stipite, accennano piut- tosto alla funzione del seppellimento dei semi anziché a mimesi. Le achene destinate alla riproduzione in /oco sono eguali pel colore e poco dissimili per la forma da quelle del disco. Ma la funzione loro pro- pria qui si è accentuata in tutt’ altra maniera; nei casi precedenti le raga- dioloidi erano ricoverate nella cavità delle squame rispettive. Qui sono qualche cosa di più; esse sono convolute ed abbracciate dalla rispettiva squama; quindi dagli agenti esterni soliti non possono essere distaccate da essa. Quanto alla forma resta solo la differenza dello stipite molto ab- breviato e del pappo caduco con maggior facilità. — In questa e nelle precedenti specie ho fatto rilievo che in alcune calatidi le achene del disco sono tutte sterili, in altre sono fertili e in parte sterili. Per contrario e senza (1) Se si prende uno di questi achenii e si fa strisciare sui labbri, si fa sentire chiara l’azione dei denticoli retrorsi, parendo asperrimi in un senso e lisci nel senso opposto. — 39 — _ eccezione, in ogni calatide le achene ragadioloidi sono sempre mai fertili e sovente un po’ più grosse. Da tutto ciò è lecito arguire che la fecondazione delle achene del disco é staurogamica (e perciò eventuale), mentre omogamica (e perciò indefet- tibile) è la fecondazione delle achene periferiche. Cosi anche in queste piante si ritrova confermata la legge già da noî enunziata che generalmente i caratteri della disseminazione in loco sono consociati col carattere della omogamia, mentre i caratteri della dissemi- nazione a distanza sono consociati col carattere della staurogamia. Le altre specie di Crepis che ho esaminato (Crepis pulchra, C. virens, C. setosa) non sono eterocarpiche. Thrincia hirta Roth. Assai pronunziata è la eterocarpia in questa specie che per un lapsus memoriae nella nostra antecedente nota fu male ascritta al genere Robderzia. Gli otto filli involucrali più interni di ogni calatide nella loro concavità ricoverano altrettante achene designate alla disseminazione in loco. Le rima- nenti numerose achene del disco sono, mediante il vento, designate alla disseminazione a distanza. Questa destinazione diversa implica una razionale differenza di caratteri. Le achene della periferia non sono veramente avvolte dalle rispettive brattee, per altro sono impiantate assai solidamente sul talamo ; per lo che è richiesto notevole sforzo e la rottura del tessuto per operarne il distacco. Il loro pappo non è evoluto e rimane in uno stato rudimentale sotto forma di calicetto breve improprio a fungere da ala. Sono assai più grosse, pit tozze e più brevi, presentano alcuni caratteri di mimismo entomomorfico (essendo striate longitudinalmente e corrugate trasversalmente), e man- cano di denticoli o di altra prominenza. Il loro colore è più pallido. Le achene del disco invece si distaccano al menomo urto, sono munite di pappo piumoso, a setole dilatate verso il basso; hanno un breve rostro fungente da stipite; sono più leggiere ed esili; hanno un colore testaceo vivo, e munite essendo di strie longitudinali e trasversali, non che di den- ticoli rivolti in su, mostrano di riunire caratteri di mimismo entomomorfico a quelli utili per farle penetrare nel terreno. Le calatidi quando sono mature, si espandono, in guisa che gli otto filli involucrali e le incumbenti achene ragadioloidi assumono una figura stellata. Il disco é ben presto spogliato dal vento di tutte le achene pap- pose, rimanendo per settimane e mesi affisse alla pianta le otto achene periferiche, con perfetta dimostrazione della legge di divisione del lavoro nella disseminazione, in parte locale, in parte longinqua. no E Seriola aetnensis L. Anche questa specie è interessante a studiarsi sotto l’ aspetto della ete- rocarpia; perché quando si guarda una calatide ultramatura già sono state ‘rapite dal vento le achene del disco, mentre le achene periferiche riman- «gono sulla pianta restando quasi completamente involute dalla rispettiva sottostante brattea. Queste achene meritano davvero il nome di ragadio- loidi, perché somigliano tanto nell’ abito a quelle del Rhagadiolus stellatus, che se si riguardasse a tale specie solo nel tempo della inoltrata maturità, ossia dell’ incipiente disseccamento, si direbbe a primo aspetto una specie particolare del genere Ahagadiolus. Le achene del disco sono prolungate in un lungo becco o stipite coronato ida un pappo composto di peli dilatati in basso, piumosi all’ apice. Le stesse sono di un color vivace castagno, trasversalmente intaccate con incisioni annulari e dentiformi sursum versis, in modo tale che ogni achena può bene esercitare il doppio ufficio di asta conficcatrice nel terreno e di imimismo entomomorfo. Le achene ragadioloidi sono un poco più grosse, d’ un colore ancora più vivo e più cupo, d’ apparenza d’ un bacherozzolo ossia vermicolare; hanno però un rostro molto più breve, e un pappo assai meno sviluppato e più caduco. Anche qui molte delle achene del disco rimangono sterili, mentre fertili sono quasi tutte quelle della periferia. Si dirà a che cosa servono i caratteri entomomorfi delle achene invo- lute ? Forse è un pleonasmo, ma é un pleonasmo che non guasta, perché essendo le achene ragadioloidi un poco scoperte alla base, dall’ apertura della convoluzione traspariscono i caratteri mimetici, con possibile ufficio protettivo. Zacyntha verrucosa Gaertn. Dimorfocarpa in modo insigne é questa specie. Le achene periferiche ragadioloidi (sempre fertili) sono circa otto, e da una squama crassissima, cimbiforme, dura, sono certamente fino a marcescenza custodite con am- plesso indissolubile. Le dieci o quindici achene del disco sono munite di pappo piumoso; di colore testacco, striate in lunghezza e trasversalmente, disvelano mimismo entomomorfo; si disarticolano con facilità e possono dal vento essere disseminate a distanza. In parecchie calatidi, fertili essendo le achene ragadioloidi, ho trovato sterili in blocco le achene anemofile. Indizio quasi certo che la loro fon- dazione deve essere esclusivamente staurogamica, confermandosi così la legge che vi é collegazione da una parte tra la omogamia e la dissemi- SR O mazione in loco, dall’ altra parte tra la disseminazione longinqua e la stau- rogamia. E anche in questa specie si conferma che i semi omogami sono più voluminosi degli staurogami. Cosi tale specie dimostra una singolare perfezione della divisione del lavoro disseminativo. Hedypnois polymorpha D. C. Le squame dell’ involucro più interne, all’ incireca nel numero di 13, ‘carinate all’ esterno, canalicolate all’ interno, nel canalicolo albergano un’ a- chena, la quale è collegata con esse perché vi ha un tratto basale di aderenza di tessuto che conviene frangere se si vuol separare l’ achena stessa. Le achene del disco più interne ossia le centrali, hanno un rostro al- «quanto assottigliato in stipite e terminato da un pappo di pochi peli, in basso dilatati e laminari. Le achene periferiche o ragadioloidi appena si può dire che siano ro- strate e sono coronate non da un pappo ma da una brevissima corona di laminette disposte in modo da formare una piccola coppa. Tra le achene periferiche e le centrali vi hanno due o tre ordini di -achene che somigliano quasi totalmente alle periferiche, salvoché non sono in relazione con brattee; hanno anche esse un pappo rudimentario in forma di coppa, e sono tanto tenacemente impiantate che sì esige un qualche sforzo per distaccarle, e conviene lacerare una parte del tessuto basale. Invece le achene centrali che abbiamo già detto essere munite di pappo, sì disarticolano facilmente e non vi ha nessun stracciamento di tessuto nel punto della loro disarticolazione. Salvo questo tutti gli achenii hanno caratteri non molto dissimili. D’ un vivo color castagno, subtetraedri longitudinalmente rigati con righe rive- stite da laminette acute rivolte in su, hanno così caratteri commisti di ‘protezione e di ipogeismo. Per tanto in questa specie, la quale in certo qual modo rannoda le sopracitate cicoriacee col genere Hyoseris, si é sviluppata una eterocarpia ancora più complicata; poiché le centrali achene sono destinate alla lon- ginqua disseminazione; le rimanenti alla disseminazione in /oco, colla dif- ferenza però che le periferiche sono vincolate doppiamente, e le intermedie un po’ meno, ma per disgiunger queste occorre sempre un notevole sforzo. Le achene intermedie e le ragadioloidi sono assai più grosse delle cen- trali; ma le abbiamo tutte con pari ragione e proporzione trovate fertili. “= egies Hyoseris radiata L. Anche in questa specie è accentuata la distinzione di achene perife- riche ragadioloidi, persistenti cioè e appoggiate alla relativa brattea, e di achene del disco libere e caduche. Le squame delle calatidi sono ineguali, ma le 10 o 12 più vigorose, benché poco concave dalla pagina interna, non ostante trattengono solida- mente un’achena, perché saldata con esse alla base per un certo tratto, in modo che richiedesi qualche sforzo per distaccarle ed è giuocoforza lacerare un tessuto di connessione. Le achene del disco sono munite di pappo laminaceo, e poiché que- st’ organo non darebbe per sé molta presa al vento, molte di esse sono marginalmente provviste d’ un’ espansione alata. Le achene della periferia hanno un pappo molto depauperato e non sono punto provviste di ale marginali. Quando le calatidi sono già da qualche tempo secche, le achene ragadioloidi veggonsi ancora solidamente affisse, mentre quelle del disco tutte quante sono state portate via dal vento. Spesso si osservano vacue le achene del disco, locché farebbe supporre anche in questa specie la scissione di achene omogame e staurogame. Tolpis barbata Willd. Anche questa specie è distintamente eterocarpica. Circa 12 a 14 delle numerose squame dell’ involucro calatidiano, benché non incavate, prestano appoggio ad altrettante achene destinate a disseminazione in loco. Le rimanenti del disco, uniformi, armate da un pappo di quattro lunghe areste (più atto però a conficcare che a volare) si disarticolano al menomo urto; sono brevi subcilindriche, rigate in lungo, striate in traverso, liscie, anzi lucide, nerastre (mimesi di piccoli coleotteri). Caratteri diversi dominano nelle achene periferiche. La forma press’ a poco e le dimensioni sono le stesse; ma 1° il colore tende al bruno; 2° nonché liscie sono rivestite da fitti e brevi peli bruno rossastri; 3° sono solida- mente impiantate e resistono ad urti di agenti esterni, a meno che non siano assai violenti. Picridium tingitanum Desf. Questa specie appalesa un lievissimo principio di differenziazione delle achene periferiche, adiacenti cioé o superincumbenti alle squame dell’ in- volucro. Queste achene, in confronto di quelle del disco sono alquanto più ce i grosse, più abbreviate, alquanto più infisse, col pappo meno aderente. In conseguenza di tali differenze, per quanto lievi, pure in qualche calatide ultramatura vien fatto di osservare già asportate via dal vento le achene del disco, e ancora quattro o cinque delle periferiche infisse con una certa resistenza all’ urto. Giova adunque a questa specie riconoscere un inizio, un primo passo verso la eterocarpia. Presso a poco si comporta egualmente il nostro Picridium vulgare. In questo genere tutte le achene hanno segna- latissimi caratteri di mimismo entomomorfo. Geropogon glabrum L. In che differisce il genere Geropogon dal Tragopogon? Le achene cir- conferenziali, quelle appoggiate (non involute però) alle brattee inferiori dell’ involucro, invece di sviluppare un cospicuo pappo piumoso, produ- cono cinque areste che male potrebbero servire per la disseminazione a distanza. Cosi in questa specie abbiamo la vera iniziazione biologica e morfo- logica della eterocarpia nelle cicoriacee. Può ammettersi che dalla forma Geropogon come capostipite siano derivati da una parte i generi 7'rago- pogon, Scorzonera, Lactuca, ecc., eminentemente omocarpe, e dall’ altra parte i generi ragadioloidi succitati, offerenti evoluto in grado minore o maggiore il fenomeno della eterocarpia intesa a provvedere alla doppia disseminazione, in loco e a distanza. È questo forse il miglior criterio per introdurre una razionale classifi- cazione delle cicoriacee. $ III. - Altre specie eterocarpiche. Zinnia elegans Iacq. Anche nella sottofamiglia delle Eliantacee verisimilmente non scarseg- giano casì di eterocarpia. Una delle specie più segnalate a questo riguardo é la Zinnia elegans, come per altro la potemmo osservare in piante col- tivate nei giardini, più o meno soggette ad alterazioni teratologiche. Nelle vistose calatidi di questa specie il talamo assai grosso e lunga- mente conico, con fillotassi del sistema principale ad epifanie assai ele- vate, produce una quantità di fiosculi; gli esterni, o circonferenziali, ligu- lati in quattro o cinque cicli in numero di venti e più; quelli del disco, a corolla tubulosa, in moltissimi cicli dal basso fino all’ apice del cono talamico. = dar La eterocarpia si complica colla produzione di ben tre sorta di achene.. A) Le achene circonferenziali procedenti da fiori ligulati; B) Le achene: più esterne procedenti da fiori tubulosi; C) Le achene restanti del disco,, naturalmente esse pure procedenti da fiori tubulosi. Queste tre sorta di achene sottostanno a una disseminazione necessa- riamente diversa. Tutte e tre peraltro non offrono sensibile differenza quanto al disarti-- colarsi dal talamo; infatti a maturità completa con lievissimo sforzo si staccano tutte egualmente. Le achene della forma A sono di figura tetragona, ma compressissime,. in modo da essere quasi alate. La corolla ligulata, contro il costume di consimili corolle in tutte le altre composte, non si disarticola; è persi stente, e, diventando secca, membranacea e piana, resta sempre attaccata alla propria achena. Evidentemente qui abbiamo una disposizione in alto- grado anemofila; e se c’ immaginiamo un vento impetuoso che colpisca siffatti achenii, ben possiamo prevederne il trasporto a grandi distanze,. tanto più che la corolla ligulata essendo impiantata alquanto obliquamente,. promuove sotto l’ impulso del vento, un moto vorticoso elevatore. Le achene della forma 58 hanno la corolla caduca; sono tozze e trian- golari; le disposizioni anemofile sono ridotte a minimi termini ed é chiaro che servono alla disseminazione in loco, poco discostandosi dalla pianta nella loro caduta. Seguono in gran numero le restanti achene della forma C. In queste pure la corolla è caduca. Sono piatti, di figura oblungo-obcordata, e sono cinti ai due margini di una breve ala. Anche queste cosi dimostrano di- sposizioni anemofile, ma meno pronunziate che nelle achene della forma A. Cosicché si può ammettere che la loro disseminazione sia intermedia tra la longinqua e la prossima. Vi sono altre differenze nel pericarpio; il quale nella forma A e B è scabro, nero e più grosso; nella forma C è liscio e delicato. Tale si appalesa la eterocarpia di Zinnia. Tutti i semi sogliono egual- mente abbonire, ma i circonferenziali sono alquanto più voluminosi. Sanvitalia procumbens Willd. Le achene prodotte dalle calatidi di questa eliantacea cadono in tre: forme A, B, C, ordinate dall’ esterno all’ interno. Le achene della forma A appartengono ai fiori ligulati circonferenziali che sono unisessuali femminei; mentre le forme 28, € si sviluppano da. flosculi ermafroditi; ma le achene B stanno alla periferia, le achene C° nel disco. pesto. ES Le achene della forma A sono tozze, triangolari, senza il menomo ac cenno d’ala, munite all’ apice da tre spine, due retrorse, una diretta da- vanti. La loro superficie è opaca, e non presentano nessun carattere che possa alludere a mimismo. Le achene della forma B sono quasi fusiformi ma un poco compresse,,. munite da uno o qualche volta da due rudimenti d’ ala. La loro caratteri— stica principale è che sui due dorsi, tra l’ una e l’altra ala, presentano: nella superficie una quantità di tubercoli pustuliformi bianchi o giallastri.. Le achene della forma €, che vincono in numero le altre, occupano: tutto il disco; e sono assai compresse e marginate da due ale. Poiché questa specie, indigena di paesi più caldi, attesa la brevità delle- stati nostre, non si sviluppa che imperfettamente, io non ho potuto intie-- rarmi soddisfacentemente della significazione vera di queste differenze. Sol- tanto per via d’induzione posso avventurare quanto segue. Le achene della forma A mancano d’ ogni carattere mimetico ed ane- mofilo ; quindi verisimilmente sono designate alla disseminazione in loco. Le achene della forma C hanno per contro esagerazione di caratteri anemofilici, e sotto questo riguardo ad esse sembra accollata principal- mente la disseminazione a distanza remota. Le achene della forma 25, più tozze e meno anemofile, di più provviste di tubercoli pustuliformi, verisimilmente esagerarono caratteri di mimismo entomomorfo, e forse sono designate ad operare una disseminazione a di- stanza intermedia. Heterotheca Cass. Le specie di questo genere secondo Cassini avrebbero « achenia radii: oblonga, leevia, apice calva (indiziati adunque alla disseminazione în loco), disci cuneiformia villosa, papposa (indiziati alla disseminazione a distanza) ».. Vedi HurH (l. c. pag. 25). Non avemmo opportunità di osservare queste piante. Eteropappee. CassIiNnI così ha denominato un gruppo di alcuni generi di asteroidee, caratterizzato dal produrre achene della circonferenza munite di un pappo diverso da quelle del disco. La Stenactis annua e i generi Heteropappus, Minuria ed altri apparterrebbero a questo gruppo. Vedi HurH (I. c. pag. 25). Non possiamo dire di più in proposito perché non avemmo occasione di esaminare nessuna di queste specie. Serie V. — Tomo IV. 6 — 42 — Brachyris dracunculoides D. C. Di questa specie è detto « Achenia radii fere calva, disci paleis 5-8 persistentibus donata » (Vedi HurH l. c. pag. 25). È verisimile che si tratti della solita differenziazione delle achene periferiche per la disseminazione in loco, e delle achene del disco per la disseminazione a distanza. Heterospermum Cav. Delle specie di questo genere è detto « achenia difformia; radii erostria ‘calva, disci rostrata biaristata, aristis retrorsum aculeatis ». Vedi HuTH (i.e. pag. 29). Verisimilmente le achene del disco sono eriofile e provvedono con ciò alla disseminazione a distanza, mentre quelle del raggio provvederanno alla disseminazione locale. Ximenesia encelioides Cav. A queste specie D. C. assegna i caratteri « achenia disci undique ala cincta, radii aptera rugosa ». Vedi HurH (l. c. pag. 25). Ciò faccenerebbe alla solita differenziazione. Buphtalmum spinosum L. Le calatidi di questa specie per quanto siano anzichenò piccole, pure producono una grande quantità di flosculi e di achenii, i quali abboni- scono con facilità; la produzione procede secondo la fillotassi spirale, e comprende sul talamo o ricettacolo un grande numero di circonvoluzioni. Ora gli achenii prodotti nelle circonvoluzioni periferiche sono ben di- versi da quelli prodotti nelle circonvoluzioni più interne (nella proporzione all’incirea da 1 a 3). Gli achenii che stanno verso la circonferenza sono lisci, compressi, piani, e di più marginati da un’ ala membranosa assai cospicua. Insomma posseggono tutti i caratteri più evidenti in relazione alla disseminazione anemofila. Di più trovandosi alla periferia, meno costretti dalle brattee o paleole talamiche si liberano con molto maggior facilità. Gli achenii invece situati nelle circonvoluzioni più interne (e sono in maggior numero) non sono punto compressi, ma in sezione si mostrano triangolari quasi semicilindrici, sono affatto sprovvisti d’ ali, d’ assai più piccola dimensione, muniti di peli rigidi in su rivolti (per favorire eviden- = gp temente l’ approssimazione e penetrazione loro fino al suolo, nell’ epoca della germinazione, al che si presta anche la loro aguzza te»minazione in basso). Basta questo per accertare che la disseminazione debba procedere in maniera assai diversa per l’ una e per l’ altra sorta di achenii. I circonfe- renziali, eminentemente anemofili, provvedono alla disseminazione a di- stanza, i centrali invece alla disseminazione locale. E con facile esperimento si può provare la veracità di queste conclu- sioni, perché disponendo sopra un foglio di carta alcuni achenii dell’ una. e dall’ altra sorta, ce moderandovi una insufflazione si vede che gli achenii circonferenziali si spargono tutto attorno, laddove i centrali o non si muo- vono punto oppure poco si scostano. Anche nelle altre specie di BupAh/almum si avrebbe il fenomeno della eterocarpia; ma non avemmo opportunità di osservarle. Calendula arvensis L. Il genere Calendula è eterocarpico al massimo grado e per questo titolo é degno di essere studiato con speciale attenzione. Un bello e approfondito studio della eterocarpia in questo e nell’ affine genere Dimorphoteca, e stato recentemente pubblicato da A. N. Lunpsrréòm (I. c. v. 2. Ueder verklei- dete Friichte ecc. pag. 73, 1887). Riferiamo qui le osservazioni nostre che, sebbene in data posteriore, furono fatte indipendentemente da quelle di LunpsTRòM. Le une e le altre osservazioni serviranno così di controllo reciproco, e, come quasi sempre in casì consimili, stabilito il parallelo, ne riuscirà una veduta più com- pleta, una più giusta appreziazione del fenomeno. Una calatide di Calendula arvensis mi presentò 31 achene che, partendo dalla circonferenza verso il centro, cadevano in quattro forme A, 5, C, D. Undici erano le achene della forma A, incurve, munite di larga e sot- tile ala convesso-concava, foggiate a barchetta provvista di chiglia, con un tramezzo sottile e duro dividente la barchetta in due compartimenti longitudinali. La chiglia poi era armata da una doppia fila di brevi protu- beranze coniche munite di peli alquanto uncinati e retrorsi. Considerando tutti i caratteri di queste achene esteriori, rendesi palese un triplice adattamento anemofilo, idrofilo, eriofilo. Ma dei tre adattamenti i due primi certo prevalgono. Accostate per la chiglia ad un panno, facil- mente vi aderiscono, ma poco solida e durevole è la loro presa. Gittate nell’ acqua si diportano come un piccolo battello, di forma tanto bene ideata da essere presso a poco insommergibili anche in acqua assai agi- tata. Esposte alla insuffiazione, opportunamente moderata, si spargono in- torno con grande prontezza. AME Nove erano le achene della forma B; più lunghe, più anguste, più in- «curve. Le ale e la figura cimbiforme scomparvero totalmente, e invece le ‘protuberanze coniche appiccicanti crebbero in numero, in dimensioni; inoltre più numerosi i peli uncinati e retrorsi. Avvicinando tali achene a un fiocco di lana o di cotone vi restavano aderenti con successo di durata e di affissione perfetta. In queste abbiamo dunque scomparsa quasi asso- luta dei caratteri idrofili ed anemofili, con grande esaltazione dei caratteri ‘eriofili. Facevano seguito a queste le achene deila forma Cin numero di sette. Assai diminuite nelle dimensieni, arcuatissime, munite di ala convesso- ‘concava, foggiate perciò a navicella, con chiglia armata di protuberanze appiccicanti, molto fitte sebbene poco lunghe, accennavano a risurrezione dei caratteri idrofili e anemofili, unitamente a conservazione di caratteri ‘eriofili. Differivano insomma da quelle della forma A per avere minori gradi di anemofilia ed idrofilia, e un grado d’ eriofilia alquanto maggiore. Da ultimo e nel centro vi erano 4 sole achene della forma D. Picco- lissime fra tutte, piegate ad anello, mancavano affatto di ala. Nell’ esterno :idella curvatura avevano bensi delle protuberanze assai fitte, ma brevi e ‘punto sviluppate in aste appiccicanti. Avevano dunque eliminati i caratteri anemofili, idrofili, eriofili; ma, per compenso, colla comparsa e collo svi- luppo di un nuovo carattere, cioè dell'apparenza vermiforme, dovuta a mimismo entomomorfo. La giusta interpretazione della complicata eterocarpia di questa specie pare a me che consista nel considerare affidato alle achene vermiformi, poiché veggonsi destituite d’ organi di locomozione, l’ ufficio della dissemi- nazione in loco, ed affidato promiscuamente al vento, all’ acqua, al vello degli animali la disseminazione longinqua. Altre calatidi mi dettero una proporzione alquanto [differente pelle 4 sorta di achene, e in talune mancavano le achene della forma eriofila, beninteso con proporzionale aumento nell’una e nell’ altra delle rimanenti forme. Non trovai perciò infirmate le conclusioni precedenti. Calendula officinalis L. Trovai le achene di quattro forme, non tenendo conto delle interme- diarie, (A, B, C, D). Tutte sono arcuate ma molto meno che nella specie precedente. Per ambe le specie poi le forme sono consimili. Le forme A e B si tengono promiscuamente alla circonferenza; inter- media nel ricettacolo è la posizione della forma C, intima la forma D. Forma A. Cimbiforme alata con carena inerme. La funzione si rileva perciò esclusivamente anemofila ed idrofila. : — 45 — Forma B. Lunga cilindroide, nella curvatura all’ esterno munita di peli appiccicanti. Questo accenna a funzione eriofila quasi esclusiva. Forma C. Cimbiforme, angustamente alata, con chiglia munita di pro- tuberanza alquanto eriofila. Forma D. Dimensioni minori, vermiforme, priva d’ale, munita di pro- tuberanze brevi e fitte, non appiccicanti. Funzione mimetica vermiforme. In altre calatidi trovai la proporzione seguente : Forma A N° 4 » B » 12 » C » 10 » D » 18 Oltre N° 2 forme intermedie fra C e D Totale N° 46 In altre calatidi (non poche) della stessa specie le achene corrispon- denti a quelle della forma A avevano la chiglia munita di appendici ap- piccicanti. Siccome poi tale specie nella coltivazione ha sviluppato una grande quantità di variazioni, cosi sì danno calatidi ove manca o sovrabbonda una delle tre forme A, 5, C, mentre la forma D, che non manca giammai, talvolta riempie quasi tutta una calatide. In conclusione questa specie e la precedente mostrano una eterocarpia tri-quadriforme senza divisione di lavoro quanto a disseminazione in loco e longinqua, determinata da quattro uffici — anemofilo, idrofilo, eriofilo, mimetico. — Confrontando queste nostre osservazioni e conclusioni con quelle pubblicate da LunpsTRÒM (I. c.), fra molte concordanze. si rilevano anche parecchie discrepanze che meritano discussione. In complesso LunpstRòM ammette soltanto tre forme, cioè achene ane- mofile (quelle che hanno figura cimbiforme), achene appiccicanti (Haken- Frichte), e achene larveformi ossia che somigliano a bacherozzoli di mi- crolepidotteri. In fondo la distinzione di LunprsrRòM combina colla nostra, perché è ‘evidente che tale autore ha fuso in una forma le achene A e C, le quali per verità possono essere riunite se si riguarda alla figura cimbiforme e alle funzioni, ma che possono essere separate se si riguarda alla loro di- versa posizione sul ricettacolo e alle diverse dimensioni. Una notevole discrepanza consiste nello avere LunpsTRÒM attribuito ‘caratteri esclusivamente anemofili alle achene che hanno figura cimbi- forme. Laddoveché io, appoggiato anche sovra conclusioni dedotte da molte altre piante eterocarpe, credo di meglio appormi al vero, attribuendo = U ad esse una perfetta promiscuità di anemofilia ed idrofilia, notando che so- vente tutto ciò che tende a diminuire il peso specifico dei semi o frutti rispetto al vento, agisce a meraviglia come galleggiante rispetto all’ acqua, quindi, se non sempre, moltissime volte sia peri frutti che per i semi, le funzioni anemofila ed idrofila sono consociate, con tanto maggior vantaggio. in quanto che si completano mirabilmente l’ una coll’ altra. Infatti dato un seme od un frutto di pianta nata in un pendio (monti, colli, piani inclinati) se sono anemofili e nello stesso tempo idrofili, pre- domina l’azione dell’ acqua nel disseminarli verso il basso, e predomina l’azione del vento per disseminarli verso l’alto e nei punti elevati, non accessibili all’ acque fluenti. Altra e maggiore discrepanza sta nella interpretazione del mimismo entomomorfo che LunpstRÒM ravvisa come un mezzo di disseminazione (ornitofila), a cui noi attribuiremmo piuttosto un significato protettivo. Ma di ciò discorreremo meglio in apposito paragrafo. Dimorphotheca. LUNDSTROÒM (l. c.) nelle specie di questo genere ravvisa soltanto due tipi di achene, cioé le anemofile e le entomomorfe. Queste ultime invece che a larve di microlepidotteri rassomiglierebbero a bachi di coleotteri segna- tamente di curculionidi. Stando alle figure da lui datene, sarebbero mira- bilmente somiglianti alle achene pur larveformi del genere Picridium. In questa specie a nostro avviso, é bene eseguita la solita divisione del lavoro, per la disseminazione in loco effettuata dalle achene larveformi, e per la disseminazione a distanza per le restanti achene idroanemofile. Ceratocapnos palestina Boiss. Questa specie é eterocarpica in guisa insigne, come convincesi dalle figure datene da Le MaAaouT e DE CAISNE (Zraité général de Bot., pag. 312). Ogni racemo produce inferiormente alcuni frutti nuculiformi, e supe- riormente alcuni frutti più allungati e capsuliformi. Il vero diportarsi del- l’una e dell’ altra maniera di frutti nell’ opera della disseminazione è an- cora da sapersi, poiché poco si può rilevare di positivo dalle contradditorie: descrizioni dei fitografi. Per es. BorssieR (in Diagn. plant. orient. novarum, VIII, pag. 12) dei frutti nuculiformi dice che sono troncati all’apice e ivi chiusi da un oper- colo brevissimo conico umbonato da ultimo disarticolantesi. Questi frutti sa- rebbero infine cito decidui. | E dei frutti superiori ossia capsuliformi Bossier (l. c.) dice che sono uno 0 due (ma le figure del Le MAouUT e DE CAISNE portano un numero maggiore), persistenti, indeiscenti, cinque volte più lunghi, contenenti un seme solitario nero nitidissimo. Da questa descrizione discordano poco o molto le altre date da BoIssiER stesso (Fora orient. I, pag. 132), dal DurIEu. autore del genere (Giorn. botan. ital.) e finalmente da BENTHAM ed HookER (Gen. plant. v. 1). Comunque sia, fino a più esatte indagini, sembrerebbe che i frutti su- periori, ossia capsuliformi indeiscenti persistenti, siano indiziati alla dis- seminazione in loco, ei frutti inferiori, ossia i pissidiiformi e caduchi siano indiziati alla disseminazione longinqua. È verisimile che l’altra specie del genere cioé la C. umbrosa, si di- porti egualmente. Desmodium heterocarpum D. C. Parecchie specie di Desmodium sembrano essere eterocarpe e segnata- mente la sopracitata, di cui abbiamo una buona figura data da BURMANN (Thesaurus Zeyl., tab. 53, fig. 1). I frutti sono ordinati in racemi semplici, i superiori, in numero di sette e più, sono lomenti, ciascuno di sette articoli monospermi. Evidente cosa é che questi si disseminano per disarticolazione e quindi é verosimile che provvedano alla disseminazione a distanza. I frutti inferiori, in numero di due o di tre per racemo, sono uniarticolati, ossia, più esattamente, sono nocciuole monosperme, e restando affisse alla pianta probabilmente prov- vederanno alla disseminazione in loco. Altro Desmodium eterocarpo, per analoga ragione e maniera sarebbe la specie pur edita da BUuRMANN (Il. c. tav. 51) sub MHedysarum trifolia- tum ecc. Tale pure é il Dicerma biarticulatum D. C. Infatti osservando la figura datane dal BuRMANN (I. c. tab. 50, fig. 2), è espresso chiaramente che al- cuni frutti sono lomenti biarticolati, ed altri non pochi invece sono nucu- liformi, monospermi. Un fenomeno analogo sarebbe presentato dal Desmodium Thunbergii D. C. a cui è assegnato per carattere lo avere legumi quando biarticolati «quando uniarticolati. Atriplex hortensis L. La maggior parte dei frutti di questa pianta sono achene incluse tra due larghi sepali, accostati l’ uno all’ altro e superiormente conglutinati ai margini, non visibili perciò all’ esterno a meno che non si allontani tale PESTARRI TE loro custodia. Cotali frutti sono brevemente pedicellati, ma il pedicello. non è ruttile, né disarticolantesi. Li chiameremo frutti involucrati. Gli altri frutti, assai pochi in confronto, sono costituiti da achene in- volute alla base, ma non ricoperte, da cinque piccolissimi sepali e sono sessili — Tali achene sono visibili all’ esterno. Li chiameremo frutti scoperti. Questa eterocarpia è adunque già molto appariscente, ma vi è una concatenazione di caratteri e di contingenze che la rendono in alto grado notevole. Oltreciò eterocarpi essi stessi sono i frutti involucrati. Perocchè la maggior parte di essi ha involucri ovali o suborbicolari, assai più grandi, forse del doppio e più. Ma havvi una differenza di ben maggiore impor- tanza. Le achene dei primi sono quasi del doppio più grandi, inoltre di color paglierino sordido e di figura lenticolare terminata da un ribordo circolare, per cui riescono diconcave ; le achene invece dei secondi sono più piccole, di colore nerissimo, e lenticolari. diconvesse. Quanto ai frutti nudi sono achene nude, nere, di figura lenticolare bi- convessa. Somiglierebbero non poco agli achenii neri dei frutti involucrati, se non fosse per una differenza notevolissima. Poiché i frutti involucrati tanto della prima che della seconda sorta, hanno achene compresse nel senso verticale; invece i frutti scoperti hanno achene compresse nel senso equatoriale ed orizzontale. Questa complicata triplice eterocarpia si rende più evidente col seguente: prospetto : involucri maggiori. Achenii più grandi, dì color paleaceo sordido, in figura di lente involucrati, con achene compresse ) biconcava. verticalmente. Brutti sea ae involucri minori. Achenii minori, di color i nerissimo, in figura di lente biconvessa. scoperti, con achene compresse { achenii piccoli, di color nerissimo, con. \ orizzontalmente. figura di lente biconvessa. Di cosifatta eterocarpia è difficile assegnare le cause e le funzioni. A primo aspetto si sarebbe disposti a credere che i frutti involucrati siano anemofili, e infatti sarebbero tali senza dubbio se con leggiero sforzo si disarticolassero, e allora il vento avrebbe buon giuoco nel disseminarli. Ma invece i pedicelli loro non sono né fragili, né articolati, e ci vuole non piccolo sforzo per strapparli dalla pianta (anche seccata, in /0co). Di più; per poco che sopravvengano pioggie gli involucri sono di natura. tale che cadono prontamente in un principio di marcescenza, per cui sî ce ‘Yogi agglutinano gli uni agli altri e sono sempre tanto più vincolati alla pianta. La conclusione è adunque che sono disseminati in foco malgrado il danno gravissimo che deriva dall’ essere questi frutti in gran numero addensati in ricche e ramose pannocchie. Certo che se possibilità vi ha per una più lata dispersione loro, questa deve incominciare quando la pianta è atter- rata e quando gli achenii sono resi liberi per mezzo della marcescenza degli involucri. Tale anemofilia degli involucri si può ritenere per una funzione oggidi defunta, ma forse non era cosi nei principii in cui si costituiva la specie. In tal caso però i pedicelli dovevano essere articolati o facilmente ruttili : carattere che oggi sarebbesi totalmente perduto. Quale possa essere la causa funzionale della differenza tra gli achenii involucrati di color nero e quelli di color giallastro sordido non abbiamo: potuto chiarire. Gli altri fruttini, cioè gli scoperti, sì diportano diversamente. Con leggerissimo urto si distaccano dalla pianta e cadono a terra. Questo staccamento può aver benissimo luogo quando il vento investendo le pannocchie secche da luogo a contatti e fregamenti. Tali acheni, essendo nudi e di color nero, disvelano una tal quale sorta di mimismo entomo- morfo e in ogni caso danno facilmente nell’occhio a uccelli e potrebbero essere da essi disseminati. Al postutto, benché interessante sia la complessa eterocarpia dell’ Atriplea hortensis (e forme affini, per es. A. fatarica, microsperma ecc.), le sue cause sono ben lungi dall’ essere chiarite, e meritano più approfondito studio. Macleya cordata. Prima di lasciare l'argomento della eterocarpia, vogliamo ancora di- scorrere di un singolare caso rilevato testè nella fruttificazione della suc- citata papaveracea, benché si tratti d’ una eterocarpia di specie, non già di una eterocarpia d’individui, come fin qui fu il caso. Abbiamo rilevato due forme d’ individui producenti una fruttificazione diversissima. Gli uni (e verisimilmente costituiscono il caso normale) pro- ducono siliquette (senza setto) deiscenti all’ apice, assai vistose, persistenti sulla pianta, bislungo-ovate, lunghe un centimetro e mezzo, con pedicello che non si disarticola facilmente. Producono da tre a sei semi arillati, nerissimi. L’ altra forma d’ individui produce un frutto tanto diverso, che quasi si direbbero appartenere ad un genere diverso non che ad una specie stessa. Ma questa conclusione non tarda a rilevarsi per affatto insosteni- i Serie V. — Tomo IV. 7 sr bile, dal momento che nessuna differenza appreziabile corre tra gli uni e gli altri negli organi di vegetazione (foglie, cauli, infiorescenze). I frutti di questi, sebbene rivelino un inizio di scostamento delle valve, pure rimangono indeiscenti; sono tre quarti almeno più piccoli, hanno figura orbiculare, contengono un solo seme non munito d’ arillo, e si di- sarticolano colla massima facilità. Sono in effetto samare. Niente di più diverso delle infiorescenze dall’ una e dall’ altra forma, osservate in pianta che va seccando. La forma tipica ha infiorescenze mas- siccie e cospicue, perché non perde le numerose silique che produce, anche quando deiscono per l’ apice e cominciano a perdere i semi. Nell’ altra forma invece le infiorescenze esinaniscono prontamente perché quasi tutti i suoi frutti si sono disarticolati. Di questa eterocarpia di specie o se vuolsi di razza non avrei tenuto conto, se non fosse che perde l’aspetto di una accidentalità e acquista quella di un regolarissimo adattamento anemofilo. Infatti nei citati frutti samaroidei abbiamo consociazione regolarissima di parecchi caratteri; cioè 1° dell’ indeiscenza, 2° del pericarpio alato, 3° della monospermia, 4° della ruttilità del peduncolo e della conseguente caducità dei frutti stessi. Occorrono altre osservazioni e in altri luoghi; ma se si conferma il qui detto, forse abbiamo un caso della nascita di una stirpe anemofila. $ IV. - Eterocarpia nelle piante ipogeocarpe. Le specie ipogeocarpe, vale a dire quelle che hanno la facolta di pro- durre frutti sotterranei, possono distinguersi in due categorie. Vale a dire che o sono specie le quali non producono altra maniera di frutti (per es. Arachis hypogaea), oppure sono specie che producono frutti maturanti sot- terra e frutti maturanti sopra terra. Queste ultime specie sono acconcia- mente nominate anficarpe. È palese che per le specie della prima sorta non puossi parlare di eterocarpia; dovecché le anficarpiche sono necessariamente più o meno eterocarpiche. i Riguardo a cosifatta eterocarpia causata senza dubbio dalla diversità dell’ ambiente in cui maturano i frutti, sono stati pubblicati ormai tanti studii e tante osservazioni, che poco o nulla di nuovo ci resta a dire in proposito; e pertanto noi qui ci limiteremo a fare una semplice rassegna delle piante stesse, valendoci dell’ assai completa enumerazione fattane da HurTH: (l...c.). sie Cardamine chenopodiifolia Pers. La eterocarpia è spinta al massimo segno; i frutti che maturano sot- terra sono nucule monosperme ovate, quelle che maturano in alto somi- gliano affatto i frutti caratteristici del genere (silique polisperme deiscenti, molto allungate). Di questa specie si ha una bella figura nell’ opera Die nattrlichen Pflanzen-Familien etc. di ENGLER e PRANTL III, 2, 1890. Polygala polygama Hook. È anficarpa; ma i frutti sotterranei poco differiscono dagli aerei. Re- stano sempre gli effetti della diversità dell’ ambiente. Pare che anche la P. paucifolia W. e la P. Nuttaliana Torr. et Gr.... siano nella stessa guisa anficarpiche (v. HuTH ], c.). Oxalis acetosella L. Fiorisce e fruttifica, secondo le osservazioni di MICHALET, sopra terra e sotto terra. Locché implica non solo anficarpia, ma diversità d’ origine, staurogamica pei semi sopra terra, e cleistogamica per i semi sotto terra. Trifolium polymorphum Poir. I nodi inferiori emettono fiori apetali pedicellati che si nascondono sot- terra e producono cleistogamicamente ciascuno una nucula monosperma. I fiori aerei invece formano un capolino e fruttificano come in generale le altre specie del genere stesso. Cosi qui si avvera la solita consocia- zione di staurogamia e disseminazione a distanza, omogamia e dissemi- nazione in loco (v. HuTH l. c.). Vicia angustifolia Roth. var. amphicarpa. Lothyrus sativus L. var. amphicarpus Con fenomeno analogo a quello della precedente specie si ha presso queste due papilionacee produzioni di fiori alcuni aerei, soggetti a stau- rogamia, altri sotterranei e necessariamente omogami (v. HuTH l. c.). Galactia canescens Benth. Secondo TorrREY e GRAY questa leguminosa sviluppa steli striscianti # quali dalla parte di sotto producono fiori e frutti sotterranei. I frutti aerei ca id — “sono legumi contenenti quattro o cinque semi, gli ipogei per contro danno un seme solo, ma questo é più grosso di quelli maturati nell’ aria. Linaria spuria Mill. Secondo MicHALET (Bull. de la Soc. botan. de France, VII, pag. 465) questa specie dalla regione ipocotilea o anche dagli internodii più bassi svilupperebbe ramificazioni ipogee fiorenti e fruttificanti. I frutti ipogei .sarebbero più grossi degli aerei (v. HurH Il. c.). Oltre a questi esempi d’anficarpia, se ne conoscono alcuni altri che noi non riferiremo perché ci sembrano meno chiariti. Qual’ è il significato funzionale della anficarpia? Varie opinioni sono state emesse al riguardo. La maggior parte degli autori opina peraltro che la geocarpia sia diretta principalmente alla protezione dei semi, i quali, stando sotterra sono meglio sottratti al pericolo di essere mangiati, e sono in caso di meglio resistere alla siccità e ad altri esterni agenti. Ma ciò non spiegherebbe se non che la metà del fenomeno. Infatti si domanda: perché tali piante emettono altresi fiori e frutti aerei? La interpretazione nostra é ben più lata e generale. Nelle piante anfi- carpe è accaduta una doppia divisione di lavoro. Se si riguarda la fiori- tura, esse producono fiori aerei destinati alla staurogamia, e fiori sotterranei destinati alla omogamia. Dal lato della fruttificazione poi producono semi aerei destinati a disseminazione longinqua e semi sotterranei destinati a disseminazione in loco. Ed è notevole che cosi vengono ad essere conso- ciati il fenomeno della staurogamia con quello della disseminazione lon- ginqua, e il fenomeno della omogamia (cleistogamia) con quello della dis- seminazione în loco. Sotto questo punto di vista il fenomeno dell’anficarpia corrisponde fun- zionalmente al fenomeno delle altre piante eterocarpiche di cui già par- lammo e delle piante eteromericarpiche di cui ora parleremo. S V.- Eteromericarpia nelle Crucifere. Cakile maritima L. È senz’ altro uno dei più belli e istruttivi esempi di eteromeriearpia. I frutti sono biarticolati: entrambi gli articoli sono nuculari e indeiscenti, monospermi. L’ articolo terminale alquanto più grosso e lungo ha figura tra ovoide e piramidale; l’articolo basale ha invece una figura obconica, ed è più breve e più piccolo. I semi contenuti nell’ uno e nell’ altro arti «colo sono presso a poco eguali; forse alquanto più grosso il basale. L’ articolo terminale, a maturità completa, si tocca e va in balia degli agenti esterni. L’ articolo basale invece, assicurato sopra un grosso e breve pedicello, è indisgiungibile dalla pianta. Ogni pianta ha copiosi racemi, ben forniti di frutti, ed é interessante il constatare come, allorquando è secca e radicata n /oco, ha perduto tutti gli articoli terminali, solo conservando rigidamente a sé collegati gli articoli basali. Cosi nella più chiara e spettabile guisa é provveduto alla longinqua e alla prossima disseminazione. E poiché questa pianta vive nelle aperte e piane spiaggie arenose del mare, da queste circostanze ripete tutti suoi i caratteri. Gli articoli terminali, leggieri e spugnosi come sono, arrotolati dal vento sono spinti in mare; galleggiano ottimamente e sono protetti dall’ infiltrazione dell’ acqua ma- rina, oltreché dall’ abbondante tessuto spugnoso, anche da un tessuto in- durato e legnoso. Il destino degli articoli basali è indissolubilmente legato alla sorte della pianta madre. E siccome questa non può muoversi di luogo neanche secca, poichè é profondamente radicata, i semi di detti articoli rimangono in loco, e non possono essere liberati se non che per il pro- cesso della marcescenza. In conclusione, qui si è resa di tutta evidenza la divisione del lavoro nell’opera disseminativa. La disseminazione in loco e la disseminazione a distanza sono eseguite ciascuna da uno dei due articoli d’ogni frutto. Ancora è degno di essere notato che i caratteri degli articoli terminali sono mirabilmente indiziati a due maniere di trasporto; invero quel tessuto soveroso leggerissimo che costituisce gran parte della loro massa, é evi- dentemente un ottimo adattamento al trasporto prima mediante il vento, poi mediante l’ acqua marina. Rapistrum rugosum. Il frutto di questa specie é costituito da due articoli, ciascuno avente un seme, diversissimi l’ uno dall’ altro L’ articolo terminale (apiculato dallo stilo) è una nocciuola indeiscente munita di protuberanze spugnose irre- golari. L'articolo basale, appena più grosso del pedicello su cui è insi- dente, è cilindrico, leggermente obconico, e non si può staccare se non se mediante sforzo e con lacerazione del tessuto. L’ articolo terminale, a maturità completa, con un leggiero sforzo si disarticola e casca, e cosi è messo in libertà e può provvedere alla disse- minaziona longinqua. L’ articolo basale invece è insidente sopra un pedicello indissolubilmente PI, PS collegato colla pianta, e dovrebbe provvedere alla disseminazione in loco. Devesi peraltro avvertire, che, come ho verificato in alcuni individui (forse costituenti una varietà diversa) gli articoli basali sono segnati da quattro linee di deiscenza a modo di silicula, e talvolta le valve saltano (verisimilmente non tutte) in guisa che anche il seme in essi contenuto può talvolta essere messo in libertà. In altri individui invece ho osservato negli articoli basali assoluto il carattere della indeiscenza, in guisa che cotali forme ripetono, con effetti necessariamente simili, Il’ eteromeria tanio spettabile della CaXile. Cotali articoli, anche all’ esterno, sì riconoscono facilmente, sia perché sono al- quanto tubercolati, sia perché le linee di deiscenza siano quasi affatto obliterate. | Altra e notevole concordanza colla Cakile sta nelle protuberanze spu- gnose dell’ articolo terminale, le quali evidentemente fungono da galleg- gianti in relazione alle acque piovane e fiuviali fiuenti, e diminuiscono di molto il peso specifico, in relazione al vento. Adunque anche in questa specie accadde rispetto alla disseminazione longinqua e în loco, una divi- sione di lavoro simile a quella che trovò luogo presso la Cakile. Crambe maritima ed altre cakilinee. Il genere Crambe appena differisce dal Rapistrum. I suoi frutti sono medesimamente biarticolati, ma soltanto 1’ articolo terminale, globuliforme porta seme, sterile rimanendo l’ articolo basale. A dunque in tal genere la eteromericarpia ha perduto il suo significato: cessata è la divisione di lavoro, e le due disseminazioni in loco e longinqua sono raccomandate alla pura eventualità. Hemicrambe fruticulosa Webb. Siliqua biarticolata, 1’ articolo inferiore. 1-2 spermo, il superiore rostrato con 3-4 semi. È ovvio arguire che la disseminazione avvenga in due guise; ma si desiderano osservazioni espli- cite al riguardo. È verisimile che 1’ articolo basale provveda alla disse- minazione in loco (1). Didesmus Desv. Irutto biarticolato ad articoli monospermi indeiscenti. Conta tre specie nella regione del Mediterraneo. É verosimile che per la disseminazione si ripetano i caratteri del genere Rapistrum. Otocarpus Dur. Eteromericarpo più del genere precedente, in quanto. che l’ articolo anteriore, monospermo, presenta due orecchiette, che danno presumibilmente luogo a una dissiminazione idroanemofila. Dell’ Africa settentrionale. (1) V. Ann. des Stene. nat., Bol. II, I, 16°, tab. 19. -- Guiraoa arvensis Cass. Della Spagna. Il frutto consiste in due articoli indeiscenti dispermi. L’ anteriore sferico con otto coste e prolungato in rostro accenna a disseminazione idroanemofila. Cordylocarpus muricatus Desî. Della Barberia. Non differisce dal Rapi- strum se non che per l’articolo inferiore che contiene due o tre semi. L’ articolo superiore monospermo muricato accenna a disseminazione fonginqua idroanemofila (V. Desf. Flora atl. i. 152). Ceratonemon rapistroides Coss. et Bal. Del Marocco. L’ articolo basale ‘del frutto è bicorne. La disseminazione certo avviene in due modi, ma si desiderano osservazioni esatte in proposito. Enarthrocarpus lyratus D. C. Ebbi occasione di studiare i caratteri di questa specie sopra individui ‘coltivati. L’ eteromeria dei suoi frutti é assai instruttiva. Le sue silique assai lunghe e polisperme (oligosperme) si scindono in due porzioni e articoli, terminale 1’ una, basale 1’ altra. A maturità com- pleta, il minimo sforzo (una scossa di vento, per esempio) basta a far di- sarticolare le porzioni terminali, cosicché da ultimo sulla pianta non re- stano che le porzioni basali, le quali peraltro sono tanto connesse con esse «che ne seguono il destino e sono soggetti alla marcescenza in loco. Le porzioni terminali invece sono libere e quindi in balia di agenti ‘esterni. i i Così è provvisto alla disseminazione in loco e alla disseminazione a distanza, in guisa molto vicina a quella realizzata nei generi CaXile, Ra- pistrum ecc. Ma ciò che costituisce una variante assai singolare, e che si direbbe poco razionale, anzi una imperfezione, si è che entrambe le porzioni, sia quella che si libera, sia quella che rimane a perpetuità attaccata alla pianta ‘contengono con apparente anomalia parecchi semi. Ho riscontrato 2 semi ‘o al sommo 3 nella porzione basale immobile, e da quattro a sei nella porzione terminale mobile. Entrambe le porzioni sono rigorosamente in- deiscenti, mancando affatto le solite righe di deiscenza delle silique. Ma la porzione libera tende ad avere un principio di lomentazione. Qual’ é il probabile agente di disseminazione della parie libera? Non vi ha sviluppo speciale di tessuto soveroso o spugnoso; malgrado ciò è da ritenersi anche in questo caso l’ acqua fluente e alternamente il vento quali agenti della disseminazione longinqua; infatti, come si può facil- mente verificare, tagliando longitudinalmente una porzione libera, tra un seme e l’altro vi é uno spazio vacuo, la somma dei quali costituisce ad. evidenza un apparecchio galleggiante e nello slesso tempo areonautico. ui e Reboudia erucarioides Coss. et Germ. Tale specie è nativa dell’ Algeria. Le sue silique sono lunghette e ter- minano in un breve rostro lanceolato-compresso. A maturità si pratica sotto il rostro una disarticolazione a cuneo (alquanto similmente alla Ca- kile), e col più leggiero sforzo il rostro si stacca e cade coll’ unico seme che contiene. Il cilindrico pezzo di siliqua che rimane è rigidamente per un duro e breve pedicello attaccato alla pianta e contiene da otto a dieci semi. Questo resto è solcato dalle linee di deiscenza particolari alle sili- que, e pare che infatti nella maggior parte da ultimo, se confricato con qualche corpo, deisca, saltando via le due valve e con esse i semi; ma presso parecchie altre la deiscenza può mancare e in tal caso i semi sa- rebbero liberati per un processo di marcescenza. Comunque sia é evidente la doppia maniera della disseminazione. Il seme contenuto nel rostro terminale, disarticolandosi, va in balia di agenti esterni che facilmente possono sopperire alla disseminazione a distanza;. i restanti semi, sia che per deiscenza della valva saltino tutto attorno alla pianta, sia che si Jiberino pel lento processo della marcescenza, eviden- temente provveggono alla disseminazione in loco. Quanto all’ articolo ter- minale, assai minuscolo, se si riguarda al tessuto spugnoso che in gran parte lo costituisce, e alla sua sommità compressa in forma d’ ala, evidente é che per i suoi caratteri s’ indirizza promiscuamente al vento e all’ acqua fluente; due agenti che certamente non possono aver presa sui semi at- taccati all’ articolo inferiore polispermo delle silique. Quanto poi ai semi non vi è differenza tra il terminale e i restanti. Erucaria Gaertn. Stando alle descrizioni ed alle figure date dai fitografi, le cinque o sei specie di questo genere ripeterebbero i caratteri di doppia disseminazione che osservammo presso la sopracitata Redoudia. È notevole che sono tut- te native del bacino del mediterraneo e che BENTHAM ed HooxER nei Gen. plant. v. I. riuniscono il genere ARevoudia al genere Erucaria, a nostro parere giustamente, laddove PrAaNTL (Natùrl. Pflanzen-Familien) allontana l’uno dall’ altro i due generi, interponendo tra essi ben due tribù, non sappiamo per qual motivo. & da = Sinapis alba L. È una specie senza verun dubbio da ascriversi alle eteromericarpe; poi-- ché la siliqua, maturando, si viene a dividere in due porzioni, in una por- zione terminale rostrata assai lunga compressissima e sottile, contenente; non più d’ una cavità e d’un seme, ed in una porzione inferiore, un pò meno lunga, non compressa torulosa contenente da quattro a sei semi, di- sposti in due cavità divise dal solito esilissimo falso setto. La porzione superiore è affatto indeiscente e samaroide; cosicché il seme in essa racchiuso rimane costantemente incluso nel pericarpio. La porzione inferiore invece è deiscente mediante le solite due valve che si disarticolano, e scattando lasciano cadere intorno i 4-6 semi che contengono, provvedendo cosi alla disseminazione in loco. La porzione superiore non è veramente articolata coll’ inferiore, rimane così attaccata alla pianta; ma una volta che siano scattate le due valve della porzione inferiore, il vincolo che la connette alla pianta è tanto de- bole e fragile da rompersi ad ogni piccolo urto, e liberarne il rostro coll’ in- cluso seme, mettendolo in balia di esterni agenti. E questi, ponderati i caratteri esterni di questo rostro, possono essere dapprima animali forniti di vello o piuma (con disseminazione eriofila); di poi il vento (con disseminazione anemofila). Gli adattamenti eriofili consistono.-in una rivestitura del rostro di peli brevi rigidissimi volti in su e tali che facilmente appiccano il rostro stesso, come si può agevolmente constatare per esperimento facendoli confricare con un panno. Staccati che siano dalla pianta cotali rostri, possono anche dal vento essere investiti e trasferiti, in vista della espansione alata di cui sono prov- visti. È cosi attuata la disseminazione a distanza. Valutando tutte le contingenze, si rivela in questa specie una grande affinità biologica coi fruttini di CaXkile, di Rapistrum e più ancora della Reboudia, colla principale differenza che qui manca l’ articolazione del rostro; mancanza assai razionale se il distacco deve essere provocato dal contatto del vello o della piuma d’un animale. Tali cose si osservano negli individui eteromericarpici di Sinapis alba; ma si danno altri individui e forse intiere razze coltivate ove cessa di fatto l’ eteromericarpia. In cotali individui il rostro non ha inspessimento; perde in parte i peli appiccicanti e diventa presso a poco inutile. Possiede ancora la cavità seminifera; ma non vi é prodotto nessun seme, e rimane sterile. Cosicché in questi la disseminazione è tutta raccomandata alla dis- siglienza delle valve della siliqua. In questa razza la disseminazione in loco è la predominante. Serie V. — Tomo IV. 8 Sinapis arvensis. Essa é eteromericarpa presso a poco come la precedente. Ma le sue silique sono più lunghe, di minor diametro, hanno un maggior numero di semi (di color nero, non giallo). Il rostro poco o punto compresso, a maturità completa si disarticola dalla porzione inferiore, mediante un tessuto apposito che manca nella precedente specie, e disarticolandosi spesso trascina con sé le due valve della sottostante porzione siliquale, con cui può aderire per qualche tempo. Laonde avviene ad un tempo e la liberazione del rostro che va in balia degli agenti esterni e la liberazione dei semi che stanno nella porzione inferiore e deiscente della siliqua. I semi sono all’ incirca da otto e dieci e più nella porzione deiscente, ed uno soltanto sta nel rostro. Essendo il rostro assai leggiero e di struttura alquanto spugnosa, tanto più se vi ade- risce una delle due valve, può dar presa al vento ed essere trascinato più o meno lontano anche dalle acque fiuenti. Va da sé che il rostro è affatto indeiscente. Si possono così valutare gli effetti delle due disseminazioni; i semi vestiti dei rostri avendo probabilità. molto maggiori di dispersione longinqua in confronto dei semi nudi dissiglienti delle porzioni deiscenti delle silique. Sinapis setigera. È una specie di Spagna, interessante perché nell’ apparecchio di disse- minazione si mostra intermedia tra le due precedenti. La siliqua pure (molto più lunga e attenuata e polisperma) qui si di- vide in due porzioni, cioé in un rostro non compresso che é un carcerulo contenente da uno a tre semi longitudinalmente disposti, e in una lunga porzione deiscente contenente in riga 20 e più semi. Il rostro non è qui punto articolato, e quando le valve della sottostante regione sono dissi- glienti e spargono intorno i semi, esso resta attaccato alla pianta, ma per la lunghezza e sottigliezza della cornice placentaria persistente i suoi vin- coli colla pianta sono tanto deboli che può essere da ogni piccola scossa ‘od urto messo in libertà, e allora o per l’ acque fluenti o per il vento i semi da lui contenuti possono essere disseminati a maggiore distanza dei semi della porzione inferiore. Stinapis Cheiranthus Koch. La siliqua di questa specie imita al tutto i caratteri della precedente, tanto che le due forme sembrerebbero riducibili ad una e medesima specie BESSATI-(0) RS se non fosse che il rostro di questa, anziché compresso, tende piuttosto alla forma cilindrica. Del resto la eteromericarpia e le conseguenti maniere: di disseminazione sono identiche. Hirschfeldia adpressa M6©nch. La sua eteromericarpia posta a confronto con quella delle precedenti specie di Sinapis offre parecchie interessanti diversità. La siliqua deve ri- tenersi per biarticolata, come bene avvertiva il BERTOLONI (F%. it. v. VII); infatti esiste un tessuto di disarticolazione tra l’ articolo terminale ed il basale, poniamo che la disarticolazione non avvenga che a maturità com- pleta. L’ articolo basale, più indiziato alla disseminazione in /oco, contiene pochi semi che cascano a terra per dissiglienza delle valve. L’articolo ter- minale ha una struttura assai interessante; ha una forma ogivale, ristretta alla base e terminante in punta. Nella parte ristretta contiene per lo più un seme (talvolta 2); e sopra esso seme il rostro si rigonfia in un globulo che si crederebbe una loggia seminifera, e invece, incidendola, si scorge, altro non essere che un tessuto bianchissimo spugnoso. È ovvia la signi- ficazione di tutti questi caratteri. Tale rostro è destinato a distaccarsi dalla pianta, e ad eseguire la disseminazione longinqua, sia per mezzo del- l’acqua fluente, sia per mezzo del vento, essendo provveduto d’ un abbon- dante tessuto che può essere utile sia come galleggiante, sia come dispo- sizione areonautica. È singolare la condizione vagabonda che é stata fatta dai diversi au- tori a questa specie. MoENcH ne fece un genere proprio e forse a ragione; Linneo la attribui al genere Sinapis (S. incana); altri al genere Erucastrum. Tutto ciò è passabile, ma alcuni moderni con aggiudicazione poco felice, la compresero nel genere Brassica. A noi pare che questa specie abbia stretti rapporti coi generi Enar{hrocarpus, Erucaria, Reboudia e simili. Ed è la considerazione biologica delle loro silique che ci ha messo su questa via. Eruca, Carrichtera, Vella. Questi tre generi e qualche altro, sono eteromericarpi, ad egual titolo del genere Sinapis, ma sotto l aspetto puramente morfologico, non biolo- gico. Possiedono bensi un rostro omologo a quello delle Stnapis; ma si tratta d’ un eteromericarpia frustranea, poiché siffatto rostro né si stacca dalla pianta, né contiene giammai semi. Interessa constatare che presso questi generi si è estinta la differenziazione relativa alla disseminazione longinqua; e illoro rostro non sarebbe che un mero segno di discendenza. Myagrum perfoliatum L. Questa specie veramente non può essere annoverata tra le eteromeri- carpe vere, perché le due cavità che si notano nella parte superiore delle sue nucule non sono altrimenti loggie ovariane, come erroneamente pa- recchi fitografi credono, ma semplicemente due vacuità d’ origine schi- zogena. Malgrado ciò parleremo volentieri de’ suoi fruttini, perchè presentano cospicui adattamenti che vengono a confermare le congetture da noi date intorno alla disseminazione idro-anemofila. Recidendo longitudinalmente le sue nucule, insidenti su breve e grosso pedicello da cui non si disarticolano giammai, sì ha una figura triangolare, la cui considerazione riesce molto istruttiva. Nel centro della figura scor- gesi una loggia ovariana (vera), in cui è ricoverato l’ unico seme di tal fruttino. In rispondenza d’ognuno dei due angoli superiori si osserva una falsa loggia, vacua (schizogena); e in rispondenza dell’ angolo inferiore sta il pedicello il quale è munito pure d’ una cospicua cavità schizogena. Co- sicché tale fruttino presenta quattro cavità; cioè una cavità centrale semi- nifera attorniata a uguali distanze da tre cavità vacue. D’ altro non fa bisogno per capire che qui si ha per ogni fruttino, un mirabile apparecchio idronautico ed aeronautico nello stesso tempo e con questa destinazione é in debita armonia il tessuto di disarticolazione, che é situato non già alla base della nucula, bensi alla base del pedicello. In- fatti su nucule ben mature agendo con lieve sforzo si ottiene la disarti- colazione del pedicello, non già quella della nucula. Ciò viene a confermare la congettura d’ una doppia disposizione disse- minativa idroanemofila pei frutti o pei semi di tante piante, affini e non affini (Rapistrum, Enarthrocarpus, Cakile, Calendula, Dimorphotheca, Com- melina, Pancratium maritimum ecc.). $ VI.- Sguardo generale sulla evoluzione della eteromericarpia nelle Crucifere. Nei fenomeni che abbiamo sopra esposto abbiamo un aureo criterio per una razionale classificazione di molte specie di Crucifere, le quali si sarebbero andate svolgendo nel tempo e nello spazio seguendo la evolu- zione della eteromericarpia. Nel difficile compito di proporre una classificazione naturale delle cru- cifere, fin qui il più felicemente riuscito fra tutti gli autori ci sembrerebbe PRANTL (in ENGLER e PRANTL, Nattrl. Pflanzenfamilien III, 2). Ora le specie, e di cui sopra abbiamo parlato, le ha distribuite in tre sottotribù, cioè Sinapee- Sisimbriine (Erwcaria, Cakile, Myagrum); Sinapee-Velline (Carrichtera, Vella); Sinapee-Brassicine (Erwca, Sinapis, Brassica, Raphanus, Erucastrum, He- micrambe, Enarthrocarpus, Guiraoa, Reboudia, Condylocarpus, Rapistrum, Crambe). Tale classificazione, benché la migliore fin qui prodotta, espone parecchi lati alla critica. Tutte le sovraindicate piante apparterrebbero ad un gruppo unico che poco si presta ad essere scisso. La unicità del gruppo é stata bensi intuita da PRANTL, che lo ha acconciamente intitolato dalle Sinapee, ma la scissione ternaria da lui proposta in Sisimbriine, in Velline, in Brassicine non ci sembra punto felice. Invero come si può discostare il genere Vella dal genere Eruca; il genere Cakile ed Erucaria, dai generi Reboudia, Rapistrum, Crambe, Hirschfeldia, Sinapis ecc.? Lo svolgimento della eteromericarpia imporrebbe la seguente ordina- zione. SINAPIS Cheiranthos | Sega, BRASSICA ERUCA DIPLOTAXIS VELLA Anarthrae RAPHANUS Isomericarpae CARRICHTERA | ip articulo ai sterili ensiformi / È | Arvensis d.i HIRSCHFELDIA ENARTHROCARPUS Heteromericarpae REBOUDIA ERUCARIA ( HEMICRAMBE GUIRAOA Diarthreae CONDYLOCARPUS RAPISTRUM | CRAMBE \ \ CAKILE Uno degli errori principali commessi da moderni fitografi è di aver amalgamato col genere Brassica alcune specie di Sinapis (arvensis ed altre). Le Brassicee e le Rafanee mancano affatto di rostro, mentre il ge- nere Sinapis non solo ha un carattere essenziale nell’ essere rostrato, ma «di più apre ed inizia nelle Crucifere una sequela non piccola di generi che cl ae sono rostri, con evoluzione progrediente dalle forme non articolate alle biarticolate, dalle forme ove l’ articolo inferiore deisce per valve dissi glienti a quelle ove l’ articolo inferiore è indeiscente; dalle forme ove gli articoli, superiore ed inferiore, sono rigorosamente monospermi (per esem- pio il genere CaXile); le quali segnano non solo il più alio grado in siffatta evoluzione, ma eziandio la massima perfezione nella divisione del lavoro disseminativo, provvedendo col seme basilare alla disseminazione in /oco, e col terminale alla disseminazione longinqua. Adunque le Brassicee, le Rafanee, le Cakilinee, considerate da diversi fitografi come altrettante tribù distinte, infine non formerebbero che un unico gruppo naturale il cui capostipite dovrebbe essere o il genere Bras- sica o il genere Sinapis. A quale dei due daremo la preferenza? Se stia- mo alle apparenze, poiché l’ attuazione di un rostro sembra una formazio- ne postuma, sì può ritenere capostipite il genere Brassica. Ma se penetriamo più profondamente nelle ricerche filogenetiche, e se investighiamo intimamente le ragioni morfologiche del rostro delle Sinapee, troveremo che il genere Sinapis ha nel rostro un carattere antichissimo, per il che non solo può essere considerato come la forma prototipica delle Brassicee, ma eziandio come la forma archetipa delle crucifere. La deiscenza tanto caratteristica delle silique (mediante un tessuto di disarticolazione che a ferro di cavallo incide il dorso dei carpidii) non é un fenomeno ristretto alla famiglia delle Crucifere; esso è carattere che si ritrova pure nella Capparidee e nelle Papaveracee. La prima manifestazione di questo fenomeno risale a una famiglia più antica, cioé alle Berberidee; per esempio al genere Epimedium e meglio ancora al genere Zeffersonia. Ora la incisione del dorso carpidiale in que- sto ultimo genere, intacca non la sommita del carpidio ma la sua meta; e se il genere Zeffersonia avesse un pistillo bicarpidiale (anziché monocar- pidiale), cosiffatta incisione, praticata nell’ uno e nell’altro carpidio, ver- rebbe a differenziare nel pistillo una porzione superiore affatto omologa al rostro delle Sinapee. Quindi il genere .Sinapis, secondo noi, vanta un carattere di grande. antichità, ed é stata una felice intuizione quella di PRANTL (l. c.) di avere costituito le Sinapee a capo di un grande numero di Crucifere. $ VII. - Eteromericarpia nelle Ombrellifere. Il genere Torylis nella flora nostrana é rappresentato, fin quanto giun- gono i miei studii, da quattro specie ottimamente caratterizzate da differenza nella maniera come eseguesi la disseminazione. I diachenii di Torglis Bo anthriscus soddisfano assai bene alla disseminazione eriofila, ma quelli di T. helvetica (o infesta) rafforzano l’ effetto delle emergenze appiccicanti; perché le medesime, invece che da una punta semplice, sono all’ apice terminate da un glochide, per cui meglio aderiscono. Ma tanto nella prima quanto nella seconda specie nei due mericarpi d’ ogni fruttino non si ri- leva differenza; tutti e due sono egualmente armati e forniti di asticciuole appiccicanti. In guisa che non é intervenuta nessuna differenziazione ri- spetto al doppio scopo della disseminazione in loco e della disseminazione a distanza. Possono avvenire benissimo 1’ una e l’altra disseminazione; ma tutto è lasciato alla mera eventualità e non vi é nessuna predisposi- sizione per una differenza assicurata. Non cosi per altre due specie dello stesso genere, cioè per la Torgliîs ‘heterophylla Gussone e per la 7°. nodosa Gm. La prima specie ci presenta il fenomeno della eteromericarpia; la se- conda è nel tempo stesso eteromericarpa ed eterocarpa. Quando i diachenii di 7°. heterophylla sono perfettamente maturi e secchi, allora i mericarpii si discostano 1’ uno dall’altro, e pendono come al solito da una columella (brevemente) bifida. Ma il destino dell’ uno e dell’ altro meri- carpio non può essere uguale; giacché l’ esterno è tutto ricoperto di emer- genze lunghe, denticolate nel fusto e glochidiate all’ apice; l’ interno in- vece non ha che una superficie asperata da emergenze brevissime punto appiccicanti. Dato che una pecora, un uccello, una lepre e simili animali si accostino alla pianta, i mericarpii glochidiati aderiscono ai peli o alle piume e servono alla disseminazione longinqua; gli altri necessariamente, ricevuta la scossa, cadono a terra e servono alla disseminazione in loco. La 7. nodosa offre complicazione maggiore. Le ombrelle e le ombrel- lette per mancato sviluppo delle distanze internodali vengono mutate in sessili glomeruli di fruttini, in numero circa di dieci a venti per glomerulo. Ora si nota un fenomeno singolare. I mericarpii esterni dei diachenii si- tuati alla periferia del glomerulo in numero di otto all’ incirca, sono rive- stiti da aste denticolate e glochidiate, ossia sono pronti per l’appiccicamento ; laddove i mericarpi interni dei medesimi hanno emergenze brevissime non appiccicanti. Fin qui la specie sarebbe eteromericarpa; ma .i diachenii che si tro- vano nella regione discoidea o centrale d’ ogni glomerulo, in numero di dieci o più hanno i mericarpii uguali, privi per altro d’ ogni organo ap- piccicaticcio. Cosi questa istruttiva forma, eteromericarpica per rispetto ai diachenii esterni, é di più eterocarpica per rispetto ai diachenii interni messi a paragone cogli esterni. Ma nei citati diachenii esteriori d’ ogni glomerulo, succede un fenomeno «singolare. I mericarpii volti all’ interno e mancanti d’ organi d’ affissione, ale non si disarticolano giammai; laddove i mericarpii volti all’ esterno e glo- chidiati, suscettibili perciò di venire in contatto con vello o con piuma’ d’ animali, si disarticolano con tutta facilità e provvedono alla dissemina- zione longinqua; al qual proposito abbiamo una razionalissima combina- zione di tre contingenze, 1° esposizione esterna di siffatti mericapii, 2° su- perficie vestita di glochidi, 3° presenza opportuna d’un tessuto di disar- ticolazione. Turgenia. Affine al genere T'orylis è il genere Turgenia, in alcune delle cui specie verisimilmente si è concretato un fenomeno analogo. Alludo alla 7. hete- rocarpa D. C., pianta di Persia. Non avendo potuto studiarla né sopra vivi, né sopra secchi esemplari, ci contentiamo di estrarre da DE CANDOLLE, Prodr. ecc. « mericarpii dissimili, gli esterni muniti di aculei, gli interni inermi ». È facile che i primi coll’ urto si disarticolino, mentre gli altri resteranno affissi alla pianta. Infine HiLDEBRAND (l. c. pag. 116) cita la Dimetopia pusilla, con dia- chenii eteromericarpici, 1’ un mericarpio fornito di emergenze appiccicanti, adattato perciò alla disseminazione eriofila, e |’ altro dilatato in ala con adattazione anemofila. $ VIII. - Altre piante eteromericarpe. Commelinae species. HILDEBRAND (l. c. pag. 116) scrive quel che segue : « Degni di particolar menzione sono i frutti di parecchie specie di Commetlina, p. es. la C. coe- lestis. In queste la capsula deisce in guisa tale che due delle sue loggie lasciano in libertà i piccoli semi loro, mentre il terzo seme resta incluso sempre nella sua loggia, alla quale aderendo ad entrambi i lati una por- zione delle altre loggie, viene a formarsi una sorta di ala che è un’ ac- concia disposizione per la disseminazione mediante il vento ». Ho anch’ io studiato parecchie specie di Commedlina coltivate nell’ Orto botanico di Bologna, ho confermato ed in parte completato le cose dette. nel breve cenno di HILDEBRAND. Delle tre loggie del frutto due deiscono con deiscenza loculicida libe- rando i loro due semi. Mezza loggia da una parte, mezza loggia dall’ altra. rimangono aderenti alla terza loggia, che é indeiscente e racchiude un unico e più grosso seme. Cosi abbiamo per ogni frutto tre semi, uno vestito ed alato, adatto alla. PESI ES disseminazione anemofila, due liberi e nudi, sprovvisti d’ ogni disposizione favorevole al trasporto sia mediante il vento, sia mediante l’ acqua, sia me- diante animali. Invero questi due semi sono relativamente pesanti; messi nell’ acqua vanno immediatamente a fondo, e sono destituiti d’ ogni emer- genza appiccicante. Adunque è logica la induzione che questi semi provvedono alla disse- minazione in loco. Cosi nel genere Commelina ha avuto perfetta esecuzione la solita divi- sione del lavoro disseminativo, mediante una eferomericarpia affatto sui generis. Oltreciò detti semi nudi sono notevoli pei loro caratteri esterni. Essi offrono un mirabile caso di mimismo pure sui generis. Per la loro figura irregolare, per la loro superficie opaca, bruna, irre- golarmente punteggiata imitano sorprendentemente dei sassolini nerastri, in modo da rendere plausibile la congettura che per siffatta apparenza sfuggano facilmente all’ acutissima vista degli uccelli granivori. Valerianellae species. Il genere Valerianella è eteromericarpo, in quanto che delle tre loggie ovariane una sola é seminifera (monosperma), le altre due rimanendo ste- rili e rigonfiandosi in due cavità più o meno ampie, disegnate a fornire disposizioni nello stesso tempo idronautiche ed aeronautiche. Sono più notevoli a questo riguardo la V. olitoria, V. auricula, V. pumila, V. ve- sicaria e V. carinata. Nel caso di questo genere la eteromeria é designata a una sola sorta di disseminazione, cioé alla longinqua. Antirrhini species. La loggia superiore dell’ ovario è conformata alquanto diversamente dalla inferiore; di più mentre questa ultima deisce per due pori la prima deisce con un’ apertura sola, ma per compenso più grande. A quanto ho rilevato siffatta eteromeria non ha nessun significato, al- meno per ciò che riguarda la disseminazione, che trovai affatto eguale per i semi racchiusi nell’ uno e nell’ altra loggia. E per esaurire completamente l’ argomento della eteromericarpia si possono citare molte piante a ovario policarpidiale (Quercus, Tilia ecc), ove si sviluppa una loggia seminifera soltanto. Ma questi casi non hanno nessuna diretta relazione colla disseminazione o in loco 0 longinqua. Serie V. — Tomo IV. i 9 eg $ IX. - Mimismo di frutti e semi. Presso un numero grandissimo di piante i frutti monospermi e i semi hanno caratteri esterni di figura, colorazione, superficie tanto divergenti dai soliti caratteri esterni degli altri organi dei vegetali che non si puo a meno di restarne impressionati e di pensare che tutto ciò deve avere un profondo significato. Eppure intorno a questo studio biologico che riuscirebbe vastissimo e importantissimo, non abbiamo fin qui che brevi, e poco concludenti cenni dati da pochissimi autori. Limitandoci per ora a sfiorare appena questo soggetto, esterneremo la nostra opinione che nella maggior parte dei casi detti caratteri siano fe- nomeni di mimismo. Presso numerose specie di piante, i frutti (Polygonum, Atriplex ecc.),i semi (Amarantacee, Chenopodiacee ecc.) hanno apparenza di corpuscoli bruni, levigati, nitidi e lucidi. Presso altre piante (Cariofillee, Scrofulariacee, Hyoscyamus, Argemone ecc.) piccoli semi a superficie areolata hanno ca- ratteri esterni curiosamente conformi. Gia accennammo che i semi di più specie di Commelina con mirabile esattezza imitano 1’ apparenza di bruni sassolini. L’ Amsonia latifolia e V A. angustifolia hanno semi che imitano assai strettamente pezzetti di legno. I semi di ARicinus imitano la figura d’un coleottero, di cui 1’ otturatore rappresenterebbe la testa. Più deciso poi é il mimismo dei frutti e semi che imitano piccoli co- leotteri e piccoli bachi. Segnalati esempi di questo mimismo con bachi di insetti sono alcune tra le achene di Ca/lendula e Dimorphotheca giusto i riferiti studi di Luxp- STRÒM (l. c.). Le achene di Picridium riferiscono sorprendentemente la me- desima sorta di bachi imitati dalla Dimorphotheca; e molte Cicoriacee, come a suo luogo riferimmo, hanno bellissimi e’ varî caratteri di mimismo entomomorfo. I mericarpii d’ alcune specie di Lavafera hanno stupenda rassomiglianza con piccole larve di insetti, mentre in altre malvacee analogo uffizio mi- metico è esercitato dai loro semi. Questi ed altri molti esempi che tralasciamo, per essere brevi, mostrano quanto siano generalizzati presso le piante superiori i fenomeni di mi- mismo dei frutti (monospermi) e dei semi. Ma ora trattasi d’ investigare le cause di tale fenomeno; in altre parole di rappresentarci l’ ufficio, il significato funzionale di questo mimismo. CORRE L’argomento, per quanto sappiamo, non è stato fin qui toccato che dal solo LunpstrRòM (Pfianzenbiologische Studien, II, pag. 74-76, 1887) e da GIOVANNI ETTORE MATTEI (Disseminazione delle piante, Siena, 1888, pag. 13-14). LunpsTRòM si restringe agli achenii entomomorfi di Calendula e Dimor- photheca, e crede di dare ragione del mimismo da essi spiegato, con am- mettere che siffatti fruttini siano indiziati ad essere ingoiati da uccelli in- settivori, i quali, ingannati dalla loro apparenza vermiforme li ingerireb- bero nello stomaco, e, non potendoli digerire, li evacuerebbero in stato d’ incolumità, e ne promuoverebbero cosi la disseminazione a distanza. Subalternamente profferisce altresi la congettura che formiche ed altri in- setti, scambiandoli con larve, giovino a trasportarli e a disseminarli. Contro queste congetture di LuNpDsTRÒOM sì possono accampare obbie- zioni a nostro parere validissime. Ammettiamo pure che un uccello divoratore di bruchi, s’ imbatta per la prima volta in qualcuno di questi achenii o semi entomomorfi, e che, ingannato dall’ apparenza, dia di becco ad uno di essi. Egli é certo che ipso facto si accorgerà dell’ errore, perocché all’ apparenza non rispondono punto altri e più essenziali caratteri, per esempio il carattere della mol- lezza che é propria del corpo di bruchi. Quanto a me non dubito che |’ uccello insettivoro, appena avvertita la durezza legnosa di quelli achenii, tanto diversa dalla solita mollezza dei bruchi, li rigetterà senz’ altro. Presso a poco lo stesso argomento vale per le formiche. Inoltre, contro LuNpSTRÒM, osserviamo che nella massima parte dei casi, come é notissimo per gli esempi che se ne hanno nel regno animale, il mimismo ha semplicemente un’ azione protettiva. Accenniamo alle mi- rabili. foglie viventi (Ortotteri, Lepidotteri), (1) a un caso segnalato del prof. CARLO EMERY di un gorgoglione, che ha il corpo vestito di una meravi- gliosa livrea licheniforme, alla Volucella bombylans, la cui livrea imita il vestito del Bombus lapidarius, nei cui nidi essa vive parassitica, la Milesia crabroniformis che, massimamente quando vola, non è guari possibile di- stinguere dal calabrone (2), ecc. ecc. (1) ll primo che ne ha parlato, salvo errore, è AnToNIO PiGAFETTA (nel suo Viaggio intorno al mondo), il quale giunto in una isola presso Borneo, con singolare ingenuità ci riferisce quanto segue: « Ancora in quel luogo trovarono un arbore che aveva le foglie, le quali come cadevano a terra, camminavano come se fossero state vive. Queste foglie sono molto simili a quelle del moro; haano da una parte e dall’ altra come due piedi, corti e appuntati, e schizzandoli non si vede sangue; come si tocca una di dette foglie, subito si muove e fugge. ANTONIO PIGAFETTA ne tenne una in una scodella per otto giorni, e quando la toccava andava attorno attorno la scodella e pensava che ella non vivesse d’altro che di aere ». (2) Ho tante volte presenziato la grande utilità che ne viene a questo innocente insetto dal rassomigliare il calabrone. Il calabrone è il suo pessimo nemico, gli fa una caccia spietata, ma que- sta necessariamente viene ad essere molto contrariata dal fatto che spessissimo un calabrone, Laonde riteniamo molto più plausibile la congettura esternata dal MATTEI (l. c.) che il mimismo nei semi abbia per iscopo la protezione dei semi stessi contro gli uccelli granivori, ingannandoli con false apparenze di sassolini od animalcoli. — Adunque agli uccelli granivori e non agli insettivori sarebbero coordinati i sovradetti fenomeni di mimismo. $ X. - Conclusioni. Le cause della eterocarpia e dell’ eteromericarpia possono essere diverse. Talvolta sono la espressione di un duplice adattamento a due diversi agenti di traslazione dei semi. Ma questo è un caso più raro. Il caso di gran lunga più frequente, il caso generale si è che detta diversità è in relazione a due modalità di disseminazione; cioè alla dis- seminazione in loco e alla disseminazione a distanza. Allora é la espres- sione della divisione di lavoro, poiché le due disseminazioni non sono più abbandonate a mera eventualità, come presso le specie isocarpiche e iso- mericarpiche, ma ciascuna delle due é assegnata a propria forma di frutto o di porzione di frutto. La eterocarpia ed eteromericarpia si svolgono esclusivamente sopra piante erbacee, quasi sempre anzi sopra specie annuali. La disseminazione a distanza é talvolta eriofila, più spesso anemofila, più spesso ancora idroanemofila. La disseminazione in loco è eseguita o per cascata di semi denudati, o previo un processo di marcescenza pei semi indissolubilmente vincolati alla pianta madre mediante un tessuto che non produce disarticolazione. Quando è perfettamente scolpita la suaccenata legge della divisione del lavoro, sono quasi sempre consociati i caratteri della omogamia e della disseminazione in /oco, nonché i caratteri della staurogamia e della disseminazione a distanza. Questa consociazione è altamente razionale ed istruttiva: 1’ omogamia infatti è ottima per conservare i caratteri di adattamento a/ luogo stesso, mentre la staurogamia é ottima per predisporre possibilità di caratteri di- versi adatti a luoghi diversi. La evoluzione della eterocarpia nelle Cicoriacee e quella della etero- mericarpia nelle Crucifere forniscono un ottimo criterio di classificazione delle piante stesse. credendo d’ acciuffare una Mz/esza, acciuffa un altro calabrone con grave sua contrarietà e peri- colo: queste cose notai non solo in parecchie località della Liguria, ma eziandio in Toscana pres- so Firenze. SIERO ANTIRABICO AD ALTO POTERE [MMUNLZIANTE APPLICABILE ALL'UOMO MEMORIA DEI Prof. G. TIZZONI e Dott. E. CENTANNI (Letta nella Sessione del 10 Dicembre 1893). Con una serie di ricerche già da lungo tempo iniziate in questo Labo- ratorio, noi ci siamo proposti di risolvere i problemi fondamentali che si riferiscono alla sieroterapia nella rabbia. Dopo i primi risultati molto favorevoli ottenuti nel campo sperimentale, che dimostravano la possibilità, col siero di sangue di animali vaccinati, di prevenire la rabbia e anche di curarla dopo sviluppata, noi volendo pas- sare all’ applicazione dei nostri studi sopra l’ uomo, abbiamo sentito il bi- sogno di risolvere prima i seguenti quesiti : 1°. Se i risultati sperimentali da noi ottenuti sopra il coniglio, po- tessero estendersi anche ad altre classi di animali, sopra tutto ad animali di grossa taglia, che ci permettessero di avere quantità sufficienti di prin- cipio immunizzante. 2°. Se fosse possibile innalzare l’ immunità di questi animali a gradi molto elevati, in modo da ricavare da essi un siero di attività corrispon- dente «ai bisogni della pratica. 3°. Tracciare la curva completa rappresentante la ricchezza del prin- cipio immunizzante nel sangue dell’ animale vaccinato, a seconda del tempo trascorso e della dose di vaccino impiegata, per determinare il momento più opportuno per la presa del sangue. Noi abbiamo scelto come animali di esperimento le pecore ed i cani, ed ogni animale ha ricevuto 10 iniezioni in giorni alternati di gr. 0,33 di virus fisso per ogni kg. di peso corporeo, progressivamente meno digerito secondo il metodo italiano. Il siero di sangue ricavato da questi animali a varia distanza dopo la vaccinazione, veniva saggiato secondo il metodo proposto dal Behring pel tetano, iniettandolo cioè a dose variabile ad una serie di conigli, cui si praticava dopo 24 ore l’ infezione sotto la dura madre con virus di cane, che uccideva i controlli in 17-19 giorni. Per assicurarsi dell’ esito dell’ esperimento, questi animali sono stati tenuti in osservazione un tempo non inferiore a 6 mesi, sino a quando cioé, per quel che noi abbiamo potuto osservare, può considerarsi com- pletamente allontanato il pericolo dello sviluppo di una rabbia tardiva. I risultati di questa nuova serie di ricerche saranno più minutamente esposti in altro lavoro: intanto in ordine ai quesiti di sopra enumerati, possiamo fin d’ ora dire quanto appresso. I fatti sperimentali per la preparazione del siero antirabico osservati sopra il coniglio, hanno avuto la loro piena conferma applicati sopra i grossi animali da noi adoperati. Abbiamo anzi potuto notare che questi animali offrono condizioni più favorevoli del coniglio, riuscendosi in essi, con dosi proporzionatamente inferiori di vaccino, a raggiungere nel siero un potere più elevato. Di più é risultato anche che il siero antirabico proveniente da due animali di diversa specie del coniglio, quali la pecora ed il cane, ha il potere di agire sopra l’ infezione rabida di questo animale, non altrimenti che il siero tratto da animali della stessa specie. E infine, tenendo conto del tempo per cui gli animali furono lasciati in esperimento, possiamo affermare che il siero di sangue di animali vac- cinati, quando sia iniettato a dose sufficiente, è capace di spiegare, anche sopra infezioni a periodo d’ incubazione cosi lungo come la rabbia, degli effetti durevoli e sicuri. Per riguardo al secondo quesito, dobbiamo dichiarare fin da ora che è possibile d’ innalzare il potere immunizzante del siero degli animali vac- cinati contro la rabbia, ad un grado tale che lo renda atto ad essere ap- plicato sopra l’ uomo. Il titolo massimo, infatti, sinora raggiunto nei nostri animali, sta fra 1:25 mila e 1:50 mila, determinando questo grado sem- pre colla quantità di siero che é capace d’ impedire in modo durevole nel coniglio trapanato lo sviluppo di qualsiasi manifestazione morbosa. In altre parole, considerando semplicemente il siero ad 1:25 mila, que- sto titolo significa che per salvare dall’ infezione sottodurale di virus di cane un coniglio del peso di 2 kg. bastano non più di cme. 0,08 di siero iniettato in una sola volta sotto la cute. Per }’ uomo poi del peso medio di 70 kg. la dose immunizzante non supera cme. 2,80 ; e riducendo il siero allo stato solido, di cui abbiamo dimostrato la perfetta conservabilità, si ha una polvere del titolo di 1:300 mila almeno, di cui dovranno bastare per l’uomo gr. 0,23, solubili in cinque volte il proprio peso di acqua. Né v’ha ragione per ritenere che questi risultati e questi calcoli non possano applicarsi all’ uomo, ché anzi nell’ uomo, meno recettivo del coni- glio alla rabbia, e dove non si tratta di infezione cerebrale diretta, le con- dizioni d’immunizzazione debbono essere più favorevoli che nel coniglio, come ha dimostrato anche la pratica del metodo Pasteur. Quanto alla curva poi del potere immunizzante del sangue, noi ab- biamo potuto verificare anche nella rabbia la legge generale che tal potere é in istretto rapporto con la quantità di vaccino introdotto, e va crescendo per qualche tempo dopo la vaccinazione, per poi regredire lentamente. Cosi al 5° giorno dopo finita la vaccinazione, la pecora ha un potere fra 1: mille e 1:5 mila; il cane invece, forse in rapporto alla maggiore reazione locale che rallenta il riassorbimento del vaccino, ha un titolo un po’ inferiore, essendo il coniglio trattato con la stessa dose morto con forte ritardo dopo 4 mesi. Al 10° giorno la pecora ed il cane vanno con- cordemente a 1:10 mila. Al 20° giorno la pecora a 1:20 mila. Al 27° giorno entrambi gli animali sono fra 1:25 mila e 1:50 mila. Dopo questo mo- mento sembra che la curva cominci a discendere, per cui finora noi rite- niamo che il momento più opportuno per la presa del sangue sia verso il 25° giorno dalla praticata vaccinazione. Questi dati peraltro non li diamo come assolutamente definitivi: noi non abbiamo ancora spinto la dose della vaccinazione sino all’ ultimo limite di resistenza dell’ animale, e di più quei risultati sono ottenuti sopra animali intatti; non dubitiamo quindi che, elevando la dose del vaccino e rinforzando con ulteriori vaccinazioni un’ immunità già stabilita, potremo arrivare a titoli anche più elevati da corrisponder meglio e più larga- mente ai bisogni della pratica. Questi i risultati sperimentali ottenuti da noi sulla vaccinazione degli animali contro la rabbia e sulla potenza del siero immunizzante che con questa vaccinazione si può ottenere: risultati, dei quali non si può disco- noscere la decisa superiorità di fronte a quelli che permisero al Pasteur di passare all’ applicazione del suo metodo sopra l’ uomo. Il nostro vaccino infatti, in confronto con quelio del Pasteur, presenta dal lato sperimentale i seguenti vantaggi : efficacia in qualunque periodo dell’ incubazione fino alla comparsa dei primi sintomi rabbiosi, azione quasi istantanea, assoluta mancanza di virulenza e di qualsiasi altra azione nociva, trattamento rapido con una o poche iniezioni e con minime quan- tità di materiale, solubilità completa e quindi facile assorbimento di esso, lunga conservabilità allo siato secco, onde se ne potrà fare con tutta faci- lità l’ applicazione a domicilio da qualunque sanitario. Che se si sono ottenuti questi vantaggi, si deve sempre riconoscere che essi non sono altro che il risultato di perfezionamenti ai metodì attuali — RO di vaccinazione creati dal Pasteur, e d’ aver raggiunto quell’ ideale verso cui erano dirette le aspirazioni del Pasteur stesso, quando, appunto rife- rendosi alla rabbia, scriveva: « L’ intérét qu’ offrirait la vaccination par des moelles non virulentes n’ a pas besoin d’ étre signalé. Ce serait à la fois un fait scientifique de premier ordre et un progrés inappréciable de la méthode de prophylaxie de la rage ». Attualmente stiamo preparando una discreta quantità di animali per dar principio all’ applicazione della sieroterapia contro la rabbia sopra l’uomo. Delle due specie d’ animali sperimentati noi diamo la preferenza per la fabbricazione in grande del rimedio alla pecora, perché questo animale, mentre fornisce un prodotto di egual potere che il cane, al con- trario di esso assorbe rapidamente con minima reazione locale il nostro vaccino italiano, è un soggetto per le manovre operatorie e pel genere d’ infezione più trattabile, e inoltre da eguale volume di sangue lascia se- parare un siero più abbondante e limpido. Quando il nostro rimedio fra poco tempo sarà pronto e controllato, noi ne cominceremo l’ impiego pratico col consigliarne 1’ applicazione s0- pra le persone morsicate da animali sospetti di rabbia, e lo metteremo a disposizione di chi, per qualsiasi ragione, non potesse sottoporsi al tratta- mento Pasteur. Ma anche a quelli che si sottopongono a questo metodo, noi consigliamo di adoperare il nostro rimedio come ausiliario nelle con- dizioni più difficili, in cui 1’ esperienza ha già dimostrato che il sistema Pasteur offre le minori probabilità di riuscita, quali: i trattamenti intra- presi molto tardivamente dopo le morsicature, le lesioni profonde e mul- tiple al capo, la morsicatura di animali a rabbia con periodo d’incuba- zione breve, come i lupi. Intanto non lasciamo nei nostri esperimenti di spingere, come abbiamo detto, la potenza del siero antirabico ai massimi gradi, raggiunti i quali metteremo il metodo stesso al più arduo cimento, quello cioé della cura nell’ uomo della rabbia sviluppata. > P_S (QUIETE (CTSA SANI RIT INTORNO AD UN FETO UMANO PRIVO DIGLI ORGANI GENERATIVI E DELE UREXA (AGEZENOSOM A) MEMORIA DEL PROF. CESARE: TARUFEIT (Letta nella Seduta del 14 Gennaio 1894). (CON UNA TAVOLA) Avendo ottenuto dalla Scuola Ostetrica per il Museo Patologico alcuni preparati di teratologia che non avevano alcun rapporto scientifico colla medesima, tosto rimasi colpito da un feto immaturo per la enormità del ventre da superare una grave ascite. Nello stesso tempo mi avvidi che l'addome era stato tagliato e poi cucito e poscia seppi che il preparato era conservato in detta scuola da tempo immemorabile senza alcun cenno storico. Malgrado tali circostanze mi accinsi all’ esame sperando che le alterazioni principali fossero ancora riconoscibili, lo che in gran parte si é verificato. Osservazione — Il feto era conservato in un vaso pieno d’alcool assai debole e sospeso al coperchio mediante un filo che traversava il sincipite: questo modo di sospensione aveva resa la sommità di forma piramidale (ciò che è stato corretto nel disegno) ed il rimanente della testa assai allungato (Vedi fig. 1 ridotta a “4 dal vero). Il feto misurava in lunghezza 150 mill. e pesava (escluso il funicolo ombelicale e la placenta) 180 grammi; esso non aveva peli sul cuoio capelluto; le unghie però erano accennate, e mo- strava gli arti assai gracili coi piedi torti all’esterno (Vedi fig. 2). Il ventre, straordinariamente ingrandito, presentava la forma ovoide colla estremità ristretta in alto, e discendeva fino al punto da nascondere anteriormente gli arti inferiori. Nella sua linea mediana fra il terzo medio e l’inferiore s’ inseriva il funicolo ombellicale, il quale era assai esile e Serie V. — Tomo IV. 10 continuava dall’ altro lato colla placenta relativamente piccola. Sollevando la parte pendente dell’addome, a primo aspetto non apparivano gli organi generativi esterni, ma esaminando con molta attenzione si riconoscevano i contorni d’un piccolo scroto, lievemente sollevato col suo rafe iniziale, e superiormente al contorno sporgeva una piccola papilla semisferica non maggiore della testa di uno spillo, nella cui sommità si vedeva un foro cieco, in guisa che la papilla somigliava ad un glande rudimentale, senza prepuzio (Vedi la fig. 3, grande al vero). Riaperto l’ addome sul lato sinistro, ove vi era la cucitura, con gran sorpresa trovai il ventre pieno di bambagia, intrisa d’ alcool, tolta la quale vidi una grande cavità, fornita d’una parete propria e separabile dalla pa- rete addominale, che non conteneva alcun viscere, sicché facilmente si escludeva trattarsi della cavità peritoneale. Essa superiormente aveva in- nalzato il fegato ed il diafragma, nel suo diametro longitudinale misurava 7 cent. e nel trasversale maggiore 6 cent. senza divaricare gli ilei. La parete del sacco aveva uno spessore assai maggiore di quello che posse- deva la parete addominale, avvertendo però che questa era molto assot- tigliata. Venendo ai caratteri esterni del sacco, noteremo che dal lato anteriore era levigato e che superiormente aderiva ad un tratto intestinale fiaccido, diretto a destra, ove finiva a fondo cieco e che dall’ altro lato il tratto suddetto era in continuazione con un gomitolo intestinale posto sotto il fe- gato. È pur degno di nota che il funicolo ombelicale non ancora disgre- gato giungeva contro il sacco ave si fissava e dal punto d’inserzione par- tiva un filamento, pur esso aderente, che discendendo descriveva un arco a sinistra, da far supporre trattarsi dell’ arteria ombelicale di quel lato, sebbene fosse irriconoscibile qualunque rapporto colle iliache. Il sacco veduto posteriormente era parimente levigato, eccetto che dal lato superiore, in cui vi erano tratti velamentosi, e brevi filamenti fibrosi (ef- fetto dei rapporti congiuntivali tagliati), ed eccetto due corpiccioli rossastri, di consistenza carnosa aderenti al sacco, in corrispondenza ai lati della colonna vertebrale, di cui.il sinistro era incirca della forma e della gran- dezza di un fagiuolo, ed il destro alquanto più grande e deformato. Ambidue riconobbi abbastanza chiaramente per reni mediante il micro- scopio (1). Passando all’ interno del sacco, vidi tosto che la parete era anche da questo lato levigata e pallida, eccetto che in corrispondenza del fegato ove (1) Sebbene i tagli dei reni resistessero a varii metodi di coloramento, nulladimeno in quelli del rene sinistro si riconoscevano sufficientemente alcuni glomeruli Malpighiani colle rispettive capsule, nonchè alcuni tubi collettori, lo che non si vedeva cosî chiaramente nei tagli del rene destro. Da > pare era rossastra. In corrispondenza all’inserzione del funicolo rinvenni un orlo circolare col fondo chiuso, capace di ricevere un grano di miglio, e questo foro lo giudicai per l’ ingresso dell’ uraco già obliterato. Esaminando la parte posteriore ed interna del sacco, trovai superiormente a sinistra un piccolissimo orificio che permetteva l’ ingresso d’ uno stecchino, il quale - dopo un breve tragitto giungeva nel corpo simile ad un fagiuolo suddetto, sieché nacque tosto il pensiero che il tragitto percorso fosse nell’ uretere ed il corpicciuolo fosse un rene. Cercando poi a destra un foro analogo trovai invece una breve fessura che permetteva per breve tratto 1’ ingresso d’ una setola di maiale, ma non raggiungeva il corpieciuolo di maggior mole, sicché dubitai che l’ uretere si fosse obliterato. Inferiormente al sacco non si rinvenne alcun meato. Internamente all’ addome e fuori del sacco, non trovai né la milza, né il pancreas, né le capsule soprarenali, né gli organi generativi, né al- cun indizio dell’ uretra e della prostata. E come questi difetti non fossero sufficienti mancavano ancora l’ intestino crasso, il retto, e 1’ orificio del- l’ ano. Rinvenni soltanto l’ intestino tenue, i reni, la vescica, ed il fegato senza la cistifellea. Quest’ organo aveva ancora di particolare la notevole atrofia dei suoi due lobi, senza comprendere i condotti biliari, i quali si vedevano distinti sulla superficie concava e confluire nel condotto epatico che andava direttamente all’ intestino. In quanto all’ intestino, esso era ridotto ad un gomitolo che disteso si vide formato da una lunga ansa del tenue, col rispettivo mesenterio, la quale ad un capo mostrava un piccolo rigonfiamento, che ricordava la forma dello stomaco, e che superiormente finiva cieco aderendo al dia- fragma; l’altra estremità dell’ansa finiva parimente chiusa, ed aderiva alla parte superiore del sacco suddetto. Venendo ora alla parte superiore del feto, avvertiamo che omisi ] e- same della testa, essendo troppo alterata per sperare un repertc proficuo, sicché mi limitai ad osservare la bocca ed il cavo faringeo, ove non rin- venni nulla d’insolito. Nel collo non riuscii a riconoscere né la tiroide, né il timo; invece nel torace vidi tosto il cuore ben conformato, incluso nel pericardio, col tronco aortico manifesto, senza che fosse distinta l’ arteria polmonare. In connessione coi rami dell’ aorta vi erano a destra due lobi polmonari ed a sinistra uno solo. Introducendo una tenue sonda nella fa- ringe, quella discendeva entro un solo canale piuttosto stretto, che aderiva con diramazioni poco riconoscibili ai due polmoni e che poscia si con- vertiva in un filamento diretto al diafragma, ove si perdeva. Aperto il ca- nale, rilevai che le parti erano relativamente grosse, senza però indizio d’ anelli cartilaginei; e notai pure che non vi era alcun altro canale paral- lelo, sicché sospettai che si trattasse (come meglio apparve in altri casi) dell’ esofago fuso insieme colla trachea in un canale unico. ab, vere Considerazioni — Confrontando fra loro i molti difetti trovati in questo feto risulta senza dubbio che quelli notati nell’ addome sono i più gravi, da meritare speciali ricerche; ma per conoscere la loro importanza, cioé la frequenza d’ ognuno tanto per sé solo, quanto per rapporto cogli altri, € indispensabile sapere lo stato della scienza in proposito, il quale per vero non fornisce generalmente che rare e disperse osservazioni che ci hanno obbligato a lunghe indagini per riescire a raccoglierle in buon numero. Principiando dagli organi generativi esterni, ricorderemo che il pene nel nostro feto era rappresentato da una lieve papilla semisferica, liscia all’ estremità, ove si vedeva un piccolo foro cieco di figura ellittica, senza indizio di prepuzio. Ora cercando osservazioni simili, abbiamo avanti tutto trovati 14 esempi in cui mancava completamente il pene (1), sicché devesi aggiungere nei trattati anche questo difetto, e negli esempi suddetti vi era la presenza dello scroto, ora provveduto ed ora senza testicoli; ed in tal caso il sacco appariva avvizzito, ma non rudimentale. In 9 fra gli esempi suddetti l’ orina fiuiva da un foro uretrale posto immediatamente sopra lo seroto ed in 4 (Oss. 7, 10, 15, e 16), la vescica direttamente o mediante l’ uretra s’ apriva nell’ intestino retto. È poi degno di nota che negli archivi della scienza non ogni annunzio di mancanza del pene é esatto, perché talora trattasi soltanto dell’ apparenza, essendo esso oecul- tato in una fessura dello scroto, come risulta dalle osservazioni di Testa, di Steinhaus (2) e di pochi altri, che abbiamo ricordati altrove (3). Se questi fatti rispetto al pene non collimano precisamente col nostro, ve ne sono altri due che si avvicinano maggiormente, meno che nelle complicazioni (Vedi Nota 1.°, Oss. 13 e 17). II primo appartiene a Facen medico in Venezia, che vide un uomo di 30 anni fornito del glande col meato urinario pervio, senza il resto del pene e senza il prepuzio, e co- testo glande non era suscettibile di stiramento. Differiva poi dal nostro caso, in quantoché lo scroto in luogo d’essere rudimentale si mostrava bipartito, ed ogni parte conteneva un testicolo; nulladimeno l’ uomo aveva le apparenze di femmina. Il secondo esempio di pene rudimentale fu tro- vato in un feto da Voll; colla differenza che il pene era ridotto ad un piccolo corpo situato contro il pube, e che solo il microscopio permise di riconoscerlo, e che lo scroto era bensi piccolo ma conteneva un testicolo. (1) Vedi in fine le Nota 1*. Egli è probabile che continuando le ricerche si possa aumentare il numero dei casi in cui mancava il pene, e già avvertiamo che Debierre (Anatomie; Tom. II, p. 706) cita Revolat senza dare l’ indicazione bibliografica. Fra le 13 osservazioni vi sono la 1°, 5° ed 11° a cui s’ aggiungeva l’ atresia dell’ ano. (2) Vedi la Nota suddetta. Oss. 4* e 12°. (3) Vedi la Nota 2*. Oss. 8. Qui abbiamo aggiunti anchi i casiin cui il pene in luogo d’ essere infossato nello scroto era soltanto aderente, poichè si possono i primi considerare 1’ effetto più precoce dello stesso processo che ha generato i secondi. . - Spa Passando ad esaminare lo stato della scienza rispetto ai difetti conge- miti dello scroto, per limitare il nostro discorso ommetteremo di ricordarè le anomalie riscontrate negli ermafroditi veri od apparenti, e posticiperemo l’esame dei casi in cui alla mancanza dello scroto s’ aggiungeva quello del pene, per far precedere il ricordo di 5 osservazioni in cui la mancanza dello scroto era semplice (Vedi Nota 3.* in fine). In queste però la semplicità non era completa, poiché vi era bensi il pene, ma assai ridotto di volume, € gia si può prevedere quanto risulterà meglio dai fatti ulteriori, cioé una correlazione quasi costante fra i difetti di sviluppo di un organo generativo esterno con quelli dell’ altro parimenti esterno, mentre tale regola non si verifica cogli organi interni; difatto in alcuni dei casi citati, in luogo di mancare vi erano i testicoli. Im niuno poi dei medesimi si verificò lo sviluppo iniziale dello scroto che abbiamo rinvenuto nel nostro feto, ma tale differenza non è di gran momento. Venendo ora alla mancanza contemporanea dei due organi generativi ‘esterni, essa era stata avvertita da lungo tempo nei mostri senza cuore e senza cervello (angi-omfalo-pago) (1), cosi pure in quelli che hanno i due ‘arti inferiori insieme fusi più o meno completamente (sirenometi) (2), ed assai spesso nei casi di estrofia vescicale, sia semplice, sia in istato di cloaca specialmente nelle femmine (ipogastro-etro-schist) (3). Ma a tale proposito é d’ avvertire che avanti fosse conosciuta la natura di. questa deformita, essa veniva indicata talora per la mancanza degli organi generativi (Vedi in fine Nota 4.*). Chi poi ha il merito d’ aver riconosciuta che tale man- canza accade ancora come un fatto primitivo, fu Gurlt nel 1832, che basandosi su tre osservazioni (un vitello, un maiale ed un cavallo) ricavò il genere Perocormus anaedoen (4), che poi confermò nel 1877 aggiungendo la descrizione d’ un agnello per nuovo esempio (5). Questo genere non fu però accolto nella Teratologia umana, forse per mancanza d’osservazioni, e non può dirsi in contrario che Stefano Geo f- froy Saint-Hilaire chiamò agenosomus un feto con sventramento inte- stinale, senza organi generativi, e che il figlio Isidoro dalla combinazione dei due difetti ne ricavò un genere appartenente alla famiglia dei celosomi col medesimo titolo (6); perché invece occorreva trovare nella specie umana (1) Taruffi C. — « Storia della Terotologia ». Tom. II, p. 188. (2) Idem — Ibidem Tom. VII, p. 523. Ai casi ivi citati si può aggiungere il seguente: Baster Job. — « Descriptio foetus monstrosi sine ullo sexus signo » Tab. II, fig. 1 « Philo- sophical Transactions » Vol. 46, for the Years 1749 and 50, s. 479. Trattavasi di un sirenomele, come chiaramete apparisce dalla figura. (3) Idem — Ibidem Tom. VII, p. 463 e 501. (4) Gurlt E. F. — « Lehrbuch der pathologischen Anatomie » Theil JI, s. 94, Art. (specie) 17. (5) Idem. « Ueber thierische Missgeburten ». Berlin 1877, s. 16. (6) Isid. Geoffroy Saint-Hilaire — « Des Anomalies ete. » Tom. II, Livr. 1°, Chap. 3°; 1836. = ee dei fatti semplici, come rinvenne Gurlt e dai medesimi ricavare 1’ ageno— somus. Questi fatti per vero già in parte preesistevano ed in parte si sono aggiunti posteriormente, in guisa che noi ne abbiamo potuto raccogliere 22 in cui la mancanza degli organi sessuali esterni era completa, e che per- ciò non somigliano completamente al nostro caso, e 4 in cui gli organi esterni erano appena accennati (Vedi Nota 5.*); avvertende che abbiamo escluse tutte quelle femmine in cui l’ aderenza congenita delle grandi labbra simulava l’ agenosoma (Vedi Nota 6.*). Quando però diciamo di raccogliere i fatti semplici, non neghiamo le complicazioni, ma non vin- coliamo una cosa coll’ altra, e molto meno comprendiamo i casi in cui si può considerare la mancanza degli organi per un fatto secondario come negli acardiaci (od acefali) e nei sirenomeli. Niuno a nostra cognizione essendosi occupato di questi fatti, ci per- metteremo d’ aggiungere alcune risultanze che abbiamo ricavate dal con- fronto dei medesimi: ed avanti tutto diremo che la necroscopia ha rile- vato sufficienti caratteri per ammettere che pei 26 casi, 8 appartenevano al sesso femminino (Oss. 5, 13, 16, 18, 19, 20, 22, 23) e 5 al sesso ma- schile (4, 6, 10, 12, 14), mentre gli altri o non furono sezionati o forni- rono un risultato negativo (Friese, Pinard)e questi provano che non vi é un rapporto necessario fra gli organi esterni ed interni nel loro svi- luppo (1). È pur notevole la proporzione dei casi in cui fuvvi atresia dell’ ano con o senza mancanza dell’ intestino retto, poiché ciò si verificò 15 volte, ed una sola volta si trovò un semplice restringimento; havvi poi l’ osservazione: di Mueller in cui oltre il retto mancava in gran parte il colon. Singolare: è ancora la complicazione veduta alcune volte, che uno od ambedue gli arti inferiori erano difettosi, fino a mancare completamente (Schellier, Vrolik, Gurney, Mueller, Eisenack;cedeHubert). Altre complicazioni sì sono verificate, ma preferiremo di ricordare quelle che hanno più attinenza al caso nostro, cioé quelle che risguardano il sistema urinifero. In generale nelle osservazioni suddette sotto 1’ arco. del pube vi era un foro uretrale pel quale scolava esternamente l’ orina.. Ma non tutte le volte il difetto era cosi semplice: per es. Friese dice: che il solito frammento d’ uretra era chiuso mentre vi era un tumore al perineo; e l'osservazione (N. 15) ci é giunta cosi imperfetta da non po- tere ricavare alcuna luce; altrettanto si dica di quelle di Kristeller e di Baistrocchi (Oss. 18, e 22), in cui la vescica era convertita in un gran sacco, ma non è data alcuna notizia sull’ uretra; nulladimeno intorno a questo argomento aggiungeremo più avanti qualche altra notizia. Final- (1) La indipendenza di sviluppo degli organi generativi esterni dagli interni, oltre essere in accordo coll’ embriologia, l'abbiamo anche rilevata nel 1882 parlando degii omfalo-angiopaghi. Vedi. la pagina stessa della Storia citata superiormente. 220 gli Los rnente sono ricordati alcuni casi assai più gravi, in cui mancava la vescica e l’ uretra (Hubert) e per fino mancavano i reni cogli ureteri (Schellier e Pinardì). Venendo alle 4 osservazioni in cui gli organi generativi esterni erano rudimentali, siamo obbligati di rinunziare a qualunque considerazione ri- spetto a quella di Ford (Oss. 5.*) mancando d’ogni particolare; non faremo altrettanto per il caso singolare di Rossi, perché trattavasi di una sposa che aveva chiusa la vulva e non appariscente la clitoride, mentre l’uretra e l’ ano erano aperti, e superiormente all’ ano vi era un foro impercettibile che permetteva l’ escita dei mestrui e che si ritenne capace di dare adito agli spermatozoi : in ogni modo la sposa rimase incinta e fu fatta una strada artificiale al perineo per permettere la nascita del feto (Oss. 11.°). Nel caso di Guttmann invece la vagina e l’ uretra sboccavano insieme sotto la clitoride con un piccolissimo foro, e la clitoride aveva la partico- larità di possedere tre corpi cavernosi (Oss. 23.°). Il caso per noi più importante è quello di Gurney, poichè in luogo dei genitali sì vedeva un prolungamento cutaneo sotto il quale appariva un glande; lo che é precisamente simile a ciò, che sotto forma rudimentale, abbiamo veduto nel nostro caso, meno il prolungamento cutaneo; ed il no- stro é parimenti simile al caso di Facen ricordato superiormente. Ci duole però che Gurney non abbia fatto la necroscopia per spiegare il suo si- lenzio intorno al volume dell’ addome, raccontando egli che mancavano l’apertura uretrale e vaginale. Tranne l’ analogia col glande, né il caso di Gurney né alcuno degli altri citati offre il numero e la gravità delle com- plicazioni che abbiamo rinvenute nel nostro caso. Oltre gli organi esterni della generazione nel nostro aborto mancavano completamente anche gli interni, la qual cosa non é solo rara a combi- narsi nel modo suddetto, ma non é neppure frequente per sé stessa: di- fatti le ricerche di Godard (1) e poscia di Gruber (2), non sono riu- seite a raccogliere se non 8 esempi di mancanza di testicoli, dimostrata colla necroscopia; ed a questo tenue numero, però possiamo aggiungere tre altri esempi: uno dovuto a Marzuttini (3), l’altro a Neuhaus (4) ed (1) Godard Ernest. — Absence congéniale des deux testicules. Gaz. Méd. de Paris 1860, N. 30, p. 461. Godard cita ancora i casi d’ Itard de Riez « Mém. de la Soc. de Méd., d’ émulation. Paris Ann. VIII, (1803), p. 293 » e di Ansiaux « Journ. de Méd., Chir., et Pharm. de Corvisart. Tom. XIV, p. 262. Paris 1807 » senza riportare le prove, ed in quanto ad Itard possiamo affermare che non - fu fatta la necroscopia. (2) Gruber Wenzel]l. — « Ueber die congenitale Anorchie beim Menschen. Oesterr. Méd. Jahrbicher Bd. XV, s. 38 ». Wien 1868. (3) Marzuttini G. B. — Vedi Taruffi: « Storia della Teratologia ». Tom. VII, p. 267; Oss. 5°. (4) Vedi in fine Nota 7°; Oss. 9?. a il terzo a Friese (1), ma con tutto questo torna vero quanto abbiamo an- nunziato che cioé non havvi correlazione necessaria fra i difetti degli organi interni con quelli degli esterni, poiché negli undici casi citati senza. testicoli havvi solo quello di Friese (Oss. 6.°) che era senza genitali esterni, e fra i 26 casi d’aplasia di questi, non abbiamo trovati se non lo stesso Friese, mentre Pinard ha recata una osservazione assai dubbia (2). Anche rispetto alle alterazioni del sistema uro-poietico rinvenute nel no- stro aborto non sono pur esse per si sole del tutto nuove, poichè abbiamo già riportate le osservazioni di Kristeller e di Baistrocchi, in cui vi era ritenzione d’ urina in vescica, in guisa che questa aveva assunto il vo- lume della testa del feto (3), ma niuno dei due spiegò la ragione del feno- meno. Altrettanto si dica del caso simile di Cornelli (4) il quale dice che: l’ uretra era affetta da ipospadia e da alterazione dell’uretra, ma tace sulla. causa della ritenzione. Nel nostro caso invece la ragione era palese, man- cando l’ uretra e l’ orificio essendo chiuso; e tale difetto è stato notato più volte nelle femmine, recando invece l’incontinenza delle orine (Vedi Nota 8.°),. salvo il caso di Friese, di cui non si conosce il sesso, ed in cui l’ uretra era rudimentale e chiusa. 1 È però vero che vi sono osservazioni col titolo senza uretra, ma esa- minando il racconto si rileva che si trattava d’ un grado massimo d’ ipo- spadia; ed il primo ad indicare così inesattamente il fatto fu Tulpio (5); e ciò che maggiormente sorprende si é che Voigtel (6) ricorda il fatto: stesso come un esempio di mancanza d’ uretra. Siamo poi dolenti di non. avere potuto verificare le osservazioni di Murray, di Monro, e di Herold (citati da Meckel (7?)) per sapere se hanno evitato così gros- solano equivico. È però vero che Schellier ed Hubert non solo vi- dero la mancanza dell’ uretra ma ben anche della vescica (ciò che non. ha alcuna analogia col caso nostro) e Pinard trovò perfino la mancanza dei reni (8). Questi fatti erano associati al difetto degli organi generativi esterni, ma essendo troppo pochi non giovano, anzi contradicono alla legge: (1) Vedi Nota 6%; Oss. 15*. In questa nota abbiamo anco riprodotta l’ osservazione di Pinard (n. 21), ma non azzardiamo di aggiungerla ai casi di mancanza di testicoli non avendo egli esclusi: che tali fossero due corpicciuoli trovati nell’ addome. (2) Vedi Nota 5°. Oss. 15° e 21°. (3) Vedi Nota 5° in fine. Oss. 18 e 22. (4) Cornelli A. — « Ueber einen Fall von Geburtshinderniss bedingt durch Ausdehnung der- fotalen Harnblase » Wien. Med. Wochenschrift N. 37; 1879 — Jahreshericht fir 1879, Bd. I. s. 254 (5). Vedi Nota 8* in fine. (5) Tulpio Nicola. — « Observationes » Libr. IV, Cap. 36. Amstelodami 1672 (Nova editio).. (6) Voigtel F. G. — « Handbuch der Pathol. Anat. » Bd. III, s. 348. Halle 1805. (7) Meckel J. F. — « Handbuch der Pathologischen Anatomie » Bd. I, s. 654. Leipzig 1812. (8) Vedi Nota 5° Oss. 15°, 21*, 242. — Sen di Ahlfeld (1) così espressa. « Quando mancano i genitali esterni, senza eccezione sì trova la corrispondente mancanza od imperfezione della ve- scica, degli ureteri (secondaria a quella dei reni), della vagina, dell’ utero, e spesso dell’ intestino retto ». Finalmente nel nostro feto non vi era soltanto l’atresia dell'ano, ma man- cava tutto l’intestino colon compreso il cieco. Ora quanto è comune il primo fatto altrettanto è raro il secondo, come é rara la enorme distensione con- genita della vescica che forse fu causa dell’ aplasia: difatto notevole man- canza dell’ intestino crasso é stato soltanto ricordata da Baudeloque (2) il quale dice che in un neonato del colon non vi era che il cieco senza l’appendice vermiforme; da Mueller che trovò oltre la mancanza del retto solo una porzione del colon (Vedi Nota 6.*, Oss. 19); e da Schup- pert (3) che rinvenne il colon discendente convertito in un cordone; ma la mancanza dell’ intero colon insieme al cieco non fu descritta che da Her- sing (4). Lo stesso caso è stato descritto in una vitella da Alessan- drini (5); mentre nel puledro del Reefer e Melean (6) non si trattava di mancanza ma della disgiunzione fra il colon ripiegato ed il fiuttuante. (1) Ahlfeld F. — « Archiv. fiir Gynaekologie » Berlin 1879; Bd. XIV, s. 282. (2) Baudeloque — « Sédillot recuel périodique » Tom. I. — Quest’ indicazione è data da Meckel « Handbuch der pathol. Anat. Bd. I, s. 500» ed è falsa. Ma ciò che ci rincresce maggior- mente si è che neppure coll’ aiuto di colleghi sono riuscito a rettificarla. (3) Schuppert — « Absence congenitale du colon discendant » New Orleans Med. Tom. V, N. 2; 1858 — Kanstatt fiir 1859; Bd. IV, s. 7. (4) Hersing. — « Zeitung Med., herausgegeb. von dem Verein fir Heilkunde in Preussen »; Bd. XV, N. 15; 1845 — Citato da Fòrster « Die Missbildungen », s. 124. (5) Alessandrini Antonio. — « Catalogo del Gabinetto d’ Anatomia comparata ». Bologna 1852. Sezione X, N. 2343, p. 424. (6) Reefer e Melean. — « Giornale ital. di Veterinaria Militare ». Anno 1°, N. 11, p. 344, 1888 — Artic. tratto dai Giornali inglesi. Serie V. — Tomo IV. 11 8 Nota 1.* — Senza pene, o col pene rudimentale. OssERVAZIONE 1.° — Schenck J. G. figlio — Observationum medicarum rararum. Franco- furti 1609, p. 577. Libr. IV. Nacque un fanciullo con un’ ernia ombellicale, senza pene, però col foro uretrale pervio, da cui gemeva l’ urina. Il fanciullo aveva lo scroto provveduto dei due testicoli. OSSERVAZIONE 2.° — Bartholino T. — Historiarum anatomicarum rariorum Cent. I. Amste- lodami 1654. 0bs. 65. — Vir sine pene et podice. OSSERVAZIONE 3.° — ..... Castera — Description d’ un enfant avec un scrotum, mais la verge manquatt entierèment etc. — Hist. et Mém. de la Soc. R. de Médecine de Paris. Ann. 1780 et 1781 — Mist. p. 323. OSSERVAZIONE 4.° — Testa Antonio Giuseppe Ferrarese — De re medica et chirurgica. Fer- rara 1781. Epistola IV, cap. 20, p. 145. Nell'anno 1778 fu condotto all’ ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze un bambino di tre mesi, robusto e florido, al quale mancavano il pene e lo scroto, e neppure esiste- vano le grandi labbra. Nel luogo dove suolsi trovare il pene nel maschio i tegumenti erano alquanto rialzati, e divisi in mezzo da un solco che simulava una vera rima muliebre. Nannoni per mezzo di uno specillo si accorse che in questo solco si trovava un foro, ed allontanati alquanto i due labbretti che lo coprivano, vide sotto di essi un vero glande, benché piccolo: perciò non vi fu alcun dubbio che quei labbretti non do- vessero considerarsi come il prepuzio. Negli inguini si trovavano due prominenze che egli sospettò dovessero contenere i testicoli, quantunque non fossero discernibili, nè col tatto, nè colla vista. Quel solco sopra notato non era che il setto dello scroto rimasto diviso. OSSERVAZIONE 5.° — Carminati Domenico — Nota a! Dizion. di Chir. del Louis (trad. dal fran- cese). Venezia 1795, Vol, III, p. 60. Estrasse un feto idrocefalico, coll’ ano imperforato. A questo feto mancava il pene, quantunque avesse i testicoli nello scroto. OSSERVAZIONE 6.° — Heyfelder J. F. H. — Sehmid?s Jahrbicher 1835, Bd. VIII, s. 125 — Ahlfeld. Archiv. fùr Gynaekologie. Bd. XIV, s. 279. Berlin 1879. Feto idrocefalico con doppio labbro leporino, col petto stretto superiormente, largo inferiormente e coll’ addome pendente simile a quello d’ una gravida. Esso aveva uno scroto senza testicoli, che presentava nella sua estremità inferiore una produzione ver- rucosa, e l’ano chiuso. Mancavano il pene, l'intestino crasso, i reni, la vescica e i testicoli, OssERVAZIONE 7.° — Himminger — Med. Chir. Zeitung 1853, s. 824. Neonato senza pene, con discesa dei testicoli. L’ uretra s’ apriva nell’ ano. OSSERVAZIONE 8.° — Nelaton Aug. — Absence de pénis — Gaz. des hòpitaux 1854, N. 12 — Kanstatt's fùr 1854, Bd. IV, s. 3. — |89 — OSSERVAZIONE 9.° — Rérberg A. D. — Verhand!. schwedischer Aerste î Stockolm 1856-57 — Journal fiir Kinderkrankheiten Bd. XXXV. Erlangen 1860, s. 426. Un fanciullo mostruoso aveva 7 dita alla mano sinistra, 6 alla mano destra, 6 al piede sinistro e 5 al piede destro. Era privo del pene. OSssERVAZIONE 10.° — Goschler — Marge/hafte Bildung der diusseren Genitalien — Prager Vierteljahrsschr. Bd. III, p. 89. Kanstatt's 1859, Bd. IV, s. 7 und 16. In un uomo di 27? anni, ben conformato, colla barba bionda e rigogliosa, con peli al pube, e col rafe allo scroto, mancava del tutto il membro virile. Nella parete anteriore dell’ intestino retto, all'altezza di 5 linee, si scoprì una apertura rotonda, da cui scolavano le orine. Davanti all’ apertura anale vi era un pezzo di pelle triangolare, raggrinzato, che nasceva dal rafe come una cresta di gallo, se non che si gonfiava ed avvizziva rapidamente. Se la gonfiezza perdurava più minuti, spesso era accompagnata colla perdita del- l’ umore spermatico dall’ apertura urinosa suddetta. Introducendo per la medesima una sonda d’osso di balena, si giungeva in vescica, traversando un canale uretrale lungo incirca 1 !/, pollice e che aveva il lume normale. Lo sfintere vescicale chiudeva con esattezza, e l’uomo orinava volontariamente ogni 3 o 4 ore : nel frattanto l’ ano e le parti circostanti rimanevano asciutte. Nello scroto, nei testicoli, nei cordoni seminali, non si riscontrò nulla-d’ anormale. OssERvAZIONE 11.° — Olshausen — Monatsschrift fùr Geburtskunde. Bd. XVIII, s. 98. Berlin 1861. Un fanciullo collo scroto bene sviluppato era privo totalmente del pene. Esso aveva una piccola apertura nella parete inferiore dell’ addome che conduceva nella vescica in cui sboccava l’ intestino terminale. Atresia dell’ ano. OSSERVAZIONE 12.° — Steinhaus J. — Scheindar ginzlicher Mangel des Penis. Vorhandens- ein desselben unter dem vordern obern Segmente der Scrotalhaut. Wien. Med. Halle 1862 LO MIT p.8315: OSSERVAZIONE 13.8 — Facen Jacopo di Fonzaso {Prov. di Belluno) — Gaz. medica Provincie Venete Anno VIII, p. 297. Padova 1865. Appendice. Visito un uomo di 30 anni il quale aveva l’ aspetto e le forme di donna. Esso aveva il glande col meato urinario, ma mancava di prepuzio e di pene, in guisa che il glande era sessile ed incapace di prolungamento, come fosse la clitoride. E tanto più ne aveva ,l apparenza, poichè ai lati discendevano due specie di ninfe. Eranvi poi anche le grandi labbra, ma queste contenevano i testicoli coi loro cordoni spermatici. Non eravi traccia di vulva. L'uomo era inclinato a sposarsi, fruiva delle ejaculazioni seminali ed allora il glande s’ induriva ; sicchè non aveva che l’ aspetto esteriore di femmina. OSssERVAZIONE 14.° — Birnbaum Fr. H. G. — Monatsschrift fiir Geburtskunde 1865, Bd. XXVI Supplement s. 290 — Ahlfeld. 1. cit., s. 280. Un feto aveva la mascella inferiore imperfettamente ossificata, le braccia e le gambe corte con sei dita alle mani ed ai piedi. Ipoplasia dei polmoni, del cuore, e dei reni, i quali erano ridotti ad una piccola capsula appianata senza ureteri. L’ intestino crasso. finiva a fondo cieco; la vescica aveva la forma d’un lungo canale, in cui non si poteva dimostrare l'apertura uretrale. Mancava ancora il pene, mentre esistevano i testicoli contenuti in uno scroto bipartito. Fra le due pieghe scrotali eravi una piccola aper- tura, indizio del canale uretrale, entro la quale niuna sonda penetrava. OSSERVAZIONE 15.2 — Green W. E. — Congenital absence of the penis — Omexop. J Obst, New York 1879-80, Tom. I, p. 423 — Cifato nell’ Index Catalogue of Washington. ‘OSSERVAZIONE 16.° — Collier — British Medical Journal 23 febbraio 1889. — Riforma Me- dica Anno V, 1.° semestre, N. 113. — Deformità dei genitali esterni maschili. Mancanza del pene. Testicoli bene sviluppati e discesi nelle guaine scrotali. Ernia inguinale congenita bilaterale. L’ uretra si apriva nella parete anteriore del retto. OSSERVAZIONE 17.° — Rauber in Nordhausen — Angedorener Mangel des minnlichen Gliedes — Virchow’s Archiv. Bd, CXXI, s. 604, Tafel X, fig. 3; 1890. L’uretra sboccava nell’ intestino retto d'un uomo vivente di 38 anni. Questo aveva lo scroto ben conformato, che conteneva i due testicoli di volume ordinario, i cui con- dotti seminiferi potevano seguirsi nei canali inguinali. Talvolta avvertiva gli stimoli sessuali e poscia un titillamento nella parete anteriore del retto con polluzione. OSssERVAZIONE 18.° — Voll Adam — Veder eine seltene Missbildung (Fehlen des Penis und des Afters. Communication zwischen Blase und Rectum). Diss. Wùrzburg, 1890 — Jahres- bericht fùr 1890. Bd. I, s. 249 (4). Descrive un feto in cui mancavano le aperture anale ed uretrale. Solo vi era una piccola borsa cutanea, in luogo dello scroto. Il testicolo sinistro era nel canale ingui- nale, ed il destro giù nel sacco testicolare. Dopo il distacco delle congiunzioni fra la vescica e l’intestino retto apparvero i canali deferenti e le vescichette seminali. Man- cava la prostata; si trovò invece contro la sinfisi del pube un piccolo corpo, che fu considerato un piccolo pene, ciò che fu poi confermato dalle ricerche microscopiche. Nora 2.° — Aderenza del pene allo scroto. OSSERVAZIONE 1.° — Kolb E. — Adhérence congéniale du penis au scrotum — Gaz. Méd. de V Algerie. Alger 1860, Vol. XXII. OSSERVAZIONE 2.° — Marten — Argedorene Verwachsung des Penis und Scrotum — Vir- chow's Archiv. BA. XXVIII, pag. 555, 1863. — Kanstatt fùr 1863, IV, s. 3-10, p. 43. OSSERVAZIONE 3.° — Weir R. F. — Two cases of congenital curvature of the penis, with hypospodias and adnhesion to the scrotum. New York Medical 1874, Tom. XIX, s. 281. OSSERVAZIONE 4.° — Bouteiller J. — Phimosis scrotal. Verge rudimentaire. Epispadie jusque a ses dernieres limites — Union meéd. de la Seine inf. Rouen 1875, Tom. XIV, p. 27. OSSERVAZIONE 5.° — Dougall John. — Aftachement of penis and scrotum — Brit. Med. Journ. London 1882, p. 696. OSSERVAZIONE 6.° — Chrétien H. — Pa/mature pénienne sans hypospadias — Gaz. hedomad. de Méd. et de Chiîr. Paris 1887, Tom. XXIV, N. 31, p. 501. Aderenza del glande alla pelle dello scroto, e retrazione simile ad una corda del pene in seguito all’ accorciamento del corpo cavernoso dell’ uretra. PARISI ‘OSSERVAZIONE 7. — Busacchi T. — Casi vari d’ affezioni congenite — Archivio d’ Orto- pedia Milano 1891, Tom. IX. Aderenza congenita del pene collo scroto. ‘OSSERVAZIONE 8.2 — Lemke F. in Hamburg — Angedorner Mangel des Penis — Virchow's Archiv. Bd. CXXXIII, s. 181; 1893: con due figure. Un fanciullo di 5 mesi mostrava lo scroto della grandezza normale, nella cui parte inferiore (?) ed anteriore eravi un’ apertura da cui gemeva l’ urina. Dal margine poste- Tiore di questa apertura nasceva il rafe normale. Esplorando col dito, si scoperse la pre- :senza del pene approfondato e circondato nello scroto, il quale conteneva ancora i due testicoli. L’ autore avverte che un caso simile è rammentato negli Schmid? s Jahrbùcher Bd. CCXVI, Nora 3.* — Casi d’ipoplasia dello scroto. ‘OSSERVAZIONE 1.° — Kerckring Teodoro — Spicilegium anatomicum. Amstelodami 1670, p. 33. Un fanciullo di 3 anni appariva senza testicoli e senza scroto, ma aveva un’esigua doccia, come fosse una verga imperforata, sotto la quale vi era un piccolo foro, da cui ‘esciva liberamente l’ urina. OssERVAZIONE 2.° — Itard de Riez — Mém. de la Soc. médicale d’ émulation. Tom. III (Ann. VIII) 1800, p. 293. Descrive un giovane di 23 anni, di carattere apatico, senza desideri venerei, che da bambino soffriva incontinenza d’ urina, il quale in luogo d’ un florido sviluppo, aveva la pelle molle, liscia e senza peli, neppure nel mento, e colla voce fioca. Il petto e la pelvi mostravano l’ aspetto femminino. Il pene era lungo un pollice e grosso come il dito piccolo, col glande simile per il volume ad un pisello, a cui il prepuzio aderiva. Man- cava lo scroto, ed invece ivi la pelle si mostrava raggrinzata senza contenere nè i testi- coli, nè i funicoli spermatici. Lungo la linea mediana del perineo vi erano due pieghe cutanee parallele, da somi- gliare alle grandi labbra in contatto fra loro. Sul pube vi erano pochi peli. OssERVAZIONE 3.° — Macari Francesco — Idrorachite congenita — Gaz. dell’ Associazione medica degli Stati Sardi. Anno VI, p. 41. Torino 1856. Una sposa in quinta gravidanza mise in luce un feto maschio con varie deformità descritte in modo insufficiente. Si rileva però che vi era tumore idrorachitico lom- bare, enterocele nella linea alba, mancanza dell’ intestino retto, piede varo doppio. In quanto agli organi generativi, mancava lo scroto ed esisteva il pene; e poche linee sotto al canale dell’uretra (permeabile) eranvi due piccoli fori, con margini fibro-cartilaginei, lateralmente posti al rafe perineale, profondi appena alcuni millimetri e simili a due arterie recise (fori di cui l’autore non seppe determinare la natura). I testicoli occupa- vano il canale inguinale. OSSERVAZIONE 4,° — Nagle L. E. — A monstrosity of sex. — New Orleans Journ. of Med April 1869 (JaArresbericht fur 1869, Vol. I, p. 172). = pg = Riferisce di un servente di 19 anni, il quale era chiamato ora Caterina ed ora Gio- vanni: Aveva l’ abito del tutto femmineo (e scrofoloso) col volto imberbe, colle mam- melle non sviluppate e colla voce da donna. L'esame rilevò come unico organo geni- tale un pene lungo 1 ’/" grosso ’/"", con un prepuzio considerevolmente sviluppato e traforato da un’ uretra normale. Nessuna traccia di scroto, di labbra, di testicoli, e di vagina. Anche coll’ ispezione pel retto non rilevò alcun indizio nè. di utero, né di pro- stata. La base del pene e del monte di Venere erano coperti con delicati e scarsi peli. È poi degno di nota che dal pene non avvenne mai emissione di liquido seminale, e che l'individuo affermava di sentirsi attirato sessualmente verso gli uomini, però non ebbe mai segni certi di irritabilità sessuale. L’ autore ritenne il caso per anorchismo: bilaterale. OSSERVAZIONE 5.° — Jones J. — Singular and distressing case of malformation of genital organs -—- Med. Record. New York 1871, Tom. VI, p. 198. Uomo senza barba coll’ abito femminino. Pene lungo */ di pollice, del resto ben con- formato. Scroto molto piccolo, senza testicoli. Le ricerche per l’intestino retto non reca- rono alcuna luce. Nota 4.* — Estrofia vescicale senza organi generativi esterni. OssERVAZIONE 1.° — Bartholino Tommaso — Zistoriarum anatomicarum rariorum. Cent. I, Obs. 65; Amstelodami 1654. p. 103 — Vir sine pene et podice. Vide nel Lazio un uomo di 40 anni, robusto e sano che non aveva traccie dell’ano, nè delle parti genitali; 1o che rese dubbio il sesso e nuliadimeno gli fu imposto il nome di Anna. All’età però di 24 anni essendo sopravvenuta la barba a coprire le sue gote ed il mento, l’Arra fu considerato come un uomo. In quanto all’ atresia dell’ ano l’autore: seppe che quando l’uomo aveva finita la digestione degli alimenti sopravveniva il vo- mito, ma per evitare il sapore disgustoso in bocca egli introduceva nella medesima un corno. Rispetto alle orine queste stillavano a guisa del latte dalle papille mammarie da un cavo fungoso, vicino al luogo dell’ ombelico che mancava. Da questa descrizione Breschet, fino dal 1824 (Archiv. gén. de Méd. Tom. IV, p. 567. Paris 1824), riconobbe trattarsi d’estrofia vescicale, ed ora si spiega come Bartholini non riconobbe gli or- gani generati esterni. Rimane però sempre straordinario il vomito suppletorio, che fu. poi riveduto da Denys. OSSERVAZIONE 2.° — Saviard Bartolomeo — Nouveau recueil d’ Observations chirurgicales. Paris 1702; in 8°, p. 308. Citato da Meckel — Pathologische Anatomie 1812, s. 708. Sezionò una bambina neonata senza le parti sessuali esterne, la quale aveva solo una cloaca che s’ apriva all’ esterno, in cui mettevano foce i due corni uterini con va- gine assai brevi. La vagina sinistra comunicava con l’ uretra, e questa era congiunta coll’ intestino retto ristretto all’ estremità. Vi era poi un solo uretere che nasceva dai due reni posti sul sacro e che cadeva a perpendicolo nella cloaca comune. OSSERVAZIONE 3.° — Devilleneuve — Sur une nouvelle espèce de hernie naturelle de la vessie urinaire et sur une privation presque totale de sexe — Journ. de Méd. Chir., ete. Paris 1767, Tom. XXVII, p. £6. — 87 — OSSERVAZIONE 4.° — Dana Giovanni P. M. — Descriptio foetus absque pene et vulva, ultra biennium viventis, obscurique sexus ideo habiti — Mém. de V Acad. des Sc. de Turin. Tom. VIII, p. 309 — Année 1786-87 cum tabula. Non avendo riconosciuta l’ estrofia vescicale in un maschio, negò la presenza degli organi generativi esterni. OSSERVAZIONE 5.° — Fleischmann Gadofredo d’Erlangen (da non confondersi con Federico- Lodovico figlio adottivo del precedente) — De vitiis congenitis circa thoracem et abdomen. Erlangae (senza data) 1811, p. 33, Tab. II, III Un feto maturo aveva un’ ernia omfalo-ventrale, doppio ano-preternaturale, e la ve- scica orinaria extro-flessa. Era privo delle parti generative esterne e dell’ano, e nella regione generativa non si riscontrava che una rima perpendicolare. Internamente l’au- tore rinvenne i reni, gli ureteri che sboccavano nella vescica suddetta ed i testicoli spo- stati in diverso senso. è OSssRRVAZIONE 6.° — Denys Prosper-Sylvain — Archiv. gén. de Méd. 1824, Ser. I, Tom. IV, P. 562. Un uomo di 78 anni, mendicante, era paraplegico fino dall’ età di 10 anni, e presen- tava un ingrossamento osseo nel punto d’ unione fra le vertebre lombari e dorsali. Esso presentava uno stato atrofico della pelvi e degli arti inferiori; aveva i testicoli molto piccoli e l’ ano e l’ uretra obliterati dal lato esterno. L’uomo suddetto non evacuava alcuna sostanza (sia liquida, sia solida) per le vie maturali, tutto al più emetteva qualche goccia d’orina dall’ ombelico; ma suppliva, in quanto agli alimenti (che mangiava in copia), nel modo seguente. Dopo 7 od 8 minuti che i cibi erano giunti nello stomaco venivano facilmente vomitati, sotto forma d’ una pulte verdastra, schiumosa, di odore leggermente nauseabondo. L'autore non dice se T emissione dell’ orina accadeva per l’ ombelico o per altre vie, aggiunge però che i’ uomo non volle mostrarsi a nudo. (Abbiamo riportata questa osservazione straordinaria e quasi dimenticata, sebbene non riguardi l’ estrofia vescicale, perchè conferma quella di Bartholino, creduta in- verosimile). OSSERVAZIONE 7. — Reinecke — Ya! eines seltenen Vitium primae formationis — Deut- sche medicinische Wochenschrift 1881, N. 34, s, 468 — Jahresbericht fir 1881, Bd. I, .S. 280 (6). Una ragazza di 15 anni, d’abito debole e clorotico, aveva un’ernia ombellicale e la vescica estrofilessa da una fessura addominale. Nella vescica come al solito con- fiuivano le urine mediante gli ureteri. Mancava la sinfisi ossea del pube e del tutto man- cavano i genitali, cioè facevano difetto le grandi labbra, le ninfe, la clitoride, e 1’ adito vaginale. Solo due piccole strie cutanee coperte di peli si estendevano dall’ ano agl’ in- guini e due produzioni papillari sotto la estrofia vescicale formavano i soli indizii degli organi esterni. OSSERVAZIONE 8.° -— Curtillet J. — Un cas ‘ad’ eatrophie du cloaque interne accompagnée de l absence des organes génitauax et de malformations graves des organes abdomi- naua et du squelette — Archiv. provin. de Chirurgie. Année 2.°; 1893 (non verificato). =—28 Nora 5.° — Mancanza più o meno completa degli organi generativi esterni. OssERVAZIONE 1.° — Hali Rhodoham, medico dell'Egitto nel XI secolo — Commentarius in artem parva Gatleni; Libr. III, Art. medicinalis. Text. 77. Venetiis 1496 (secondo Haeser: Geschichte der Medicin). Vedi Schenck J. G. figlio — Observationum. Fran- cofurti 1609, Libr. IV, Obs. II. Vide un neonato che non aveva nè la vulva, nè il pene, né testicoli, da somigliare ai castrati. Vi era poi un piccolo foro da cui usciva l’orina. OSSERVAZIONE 2.° — De Blegny Nicolao — Zodiacus medico-gallicus. Genevae, 1680, p. 78; Obs. IX, Foetus sine sexus discrimine. Un feto di nove mesi non aveva altri indizii sessuali se non una esigua eminenza nella regione del pene da attribuirsi alla clitoride, nel mezzo perforata, quantunque non avesse alcun rapporto colla vescica. OSSERVAZIONE 3.° — Le Prieur de Lugeris en Champagne — Sur un enfantement — Journal des Savants; janvier 1690, p. 41. Questa comunicazione (non sappiamo come) è stata da Haller (Biblioteca anatomica. Tom. I, p. 740) attribuita a Faber J. Matthias — Journal des Savants 1690, ove ha il titolo — Foetus male formatus et absque partibus genitalibus. Nacque un fanciullo 9 giorni avanti il termine, lungo poco più d’un piede colle manî e coi piedi volti all’ esterno. La distinzione del sesso non era sensibile, vedendosi solo un foro in cui si poteva introdurre il dito mignolo nel luogo degli organi generativi maschili. Senza che noi aggiungiamo le altre cose mal descritte, basta quanto è detto per non poter dare alcun giudizio sulla deformità suddetta. OSSERVAZIONE 4.° — Prockaska Giorgio, Prof. a Praga — Adnotationum academicarum. Fa- sciculus alter. Sect. IV. p. 84. Pragae 1781, Tab. VII. Un aborto quadrimestre nacque con una porzione notevole dell’ intestino tenue pen- dente liberamente sotto il funicolo ombellicale. Questo aborto era affatto privo degli organi genitali esterni (i testicoli furono trovati entro l’ addome) ed aveva il foro anale molto esiguo. Dal poplite dell’ arto destro nasceva un breve moncone, di cui la punta era leggiermente curva e che conteneva una porzione d’osso, giudicato dall’ autore per una seconda tibia. L’arto poi suddetto aveva il piede atrofico e senza dita, che finiva con una punta arcuata. L’arto sinistro non offriva nulla di notevole. OssERVAZIONE 5.° — Ford Edv. — An account of a child born without organs of genera- tion. — in Simmons G. — Medical facts and observations. Vol. V, p. 10. London 1795 — - Foetus absque genitalibus (Citato da Meckel). Mancanza degli organi sessuali interni ed appena accennati gli esterni. L’ intestino retto sboccava nell’ uretra. OSSERVAZIONE 6.° — Penada Jacopo — Mostro umano singolarissimo. Memorie dell’ Acca- demia di Padova 1809, p. 49, con tavola. La gg cl Una giovane donna nel 1806 partorì con molta difficoltà un feto alterato da diverse: anomalie, che morì poco dopo la nascita, e poscia la madre si sgravò d’una mola molto voluminosa. Il feto presentava il tralcio ombellicale vicino alla sua inserzione addominale diva- ricato per accogliere un sacco erniario ovale, della grandezza di sei pollici di Parigi. Questo sacco era però aperto longitudinalmente, per cui si vedevano a nudo gl’ intestini tenui, ivi contenuti, e si vedeva inoltre il rene destro: organi tutti che erano esciti per il foro ombelicale. Il feto era privo di parti sessuali esterne e del foro anale, in modo che dal pube fino al coccige la superficie cutanea era liscia, senza alcun vestigio degli organi mancanti. Però entro l’ addome l’ autore rinvenne due piccoli testicoli ap- poggiati alla cellulare dei muscoli psoas. Eravi inoltre la vescica orinaria con un primo rudimento d’uretra nascente dal collo della stessa vescica, rudimento che tuttavia non cltrepassava i limiti della pelvi. D’altra parte mancavano i corpi cavernosi. Negli arti superiori si notava l’ aderenza delle dita fra loro mediante una membrana interposta. Negl’ inferiori l’ arto destro consisteva in una porzione di coscia, la quale non conteneva nè muscoli, nè osso, ma soltanto del molle tessuto cellulare; l’ arto si- nistro aveva le dita dei piedi, come quelle delle mani, riunite da membrane. L'autore attribuisce all’ urto della mola esistente nell’ utero lo squarciamento del sacco erniario ; alla pressione della medesima la mancanza di sviluppo d’un arto ed il difetto delle parti generative esterne ; e per rendere più verosimile quest’ azione mec- canica immagina che la mo/a coabitasse negli stessi involucri del feto. OssERVAZIONE 7.2 — N. N. — Hufeland’s journal der praktische Arsneikunde und Wund- arzsneikunde. Berlin 1812 (?). Oss. cit. da Fournier: Art. Cas rares. Dicf. des Sc. Med. (in LX Vol.) Tom. IV, p. 166. Paris 1813. Fanciullo di 3 anni, morto a Berlino, il quale era privo, tanto all’ esterno quanto all’interno, di qualunque traccia degli organi generativi, in guisa da non potersi sospet- tare quale fosse il sesso del fanciullo: però le inclinazioni ed il contegno del medesimo indicavano esser lui di sesso femminile. L’ orificio dell’ uretra non era circondato da alcun orlo ed aveva la grandezza d’ una mezza lente. Nulla fu rinvenuto fra l’inte- stino retto e la vescica. OSSERVAZIONE 8.° — Kretschmar — ZHorr’s Archiv. Bd. I. St. 3, s. 349. Berlin 1815 (Non verificato). OSSERVAZIONE 9.° — Baillet — Journal de Méd. Tom. LII ; 1822 (?). De infante sine geni- talibus et ano (non verificato). OSSERVAZIONE 10." — Schellier D. M. P. — Foetus monobrache, monopode et agame, par- venu à peu-près au terme de la naissance — Archives génér. de Médec. Tom. III, p. 415. Paris 1823. Il feto nacque morto e presentava le seguenti particolarità. Il braccio destro aveva l’omero rappresentato da un osso, lungo mezzo pollice; mancava del radio, ed aveva la mano assai imperfetta. In luogo dell’ arto addominale destro vi era, in corrispondenza alla cavità cotiloide, un piccolo sacco cutaneo, analogo imperfettamente allo scroto, che era vuoto e non comunicava colla cavità addominale. Vi era inoltre atresia dell’ ano. L'autore non descrive lo stato della cute al perineo in seguito alla mancanza degli or- gani generativi esterni, già annunziata nel titolo. Aperto l’ addome, si vide la porzione sigmoidea del colon, che in luogo di discendere raggiungeva il funicolo ombellicale ove terminava a fondo cieco. L’ appendice cecale aveva origine nel punto in cui il cieco si unisce col colon, ed era lunga 3 pollici. Man- Serie V. — Tomo IV. 12 On cavano i reni, e non le capsule sopra renali; facevano parimenti difetto la vescica ori- naria e tutto il rimanente delle vie orinarie. Vi erano finalmente due corpi glandolosi, senza condotti escretori, dei quali l’ autore non potè decidere se fossero le ovaie o i testicoli: un corpo era situato a destra della colonna vertebrale, l’ altro vicino all’ anello inguinale. OSSERVAZIONE 11.° — Rossi Francesco in Torino -— Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino. Tom. XXX, p. 155; 1826. Obs. I. De vaginae obstructione. Fu chiamato il Dott. Berruti a visitare una sposa di 28 anni, che da tre giorni era in preda a dolori come quelli del parto e che non era mai stata mestruata. Il medico suddetto, essendosi accorto che mancava ogni traccia degli organi genitali esterni e dei peli sul pube, inviò Vl inferma nell’ Ospedale di S. Giovanni. Il Dott. Rossi ivi verificò la mancanza della vulva e per fino della rima; rinvenne però un foro assai angusto da cui fiuiva l’ urina, e l’orificio dell'ano in condizioni nor- mali. Ritenendo trattarsi di ritenzione dei mestrui (sebbene le mammelle fossero turgide), fece una incisione che partiva sotto il piccolo foro urinoso e giungeva vicino all’ ano ; ma approfondandola per 3 dita s’ incontrò con un corpo che riconobbe per la testa d’un feto, ed allora dilatò la medesima, ciò che permise l’ espulsione del feto stesso. Ripetendo poscia l’esame delle parti esterne l’autore rinvenne finalmente un foro angustissimo vicino allo sfintere dell’ ano, pel quale con un sottile specillo si giungeva in vagina, e dal quale uscivano i lochi. Dopo 8 giorni comparvero i segni esterni della pubertà, e dopo due anni la donna partorì naturalmente con grande difficoltà per la via artificiale. Il marito poi confessò d’ aver esercitata la copula per l’ intestino retto. OSSERVAZIONE 12.° — Faber G. F. Carolus di Magdeburg — Duorum monstrorum huma- norum Diss. Berolini 1827, cum tab. Feto ben conformato superiormente, ma inferiormente presentava un’ ernia intesti- nale nel funicolo ombellicale, l’ atresia dell’ ano, i piedi imperfetti con diminuzione no- tevole nel numero delle dita, e mancanza degli organi generativi esterni, eccetto due verruche cutanee ai lati del pube. Nell’addome si trovarono due testicoli, l’intestino retto chiuso all’ estremità, ì reni, gli ureteri e la vescica mancanti completamente. OSSERVAZIONE 13. — Jenisch — Wèrtembergisches Correspondensblatt. Bd. VII, N. 7 — Schmidt s Jahrbicher 1840; Bd. XXVIII, s. 141 — Oss. cit. da Ahlfeld. Fu estratta una fanciulla morta senza indizio di genitali e dell’ orificio anale. In luogo del piede sinistro essa aveva un rudimento lungo un pollice e mezzo e grosso come il dito indice, contenente un osso sottile. La metà sinistra della pelvi era atrofica. OSSERVAZIONE 14.° — Gurney — Lancet. London 1840, Vol. I, N. 26 — Cit. da Ahlfeld. Archiv. fur Gyndle. 1879, s. 280. Nel luogo dei genitali d'un feto si vedeva un prolungamento cutaneo, sotto il quale si presentava un glande. Del resto niun indizio di scroto, di grandi labbra, d’ apertura vaginale, uretrale e rettale. Oltre di ciò il feto aveva il braccio destro accorciato, con sole 4 dita, e l’ arto inferiore dello stesso lato parimenti corto, col piede torto. Non fu fatta la necroscopia. OSSERVAZIONE 15.° — Friese — Casper’s Wochenschrift 1841, N. 52 — Ahlfeld. Archiv. fùr Gyndkologie. Bd. XIV, s. 281. Berlin 1879. Un fanciullo neonato non aveva alcun indizio esterno degli organi generativi, ed invece dei medesimi vi era un tumore cutaneo che si estendeva sino all’ orificio dell’ ano. Est 0) | ret Mancavano i testicoli, gli epididimi, i condotti e le vescichette seminali. La vescica aveva la grandezza d’ un uovo di piccione coll’ uretra rudimentale e chiusa; l’ ano in- vece era pervio. OssERVAZIONE 16.° — Magee W. — Case of absence of external genitals and formations of on artificial vagina — Lancet. London 1841-42, Tom. II, p. 575. (Non verificato). OSssERVAZIONE 17." — Vrolik W. — Tadulae ad illustrandam embryogenesin ect. Amstelo- dami 1849; Tafel LXIII, fig. 1. Il feto era ottimestre, senza arti inferiori, però nella cavità cotiloide sinistra giaceva la testa del femore. La pelvi si mostrava rudimentale e l’ileo destro appena accennato. Non si vedeva alcun indizio degli organi generativi esterni, e sotto l’ inserzione del fu- nicolo ombellicale vi era un piccolo canale (di cui non è detto il significato). Il rene sinistro mancava, il destro comunicava colla vescica mediante il proprio uretere. Il funicolo ombellicale conteneva una sola arteria e circondava il collo e l’ ascella sinistra del feto. OSSERVAZIONE 18.° — Kristeller — £rnorme Ausdehnung der Harnblase bedingt durch Fehlen der Harnròhre — Monatsschrift fur Geburtskunde. Bd. XXVII, s. 165, Berlin 1866. La enorme gonfiezza dell'addome obbligò l ostetrico all’ estrazione artificiale del feto, il quale mostrava 1’ età incirca di 7 mesi, ed aveva il funicolo (flaccido e sottile) aderente all’ addome per 5 cent. sopra la sua inserzione all’ ombellico. Mancava 1’ o- rificio dell’ ano, e nel perineo non vi era alcun indizio delle aperture genito-orinarie. Per contrario si vedeva sopra il monte di venere una papilla, grande come un grano di arena, fiancheggiata da due piccole pieghe cutanee, senza alcun orificio, da simulare il rudi- mento d’ una clitoride. Nell’ addome e fuori del peritoneo vi era un gran sacco in cui penetravano i due ureteri. Il sacco aveva una circonferenza di 45 cent., senza alcun foro d’ uscita e sol- tanto comunicava coi due’ ureteri, era tappezzato dalla mucosa con diverse specie di epiteli (che l’autore non descrive, nè rappresenta) e con pieghe trasversali. Nella pelvi l’autore non rinvenne alcun altro organo. Il funicolo ombelicale aderiva al sacco orinario. Fra la parete addominale ed il sacco suddetto, sopra all’ inserzione del funicolo scorrevano da destra a sinistra trasversalmente due canali paralleli, coloriti in rosso, lunghi tre cent., ripiegati ad ansa, all’ inferiore dei quali era attaccato un organo glan- dolare grande come ur’ orcia; ed il medesimo canale non mostrava alcuna comuni- cazione colla vescica; sicchè fu creduto una tuba falloppiana con una ovaia. IL’ intestino crasso finiva cieco nella parte superiore posteriore della vescica; gli altri visceri erano spinti in alto dal sacco orinario. L’autore mostrò il mostro a Virchow, il quale lo ritenne per una femmina, e giu- dicò il sacco, che a primo aspetto sembrava una semplice vescica orinaria, come un sacco genito-urinale, cioè composto della vagina, dell’ utero e della vescica, desumen- dolo dalle diverse specie di epiteli. OSSERVAZIONE 19.° — Mueller A. D. —- Verschiedene Missbildungen bei einem neugeborenen Kinde — Ugeskrift for Laeger. R. III, Bd. V, s. 329. Kopenhagen 1868 — Jahresbericht Wur1868MB%1, Ss. 175. In una femmina, che morì 33 ore dopo la nascita, mancava la parte inferiore della gamba sinistra, il di cui moncone era ricoperto dalla pelle, la quale era bensì mobile, ma all’ estremità presentava una crosta disseccata. Le porzioni superstiti della tibia e = ip della fibula si conservavano distinte sino alla fine ed esternamente al periostio si ri- scontrava una sostanza caseosa, bianco-gialliccia ed un fluido puriforme. Mancavano i genitali esterni, non riscontrandosi che un solco cutaneo lungo 3 cent. situato posteriormente alla sinfisi del pube ; nella estremità superiore di questo solco eeravi un piccolo foro pel quale il feto emise un poco d’ urina. Non eravi traccia del- l’orificio anale. All’ autopsia si trovò mancare porzione del colon e l’ intestino retto. La vescica uri- naria aveva la grandezza d’ un pomo, con la tonaca muscolare molto ingrossata ed era priva dello sbocco degli ureteri, essa però si continuava coll’ uretra (la quale sboccava esternamente nel punto indicato) e comunicava posteriormente con un’altra cavità; poichè di dietro della vescica orinaria vi erano altri due sacchi presso a poco di eguale grandezza ; l’ uno sporgendo a destra, l’ altro a sinistra. Il destro era pieno d’urina e comunicava colla parte posteriore della vescica vicino all’ origine dell’ uretra con una apertura la di cui circonferenza era di 3 mm. Questo sacco era formato dalla vagina, la quale inferiormente finiva a fondo cieco sotto il collo della vescica ed in alto abbrac- ciava il collo dell'utero; essa poi aveva le pareti molto grosse e la mucosa increspata trasversalmente. L’ utero era lungo 3 cent. Il sacco situato a sinistra della vescica era invece l’effetto della dilatazione dell’ uretere sinistro, diviso in concamerazioni, il di cui sbocco in vescica non fu rinvenuto, ma che doveva preesistere essendosi trovata del- l’orina nella medesima. Dallo stesso lato la capsula soprarenale aveva la grandezza ed il posto ordinario ; il rene invece era molto piccolo, collocato sulle vertebre lombari, e dava origine all’uretere suddetto, il quale però avanti di discendere saliva verso sinistra. Il rene destro trovavasi al suo posto ordinario affetto da degenerazione cistica, ed il suo uretere era molto sottile e terminava a fondo cieco nel connettivo fra la vagina e la vescica orinaria. L’ esofago presentava l’ ordinaria chiusura sacciforme nella sua parte superiore, mentre la parte inferiore sboccava nella biforcazione della trachea. Tutti gli altri organi erano sani. OSSERVAZIONE 20.° — Eisenach H. P.?di Rotenburg — Zin weiblicher Foòtus ohne Harn, Darm, und Geschlechisòffnungen, daneben Meropus — Inaugural-Dissert. su Marburg. Rotemburg 1873. Un fanciullo del resto ben conformato aveva gli arti inferiori aplasici, senza indizio d’ aperture nella regione perineale, e senza parti sessuali. In quanto alla pelvi l’ autore rilevò soltanto che era appianata colla distanza di 7 cent. fra le due creste anteriori superiori degli ilei, e che la sinfisi del pube era riconoscibile col tatto e sembrava chiusa e trasparente. Coi rispettivi cotili si articolavano mobilmente i due arti, di cui il sini- stro mancava della fibula e del piede, ed il destro era deforme ed aplasico. Si trovarono voluminose le capsule soprarenali, mentre mancavano i reni e gli ure- teri, eccetto un piccolo gomitolo bruno scuro a sinistra. Dal medesimo lato era ricono- scibile un ovaio, ed una tromba in rapporto con una cloaca, fornita d’ uraco pervio, il quale andava all’ ombellico. Vi era una sola arteria ombellicale. OSSERVAZIONE 21.° — Pinard — Bullet. de la Soc. Anatom. Ser. 5.8, Tom. XVIII, p. 696 — Lancereaux E. — Traîité d’ Anatomie Pathologique. Tom. I, p. 121; Nota 1. Paris 1875. Feto acranico con spina bifida totale, senza organi generativi esterni. All’ autopsia si trovò l’ esofago trasformato in cordone, il quale in tal stato aderiva inferiormente alla trachea, e raggiungeva lo stomaco. L’intestino retto era pieno di meconio e finiva a punta, che si perdeva nel fondo della pelvi. Mancavano i reni, gli ureteri, la vescica, e gli organi genitali interni. Esisteva però al disotto del fegato un corpo glandolare, grande come una lenticchia, e si trovò un corpo simile nella pelvi; ma l’autore non ne determina la natura. OSSERVAZIONE 22.° —- Baistrocchi Ettore Assistente all’ Univ. di Parma — Rivista clinica di Bologna 1882 (Estratto). Un feto macerato pesava 2360 grammi ed era lungo 42 cent. Esso presentava di singolare la mancanza degli organi genitali esterni ed il ventre assai voluminoso (l’ au- tore tace sullo stato del perineo, dell’ano e non esclude qualunque pertugio). Aperto l’ addome escì in copia siero sanguinolento (330 cent. cub.), e tosto si pre- ‘sentò un tumore sferico, grande come la testa del feto stesso, e fluttuante, che con- ‘teneva del fluido urinoso, sicchè non trovando altrove la vescica l’ autore ritenne che il tumore stesso fosse la vescica dilatata. Non mancavano né lo stomaco, né la milza, né il fegato, nè il pancreas. L’intestino tenue, senza comprendere il duodeno, era lungo 95 cent. ed il colon 38; questo terminava nella faccia superiore della vescica, a cui ‘aderiva. Anteriormente alla vescica l’ Aut. trovò a destra una ovaia colla rispettiva tromba falloppiana, ed a sinistra un cordoncino tubulato senza ovaia, e tanto questo quanto la tromba si inserivano in una piccola cavità periforme coll apice in basso, considerato -dall’ autore per un utero rudimentale. Vi era un sol rene (non è detta la sede) che aveva «due ureteri, i quali decorrevano in modo serpentino fra gli strati anteriori della vescica e sboccavano a sinistra, fra loro vicini entro la medesima. Nella parte superiore della ‘vescica vi era un altro pertugio che corrispondeva al punto in cui aderiva il crasso, ma non comunicava colla vescica. Sul rene vi era una piccola capsula, così pure a ‘destra ve ne era un’altra manifesta (non possiamo però escludere che la seconda non :sia altro che la prima). In quanto poi al cordoncino posto a sinistra l’ autore dice che il suo estremo su- ‘periore non era libero, ma che internavasi pur esso nella parete della vescica e rag- «giungeva il rene suddetto e non l’ ovaia ; per altro non si pronunzia sulla natura di tale ‘cordoncino, né sul rapporto assunto col rene. Così pure tace se vi era alcuna traccia ‘dell’ uretra e del meato uretrale interno. Trovò ‘finalmente una sola arteria ombelicale ‘in continuazione d’ una iliaca primitiva (non è detto il lato). ‘OSSERVAZIONE 23.° — Guttmann P. — Fal! von Scheinswitterbildung — Berlin Klinick Wo- chenschrift. 1882, N. 35, s. 544 — Jahresvbericht fir 1882, Bd. I, s. 277. Un neonato aveva la clitoride imperforata con tre corpi cavernosi. Mancavano la ‘vulva e l’introito vaginale. La vagina e l’ uretra sboccavano insieme sotto la clitoride «con una apertura grande come la testa di uno spillo, a guisa del seno uro-genitale. In- ‘ternamente apparvero normali gli organi femminini. La bambina di 4 mesi era giudicata per un maschio. OSSERVAZIONE 24.° — Hubert — Description d’ un foetus monstrueue du genre des agé- .nosomes — Journal de méd. de Bruxelles 1887, N. 20. In un feto i genitali erano rappresentati da un piccolo nodo carnoso fra le gambe. ‘Oltre di ciò mancavano la vescica e l’ ano. A sinistra del ventre si trovò una larga ‘apertura per la quale erano usciti il fegato, diviso in 2 lobi, ) omento, un rene e molti intestinìi. Gli arti inferiori si mostravano assai deformati, la testa era coperta di capelli molto lunghi e la colonna vertebrale scoliotica. Niun indizio d’ eredità. OSSERVAZIONE 25.° —- Snow L. B. — Total Absence of all Organs of Reproduction — Me- dical Record. New York 1892, Vol. XLI, s. 41 (non verificato), OSSERVAZIONE 26. — Sharpe D. G. — Medical World. Philadelphia 1893 (Cit. da Sajous; Annual). = Q4j — Nacque un fanciullo coll’ ano imperforato e colla mancanza assoluta degli organi genitali esterni (E taciuta la necroscopia). Nota 6.° — Atresia della vulva. OSSERVAZIONE 1.° — De Marchettis Pietro Medico Padovano — Sy//oge rariorum observatio- num cum additionibus posthumis. Patavii 1675, p. 132. (La prima Ediz. senza le aggiunte è del 1664). « Osservai una nobilissima fanciulla dell’ età di due anni sofferente per la congiun- zione delle labbra delle pudende e della vagina, rimanendo però illeso il meato orinario. Affinchè manifestamente apparisse la natura, fui costretto ad incidere ed a separare fra di loro le labbra e la vagina. In mezzo al taglio fui costretto a mettere una torunda imbevuta con albume d’ ovo e con acqua di rose per i primi cinque giorni, e per gli otto seguenti con unguento di biacca canforato ». OSSERVAZIONE 2.° — Osiander F. B.— Arnalen der Entbindungslehranstalt ete. Bd. I, s. 159. Gottingen 1800 (Atresia delle ninfe in una bambina di 2 anni). OSSERVAZIONE 3.° — Goeze — De Atresia. Helmstadt 1802, p. 41 (in una ragazza adulta). Oss. citata da Voigtel — Patho!. Anat. Bd. III, s. 425; 1805. OSSERVAZIONE 4.° — Steinmetz F. — UVeder Atresia vulvae — Rust's Magazin fiir die ge- sammte Heilkunde. Bd. XI, s. 477. Berlin 1821. OSSERVAZIONE 5.° — v. Hempel in St. Goar. — Labdior. pudend. bei einem 14 Tage alten. Kinde operirt.— Gemeinsame deutsche fitr Geburtskunde. Bd. VI, s. 145. Weimar 1825.. OSSERVAZIONE 6.° — Moczynski — De atresia pudend. — Diss. Berolini 1850. OSSERVAZIONE 7.° — Bouchacourt A. — Recherches sur l’ atrésie vulvaire. — Bullet. de la Soc. de Chir. de Paris, 1855-56, Tom. VI, p. 316. Discussion. — Gaz. des hòpitaux de Paris 1856, Tom. XXIX, p. 10. OSSERVAZIONE 8.° — Cooley F. — Occlusion of the labio majora: operation. St. Louis Med. et Surg.jour.1856; Tom. XIV, p. 239 (Citato dall’ Index Catalogue of Washington). OssERVAZIONE 9.° — Hutin — De ?’ atrésie vulvaire congénitale — Gaz. des hòpitaux. Paris 1856, p. 298. OssERVAZIONE 10.° — Antal G. — Atresia vulvae labialis. Budapest 1896. OSSERVAZIONE 11.° — Ogle G. C. — Abdsence of external organs of generations— Maryland M. J. Balt. 1878, Tom. III, p. 307. OSSERVAZIONE 12." — Mabaret der Basty — Abdserce d’ una partie des organes génitaua eaternes chez deux soeurs. — Le Progrès médical. Paris 1890, Tom. XII, p. 503. L’autore descrive soltanto i caratteri offerti dalla sorella minore essendo più appa- = fo riscenti di quelli rinvenuti nella maggiore. La sorella minore aveva 25 anni, era robusta colla figura piuttosto mascolina ed aveva il sistema pilifero sviluppato per tutto il corpo, in guisa da doversi spesso tagliare la barba; aveva le mammelle rudimentali. La pelvi mostrava i caratteri femminini, ed in luogo degli organi generativi si ve- deva un solco profondo che dal pube andava all’ ano. Nella parte superiore di questo solco, subito sotto alla sinfisi del pube, vi era la clitoride, lunga 4 cent., suscettibile d’ erezione, contornata all’ estremità da una piega cutanea (che l’ autore non vuole con- siderare per un prepuzio). Sotto alla medesima vi era il foro uretrale, e poi ad egual distanza fra l’ uretra e l’ano si penetrava, con qualche difficoltà, mediante una sonda, per la fessura suddetta in uno stretto canale, profondo 5 cent.; e la donna riferì che per tale orificio scolavano facilmente ogni mese i mestrui. Mancavano completamente le grandi e le piccole labbra. OSssERVAZIONE 1.3° — Rauschning P. — Veder congenitale Verwachsung der kleinen Labien, nebst Darstellung dreier diesbeziiglicher Folle — Diss. Kònigsberg, 1890; Tafel 4. '‘OSsERVAZIONE 14.° — Benivieni Antonio Fiorentino — De abdditis nonnullis ac mirandis morborum et sanationum causis. Florentiae 1506. Trad. ital. per opera di C. Burci Firenze 1843, p. 68. Oss. XI. L’ autore racconta che un’ ulcera maligna distrusse la vulva d’ una donna, e questa mulladimeno sopravisse 10 anni. Ora 1’ /rndex-Catalogue di Washington pone questa osser- vazione (che va tolta dal presente elenco) fra le deformità congenite dei genitali femmi- nini, poggiandosia Dodonaeus R. (Med. obs. exempla rara,12*. Coloniae 1581, p. 155). Nora 7.* — Mancanza congenita dei due testicoli (Anorchia duplex) verificata nel cadavere. -«OssERVAZIONE 1.° — Cabrol Bartolomeo — A/phadet anatomique. Tournon, 1594; Lyon 1614, p. 84. - Un soldato colpevole di stupro fu appiccato, e l’ autore facendo la necroscopia non ‘trovò i testicoli nè nello scroto, nè internamente. ‘OSSERVAZIONE 2.° — Anonymus — Commercium litterarium. Norimbergae Ann. 1732, Eb- domas II, p. 10, par. 5°. Morto nella piazza d’ Hannover un fanciullo mendicante, con gran sorpresa nel ca- .davere non si trovarono i testicoli, né nello scroto, nè internamente all’ addome, \OSSERVAZIONE 3.° — Schulzen — Descriptio foetus hydrocephal. Upsal (senza anno). Questa pura indicazione è stata data da Mekel J. Fr. come esempio della mancanza dei due testicoli (Zandb. der patholog. Anatomie Bd. I, s. 685, nota). Ma nè Gruber, né altri sono riusciti a verificare questa dissertazione per ricavare la storia del caso. ‘OSSERVAZIONE 4.° — Kretschmar — Beobachtung eines widernatiirlichen Afters und eines Mangels der Samenwerkszeuge bei einem Neugebornen, oder eines natùrlichen Ka- straten. — Archiv. fiir mediz. Erfahrung von E. Horn. Bd, I, s. 349; Leipzig 1801. Un bambino che visse 8 giorni era senza l’ano e senza testicoli, poichè 1’ autore — 196 — non li rinvenne né nello scroto (che era bipartito), nè nelle parti molli, nè sotto i reni. Mancavano ancora i vasi deferenti e le vescichette seminali. OSSERVAZIONE 5.° — Fischer A. di Boston — The American Journal of the med. Sciences. Philadelphia 1838, Vol. XXIII, p. 352 — London med. Gaz. Vol. XXVIII, p. 817. Un computista di 45 anni, morto per pneumonite, aveva la voce femminina, era senza barba e mustacchi, e non dette mai indizio di possedere gli organi generativi. Nel cada- vere si trovò lo scroto piccolo, flaccido e senza testicoli. La tunica vaginale comune era da ogni lato normale ; su di essa s’ espandeva il cremastere e vi giaceva come al solito il funicolo spermatico di piccolo volume. I vasi deferenti erano in ambidue i lati dell’ ordinaria grossezza e terminavano all’ estremità del funicolo in un sacco cieco. OSSERVAZIONE 6.° — Friese — Merkwirdige Missgeburt — J. LL. Casper: Wochensschrift fiùr die gesammte Heilkunde. Jahrgang 1841 (Berlin) s. 848, N. 52. Un feto lungo 18 pollici morì dopo '/ ora dalla nascita. Era privo dei genitali esterni ed invece presentava un orlo cutaneo esteso fino all’ ano. Nel braccio destro mancava la mano, e nell’ antibraccio le estremità dell’ ulna e del radio s’allontanavano fra loro per 4 pollici, rimanendo congiunte mediante una membrana senza muscoli. Dietro all’ anello inguinale vi erano due vescichette, grandi come un pisello, piene di fiuido acquoso che stavano in rapporto col peritoneo. Non vi era alcun indizio dei testicoli, degli epididimi, dei funicoli spermatici e della prostata. L’ uretra era solo riconoscibile nella sua origine, il rimanente era obliterato.. Le altre parti del corpo si mostravano ben formate. OSssERVAZIONE 7.2 — Le Gendre et Bastien — Anorchidie double observée sur un foetus. — Soc. di Biologie. Ann. 1859, p. 144. — Gaz. méd. de Paris. Ann. 1859, N. 4, p. 650. In un feto che aveva respirato, gli autori videro lo scroto piccolo, flaccido, e vuoto; ed aperto l’addome non vi trovarono nè i testicoli nè gli epididimi, bensì in ciaschedun ca- nale inguinale vi era un funicolo spermatico, senza prolungamento peritoneale. I vasi deferenti principiavano nello scroto alcuni millimetri sotto l’ anello inguinale esterno coll’ estremità arrotondata, per un tratto circondati dai fasci appartenenti al Gudernacu- lum testis e terminavano nelle vescichette seminali. I vasi spermatici si mostravano meno grossi del solito; normali tutti gli altri organi. OSSERVAZIONE 8.° — C©odard Ernest — Recherches tératologiques sur Vl appareil seminal de V homme. Paris 1860, p. 84, PI. V et VI. Morì ail’ Ospedale della Carità di Parigi un cesellatore di 61 anni per una affezione di cuore. Esso era stato debole di fisico e di carattere, senza barba, coll’aspetto femminino; amava le bevande spiritose ed era spesso ubriaco. Il cadavere era lungo 1 metro e 72 cert., coi capelli biondi misti a bianchi e con peli rossastri ai cavi ascellari e sul pube. Il pene era grande come il dito piccolo. Lo scroto mancava completamente ed in luogo del medesimo la cute era leggermente piegata, lasciando visibile il rafe. I canali inguinali erano vuoti. Anche nell’ addome e nella pelvi furono cercati inutilmente i testicoli e gli epididimi. I vasi deferenti avevano ognuno il diametro di 1 */» mill., escivano dalla prostata alquanto tortuosi, scorrevano attorno alla vescica orinaria e si convertivano in un filamento, che terminava nel peritoneo della re- gione inguinale. Le vescichette seminali erano meno voluminose dei vasi deferenti, ed i vasi ejaculatori bene disposti. La vescica aveva un diverticolo della mucosa. OSssERVAZIONE 9.8 — Neuhaus Ernest — Ein seltener Fall von Aplasie der Hoden. Diss. Kiel 1890, s. 9 con tavola. Sg Un giovane di 21 anni, figlio di un salsamentario, dopo avere esternato a più per- sone il proposito di togliersi la vita, si impiccò. Esso aveva raccontato un anno prima a tre persone successivamente che suo padre l’aveva castrato in due volte: una quando era molto bambino e la seconda volta quando aveva 10 anni. Il cadavere era ben nutrito, senza peli alla faccia ed alle ascelle; però ve n’ erano alcuni sparsi sul pube. Il pene era grosso come un dito, col prepuzio ristretto. Lo scroto si mostrava assai piccolo ed incapace di contenere i testicoli e si vedevano pochi peli biondi sul pube; ma non si rinvenne alcuna cicatrice. Le glandole mammarie erano pic- cole, grandi incirca come un tallero. Internamente si trovavano i vasi deferenti molto piccoli; dal lato destro mancava totalmente il testicolo, e dal lato sinistro vi era un rudimento dell’epididimo e del testicolo in forma allungata. Per queste circostanze (e per altri argomenti) l’autore escluse la verità del racconto fatto dal suicida. î Nota 8.8 — Senza uretra. OSSERVAZIONE 1.° — Petit J. L. — Traifé des maladies chirurgicales (Quvrage posthume). Paris 1774. Oss. citata da Surmay. « Vidi una bambina di 4 anni che era nata senza uretra, senza ninfe, e senza clitoride, Essa aveva una vagina assai larga; e poichè emetteva le urine involontariamente, sup- posi che mancasse lo sfinctere. « Ne vidi un’ altra che possedeva ben conformate la vulva, la clitoride, le ninfe e le grandi labbra, ma era priva di tutta luretra e del collo della vescica. Essa emet- teva l’ urina daila vagina per un foro molto largo, che permetteva l’ingresso del pic- colo dito ». OSSERVAZIONE 2.° — Smidt E. — Singular case of malformation of the sexual organe with absence of the uretra — London medical Gazette 1843-44, Tom. XXXIII, p. 174. OSSERVAZIONE 3.° — Delbovier — Développement énorme de la vessie et des parois abdo- minales chez un foetus d’environ huit mois. — Annales de ta Soc. des Sc. Méd. et natu- relles de Bruxelles 1842, p. 36. OSssERVAZIONE 4.° — Surmay medico in Ham (Aisne) — Absence complète de V urèthre et du clitoris; développement incomplet des petites et des grandes lèvres. Incontinence d’ urine — Bullet. de la Soc. Méd. d° émulation de Paris (1860-1866), 1867. Nouv. sér. p. 551 — Union Méd. Paris 1866. Nouv. sér. Tom. XXXII, p. 580. Una bambina di 14 anni affetta d’ incontenenza d’ urina era relativamente piccola e camminava oscillando ed allontanando le coscie. All’ esame si vide che il pube (monte di venere) non sporgeva, che le due grandi labbra non si riunivano superiormente (mancanza della commissura superiore), bensì inferiormente, e che non vi era alcuna traccia della clitoride e del prepuzio. Le piccole labbra erano rudimentali. Sotto la sinfisi del pube sporgeva un piccolo tumore rosso, sensibile, grande come una mezza ciliegia, Premendolo con un dito, esso cedeva e si convertiva in una cavità da contenere un uovo, da cui tosto esciva l' orina, e rimaneva una apertura assai larga sotto il pube, che non costringeva il dito, sicchè l’autore lo giudicò giustamente un pro- lasso di vescica, ma con troppa sollecitudine affermò che non vi era traccia d’ uretra e Serie V. — Tomo IV. 13 nt iQ neppure di sfintere vescicale. (Si deve avvertire che la madre non s’accorse dell’ inconti- nenza d’orina se non quando la figlia aveva l’età di 18 mesi e fu affetta da coqueluche intensa). Una piega mucosa costituiva l’imene di forma circolare in guisa che permette l’ introduzione in vagina del dito piccolo. L’ utero si riconosceva tanto per la via vaginale ; quanto esplorando ìa vescica. OSSERVAZIONE 5.° — Behncke. Da un giornale danese il — Jahresdericht fir 1875, Bd. II, s. 618. Una bambina di 3 giorni era nata senza uretra e la vescica sboccava in vagina. Dopo la nascita essa non aveva orinato e la vescica era molto piena. All’ esame si vi- dero le grandi labbra bene sviluppate, ma mancavano le piccole, la clitoride e l’orificio uretrale. Esplorando con un catetere la vagina, si trovò che essa era riempita di una sostanza gelatinosa, tenace, tolta la quale, tosto escì una certa quantità d’ orina, e con una sonda curva per la vagina si potè entrare in vescica. OSSERVAZIONE 6.° — Post — American Journal of Obstetric. Agosto 1885, p. 785 — Jahres- bericht fur 1885, Bd. II, s. 621 (103). Caso di mancanza completa dell’ uretra. Nell’ introito della vagina vi era una aper- tura con una specie di sfintere, per la quale la donna orinava, emetteva i mestrui, veniva accoppiata, e si introduceva un dito, giungendo tosto in vescica. Mancavano la vagina e l’ uretra. È, Ieraodian tomo IV a Aim SierL 5 a lo? a Fig. 1 a it Mazzoni e Rizzoli-Bologna E. Contoli lit. DI UN NUOVO ELETTROMETRO IDIOSTATICO PS SES INIST MK E MORE A ro: Ag GSO. ye EEE (Letta nella Sessione ordinaria del 28 Gennaio 1894). I.- Descrizione dell’ apparecchio. Ne! 1876 (*) descrissi un elettrometro idiostatico destinato a misurare alti potenziali, il quale per la sua forma può considerarsi come un elet- trometro a quadranti, dal quale sieno state soppresse le parti superiori di due quadranti opposti, e siano state messi in communicazione metallica i quadranti coll’ago sospeso. Esso rassomiglia perciò a molti dei voltametri elettrostatici che furono costrutti dopo. Tale strumento fu poi modificato, onde aumentarne la sensibilità, in occasione di una mia ricerca più re- cente: (**). Ho voluto dopo dare una forma definitiva a questo elettrometro, che fosse opportuna pei casì nei quali si richiede una sensibilità assai grande, ed è in tal modo che sono stato condotto a ideare e costruire l’ elettro- metro idiostatico del quale espongo qui la descrizione. Il nuovo elettrometro si può considerare come fondato sul principio seguente. S'immagini un condensatore ad aria costituito da due dischi metallici paralleli, fra loro comunicanti, e da una lastra metallica paral- lela ai dischi posta fra di essi e divisa in due »arti, delle quali una fissa e l’altra mobile nel proprio piano. Se fra le due lastre, fra loro comunicanti, ed i due dischi, sì stabilisce una differenza di potenziale, la lastra mobile sarà respinta dalla lastra fissa con una forza la quale, mentre sarà proporzionale al quadrato della dif- ferenza di potenziale, sarà pure tanto più grande, quanto maggiore è la (*) Mem. della R. Ace. di Bologna, serie III, t. VII (1876). — N. Cimento, serie 2°, t. XVI, p. 89. (**) Mem. della R. Acc. di Bologna, serie V, t. III, pag. 130 (1893). — 00 = densità elettrica sulle due lastre. Ora, questa densità si potrà accrescere indefinitamente, diminuendo le distanze che separano le due lastre dai due dischi. Con distanze estremamente piccole la ripulsione potrà produrre grandi spostamenti della lastra mobile, anche se la differenza di potenziale fra le lastre ed i dischi é assai piccola. | È con una disposizione di questo genere che ho potuto ottenere un elettrometro di sensibilità paragonabile a Fig. 1 quella degli ordinari elettrometri a qua- dranti, ma col grande vantaggio su que- sti, di non richiedere alcun potenziale di confronto. La fig. 1 mostra schematicamente le parti principali del nuovo elettrometro, disegnate però, per chiarezza, a distanze reciproche assal esagerate. . Un disco d’alluminio orizzontale ed assai sottile AB, ha un foro nel centro di 1,1 c. di diametro, e due larghe. fine- stre opposte in forma di settori, «abded, a'b'e'd'. I raggi degli archi de, d'e' è di 3,5 c. e quello degli archi ad, a'd' di 0,85 c., mentre l'angolo che fanno «ad con da'd ‘oppure cd con c'd' è di 60°. Al disopra si trova un ago d’alluminio CD avente la forma di due settori opposti di 60° riuniti da un dischetto centrale di 1,2 c. di dia- metro. Esso é portato da una sospensione bifilare, simile a quella di un elettrometro di Mascart. Il raggio di curvatura degli archi ef} e'f' è un po’ maggiore di quello degli archi de e d'e', e cioè 3,75 c. I’ago è collocato alla più piccola di- stanza possibile dai settori del disco A, ed anzi, quando é nella posizione di ri- poso, uno dei suoi lati rettilinei e'f oppure ef' corrisponde press’ a poco alla biset- trice dell'angolo formato da de' con de. Il filo di platino verticale, lungo 8,8 c. al quale l'ago è fissato, passa pel foro centrale (diametro 1,15 c.) d’un disco metallico orizzontale EY, avente 9,4 c. di diametro, posto sotto AB a piccolissima distanza; la sua estremità inferiore, che é leggermente schiacciata, pesca nell’ acido solfo- | i (0 ° rico concentrato posto in un vaso di vetro, e che ha. il triplice scopo, di mantenere secca l’ aria che circonda i dischi, di stabilire comu- nicazione stabile fra lago ed i settori fissi 50’, ce’, e di smorzare le oscil- lazioni dell'ago. Le deviazioni di questo sono lette al modo solito per mezzo d’uno specchietto .S fissato sul filo di platino (*). Nel mio apparecchio l’intero sistema sospeso, e cioé ago, filo di platino e specchio, non pesa chiegis en. Infine, al disopra dell’ ago mobile trovasi un disco metallico GH oriz- zontale, eguale in tutto al disco EF, se non ché mentre questo è fisso, l’altro può essere collocato a varie altezze, a cominciare da una distanza piccolissima dall’ ago mobile, sino a circa 2 c. I due dischi EF, GH in generale comunicano fra loro e colla cassa metallica che circonda le parti dell’istrumento gia descritte, e formano una delle armature del condensatore considerato più sopra. I settori fissi del disco AB e l’ago, sempre comunicanti fra di loro, costituiscono la seconda armatura. Se esiste una differenza di potenziale fra i due sistemi conduttori, lago devia, e la deviazione è sensibilmente proporzionale al quadrato di questa differenza di potenziale. La sensibilità sarà tanto mag- giore, quanto più vicini fra loro si saranno messi i due fili di sospensione, e quanto più piccole sì saranno ridotte le distanze fra i dischi ed i settori. Questo modo d’adoperare l’ elettrometro, che indicheremo come me- todo a), é quello che conduce alla massima sensibilità, ma non é il solo che si possa impiegare. Esiste, per esempio, un metodo 6) che dà minor sensibilita” Ne Nchefeonsiste mel mettere il disco inferiore EF, non già in comunicazione col disco superiore, ma bensi coi settori fissi e coll’ago. In questo caso si può considerare come nulla la densità elettrica sulle faccie inferiori dei settori e dell’ ago. La deviazione é allora prodotta solo dalla carica delle faccie superiori, la quale a parità di potenziali diminuisce se il disco superiore viene portato più in alto. La sensibilità dello strumento si rendera quindi di più in più piccola sollevando il disco superiore. Un semplice commutatore permetterà di passare istantaneamente dal metodo 4) al metodo 5), ciò che sarà assai vantaggioso quando abbiansi a misurare potenziali di grandezze assai differenti. Una volta che in ciascuno dei due metodi si sia misurata la deviazione prodotta. da una nota differenza di (*) Per preparare i piccoli specchi degli strumenti a riflessione, ho l’uso di argentare un gran numero di piccoli vetri copri-oggetti di forma circolare, e di 1 c. o anche meno di diametro, scegliendo i pochi veramente piani col provarli uno ad uno per mezzo di una scala e di un cannocchiale. Siccome però i vetri ben piani sono rarissimi, così ho trovato comodo fare una prima cernita, osservando le frangie d’ interferenza che mostrano allorchè, collocati sopra una lastra di vetro ben piana, vengono illuminati colla luce del sodio. Con un po’ di pratica si riesce così rapidamente a riconoscere quelli che sono quasi piani, che soli vengono poi inargentati. — 102 — potenziale (p. es. quella che fornisce una pila campione) si calcolerà la costante XK dello strumento, che entra nella formola V= Xy/a, la quale stabilisce la relazione fra le deviazioni lette a e le differenze di poten- ziale V che le producono. Si potrà ammettere che @ sia espressa in milli- metri della scala, giacché le deviazioni an- golari non sono mai troppo grandi. La fig. 2 mostra l’apparecchio completo, e coll’aggiunta di pochi schiarimenti varrà a darne una idea esatta. In questa figura l’ elettrometro è rappresentato senza una parte del manicotto cilindrico di metallo che lo chiude, la quale è movibile, e rappre- sentata a parte in X. Questo manicotto porta cinque "fimestre#4; 0, cit alehiusoedarvetrie e destinate a lasciar vedere nell’ interno, come pure la finestra f, chiusa da una lastra di vetro a faccie ben parallele, destinata alle letture. La base circolare d’ot- tone A, sostenuta da tre piedi d’ ebanite che ter- minano in viti di livello, porta un serrafilo B ed ha una larga apertura cen- trale, alla quale sì applica dal disotto un coperchio metallico che porta il va- setto dell’ acido solforico V. Intorno a questo sor- gono sei colonnette di ve- tro verniciato, tre delle quali sostengono il disco inferiore (quello cioé se- gnato EF nella fig. 1). L’asticella d’ottone C terminata da serrafilo, che Zi nce = arriva fuori dal manicotto, comunica con questo disco. Le altre tre co- lonnette sostengono un anello d’ottone comunicante col serrafilo D e fatto di due pezzi posti l’ uno sull’ altro e stretti assieme con viti. Fra questi due semianelli è stretta la lamina d’ alluminio frastagliata in modo da costituire i settori fissi (rappresentata con AB nella fig. 1). Resta facile IM il regolare la distanza fra il disco inferiore ed i settori fissi, e renderla piccola quanto si vuole, giacché le tre colonnette non sono fissate diret- tamente sulla base A, ma bensi appoggiate su tre molle che tendono a sollevarle, mentre esse possono essere tirate in basso per mezzo di ma- dreviti che sporgono sotto la base e che ingranano con viti fissate sul prolungamento delle colonnette. Il disco metallico superiore E (quello indicato con G/7 nella fig. 1) é rappresentato nella fig. 2 alquanto sollevato sui settori, onde questi siano ben visibili. Esso è sostenuto da un tubo di vetro verniciato G, nell’ interno del quale passano liberamente i fili di sospensione. Questo tubo non è fissato al coperchio dell’ istrumento, ma è invece portato da un largo tubo d’ ottone lavorato esternamente a vite e tagliato longitudina!mente in guisa da ridursi a tre striscie equidistanti p, g, r. Facendo girare la madrevite H7 si può allora alzare od abbassare il disco, che un sottile filo metallico JI mantiene in comunicazione col serrafilo ZL, fissato al coperchio coll’ inter- mezzo d’ una colonnetta di vetro verniciato. Nella fig. 2 ,S é lo specchietto ed M un tubo di vetro, alto circe 20 c., che sostiene il piccolo congegno per l’ attacco dei fili di sospensione, il quale è cosi costruito da permettere di variare facilmente l'altezza dell’ ago, la distanza dei due fili alla loro estremità superiore, e l’orientazione del loro piano. Onde 1’ elettrometro possa dare una sensibilità assai grande, occorre, come si é gia notato, che i settori siano ben piani e sottili, e che i due dischi siano paralleli ai settori, ed a distanza piccolissima da questi. Per soddisfare il meglio possibile a queste esigenze, si operò nel modo seguente. I settori fissi e l’ago furono fatti con lastra d’alluminio sottilissima. Si resero piani comprimendoli fra lastre di ferro a faccie piane, che ven- nero fortemente riscaldate, e poi lasciate raffreddare lentamente. Per mon- tare l’ istrumento si cominciò col verificare la posizione del disco inferiore, ponendo sul tornio la base dell’ istrumento, e rammollendo il mastice col quale il disco stesso è fissato alle sue colonnette. Dopo ciò, conveniva far in modo che il disco superiore fosse ben parallelo al disco inferiore. A questo scopo si collocò l’ apparecchio nella sua posizione normale, senza però mettere in posto l’ ago ed i settori fissi, e si abbassò il disco superiore. Allora si rammolli con una piccola fiamma il mastice col quale il disco superiore è attaccato al suo sostegno, sinchè esso si adagiasse liberamente sul disco inferiore. Allora vennero messi in posto i settori fissi, e agendo sulle tre madreviti annesse alle colonnette che li sostengono, si ridusse la distanza fra disco inferiore e settori, la più piccola possibile, forse un decimo di millimetro all’ incirca. Per rendere facile tale operazione si stabili un circuito elettrico con- tenente una pila ed un galvanometro, che si chiudeva se avveniva contatto fra i settori ed il disco. — 104 — Dopo ciò non restava che assicurarsi che l’ ago, liberamente sospeso, fosse col suo piano in posizione rigorosamente orizzontale. A questo intento l’ago veniva sospeso al disopra d’ una lastra di vetro ben piana, avente un foro per lasciare passare il filo di platino cui l'ago è fissato, e disposta in piano perfettamente orizzontale. Era facile allora far si che. l’ago potesse essere anch’ esso orizzontale, tanto da poter liberamente oscillare a distanza estremamente piccola dal vetro. Una volta montato l’apparecchio, prima di adoperarlo bisogna far si che sieno orizzontali i dischi, e ciò per mezzo delle tre viti di livello, osservando che il filo di platino si trovi nell’asse dei fori dei due dischi. Ciò fatto si abbassa l’ ago il più che è possibile, come pure il disco su- periore, se si vuol raggiungere la massima sensibilità. Il modo migliore di procedere è il seguente. Si abbassa l’ ago mentre oscilla finché s’ arresta. bruscamente toccando i settori, poi lo si solleva lentamente sinché ri- prende spontaneamente le sue oscillazioni. Analogamente si opera per avvicinare per quanto è possibile il disco superiore all’ ago. II. - lT'eoria dello strumento. Se l’ elettrometro viene adoperato per potenziali non tanto piccoli, e perciò si adotta la disposizione 6), per la quale il disco inferiore comunica. coi settori fissi e coll’ ago, non si ha altro a fare che determinare la co- stante X della formola V= Xy/a per mezzo d’una forza elettromotrice nota, per adoprare poi la stessa formola a determinare un nuovo po- tenziale V. La diversità di natura dei settori e dei dischi, anche se sono fatti con metalli diversi, non dà luogo ad errori sensibili. Ma se al con- trario i potenziali da misurare sono piccolissimi, cioé minori anche assai di 1 Volta e si addotta la disposizione a), allora la differenza di potenziale di contatto fra dischi e settori non puo essere trascurata. Questa differenza di potenziale non si può supporre nulla a priori, neppure se i dischi ed i settori si sono costruiti con un medesimo metallo, per esempio tutti in alluminio. Che la differenza di potenziale per contatto abbia una influenza no- tevole fu gia rilevato da Hallwachs in un caso analogo (*). Ammettiamo dunque che fra settori ed ago da una parte, e dischi dall’ altra, esista una differenza di potenziale V, allorchè sono in comuni- cazione metallica. Allorché tutte le parti metalliche sono fra loro in diretta. comunicazione, l’ago é dunque deviato d’una quantità a, dalla posizione (*) Wired. Ann. t. XXIX, pag. 1 (1886). — 105 — in cui si troverebbe se i dischi venissero infinitamente allontanati. Se K è la costante dell’istrumento si avrà V,= K/a,. Questa deviazione a, non si può misurare, anzi si usa di collocare la scala in modo che quando esiste la differenza di potenziale di contatto V, sì legga zero sulla scala medesima. Se ora si vuol misurare una differenza di potenziale V, questa viene aggiunta alla V, preesistente. E se a, è la deviazione che si legge allora sulla scala, si ha evidentemente V\+V=XK/a,+a,. Se si invertono le comunicazioni coll’ elettrometro, si avrà una devia- zione a,, e si potra scrivere V—V=kK/a,+a,. Dalle tre equazioni scritte si ricava : (1) V+2VVv,= K'a,, (2) V—2VVv,= K°a,. Si vede intanto che si ha a, = a, solo quando sia V,= 0. D’onde un metodo semplicissimo per scoprire se V, esiste o no. Si vede altresi che V V 5 see 5% é dello stesso segno di a,, e se V,> 5 è di segno con- trario.. Eliminando fra (1) e (2) una volta V, e una volta X, se ne ricava: (3) INVE Ra a), (4) (V+2VWMa,=(V—_2Va,. Colla (3) si determina X se V é una forza elettromotrice nota, per esem- pio quella d’una coppia campione, facendo le due letture a,, a, mentre la pila comunica nei due sensi coll’elettrometro. Colla (4) si potrà calco- lare V,, se lo si desidera. Una volta poi determinato X la formola (3) così scritta : (5) V_ K\/f 3 dg si applicherà nell’ uso corrente dell’istrumento. Essa mostra che devonsi Serie V. — Tomo IV. 14 — 106 — leggere le due deviazioni che produce la forza elettromotrice V messa in relazione coll’istrumento prima in un senso poi in senso opposto, e moltiplicare per X la radice della loro media aritmetica. | Però si possono stabilire altre formole che permettono di calcolare V in base alle due deviazioni a, ed a,. Per esempio la formola seguente è a preferirsi allorchè, come nel metodo che sarà descritto nell’ art. IV, la V é assai piccola di fronte a V,, nel qual caso a, ed a, sono di segni op- posti. Si risolva la (4) rispetto a V, poi si divida membro a membro la equazione (3) per quella così trovata. Si avrà: (6) V=--;(a,— 4a). Con questa formola, una volta determinati X e V,, oppure la nuova co- 2 stante av: Per mezzo d’una coppia campione, si calcola V, che, come 0 si vede, è proporzionale ad a, — a,. Se a, ed a,, sono di segni opposti, come nel caso dell’art. IV, allora a, — a, non é che lo spostamento letto sulla scala nell’atto d’invertire le comunicazioni coll’ elettrometro. Se poi V è estremamente piccolo di fronte a V, allora dalle (1) e (2) si ha approssimativamente le deviazioni a, ed 4, sono sensibilmente eguali e di segno contrario, e semplicemente proporzionali a V, come negli usuali ‘elettrometri a qua- dranti. Le ultime due formole si applicano solo quando si fa uso d’una pila per rendere grande V,, come nel metodo descritto nell’ art. IV. Nell’ uso ordinario dell’ elettrometro idiostatico si deve adoperare la (5), o la for- mola semplice V—=-K Na nel caso in cui si sia constatato assere V,=0. Nel mio apparecchio V, non è zero benché i dischi sieno d’alluminio come i settori. Forse si annullerebbe V, dorando settori, ago e dischi. — 107 — IIIl. - sensibilità dell’ istrumento. Ho misurato la costante XK del nuovo elettrometro, onde riconoscere il grado di sensibilità che possiede. Colla disposizione a), e cioé coiì due dischi in comunicazione fra loro, e dopo aver ridotta piccolissima la distanza dei fili di sospensione alla loro estremità superiore (circa un quinto di millimetro), ho misurato le deviazioni a, ed a, prodotte da una coppia Latimer-Clarke. Un polo della coppia comunicava coi due dischi e l’altro coi settori fissi e coll’ ago. Il valore di X è risultato eguale a 0,14, mentre la scala a millimetri sì trovava a 5 metri dall’ apparecchio (*). Ne risulta che una differenza di potenziale di 0,14 V. fra dischi e settori produce una deviazione di 1 mil- metro della scala, od anche che una differenza di potenziale di 1 Volta, dà una deviazione di circa 51 millimetri. Questa, che è la massima sensi- bilità raggiunta, é inferiore a quella che dà un elettrometro a quadranti usuale quando si tratti di minime differenze di potenziale. Ma bisogna ri- flettere che nel mio elettrometro le deviazioni crescono in proporzione dei quadrati dei potenziali, e perciò piccole variazioni di potenziali non troppo. piccoli, possono corrispondere a variazioni grandi della deviazione. Per esempio, per aumentare di 1 millimetro della scala la deviazione prodotta da una differenza di potenziale di 3 Volta, basta un aumento di circa 0,0033 Volta dato a questa differenza di potenziale. Si vede cosi quanto la sensibilità cresca al crescere della deviazione. Se il disco superiore, anziché essere vicinissimo all’ ago, é posto alquanto in alto, la sensibiltà naturalmente diminuisce. Ma diminuisce di poco, e la ra- gione sì é che non é possibile porre il disco superiore tanto vicino all’ago, quanto il disco inferiore può essere posto vicino ai settori fissi, senza im- pedire o almeno senza troppo smorzare le oscillazioni dell'ago medesimo. Lasciato il disco superiore assai vicino all’ago, ho poi messo il disco inferiore in comunicazione coi settori, cioé ho adottato la disposizione 5) dell’ art. I. Il valore di X é divenuto 0,76. E sollevando il disco supe- riore, K ha assunto valori di più in più grandi, come appunto doveva ac- cadere. Si vede cosi quanto la sensibilità sia minore colla disposizione 6) che colla disposizione a), ed anzi come diminuisce al crescere della di- stanza fra il disco superiore e l’ago. (*) Quando la scala si colloca assai lontana da un istrumento a riflessione, è comodo e van> taggioso separarla dal cannocchiale, e porre questo in vicinanza dell’istrumento, come indicai altre volte. — 108 — Siccome colla disposizione a) basta una differenza di potenziale di nep- pure 4,5 Volta perché la deviazione sia di circa un metro, che è la lun- ghezza usuale della scala, la disposizione 2) servirà quando si abbiano a misurare potenziali superiori a 4,5 Volta, e più questi potenziali saranno elevati, più si dovrà allontanare il disco superiore dall’ ago, onde ridurre la sensibilità nei limiti opportuni (*). IV. - Impiego dell’ elettrometro con pilia di confronto. Benché lo scopo principale dell’istrumento già descritto sia quello di dispensare dall’uso di una pila di carica, farò vedere in questo articolo, che l’istrumento stesso si può anche adoperare con una pila, nel qual caso la sua sensibilità diventa assai grande, e di molto superiore a quella degli elettrometri a quadranti. | Si mettano i due dischi in comunicazione con uno dei poli di una pila, ed i settori e l’ago coll’ altro polo. L’ago devierà assai, ma spostando la scala o meglio facendo girare nel senso opportuno la sospensione dei fili, si potrà far in modo che sulla scala si legga ancora lo zero. Aggiungendo allora nella comunicazione fra dischi e settori una nuova forza elettro- motrice V, ora in un senso ora nell’altro, si avranno due deviazioni a, ed a,, che in generale saranno di senso contrario, essendo ora V assai piccolo in confronto della differenza di potenziale stabile V, che esiste fra dischi e settori. La formola (6) farà conoscere V, una volta che colla lettura delle deviazioni prodotte da una coppia campione, si sia determi- nata la costante Di dell’ istrumento in tal modo adoperato. 0 Questo metodo, che concede una sensibilità grandissima per ogni istru- mento nel quale le deviazioni crescano come i quadrati delle quantità dalle quali le deviazioni stesse dipendono, corrisponde sostanzialmente ad uno che fu indicato dal Donati per la bilancia di Coulomb (**), e più tardi proposto pure da Hallwachs (***). Per dare idea della sensibilità che cosi si raggiunge, valgano le cifre seguenti. La pila di carica in una mia esperienza era costituita da 34 cop- pie rame-acqua-zinco. La costante #2 ebbe il valore 0,00174, e cioé lo 0 (*) Si può, in caso di bisogno, diminuire di molto la sensibilità, tanto nella disposizione @) che nella 6), allontanando i fili di sospensione alla loro estremità superiore. (**) N. Cimento, serie 2°, t. XIII, pag. 5 (1875). (OI — 109 — spostamento a, — a, prodotto coll’invertire le comunicazioni della forza elettromotrice incognita era di un millimetro della scala, allorché la detta forza elettromotrice era di 0,00174 Volta, cioè meno di un cinquecentesimo di Volta. Tale sensibilità potevasi poi aumentare ancora di molto, aumen- tando il numero delle coppie della pila di carica. Se le differenze di potenziale da misurarsi sono piccolissime in con- fronto della forza elettromotrice della pila, allora la formola (7) può ado- perarsi invece delle (6) e non si ha a leggere che la semplice deviazione, cui é proporzionale la differenza di potenziale che si misura, come av- viene cogli elettrometri a quadranti. Questo modo di far uso dell’ elettrometro qui descritto sarà vantaggioso quando si tratti solo di scoprire l’esistenza di forze elettromotrici picco- lissime, o di constatare minime variazioni di forze elettromotrici già esi- stenti. Occorreranno però certe precauzioni onde evitare inganni, la prin- ‘cipale delle quali consiste nel chiudere la pila di carica ed i corpi, nei quali si sviluppa la forza elettromotrice da misurare, entro una cassetta chiusa, che contenga anche il necessario commutatore, che verrà maneg- giato dal di fuori. Senza di ciò lo zero sarebbe assai instabile, bastando lievi correnti di aria a modificare momentaneamente i potenziali delle varie parti della pila di carica. V.- Modificazioni dell’ elettrometro. Sl é visto nell’art. III che la presenza del disco superiore poco con- tribuisce alla sensibilità dell’ istrumento, adoperato per potenziali piccolis- simi. Se dunque un elettrometro è destinato solo a potenziali assai bassi, ‘si può semplificarne di molto la costruzione sopprimendo il disco superiore. Si potranno poi sopprimere gli inconvenienti dovuti all’ acido solforico, adoperato come mezzo di comunicazione fra settori fissi e quadranti, fa- cendo la detta comunicazione per mezzo d’una foglia d’oro. L’idea di questa disposizione l’ho tratta da una esperienza di Hallwachs (*) e messa in pratica mi ha sembrato dare risultati assai buoni. Si lasci nell’ elettrometro il vasetto dell’ acido solforico, che non servirà più che per disseccare l’aria, se ne faccia uscire il filo di platino comuni- cante coi settori fissi e lo si pieghi orizzontalmente in modo che la sua estre- mità arrivi all'asse verticale dello strumento, si raccorci poi il filo di platino che porta l’ago, facendolo terminare subito al disotto dello specchietto, e si pongano in comunicazione i due fili di platino per mezzo d’una striscia (9) — 110 — di finissima foglia d’oro. Questa striscia che può essere larga un milli- metro o meno e lunga due o tre centimetri, viene avvolta sui due fili di. platino, e tenuta in posto con una traccia di gomma alle due estremità. Ho constatato che anche quando i fili di sospensione sono vicinissimi la foglia d’ oro non offre sensibile resistenza ai movimenti dell’ ago. Con questa disposizione è soppresso anche lo smorzamento che pro- duceva l’ acido solforico; ma lo smorzamento prodotto dall’ aria nello spazio ristrettissimo nel quale l’ ago si muove, è in pratica largamente sufficiente. Infine, si potrebbe grandemente aumentare la sensibilità dell’ elettro- metro, sostituendo alla sospensione bifilare, una sospensione a filo di quarzo del Boys. In tal caso, adoperando un filo di quarzo leggermente argentato (*) questo potrebbe anche servire a stabilire la comunicazione dell’ago coi settori. Però non credo sia opportuno un ulteriore aumento di sen- sibilità ottenuto in tal modo, giacché le oscillazioni dell’ ago assumerebbero una durata estremamente grande, e perciò praticamente assai incomoda. Ma la sospensione a filo di quarzo sarà assai opportuna se sì daranno all’ istrumento delle dimensioni assai piccole, come quelle dell’ elettrometro. a quadranti costruito dal Boys (**). È certo che con un filo di quarzo: finissimo si raggiungerebbe lo scopo di avere un elettrometro idiostatico assai sensibile, di dimensioni piccolissime, ed il cui ago avrebbe un periodo d’ oscillazioni non troppo grande. Aggiunta. Durante la stampa della presente Memoria ho ricevuto dal Prof. Boys alcuni fili di quarzo da lui per me fabbricati. Godo che mi si presenti qui l’ occasione di ringraziarlo vivamente per la sua cortesia. Ho quindi potuto assicurarmi della maggior sensibilità che acquista il mio elettrometro sospendendo l ago ad uno di questi fili. Il filo impiegato é lungo 234 mm. e grosso all'incirca 0,0067 mm. La costante K, che colla sospensione bifilare era eguale a 0,14, e divenuta eguale a 0,05 In tal modo basta una diffe- renza di potenziale di 0,05 Volta per produrre un millimetro di deviazione sulla. scala, mentre una differenza di potenziale di un Volta produce 400 milli- metri di deviazione. Però la durata delle oscillazioni dell’ ago è diventata grandissima, ragione per cui occorre aspettare molti minuti prima di fare- una lettura. Con dimensioni ridotte dell’ ago e anche con filo di quarze più sottile, si avrebbe certamente grandissima sensibilità e conveniente prontezza delle deviazioni. (*) Himstedt, nei Weed. Ann., v. 52, p. 752 (1893). (**) Beiblatter 1891, pag. 721. — RASSEGNA DEGL'IMENOTTEKI KCCOLLENNEENXOZAMBICO; DAL Civ BORNASINI ESISTENTI NEL MUSHO Z00LOGICO DELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA MHMORBILA DI C. EMERY, G. GRIBODO e G. KRIECHBAUMER (Letta nella Seduta del 10 Dicembre 1898). È trascorso quasi mezzo secolo da quando il Cav. FoRNASINI, in due successivi viaggi fatti per ragioni di commercio, raccoglieva nella parte australe del Mozambico copiosa messe di oggetti naturali e principalmente «di insetti, che mandava a GIUSEPPE BERTOLONI, allora professore di storia na- turale in questa Università. Non poche specie nuove, massime di Coleotteri, furono descritti dallo stesso BeRTOLONI nelle Memorie di questa Accademia, e delle collezioni for- nasiniane ebbe ad occuparsi anche il BrAaNconNI. Alcuni gruppi però rima- sero negletti, certo in gran parte per mancanza dei mezzi necessari al loro studio. Di questi, gli Aracnidi furono dal mio predecessore alla Direzione del Museo, Prof. TRINCHESE, affidati per lo studio al Prof. PiETRO PAVESI, che li descrisse negli Annali del Museo Civico di Genova. Gl’ Imenotteri non erano stati finora oggetto di studio. Prescindendo da poche Formiche che io stesso ho potuto determinare, ho mandato gli esem- plari delle altre famiglie al distinto imenotterologo Prof. Ingegnere GIOVANNI GrIBonpo di Torino, il quale ha illustrato gli Aculeati e i Chrisidi, affidando i pochi Terebranti all’ egregio Dott. GrusePPE KRIECHBAUMER del R. Museo di Monaco. — Il presente lavoro consta dunque di tre parti, di cui la più importante é dovuta al GrIBopo, e la minima è la mia. Nonostante il lungo tempo trascorso, le raccolte del FORNASINI, come lo dimostra il gran numero delle specie inedite, non hanno perduto molto del loro interesse, provenendo da regioni che i geografi hanno esplorato ripetutamente e forse a sufficienza, la cui fauna é però lungi dall’ essere ben conosciuta. C. EMERY. — 112 — T FOR MICIDI PER C. EMERY Dorylus juvenculus SHuck. var. badius GeRrst. Inhambane d'. Questa forma che mi pare una semplice varietà del D. Juvenculus ne differisce per la statura alquanto maggiore e per la forma un poco più larga del peduncolo addominale. Fu descritta dal GERSTAECKER sopra esemplari del Mozambico. È probabilmente diffusa lungo la costa orientale dell’ Africa; ne ho ricevuto esemplari di Lindi. — Forse deve riferirsi alla stessa specie il D. glabratus SHuck dell’ Africa occidentale che io non conosco. Paltothyreus tarsatus FAB. Inhambane $. Specie comune in tutta la regione etiopica. Oecophylla smaragdina FaB. Inhambane $; sponde del fiume Magnarra 9. È notevole che, mentre gli esemplari della costa occidentale dell’ Africa appartengono ad una sot- tospecie ben distinta, O. longinoda LATR., quelli della costa orientale sono quasi identici al tipo indiano della specie, come risulta con massima evi- denza quando si hanno d’innanzi le 9. Le £ del tipo hanno le ali tra- sparenti con venature testacee, mentre le ali dell’ O. /onginoda sono al- quanto affumicate, con venature brune e che appariscono più grosse, perché. rinforzate da un alone scuro. Camponotus maculatus Fas. sottosp. carinatus BRuLLE var. cognatus. F. Sm. Inhambane $ 7. Camponotus foraminosus ForEL var. Due ® piuttosto male conservate di Inhambane. — 113 — | Camponotus rufoglaucus JERDON. sottosp. vestitus F. Sm. Una $ senza indicazione di località. Camponotus longipes GERST. Pare specie caratteristica del Mozambico, scopertavi dal PeTERS. Inham- bane; un d' della medesima località appartiene probabilmente a questa specie. Polyrhachis militaris Fap. Una $ senza località precisa. Polyrhachis rugulosa MayR. ©. Anche di questa specie non è segnata la località. II. ACULELEA'TVTI KE CHIRISsSIDI PER GIOVANNI GRIBODO Lo studio di piccole collezioni locali comprendente un intero ordine d’ insetti è di regola uno dei più faticosi, e ad un tempo dei meno interes- santi; od a dir meglio non procura le soddisfazioni, che si trovano invece nello studio di gruppi speciali, esteso alle specie di tutte le regioni del mondo. Ma ciò non è più vero, quando la località di origine é ancora sco- nosciuta faunisticamente. Egli é per ciò che ho accettato con piacere la proposta fattami dal Prof. EmERY, di. studiare gli Imenotteri stati raccolti al Mozambico dal Cav. FORNASINI, dappoiché questo paese si può considerare, anche oggidi, come inesplorato, nella sua fauna imenotterologica. I risultati dei viaggi del Pe- TERS, quand’ anche si vogliano completare coll’ unirvi quelli ottenuti da viaggi fatti in regioni più o meno finitime (come ad esempio quello del von DER DECKEN), sono si può dir quasi nulli. Basta a dimostrarlo il semplice confronto dell’ elenco delle specie d’ Imenotteri già conosciute della fauna Serie Ve — Tomo IVe 15 — 114 — etiopica tropicale intera con quello delle specie di una zona, anche limitata, delle regioni poleartica o neoartica. Ogni contribuzione perciò, anche piccola, diviene in tal caso assai im- portante ed interessante; e cosi appunto avvenne in questa circostanza. Quanta sia la ricchezza entomologica tuttora inesplorata di quella re- gione noi possiamo giudicarlo dal fatto che sopra l’ esiguo numero totale di 44 specie raccolte, per gli Imenotteri Aculeati e Chrysidi, ben 12 risul- tarono nuove per la scienza, cioé circa il 30 per 100. In questi nuovi materiali della fauna mossambica noi troviamo si può dire ripetute le forme stesse, e colle medesime proporzioni, che si incon- trarono nel viaggio del Perers. Sono le stesse famiglie, anzi gli stessi generi, e nel medesimo rapporto di quantità sia di specie che di esem- plari. Se anche talune delle forme specifiche non sono identiche, presen- tano però affinità grandissima. Sono notevoli le stesse lacune; fra le quali accenno a quella del gruppo così caratteristicamente etiopico delle Synagris; nelle due raccolte di PeTERS e del FornAsINI troviamo un solo ed unico esemplare di quelle Sygnagris, che sono così frequenti nei paesi orientali del- l Africa a partire dal Zanzibar sino alla bassa Nubia, e che si incontrano pure, sebbene meno abbondanti, nelle regioni australi od occidentali del- l’ Africa stessa. Simili fatti inducono a far supporre che la fauna imenotterologica del Mozambico possa esser assai più distinta di quanto le conoscenze, assai più estese delle faune circostanti (parlando solo delle littoranee, le regioni dell’ interno essendo tuttora affatto sconosciute) avrebbero fatto pensare. Torino 14 novembre 1893. G. GRIBODO. Apis mellifica Linn. var. unicolor LATR. Apis mellifica — Linn. Faun. Suec. pag. 421, n. 1697. » » — GERST. Peters Reise n. Mossam. part. V., Insect. pag. 439. » unicolor — LatR. Notice s. les Esp. d’ Abeill, viv. en grand. soc... (Ann. du Mus. d’ Hist. Nat. v. V., pag. 168, n. 2, tav. 13, fig. 4). » » — Lep. Hist. Nat. d. Ins. Hymen. v. I, pag. 403, n. 4. Venne raccolta dal Cav. FoRNASINI, in località non designata, una sola operaia, la quale presenta tutti i caratteri della A. wnicolor; forma questa che a mio parere non è altro se non che una varietà spiccatissima (forse la più spiccata fra le varie altre che vennero pure designate con un nome proprio) della ormai cosmopolita A. me/lifiea. Mentre questa o sotto la forma tipica o con quella di alcune sue varietà (comune sopra tutte, e sparsa la var. ligustica SPIN,), trovasi ormai in tutti i paesi del globo, esclusi forse — 115 — solo i circoli polari, la var. unicolor è invece propria dell’Africa orientale tropicale: è sopratutto abbondante a Madagascar ed all’ Isola Maurizio, però venne pur raccolta dal Marchese ANTINORI allo Scioa, e dal Dott. MAGRETTI nella Nubia (Galabat, Bazen...). Xylocopa nigrita FABR. Apis nigrita . . — FaBR. Ent. System. v. II. pag. 316. 9 Xylocopa nigrita — FABR. Syst. Piezat. pag. 340, n. 9. Q » » — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. II., pag. 179, n. 7. 9 » » — GERST. v. d. DEcKEN’s REISE in Ost-Afr. Hymenopt. pag. 314, n.2. g' Q » » — SMITH. Monogr. of t. Gen. Xylocopa (Trans Ent. Soc. Lond. 1874), pag. 26t, n20 GO Furono raccolti dal Dott. FORNASINI due esemplari (9 £) ,j,ad nhambane e sulle sponde del Fiume Magnarra. Specie essenzialmente caratteristica della fauna africana propriamente detta, vi si trova in tutte le regioni tropicali e quelle limitrofe : sulla costa occidentale estendesi da Sierra Leona ad Angola, sull’ orientale da Zan- zibar a Natal: il DEcKEN la raccoglieva a Mombas (Zanzibar): io la rice- vetti, autenticamente, da Zanzibar, Angola, Congo e Cameroon. Xylocopa flavo-rufa DE GEER. A pis flavo-rufa . . — DE GEER. Mem. v. VII, pag. 605, tav. 45, fig. 1. Q Xylocopa flavo-rufa — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. II., pag. 177, n. 5. Q o » » » — SMITH. Monogr. of t. Genus Xylocopa. (Trans. Ent. Soc. Lond. 1874), pag. 254, DISMONÌ » » » — GRIB. Imen. di Scioa Memoria I. (Ann. d. Mus. Civic. di Genova v. XVI.) pag.-.232, n.15... gi » » » — GRIB. Imen. di Scioa. Memoria II. (Ann. d. Mus. Civic. di Genova, Serie 2* v. I.) pag. 279, n. 4. Xylocopa trepida? . — FaBR. Syst. Piezat. pag. 340. n. 10, (1). 9 Una femmina raccolta sulle rive del Magnarra. Questa specie del pari che la precedente appartiene esclusivamente alla fauna africana; ma venne già raccolta alla Guinea, Angola, Capo B. Spe- ranza, Natal. Io la posseggo della Baia d’ Algoa, di Natal, e dello Scioa (Abissinia). Anche il PeTERS la raccoglieva al Mozambico. (1) Trovo negli autori ammesso questo sinonimo, perciò ne faccio memoria: ma sono ancora assai dubbioso se proprio la specie brasiliana descritta dal FaBRIcCIUS debba unirsi a questa. — 116 — Xylocopa caffra Linn. Apis caffra . . . — Linn. Syst. Nat. v. I, pag. 959. Q » » . . + — Fagr. Ent. System. v. II, pag. 319, n. 19. Q » olivacea . .— > » » » pag. 319, n.21. d'? Bombus caffrus . — » Syst. Piezat. pag. 346, n. 17. 9 » olivaceus — >» » » pag. 347. n.20. d°? Xylocopa caffra . — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymon. v. II, pag. 197, n. di. d* Q » caffra . — GERST. Peters Reise nach Mossamb. part. V. Insect. pag. 444, tav. XXIV, fig. 3. Q » » — » V. D. Deckens Reise in Ost-Africa. Hymenopt. pag. 315, n.3. d* Q » » — SmitH. Monogr. of t. Genus Xylocopa (Trans. Ent. Soc. Lond. 1874) pag. 258, n. 16. Var. Mossambica. mihi. Typo simillima tantum differt colore fasciarum metathoracis, abdomi- nisque segmenti primi albo-niveo, non flavo. 9 Un solo esemplare raccolto sulle sponde del Magnarra. Anche il signor FORNASINI, come già il Dott. PETERS, raccolse esemplari di questa specie (d’ altronde molto comune in tutta l’ Africa, specialmente orientale) molto diversi a primo aspetto da quelli tipici: in essi le fascie di peli color giallo d’oro vivace che si trovano sul metatorace e sul primo segmento dell’ addome sono invece di un bel bianco niveo: per effetto di questa semplice differenza la facies di questa varietà riesce assai diversa da quella della forma tipica: siccome però in tutti quanti i caratteri sia pla- stici che di colorazione non incontrasi più alcun altra differenza fra queste due forme, non vi é ragione di sorta per separarle; siccome tuttavia questa varietà si può considerare come assai spiccata, così credo conveniente di designarla con un proprio nome, come usasi, e con ragione a parer mio, in altri ordini d’ insetti. Questa varietà non deve confondersi coll’ affine X. inconstans. SMITH : le dimensioni anormali della testa di quest’ ultima la distinguono netta- mente, senza bisogno d’ altro. Sarebbe assai utile se questa specie si potesse ottenere dall’ allevamento, onde conoscerne con sicurezza il maschio; potrebbe forse allora succedere che la presente varietà si dovesse invece elevare al grado di specie propria. A quanto pare la varietà in questione abita esclusivamente il Mozam- bico, ove il PetERS la raccoglieva a Teté : il FORNASINI ne trovava un esem- plare sulle sponde del fiume Magnarra, donde portava pure un esemplare della forma tipica, assieme ad un maschio. Questa specie venne già raccolta, oltre che al Mozambico, anche al Capo B. Speranza, al Damara Land, ed al Congo; io la posseggo della Baia d’ Algoa, di Zanzibar, e di Scioa (Abissinia). — 117 — Xylocopa divisa KLua. Xylocopa divisa — KLuc. Magaz. d. Gesell. Natur. Freund zu Berl. 1807, pag. 264. Q » » — SmitH. Monogr. of t. Genus Xylocopa (Trans. Ent. Soc. Lond. 1174) pag. 259, miao E » » — Gris. Imen. di Scioa (Ann. d. Mus. Civ. di Genova. Serie 2.°, v. I) pag.279,n. 4. Q - Una femmina fu raccolta ad Inhambane. Duolmi di non possedere, né di aver potuto mai consultare il volume nel quale trovasi la descrizione originale del KLuG della sua X. divisa; co- nosco questa soltanto dalla Monografia del Genere Xy/ocopa pubblicata dal- lo SMitA. Ora in questa descrizione, un po’ troppo breve, sta detto che la specie in questione presenta una varietà a pubescenza grigia sulla faccia, e gialla sul primo segmento dell’ addome (sulle quali parti la colorazione tipica dovrebbe invece esser nera). Ignoro se veramente la forma descritta dal KLuG sia quella a colorazione nera, oppure l’ altra. Ciò presenta qualche interesse perché ho forte dubbio che quelle due diverse colorazioni si ri- feriscano a specie distinte anzichè a semplici varietà. Ho questo dubbio perché nei vari esemplari che posseggo, la colorazione nera della pelurie del primo segmento addominale trovasi esclusivamente negli esemplari della Baia d’ Algoa, quella invece gialla negli esemplari d’Abissinia (sole località dalle quali io ne abbia ricevuto); per tutti indistintamente la pe- lurie della faccia è grigia senza alcuna differenza (1). Fatto molto notevole si é che non trovasi alcun passaggio intermediario fra le due forme, cosa che si verifica sempre quando si tratta di sole varietà. oltre le mie femmine della Baia d’ Algoa sono accompagnate da diversi maschi di statura proporzionata (cioé leggermente più piccola) a quella delle fem- mine; i quali maschi sono vestiti di una livrea di colore si può dire quasi uniforme, identico (giallo ulivigno) per tutto il corpo: appena sulla costa esterna delle quattro tibie posteriori, e sulla superficie interna dei tarsi si osserva una villosità di un bruno quasi nero: un maschio del tutto iden- tico accompagna |’ esemplare del Mozambico, entrambi raccolti nei paragi del Magnarra. La presenza contemporanea di queste due forme di sesso diverso, e l’ assenza in pari tempo di altre forme affini negli invii di quelle località, permette ragionevolmente di dubitare che quei due sessi appar- tengano ad una medesima specie. Aggiungasi che i due soli maschi che io posseggo, i quali corrispondono alla ‘descrizione datane dallo SMITH (cioé sostanzialmente aventi la villosità del dorso del torace e del primo (1) Conviene far osservare che mentre gli esemplari della Baia d’Algoa hanno le ali unifor- memente scure, opache, in quelle d’ Abissinia invece esse nella prima metà sono trasparenti, «quasi del tutto incolore, vitree. — 1183 — segmento addominale di un giallo brillante, sul restante addome olivacea, sui fianchi e sul ventre di colore oscuro), provengono da Zanzibar, cioè da regione più vicina a quella che é la patria delle femmine a pelurie gialla sul primo segmento. Non si dimentichi che lo SmitA afferma a quanto pare che in generale la colorazione gialla del primo segmento addominale nelle femmine s’ incontra negli esemplari più freschi (in good examples): ora molti dei miei esemplari della Baia d’ Algoa sono perfet- tissimi, ed hanno completa, senza alcun consumo o guasto, la pelurie tutta nera del primo segmento. Aggiungasi infine che lo SMITH dice come. i due sessi da lui descritti siano stati ottenuti dal nido al Natal. In base alle affermazioni dello SMITH io avevo ascritto alla X. divisa gli esemplari abissini (V. Imenotteri dello Scioa, memoria 2*) i quali sono tutte femmine a primo segmento giallo; ma ora sono molto incerto sul- l’ esattezza di tale determinazione, e, come già dissi più sopra, ho forte dubbio che si tratti di due specie logicamente distinte. Solo maggiori 0os- servazioni locali, e sopratutto allevamenti su larga scala potranno scio— gliere definitivamente il problema. Frattanto però il maschio che fu raccolto dal FoRNASINI assieme alla fin qui ricordata femmina (il quale maschio è perfettamente identico, come gia accennai, a quelli provenienti dalla Baia d’ Algoa uniti a femmine del pari identiche a quella del Mozambico) non risulta ancora descritto da nessun autore, ond’é che io ritengo conveniente di darne qui una breve diagnosi, lasciando alle osservazioni dirette, fatte nelle località d’ origine della specie, la dimostrazione dell’ esattezza o dell’ erroneità del connubio. da me immaginato. d' Parvus, valde depressus, dilatatus, nigro-piceus, antennarum scapo antice, elypeique margine antico (tenuiter, et medio interrupte) flavo lineatis : corpore toto (tarsis quatuor posticis eaceptis intus, tibiisque posticis eatus nigro-hirtis) succineo-olivaceo villoso, ani lateribus nonnihil nigro-ciliatis : tarsis quatuor anticis sat dense flavo ciliatis: alis subhyalinis, apicem ver- sus obsolete infuscatis. Long. corp. mill. 41-15. È notevole questo maschio per 1’ uniformità di colore che presenta la villosità del corpo; alla quale uniformità di colore va compagna anche una quasi uniformità di natura, di densità, e di lunghezza del vello. Ed é appena sensibile la minor lunghezza e la minor densità che presentano i peli dei segmenti dorsali dell’ addome posteriori al primo; piuttosto è da notarsi che mentre sulla testa, sul torace, e sul primo segmente addomi- — 119 — nale i peli sono eretti, e fini, sui segmenti posteriori al primo sono al- quanto più setolosi, e sono più obliqui al derma: visto l’addome alquanto dal dinanzi presenta una lieve apparenza di fascie alquanto più chiare. La testa é assai più piccola del torace; questo, e sopratutto 1’ addome, è assai largo ed appiattito. Il margine posteriore dei quattro primi tarsi é vestito di ciglia giallo- «chiaro, mediocremente lunghe e mediocremente folte. Per questi caratteri, il maschio in questione non può in nessun modo venir confuso con quello descritto dallo SMITH, il quale lo paragona, e giustamente, al maschio della X. africana F. Sempre per la persuasione che si debbono considerare due specie di- stinte, e che i maschi ora ultimi accennati e le femmine a primo segmento giallo debbano accompagnarsi formando assieme la seconda specie, credo bene di darne qui la descrizione, nominandola provvisoriamente. Xylocopa flavobicincta n. sp. X. divisae KLuG valde similis et affinis differt : Q corpore nonnihil confertius punctulato, clypei marginibus duobus su- peris obliquis magis tumidulis; alis minus infuscatis, basi subhyalinis: seg- mento abdominis dorsali primo dense flavo tomentoso. - d' antennarum scapo nigrofusco immaculato, flagello subtus ferrugineo ; capite flavo villoso, pilis fuscis intermixtis, praesertim in vertice; thorace obscure fusco-ochraceo tomentoso, thoracis dorso macula latissima circulari laete citrina, pectore pilis flavis intermiatis; pedibus fusco-ochraceo tomen- tosis, tarsis tibiisque duobus anticis flavo ciliatis, posticis nigro-hirtis ; ab- dominis segmento dorsali primo flavo-villoso, sequentibus flavo-olivaceo vil- losis, pilis stratis brevibus; ano ciliis nigris intermiatis. Poco importanti sono le differenze fra le femmine di questa e della precedente specie: stanno tutte essenzialmente nella presenza o mancanza della fascia gialla al primo segmento, e fors’ anche nella trasparenza od opacità della base delle ali: ma invece i maschi sono distintissimi, anche a primo colpo d’occhio; basterebbe per ciò il mantello del torace giallo olivaceo uniforme nella divisa, di color grigio-bruno-giallognolo scuro, con larga macchia giallo-chiaro-brillante sul dorso nella flavobicineta. La specie che io ritengo essere la vera divisa è rappresentata nella mia collezione da esemplari provenienti dalla Baia d’ Algoa, e da Benue (Africa . Occ.); la flavobicineta invece da esemplari d’Abissinia (2 £) e di Zan- zibar (d'd'). ee Allodape pictifrons SMITH. Allodape pictifrons -— SmirH. Catalog. of Hymenopt. Ins. in t. Coll. of t. Brit. Mus. Part. Il, pag. 228, n. 2. Sponde del Magnarra. Dopo che il LEPELLETIER fondava questo genere di apidi su di un unica specie dell’ Africa meridionale, diciassette altre vennero scoperte; la mag- gior parte nella medesima regione (tre sole si trovarono nell’ Africa boreale, due nell’ India, una nell’ Arcipelago della Sonda, e tre nella Nuova Olanda): assai probabilmente questo numero verrà molto accresciuto dalle nuove ricerche, sopratutto quando tutte le specie siano bene e completamente descritte, poiché esse hanno in generale in comune i caratteri principali, e le loro differenze (del pari che nei generi Andrena, Halietus, Nomada..... ) quantunque aventi certamente valore specifico, risiedono in dettagli di forma di scultura, che vogliono esser enunciati con cura °se si desidera che la specie risulti ben caratterizzata: io ho ad esempio sott’ occhio quattro esemplari appartenenti, a parer mio, a quattro diverse specie, a ciascuno dei quali converrebbero del pari le diagnosi in generale troppo superficiali di buona parte degli autori. Uno di questi esemplari fu raccolto dal FoRNASINI sulle sponde del Ma- gnarra: credo che esso si possa riferire all’ A. pictfrons dello SMITH, quan- tunque presenti qualche piccola discrepanza con talune delle indicazioni della diagnosi. Cosi ad esempio ha listato di bianco, non solo il margine interno degli occhi, ma anche l’ esterno: le ali sono del tutto vitree, tra- sparenti; la piccola carena frontale è assai poco pronunziata; il rosso-te- staceo dell’ orlatura dei segmenti addominali é assai scuro. In questo esem- plare lo scudetto é trasversalmente fasciato di bianco-sulfureo. In questa specie la punteggiatura dell’ addome è fittissima, e quasi re- golare; molto fina sul primo e sul secondo segmento va via ingrossandosi nei successivi, sempre però mantenendosi poco profonda; il derma poi tanto fra i punti quanto nell’ interno stesso dei medesimi è finissimamente coperto da una punteggiatura finissima e molto regolare. L’ epipigio é in questa specie abbastanza ottuso. L’ addome, quasi ovoide, é appena più lungo della testa e torace sommati insieme. Le gambe non presentano. alcuna anomalia in nessuna parte. Questa specie fu già raccolta a Sierra Leona. Allodape affinissima n. sp. Praecedenti affinis quidem et similis, dignoscitur facie angustiore; clypeo — 121 — valde producto ; oculorum orbitis haud albo-marginatis; scutello imma— culato. 9 Monog:corp: mila: Un esemplare solo raccolto sulle sponde del Magnarra. Questa specie non devesi assolutamente confondere colla precedente, quan- tunque per struttura, punteggiatura, ed anche in gran parte pel colorito le sia tanto somigliante; e ciò in causa della grandissima differenza che pre- senta nella configurazione del capo. Questo, nella pictifrons, ha la faccia, tanto larga quanto alta, di figura all’ incirca circolare; mentre essa nel- l’ affinissima è stretta, cioé assai più lunga che larga, ed è foggiata a triangolo allungato. Il clipeo, oltre ad essere in quest’ ultima specie assai più lungo e più sporgente, è anche più gonfio, cioé più rialzato sul piano generale della faccia. Manca in questa specie la colorazione bianco-giallo-- gnola dell’ orbita degli occhi, e sullo scudetto. In tutto il resto, compreso il disegno delle venulazioni alari, le due: specie sono affatto identiche. Molta affinità presenta |’ affinissima anche coll’ A. simillima SMTE della. Nuova Olanda. Megcachile nigrocineta RITs. Megachile nigrocincta — Ris. Aanteek. betreff. eene klei. Coll. Hymen. van Neder-Guinea. (Tijdschr.. v. Entom. 1874) pag. 31, n. 24, tav. 11, fig. 9. Un esemplare, femmina, fu raccolto sulle sponde del Magnarra. Determino questa specie essenzialmente dietro il controllo con un esem- plare tipico del Congo, rilevato dal chiaro autore che la pubblicava; poiché non comprendendo io la lingua olandese che per quel poco che è possibile a chi conosce la tedesca, non posso servirmi che malamente della dia- gnosi data dal Dott. RirsemA: non possedendo d’altronde, né avendo mai conosciute in natura le affini M. combdusta SMITH., caelocera SMITH. e dbom- biformis GersT. non potrei fare io stesso la ricerca dei caratteri differen- ziali. Il fondamentale fra questi, secondo la diagnosi del RIitsEMA, mi pare che consista nella colorazione delle ali (1). L’ esemplare del Mozambico è (1) Se così è veramente mi pare assai probabile che la M. nigrocineta non sia altro che una varietà della M. bombiformis GERST. L’esemplare del Dott. ForNAsINI verrebbe anzi ad appoggiare questa ipotesi, poichè col suo primo segmento rivestito solo per metà di peli neri, costituirebbe un anello di congiunzione fra le due forme. Serie V. — Tomo IV. 16 — 122 — assolutamente identico al mio; medesima statura, colore, punteggiatura, forma del clipeo, delle mandibole, delle antenne e delle gambe, e colora- zione delle ali; differisce unicamente per avere i peli della metà posteriore del primo segmento dorsale dell’addome di color fulvo-ferruginoso, come la restante parte dell’ addome; negli esemplari tipici del Dott. RitsEMA in- vece sul primo segmento essi sono tutti neri; ma gli esempi di consimili variazioni sono troppo comuni in altre specie perché sì possa attribuire loro importanza specifica. Megrachile felina GersT.?? Megachile felina — GeERrsT. Peters Reise nach Mossamb. Part. V. Insect., pag. 454, tav. XXIX, fiz.9. 9 Due esemplari di Inhambane. Il pessimo stato di questi due esemplari (uno dei quali é affatto sprov- visto di peli) non mì permette di giudicare se sia esatta la mia determi- nazione, che do quindi solo dubitativamente. Tanto più che alcuni carat- teri dei detti esemplari non concordano con la descrizione data dal Dottor GERSTAECKER della sua specie. Egli dice ad esempio pel colore dell’ addome — deutliech blau metallisech schimmert — ora in questi esemplari il colore del derma addominale é nero-azzurrognolo cupo, punto metallico ne bril- lante. Dice inoltre che la scopa ventrale é di color rosso (volpino), negli esemplari del FoRNASINI essa invece sarebbe grigio-bruno-rossiccia. Cosi ancora non é visibile negli esemplari che ho sott’ occhio la macchia tra- sversale bruno-nera laterale del primo segmento. È vero bensi che que- st’ ultimo carattere potrebbe essere scomparso per attrito, e gli altri due possono stare nei limiti della variabilità specifica, ma pur tuttavia, per accertare l’ esattezza deila determinazione nelle condizioni dei miei esem- plari, sarebbe indispensabile il fare un controllo diretto su qualche esem- plare tipico in buono stato, ciò che non mi é concesso mancando tale specie nella mia collezione. Megachile gratiosa GERST. Megachile gratiosa — GeRrsT. Peters Reise nach Mossamb. Part. V. Insect., pag. 459, tav. XXIX, fig. 15. 9 Un esemplare, (£) senza alcuna indicazione speciale di località, rap- presenta assai probabilmente una varietà di questa specie del Dott. GER- STAECKER: specie che io non posseggo né conosco in natura. L’ esemplare — 123 — che ho sott’ occhio differisce dalle indicazioni della diagnosi per la statura alquanto minore (7 millimetri circa invece di 8); per il colore alquanto grigiastro dei peli (ciò che potrebbe esser dovuto al cattivo stato dell’ e- semplare); per la mancanza di riflessi azzurri sull’ addome (che potrebbe forse dipendere dalla medesima ragione, che la differenza precedente); ed infine, e sopratutto, dal colore dei piedi che è ferruginoso (molto scuro) anziché color della pece. L’ epipigio é tutto coperto da peli rosso-bruno molto scuri, non troppo fitti, e di mediocre lunghezza. Uno studio accurato su numerosi materiali dimostrera forse che questa come altre specie asiatiche od africane non sono che modificazioni di specie europee. Nomia amoenula GERST. Nomia amoenula — GERSTAECK. v. d. Deckens Reise in Ost-Africa. Hymen. pag. 321, n. 10, tav. XIII, foi Un esemplare maschio raccolto sulle sponde del Magnarra. L’ unico esemplare raccolto dal FORNASINI differisce dal tipo per la co- lorazione dell’ addome interamente di un ferruginoso-testaceo più o meno. chiaro senza alcuna traccia di macchie nere. Dal DEcKEN soltanto questa specie venne raccolta prima d’ora, a Mombas (Zanzibar); è quindi assai rara, e propria solo del littorale orien- tale dell’Africa tropicale. Belonogaster rufipennis? DE GEER. Sphex rufipennis. . .— DE GEER. Mem. pour serv. a l’ Hist. des Ins. v. VII, pag. 611, tav. XLV,. fig. 10 (Test. Auct.). Raphigaster rufipennis — Sauss. Monogr. des Guèp. Soc. pag. 15, n. 2, tav. II, fig. 6. Un esemplare, femmina, dalle sponde del Magnarra. Applico dubitativamente il nome a questa specie, perchè è questo un genere relativamente al quale regna oggidi una grandissima confusione nella parte sistematica. Attualmente si ammettono (a mia conoscenza) una decina di specie (1), ma all’ infuori di alcune poche (2) dalle descrizioni sarebbe impossibile poterle distinguere con esattezza. (1) B. junceus FaB. — rufipennis De GEER. — griseus FAB. — madecassus Sauss. —- filiventris Sauss. — Guerini Sauss. — indicus Sauss. — macetientus — Fapr. — Menelikii GRIB. — drevipetio- latus Sauss. — lateritius GERST. — elegans GERST. (2) B. Guerini grande statura e corpo massiccio — madecassus terza cubitale più larga che alta — filiventris terza cubitale molto piccola, quarta invece grandissima — brevipetiolatus pez- ziuolo relativamente brevissimo. — Fors’ anche il Menelikîi per la robustezza, relativa, del corpo, e per la levigatezza del pezziuolo. — 124 — Le distinzioni basate essenzialmente sulla colorazione sia del corpo che delle ali non hanno alcuna importanza, essendo questa variabilissima, come si può verificare in serie di esemplari appartenenti evidentemente ad una sola medesima forma. I caratteri plastici (fra i quali a giudicare dalla mia ‘collezione primeggerebbero quelli della conformazione e proporzione del pezziuolo addominale, e della diversa robustezza del corpo) sono poi quasi del tutto dimenticati. Ne nasce da ciò una grande confusione e la quasi impossibilità di de- terminare soddisfacentemente le specie di questo gruppo. È sentito il bi- sogno di uno studio speciale al riguardo, basato sull’esame sia dei tipi autentici degli autori, sia di grosse serie di esemplari. Senza pretendere di sentenziare al riguardo, parmi che alcune specie siano da sopprimersi, e che all’ infuori di quelle indicata nella postilla (2) si debbano ridurre ai soli juncews, griseus, rufipennis, e fors’ anche ancora ai due soli primi. L’esemplare del Mozambico é di media statura, pezziuolo assai fine «ed allungato, il torace e la testa mediocri, e l’ addome abbastanza robusto; testa torace, antenne e gambe, il pezziuolo ed il secondo segmento addo- minale sono di color rosso-ferruginoso, un po’ più scuro talvolta in taluna parte; ali ferruginose coll’ estremità un po’ più scura, brunastra; la parte ventrale del pezziuolo (alquanto carenata) è abbastanza fortemente striata in traverso. Icaria ambigua n. sp. I. capensi. Sauss. valde similis dignoscitur petiolo abdominis haud ab- normiter brevi. Parva, subgracilis, rufo-ferruginea, clypei margine apicali late, mandibulis (intus et eatus), oculorum orbitis internis infra sinum, pro- thoracis margine antico (tenuissime), abdominisque segmento secundo apice flavo limbatis; coris duabus anticis antice flavis; segmento abdominis tertio et sequentibus apice indeterminate testaceis; alis hyalinis, immaculatis, nervis testaceis; corpore toto griseo-pruinoso; capite, thoraceque tenuiter sat re- gulariter confertissime punctulato-granosis, abdomine sparsius sed nonnihil crassius punctato; capite mediocri, thorace aliquantulum lattore, celypeo apice sat acute angulato; antennis brevissimis, crassiusculis, subclavatis ; thorace subelongato (latitudine duplo longiore), compressiusculo, cylindro-co- nico, antice recte truncato, postice attenuato declivi; scutello nonnihil tumi- diusculo medio longitudinaliter obsolete sulculato ; postscutello declivi; me- tathorace declivi, brevi, medio late et profunde verticaliter sulcato; abdominis petiolo mediocri, basi lineari, postice globoso-elevato; segmento secundo com- parate elongatissimo (fere duplo longiore quam latiore), basi haemispherico, po- — 125 — stea cylindrico, apice verticaliter truncato, margine bilaminulato ; reliqua parte abdominis conica; alis parvis. 9 vel 9? Long. corp. mill. 8. Un solo esemplare raccolto sulle sponde del fiume Magnarra. Al gruppo già cosi intricato delle Zcaria cineta LEP. guttatipennis SAUSS. clavata SAuss. capensis SAuSS. si viene ora ad aggiungere una nuova forma, la quale mentre, a mio parere almeno, non può convenientemente riunirsi alle specie ora ricordate giusta i caratteri indicati dalle rispettive diagnosi, per altra parte presenta con esse tante affinità da giustificare una forte ripugnanza alla sua separazione. Il dubbio é tanto più legittimo che dalle «descrizioni risulta una concatenazione di caratteri fra quelle diverse specie, ma in pari tempo si lamentano molte lacune riguardo ai caratteri stessi nelle singole descrizioni; solo coll’ esame comparativo diretto dei tipi si potrebbe giungere ad una soluzione sicura del problema. È da augurarsi che ogni autore di monografie entomologiche adotti maggior uniformità di metodo nelle sue diagnosi, indicando per ciascuna specie la natura di tutti i singoli caratteri, poiché spesso quelli trascurati son quelli appunto che valgono a differenziare le specie non ancora note da quelle già descritte. Se si hanno sott'occhio le diverse forme (anche senza che occorrano i tipi originali) é ancora spesso possibile di sbrogliare la matassa, ma é molto raro il caso che ciò avvenga anche per le raccolte più importanti e com- plete. Ad esempio nella presente fattispecie io non tengo che l’ Icaria cincta (1), e forse la /. capensis (2). L’ Icaria ambigua differisce certamente dalla cineta per la notevole maggior brevità, e nello stesso tempo maggior robustezza delle sue an- tenne; per la mancanza del tubercolo mediano, e susseguente carena lon- gitudinale sullo scudetto, tubercolo e carena sostituiti da una scanalatura : per la lunghezza notevolmente maggiore del secondo segmento addominale, che é ad un tempo proporzionatamente più stretto. L’ ambigua differisce dalla capensis sopratutto per la lunghezza quasi normale del pezziuolo addominale, del quale invece una lunghezza ridot- tissima costituisce il carattere principale della capensis: anche le antenne sono più brevi e più massiccie nell’ ambigua, quantunque quelle della ca- pensis (3) siano di gia più brevi, più grosse e più clavate che nella cincta- (1) Della quale ho fra gli altri, gli esemplari tipici del De Saussure trovati nella collezione GUERIN MENEVILLE. (2) Dubito, senza però esserne del tutto sicuro, che si debbano attribuire a questa specie due esemplari, che ho ricevuto dalla Baia d’ Algoa. (3) Od almeno dagli esemplari che io ritengo appartenere alla capensis. — 126 — ed infine ancora distingue l’ ambigua la forma allungatissima del secondo: segmento addominale. L’ambigua differirebbe dalla guttatipennis per la lunghezza proporzio- nalmente maggiore del torace, per la mancanza delle due carene del me- tatorace, per la maggior sottigliezza della base del pezziuolo addominale, e pel taglio verticale, non obliquo, dell’ estremità posteriore del secondo segmento ; probabilmente anche per un maggior allungamento di questo segmento ; ed infine per la contraria disposizione della punteggiatura (1). Differisce poi infine dalla clavata per le stesse ragioni che dalla cincta,. a cui la clavata sarebbe molto affine. Non parlo poi delle differenze di colorazione fra l’ ambigua e le altre specie; queste differenze sono sopratutto notevoli fra ambigua e la clavata. Polistes marginalis FABR. Vespa marginalis . — FaBr. System. Ent. pag. 367, n. 24. Polistes marginalis — Sauss. Monogr. des Guep. Soc. pag. 62, n. 20, tav. VI, fig. 2. » plebeia. . — Gersr. v. d. Decken’s Reise in Ost-Afr. Hymen. pag 325, n. 20. » marginalis — Gris. Imenott. di Scioa (Ann. d. Mus. Civic. di Genova. Seria 2°, v. I, 1884), pag. 286, n. 17. Due esemplari di questa proteiforme specie, raccolti sulle sponde del fiume Magnarra, presentano nel colorito una ben spiccata diversità dal tipo. Tutto il corpo é in essi di color rosso-testaceo, le macchie o fascie: gialle sono assai ridotte sia per numuro che per dimensione: in particolare è da notarsi che in essi sono quasi del tutto mancanti le due macchie della piastra verticale posteriore del metatorace. Uno di quelli esemplari ha le ali chiarissime, e quasi sprovviste della macchia fuliginosa apicale. Specie comunissima nell’ Africa australe (Capo B. Speranza), trovasi pur frequentemente in quella boreale; venne già raccolta infatti (oltre che al Zanzibar) a Sierra Leona, ed in Abissinia. Io non la ricevetti che dal Capo B. Speranza, Baia d’ Algoa, ed A- bissinia. Gdynerus macroecephalus n. sp. Parvus, robustus, obscure rufo-ferrugineus mandibularum basi, clypeo, macula supra elypeum infra antennas, oculorum orbita (supra interrupta) tenuissima, antennis, prothoracis margine collari tenuissimo, postscutelli (1) Questa, nella gutlatipennis sarebbe più fina sulla testa e sul torace che nell’addome: l’in- verso si verifica nell’ ambigua. —iiRn — lineola basali transversa, pedibus, (praesertim duobus anticis), abdominis ventre, segmentisque tribus ultimis (basi praesertim) rufo-testaceis sublu- tescentibus; abdominis segmentis tribus primis flavo (subochraceo) margi- natis: alis nonnihil infuscatis, capite et thorace confertim uniformiter. punctulato-granosis: abdominis segmentis primis non nisi pertenuissime punctulatis, ultimis sat crasse et confertim oblique irregulariter puncta- tis: capite magno, crasso, inflato, subeubico thorace latiore; clypeo sub- triangulari, subbrevi (conspicue latiori quam alto), apice breviter truncato utrinque tuberculo subdentiformi minuto instrueto: mandibulis dentibus qua- tuor conspicuis robustis armatis; antennis infra medium faciei insertis ; thorace cylindrico, latitudine fere duplo longiore, antice verticaliter recte truncato non nisi obsoletissime marginulato, postice oblique truncato rotun- dato, area obliqua parum excavata, subnitida, marginibus rotundatis; scu- tello et poscutello deplanatis haud elevatis; postscutello trigono, postice de- clivi: abdomine ovato-conico : segmento primo cupuliformi vel haemisphaerico, brevi (fere duplo lato quam longo), secundi nonnihil angustiore: segmento secundo latitudine sesquilongiore; segmenti secundi et tertii margine summo depresso nitido, ante marginem serie punctorum crassorum subregulari. 9 Long. corp. mill. 8. Un solo esemplare, femmina, raccolto sulle sponde del fiume Magnarra. Se per causa delle antenne e delle mandibole del maschio (tuttora ignoto) questa specie non sara obbligata ad entrare nel sottogenere Epipona, allora essa può prender posto sia nella Divisione V (Antodynerus) sia in quella VI (Anfiepipona) stabilita dal DE SAussuRE nel sottogenere Odynerus proprie dictus: essa è molto affine per forma e colorito agli O. multicolor Sauss. mutans SAUSS. combustus SMITH. etc.: ma da tutti si distingue subito per la grossezza eccezionale della testa: molti altri caratteri contribuiscono poi a legittimare il suo distacco in specie propria. La testa ha un grande spessore, di forma cubica arrotondata però al- quanto su tutte le faccie e gli spigoli, ad eccezione della parte che si ap- plica contro al torace, la quale è piatta e circondata da spigoli abbastanza vivi. Le mandibole sono fortemente quadridentate. Il clipeo é assai più largo che alto, ha figura di triangolo, con la base (curva) contro le antenne, e col vertice in basso, troncato; la troncatura porta ai due lati due pic- coli tubercoli. Le antenne sono inserite molto in basso (1). (1) Il DE Saussure nella sua Monografia delle Vespidi Solitarie mette (pag. 208-209) il suo O. multicolor in un gruppo nel quale le antenne sono attaccate sopra il mezzo della testa (faccia ?) ora io possedendo l’ esemplare tipico che gli ha servito per la sua diagnosi (già appartenente — 128 — Il torace é molto aderente alla testa, ma poco all’ addome. I due scu- detti sono affatto piatti e non aggettano punto sulla circostante superficie del torace: lo scudetto è rettangolare, molto più largo che lungo: il post- scudetto è invece triangolare ma esso pure assai più largo che lungo ; la sua metà posteriore fa parte già della superficie alquanto declive che li- mita posteriormente il torace; il contorno di questa superficie (che nel mezzo é alquanto concava) é arrotondata, non già a spigolo vivo. L’addome è di figura ovale terminante in un cono. Il primo segmento è emisferico, e quindi sul suo diametro maggiore (cioé al margine poste— riore) é largo circa il doppio della sua lunghezza. Il secondo segmento è: largo alquanto più del primo, lungo quasi una volta e mezza il suo dia- metro maggiore, che trovasi nella meta circa del segmento stesso. Tanto questo segmento quanto il successivo hanno il margine posteriore sdop- piato, cioé questi segmenti hanno l’ apparenza di essere costituiti da due lamine sovrapposte delle quali l inferiore sopravanza la superiore: nella linea di congiunzione fra le due lamine si nota una serie quasi regolare di grossi punti. Nessun altro carattere degno di nota si osserva sul l’ addome. La punteggiatura di questa specie presentasi uniforme, assai fitta, ed abbastanza grossa e profonda, quasi granulosa sulla testa e sul torace (eccettuata la cavità del metatorace, che é quasi affatto priva di punti). Sull’ addome invece la punteggiatura è estremamente fina (visibile solo con forti ingrandimenti) sui primi segmenti (che però non sono lucidi per ciò), assai grossa irregolare ed obliqua sugli ultimi. Questo insetto è di un color rosso ruggine scuro uniforme, con varii ornamenti (Vedi la diagnosi) di un rosso assai più chiaro, e più giallo- gnolo: i tre primi segmenti addominali poi sono orlati di color giallo. Eumenes tinetor CHRIST. Vespa tinctor . . — CHRIST. Hymen. 341, tav. 31, fig. 1. Eumenes Savignyi — Guer. Icon. du Règne Anim. 446, tav. 72, fig. 4. » tinctor . — Sauss. Monogr. des Guèp. Solit. pag. 49, n. 30. Un esemplare di Inhambane. Specie sparsa forse per tutta l Africa, ad eccezione del suo littorale: mediterraneo, però già trovata in Egitto: essa é infatti stupendamente figu- alla Collezione GuERIN-MENEVILLE) ho osservato come per questa specie tale indicazione sia con- traria al vero: le antenne sono attaccate al disotto della metà della faccia, a maggior ragione: quindi della metà della testa. — 129 — rata nelle tavole del Saviony. Io la ricevetti dall’ Abissinia, Zanzibar, Baia d’ Algoa, Porto Natal, Congo, e Madagascar. Philanthus triangulum FABR. Var. diadema FABR. Vespa triangulum . .— Fagr. Syst. Entom. pag. 373, n. 49. Q Crabro androgynus. .— Rossi. Faun. Etrus. Mant. v. I, pag. 138, n. 305. Q Philanthus pictus. . . — Panz. Faun. German. fas. 43, n. 23. » discolor . .— >» » » fas. 63, n. 18. d' var. » apivorus . . — LatR. Gen. Crust. et Ins. v. IV, n. 95. » » . . — Sein. Ins. Lig. v. I, n. 95. » triangulum . — FaBr. Entom. System. v. II, pag. 289, n. 2. » » . — DaHLB. Hymen. Europ. v. I, pag. 187, Dp. 115. » » . — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III, pag. 34, n. 2. » diadema . . — FaBr. Entom. System. v. II, pag. 289, n. 3. » Abdelkader . — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III, pag. 33, n. 1. » » — Lucas. Explor. Scient. d’ Alger. v. III, pag. 257, tav. 13, fig. 7. Sponde del Magnarra, un esemplare. Questa é una specie la cui area di diffusione si estende a pressoché tutto il cosi detto mondo antico: essa infatti trovasi in tutti i paesi d’ Eu- ropa (eccezion fatta solamente per quelli compresi nel circolo polare); nella maggior parte dell’ Asia occidentale, e meridionale, e finalmente in quasi tutta |’ Africa. La sua colorazione varia moltissimo da una loca- lità all’ altra presentando in proporzioni diverse le due tinte fondamentali, nero e giallo: di regola nei paesi più caldi predomina (specialmente sul- l'addome) la/ tinta gialla, nei temperati o freddi il nero. Alcune leggiere variazioni sì incontrano anche nella punteggiatura. Singolarmente fitta si presenta quella dell’ addome nell’ esemplare raccolto dal signor FORNASINI. Tali variazioni sono causa dei numerosi nomi che furono dati a questa specie: una numerosissima serie di esemplari che io posseggo provenienti da diversissimi paesi presenta tutti i passaggi fra le forme più lontane, onde io sono certo sulla legittimità della mia riunione. Cerceris Emeryana n. sp. Sat parva, subopaca, capite, antennis, abdomineque laete rufo-auran- tiacis, thorace nigro, pedibus flavis: capitis vertice et fronte late nigris; fronte linea verticali mediana supra antennas, vertice linets duabus obliquis flavis pone stemmata ornatis: antennarum scapo, pronoti fascia marginali, alarum tegulis, maculis duabus lateralibus scutelli, postscutello, linea verticali Serîiz V. — Tomo IV. 17 — 130 — in propleuris, macula masima obliqua in mesopleuris et maculis duabus maai- mis lateralibus ovatis in metathorace flavis: segmentis abdominalibus omnibus margine subtiliter flavo-fasciatis: segmento quinto nigro: alis hyalinis, summo apice fumatis. Capite magno, subcubico sat confertim et sat crasse punctato: clypeo medio arcuatim tumidulo, margine apicali convexro arcuato, integro: thorace sat confertim sed parum crasse punctato: area trigona postscutel- lari laevi sed opaca, medio longitudinaliter sulcata: abdomine crasse sed parum dense punctato, subpetiolato: segmento primo parvo, trapezino, non- nihil latiore quam longiore: segmentis sequentibus basi valde constrictis; epi- pygii carinis parum arcuatis parallelis: apice denticulis minutis, aequalibus, quatuor armato. 2 Long. corp. mill. 10. Un solo esemplare raccolto nelle vicinanze del fiume Magnarra. In questa specie noi troviamo la testa proporzionalmente più grossa, ed il torace più stretto di quanto si verifichi in generale nelle altre specie di questo genere: la testa infatti, molto voluminosa massiccia é larga al- meno una volta e mezza e forse più del torace misurato nel suo diametro maggiore, cioé fra le ali: questa massima larghezza del torace é molto d’ altronde se raggiunge la maggior larghezza dell’ addome (che si verifica nel terzo segmento): questo poi è lungo quanto la testa ed il torace mi- surati assieme. Il clipeo di questa specie presenta una piccola ma sensibile rigonfiatura nel mezzo alla base che si direbbe quasi come un principio di prominenza nasale analoga a quella della C. cornigera: però invece di una vera lamina qui non si ha che un cercine arcuato, che circonda (dal di sopra) un piano fortemente inclinato che va a finire nel margine anteriore del clipeo. Hoplisus Emeryi n. sp. Parvus sed sat robustus, nigrofuscus, griseo pruinosus (praesertim in abdo- mine), antennis, callis humeralibus, alarum tegulis, pedibus, abdominis seg- mentis primo, sexto et septimo ubique, segmento quinto maxima parte api- cali, segmentisque secundo, tertio et quarto margine utringue rufo-ferrugineis; mandibulis, clypeo, oculorum orbitis facialibus dimidio infero, antennarum scapo antice, fascia collari dorsali, tibiis quatuor anticis antice duabusque posticis intus, tarsis, segmentorum abdominalium 1-4 margine apicali flavo- sulphureis; antennarum flagello apice fusco-ferrugineo ; tarsis duobus posticis dimidio apicali nigro-fuscis; abdominis segmento primo medio longitudina- liter indeterminate nigro maculato: abdominis fasciis marginalibus flavis — 131 — 1, 3.0 et 4.° utrinque attenuatis, 2.° utrinque aueta: alie pure hyalinis, ma- cula fusca (cellulas radialem totam, cubitalemque secundam dimidio occupante) ornatis; capite thoraceque sat validis, abdomine, comparate, graciliori: ca- pite confertim subtenuiter irregulariter punctulato subcoriaceo ;s thoracis dorso modice dense sed sat crasse irregulariter punctato subcoriaceo; pleuris modice irregulariter punctatis; metathorace confertim crasse regulariter pun- ctato subreticulato; metanoti area cordiformi longitudinaliter sat crasse sed irregulariter striata; abdominis segmentis primo nitido, sequentibus opacis, sparsim omnibus punctulatis (margine apicali confertius, crassiusque); an- tennarum scapo tumidiusculos flagello brevi, robusto, articulis 3-7 brevibus (praesertim 4.°, 5.°, 6.°, 7.9) ultimo sat longo; articulis 3-7 postice tumi- diusculis, 7-10 postice impressis: abdominis segmento primo subpettoliformi, nonnihil compressiusculo; segmento secundo tumido, basi conico, apice sub- haemispherico; segmento sexto acute conico; pygidio brevi, minuto; alis, comparate, subbrevibus, d'. Long. corp. mill. 8. Un solo esemplare dalle sponde del fiume Magnarra. Questa specie si avvicina moltissimo al mio Hoplisoides intricans (1); dal quale però oltre che per la conformazione ancora annuliforme (non pigidiforme) sebbene fortemente conica del sesto segmento, per la visibi- lità del pigidio (il quale inoltre è corneo, non già membranoso) e per varii dettagli di colorazione, differisce anche per la conformazione delle antenne, delle quali gli articoli del funicolo sono tutti più lunghi che larghi, od almeno tanto lunghi quanto larghi nell’ MJ. infricans, ed invece sono mol- tissimo più larghi che lunghi (in taluni la larghezza è circa tripla della lunghezza) quelli compresi, fra il 2.° e 1° 8.° nell’ H. Emeryi; gli ultimi tre articoli di questa specie (dall’ 8.° al 10.°) hanno le due dimensioni uguali, e l 11.° poi é assai più lungo che largo; differiscono pure le antenne nella conformazione delle loro farcie posteriori, come scorgesi nelle diagnosi; differiscono inoltre ancora le due specie in questione per la punteggiatura del corpo che è assai più grossa, fitta e profonda nell’ infricans special- mente sugli ultimi segmenti addominali. L’ Hoplisus Emergi costituisce una vera transizione tra la forma tipica degli Hoplisus e quella che io ho separata col nome di Hoplisoides : poiché in esso il pigidio é molto piccolo, poco apparente al di fuori ma pur sempre corneo: ed inoltre il segmento antecedente ha già forma molto (1) Grisono. — Diagnosi di nuove specie di Imenotteri scavatori (Bollettino della Soc. Ent. Ita- liana, v. XVI, pag. 2). — 132 — vicina alla triangolare; esso cioé si presenta sotto forma di un anello a cono tronco, tagliato assai vicino al vertice, mentre invece nell’ Hoplisoides questo sesto segmento costituisce un cono non tronco, secondo la forma normale dei pigidii. Ha quindi fatto nascere in me il dubbio se non era forse da consigliarsi le riunione dell’ Moplisoides intricans al genere sti- pite: ma ho credulo conveniente di soprassedere ancora a prendere tale decisione perché in sostanza il carattere principale che diede 1’ origine alla separazione, benché di sola apparenza, é cosi notevole, e facilmente, che può giustificare la separazione stessa malgrado che alcune specie lo pre- sentino attenuato. Non é però da trascurarsi la configurazione speciale che presentano le antenne in entrambe queste due specie: esse cioè sono assai brevi, ro- buste, alquanto rigonfie verso l’ apice, con gli articoli lunghi al più quanto il loro diametro trasversale, e spesso brevissimi. Avendo ricevuto da Port Elizabet (cioè dalla medesima località donde proveniva |’ Hoplisoides intricans) tre femmine le quali senza alcun dubbio appartengono a questa specie, credo utile di profittare di questa occasione per darne la descrizione. Hoplisoides intricans GRIB. 2 (hactenus indescripta) mari simillima tantum differt corpore nonnihil crassius et confertius punctato, minus sericeo, magis nitido; antennarum scapo cylindrico non nisi lenissime tumidiusculo; articulis flagelli termina- libus haud impressis; epipygio apice deplanato utrinque carinulato ; carinulis arcuato-fractis, supra non confluentibus: clypeo ferrugineo. Var. Colore rufo corporis obscuriore, fere nigro: interdum fasciis ab- dominis 3.°, 4.°, 5." utrinque attenuatis, evanescentibus. Long. corp. mill. 9-10. Bembex melanosoma n. sp. Medius vel submagnus, nonnihil, comparate, gracilis, niger omnino sat dense griseo villosulo, pilis brevibus, clypeo argenteo tomenioso; clypeo labroque obscurissime rufo-ferrugineis, labro utrinque et apice tenuissime luteo mar- ginato; mandibulis medio lividis; antennarum articulis quatuor ultimis intus (in excavatione) luteo-testaceis ; oculorum orbitis postice tenuiter luteis ; thorace omnino nigro, immaculato (tantum alarum tegulis antice obsolete — 133 — luteo punctatis): coxis, trochanteribusque nigris, femoribus duobus anticis duobusque posticis nigro-fuscis, supra longitudinaliter luteo lineatis; femo- ribus intermedtis luteis, postice supra nigro-fuscis, infra fusco bilineatis; tibiis duabus anticis fuscis, antice late, catus ad basim tenuiter luteo li- neatis; tibits quatuor posticis luteis esxtus tenuiter, et postice latius fusco lineatis; tarsis luteis, infra plus minus fusco pictis; abdomine nigro obsolete iridescenti; segmento dorsali primo medio flavo fasciato, fascia medio atte- nuatissima et latissime interrupta (idest loco fasciac duabus maculis laterali bus triangularibus); segmento secundo medio flavo fasciato, fascia postice biarcuata (medio nonnihil angulatim emarginata), antice duabus maculis connexis, ellipticis, obliquis, medio confluentibus in basin nigram segmenti (hinc fasciam antice profundissime subuniformiter erosam): segmento tertio ut secundus picto sed maculis nigris ellipticis minus obliquis et magis in ba= sim confluentibus, hinc fasciam flavam antice latius emarginatani; segmentis quarto quintoque medio flavo fasciatis, fascia biarcuata, medio tenuiter in- terrupta, utrinque nonnihil aucta ; segmento sexto utrinque flavo bipunetato; epipygio nigro immaculato; ventre nigro immaculato; tarsorum anticorum articulo primo nonnihil (sed perpauce) incrassato, prismatico-trigono; ab- dominis segmento ventrali secundo medio longitudinaliter carinato, carina tenui sed sat elevata, postice in dentem brevissimum sed acutum desinente; segmento ventrali seato medio postice carinato-subtuberculato-cuspidato ; ipopygio medio carinato; alis pure hyalinis, brevibus. S' Long. corp. mill. 18. Un solo esemplare dalle sponde del fiume Magnarra. La colorazione specialissima del corpo, la brevità delle ali, e la con- formazione delle armature ventrali fanno facilmente e sicuramente distin- guere questa specie. Larra obscura Macr. Larrada obscura — MacRETTI. Risultat. di Racc. Imen. nell’ Africa Oc., pag. 65 (585), n. 113, tav. 1. fig. 13. Un solo esemplare, maschio, di località indeterminata. Corrisponde questo esemplare interamente ad un altro tipico, dell’ A- bissinia, che io posseggo in grazia dell’ amicizia del chiaro collega; ne differisce solo per una statura alquanto minore (8 millimetri invece di 9); per le ali meno giallognole, più grigiastre; e per la mancanza della squam- — 134 — mosità argentina cangiante sui segmenti 4.°, 5.° e 6.° ciò che potrebbe: forse attribuirsi a cattiva conservazione dell’ esemplare. La femmina di questa specie, il cui habitat si allarga ora notevolmente, é tuttora sconosciuta. Liris Atropos n. sp. Magna, robusta, nigerrima opaca, mandibulis, antennarum scapo antice, flagelli articulis tribus primis, tarsisque omnibus obscure rufo-ferrugineis ; facie argenteo tomentosa; metathorace fusco puberulo; abdominis segmentis quatuor primis argenteo (vel potius cinereo) parce pruinosis (1); clypeo medio verticaliter carinato, margine summo sat acute sed tenuiter trituberculato ; metanoto supra tenuiter subirregulariter transversim-oblique ruguloso, po- stice (in area verticali) arcuatim crassius rugoso; metapleuris quoque te- nuiter rugulosis; metathorace supra medio longitudinaliter canaliculato x area epipygiali obscure rufo :squamosa; segmento abdominis ventrali se- cundo utrinque ad basim deplanato-compresso, hinc subpyramidali; alis obscure fuscis, violaceo nitentibus, apice nonnihil clarioribus. 9 Long. corp. mill. 21. Un esemplare femmina, dalle sponde del Magnarra. È questa una grossa e robusta specie di color nero uniforme, con pochi riflessi argentini visibili a seconda della incidenza della luce e la posizione dell’ osservatore ; forse in esemplari più freschi questa specie sarà più ric- camente coperta di peli, e di squammette. La statura, la conformazione del clipeo, la scultura del metatorace ed infine la colorazione distinguono nettamente questa specie non solo da quelle conosciute del genere Liris (di cui questa specie presenta tutti i caratteri) ma ancora da quelle degli affini generi Larra e Notogonia. Ammophila ferrugineipes LEP. Ammophila ferrugineipes -- Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III, pag. 383, n. 24. » » — GersT. Peters Reise nach Mossamb. part. V, Insect., pag. 481. Imbhambane. Le due femmine raccolte dal Cav. FoRNASINI sono di grande statura (1) Pubescentia tenuissima et illudente. Forte in eremplaribus recentioribus corpore magîs vestito. — 1395 — ‘(22-24 millimetri), e presentano una colorazione assai più scura di quella del tipo; in esse il torace (eccezion fatta pel protorace) e tutto 1’ addome sono di un uniforme color nero; anche le ali sono assai più oscure. Specie appartenente piuttosto all’ Africa Australe; venne già raccolta in abbondanza a quanto pare al Natal ed al Capo; trovasi pur anco però a ‘Sierra Leona, ed al Senegal; il compianto Marchese AnTINORI ne racco- glieva pure un esemplare nello Scioa. Il PETERS infine la portava da Tette e da Inhambane. Psammophila Madeirae DAHLB. -«Psammophila Madeirae . — DAHLB. Hymen. Europ. v. I, pag. 21. » senilis . .-— DAHLB. Hymen. Europ. v. I, pag. 21. » canescens? — DaHLB. Hymen. Europ. v. I, pag. 21. Ammophila argentea?. . — BruLLÈ. Hist. Nat. des Iles. Canar. v. IIl, pag. 65. » argentata . . — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III, pag. 366, n. 3. » Klugii . . .— Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III, pag. 367, n. 5. » capensis . . — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III, pag. 768, n. 7. Psammophila capucina . — Costa. Faun. Napol. Sphec. pag. 15, n. 3, tav. II, fig. 4. » » — Costa. Prosp. d. Imen. Ital. fasc. 1.°, pag. 17, n. 3. Due esemplari, uno maschio ed una femmina delle rive del fiume Ma- gnarra. L’ area di diffusione di questa specie, abbastanza comune, va crescendo ogni giorno più, e finirà senza dubbio, per comprendere tutta la regione cireummediterranea, e la regione etiopica. Io per parte mia la posseggo, autenticamente, dalla Francia meridionale (Marsiglia), dall’ Algeria, Tunisia, I. di Madera, Senegal e Capo di Buona Speranza. Si troverebbe inoltre nel Napoletano (Costa), Coste del Mar Rosso (MAGRETTI). Alle diverse indicazioni date relativamente a questa specie dai varii autori é bene aggiungere che il pezziuolo propriamente detto (cioé la prima parte del primo segmento) é lungo quanto la somma delle lunghezze delle anche (coxae) e dei trocanteri posteriori. Che inoltre l'addome (ed in ge- nerale anzi tutto il corpo, specialmente nei maschi) è relativamente magro e sottile. Che lo scudetto è irregolarmente rugoso-punteggiato in senso longitudinale. E che infine il clipeo si protende abbastanza notevolmente sulla bocca per mezzo di una lamina di forma quasi rettangolare. Gli esemplari variano molto di grandezza, come pure di colorazione per l’addome. La femmina del Mozambico è di statura e colorazione media. Invece il maschio che l accompagna è di notevole statura, e col dorso ‘dell’addome quasi interamente nero; sono su questo dorso rosse soltanto le basi del secondo e terzo segmento. — 136 — Pelopoeus spirifex Linn. Sphex spirifex . . — Linn. System. Nat. v. II, pag. 942, n. 2. Pelopoeus spirifex — LaTR. Gen. Crust. et Ins. v. IV, pag. 60. » » —— Auctores Omnes. ( Sponde del Magnarra: un esemplare femmina. È questa una fra le specie che hanno un’ area di diffusione più estesa; essa abita tutta l’ Europa centrale e meridionale, buona parte dell’ Asia, ed in Africa abbondantissima nella regione nordica (quella inchiusa nella regione paleartica), si estende poi fino al Capo di Buona Speranza; nei paesi circostanti al Mediterraneo essa è comunissima ovunque. Sphex Magrettii n. sp.? S. metallicae TAscHENB. (1) ‘et S. Taschenhbergi MAGR. (2) affinissima quidem et simillima, et forte tantum earum varietas intermedia : thorace toto nigro- villoso et corpore minus argenteo-pruinoso ab una, facie dense argenteovil- losa ab altera dignoscitur. 9 Long. corp. mill. 27-29. Il Cav. FORNASINI raccoglieva due esemplari, femmine, di questa forma ad Inhambane; un terzo esemplare, pur femmina, trovasi nella mia col- lezione, proveniente dall’ Isola di Zanzibar. La presenza nella mia collezione di due femmine (provenienti dalla Siria) che senza alcun dubbio si riferiscono alla bella S. metallica del TAscHEN- BERG, come pure di una femmina tipica della S. Zaschendergi che io debbo alla generosa amicizia dell’ ottimo Dott. MAGRETTI, ha agevolato lo studio dei tre esemplari che ho designato col nome di S. Magrettii, studio che senza di ciò sarebbe riuscito intricatissimo, come sempre avviene quando si è in presenza a forme molto vicine fra di loro, e con caratteri tran- seunti. Un dubbio grave però mi rimane ancora; quello cioé se queste tre forme si presentino con tali condizioni da legittimare la loro separazione in distinte specie (pur nel senso elastico oggidi ormai universalmente adottato), oppure si debbano considerare come semplici varietà di una unica forma (1) Sphex metallica TascHENBERG. Die Sphegidae des Zoologischen Museums der Universitàt in Halle (Zeitschr. f. d. gesamm. Naturwissenschaften. 1869) pag. 414, n. 9, (2) Sphexa Taschenbergi MacRETTI. Risultati di raccolte Imenotterologiche nell’ Africa Orientale (Annali d. Museo Civico di Genova) pag. 581, n. 106, — 137 — principale. Anche adesso se dovessi dare a tal riguardo un giudizio espli- cito non oserei di farlo. Queste tre forme sono per i caratteri plastici affatto identiche fra di loro; io almeno non seppi rilevare differenze sensibili, all’ infuori di una leggera maggior convessità dello scudetto nella Taschendergi, ad una non meno lieve maggior robustezza dell’ addome nella metallica (1). Ma invece differiscono grandemente nella vellosità che é di color argentino sulla faccia sia della metallica che della Magrettii, nera nella Zaschenbergi: sul torace poi la metallica ha i due primi segmenti (pro- e mesonoto) coperti da pelurie grigia, il terzo (metanoto) vestito di pelurie di un bruno nero: tutto il torace invece è uniformemente vestito da pelurie bruno-nero nelle Taschenbergi e Magrettit: queste due specie poi ancora hanno in propor- zione minore i riflessi metallici argentini che adornano il derma della me- tallica. La Magrettii ha assai più scure le macchie sull’ estremità delle ali. Resta a vedere se dai maschi si possano trarre migliori argomenti per la soluzione del presente problema. Ho voluto dedicare questa, o specie o varietà nuova, all’ egregio amico e distinto naturalista Dott. MAGRETTI in segno di riconoscenza pel cortese dono della affine 7'aschenbergi. Chlorion mazillaris D. BeAUV. Pepsis maxillaris . .— Pat. DE Beauv. Ins. Afric. et Americ. pag. 89, tav. I, fig. 1. Q Pronaeus maxillaris . — LEP. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. II, pag. 331, RIEN iI » instabilis. . — SmirH. Catal. of Hymen. Ins. part. IV, pag. 340, n. 4. Chlorion subcyaneum. — GersT. Peters Reise nach Mossamb. part. V, Insect. pag. 482. » mandibularis — Sauss. Reise d. Fregatt. Novara. Hymenopt. pag. 37, n. 2 (partim). Pronaeus maxillaris . — MaGcRrETTI. Risult. di Racc. Entom. n. Africa Or. (Ann. Mus. Civ. di Ge- nova 1884) pag. 579, n. 103. » instabilis. . — MAGRETTI. id. id. pag. 580, n. 104. Due esemplari, entrambi femmine, ed identici, raccolti sulle sponde del fiume Magnarra. Questa bella e grossa specie (che pare sparsa su larga parte dell’Africa, ma ovunque assai rara) variando molto sia di statura che di colorito venne descritta sotto diversi nomi da varii autori; a parer mio il Pronaeus in- BI (ui (1) A mio parere l’ affinissima ,S. argentata di FaBRIcIUS è specie assolutamente, e senza alcun dubbio possibile, diversa dalla metallica, non meno che dalla Tasehenbergi, e Magrettit: però a parer mio il chiarissimo professore tedesco nella sua diagnosi della metallica ha trascurato i ca- ratteri più importanti; che consistono anzitutto in una maggior abbondanza, ma ad un tempo maggior finezza delle spine che armano le gambe della sua metallica a confronto dell’ argentata: in secondo luogo poi, e sopratutto, nella conformazione dell’ addome che è relativamente assai Serie V. — Tomo IV. 18 —Ss= stabilis dello SmirA. (1) ed il Ch/lorion subeyaneum del Dott. GERSTAE- CHER non sono altro se non che varietà a colore più o meno chiaro delle antenne, testa, gambe ed addome (2). Nella mia collezione trovo tre esem- plari (9 g) che ritengo appartenere a questa specie: essi provengono dal Congo da Benue (Africa Occ.) e dalla Nubia (Bahr el Salaam, Africa Or.). Presentano molte differenze fra di loro anzitutto per la statura, la quale risulta rispettivamente per i tre esemplari di 39, 33 e 27 millimetri. Oltre a ciò l esemplare nubiano ha il corpo di color nero-azzurro (3), con la testa, antenne, gambe, e due ultimi segmenti addominali di color rosso- testaceo: 1’ esemplare di Benue ha queste parti (ad eccezione del penul- timo articolo addominale, che é di color azzurro) di color rosso più chiaro, più vivace; del torace la metà anteriore é di color nero-azzurro intenso, l’altra metà di color azzurro; l’ addome (eccettuato l’ano ferruginoso) é di un color azzurro abbastanza chiaro e vivace. L’ ultimo esemplare infine (quello del Congo) ha tutto il corpo, compresa la testa di color nero intenso, appena appena lavato di azzurro scurissimo sull’ addome; le antenne, e le gambe sono di color bruno rossiccio scurissimo (nelle gambe specialmente). Quest’ ultimo esemplare si avvicina moltissimo al maaillaris tipico, gli altri due invece molto più all’ insfabdilis dello SmitH. I due esemplari rac- colti dal FORNASINI sì possono considerare come intermedii fra |’ esemplare del Congo e gli altri due: hanno la statura di circa 33 a 34 millimetri; il rosso ferruginoso delle antenne, gambe, testa è molto oscuro bensi ma più grosso, massiccio, sferoidale nell’ argentata, ed invece più sottile, più allungato, e più piatto nella metallica. Quest’ ultima costruzione si presenta ancor più marcata sia nella Taschendergi sia nella Magrettii. A mio giudizio la vera Sphex argentata è specie propria delle faune indiana, ed australiana (io la ricevetti, autenticamente, da Giava, Sumatra, Celebes, China, Nuova Guinea ed Australia, Queensland), e non si trova nelle regioni paleartica, etiopica, e meno che mai neoartica, ove è sostituita da specie affini, e con essa finora confuse, come la metallica, Taschenbergi ecc. In realtà la Sphex argentata varia pochissimo all’ infuori della statura; sopra dieci esemplari Q Q un solo, proveniente dalle Isole Aru, presenta una differenza alquanto visibile nella colorazione delle ali, che sono leggermente velate di giallo invece di essere limpidissime, quasi argentine come nel tipo. Anche un grosso esemplare proveniente dallo Siam (Renong) presenta le ali al- quanto infuscate (sopratutto all’ estrema apice) e leggermente colorate di giallo-bruniccio, fra gli otto maschi invece non v'è alcuna differenza all’ infuori della statura (da 17 a 26 millimetri). (1) Lo stesso deve forse pur dirsi pel Pronaeus affinis SMITH. (Catal. of Hymen. Ins. pag. 240); non faccio più un’ affermazione così recisa per questa specie (che non conosco in natura) perchè nella descrizione risulta un carattere (scanalatura longitudinale del protorace) che potrebbe forse avere un vero valore differenziale specifico. (2) Pur ammettendo che i CA. maxillaris, instabilis, subeyaneum, e fors’ anco l’ affinis siano varietà di una medesima specie, riesce però impossibile riunirle al CA. mandibularis FABR. come fa il Chiar. DE SaussurE (Novara Reise Hymen. pag. 38); le prime quattro forme hanno ie ali uniformemente oscure, affumicate, cangianti in violaceo, mentre quelle del CX. mandibularis sono di color fulvo, o giallo, o ferruginose, nell’ estremità affumicate. Carattere questo che ha valore specifico non presentando variazioni. (3) Il torace è però quasi affatto nero intenso, eccettuati i fianchi che son verdognoli. — 139 — assai meno che nel mio esemplare congolese, e sul corpo è più sensibile la colorazione azzurrognola. In tutti questi esemplari le ali sono uniformemente affumicate, quasi opache, e dotate di riflessi violacei. Un esemplare maschio (raccolte ad Inhambane) si deve assai proba- bilmente riferire ancora a questa stessa specie; disgraziatamente le pes- sime condizioni in cui sì trova (mancano, fra altro, completamente le ali, la cui colorazione è di grande importanza in questo genere) non permettono di fare alcuna affermazione assoluta a suo riguardo. Se é giusta la mia ipotesi, questo maschio rappresenterebbe la varietà denominata dal DE SaussurE unicolor: perché tutto il corpo é di un color nero abbastanza intenso uniforme; assai poco marcati sono i riflessi az- zurri-scurissimi sull’ addome, ed anche meno sul torace. Le appendici poi, cioé antenne e gambe, sono di color fuliginoso scurissimo ; i peli, e le squammette presentano un color bruno cioccolatto un po’ più chiaro. Ampulex cyclostoma n. sp, Mediocris, sat validus, modice nitidus, viridis, cyaneo nonnihil micans, tibiis, tarsorum et antennarum basi coeruleis, taàrsorum, antennarum man- dibularumque apice nigro; corpore toto parce et breviter sat uniformiter griseo pilosulo; alis hyalinis, venis testaceo-fuscis, basi costaque obscu- rioribus; capite crasse denseque punctato; clypeo medio longitudinaliter for- titer carinato, apice late truncato vel arcuato-emarginato ; antennarum tuberculis superne ramulos duos verticaliter emittentibus, his supra ar- cuatis, in occello antico confluentibuss; antennis, comparate, subbrevibus, articulo tertio tantum fere duplo scapo longiore $ prothorace (supra viso) subquadrato, valde irregulariter punctato, antice medio longitudinaliter profundissime sulcato, utrinque tumidulo, postice elevato-subpyramidato, medio tuberculo sat acuto integro instruceto (facie declivi ante tubercu- lum medio nitida, impunctata); metathorace crasse modice punctato , medio longitudinaliter profunde trisulcato, utrinque postice profundissime sat late depresso-excavato; scutellis modice punetulatis; metathorace lon- gitudinaliter novemcearinulato, inter carinulas transversim irregulariter ele- vato-strigato ; carinulis omnibus rectis ; carinis tribus centralibus postice attenuatis, discretis (media longitudinali, lateralibus nonnihil obliquis); ca- rinis2.° et 3.° obliquis subparallelis in carinam apicalem transversam margi- nalem metanoti confluentibus; carinulis duabus eaternis minus regularibus, potius in metapleuris quam in metanoto sitis, in tubercula duo lateralia me- — 140 — tatoracis apice desinentibus; his tuberculis minutis; abdomine crasse, sat dense, subuniformiter punctato ; segmento primo tam lato quam secundo medio longitudinaliter tenuiter polito, fere subcarinulato; pedibus, compa- rate subbrevibus; alarum cellulis cubitalibus completis duabus; tegulis mi- nutis. t' Long. corp. mill. 11. Un solo esemplare raccolto sulle sponde del Magnarra. Questa specie si riconosce facilmente per la speciale troncatura del clipeo, il quale nelle altre tutte (per quanto almeno mi consta sia dal- l’esame diretto, sia dalle diagnosi degli autori) é invece sporgente, nel mezzo all’ innanzi, in una punta acuta, non raramente fiancheggiata da altre due minori. Oltre a questo carattere essa si distingue anche dalle altre specie note per altri non meno importanti. E cosi oltre che per la colorazione delle gambe differisce dalla compressa FAB. per la punteggiatura più grossolana e fitta; per la mancanza di rughe trasversali sul pronoto (il quale d’ al- tronde è di configurazione triangolare nella compressa, mentre invece é all’ incirca quadrato nel cyelostoma ; inoltre in questa la scanalatura me- diana é assai più profonda ma per contro più breve); per la minor lun- ghezza delle antenne e dei piedi (il terzo articolo é lungo quasi due volte e mezzo il primo nella compressa, e meno di due volte nella cyelostoma); così pure sono assai più corti, proporzionatamente, la tibia ed il primo articolo dei tarsi nella eyelostoma ; il penultimo articolo invece non pre- senta nulla di anormale (1)); per la maggior profondità del solco mediano del mesonoto, e per la separazione dei due solchi laterali dalle depressioni latero-posteriori (nella compressa sono invece confluenti); pel diverso di- segno delle rugosità del metanoto (nella compressa le rughe longitudinali sono tutte giacenti sulla superficie dorsale piana orizzontale del metatorace, invece nella cyelostoma le due più esterne si trovano di già sulla superficie verticale dei fianchi; inoltre nella compressa le rughe longitudinali seconda e terza alla base sono confluenti, mentre son tutte distinte e separate da spazi uguali e regolari nella cyelostoma'; inoltre ancora sono nella com- pressa più regolari le rughe trasversali del metanoto); per i tubercoli la- terali del metatorace più piccoli; ed infine per l’ uguale larghezza dei due primi segmenti addominali (il primo è nella compressa assai più stretto del secondo). (1) Ciò che contribuisce a distinguere la cyelostoma della purpurea WEsTw e della cyanipes WESTW. — 141 — Differisce la cyclostoma dalla sibirica FAB. (1) pel celore delle ali, per l’ integrità del tubercolo del pronoto, e per la mancanza degli spazi mar- ginali lisci ed oscuri dei margini dei segmenti addominali. Anche per la colorazione delle ali, (come pure del clipeo e delle mandibole) e pel di- segno delle rughe metatoraciche, come pure per la conformazione dei tarsi differisce la cyelostoma dalle purpurea WESTW, e cyanipes WESTW. (2). Si distingue ancora dalla cuprea SMmitA per la scultura del protorace, del metatorace e dell’ addome. E così pure per la scultura del torace e e dell’addome e per varii dettagli di colorazione la cyelostoma distinguesi dalle nebulosa, SMITA, chalybea, SMITH (3). Maggiori sono poi ancora le differenze fra la eycelostoma e» le varie specie indo-malesi. Agenia rostrata n. sp. A. personatae GRIB. affinissima quidem et simillima certe autem facilli- meque dignoscitur antennis brevioribus et crassioribus perparum involutis ; elypeo minori (sed sat antice producto) minus tumido, planiuseulo, una cum labro et mandibulis rostrum obtusum efficiente (hinc facie infra elongata, verticali); metathorace nonnihil breviore et magis rotundato, crassius trans- versim ruguloso; alarum anticarum cellula cubitali tertia nonnihil altiore (hinc magis quadrata); tarsorum duorum anticorum ungquiculis robuste infra bidenticulatis (tarsi quatuor posteriores carent in unico esemplare viso); pe- dibus brevioribus; abdomine magis depresso; alis magis fuscis; pedibus omnibus omnino rufo-testacets, unicoloribus, immaculatis; mesopleuris fere totis rufo-ferrugineis. Long. corp. mill. 12. Un unico esemplare dalle sponde del Magnarra. Approfitto di questa circostanza per descrivere il maschio (finora ignoto) della mia Agenia personata, od almeno quella forma che parmi potersi con qualche speranza di esattezza riferire all’ A. personata. È tanto più necessario dare questa descrizione onde si possa far meglio il parallelo fra la personata e la rostrata. (1) Specie che non conosco in natura. (2) Questa diversifica pur anche per la mancanza del solco centrale del mosotorace. (3) La cyelostoma è poi anche sprovvista delle villosità speciali sul postscudetto e sulle anche posteriori che si notano nella nebulosa. — 142 — ‘Agenia personata GRIB. c' A foemina (praeter notas sexuales) differt clypei margine antico ample sed parum profunde emarginato (haud late arcuato convexo); metathorace nonnihil longiore et minus convexo, magis deplanato-declivi; abdomine non- nihil magis compresso segmento primo graciliore basi magis attenuato ; coxis duabus anticis rufo-testaceis, coxis quatuor posticis infra testaceo late maculatis; mesopleuris rufo maculatis; antennis pedibusque valde elongatis. Long. corp. mill. 15. Un esemplare, proveniente da Sierra-Leona, si trova nella mia col- lezione. Debbo dichiarare che quest’ accoppiamento é tuttora solo ipotetico, poi- ché malgrado i numerosi ed importanti punti di affinità che il maschio in questione presenta con. le femmine dello Scioa da me altra volta de- scritte, pure non bisogna dimenticare talune differenze di non piccola im- portanza, che non oserei affermare senz’ altro come solo sessuali. Tali sarebbero la concavita del margine anteriore del clipeo (che invece nella femmina é convesso) (1); la depressione e la, lieve, maggior lunghezza del metatorace, ed anche forse la compressione dell’ addome. In verità pel facies e costruzione generale del corpo il g' della rostrata si avvicina meglio alla £ della personata; ma la forma affatto diversa della faccia, del elipeo, e delle unghie tarsali non permette di accettarne l’ accoppiamento. La conoscenza di nuovi esemplari, e sopratutto, se fosse possibile, os- servazioni dirette in individui viventi potranno solo risolvere gli accennati dubbi. Ferreola pompiloides n. sp. Sat magna et robusta, compressa, nigra opaca labro, mandibulis (apice eacepto), antennis infra, genubus, tibiis tarsisque, alarum tegulis, una cum pygidio obscure rufo-ferrugineis; alis fiavis, apice summo (post cellulas clausas) fumatis; clypeo mediocri, transverso, nonnihil tumidulo, apice recte truncato; antennis brevibus sat rectis, modice robustis; capite, thorace per- paullulum latiore, parvo deplanato; prothorace antice subtruncato; pronoto declivi, parce convexo, transverso (fere sesqui latiore quam longiore), postice parum profunde subarcuato-emarginato ; metathorace subquadrato, supra (1) Che pel rimanente è identico in tutto a quello della femmina. — 143 — | planiusculo declivi, postice truncato-subemarginato, hine utrinque subangqu- loso, laevi (sed haud nitido); alarum anticarum cellula cubitali tertia se- cunda minore, radialem versus cospicue angustata, subtriangulari ; alarum posticarum cellula anali longe post originem venae cubitalis terminata; pe- dibus parce sed sat robuste spinosis, tarsis anticis parce armatis, haud pe- etinatis; tarsorum anticorum unguiculis bifidis (1); abdomine thorace latiore, capite thoraceque simul sumptis nonnihil longiore, robusto, subsessili, apice distincte compresso; segmento ventrali secundo integro; pygidio sat dense setoso; corpore toto fusco-pruinoso. 9 Long. corp. mill. 18. Un solo esemplare raccolto sulle sponde del Magnarra. Questo pompilide per le sue antenne relativamente brevi, parcamente incurvate ed inserite molto in basso, per la testa piatta, pel torace relati- vemente lungo, e parallelepipediforme, per l’ addome fortemente com- presso nei suoi ultimi articoli, si deve inscrivere nel genere Ferreola quale almeno è inteso dagli autori più recenti (come SAuUssuRE, SMITH ecc.) (2); genere che in sostanza é definito più pel suo facies, in verità assai carat- teristico, che per veri caratteri positivi. Siccome però taluni caratteri del genere Ferreola nella nostra specie sono poco accentuati (e cosi il protorace è ancora trasversale, il metato- race è appena quadrato, e la sua incavatura per ricevere |’ addome é poco profonda, le antenne sono assai sottili ecc.) cosi questa specie costituisce un anello di passaggio fra le Ferreolae tipiche ed i Pompilus (3). È questa una specie mediocremente grossa ma assai robusta; per la conformazione del corpo si avvicina assai alla Ferreola collaris FABR. della Nuova Olanda (almeno fra le specie a me note in natura). Ai caratteri enunciati nella diagnosi sara forse bene aggiungere che gli articoli dei tarsi hanno la conformazione e le proporzioni solite, non si presentano cioé più brevi dell’ usato, come nel sottogenere Pedinaspis. Pompilus nudatus SMITH. Pompilus nudatus. — SmirH. Catal. of Hymen. Ins. in the Coll. of the Brit. Mus. Part. III, pag. 133, n. 73. (1) Tarsorum quatuor posticorum articuli ultimi in specimine unico viso carent. (2) Dovrebbe forse trovar posto nel sottogenere Pedinaspis del KonL.; ma è questa una suddi- visione molto incerta. (3) Questo fatto anzi mi dà un lontano sospetto che forse la mia specie non sia altro che «il Pompilus diversus del DAHLBOM. = d4i — Var. sudus mihi. A typo differt statura maiori antennis tantum articulis duobus ultimis obsolete obscurioribus, prothorace toto, et cogis omnibus rufis, mesopleuris rufo maculatis. 9 Long. corp. mill. 17-18. Credo di riconoscere questa specie smithiana in due esemplari fem- mine, che il Cav. FORNASINI raccolse sulle sponde del fiume Magnarra, mal- grado le differenze di colorazione, statura, e patria (1), perché in ogni: altra parte la descrizione del nudatus si attaglia perfettamente ai detti esemplari (2). Si poteva aver dubbio che questa forma fosse una varietà del P. ru- tilus KLuG, alla quale specie si avvicina per la colorazione del corpo, pel disegno della venulazione alare, per la conformazione dei tarsi, ma si distingue per la colorazione delle ali, per la mancanza dei tubercoli basali del metatorace, e per la maggior finezza della rugolosità che copre que- st’ ultimo (3). Non parmi adunque che queste due forme possano riunirsi in una specie sola. Una differenza però trovo anche fra gli esemplari mozambici e la dia- gnosi smithiana, là dove questa dice — he second submarginall cell longer than the third. — Negli esemplari mozambici in verità la seconda cubi- tale è alquanto più lunga della terza, ma lo é cosi poco da non meritarsi un cenno così speciale al riguardo, tanto più che le osservazioni a questo riguardo non sono frequenti nelle diagnosi smithiane. i Pompilus Kohli Rapowsz. Pompilus Kohli — Rapowszk. Faun. Hymen. Transcasp. (Horae Soc. Ent. Ross. t. XXII, 1857) pag. 344. » » — RapowszK. Bull. Soc. Imper. Nat. de Moscou. (1888) pag. 466. Un solo esemplare, femmina, di questa rara specie venne raccolto sulle sponde del Magnarra. Finora questa specie era stata raccolta solo ad Astrhabad (Turcomannia). (1) Il Pompilus nudatus venne per la prima volta trovato a Trebizonda (Asia Minore). (2) Rimane però sempre a verificare la dentellatura delle unghie tarsali, carattere questo im- portantissimo, e dallo SmitH completamente trascurato. Negli esemplari mozambici tutti i tarsi hanno uniformemente le unghie tarsali ben distintamente armate di un acuto dente normale, nella sua metà, al margine interno. (3) Metathorace transversim elevato striato, nel P. rutilus, mentre invece gli esemplari del Mo zambico sarebbero — subtillissime transversim ruguloso. — 145 — Pompilus sepulchralis SMITH. Pompilus sepulchralis — SmitH. Descript. of New spec. of Hymen. in t. Coll. of t. Brit. Mus. pag. 146, n. 17. Quantunque |’ unico esemplare (£) raccolto dal FornasINI (sulle sponde. del Magnarra) sia in cattivissimo stato, pure credo di riconoscere questa specie in grazia del confronto fattone con un esemplare della mia colle- zione proveniente da Port Elizabeth. Im questi esemplari non si possono riconoscere le tinte verdi del primo segmento addominale, e verdi-azzurre del torace, ma ciò forse in causa della poco buona conservazione dei detti due esemplari. Nel mio esemplare di Port Elizabeth i riflessi delle ali sono cangianti dal violetto al verde. In questa specie i due tarsi anteriori hanno le unghie bifide, mentre i quattro posteriori le hanno unidentate. Singolare poi é la conformazione delle cellule cubitali: la seconda pre- senta la figura di un rombo quasi regolare, con un’ appendice breve, tron- cata, un po’ inflessa nel suo angolo inferiore-posteriore: in causa di questa appendice la terza cubitale é nel suo margine discoidale un po’ più stretta che ai tre quarti della sua altezza; verso il margine radiale è assai poco ristretta, onde riesce di larghezza poco variabile dall'alto al basso. Pompilus plumbeus Far. Sphex plumbea . .— Fagr. Mantiss. Ins. v. I, pag. 278, n. 64. Pepsis plumbea . .— FaBR. Syst. Piezat. pag. 215, n. 40. Pompilus pulcher .— Fagr. Ent. Syst. Suppl. pag. 249, n. 19. » » — FaBRr. Syst. Piezat. pag. 193, n. 29. » » — Spin. Ins. Ligur. p. I, pag. 69, n. 4. » » — v. d. Linp. Observ. s. 1. Hymen. Fouiss. d’ Europ. v. I, pag. 37, n. 2. » » — DaHLB. Hymen. Europ. v. I, pag. 43, n. 22. » plumbeus — » » » » » pag. 41, n. 21. » pulcher . — LeEP. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. DI. pag. 424, n. 11. » plumbeus — ScHENCK, Beschr. d. in Nassau aufgef. Grabw. pag. 228, n. 1. » pulcher . — Luc. Expl. Scient. d’ Alger. Hymen. pag. 268. » plumbeus — Costa. Fauna Napol. Pompil. pag. 25, n. 3. » » — Cosra. Prosp. d. Imen. Ital. p. II, pag. 58, n. 7. Una femmina venne raccolta sulle sponde del Magnarra. Piccola ma elegante e simpatica specie, avente un’area di dispersione geografica larghissima. In modo certo risultò secondo varii autori gia tro- vata in tutte le parti d’ Europa, nell’ Asia Minore, nel Turkestan, in Egitto, Serie V. — Tomo IV. 19 — 146 — in Algeria, a Porto Natal; io poi la posseggo inoltre di Tunisia, Nubia, e Senegal. Assai probabilmente essa venne trovata già in altre località, ma descritta sotto altri nomi. La statura di questa specie é assai variabile, come pure l’ estensione e l’intensità della finissima pelurie cinereo-argentina che ne adorna varie parti del corpo. I maggiori esemplari che io conosco sono questi del Mo- zambico ed uno del Senegal, i quali oltrepassarono i 10 millimetri, mentre altri di Tunisia e di Europa non raggiungono i 7 millimetri. In generale gli esemplari africani sono più riccamente coperti di lanugine cinereo-) argentina. Le unghie dei tarsi, che ho accuratamente esaminate, sono in questa specie armate di un piccolo dente piantato normalmente alla curvatura interna dell’unghia. È questo il carattere più essenziale che la distingue dall’ affinissima Paracyphononye Paulinerii GuER. Hemipepsis vindex ? sMITH. Mygnimia vindex . — SmrrH. Catal. of Hymen. Ins. in t. Cat. of t. Brit. Mus. part. III, pag. 186, n. 18. Hemipepsis vindex — GeERsT. v. d. Deckens Reis. in O. Afr.; Gliederth. pag. 327, n. 22. Var. subintegra mihi. Typo (41) similis differt clypeo margine antico parum emarginato, an tennis unicoloribus, obscure rufis; capite, tibiis tarsisque duobus anticis ob- scure rufis; coeterum corpore pedibusque nigro-fuscis. Riferisco, però con dubbio, a questa specie smithiana una femmina raccolta ad Inhambane dal Cav. FoRNASINI; e la riferisco essenzialmente in base alla descrizione parziale del Dott. GERSTAECKER; poiché l’ esem- plare in questione presenta precisamente le due aree traslucide alla base della prima discoidale, ed all’ apice della prima cubitale di cui parla il GERSTAECKER. Ciò che é fonte di dubbio sull’ esattezza del riferimento specifico di questo esemplare non sta tanto nella differenza singolare della colorazione, quanto nella poca profondità della incavatura del margine anteriore del clipeo, mentre lo SmitA dice — he elypeus having the an- terior margin widely emarginate. — Ove sia pur vera quindi l’ identità spe- cifica, questa sarebbe dunque una varietà notevolissima, degna perciò di venir distinta con nome speciale, che poi in caso contrario potrebbe ser- vire di nome specifico. (1) Mihi în natura ignoto. — dump Relativamente alla colorazione generale del corpo non è male il far osservare che l’ esemplare del Mozambico è molto vecchio e logoro, e che probabilmente ha soggiornato nell’ alcool. Meria semirufa GERST. Meria semirufa . — GeRrsT. Peters Reise nach Mossamb. Part. V, Insect. pag. 489, tav. XXXI, fig. 9. Q Myzine cingulata — GERST. id. id. id. id. id. id. pag. 491, tav. XXXI, fgA10G) Due esemplari femmina ed un solo maschio, tutti raccolti sulle sponde del fiume Magnarra. Contrariamente all’ opinione del Dott. GERSTAECKER io ritengo che real- mente la sua Myzcine cingulata sia il maschio della sua Meria semirufa: anzitutto dalla forma del suo addome, come pure dalla conformazione della sua venulazione alare non vi é dubbio che quest’ insetto appartiene veramente al Genere Meria. Non posso poi invece affermare così recisa- mente che esso abbia ad essere senza fallo il maschio della Meria semi- rufa anziché di altra specie. Ove però si tenga conto che in entrambe le volte che si raccolsero Imenotteri al Mozambico sempre si presero assieme queste due forme, vi é logicamente ragione di pensare che esse si ap- partengono assai probabilmente: d’ altra parte riguardo alla loro confor- mazione, statura, e colorazione esse stanno all’ incirca nello stesso rap- porto che le altre specie del Genere Meria, per le quali la legittimità del connubio é definitivamente accertata. In questa specie è molto larga la fessura così singolare, che divide profondamente in due le ali anteriori, e che incontrasi solamente, a quanto mi risulta, nelle femmine del Genere Meria. Discolia ruficornis FABR. Var. melanaria Burm. Scolia ruficornis . — FaBr. Entom. System. v. II, pag. 230, n. 9. g* » » — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III. pag. 524, n. 8. Discolia ruficornis — Sauss. et SIcH. Catal. Spec. Gen. Scolia, pag. 85, n. 62. Scolia melanaria . — Brum. Bemerk. ueb. Allgem. Bau un Geschl. bei d. Art. d. Gatt. Scolia. pag. 38, n. 63. Discolia melanaria — Sauss. et SricH. Catal. Spec. Gen. Scolia. pag. 82. » » — GersT. Peters Reise nach Mossamb. part. V. Insect. pag. 494. Tre esemplari furono raccolti ad Inhambane. — 148 — Non vi ha per me alcun dubbio che la ,S. melanaria non sia altro se non una varietà della S. ruficornis: come pure la S. caffra Sauss, e castanea PascHn. e forse qualche altra ancora. Questa specie venne già trovata in molte località oltre che nello stesso Mozambico: cioè in Arabia, Nubia, Abissinia, Cafreria (!), Natal, Capo B. Speranza, e Senegal; io la posseggo di Zanzibar, della Baia d’ Algoa, e di Madagascar. Mutilla Guineensis FABR. Mutilla Guineensis — FaBr. Ent. System. v. II, pag. 367, n. 3. Q » » — Fagr. Syst. Piezat. pag. 429, n. 4. 9 » » — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. III pag. 640. n. 59. » ) — GeRrsT. Peters Reise nach Mossamb. part. V, pag. 486, tav. XXXI, fig. 4, 5. Q (OÌ » » — Rapowsz. et Srcu. Ess. d’ une Monogr. des Mutilles. pag. 87, n. 57. Q © Una femmina raccolta in località non designata; essa presenta una statura veramente gigantesca perché misura circa 25 millimetri, mentre le dimensioni solite variano dai 16 ai 20 millimetri al più. Il colore rosso del torace é in questo esemplare scurissimo, quasi nero. Io posseggo due esemplari provenienti dall’ Isola di Zanzibar in cui il to- race é di color nero intenso quanto 1’ addome. Questa specie venne già raccolta al Mozambico, ad Inhambane, e Tette : altre regioni di sua abitazione constatata sono la Guinea, ed il Senegal; io la posseggo di Zanzibar, del Senegal, e dello Scioa. Mutilla Tettensis GERST. Mutilla Tettensis — GERST. Peters Reise nach Mossamb. part. V. Insect. pag. 458, tav. XXXI, fig7. 92 » » — Rapowsz. et SicH. Ess. d’ une Monogr. des Mutill. pag. 116, n. 85. Q Sponde del Magnarra: un solo esemplare. Alle descrizioni sopra ricordate di questa specie credo utile di aggiun- gere che la piccola carena ventrale del primo segmento appartiene al tipo numero 2 della Monografia del RapowszgowsKky: la depressione mediana é in questa specie pronunciatissima, tanto che a primo aspetto la carena appare come costituita da due distinti tubercoli. L’ epipigio porta uno stemma ben determinato e delimitato da una bordatura sottile, distinta: la sua superficie è fittamente ed abbastanza profondamente striata per lo lungo. — 149 — È questo, per quanto mi risulta, il secondo esemplare conosciuto di questa bella specie, che sarebbe quindi assai rara, e propria della sola fauna mozambica. Mutilla Fornasinii n. sp. Parva, sat robusta, capite thorace pedibusque obscure spadiceo-ferrugi- neis, abdomine nigro: segmentis abdominalibus 1.0, 2.2, 3 argenteo mar- ginatis, fasciis 2. et 3. medio interruptis; segmentis sequentibus nigro-ciliatis, epipygio argenteo-ciliato : ventre pedibusque albo puberulis: capite antice viso trapezino confertissime irregulariter punctulato granoso ; oculis exertis, ovalibus: thorace subparallelepipedo, basi parumper angustiore quam apice, profunde confertim irregulariter punctato, punectis longitudinaliter confluen- tibus, apice recte truncato, margine spinis septem acutis productis armato spina intermedia longiore, lateralibus ordinatim decrescentibus: abdomine subsessili, ovato-conico: segmento primo brevi, plano, subtus carinato; ca- rina conspicua, elevata, quadrata: segmento secundo magno, haemispherico, glabro (fascia marginali argentea excepta), supra profunde longitudinaliter et irregulariter striolato-punetato, subtus punetulato: caeteris segmentis con- fertim punctulatis; epipygio distincte peltato; pelta ovata, longitudinaliter rugosa. 9 THongNeorp.mill%9: Un esemplare raccolto sulle sponde del Magnarra. Questa singolare e notevole specie è affine alle M. pectinata RADOSZ. e deformis SMITH., ma per numerosi ed importanti caratteri ben distinta da entrambe. Rimarchevolissime sono le sette acute spine orizzontali che armano il margine posteriore del torace: esse sono molto sporgenti, e robuste quan- tunque acute: l’ intermedia é la maggiore, le laterali vanno gradatamente diminuendo di lunghezza, ma anche le due estreme laterali sono ben notevoli. Dedico questa singolare specie all’ egregio suo raccoglitore, che arricchi le collezioni italiane di cosi interessanti materiali. — 150 — Mutilla interrupta OLIv. Var. aestuans GERST. Mutilla interrupta — OLiv. Encycl. Méthod. v. VIII, pag. 62, n. 39. Q » » — Kcuc. Symb. Physic. tav. IV, fig. 11. 9 » » — Lep. Hist. Nat. d. Ins. Hymen. v. III, pag. 639, n. 67. 9 » » — Rapowsz. et SicH. Ess. d’ une Monogr. des Mutill. pag. 85, n. 54. » aestuans — GeRsT. Peters Reise nach !Mossamb. part. V. Insect. pag. 487, tav. XXXE, fig. 6. Q » » — Rapowsz. et SicH. Ess. d’ une Monogr. des Mutill. pag. 85, n. 55. Sponde del Magnarra: un esemplare. Ho sott’ occhio tre esemplari di questa specie; uno raccolto al Zanzibar dal Dott. RAFFRAY, appartenente alla mia collezione, e stato determinato col nome di M. interrupta dall’ illustre Generale RADOwszKowsKy: un se- condo raccolto al Cairo dai Signori DoRIA e BECCARI, appartenente al Museo Civico di Genova; e finalmente l’ esemplare raccolto dal FoRrNAsINI sulle sponde del Magnarra. Ora chi esamina il secondo di questi esemplari vi trova tutti i carat- teri della M. interrupta OLIv.: nell’ ultimo invece quelli della M. aestuans del GERSTAECKER. Differenze veramente degne di nota fra di essi sono: la punteggiatura del torace é di gran lunga più profonda, grossolana, ed ir- regolare nell’ aestuans, specialmente quella del metatorace: gli occhi di quest’ ultima sono più piccoli, distaccati dalla base delle mandibole: 1’ epi- pygio nell’ aestuans porta poche rughe, o ripiegature, longitudinali, ma assai grosse, ben marcate, e quasi regolari: mentre quello dell’ inferrupta é fittamente coperto da striature sottili, intralciate, irregolari: e finalmente la carena ventrale del primo segmento nell’ aestuans presenta uno stretto ma profondo intaglio, questo invece é meno profondo ma assai più largo nell’ interrupta. Or bene il mio esemplare di Zanzibar presenta precisamente tutti quanti questi caratteri in condizione intermedia a quelle dagli altri due: serve perfettamente di annello di congiunzione fra i medesimi: quasi di- rebbesi che come la sua patria trovasi a metà strada fra le patrie degli altri due, cosi i suoi caratteri fanno passaggio da quelli dell’uno a quelli dell’ altro. Non parmi quindi ragionevole il separare codeste due specie, e ri- tengo che la M. aestuans non sia altro che una semplice varietà notevole della M. interrupta, la cui area di diffusione si estenderebbe cosi su quasi tutta l’ Africa (Egitto, Mozambico, Caffreria, Capo di B. Speranza, Senegal) ed alcune regioni dell’ Asia (Arabia, Ceylan). — 151 — Mutilla Mephitis SwtH. Mutilla Mephitis — SmirH. Catal. of Hymen. Ins. in the Coll. of the Brit. Mus. pag. 21, n. 129 Q » » — Rapowsz. et SicH. Ess. d’une Monog. des Mutill. pag. 118, n. 88, tav. IX, fig. 3. Q Due esemplari furono raccolti ad Inhambane. In questa specie sono notevoli alcuni caratteri, che non trovo accen- nati nelle descrizioni date dallo SmIrH, e dal RADowszKowsxky. Un primo e singolare carattere lo troviamo sui lati della fronte, che sono armati di un ben distinto tubercolo verticale acuto, per cui la testa riesce bicornuta. Un secondo importante carattere sta nella scultura del torace, che é costi- tuita da punti molti grossi e profondi, specialmente sul metatorace, dove sono inoltre cosi vicini che i loro margini confondendosi danno luogo a caruncole tuberculiformi irregolari, dilacerate: un distinto solco trasversale separa il metatorace dai due segmenti anteriori del torace, che sono, come in generale, fusi assieme. Il primo segmento pezziuoliforme è molto breve, irregolare, angoloso. La valvola dorsale dell’ ano è nettamente circoscritta da un’orlatura circolare, ben marcata, rilevata: nel suo interno notansi alcune poche rughe longitudinali, grossolane. Questa specie è molto affine alla M. maura, e 1’ avrei cosiderata quale una semplice sua varietà, se non presentasse i sopradescritti caratteri della testa e del torace. Essa trovasi affatto fuori di posto (V. Monografia di SicHEL-RADOwSZKo- wsKky) nel gruppo delle Mutille aventi cinque macchie addominali; devesi ascrivere al gruppo successivo. Psammoterma fiabellata FasR. Mutilla flabellata . . . — FaBRr. Syst. Piezat. pag. 431, n. 12. 0° Psammoterma flabellata — Larg. Crust. et Ins. v. II, pag. 31. V. nota. d* » » — Lep. Hist. Nat. des Ins. Hymen. v. IU, pag. 592, n. 1. gf » » — SMITH. Descr. of some new Spec. belon. t. t. Form. Thynn. Masar. a Apid. (Suppl.) (Trans. Ent. Soc. Ser. III, v. II), pag. 396, tav. XXI, He Un esemplare, maschio, venne raccolto sulle sponde del fiume Ma- gnarra. * Questa specie, della quale finora non si è mai potuto conoscere che un solo sesso, si poteva credere propria del Senegal, ma io ne ricevetti — 152 — vari esemplari dal Capo (Baia d’Algoa), dove pare più abbondante che non nel primo paese: risulta ora estesa a regioni più elevate del littorale orientale africano. Pyria lyncea FABR. Chrysis lyncea — Far. Entom System. v. II, pag. 240, n. 6. » » — DAHB. Hymen. Europ. v. II, pag. 339, n. 191. Una coppia di esemplari (g* e £) raccolti ad Inhambane. È questa pure una specie caratteristica della fauna africana essendo sparsa ed in abbondanza dall’Egitto e dal Senegal fino al Capo di B. Spe- ranza: io ad esempio la ricevetti dal Capo Verde, Senegal, Congo, Gabon, Capo di Buona Speranza, Baia d’ Algoa, Natal, Zanzibar, Scioa, Egitto, e Madagascar. i III. REREKLBRAN'LII PER GIUSEPPE KRIECHBAUMER Osprynchotus gigas n. sp. Q Niger, capite, antennarum scapo, femoribus tibiisque anticis rufis, illarum annulo et orbitis facialibus fulvescentibus, tibiis tarsisque posticis magima parte flavis, alis violaceis, apice late nigris. Long. capitis cum thorace 9 !/, abdom 18, terebr. 12 mm. Caput transversum, postice oblique angustatum. Mesonotum rugoso- punctatum; scutellum convexiusculum, punctatum, medio laeviusculum ; metanotum rugosum. Abdomen glabrum, nitidum. Caput rufum, orbitis facialibus pallidioribus, fulvescentibus. Antennae nigrae, scapo rufo, fiagelli articulo 8 apice, 9-11 totis, 12 basi pallide fulvis, Lamina utrinque ante scutellum rufo-maculata. Pedes antici rufi tarsis fuscis, posteriores nigri, tibiae posticae annulo 5 circa longitudinis tibia- — 153 — rum occupante et tarsorum posticorum articuli primi dimidio apicali maiore articulisque 2-4 laete flavis. Alae obscure violaceae, apice late ni- grae, macula subpellucida pone basin stigmatis et fenestris tribus hyalinis nervorum discocubitalis, recurrentis et cubitalis transversi secundi. Verisimiliter parasita Eumenidis cuiusdam maioris. Ophion spec. ? Individuum absque alis anterioribus et inde haud determinabile, ce- terum speciebus maximis metanoto oblique rugoso praeditis associandum. O. biimpresso BruLLÈ (Hist. nat. IV, 148, 23) affinis, sed scutellum punctu- latum. Long. corp. 32 mm. Iphiaulax nigrifrons n. sp. d' Testaceus, orbitis ca parte fiavis, macula verticis postice utrinque triangulariter producta antennisque nigris, mesonoto strigis tribus obscurio- ribus parum determinatis, alis violascenti-nigris, macula anteriorumque fa- scia angulata irregulari flavescentibus. Long. 17 mm. Caput e latere visum obtuse triangulare fronte producta, supra visum subcubicum, longitudine vix latius, pone oculos subangustatum, disperse subtiliter punctatum, glabrum, nitidum. Thorax latitudine triplo saltem longior, glaber, nitidus, punctis paucis dispersis, notaulis distinetis postice evanescentibus; scutellum triangulare, latitudine longius; metanotum dis- perse punctatum, glabrum, nitidum, longius pilosulum. Abdomen subcla- vato-cylindricum, petiolatum, petiolo brevi, latiusculo, basi excavato, post- petiolo hoc duplo longiore, apicem versus parum dilatato, rude aciculato ; segmento 2 apicem versus dilatato, hic longitudine latiore, longitudinaliter rugoso-striato, area basali media triangulari, laevi, utrinque fovea margi- nali subcurvata; segmentis 3-5 transversis, longitudine plus duplo latiori- bus, lateribus subparallelis, basi et ante marginem incrassatum glabrum crenulatis, medio costulis longitudinalibus sensim evanescentibus, utrinque sulco obliquo, curvato, crenulato, angulum anticum tuberculatum separante, segmentis 6 et 7 apicem versus angustatis, glabris. Niger, orbitis verticis et antennarum parte superiore fiavescentibus, ver- ticis macula magna triangulari, ocellos includente et postice utrinque trian- gulariter fere usque ad marginem occipitis continuata et antennis nigris; mesonotum strigis tribus obscurioribus vix discretis. Alae violascenti-ni- Serie V. — Tomo IV. 20 — 154 — grae, anticae macula flava elongato-subtriangulari in parte apicali cellulae humeralis primae seu anterioris, plus minus in secundam continuata et dilatata, extra medium fascia fiava irregulari, e maculis pluribus composita, quarum prima maxima, subcordato-triangularis; alae posticae macula fiava ad basin cellulae radialis, paulisper in cubitalem continuata. Iphiaulax Fornasinii n. sp. Testaceus, glaber, nitidus, capite, mandibularum apice, antennis, tibiis tarsisque posticis (illarum summa basi excepta) nigris, ore et clypeo rufo, alis flavescentibus, anticarum fascia et apice fuscis, hoc fasciam abbreviatam flavam includente, posticis apice fuscis, mucula rotundata cum margine con- fiuente flavo (abdominis pars maxima et pedes intermedii desunt). ft? Caput transversum, pone oculos oblique angustatum. Antennae valde elongatae. Thorax latitudine plus duplo longior, notaulis subtilibus sed di- stinctis; metanotum fulvo-pilosulum. Postpetiolus depressus, latitudine lon- gior, lateribus subarcuatis; segmentum secundum aciculatum, 3 et 4 trans- versa, basi et ante marginem posticum aciculato-crenulata, medio longius aciculata, 3 insuper utrinque sulco laterali latiusculo crenato, angulum an- teriorem subelevatum postice terminante. (Cetera segmenta dorsalia uti pars duorum primorum et omnia ventralia ab insectis devorata sunt). Alae flavescentes, anticae fascia media latiuscula apiceque fuscis, hoc fasciam abbreviatam flavescentem, marginem anticum fere attingentem includente, posticarum fere dimidium apicale fuscum, sed antice macula rotundata flavescente cum margine fiavo longius continuato cohaerente. ODONTOSCAPUS, n. gen. Braconidarum èdobe dens; cxI06, scapus. Antennarum articuli duo primi denticulis instructi. Mesonotum depres- sum, planum. Ceterum generi. « Iphiaulax » maxime similis et affinis. Odontoscapus varistigma n. sp. 2 Testaceus, mandibularum apice, oculis, ocellis, macula verticis, antennis tibiisque posticis (summa basi eacepta) nigris, alis fuseis fascia abbreviata et — 155 — | fenestra hyalinis, stigmate basi late flavo, abdominis segmentis aciculatis, 2 utrinque longitudinaliter, 3-5 oblique impressis. Long. corp. 11, terebr. cca. 10 mm. Caput supra planiusculum, subquadratum, latitudine paulo longius, po- stice vix rotundato-angustatum, fronte oculos antice vix superante; fo- veolis antennarum margine supero in corniculum productis. Antennarum scapus cylindricus, apice infra in denticulos duos productus, articulus se- cundus in denticulum unicum, magis obtusum productus. Thorax latitu- dine plus duplo longior, mesonoto valde depresso, foveolis tribus longitu- dinalibus parum impressis; metanotum convexiusculum, glabrum, pilosulum. Abdomen ut mihi videtur segmento primo plane deficiente, verosimiliter ab insectis destructo et secundo thoraci agglutinatum, totum aciculato ru- gulosum, 3-5 basi et ante apicem crenulatis, 2 utrinque late depresso, spatio medio elevato subpyriformi, 3-5 oblique impressis, his impressionibus in segmentis posterioribus longitudine valde decrescentibus. Terebrae valvulae valde involutae. Testaceus, capite et thorace in rufum vergentibus, abdominis segmentis 2-4 medio aureo-submicantibus, macula ab antennis apicem versus valde angustata et demum in lineam ad occipitis marginem ductam elongata, an- tennis et tibiis posticis (summa basi excepta) nigris. Alae fuscae, stigmatis dimidio basali fiavo, apicali atro, pone hoc macula maiore subtriangulari et minore subrotundata in fasciolam coalitis tertiaque nervum transversum cubitalem externum includente hvyalinis. Vipio ocreatus n. sp. | 2 Glaber, nitidus, rufus, mandibularum apice, oculis, ocellis, antennis, valvulis terebrae, tibiis posterioribus tarsisque nigris, abdomine subsessili, subfusiformi, segmentis 1-5 aciculatis, 2 et 3 utrinque oblique impressis, alis violascenti-nigris, maculis aliquot hyatinis. Long®corpRili#îa dom tereor!11mm. Caput nigro-pilosulum, transversum, longitudine dimidio latius, pone oculos vix angustatum, lateribus rotundatis, clypeo costa tenui semicircu- lari a facie discreto. Thorax latitudine plus duplo longior, notaulis pro- fundis, postice contingentibus. Abdomen subfusiforme, segmenti primi parte petiolari brevi, medio excavato, postpetiolari illo dimidio saltem longiore, medio convexiusculo, aciculato-rugoso, lateribus marginato, apicem versus vix dilatato, secundo tertio vix longiore, apicem versus sensim dilatato, aciculato-rugoso, utrinque sulco profundo obliquo subarcuato, sutura inter = 100 segmenta 2 et 3 impressa, crenata, medio latiore, segmentis 3-5 transversis, longitudine et latitudine sensim decrescentibus, 3 et 4 subtilius aciculato- rugulosis, margine postico glabro, ante eum punctis impressis instructis, 3 utrinque sulco brevi impresso, 5 et 6 laevibus, segmento ultimo ventrali elongato-producto, acuminato. Color ut in diagnosi indicatus. Alae anticae maculis duabus hyalinis ad basim stigmatis, quasi fasciam abbreviatam formantibus, tertia nervum transversum cubitalem secundum includente. METODO RAZIONALE DELL ISTERECTOMIA ADDOMINALE TOTALE PER FIBROMIOMI DELL UTERO MEMORIA DEL Prof. GIACOMO FILIPPO NOVARO DIRETTORE DELLA CLINICA CHIRURGICA DI BOLOGNA (Letta nella Seduta del 14 Gennaio 1894). (CON QUATTRO TAVOLE) La cura chirurgica dei fibromiomi uterini é entrata da alcuni anni in una fase nuova. Prima la mortalità relativamente grande (35-45 %), che dava la isterectomia, aveva fatto si che alcuni operatori preferissero ricor- rere ad un’operazione incompleta, ma molto meno pericolosa (13-14 %, di mortalità) e nella grande maggioranza de’ casi sufficiente ad allontanare i disturbi dovuti alla presenza di tali neoplasmi. La dilatazione del collo seguita dal raschiamento dell’ endometrio, o la castrazione erano gli inter- venti a cui volontieri si ricorreva per evitare la miomectomia e l’isterectomia. Colla prima si riusciva nel più de’ casì ad arrestare per un certo tempo l'emorragia, che minacciava di esaurire le forze delle pazienti. Colla castra- zione si otteneva generalmente l’arresto e la scomparsa delle emorragie, sovente anche la diminuzione del volume e talvolta perfino la scomparsa dei tumori. È bene per altro notare che anche questa operazione nelle mani di Thornton ha una percentuale di mortalità over 4 per cent. (V. Brit. m. J. 11 Feb. 1893, p. 283). Oggi però forti dei progressi della medicazione asettica gli operatori, senza lasciarsi dominare dal furore operatorio, quando riconoscono necessario l’ intervento a mano armata nella cura di fibro- miomi uterini, preferiscono mezzi radicali, e tolti pochi casi in cui si accon- tentano dell’ enucleazione di uno o più miomi, a seconda dei casi, dalla via vaginale o dalla via addominale, è alla isterectomia cha hanno ricorso. Per questa operazione alcuni danno ancora la preferenza alla via vagi- nale, altri invece preferiscono l’ addominale. Ed io sono fra questi ultimi e per le seguenti ragioni. 1.° Perché da questa via si possono sempre — 158 — evitare le lesioni delle intestina, che, sebben di raro, pur nondimeno qualche volta si trovano avere contratto in alcuni punti più o meno strette aderenze coll’ utero miomatoso. In due casi io ho visto l’ appendice vermiforme ade- rente al fondo dell’ utero; e in quattro altri casi trovai con questo larga- mente aderente l’omento. 2.° Perché dal lato dell'addome si domina con sicurezza la perdita sanguigna. 3.° Perchè da questa parte si è sicuri di non ledere gli ureteri, anche quando (come era da uno dei lati in un caso da me operato) l’arteria uterina, proveniente o dalla pudenda o dalla ottu- ratrice, passa al davanti dell’ uretere. Non tutti coloro. però che preferiscono la via addominale procedono egualmente. Gli uni fanno l’isterectomia sopravaginale e fissano il peduncolo o moncone all’ esterno nell’ angolo inferiore della ferita addominale, o lo fissano fuori del peritoneo, ma sotto i muscoli, o lo affondano ricoprendolo. con lembi peritoneali. Altri per contro esportano l’ utero in totalità. Ed io pure, non trovando plausibile la ragione che adducono il Thornton ed altri, che lasciando le ovaia, la donna resti meno priva di sesso, e con- siderando che nelle inutili ovaia e nell’ inutile moncone possono più tardi sorgere altre più terribili neoplasie, ritengo essere l’ isterectomia totale da preferire alla sopravaginale. Alcuni chirurghi però, come ad es. il Thornton, non approvano questa operazione, perché la credono rozza, troppo san- guinosa e pericolosa più assai dell’ isterectomia sopravaginale (1). Ed invero coloro che finora l’ hanno messa in pratica, usando il laccio preventivo e gettando legature in massa sulle radici dei legamenti larghi e sui fornici vaginali, si sono dimostrati troppo preoccupati della possibilità dell’ emor- ragia ed hanno cercato di prevenirla con mezzi troppo grossolani e poco o punto razionali. Per me l’ utero miomatoso é paragonabile al gozzo. In quello, come in questo, noi sappiamo quante e quali sono le sorgenti da cui il sangue arriva nel tumore da esportare, e in ambidue i casi sap- piamo dove dobbiamo cercare i vasi arteriosi e venosi per poterli legare prima di lederli. Perciò come non temiamo più l’ emorragia nell’ esporta- zione di gozzi anche voluminosi, cosi non dobbiamo temerla nell’ esporta- zione dell’ utero miomatoso. Difatti sappiamo che quattro arterie forniscono sangue all’ utero, le due uterine cioé e le due ovariche, o spermatiche che dir si vogliano. E sappiamo che le vene che esportano il sangue dall’ utero si accompagnano alle suddette arterie. Come mai si può quindi temere: (1) « I shall not occupy your time with any description of the method by complete enucleation and suturing of large flaps of peritoneal capsule in the abdominal wound, for I can see nothing to recommendit, and it is, so far as I have seen it performed, a clumsy and needlessly bloody and dangerous proceeding ». I. Knowsley Thornton, M. B., C. M. — The treatment of fibromyoma uteri. (Brit. m. Journal], 11 Feb. 1893, p. 284). — 159 — gravi emorragie se è in nostro potere renderci padroni delle indicate arterie e vene? Le arterie ovariche e le vene che le accompagnano si trovano nello spessore dei legamenti infundibulo-pelvici. Le arterie uterine scorrono lungo i lati dell’ utero, ai quali si portano dalle arterie iliache interne, od ipogastriche, scorrendo lungo la corrispondente parete laterale della pelvi fino a livello della porzione sopravaginale del collo, contro il quale arrivano ad angolo più o meno arrotondato ed aperto in alto e passando di regola in un piano posteriore all’ uretere, il quale taglia la direzione dell’arteria uterina obliquamente dall’alto al basso, e dallo esterno allo interno. È bene sapere che qualche volta l’ arteria uterina si divide in tre rami, presso a poco eguali, assai prima di arrivare a fianco del collo dell’ utero; ma in questi casi tutti e tre i rami si trovano sopra un piano posteriore all’ uretere e il calibro loro, minore di un’arteria uterina unica, ci rende avvertiti che ci troviamo in presenza della detta varietà. Molto raro deve essere il caso, da me incontrato finora una sola volta e da un solo lato, in cui l arteria uterina derivi non direttamente dall’ arteria iliaca interna, ma da uno dei suoi rami (pudenda od otturatrice) e passi al davanti dell’ uretere. Conoscendo tutto ciò, a me pare che quand’anche le vene siano nel- l’ utero miomatoso esageratamente sviluppate, si possa procedere con sicu- rezza e sulla guida dell’anatomia senza bisogno né di laccio preventivo, né di legature in massa sulle radici dei legamenti larghi e sui fornici va- ginali. Il laccio preventivo del resto nei casi di fibromiomi espandentisi nel collo, o peggio prolungantisi dal collo fra vagina e retto come in alcuni dei casi da me operati (V. Fig. 2*, 3*, 9* e 12*) non è sempre applicabile. E le legature in massa sulle radici dei legamenti larghi espongono troppo 1 pericolo di chiudere gli ureteri, mentre quelle sui fornici vaginali sono inutili, di poco momento essendo l’ emorragia che può venire dai piccoli vasi che vengono aperti nel recidere la vagina dall’ utero. Ecco il metodo che io ho tenuto finora nel praticare questa operazione e che parmi si debba chiamare razionale od anatomico. Preparata la paziente come per una laparotomia qualunque, lavando pure il meglio che sia possibile la vagina, senza cercare di disinfettare anche la cavità dell’ utero, che spesso é difficilmente accessibile, si passa alla cloronarcosi mista, cioè previa un’iniezione ipodermica di un centi- gramma di cloridrato di morfina. Ottenuto il voluto grado di insensibilità, si mette l’ammalata nella posizione del Trendelenburg, si vuota la ve- scica e si fa ancora una lavatura delle pareti addominali, del monte di Venere, della vulva, della vagina e delle coscie, dopo di che si mette un battuffolo di garza idrofila sterilizzata in vagina, si coprono le parti circo- stanti alla parete addominale anteriore con asciugamani sterilizzati e si procede all’ incisione addominale, che si pratica della voluta lunghezza, — 160 — cominciando dalla sinfisi del pube e dirigendola in alto lungo una linea che corrisponde all’ unione del terzo interno col terzo medio del muscolo retto sinistro. Scelgo di regola questo punto, invece della linea alba, perché facendo poi la triplice sutura si evitano più sicuramente noiosi sventramenti. Aperto il cavo peritoneale si fissano con tre, quattro o più punti per lato i margini della sezione peritoneale coi rispettivi margini della ferita cutanea. Ciò fatto, si passa alla ispezione del contenuto del ventre, e, se vi sono aderenze dell’omento col fondo dell’ utero, o con fibromiomi sottoperitoneali o cogli annessi uterini, si sciolgono tali aderenze se lasse, se no si divide trasversalmente, a breve distanza da queste, il tratto di omento aderente in mezzo a due serie di legature poste sulla guida dell’ indice sinistro pas- sato fra le intestina e l’omento. Spostato in alto il moncone dell’omento, dopo essersi però assicurati della perfetta emostasi della sua superficie di sezione, si esamina se vi siano o meno aderenze colle intestina e specie coll’ appendice vermiforme. Se vi sono aderenze intestinali d’ordinario si riesce a scioglierle colle dita. Se é aderente l’ appendice vermiforme, la si divide fra due legature, si introfiette il margine libero del moncone verso la cavità di esso e si applicano 2 o 3 punti alla Lembert di sutura sieroso- musculare in modo da occludere la cavità appendicolare residua, termi- nando col togliere la legatura centrale. Sbarazzato cosi il tumore da anor- mali aderenze, quando ve n’ ha, si procede: 1.° Alla applicazione di un laccio sull’ arteria spermatica e sulle vene omonime del lato sinistro al disopra dell’ovaio e del padiglione della tromba. Per fare questo, mentre con un largo e breve uncino ottuso si fa depri- mere il margine sinistro della ferita addominale, si solleva fra ’ indice e il pollice della mano sinistra il legamento infundibulo-pelvico afferrandolo: colle dette due dita al disopra degli organi indicati e con un porta-refe di Dechamps munito di catgut N. 2, si perfora il detto legamento dal- l’indentro in fuori all’ indietro dei vasi. 2.° Stretto questo primo laccio, tenendo l’ indice sinistro sotto la pagina posteriore del legamento largo, mentre con esso e col pollice della stessa mano si rovesciano e stirano in alto la tromba e l’ovaio, col me- desimo portarefe del Dechamps, che si insinua dal davanti all’ indietro nello stesso pertugio fatto per applicare il primo laccio e si va a perforare dallo indietro all’ avanti il leg. largo subito al disotto del leg. rotondo un poco distante dal lato rispettivo dell’ utero, si passa un secondo laccio e lo si stringe. 3.° Posti questi due lacci laterali se ne mette uno mediale, che cor- risponda a tutti e due, passandolo col Dechamps attraverso il leg. largo al disotto del leg. rotondo in vicinanza dell’ utero e serrandolo sul leg. largo fra l’ utero e l’ovaio. Invece di questo laccio si può mettere anche una pinza emostatica a branche lunghe di Kocher o del Richelot. — 161 — 4.° Applicati questi tre lacci si divide il legamento largo fra i due primi e il terzo fin sotto il leg. rotondo, e si gettano lacci di sicurezza di catgut N. 1 sulle estremità dei vasi recisi sul moncone centrale afferrati separatamente con pinzette emostatiche. 5.° Si ripete lo stesso dall’altro lato. 6.° Fatto questo, di regola si riesce a sollevare il tumore colla più parte dell’ utero fuori della cavità addominale. Se ciò riesce facilmente, bene; se no, si riuniscono gli estremi mediali delle incisioni fatte nei lega- menti larghi dividendo il peritoneo sulla faccia anteriore dell’ utero in cor- rispondenza della ripiegatura utero-vescicale, e col dito si stacca dalla faccia anteriore dell’ utero fin giù oltre il collo la vescica. Ciò ordinaria- mente riesce facile, ma se il tessuto connettivo che riunisce la vescica al- l’ utero è poco cedevole, invece che col dito si divide col bistori tenendone il tagliente volto contro l’ utero. Separata la vescica fino in fondo al collo uterino, sui lati il leg. largo resta sdoppiato si che è facile vedere l’ arteria uterina lungo il lato corrispondente dell’ utero e accompagnarla fino al collo, dove se ne allontana per ripiegarsi allo esterno ed in alto. A questo punto generalmente, se non si é gia ottenuto prima, si riesce a tirar fuori della pelvi l’ utero in guisa da portare più sotto mano l’art. uterina e le vene che l’accompagnano. Qualora ciò non riesca ancora, vuol dire che i legamenti utero-sacrali sono molto tesi e rigidi o che la vagina é poco cedevole, e si incomincia coll’ incidere il peritoneo del foglio posteriore del legamento largo fin contro il collo tanto da recidere anche i legamenti utero-sacrali. Una volta solo mi é accaduto di non potere dopo tale recisione sollevare l’ utero miomatoso fino a portare il collo quasi a livello della ferita addo- minale. In tale caso dovetti isolare l’arteria uterina profondamente e pas- sarvi attorno un laccio di Dechamps sulla guida del dito. 7. Negli altri casì invece ho sempre potuto sollevare il tumore e l’ utero tanto da arrivare con facilità a preparare l’ arteria uterina e le vene satelliti a fianco del collo e portare col Dechamps un laccio di catgut N. 1 attorno a ciascuno de’ vasi, alla distanza di un paio di centimetri dal collo uterino, prima dall’ uno e poi dall’ altro lato. Sempre ho potuto di- stinguere l’ uretere dai vasi sanguigni, anche nel caso già citato in cui esso passava al di dietro dell’ arteria. 8.° Legate le arterie e le vene uterine centralmente, applico una pin- zetta emostatica del Kocher sui vasi dal lato dell’ utero e li divido fra le pinzettete i ‘lacci. 9.° Dopo ciò, stirando l’ utero in alto, si tende la vagina e col dito si sente dove termina anteriormente il collo uterino, e li, se la vescica è già stata respinta più in basso, e se no la si sposta in questo senso ancora per quel tanto che è necessario, colle forbici si fa un’incisione trasversale Serie V. — Tomo IV. 21 = We colla quale si apre la vagina. Una volta, nel distaccare la vescica dal collo dell’ utero respingendola verso la vagina col dito, mi accadde di sfondarla, ma me ne accorsi tosto, e tosto chiusì la breccia con doppia serie di punti di sutura con catgut N. 1. Però tale accidente sì potrà sempre evitare se si procederà con cautela aiutandosi anche all’ occorrenza col bistori come ho detto di sopra. 10.° Incisa la parete anteriore della vagina, si afferra il margine in- feriore della bottoniera con una pinzetta di Museux o di Mac Clintok, o vi si passa un’ansa di filo di seta, e quindi per la fatta apertura si in- sinua in vagina un battufolo di garza e con una sonda lo si spinge verso la vulva, cacciando fuori della vagina quello che vi sì era introdotto prima dell’ operazione e spazzando la vagina dal liquame, che durante le manovre operatorie potè essere espresso dall’ utero. Occorrendo si fa passare un secondo e un terzo battufolo a fine di pulire il meglio che sia possibile la parte superiore della vagina, dove potrebbe infettarsi il nostro dito, che del resto toccherà quanto meno potrà codesta parte. 11.° Aperta la vagina dalla parte anteriore, e pulitala nel modo sopra- detto, si seguita a reciderla dall’ utero, tenendosi colle forbici rasente il collo di esso. Con quattro o cinque colpi di forbice di regola si compie il distacco dell’ utero dalla vagina. Non é necessario il cercare di lasciare un lembo peritoneale posteriore; ma per lo più il peritoneo di questa parte sì divide nello stesso tempo che la parete posteriore della vagina. Vi sono casi però, nei quali un mioma della parete posteriore dell’ utero si prolunga in basso fra la vagina e il retto, ed allora bisogna, prima di aprire la vagina, incidere trasversalmente il peritoneo sulla faccia posteriore. Questa incisione si fa il più in basso che sia possibile e poi col dito si scolla il peritoneo dal tumore e si isola questo dal tessuto connettivo lasso che lo circonda e si solleva in alto allontanandolo dalla vagina, la di cui parete posteriore in tale caso si divide separatamente. Quando eccezionalmente la vagina sia poco cedevole e si duri fatica a portare in evidenza il punto di riflessione dell’ arteria uterina, allora da un lato sulla guida del dito si porta attorno alla medesima un laccio giù in fondo fra le pagine divaricate del legamento largo, mentre coll’ uncino ottuso si fa stirare in fuori il labbro corrispondente della ferita addominale, e colla mano si fa spostare per quanto è possibile 1’ utero dalla parte opposta. Gettato un laccio, che in questo caso deve comprendere arteria e vene, dalla parte centrale, sì ap- plica una pinzetta dal lato dell’ utero e con un colpo misurato di forbici, dopo aver ben posto mente a che non sia stato compreso nel laccio anche l’uretere, si recidono i vasi fra il laccio e le pinzette, e poscia col dito si respinge il moncone centrale dei vasi e i tessuti che lo circon- dano all’ infuori ed in basso fino ad arrivare contro la parete della vagina, — 163 — | che si apre dalla faccia anteriore, e si spazza come sopra si è detto, per seguitare quindi a reciderla colle forbici rasente il collo dell’ utero. Si arriva cosi, dopo recisa torno torno tutta la vagina, ad avere l utero attaccato solo per l’arteria e le vene uterine dell'altro lato, che allora riesce faci- lissimo legare e recidere. Nel separare la vagina dall’ utero, sia dopo avere legate le due arterie uterine, che dopo averne legata solo una, si ha un’ emorragia insignificante, che si arresta facilmente coll’ applicazione di due o tre pinzette emostatiche, alle quali si sostituiscono poi subito }acci di sottile catgut. Seguendo queste norme io non ho maì avuto a lamentare apprezzabile emorragia, anzi il più delle volte ho potuto condurre a termine l'operazione senza una perdita di sangue superiore ai 100 grammi. Mi pare un’ esagerazione quella del Dr. R. Largeau (de Niort), il quale dice: « Je n’ en (de sang) ai perdu 5 grammes, dans l’operation qui a le plus saigné ». (7.2° Congrés de Chirurgie, Paris 1893, pag. 160). 12.° Esportato l’utero si chiude la vagina suturando insieme il labbro posteriore coll’anteriore della sezione vaginale con punti alla Lembert procurando di affrontare esattamente i margini della mucosa. 13.° Cominciando poscia dal moncone del legamento infundibulo- pelvico di un lato, si suturano le due pagine del leg. largo in guisa da nascondere sotto il peritoneo il detto moncone e seguitando quindi a suturare la piega peritoneale limitante la vescica col margine posteriore della sezione peritoneale, che si escide se troppo abbondante, avendo cura di passare coi punti centrali anche nel moncone della vagina per non lasciare alcun spazio morto fra esso e il peritoneo, sì va a finire colla sutura dei margini del leg. largo dell’ altro lato, nascondendo anche quivi il moncone del leg. infundibulo-pelvico sotto il peritoneo. Questa sutura si fa con catgut N. 1. 14.° Terminata questa sutura, si fa la toilette del cavo del Douglas e, se si ha ragione di temere vi sia stata infezione del peritoneo, come nei casi di icorizzazione del fibromioma o di complicazione con salpingite purulenta con rottura del sacco durante l’operazione, si mette uno stuello di garza idrofila, che pescando nel cavo del Douglas fuoresca dall’angolo inferiore della ferita addominale, e si chiude il resto della ferita addomi- nale colla triplice sutura; avendo cura, prima di chiudere gli ultimi punti della sutura profonda aponeurotica-peritoneale, di levare la pezzuola di flanella che si era messa a protezione delle intestina al principio della operazione appena aperto l’addome o dopo avere distaccato l’omento e tolte le altre eventuali aderenze. È chiaro che, se non fa bisogno il drenaggio, si comincia a suturare il peritoneo dall’ angolo inferiore della ferita del medesimo, tagliando prima via via, tanto in questo, quanto nel caso precedentemente accennato, i nodi dei fili fissanti il peritoneo alla — 164 — cute. Noto di passaggio che allorquando si tratta di fibromiomi voluminosi, i quali richiedono una lunga ferita addominale, questa si chiude tempora- neamente per quel tratto, che non è più necessario dopo estruso il tumore, coll’ annodare fra loro i capi corrispondentisi dei fili che fissano provviso- riamente i margini della ferita peritoneale ai rispettivi margini della ferita cutanea. 15.° Fatta la sutura della ferita addominale, si fa la toilette esterna, si applica la medicazione asettica, come si suole dopo qualsiasi laparotomia, si ricambia lo zaffo vaginale, si pratica il cateterismo vescicale (ciò che si fa sia per vuotare la vescica, sia, e più, per assicurarsi che la medesima non è stata lesa), e si porta la paziente nel suo letto, ove si lascia che essa prenda quella posizione che meglio le accomoda. Se l’ammalata non era prima ridotta anemica dalle perdite sanguigne precedenti, non si ha a temere collasso di sorta. Se invece per le precedenti emorragie la pa- ziente, terminata l’ operazione, cade in collasso, le si pratica subito un’ipo- dermoclisi di 500-1000 cme. di soluzione fisiologica di cloruro di sodio, sia nella regione pettorale, sia nella parte anteriore superiore delle coscie. Questa piccola operazione, se la donna è molto depressa, sì pratica anche prima di accingersi all’ esportazione dell’ utero miomatoso, e se il collasso si manifesta nel corso dell’atto operativo, si può far fare anche durante questo. Seguendo queste norme io ho eseguito già 20 volte questa operazione, e due volte l’ha eseguita il mio assistente Dott. Umberto Monari. E su queste 22 operate si ebbero solo due morti; anzi, considerando che una di queste morti (V. N. 10 dell’ elenco) è avvenuta per avere dimenticato nel cavo peritoneale un battufolo di garza idrofila (cosa che non avrebbe dovuto succedere, se si fosse ottemperato all’ ordine mio di non introdurre nel ventre che pezzuole di fianella sterilizzate, che vengono contate al principio dell’operazione e alla fine di essa prima di chiudere la ferita ad- dominale) e considerando che tale accidente non deve mettersi a carico del metodo seguito nel praticare l’ operazione, e che perciò questo caso deve essere lasciato in disparte, si hanno 21 operazioni con un solo insuccesso, e quindi una mortalità di 4,76 % (1). Ora, se si pon mente, che due volte si trattava di voluminosi fibromiomi icorizzati (V. N. 12 e 19 dell’ elenco), che in una (V. N. 8) si aveva ap- pena 35 di emometria, che in due (V. N. 5 e 11) vi era aderenza coll’ap- pendice vermiforme, che in tre (V. N. 6, 13 e 16) vi era anche piosalpinge, (1) Dal dì in cui lessi questa memoria ad oggi ebbi occasione di fare due altre volte codesta operazione e con esito felice. Perciò oggi ho 23 operazioni con un solo decesso e quindi una mor- talità del 4,36 %,. — 165 — e che in tutti questi casi si ebbe guarigione, a me pare sia ragionevole la speranza di vedere presto diminuire ancora la percentuale della mortalità di questa operazione. Inoltre basterà gettare lo sguardo sulle Figure 2*, 3°*, ‘9° e 12* per convincersi come col metodo descritto si possano anche espor- tare tumori incuneati nel bacino e prolungantisi pure fra la vagina e il retto, ‘e come per conseguenza questo metodo sia applicabile in tutti i casi di fibromiomi in cui sì ritenga necessaria l’ ablazione dell’ utero, e non meriti più di essere chiamato né rozzo, né troppo sanguinoso, né troppo pericoloso. ELENCO dei casi di Fibromiomi operati coll’ amputazione totale per la via dell’ addome. £É | Nome, cognome Indicazione | Es ’ n . ° ° 53 TA Fan Diagnosi dell’operazione Operazione Esito us] 1 P. M. Fibromioma dell’ utero | Metroraggie da sei mesi. | Amputazione totale. Guarigione. d’ anni 42 (parete anteriore) dege- di nerazione cistica delle | Emometria 45 %. 6 Aprile 1892. Esce dalla Clinica Bologna. ovaia. il 23 Aprile. 2 (PE Fibromioma dell’ utero. Stipsi, mestruazioni | Amputazione totale. Guarigione. d’anni 33 molto abbondanti, dolori di a cintura, al basso ventre. | 19 Settembre 1892. Esce dalla Clinica Bologna. E il 15 Ottob 7 Emometria 60 9. lo i dr 3 GROMC. Fibromioma dell’ utero. | Stipsi, metroraggie. Amputazione totale. l'cntitionE) Guarigione. d’anni 42 di Zandolino Emometria 65 %- o Ottobre 1892. Esce dalla Clinica (Bergamo). il 3 Novembre. 4 BP. Fibromioma dell’ utero. Stipsi, dolori all’ipoga- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 42 strio. di 15 Ottobre 1892. Esce dalla Clinica Imola Emometria 65 %. il 12 Novembre. Osservazioni — Si trova ehe l’omento è aderente alla faccia anteriore del tumore. 5 M. V. Fibromiomi dell’ utero | Metroraggie, dolori al- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 33 con nodi sarcomatosi in | l’ipogarstrio. di S. Lorenzo | alcuni fibromiomi. 11 Novembre 1892. Esce dalla Clinica in Campo Emometria 55 9. il 12 Dicembre. (Pesaro). (V. Fig. 1°). Osservazioni — Si trova che l’appendice vermiforme è aderente al tumore, viene quindi resecata, e chiusa con diversi piani di sutura. L’omento è aderente al corno del lato destro dell’ utero. Questo caso è già stato descritto dal Dott. D. Giordano, nel N. 81 dell’anno 1893 della | Gazzetta degli Ospitali, sotto il titolo : « Sviluppo di sarcoma entro a fibromiomi uterini ». 6 IMANBAGE | Fibromioma dell’ utero, | Mestruazioni abbondan- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 35 salpingite bilaterale. tissime, dolori all’ ipo- di gastrio, stipsi. 19 Novembre 1892. Esce dalla Clinica Comacchio. (V. Fig. 2°). il 30 Novembre. Emometria 45 %,. 7 Z. M. Fibromiomi dell’ utero, | Mestruazioni abbondan- | Amputazione totale. | Guarigione. d’ anni 32 degenerazione cistica del- | ti, dolori all’ ipogastrio. di le ovaia. 28 Gennaio 1893. Esce dalla Clinica Imola. Emometria 65 9%. il 18 Febbraio. fl 8 JE d’anni 47 di Bologna. Fibromioma dell’ utero. Metroraggie abbondan- Guarigione. tissime. Amputazione totale. Esce dalla Clinica il 29 Aprile. 6 Marzo 1893. Emometria 35 9. Osservazioni — Subito dopo l’ operazione, durante la quale la paziente non ha perduto 100 gr. di sangue, il polso si fa piccolo e frequente. Si pratica tosto IP ipodermoclisi d’un litro di soluzione fisiologica di cloruro di sodio nella regione pettorale ed una iniezione ipodermica di centigr. 10 di caffeina. Il polso si rialza gradatamente e dopo circa un’ora il liquido e del tutto ‘riassorbito, il polso è diminuito in frequenza, e si percepisce più pieno è regolare. Verso sera essendo nuovamente aumentata la frequenza del polso si ripete l’ipodermoclisi d’un litro nella regione anteriore e superiore delle coscie. 28 Nome, cognome 3 : Indicazione 0 È EE SI età, patria. Diagnosi dell’ operazione orazione stto tre] 9 A. M. B. Fibromiomi dell’ utero. Metroraggie, stipsi, fre- | Amputazione totale. Guarigione. d’anni 49 quenza nell’ urinazione. di (V. Fig. 3°). 21 Aprile 1893. Esce dalla Clinica Bologna. Emometria 65 %. il 21 Maggio. 10 M. A. Fibromioma dell’ utero. Mestruazioni abbondan- | Amputazione totale. | Morte. d’ anni 27 ti, dolori all’ ipogastrio. di 29 Aprile 1893. 4 Maggio. Codifiume. Emometria 70 %/. Osservazioni — Alla necroscopia trovasi uno zaffo di garza nella cavità peritoneale in cor- rispondenza della sinfisi sacro-iliaca di destra. 11 VISIVE Fibromiomi dell’ utero. Mestruazioni molto ab- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 40 bondanti e più frequenti. di (V. Fig. 4°). 24 Maggio 1893. Esce dalla Clinica Consandolo. i Emometria 65 %,. l’8 Giugno. Osservazioni — Si trova che l’ appendice vermiforme è aderente al tumore; si reseca e si chiude con diversi piani di sutura. 12 IRSES Fibromioma dell’ utero | Metroraggie abbondan- | Amputazione totale | Guarigione. d’anni 54 icorizzato. ti, febbre oscillante tra | (drenaggio alla Mi- di IRE CK) kulicz), 4 Giugno | 20 Giugno. Brisighella. 1893. Osservazioni — Dopo l'operazione non si ha più elevazione di temperatura; il drenaggio viene tolto in quarta giornata; sutura secondaria. 13 M. E. Fibromiomi dell’ utero, | Impossibilità quasi a de- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 44 piosalpinge a sinistra. fecare, urinazione molto di frequente, dolori all’ipo- | 13 Giugno 1893. Esce dalla Clinica Bologna. (V. Fig. 5°). gastrio febbre tra 37°,5 il 15 Luglio. e 39°. Emometria 50 %. Osservazioni — Presentando l’ammalata, appena posta a letto, segni di colasso, si pratica tosto una iniezione di centigr. 20 di caffeina, e l’ ipodermoclisi d’un litro di soluzione fisiologica di cloruro sodico nella regione pettorale. Si ripete alla sera l’ipodermoclisi d’ un litro, come pure per due volte nel giorno seguente, ed ancora per una volta nel 3° giorno, alternando ora le regioni pettorali, ora la parte superiore ed anteriore delle coscie. Il polso si mantiene sempre tra le 100 e 110 battute al minuto ma abbastanza sostenuto e regolare. La paziente tormentata da violenti sforzi di vomito, sì lacera buona parte della sutura pro- fonda delle pareti addominali; dopo 2 giorni essendo insorti fenomeni di peritonite, si riapre l’addome e si asciuga con striscie di garza, zaffando il peritoneo con strisce di garza idrofila. Dopo 5 giorni essendo scomparso ogni fenomeno di peritonite e la temperatura fattasi normale, si fa la sutura secondaria delle pareti addominali. 14 VER Fibromiomi dell’ utero | Metroraggie da una set- | Amputazione totale. Guarigione. d’anni 50 cisti del paraovaio destro. | timana, leggera stipsi. di 22 Giugno 1893. Esce dalla Clinica Forlimpopoli. (V. fig. 6°). Emometria 75 %. il 19 Luglio. Î5 S. C. B. Fibromiomi dell’ utero. Mestruazioni abbondan- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 35 ti ed anticipate, dolori al- di (V. Fig. 7°). l’ipogastrio, stipsi. 22 Giugno 1893. 6 Luglio. Milano. Nome, cognome Indicazione SE DIE EE È î 9 < o È 35 età, patria Diagnosi dell’ operazione Operazione Esito usi 16 P. M. Fibromiomi dell’ utero, Metroraggie, febbre tra | Amputazione totale | Guarigione. d’ anni 33 piosalpinge a destra, ci- | 38° e 39°, ©. (drenaggio). di sti paraovaio sinistro. ; È Esce dalla Clinica Bologna. Emometria 60 %. 22 Luglio 1893. il 16 Agosto. (V. Fig. 8°). 2 c (Op. Dr. U. Monari). Osservazioni — L’omento si presentava aderente al fondo dell’utero. Il drenaggio viene tolto in terza giornata, sutura secondaria. 17 M. R. Fibromiomi dell’ utero. Metroraggie. Amputazione totale. Guarigione. d’anni 40 À di Emometria 55 %,. 17 Agosto 1893. Esce dalla Clinica Monghidoro. il 4 Settembre. (Op. Dr. U. Monari). 18 ARI Fibromioma parete po- | Iscuria per compressio- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 49 steriore dell’ utero. ne, stipsi ostinata riem- di Bologna. x piendo il tumore la pic- | 14 Settembre 1893. Esce dalla Clinica i (V. Fig. 9°). cola pelvi, e forti dolori il 2 Ottobre. I alle coscie. i | Emometria 70%. 19 ME Fibromioma dell’ utero | Metroraggie abbondan- | Amputazione totale. | Guarigione. d’ anni 30 icorizzato. ti, stipsi. i di 28 Settembre 1893. Esce dalla Clinica | Fusignano. (V. Fig. 10°). Emometria 50 %,. il 15 Ottobre. | 20 (CH IVG Fibromiomi dell’ utero. Metroraggie, stipsi, uri- | Amputazione totale. | Morte. d’ anni 40 nazione frequente. di (V. Fig. 11°). 12 Ottobre 1893. 19 Ottobre. Molinella. Emometria 60 9. | Osservazioni — Durante le manovre operatorie vien fatta una lacerazione alla vescica che viene subito suturata a diversi piani. — All’autopsia non si trova alcuna traccia di peritonite, nulla pure dal lato della vescica la di cui ferita si trova del tutto cicatrizzata; i reni presentano una nefrite parenchimatosa acuta. Nulla degno di nota negli altri organi. E da notarsi che la sera prece- dente al giorno dell’operazione si era operato un giovane per peritonite perforativa. 21 AIM. Fibromiomi dell’ utero. Stipsi, e forti dolori ai | Amputazione totale. | Guarigione. | d’anni 45 quadranti inferiori del- | di l’addome. 14 Novembre 1893. Esce dalla Clinica Pisa. il 28 Novembre. | Emometria 75 %,. Osservazioni — L’arteria uterina destra si trovava al davanti dell’ uretere. 22 NACH Fibromiomi dell’ utero. | Metroraggie, dolori al- | Amputazione totale. | Guarigione. d’anni 69 l’ipogastrio. di (V. Fig. 12°). 25 Novembre 1893. 30 Dicembre. Udine. Osservazioni — L’omento si presenta in totalità aderente alla superficie superiore dei tumori sorgenti dall’ utero. Essendosi rotto l’ utero in corrispondenza del collo durante l’ operazione si credette prudente: mettere un piccolo drenaggio capillare che è tolto in dodicesima giornata. V Metodo razionale dell'isfereclomia Iofale per laparofomiam. Mem. Ser V. Tom. IV T Iù Prof G.E Novaro. Tav i eltiz n i Mazzo I LI 1 vero. . da I, di PI to) (E Vem. Ser V. Tom IV. Metodo razionale dell’isierectomia totale per laparolomiam. Prof. GE Novaro.Tav. IL 56 , SE noe V. Raspi dis delvero E. Conteli It : Lit Mazzoni e Rizzoli Bologna Mem. Ser V Tom. IM. Metodorazionale dell'istereclomia totale per laparotomiam. Prof GF Novaro. Tav. Il V. Raspi dis. dal vero. E Contoli lit Lit Mazzoni e Rizzoli Bologna Mem. Ser V Tom. IM... Melodorazionale dell'istereclomia totale per laparotomiam. Prof G.E Novaro. Tav. IV. V. Raspi dis. dal vero. E Contoli lit Li Mazzoni e Rizzoli Bologna A 12 ur SULLA COSTIIEUZIONE DERLÀ-GOTONA MEMORIA DI GIACOMO CIAMICIAN E PAOLO SILBER (Letta nella Seduta del 14 Gennaio 1894). In seguito ai nostri studi sui composti contenuti nella corteccia di Paracoto, abbiamo rivolto la nostra attenzione sui corpi che si rinvengono nella vera corteccia di Cofo, che secondo Iobst e Hesse conterebbe principalmente la Cone CSHeOTtetattD:cotoina: CHO. In questa memoria ei occuperemo esclusivamente della prima. Anticipando, diremo subito che la formola proposta da Iobst e Hesse non è esatta; la Cofoîna pura non ha la formola C,,70,, ma bensi CH 30, (*). Il materiale per le nostre esperienze venne preparato, anche questa volta, nella fabbrica della ditta E. Merck di Darmstadt. La cotoina invia- taci aveva l’ aspetto d’ una polvere cristallina gialla, dal punto di fusione 129-130°. Le sue proprietà corrispondevano alla descrizione che ne danno i due citati chimici. Onde verificarne la composizione abbiamo sottoposto: all’ analisi tre campioni purificati ulteriormente per tre differenti vie : I. Abbiamo fatto cristallizzare 2 gr. del composto due volte successi- (*) Secondo una recente pubblicazione di O. Hesse (Ber. 26, pag. 2794) un certo Sig. Cohen avrebbe nel 1890 trovato per la cotoina la formola C.7;0., cioè una composizione identica a quella da noi pure accertata. Questo lavoro ci è sfuggito del tutto avendo a nostra disposizione il Pharmaceutical Iournal and Transaction in cui sarebbe comparso. (9) (25) Serie. V. — Tomo IV. Pg vamente dall’acqua bollente, impiegando circa due litri di solvente; il prodotto fondeva a 129-130°. II. Un secondo campione (2 gr.) venne sciolto a caldo nel benzolo e precipitato con etere petrolico. Ripetendo alcune volte questa operazione ab- biamo ottenuto cristalli d’aspetto assai uniforme, che fondevano a 130-131°. III. Un terzo campione venne preparato per l’analisi cristallizzando 15 gr. di cotoina per sette volte di seguito dal benzolo bollente. Il prodotto, che dopo la prima operazione fondeva a 129-130°, raggiunse in fine il punto di fusione 130-131°. Il suo aspetto non era però uniforme, si distingue- vano mammelloni gialli e singoli cristalli aghiformi dello stesso colore; le due forme avevano però lo stesso punto di fusione. Secondo le osservazioni di Iobst e Hesse la cotoina fonde a 130°. Malgrado questa coincidenza e quella di tutte le altre proprietà, che esclude ogni dubbio sopra una possibile essenziale differenza fra il nostro prodotto e quello studiato dai citati autori, le nostre analisi non confermarono la loro formola dandoci numeri, che differiscono sensibilmente da quelli da essi trovati, e che conducono alla formola da noi proposta : I. 0,1774 gr. di sostanza dettero 0,4466 gr. di CO, e 0,0808 gr. di 77,0. II. 0,191? gr. di sostanza dettero 0,4848 gr. di CO, e 0,0876 gr. di 7,0. III. 0,2708 gr. di sostanza dettero 0,6810 gr. di CO, e 0,1212 gr. di H,0. In 100 parti : trovato calcolato per CHO, TT TTTTTy__ me _rT7 u_—_—_—_—_ > YT— © To _ 1; II. HI. C 68,66 68,97 63,58 68,85 ER 07 497 4,92. lobst e Hesse trovarono invece i seguenti numeri, da cui dedussero la loro formola errata : trovato da Iobst e Hesse calcolato per C,,7,;0, CTC _ _ rTT___P___ymu—— tt o —_r_——gt_ IE II. III. IV. V. C. 69,26 69,83 69,34. 69,57 69,00 69,34 H 4,99 - 4,92 4,92 5,04 4,83 4,76. E strano che l’ analisi N. V, che essi ritennero la più imperfetta, per- chè come essi asseriscono fatta su materiale meno puro, sia invece quella che più si avvicina alle nostre. = II = Siccome la formola di Iobst e Hesse viene apparentemente confer- mata da quella di un derivato tribromurato e da quella di un triacetato, ai quali due composti essi attribuiscono rispettivamente le formole : CssH,;Br,0, È CH, 0(C,H30p)23 abbiamo ripetuto lo studio anche di queste due sostanze, le quali, come si vedrà, non hanno neppure esse la composizione loro attribuita dai ci- tati autori. Acetato di Cotoina. La cotoina, come già trovarono Iobst e Hesse, dà facilmente un de- rivato acetilico, noi lo abbiamo preparato per verificarne la composizione per riottenere poi dall’ acetato puro la cotoina ed accertarne in questo modo ancora una volta la formola. Trattando la cotoina coll’ anidride acetica ed acetato sodico anidro, oltre al derivato acetilico, si produce però, in minore quantità, un’ altra sostanza, la di cui formazione per molto tempo ci indusse a ritenere che la cotoina del commercio contenesse un altro composto, da cui fosse impossibile li- berarla per semplice cristallizzazione. Di fatto ottenendo dal prodotto com- merciale due differenti acetati era assai naturale supporre questi derivanti da due sostanze diverse in esso contenute e tanto più ci sembrava vero- simile questa interpretazione dei fatti in quanto che essa veniva a dare in certo modo ragione dei risultati inesatti di Iobst e Hesse, potendosi ammettere che questi chimici non avessero liberata la cotoina, da essi studiata, dall’ altro corpo che l’ accompagnava. La cosa però non é cosi; la cotoina da invece oltre al suo derivato acetilico un prodotto di condensa- zione, di cui ci occuperemo più avanti, e perciò anche dalla cotoina pu- rissima si ottengono nel trattamento coll’ anidride acetica ed acetato sodico due differenti sostanze. Noi abbiamo operato nel modo seguente: 50 gr. della cotoina di E. Merck vennero bolliti a ricadere per 5 ore con 150 gr. d° anidride ace- tica e 50 gr. di acetato sodico fuso. Il prodotto, distillato a b. m. a pres- sione ridotta onde eliminare l’ eccesso di anidride acetica, dà un residuo semisolido, che si riprende alcune volte con una soluzione di carbonato sodico per poi in fine farlo cristallizzare dall’ alcool bollente. Come s° è detto, in questo modo si ottengono due sostanze, la cui separazione riesce facilmente soltanto per quella che si forma in maggiore quantità, cioè per l’ acetato di cotoina. Impiegando una quantità sufficiente di alcool, noi scioglievamo il prodotto di 50 gr. di cotoina in circa mezzo litro di alcool — 172 — ordinario bollente, si separa per raffreddamento da principio soltanto l’ a- cetato di cotoina in grossi cristalli privi di colore, che fondono a 91-92°, mentre l’ altro composto rimane ancora in soluzione. Però per ulteriore riposo e massime concentrando il liquido, ai cristalli senza colore si ag- giungono degli altri, colorati debolmente in giallo, che fondono a 142°. La completa separazione di questi ultimi dall’ acetato di cotoina non è facile e riesce soltanto per selezione meccanica. A questo scopo si ridi- scioglie il miscuglio nell’ alcool e si lascia raffreddare lentamente in un luogo tranquillo la soluzione non troppo concentrata; cosi facendo sulla massa dei grossi cristalli di acetato di cotoina si vedono deporsi singoli prismi allungati di colore giallo, che si possono poi, dopo avere tolto il liquido, separare dai primi con la pinzetta. La sostanza cosi ottenuta, che si purifica ulteriormente per ripetute cristallizzazioni dall’ alcool, è anche essa un acetato, ma deriva da un prodotto di condensazione formatosi dalla cotoina e dall’ acido acetico. L’ acetato di cotoina, che è il maggior prodotto della reazione, ha una composizione corrispondente alla formola : Celti O, 3 I. 0,2120 gr. di sostanza dettero 0,5134 gr. di CO, e 0,0978 gr. di 7,0. II. 0,2062 gr. di sostanza dettero 0,4979 gr. di CO, e 0,0920 gr. di 47,0. III. 0,2794 gr. di materia dettero 0,6756 gr. di CO, e 0,1265 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,yH,9; —n__sr =_—TY',}, _—r»———_ I: II. II. C 66,05 65,85 65,94 65,85 Het MA: 59800,03 4,88 . Questa formola viene confermata dalla determinazione del peso mole- colare eseguita nell’ apparecchio di Beckmann in soluzione acetica : Peso molecolare Concentrazione —Abbassamento trovato calcolato a 2 — n” ”—/+ arr ——-7) e e METIN 1,1761 0°, 140 327 998 2,3662 0°, 277 333 gin La formola di Iobst e Hesse non corrisponde dunque neppure in — 173 — questo caso alle nostre analisi. Essi trovarono per 1’ acetato di cotoina un punto di fusione poco diverso dal nostro, cioè 94°, ma la loro analisi, che sta in buon accordo con la formola da essi proposta, differisce sensi- bilmente dalle nostre: trovato da Iobst e Hesse calcolato per C,,77,,0,(C,I,0;), T—_—___mune — Omen, i rn 7 —_ —_ _ C. 66,53 66,66 HR 0:02 4,76. La ragione di questa differenza non è davvero facile a spiegarsi e noi ci rinunciamo tanto più facilmente, non essendo questo il primo caso in cui i nostri risultati non s’ accordano con quelli di Iobst e Hesse. L’acetato di cotoina fonde, come s’ è detto, a 91-92°; non si scioglie nell’acqua ed é solubile nell’acido acetico, nell’ etere, nel cloroformio e nell’alcool bollente. Col cloruro ferrico non da colorazioni e neppure col- l’acido nitrico. L’acido solforico concentrato lo scioglie con colorazione gialla. I cristalli di questa sostanza, che si ottengono facilmente bene svilup- pati, sono stati studiati dal Prof. G. B. Negri di Genova, che gentilmente ci ha comunicato i risultati delle sue misure. Essi sono i seguenti : Sistema cristallino : triclino. Fig. 1. CERO 702018070751 FANS i A oi 034 pi 1080 Snai e = TANI Cia ner yo 93°.28! Forme osservate : (101), (110), (110), (011), (101), (100), (301). Combinazioni osservate : 1. (101) (110) (110) (011) (I01). Fig. 1. 2. (101) (110) (110) (011) (I01) (100). 3. (101) (110) (110) (011) (T01) (100) (301). — 174 — IT TIII<=< SISSI OSSO SI SN IA I MISURATI ANGOLI SARESTE: FINO via IE Mr VECOAIDI n LIMITI MEDIE pb e 110 : 110 67°.12' — 67°.32' 67°.20' a 10. | 110 : 101 63°.13' — 63°. 43' 63°. 33' È 8 101 : 011 40% AR 41°.07' 4 8_| 110 : 101 St ih MITIS: È 6 101 : 101 46°.36' — 46°. 44'1, 46°. 40' vi 50 ff 110: 110 112°.30' — 112°, 45' 2358 112°. 40' 4.0 QEESIRO 4° DO 50201 VETTA 75°. 20' 6 LOGO 104°.16' — 104°, 24' 104°. 20' 104°. 22' 4 101: T10 91°.02' — 91°.09' IeN058 AA 90°. 59' 2, TORU 80°.09' — 80°,22' 80°. 16' 802.147 4 011: 110 06°.20' — 56°. 24' 56°. 23' DORIA Bb) 011: 101 i 43°.16' — 43°.20' ASZIANSI 43°.12' 3 | 101 : 100 50°.57" — 51°.00' 5OSI5Sì VA SOSIA 2 100 : 110 DAS 00 SAMO) 54°. 05' 59$..008 o 100 : 110 SI SAI 58°. 40' 34, 58°. 44' 2 100 : 301 43°. 00' 42°.50' i 301 : 101 | | 39°. 40' | SOSIA 1 Cristalli vistosi, privi di colore, trasparenti, quasi costantemente tabulari secondo (101) ed allungati un poco nella direzione [100], un solo cristallo si mostrò tabulare secondo (110). Le facce di (101) sono sovente striate ed incavate a tramoggia. Le forme (101), 110), (110), (011), (101) esistono sempre nei cristalli osservati, mentre le (100), (301) sono rare e con facce subordinate. E degno di nota che la pinacoide (011) si riscontra in tutti i cristalli con una sola faccia, mancando la parallela. Le facce di tutte le forme ri- flettono generalmente immagini semplici e distinte. Per quante prove sieno state fatte, non fu possibile avvertire nessuna sfaldatura. L’acetato di cotoina contiene «n solo ossimetile come lo dimostra la seguente determinazione eseguita col metodo di Zeisel. — 1795 — 0,3850 gr. di sostanza dettero 0,266? gr. di AgI. In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,,7,,0,(OCH,) IF ius —- RIME ni — e ___m——cppeee r iu OCH, 9,47 9,45. Tenendo conto del fatto che nella cotoina é del pari contenuto un solo -ossimetile, come dimostreremo più avanti, e della sua composizione, ri- sulta che il presente composto acetilico é il diacetato di cotoina : C.,H,0(0CH,)(0C,H,0),. La cotoina contiene quindi due ossidrili liberi ed un gruppo ossimetilico. Cotoina. La saponificazione dell’ acetato ora descritto richiede qualche cura, ‘perché gli alcali alterano per azione prolungata la cotoina. Per avere un buon rendimento ed evitare per quanto é possibile 1’ alterazione del pro- dotto conviene operare in forte diluizione e rapidamente. Noi abbiamo introdotto l’ acetato a 10 gr. per volta in un litro d’ acqua bollente, contenente la necessaria quantità di potassa. La liscivia si colora subito in giallo, che si fa sempre più carico; nello stesso tempo si avverte un odore, che ricorda quello dell’ acetofenone. La colorazione e lo svol- gimento di questa materia volatile sono più forti adoperando liscivie più concentrate. Dopo circa 15 minuti di viva ebollizione la sostanza s’ è sciolta completamente e la reazione è compiuta. Si raffredda tosto il liquido e lo sì acidifica con acido solforico diluito. Il precipitato, che subito si genera, è da principio oleoso, ma si rapprende dopo poco tempo, massime agi- tando il liquido, in una massa fioccosa colorata in giallo rossastro. Il pro- dotto, seccato a b. m., venne purificato agitandolo in soluzione eterea con nero animale e facendolo poi cristallizzare dal benzolo. — In questo modo si ottiene subito la cotoina pura, in forma di cristallini minuti, colorati in giallo, che fondono a 130-131°. Questo punto di fusione coincide, come si vede, con quello gia indicato in principio e 1’ analisi eseguita sul pro- dotto riottenuto dall’ acetato conferma la formola dedotta dalle analisi fatte col materiale purificato per cristallizzazione. 0,1725 gr. di sostanza dettero 0.4344 gr. di CO, e 0,0780 gr. di HO,. — 176 — In 100 parti: trovato calcolato per C,,H7,0, Yi” PT e or ue” —-— —_ __ Mi ___ OCH, 12,41 de W0} La cotoina fornitaci dalla casa E. Merck era dunque già relativamente più pura, di quella su cui operarono Iobst e Hesse. La ditta E. Merck di Darmstadt mette ora in commercio della cotoina purissima. Le proprietà della cotoina, riottenuta dall’ acetato, coincidono perfetta- mente con quelle descritte da Iobst e Hesse per il loro prodotto. La cotoina si scioglie facilmente nell’ etere, nell’ alcool, nel cloroformio, nel- l’ etere acetico, nell’ acetone ed a caldo nel benzolo ; é invece poco solubile nell’ acqua anche bollente ed insolubile nell’ etere petrolico. Gli alcali cau- stici ed ìi carbonati alcalini la sciolgono facilmente con colorazione gialla e le soluzioni stando esposte all’ aria si fanno a poco a poco brune. Per acidificazione si separa da questa la cotoina inalterata. La sua solu- zione acquosa riduce lentamente dopo molto tempo il nitrato d’ argento. - Scaldando la cotoina col liquore di Fehling, il liquido da principio diventa verde e per prolungata ebollizione deposita poi il precipitato di protossido di rame. L’ acetato piombico non precipita la soluzione acquosa di cotoina, l’a- cetato basico vi produce invece un precipitato giallo. Il cloruro ferrico da una colorazione bruna con tendenza al violetto. L’ acido nitrico scioglie lentamente la cotoina con colorazione rossastra, a caldo la soluzione é più rapida e la colorazione più intensa. L’acido solforico scioglie a freddo la cotoina con colorazione gialla, riscaldando, il colore si fa più carico e tende in fine al rossastro, inoltre si avverte l’odore d’ acido benzoico. Versando il liquido nell’acqua si ot- tiene un precipitato rossastro composto per la maggior parte d’ acido ben- — 177 — «zoico. Saturando con carbonato sodico ed estraendo il liquido rosso-bruno con etere, si ottiene un residuo, che ha l’ odore dell’ etere benzoico (forse proveniente da benzoato metilico formatosi nella reazione), il quale residuo ripreso con acqua e liberato per filtrazione dalla parte oleosa, dà tutte le reazioni della floroglucina. Noi abbiamo ottenuto quella col fuscello d’abete bagnato con acido cloridrico e quella con la soluzione di vanillina (1) ed abbiamo eseguito, pure con buon successo, la reazione di Weselsky (2) col nitrato d’ anilina ed il nitrito sodico. In questa scomposizione non si formano però che minime quantità di floroglucina ; oltre all’ acido benzoico si ottiene principalmente una materia colorante rossastra. Tenendo conto della composizione della cotoina e dei fatti ora descritti, e ricordando poi che Iobst e Hesse ottennero pure l’ acido benzoico per scomposizione della cotoina con acido cloridrico e con la potassa fondente, sì può con molta probalità dedurre la costituzione del prodotto principale della corteccia di Cofo. La cotoina ricorda nel suo comportamento chimico la cosidetta idr0c0- toina, che, in seguito ai nostri studi (3), é stata riconosciuta essere la benzoildimetilfloroglucina. Anche questa sostanza, come è noto, si scinde colla potassa fondente facilmente in acido benzoico, mentre l’ altra parte della molecola rimane distrutta. Con gli acidi, cloridrico o solforico, si ot- tiene poi, oltre all’ acido benzoico, del pari una materia colorante, che é senza dubbio un prodotto di condensazione del residuo floroglucinico. Com- parando le formole della cotoina e della cosidetta idrocofoina CHO, e CO, Cotoina Idrocotoina , >< Zi sì vede subito che la differenza consiste in un gruppo metilico, che la cotoina contiene in meno, ciò che sta in buona armonia colla presenza d’ un solo ossimetile nella sua molecola. Per la sua grande somiglianza con l’ etere dimetilico della benzoilfioroglucina (idrocotoina) la cotoina deve essere considerata come l’ efere monometilico della benzoilfloroglucina, della (1) Lindt. Zeitsehrift fur analytische Chemie, 26, pag. 260. (2) Berl. Ber. 8, pag. 967 e 9, pag. 216. Vedi anche Bez/stein Handbuch der organischen Che- mie, 2° ediz. II, pag. 649. (3) Gazzetta chimica. Vol. 22. II., pag. 461. Serie V. — Tomo IV. 23 — 178 — seguente costituzione : C,H,(0H),(0CH,) CO (COSEIEE La posizione dell’ ossimetile rispetto agli altri due ossidrili liberi reste- rebbe ancora a determinarsi. Bibromocotoina. La nostra formola per la cotoina e la sua analogia coll’ idrocotoina faceva prevedere l’ esistenza d’ un derivato monobromurato o bibromurato, ma non la formazione d’un composto contenente più di due atomi di bromo, perché per semplice trattamento con questo alogeno a temperatura ordinaria in simili composti avviene soltanto la sostituzione degli idrogeni appartenenti al radicale fioroglucinico. La cosi detta tribromocotoina di Iobst e Hesse non dovea essere perciò che il derivato bibromurato, te- nendo anche conto della semplificazione da noì apportata alla formola pro- posta da questi autori per la cotoina. Noi abbiamo preparato la bromocotoina seguendo le indicazioni di Iobst e Hesse, trattando cioé a freddo 2 gr. di cotoina purissima, sciolta in 15re- edi veloroformio, (con 0:9e. ce. (227 gr.) di bromo.?Sifisvelsegab= bondantemente acido bromidrico e dopo lo spontaneo svaporamento del solvente rimane indietro una materia solida, colorata in giallo, che venne fatta cristallizzare dall’ alcool. Si ottengono grossi cristalli prismatici privi di colore, che però stando sull’ acido solforico od anche venendo compressi fra carta da filtro si trasformano in una polvere gialla, «che fonde a 116°. Iobst e Hesse non descrivono che il composto giallo, a cui attri- buiscono il punto di fusione 114°. La seguente determinazione di bromo dimostra trattarsi d’ una dibro- mocotoina della formola: C.Br(0H),(0CH,) CO CH, Cipe — 179 — 0,4102 gr. di materia, seccata nel vuoto sull’ acido solforico fino a peso costante, dettero 0,3837 gr. di Ag Br. In 100 parti : trovato calcolato per la formela C,,H,Br0, 7 Be] — ——————pes "——_ "==. «o ____ Br 39,80 39,30 . Anche per la formola di questo composto, le analisi trassero in inganno i nostri autori, perché la coincidenza fra i numeri da loro trovati e quelli richiesti dalla loro formola : CoH,;Br,0,, é buonissima. trovato da Iobst e Hesse calcolato per C,,71,,Br,0, Set, e co —_—PTer-—_ te _ ____€_ (G 42,94 42,92 pceto. H 2,90 2,43.» LB FNS910%4 39,02» Le proprietà della bibromocotoina corrispondono alla descrizione che Iobst e Hesse ne hanno daio. Si scioglie facilmente nell’ etere, nel cloro- formio e nell’alcool bollente, bollita con acqua da un liquido rossobruno. Con cloruro ferrico sì ottiene anche nella soluzione alcoolica di bibromocotoina una colorazione bruno-oscura. L’ acido nitrico non la scioglie a freddo, a caldo la trasforma in una materia resinosa giallo-rossastra, che per pro- lungato riscaldamento scompare. L° acido solforico concentrato scioglie la sostanza con colorazione gialla, riscaldando il liquido si fa bruno emet- tendo vapori di acido benzoico. Cotoinossima. A differenza dell’ idrocotoina, che sembra non potersi combinare col- l’ idrossilammina, la cotoina si trasforma con la massima facilità, gia a freddo, in una monossima. Questo fatto potrebbe fare supporre che la pre- senza dell’ ossimetile in posizione orto rispetto al carbonile chetonico im- pedisca la sostituzione dell’ ossigeno col residuo ossimico. Facendo questa — 180 — ipotesi si potrebbe ammettere nell’ idrocotoina e nella cotoina la seguente disposizione degli ossimetili : OH OCH, OCH, H H OA Agi i i pesa HO i O i | CH,O OCH. i OCH. | : OH 3 Te ; ei ; Sai COS CO. CO CH, è CH, | CH; SL sini spe rn — = idrocotoina (dimetil-benzoilfloroglucina) cotoina . La cotoina non dà che una monossima, perché evidentemente soltanto la floroglucina libera é in grado di reagire coll’ idrossilammina. La cotoi- na, che contiene il residuo floroglucinico in forma d’ etere monometilico, sì comporta in certo modo come un derivato della resorcina. Per preparare la cotoinossima abbiamo trattato una soluzione di 1 gr. di cotoina in un eccesso di carbonato sodico con 2 gr. di cloridrato di idrossilammina. Il liquido giallo s’ intorbida immediatamente e dopo poco tempo si separa una materia resinosa gialla, che si trasforma tosto in un precipitato cristallino colorato debolmente giallo per ebollizione della soluzione. Questo venne fatto cristallizzare dall’ alcool e poi dall’ etere acetico e petrolico, impiegando quest’ ultimo per precipitare la sostanza nel primo. Si ottengono squamette splendenti d’un colore che tende all’ azzurrognolo. La seguente determinazione d’ azoto ne dimostra la composizione, che corrisponde alla formola: CH(0CH,)(0H), C(NOH) (CJek 0,1584 gr. di sostanza dettero 7,9 cc. d’ azoto, misurati a 19° e 760,5 mm. In 100 parti. trovato calcolato per la formola C,,Hy3NO, 2 Mia —Pegrr — —_ I — e NERA 5,41. — BI — La cotoinossima é solubile nell’ alcool, nell’ etere solforico ed acetico, non si scioglie invece nell’ etere petrolico ed è poco solubile nell’ acqua anche a caldo. Gli alcali caustici la sciolgono prontamente. Dimetilcotoina. Mentre l’idrocotoina, 1’ etere dimetilico della benzoilfloroglucina, si ete- rifica facilmente col joduro di metile, per dare il cosidetto dibenzoili- drocotone, cioé |’ etere trimetilico della benzoilfloroglucina, non ci è stato possibile ottenere dalla cotoina né quest’ultimo composto e neppure l’idro- cotoina. La dimetileotoina da noi preparata, per azione del joduro di me- tile sulla cotoina, é un isomero dell’ etere trimetilico della benzoilfloro- glucina. Questo fatto non deve recare meraviglia, perché è noto quali difficoltà si incontrino nella preparazione degli eteri della fioroglucina (1) e della re- sorcina (2) impiegando i joduri alcoolici. Per preparare l’ etere trimeti- lico della prima W. Will (3) é partito dal dimetilico, che ottenne a sua volta per azione dell’ acido cloridrico gassoso sulla soluzione della floro- glucina in alcool metilico. — Dell’ etere dimetilico si passa poi facilmente, come ha dimostrato lo stesso W. Will, a quello trimetilico. Tutto ciò si comprende facilmente, perché la dimetilfioroglucina, che non contiene più che un solo ossidrile libero, sì comporta come un fenolo monoatomico, di cui è facile preparare l’ etere corrispondente. Cosi pure sì comporta l’ idro- cotoina; derivando essa da una fioroglucina bimetilata, da senza diffi- coltà, per azione del joduro di metile, l’ etere trimetilico dalla benzoilfioro- glucina. La cotoina invece contiene due ossidrili liberi, necessariamente in posizione meta, e presenta perciò nella eterificazione difficolta simili a quelle che Herzig e Zeisel hanno dimostrato opporsi alla trasforma- zione della resorcina nei suoi eteri. Noi abbiamo tentato, prima di tutto, di eterificare la cotoina con acido cloridrico gassoso in soluzione di alcool metilico, senza ottenere buoni risultati, principalmente perché quest’acido scompone profondamente tutti questi derivati chetonici della fioroglucina. IL’ azione del joduro di metile, in presenza di potassa, dà, come era da prevedersi, un miscuglio complesso di diversi prodotti. Impiegando il primo in quantità corrispondente a due molecole per una di cotoina, non si ot- (1) Vedi Herzig e Zeisel: Monatshefte fiie Chemie, IX, 217 e 882. (I° » » » DID RNEATZI (3) Berichte, XXI, 603. — 12 — tiene che in minima parte sostanze completamente eterificate, la mag- gior parte del prodotto è solubile negli alcali e cristallizza soltanto par- zialmente. | Noi abbiamo impiegato 10 gr. di cotoina sciolta in 40 cc. d’ alcool metilico, che conteneva a sua volta 5 gr. di potassa deacquificata. A questa soluzione vennero aggiunti a freddo, in un apparecchio a ricadere, mu- nito d’ una colonna di mercurio sufficiente per rendere la pressione interna di cca. 40 cm. maggiore della esterna, 15 gr. di joduro di metile. Il ri- scaldamento a b. m., da principio molto moderato, venne portato in fine all’ ebollizione. Il liquido che rimane intensamente colorato in bruno, con- tiene dei cristalli di joduro potassico. Ad operazione terminata si distilla l'alcool e si riprende il residuo con liscivia allungata di potassa, lascian- dolo per qualche tempo in digestione alla temperatura di 50°. — La mag- gior parte del prodotto passa in soluzione, quella che rimane indietro sì presenta, dopo essere stata cristallizzata dall’ alcool, in tavolette rom- biche che fondono a 132°, che non hanno nulla in comune coll’ etere trimetilico della benzoilfloroglucina. La quantità di questo nuovo composto era però così esigua da non bastare per 1 analisi. — La soluzione alcalina dà per acidificazione con acido solforico un precipitato brunastro, resinoso, che venne separato dal liquido acquoso e sciolto nell’ alcool. Da questo solvente si separarono dei cristalli, che fondevano a 138°, però soltanto in piccola quantità (1-1,5 gr.). La seconda cristallizzazione (2,5 gr.) era assai più impura, tanto che non fu possibile utilizzarla ; la parte maggiore del prodotto rimane sciolta nell’ alcool e si ottiene per svaporamento di questo allo stato resinoso, ribelle a qualsiasi tentativo di purificazione. I cristalli fusibili a 138° mantengono questo punto di fusione anche dopo ripetute cristallizzazioni dall’ alcool ed assumono in fine l’ aspetto di squamette d’un lieve coloro giallo. Le analisi dettero numeri, che concordano con la formola: Cres O, 51 0,1678 gr. di sostanza diedero 0,4358 gr. di CO, e 0,0896 gr. di H7,0. In 100 parti: Ì trovato calcolato per la formola CH,0, ae ——— ass — TZ — C_ 70,33 70,59 E:93 5,88. Il nuovo composto non contiene, come era da prevedersi, che due 0s- — 183 — “simetili, dosabili col metodo di Zeisel: 0,2486 gr. di sostanza dettero 0,4191 gr. di AgI. In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,H,0(OCH,), 7-7 n _s TFT RO O _ str na OCH, 22,24 22,83 . Siccome poi esso differisce dalla cotoina per due gruppi metilici, uno di questi deve essere necessariamente penetrato nel nucleo floroglucinico in sostituzione d’ un atomo d’idrogeno aromatico. La formola di questa dimetilcotoina deve perciò essere la seguente \ OH C;H(CH,) < OC, . OCH, CO CEL 2 eee ii .UGONlN)] Oo Ut 189° che rivela immediatamente come questo corpo sia un isomero dell’ efere trimetilico della benzoilfloroglucina: \ OCH, C.H, | OCH, be och, CO C; H, gs rp paglia Il nuovo composto sarà da chiamarsi efere dimetilico della metilbenzoil- floroglucina. Esso è solubile nell’ etere e nell’ alcool, insolubile nell’ acqua. Gli alcali lo sciogono con colorazione gialla. La sua soluzione idroalcoolica si colora in giallo bruno col cloruro ferrico. L’ acido nitrico lo scioglie a debole calore con colorazione gialla ; l’ acido solforico con colorazione gialloros- sastra intensa; riscaldando il liquido perde il suo colore ed emette vapori d’ acido benzoico. — 184 — L’ acetato corrispondente si ottiene quantitativamente bollendo la dime- tileotoina con anidride acetica ed acetato sodico fuso. Dopo avere elimi- nato l’ eccesso di anidride per distillazione a pressione ridotta e ripreso il residuo con acqua, si cristallizza quest’ ultimo dall’ alcool. L° acetato di di- metilcotoina si presenta in aghetti bianchi, che fondono a 150°. Il numero degli acetili é determinato dal seguente dosamento dell’ os- simetile molto meglio che da un’analisi elementare. 0,1688 gr. di sostanza diedero 0,2569 gr. di Ag/. In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,,H#,0(0CH,)(0C,H,0) tn P—_ase —_ IE espe — — coscsssgai iii & es CM nno OCH, 20,07 19,74. Esso ha dunque la seguente costituzione : C,H(CH,)(0CH,),(0C,H,0) co dui e la sua formazione viene a confermare |’ esattezza della formola della di- metilcotoina. L’acetato di dimetilcotoina si scioglie nell’ alcool e nell’ etere; nel- l’acqua e negli alcali è insolubile, bollendolo con questi ultimi avviene saponificazione ed il liquido si tinge in giallo. Il cloruro ferrico non colora la sua soluzione idroalcoalica. L’ acido nitrico ed il solforico danno rea- zione identiche e quelle che si ottengono colla sostanza madre. La cotoina viene, come si vede, a compiere la serie degli eteri meti- lici della benzoilfioroglucina, che, tutti e tre, si rinvengono nelle corteccie di Coto: C,H,(0CH,)(0H), CHA, (0CH)SOH C;H,(0GH9; CO CO CO (0, EI: CEL G; H, ea ri _ TT__53> ile — —_—_e 6 —____ Cotoina Idrocotoina Metilidrocotoina 0 Benzoilidrocotone. — 185 — Le due prime sostanze possono entrambe esistere in due forme iso- meriche e perciò noi non possiamo affermare con certezza quale sia in esse la posizione degli ossimetili rispetto al gruppo benzoilico; la terza invece non permette simili isomerie e la sua costituzione non può essere che una sola. Non per tanto il Sig. O. Hesse scopri nelle cortecce di Coto una sostanza, del tutto simile alla trimetilbenzoilfioroglucina ordinaria, che fonde a 115° invece che a 113° e che inoltre avrebbe un aspetto di- verso da quello di quest’ ultima. Per cercare di risolvere questa questione noi abbiamo preparato sinteticamente la trimetilbenzoilfloroglucina partendo dall’ etere trimetilico della fioroglucina e condensandolo, in soluzione ben- zoilica, col cloruro di benzoile in presenza di cloruro di zinco. In questo modo si ottiene realmente la metilidrocotoina completamente identica a quella naturale, il punto di fusione del prodotto artificiale è però 115°. — I cristalli di questo vennero esaminati dal nostro amico il Prof. G. B. Negri ed egli trovò che essi erano di due specie; una forma monoclina identica a quella della metilidrocotoina ordinaria ed una forma trimetrica, che più raramente si riscontra nel prodotto naturale. Ciò fa supporre che la trimetilbenzoilfioroglucina sia dimorfa, perché sarebbe difficile dare al- trimenti una soddisfacente spiegazione di questo fatto. Noi però non vo- gliamo per ora pronunciarci definitivamente in proposito ed attendiamo per farlo che siano compiute le ricerche del Prof. G. B. Negri e le nostre. Esame del prodotto di condensazione, che si ottiene dalla Cotoina per azione dell’anidride acetica. (etere monometilico della diossifenilcumarina). Più sopra abbiamo fatto menzione di una sestanza cristallizzata in aghi gialli, che si forma assieme al diacetato di cotoina. Questo composto è esso pure un acetato d’ un prodotto di condensazione della cotoina col- l’ acido acetico. I cristalli gialli, separati meccanicamente da quelli privi di colore dell’ acetilcotoina, vennero fatti cristallizzare più volte dall’ alcool]; formano degli aghi lunghi o dei prismi splendenti, d’ un colore giallo pal- lido e fondono, come s° é gia detto, a 142°. L’analisi fatte con preparati diversi dettero numeri che conducono alla formola : Cig, O; 5 I. 0,2094 gr. di sostanza dettero 0,5310 gr. di CO, e 0,0872 gr. di 7,0. II. 0,2026 gr. di sostanza dettero 0,5140 gr. di CO, e 0,0840 gr. di 7,0. Serie V. — Toino IV. 24 — 186 — In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,;7,0, 2 TTT use — —r .sss»=""— _——<—*—"eee © 2° { { {___ I. II. C_ 69,16 69,19 69,68 H' 4,62 4,61 4,51. La coincidenza fra i numeri trovati e quelli dedotti dalla formola, non è, come si vede, troppo buona, ma pure noi crediamo, per ragioni che espor- remo più tardi, che il composto abbia la formola suindicata. È assai ve- rosimile supporre che la sostanza non sia stata sufficientemente pura per- ‘ché la sua separazione dall’ acetato di cotoina non é facile ad effettuarsi. Con la formola adottata sta in buon accordo la quantità di ossimetile dosata col metodo di Zeisel, ammettendo la presenza d’uno solo di questi gruppi nel composto in questione. 0,3258 gr. di sostanza dettero 0,2547 gr. di Ag/. In 100 parti : trovato calcolato per la formola C,,H,0,(0CH,) AN O Till ili umana 7 7 rag e ei OCH, 10,00 10,00 . Questo composto é solubile nell’ etere e nell’ alcool, insolubile nell’ acqua e nei carbonati alcalini. Bollito con gli alcali caustici viene saponificato. Col cloruro ferrico la sua soluzione idroalcoolica si colora in giallo bruno, massime a caldo, aggiungendo una goccia d’ acido cloridrico la colora- zione scompare. L'acido nitrico scioglie la sostanza con colorazione bruna, per aggiunta d’acqua si ottiene una materia dello stesso colore. L° acido solforico dà una soluzione intensamente gialla, che non si modifica col riscaldamento; diluendo con acqua il liquido perde il suo colore e rima- ne limpido. Supponendo che i cristalli, che fondono a 142°, siano l’ acetato di una nuova sostanza, abbiamo tentato di saponificarli, per ottenere il composto fondamentale. La reazione riesce infatti bollendo l acetato con potassa a ricadere. La liscivia si colora in giallo bruno ed emette un odore, che ri- corda quello dell’ acetofenone. Il liquido alcalino venne poi acidificato con acido solforico, che produce la separazione d’ una materia fioccosa. Questa fu raccolta su filtro e la soluzione, dopo essere stata neutralizzata nuovamente, venne svaporata a secco per andare alla ricerca dell’ acido acetico che doveva essere in essa contenuto. Distillando il residuo con — 187 — acido solforico, si ottenne realmente un liquido acido, in cui si potè pro- vare l’esistenza di acido acetico nel modo consueto. Il prodotto della saponificazione, cristallizzato ripetutamente dall’alcool acquoso, fonde a 207°. La sua composizione dovrebbe corrispondere alla formola: C,6H,30, Ù ammettendo che la saponificazione sia avvenuta secondo |’ uguaglianza: CH0, H.0,4 HL0/T— CHO, +.CH,0,.- Anche questo prodotto non dette all’ analisi numeri sufficientemente: esatti, ma pure crediamo che la formola da noi proposta sia la vera. 0,1972 gr. di sostanza dettero 0,5219 gr. di CO, e 0,0816 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,,H,,0, a —— ——_——"s—— TT. (GTI 71,64 vEl 4,60 4,48. Il dosamento dell’ ossimetile dette invece numeri soddisfacenti. 0,3148 gr. di sostanza dettero 0,2770 gr. AgI. In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,,7,0,- OCH, 2 e — eee TT__ooo ss --ie __ ect e OCHE! TL9T, La nuova sostanza è insolubile nell’ acqua, solubile nell’ alcool, nell’ etere, negli alcali caustici ed a caldo anche nei carbonati alcalini. Queste ultime soluzioni sono colorate in giallo. Il cloruro ferrico da con la soluzione idro- alcoolica una colorazione giallo bruna. Con gli acidi solforico e nitrico la nuova sostanza sì comporta come l’ acetato da cui fu ottenuta. Nel dosare l’ossimetile col metodo di Zeisel, tanto nell’ acetato fusibile a 142°, che nella sostanza madre, che fonde a 207°, abbiamo osservato, dopo terminata 1’ operazione, la separazione d’ una materia, cristallizzata in aghetti, dal liquido, che resta nel palloncino in cui viene eseguita la scomposizione coll’ acido jodidrico. — 188 — Questi cristalli sono in entrambi i casì gli stessi e fondono, dopo con- veniente purificazione, a 233-234°. Questo comportamento, che non abbiamo riscontrato finora in nessuna delle sostanze provenienti dalle corteccie di Coto, che vengono tutte profondamente decomposte dell’ acido jodidrico bollente, ci ha permesso di ottenere allo stato di perfetta purezza il com- posto fondamentale, di cui le due sostanze ora descritte, devono conside- rarsi quali derivati. Difatti è molto probabile, che le materie, che rendono impure le dette due sostanze e ne alterano la composizione, vengano di- strutte dall’ acido jodidrico; questo modo di saponificazione condurrebbe perciò direttamente, partendo tanto dall’ uno che dall’ altro prodotto, alla vera sostanza madre, scevra da ogni altra impurità. L’ acido jodidrico eli- mina il metile dal composto fusibile a 207°, ed il metile e 1’ acetile con- temporaneamente, dall’ altro, che fonde a 142°. Noi abbiamo operato nel preparare il composto fondamentate nel modo che si suole seguire nella determinazione dell’ ossimetile col metodo di Zeisel; 2 gr. dell’acetato, fusibile a 142°, vennero bolliti a ricadere con 30 c. c. .d’ acido jodidrico, dal punto d’ ebollizione 127°. Dopo poco tempo si avverte, oltre ai vapori di joduro metilico, l’ odore d’acido acetico e di acetofenone. L’ operazione si compie in circa mezz’ ora e dopo questo tempo si versa il contenuto del pallone nell’ acqua. La sostanza, che si se- para in aghetti, venne lavata con anidride solforosa e fatta cristallizzare dall’ alcool, aggiungendo alla soluzione calda alcune goccie d’acqua. Si ottengono cosi aghetti bianchi, sottillissimi, che fondono, come s’è detto, a 233-234°. Il rendimento é buonissimo. La composizione del prodotto corrisponde alla formola : (GIERO) 1074)? ed i due composti menzionati avranno perciò probabilmente la seguente costituzione : CH,0,(0CH,)(C,H,0) e C,H,0,(0CH)(0H) T—____— se —WWkk. — ‘lea (i 0-2 pratico Pirloz0re 0,1580 gr. di sostanza dettero 0,4096 gr. di CO, e 0,0600 gr. di H,0. In 100 parti: trovato calcolato per la formola C,;Hn0, i as T—t ae pre r se € _kC_mr 6 ee CRONO 70,86 H 422 3,94. — 189 — È solubile nell’ alcool, massime a caldo, e nell’ etere, insolubile nel- l’acqua. Si scioglie facilmente negli alcali e nei carbonati alcalini con co- lorazione gialla intensa; da queste soluzioni gli acidi riprecipitano la sostanza. Col cloruro ferrico si ottiene in soluzione idroalcoolica una co- lorazione giallo bruna, che scompare per aggiunta d’acido cloridrico. Cogli acidi solforico e nitrico il nuovo composto si comporta come l’ acetato, che fonde a 142°. Esso conterrà senza dubbio due ossidrili liberi: CHLO:(OH5), e questa formola viene confermata dall’esistenza del diacetato, C,:H30,(C,H,0)),, che si ottiene facilmente per ebollizione con anidride acetica ed acetato sodico. Dopo avere eliminato | eccesso di anidride e ripreso il residuo con carbonato sodico, si fa cristallizzare la parte insolubile dall’ alcool. I’ acetato si presenta in aghi bianchi, che fondono a 183°. L'analisi corrisponde alla suindicata formola, 0,2134 gr. di sostanza ne dettero 0,5278 di CO, e 0,0814 di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,7,0, -_- tn 3 T— _—_s gs —/— = gZ __ __- C. 67,45 67,45 JEl 4,24 4,14, che venne confermata dalla seguente determinazione del peso molecolare eseguita col metodo di Raoult in soluzione acetica : Peso molecolare Concentrazione Abbassamento trovato calcolato 2 tto" T Pr eg x 2 n} es 1,0510 Odio 3283 338 . L’acetato è insolubile negli alcali ma viene saponificato per ebollizione con essi. Da, in genere, le stesse reazioni della sostanza primitiva. Fino a questo punto del lavoro noi credevamo sempre che la sostanza della formola : C,H,0,(0CH.,)(0H), — 190 — fusibile a 207° fosse un prodotto naturale che s’ accompagna alla cotoina nella vera corteccia di Coto. Recentemente però comparve un lavoro dî St. von Kostanecki e Weber (*), i quali autori, per determinare la co- stituzione della crisina, prepararono dalla floroglucina e dall’ etere benzoil- acetico la m-diossifenilcumarina, CES HO-C e CO HC CH C D) C Onan, che é identica al composto da noi ottenuto per azione dell’ acido jodidrico. sulla sostanza che fonde a 207°. Di fatti il prodotto proveniente dalla fio- roglucina cristallizza come il nostro dall’ alcool diluito in aghi bianchi, che fondono a 233-234°, mentre von Kostanecki e Weber trovarono il punto di fusione a 234-235°. Il diacetato preparato da noi fonde a 183° e quello della diossifenileumarina a 181°. La sostanza da noi ricavata dalla cotoina della sopraindicata formola, che fonde a 207°, non é dunque altro che l’efere monometilico della m-diossi-B-fenileumarina, in cui rimane ancora incerta la posizione del- l’ossimetile. . Questa inattesa coincidenza fece tosto nascere in noi il sospetto che il derivato cumarinico, che noi avevamo ottenuto dalla cotoina per azione del- l'anidride acetica, fosse non un prodotto naturale, ma bensi una sostanza formatasi per azione della stessa anidride e dell’ acetato sodico sulla cotoina, che non è altro che l’ etere metilico della benzoilfloroglucina. Sapendosi che la diossifenileumarina si produce per condensazione della fioroglucina coll’ etere dell’ acido benzoilacetico secondo la uguaglianza : 000 C,H(0H),+ GH,- CO-CH,- C00H=GH(0H),( | +2H0, Lon C; H, era naturale il supporre che un analogo processo potesse avvenire riscal- (*) Beriehte, XXVI, pag. 2906. — 191 — dando la metilbenzoilfloroglucina (cotoina) con anidride acetica ed acetato sodico. La reazione potrebbe in questo secondo caso compiersi nel se- guente modo : C,H,(OCH,) - (OH), dii. CO + CH,. COOH= C,H,(0CH,)(0H) o COSO; C;H, COHE E realmente la formazione dell’ etere metilico della diossifenilcumarina deve essere cosi interpretata, perchè la cotoina greggia, fornitaci dalla casa E. Merck non contiene questa sostanza. Per convincerci di ciò abbiamo bollito la cotoina commerciale con acido jodidrico, che scompone profon- damente la cotoina formando acido benzoico. Se fosse stato presente l’etere cumarinico che fonde a 207°, esso avrebbe dovuto fornirci la cumarina che fonde a 335°. Noi non abbiamo ottenuto invece altro che acido ben- zoico. La controprova la trovammo poi nel comportamento della cotoina purissima, cioé di un campione di cotoina riottenuta dal suo diacetato. Anche da questo prodotto, come dalla cotoina del commercio, ritornò a formarsi oltre al diacetato, che fonde a 91-92°, anche l’altro composto che cristallizza in aghi gialli e fonde a 142°. Queste esperienze dimostrano anco una volta 1’ esattezza della formola di costituzione da noi proposta per la cotoina ed indicano inoltre un mezzo per determinare la natura chimica di altri prodotti naturali. Noi crediamo ad es. che la maclurina sia un derivato del benzofenone perchè essa pure dà coll’ anidride acetica ed acetato sodico un prodotto di condensazione in luogo d’ un semplice poliacetato. Diremo in fine che ci riserviamo lo studio della cosidetta Dicotoina con cui sarebbe compiuta la serie delle sostanze scoperte fin’ ora nella corteccia di Coto ed aggiungeremo che in seguito a certe esperienze, di cui faremo parola in altra occasione, abbiamo potuto confermare la formola della Paracotoina, da noi recentemente annunciata con riserva. Questo interes- sante composto, ha realmente la composizione da noi già attribuitagli: C,H,0 207874) — 192 — e la sua costituzione potrebbe essere la seguente : (CH,0)): GH, —€=CH—CH= CH—C0 RE i O ossia quella d’ una diossimetilenfenilcumalina : CH HC CH (CH,0,) C,H,- C CO- o) Questa supposizione, che noi naturalmente pubblichiamo con la più grande riserva, darebbe ragione di tutti i fatti finora descritti, la di cui discussione ci sembra ancora alquanto prematura. Bologna, 12 Gennaio 1894. i METODO RAZIONALE DIFFERENTE DAGLI ANTICHI E DAI MODERNI STESSI DI APPROSSIMAZIONE INTORNO ALLE EPOCHE D'EGUAGLIANZA DEL TEMPO SOLARE AL TEMPO MEDIO B DELLE MASSIME LORO DIKPRRENZE MEMO EA del Prof. Cav. ANTONIO SAPORETTI (Letta nella Sessione Ordinaria del 28 Gennaio 1894) Si può forse asserire che fino dalla famosa Opera di Astronomia di Keplero (1609) gli Astronomi Matematici si diedero a trattare di queste epoche solamente con mezzi di approssimazione. A farcelo conoscere suf- ficiente cosa è il percorrere fra i molti lo Schubert, il Delambre, il Santini, il Brùnnow del 1864, il Gruey del 1885. Noi per brevità accenneremo soltanto le cose dette intorno a ciò dal Gruey nel Cap. III (Lecons d’Astronomie. Paris 1885). Da queste si trae la FO=t-th=A4—L espressa da 4 B(== (re — T)send— P)+ do sen2(L— P)+-..... Mero. _ tang*3 sen24 + 5 tang'5 sendA +...» ove F(t) esprime l'equazione del tempo, cioé la differenza fra il tempo medio 7, ed il tempo solare vero 4; A l’ascensione retta del sole (vero); L la longitudine media del sole (Fitizio); e l’eccentricità dell’ orbita ter- restre; @ l’obbliquità dell’eclittica; P la longitudine del perielio; 4 la lon- gitudine del sole (vero). Siccome il Gruey nota essere e quantità piccolissima e che la L si può tenere con grande approssimazione, egli lo dice, eguale alla 4, così Serie V. — Tomo IV. 25 — 194 — per approssimazione riduce la (1) alla F(t)= 2e sen(A — P)— tang*5 sen27 come si vede alla pag. 138, l. 14, (Gruey). Noi giudichiamo che non si possa ammettere in generale che le pro- prietà di un fatto siano del tutto identiche a quelle di un altro fatto, an- eorché per poco l’uno dall’ altro differisca, ed é perciò che avuto sempre speciale riguardo al mio insegnamento cattedratico universitario ho que- stanno dato opera a trattare la questione delle epoche nominate coi dati completi e senza minimamente discendere a vie di approssimazione. Senza dubbio con questi dati completi, rappresentanti la 1* questione e cioé la ricerca delle epoche, in cui il tempo solare (vero) riesce eguale al tempo medio di uso comune, civilmente parlando, non riuscii mai alla {loro de- terminazione, essendo i dati forniti da quantità in parte algebriche razio- nali e in parte trascendenti, che involvono una stessa quantità incognita (la E) come si può vedere, il che forse ha impedito agli astronomi mate- matici di ritrovare la via diretta. Dopo inutili tentamenti mi diedi a studiare la seconda quistione e cioé a trattare delle epoche delle massime differenze fra il tempo solare (vero) e il tempo medio e potei intuire la determinazione dell’ equazione di riso- luzione coi dati completi, equazione, che, come dissi, é stata solamente determinata in via di approssimazione, sia dagli antichi, sia dai moderni. E finalmente mi fu dato di completare la risoluzione anche rispetto alla 1* quistione, alle epoche cioè di eguaglianza del tempo solare (vero) al tempo medio, perciocchè con la stessa determinata equazione delle epoche delle massime differenze fra il tempo solare (vero) e il tempo me- dio, coliegata con la condizione finita della stessa eguaglianza, sì perviene al detto completamento. I dati completi sono i seguenti (Oa FA)= AL (e tang A = coso tang4; (ALII MEP (O), L=P+M; (Or e =1—ecosÉE; 1 eicoso ni (7 Aero M=E—esenE = 99 ‘come si vedono, specialmente, nei trattati moderni di Astronomia, ed ove oltre alle superiori indicazioni delle quantità KOSA tese 7, fa d’ uopo dichiarare essere o l’ anomalia (vera) apparente del sole; M l’anomalia (media) del Sole Fittizio; E l anomalia detta centrale, legata con l'anomalia (media) per mezzo della (?). A queste si possono per semplicità dei calcoli unire le formole, tratte dalla (6) e cioé cosE—e . (©) ONE cosp = E) 1 NEVE sen E OE Seno = (1 TETI È evidente che per l’esistenza delle epoche, tanto dell’ eguaglianza dei tempi solari veri ai tempi medii (solari), quanto delle massime differenze loro, deve sussistere la comune equazione dl __dA _dL __, re dA _dL MET RT IT SEPE dENdE necessaria e sufficiente per le massime differenze, mentre riesce soltanto sufficiente e necessario il complesso di questa e della (7) suddetta (condi- zione finita) per l’ eguaglianza dei tempi, (solari veri, solari mediî). Ed in vero per le epoche delle massime differenze deve essere URMMIA |} DE Iii SET e perciò solamente dA _ dL dE dE — 196 — mentre per le epoche dei tempi eguali suddetti deve essere do) AVG DAREI (11) Ste Ate Ae, TETdE formanti |’ accennato complesso. Consideriamo adunque la condizione comune dA dL (LI dEi) per la quale si è assunta la E per variabile così detta principale, perché dalle equazioni superiori (2)-(?) s’ intuisce essere questa /a via più diretta. dA dA di È Si ha pertanto in 1.° luogo a cagione della (3) e a ca- dee Ade gione della (4) si ha : O AMSA RIO (DO ar i 9 mentre dalla (3) stessa sì trae dA dÀ dA _ coso cos°A OBOE cos? A De as IRE SA e dalla (6) oppure dalle (8), (9) si ottiene facilmente 1 de __(1—-è@)ì , VEE dE 1—ecosE' ed in 2°. luogo dalle (5) e (7) si ricava CO di O 1—ecosE. — 197 — Sostituendo nella (11) le espressioni delle (12)-(15) si ha la fondamentale deo. hè cos A = cos’A(1— e cos E) posto per semplicità (1— @)î coso = > 0. A questa risolvente si dovrebbero unire le (3), (4), (5), (6), (?) le quali 6 funzioni sono fra le 6 incognite ANA 0, DEV Senza occuparmi della determinazione di tante incognite, mi sono dato alla determinazione della E, come quella, che è involuta fra quantità pura- mente algebriche razionali e quantità trascendenti, eliminando A, 4, per mezzo delle (3), (4), (6). Infatti dalla (3) si ha 1 cos °4 2 COS A ES ———T— =; === 1+tang’4 cos’ + cos’ sen’ e la (15) si trasforma nella (7) E (cos°7 + cos°o sen°A)(1— e cosE) = N°. Dalle (4), (8), (9) si traggono da prima le così = cosP coso — senPseno seni = sen Pcoso + cosPseno e poscia (cosE— e) cosP—(1— e sen Psen E 1T— ecosE cosà == 1 (cosE— e)senP+(1— e):cosPsenE 1— ecose senAi = — 198 — con le quali la (17) si cangia nella (18) ana da_—e+01T—-d)—hr=yaxatT—-e)V/(1- 2) supposto (LO) e= cosÈ e per semplicità posto a° = cos°P + sen*P cos’ 8° =(sen’*P+ cos°Pcos’o)1— é) 1 y=(1— @)?sen2P sen”. Quadrando e riducendo si ottiene la risolvente di 4.° grado rispetto la incognita x = cosE (1) pa + qa + re + ser +t=0 ponendo g=a—bB, l=ea+6°— h° ed essendo in tal modo e E 0 rà Va d'antc 2 2 (II) PETIT di eh i r=2gl+4eaî—y1T— è@), s=2e(f°—2a°), t=l— é&y. Trattata questa coi noti dati dalle contemplazioni celesti, almeno col calcolo logaritmico trigonometrico si otterrebbero sempre per &@ ossia per cosE 4°. valori reali, corrispondenti a 4°. massime differenze, due in ec- cesso e due in difetto, fra i tempi solari (veri) e i tempi medii (del sole Fittizio). Dai 4°. valori di x = cos £ facilmente dalla A = L, condizione di egua- glianza fra i suddetti due generi di tempi, si trarranno i valori per le — 199 — epoche delle suddette 4°. eguaglianze, essendo che dalla (5) combinata con la (7) si ha A=P+M=P+£E—esenE pienamente determinabile. i Ad altro tempo forse spero che mi venga dato di analizzare la questione delle suddette epoche sotto agli altri elementi, almeno in parte, se non totalmente. . da QUINTO CONTRIBUTO ALLA CONOSCENZA DELLA MIGROCAUNA: TERZIARIA ITALIANA: REE MEEIREKA DEL CAVFDOLRCA RE ONTO RNFASTINIE (Letta nella Sessione del 26 Novembre 1893). (CON TRE TAVOLE) « Spesso dobbiamo contentarci di sapere « quello che una cosa non è, riuscendo più « facile di convincere il falso, che dimostrare « il vero ». « GALILEO ». Allorché, pubblicando recentemente alcune note intorno a una piccola collezione di foraminiferi delle marne messinesi studiata nel 1863 da Se - guenza (1), feci voto perché la illustrazione di un materiale più abbon- dante venisse ad accrescere le nostre cognizioni sulla fauna microscopica di quella classica località, non prevedevo che un tale voto sarebbe stato Gosì presto esaudito, e che io stesso avrei potuto essere l’ autore della, desiderata illustrazione. Ciò debbo alla cortesia del Prof. Francesco Bassani, direttore del Museo Geologico della R. Università di Napoli, il quale volle gentilmente affidarmi la revisione di una raccolta di foramini- feri delle marne messinesi fatta da Oronzio Gabriele Costa, da questi studiata (2) e conservata nel sopra nominato Museo, revisione che credo debba riescire tanto più interessante, inquantoché il Costa, come é noto, (1) Mem. Acc. Sc. Ist. Bologna, anno 1893. (2) I tubetti sono per la maggior parte saldati alla lampada, e portano, gommata all’ esterno, una piccola etichetta collo scritto di Costa. Inoltre, essi non sono numerati, nè in modo alcuno ordinati; cosicchè l’ ordinamento che riscontrasi nella presente memoria è fatto da me, ed è in- formato, per quanto era possibile, al lavoro di Costa. Serie V. — Tomo IV. 26 — 202 — é autore di una memoria sui « Foraminiferi fossili della marne terziarie di Messina » (1). Una parte del materiale della collezione inviatami dal Prof. Bassani si trova di fatto illustrato in essa memoria; ma, mentre da un lato ve- diamo conservati parecchi esemplari che furono dall’ autore descritti nella prima parte e figurati (spesso, a dire il vero, malamente) nelle tavole I e II, dobbiamo pur troppo notare che non tutte le specie illustrate sono rap- presentate nella collezione, ed è sopratutto deplorevole che in questa man- chino tutti gli esemplari di cristellarie e frondicularie descritti nella seconda parte della memoria e figurati nella tavola III. Era d'altronde intenzione del Costa di pubblicare una monografia molto più estesa su questo argo- mento, come risulta dalle parole che leggonsi a pagina 128 (2): « dichia- rando innanzi tempo che esso (il lavoro) non dee tenersi che come un saggio »; e a pagina 143 (3) « riservando le molte altre (dentaline) per la proposta Monografia ». Ma qualunque sia il rapporto tra la collezione Costa e la memoria pubblicata che la illustra, io qui mi limito all’ esame accurato e minuto delle specie inviatemi dal Prof. Bassani, aggiungendovi la revisione di una piccola collezione di foraminiferi di Messina, conservata pure nel Museo di Napoli, e studiata da Seguenza, come quella di Bologna, nel 1863 PARTE 1.2 — NODOSARIE Genere Glandulina d’ Orbigny. « Nodosaria pygmaea (Glandulina) ». — Il tubetto racchiude un solo esemplare, incompleto, del quale presento il disegno nella qui unita ta- vola I (figura 1). Si tratta evidentemente di quella varietà allungata della Nodosaria laevigata d’ Orb. che si suole distinguere col nome di Nod. aequalis Reuss sp., e della quale ho trattato particolarmente nel volume V del Bollettino della Società Geologica Italiana. L’etichetta porta inoltre l'indicazione «tav. II, fig. 21» la quale non risponde alle figure della memoria sui foraminiferi di Messina, e probabil- mente si riferiva alla monografia più estesa che l’ autore si era proposta (4). (1) Memorie dell’Accademia delle Scienze di Napoli, vol. II, 1855 (1857), pag. 127-147, tav. I, II; pag. 367-373, tav. III. (2) Pagina 2 dell’ estratto. (3) Pagina 17 dell’ estratto. (4) Su parecchie delle etichette leggonsi le citazioni delle tavole e delle figure; ma io mi — R03 — Genere Nodosaria Lamarck. Ju « Nodosaria bacillum Defr.». — Il tubetto contiene due esemplari, uno dei quali é assai incompleto ; presento il disegno dell’ altro nella qui unitaltav I(fig. (51): L’ autore tratta di questa specie a pagina 8 (num. 1) della memoria sopra Messina e la illustra nella relativa tav. I (fig. 7, capovolta), L’ e- semplare della collezione (quello di cui do il disegno) non pare lo stesso che fu figurato dall’ autore, essendo il primo molto più corto del secondo, il quale raggiungeva 22 millimetri di lunghezza (1). La Nod. bacillum di Defrance fu gia sino dal 1866 identificata da Rupert Jones, Parker e Brady (Foram. Crag) col Nautilus rapha- nistrum di Linneo. Trovasi poi splendidamente illustrata nella monografia di Silvestri. III. « Nodosaria mutabilis. Tav. I, fig. 1 ». — Due esemplari, di cui uno simile a quello del quale è parola qui sotto, a proposito della Nod. st phuneuloides. L° altro esemplare é incompleto, ed é quello stesso che trovasi figurato dall’ autore nella memoria sopra Messina, come è indicato nel cartellino. Ne do il disegno nella qui unita tav. I (fig. 46). Costa descrive la specie a pagina 8 e 9 (num. 2) della citata memoria. Si tratta evidentemente di quella varietà che suole distinguersi col nome di Nod. obliqua Linné sp., intendendovi comprese tutte quelle forme curve, a segmenti cilindrici o subceilindrici, ornate di coste più o meno numerose e robuste, le quali costituiscono un gruppo che da un lato si collega strettamente colle Nod. raphanistrum e raphanus, dall’ altro colla N. vertebralis. È su questo concetto che ho basato le considerazioni esposte nel mio lavoro sulla N. obliqua pubblicato due anni or sono, accennando pure in esso lavoro alla incertezza che tuttavia si possiede intorno ai ca- asterrò dal farne cenno, ogniqualvolta esse non si riferiscano alla memoria pubblicata, o altre ragioni non lo richiedano. Ometto parimente la misura degli esemplari, la quale trovasi pure in- dicata su molte delle etichette. (1) Potrebbe darsi che 1’ esemplare maggiore della collezione rappresentasse la parte infe- riore di quello figurato da Costa. È certo peraltro che il frammento che lo accompagna nel tubetto non appartiene ad esso, e quindi che qualche cosa è andato perduto. — 204 — ratteri della forma tipica linneana, quale ci si presenta nell’ esemplare fi- gurato da Gualtieri (1). IV. « Nodosaria mutabilis var. — Tav. I, fig. 2 ». — Un esemplare in- completo, e uno completo. Il primo è simile a quello di cui é parola nel paragrafo precedente. L’ esemplare completo é quello stesso che fu figurato da Costa nella memoria sopra Messina, come é indicato nella scheda. Ne presento il disegno nella qui unita tav. I (fig. 48). La sua leggera incurvatura induce a riferirlo alla Nod. obliqua (v. $ TI. V. « Nodosaria abbreviata. Tav. I, fig. 3 ». — Tre esemplari, due ‘incom- pleti e uno completo. Dei due primi, l uno è simile a quello di cui é parola nel paragrafo III, e perciò lo riferisco alla N. obliqua; 1° altro, seb- bene leggermente curvo, é troppo simile all’ esemplare completo per po- terlo separare da esso (v. la ‘mia tav. I, fig. 45). Quest’ ultimo pole probabilmente quello stesso che fu figurato dall’ autore nella memoria sopra Messina, come é indicato sul cartellino. Nel testo di detta memoria, la fio. 3 (tav. I) é descritta come Nod. contracta (pag. 9, num. 4), mentre la N. abbreviata (num. 3) non è accompagnata da figure. Del resto, qua- lunque sia il nome datogli da Costa, io presento nella mia tav. I (fig. 44) il disegno di quell’ esemplare; donde risulta evidente che esso è da rife- rirsi alla Nod. raphanus Linné sp. — Questa specie trovasi illustrata nella monografia di Silvestri coi nomi di N. raphanus e N. scalaris d'Ougb. VI. « Nodosaria siphunculoides (Dent. acuta d’ Orb. affinis?) ». — Un solo esemplare, di cui presento il disegno nella tav. I (fig. 49). Da questo fa- cilmente si rileva che trattasi di una forma simile tutt’ affatto a quelle che ho rappresentate colle figure 1, 2 e 3 nel lavoro sulla Mod. obliqua (v. $ III) L'autore ha scritto inoltre sull’ etichetta « tav. II, fig. 3 » ma questa indicazione non risponde alla memoria sopra Messina. In questa, la N. siphunculoides è descritta alle pagine 9 e 10 (num. 5) ed è figurata (1) La N. mutabilis fu illustrata da Costa anche nella « Paleontologia del Regno di Napoli » (parte 2°, pag. 150, tav. XIII, fig. 1). — 205 — nella tav. I (fig. 27). Quanto poi alla Dentalina acuta di d Orbigny (Fo- ram. Vienna), di cui Costa riconosce l’ affinità colla sua specie, può dirsi che è anch’ essa inseparabile dalla N. obliqua (1). VII. « Nodosaria deiscens. Tav. 1, fig. 6 ». — L’unico esemplare incompleto racchiuso nel tubetto é quello stesso che servi all’ autore per fondare la specie, che fu da esso figurata nella memoria sopra Messina, conforme all’ indicazione che leggesi sul cartellino, e descritto a pagina 13 (num. 9) di detta memoria. Ne presento il disegno nella mia tav. I (fig. 50). Evi- dentemente si tratta della N. raphanistrum (v. $ II. VII. « Nodosaria inftata. Tav. I, fig. 18 ». — Due esemplari, gli stessi che infatti vedonsi figurati nella memoria relativa a Messina, giusta 1 indica- zione scritta sulla scheda. Nel testo di essa memoria, la specie é descritta a pagina 13 (num. 10), e la forma che è riprodotta dalla fig. 17 vi é pure descritta come varietà. Dei due esemplari credo utile dare il disegno nella mia tav. I (fig. 41, 42). Essi rappresentano, se non erro, la porzione ini- ziale della Nod. raphanus (v. $ V). Sulla scheda leggesi inoltre « vedi Paleont. del Regno ». Infatti la N. inflfata è illustrata anche in quest’ ul- tima opera (parte 2*, pag. 153, tav. XII, fig 4). IX. « Nodosaria ». — Un solo esemplare, di cui presento il disegno nella tav. I (fig. 43). È la N. raphanus (v. $ V). DE: « Nodosaria. Tav. I, fig. 16 ». — Un solo esemplare, che riproduco nella qui unita tav. I (fig. 39), e che é quello stesso che fu figurato da Costa nella memoria relativa a Messina, giusta all’ indicazione che trovasi sul cartellino. È singolare che mentre su questo l’autore non ha scritto il nome specifico, nel testo di detta memoria egli descrive la fig. 16 (1) La N. siphuneuloides di Costa fu già indicata da Brady (Foram. Chall.) fra i sinonimi della N. obliqua. — 206 — della tav. I come N. annulata Reuss (pag. 13, num. 11). Io non conosco altra N. annulata di Reuss che quella illustrata nel lavoro sui fossili del cretaceo di Boemia (1845-46), varietà non costata, e che non ha nulla a che fare coll’ esemplare delle marne messinesi. Il tipo dell’ apertura, la de- licatezza degli ornamenti, la inferiorità delle dimensioni, mi inducono a distinguere questa forma dalla N. raphanus, mentre la scarsità delle coste e la minore convessità dei segmenti mi decidono a distinguerla dalla N. scalaris Batsch sp., e a designarla col nome di Nodosaria Bassanii (i)- XI. « Nodosaria ». Due esemplari, che riproduco nella tav. I (fig. 38,40). L’ uno di essi, il più piccolo, é affatto simile a quello di cui é parola nel paragrafo precedente. L’ altro se ne scosta alquanto per la sua forma meno subcilindrica; ma l’ insieme degli altri caratteri non mi permette di sepa- rarlo dalla stessa specie, la Nod. Bassanii (v. $ X), denominazione che intendo cosi destinata a indicare un gruppo di forme intermedie fra la N. raphanus e la N. scalaris Batsch sp. XII. « Nodosaria compressa ». — Un frammento costituito da tre segmenti. Lo riproduco nella tav. I (fig. 32) e mi astengo dal determinarlo specifi- camente. In realta, non vedo affatto giustificato l’ epiteto specifico dato. da Costa. XII. « Nodosaria trilocularis (N. semistriata) ». — Questa seconda denomi- nazione è scritta sopra una etichetta gommata a tergo di quella su cui leggesi la prima. La indicazione « tav. II, fig. 12, 14, 15 » che l’accom- pagna non risponde alla memoria edita intorno a Messina, nella quale ve- donsi indubbiamente riprodotti nelle fig. 4 e 7? (capovolte) due dei quattro esemplari racchiusi nel tubetto. Di questi presento il disegno nella mia tav. I (fig. 33, 34, 35, 37), e li riferisco alla Nod. proxima della monografia di Silvestri, meno l’ ultimo (fig. 37), che ritengo piuttosto inseparabile dalla N. scalaris Batsch sp. — Nel volume VII del Bollettino della Società (1) Avrei dedicata questa specie a Costa, se Schwager (Kar Nikobar) non avesse già dato: il nome di N. Costai a una forma appartenente al gruppo della N. /arcimen Soldani sp. (non. Silvestri). — 207 — Geologica Italiana ho dimostrata la tendenza della N. proxima ad assumere la forma marginulina. XIV. « Nodosaria subaequalis. Tav. I, fig. 5 ». — Un solo esemplare, quello ‘stesso che fu figurato dall’ autore nella memoria sopra Messina, e che io riproduco dal vero nella qui unita tav. I (fig. 2). Nel testo di detta me- moria esso è descritto a pagina 14 (num. 13), ed io tenendo calcolo del diritto di priorità (1), lo riferisco alla Nod. ambigua Neugeboren, dalla quale credo non si possa separare. Nel mio lavoro intorno ad alcuni mi- nuti lagenidi del Catanzarese ho dimostrato, figurando cinque esemplari, quanta sia la variabilità di questa specie, variabilità che gia risultava evi- dente dalle figure di Neugeboren. Nel detto mio lavoro, ho distinto un esemplare col nome di « var. subaequalis Costa » riferendomi a una delle figure della monografia di Silvestri; ma l'esame dell’ esemplare su cui Costa fondo la sua specie non mi permette assolutamente la con- servazione di tale varietà. Dova « Nodosaria gomphoides. Tav. I, fig. 11 ». -- Sei esemplari di quella forma che d’ Orbigny (1826) designò col nome di Nod. glabra citando una figura di Soldani, e che Silvestri (1872) dimostrò ‘all’ evidenza essere inseparabile da una specie elegantemente ornata che egli denominò Nod. monilis. Questa nodosaria fu illustrata da Silvestri nelle sue forme diritte; ma essa era già stata distinta da d’ Orbigny (1846) ancbe nelle sue forme curve, col nome di Dentalina adolphina. È siccome non am- mettiamo che la curvatura dell’ asse sia carattere sufficiente per una se- parazione generica, ne consegue che essendo costanti gli altri caratteri, la priorità di nomenclatura della specie spetta a d’ Orbigny. Pertanto gli esemplari della collezione Costa sono da riguardarsi come forme liscie della Nod. adolphina d’Orbigny sp. Di due di essi presento il disegno nella mia tav. I (fig. 14, 15). Quello riprodotto nella fig. 14 è probabilmente lo stesso che fu illustrato da Costa nella memoria su Messina, conforme alla citazione scritta sulla scheda (2). (1) La memoria di Neugeboren sopra gli sticosteghi di Ober Lapugy fu pubblicata nel 1856, mentre quella di Costa sui foraminiferi di Messina, sebbene facente parte del volume dell’ Ac- cademia di Napoli per il 1855, pure non vide la luce che nel 1857. Ciò risulta dalla « Bibliography of the Foraminifera » di C. D. Sherborn. (2) Sulla scheda sta scritto « Paleont. del Regno ». Questa indicazione si riferisce forse alla — 208 — XVI. « Nodosaria hispida d’ Orb. (varietates): Tav. I, fig. 10 ». — Sette esemplari, tra i quali quello che fu figurato dall’ autore nella memoria re- lativa a Messina, secondo la indicazione scritta sul cartellino. Vedasi la fig. 16 della mia tav. I. La Nod. hispida d’ Orb. è descritta nel testo di detta memoria a pag. 14 (num. 14). Trovasi pure illustrata nella « Paleon- tologia », nella monografia di Silvestri, ecc. XVII. « Nodosaria hispida (varietates) ». — Cinque esemplari, due dei quali riproduco nella tav. I (fig. 17, 18) a dimostrare quanto sia variabile in questa specie la distanza che separa il corpo dei segmenti (v. $ XVI). XVIII. « Nodosaria. Tav. I, fig. 9 ». — Un solo esemplare incompleto, di cui presento il disegno nella qui unita tav. I (fig. 3). Si tratta evidentemente di una forma vicinissima, se non identica, a quella riprodotta dall’ autore nella tav. I (fig. 9') della memoria sopra Messina. Nel testo di questa me- moria, la fig. 9' é descritta, insieme alle fig. 8 e 9, come Nod. ovularis (pag. lo, num. 15). Ora.de. fig. 8. e 9 sono da, riferirsi \\alla ANVAzadiecia Linné sp. (1), mentre la fig. 9' rappresenta la N. inflera Reuss, fossile nell’ argilla a septarie di Germania e tuttora vivente (Brady: Foram. Chall.) (2). XIX. « Nodosaria bilocularis. Tav. I, fig. 14 ». — Un solo esemplare incom- pleto (vedasi la qui unita tav. I, fig. 5), lo stesso che l’autore ha figurato (capovolto) nella memoria relativa a Messina, conforme all’ indicazione scritta sul cartellino. Si tratta probabilmente dell’ ultima porzione di un Nod. seabriuscula (tav. XVI, fig. 6), che appare molto vicina alla N. ado/phina; giacchè la Denta- lina gomphoides (tav. XXVII, fig, 24, 25) non ha a che fare con essa. (1) È notevole come a Costa non sia sfuggita 1’ affinità tra la sua N. ovwlaris e la N. radi- cula quale fu intesa veramente da Linneo, cioè quella specie che è sinonimo della N. soluta di Reuss. (2) Debbo osservare incidentalmente come sia da riferirsi alla N. @n/lexa anche la forma che ho riprodotta nella tavola « Foram. plioc. del Ponticello di Sàvena, 1891 » col nome di N. soluta (fig. 15). — 209 — esemplare di Nod. farcimen Soldani sp. (non Silvestri; v. Brady: Foram. Chall.). XX. « Nodosaria gracillima ». — Due esemplari, i quali, come risulta dalle | fig. 6 e 21 della qui unita tav. I, sono da riferirsi a due diverse specie. L’una di esse (fig. 6) é liscia e appartiene al tipo della Nod. farcimen Sold. sp. (non Silvestri); l’ altra possiede tracce di coste ed è da rite- nersi inseparabile da quella forma che distinguo più sotto (v. $ XXVII) col nome di N. pleura Costa sp. — La N. gracillima figurata nella « Pa- leontologia del Regno » (tav. XVI, fig. 22) é probabilmente la MN. ovicula d’ Orbigny. Genere Bentalina d’Orbigny. DO « Dentalina mutabilis ». — Due esemplari incompleti (ne riproduco uno nella tav. I, fig. 47) della medesima specie che l’ autore illustra nella me- moria su Messina col nome di Nodosaria mutabilis (v. $$ II e IV). È quindi la N. obliqua Linné sp. — L’avere usato per la stessa specie i due ter- mini generici prova ancora una volta la insussistenza del termine Dentalina in significato generico. XXI. « Dentalina mutata ». — Un solo esemplare, che riproduco nella tav. I (fig. 28). Lo riferisco alla Nodosaria fissicostata Gùmbel sp. (1870) delle formazioni eoceniche nordalpine. XXIII. «Dentalina clavata ». — Un solo esemplare, che, come si vede nella mia tav. I (fig. 36), è quello stesso che fu figurato dall’ autore nella me- moria sopra Messina (tav. I, fig. 29). La specie trovasi semplicemente ci- tata a pag. 17 di detta memoria. — Si tratta di una forma curva della Nod. scalaris Batsch sp., la quale fu già riccamente illustrata da Sil- vestri col nome di N. /ongicauda d’ Orb. Serie V. — Tomo IV. 27 — 10 — XXIV. « Dentalina irregularis ». — Dodici esemplari di Nodosaria obliquata Batsch sp. Ne riproduco due (forme A e 5) nella mia tav. I (fig. 30, 31). Di questa specie ho trattato nel volume TX del Bollettino della Società Geologica Italiana. — La D. irregularis è semplicemente citata a pag. 17 della memoria relativa a Messina, ed é illustrata nella « Paleontologia del Regno » (parte 2°, pag. 166, tav. XIL fig. 23). TOO « Dentalina irregularis ». -— Quattro esemplari di Nodosaria obliquata, tutti di forma A (v. $ precedente). XXVI. « Dentalina arundinacea. Tav. I, fig. 26 ». — Un solo esemplare incom- pleto (v. la mia tav. I, fig. 13), che è quello stesso che fu figurato da Costa nella memoria su Messina, conforme alla indicazione che sta sul cartellino. Nel testo di essa memoria, la specie è semplicemente citata a pag. 17. — Non è altro che un frammento di MNodosaria ovicula, una delle specie fondate da d’Orbigny (1826) su figure di Soldani. Essa trovasi illustrata nella monografia di Silvestri col nome di N. farcimen, nome che presentemente si applica ad altra specie. — Sul cartellino leggonsi inoltre le parole: « affine alla semiplicata d’ Orb. »; ora, quest’ ultima (Foram. Vienna) è ornata, e quindi assai diversa dalla N. ovicula. XXVII. « Dentalina pleura. Tav. I, fig. 20 ». — Un solo esemplare (v. la mia tav. I, fig. 22), quello stesso che fu figurato da Costa nella memoria su Messina, secondo la citazione scritta sulla etichetta. Nel testo di essa me- moria, la specie è semplicemente citata a pag. 17. — È assai prossima alla Nodosaria catenulata Brady (Chall.), dalla quale parrebbe differire per non avere le coste acute e laminari. Per la rotondità delle coste medesime e_ pei contorni, ricorda la Nod. cruciformis Terrigi (1891, Via Appia antica). Ma quand’ anche la N. pleura fosse da identificarsi con una di queste due specie, rimarrebbe sempre a Costa la priorità di nomencla- tura, avendo egli nel 1857 dato della sua, figura e denominazione. — 211 — XXVIII. « Dentalina scripta? d’ Orb. ». — Dieci esemplari, appartenenti parte al tipo liscio e parte al tipo costato; nessuno riferibile alla specie orbi- gnyana del bacino di Vienna. Nel testo della memoria su Messina, 1’ au- tore cita semplicemente la D. scripta (pag. 17), coll’ aggiunta delle parole « mancano le strie piccole ed interrotte ». Evidentemente, se mancano le strie, non si tratta più della D. scripta. Se sì osservano le fig. 7, 8,9, 24 della qui unita tav. I, le quali rappresentano quattro degli esemplari racchiusi in questo tubetto, si rileverà facilmente che ci troviamo in presenza: 1° della Nodosaria farcimen Soldani sp. (1); 2° di quella varietà di essa, a su- ture più o meno oblique all’ asse, che si suole distinguere col nome di Nod. communis d’ Orb. (Brady: Chall.); 3° di una forma gracile, a coste delicate, che riferisco alla N. pungens Reuss sp., fossile nel terziario di Germania, e trovata anche da Hantken (1875) negli strati a Clavulina zaboi di Buda. XXIX. « Dentalina triquetra ». — Un solo esemplare, di cui do i contorni nella tav. I (fig. 20). È semplicemente citata a pag. 17 della memoria su Messina. Non é altro che la Nodosaria vertebralis Batsch sp.; anzi cor- risponde interamente alla forma rappresentata da Brady (Chall.) colla fig. 35 della tav. LXIII. XXX. « Dentalina nodosa d’ Orb. ». — Un solo esemplare incompleto (v. la mia tav. I, fig. 23). É ornato di coste delicate, quindi non ha a che fare colla D. nodosa d’ Orb. della creta bianca (1840), che é liscia. Lo riferisco alla Nodosaria pungens, di cui é parola al paragrafo XXVII. — Nel testo della memoria su Messina, la specie è citata a pag. 17, coll’ aggiunta dì « Par. » (Parigi). Ciò non lascia alcun dubbio sulla forma cretacea a cui si riferisce Costa, dubbio che può sorgere qualora si consideri 1’ esistenza di un’ altra D. nodosa, fondata da d’ Orbigny (1826) su figura di Soldani. Ma anche questa è costata, e nel tempo stesso diversa dalla N. pungens (2). (1) Nel tubetto esiste inoltre un frammento identico a quello di cui è parola al $ XX (tav. I, fig. 6). — Le fig. 33 e 36 (tav. I) della memoria di Costa relativa a Messina ricordano assai due degli esemplari di cui do il disegno (tav. I, fig. 8 e 9). (2) La D. nodosa d’ Orb. (liscia) è illustrata anche nella « Paleontologia del Regno ». — 212 — XXXI. « Dentalina aequalis ». — Tre esemplari. Dai disegni che presento di essi nella tav. I (fig. 11, 19, 29) facilmente si rileva che trattasi di tre specie ben diverse, e cioé : 1° della Nodosaria annulata Reuss (per la quale certamente va intesa la determinazione di Costa); 2° della Nod. vertebralis Batsch sp. (v. $ XXIX); 3° della N. skobina Schwager (1866, Kar Nikobar). Quest’ ultima specie trovasi illustrata nella monografia di Silvestri (1872) col nome di N. marginulinoides. — La D. aequalis, nella memoria su Messina, é semplicemente citata a pag. 17. XXXII. « Dentalina inornata d° Orb. », — Sedici esemplari, riferibili in parte all'tipo, liscio &. la mia tav. fis. 1012) e tin parte (alMipolcosrate (fig. 26 e 27). Dei primi, alcuni hanno suture oblique (/Nodosaria communis d’ Orb.), altri suture prevalentemente normali all’asse (N. annulata Reuss). Vedansi i $$ XXVII e XXXI. — Per le due forme ornate di coste, credo di non andare errato riferendone una (fig. 27) alla N. seminuda Reuss sp. (1849) del bacino di Vienna, dalla quale è molto probabilmente inseparabile la Dent. semilaevis Hantken (1875) degli strati a Clavulina Szaboi di Buda; e l’altra alla Nod. pungens (v. $ XXVII). — La D. inornata non è citata a pag. 17 della memoria su Messina; vi è bensi indicata la D. communis d’Orb. (« Parigi ») della quale è sinonimo. Nelle tavole poi di essa memoria, trovo che la fig. 35 della tav. I, sebbene senza spiegazione, ricorda assai la mia fig. 10 della tav. I. XXXIII. « Dentalina incerta. — Nodosaria pyrula ». — Due frammenti, l’ uno appartenente al tipo liscio (v. la mia tav. I, fig. 4), l’altro al tipo costato (fig. 25). La denominazione di N. pyrula sì riferisce evidentemente al primo frammento, che parmi la porzione estrema di un esemplare di Nod. radi- cula Linné sp. (non Brady), di cui è sinonimo la N. soluta Reuss (v. $ XVIII). Il secondo frammento pare rappresenti la porzione estrema di un esemplare di N. pungens (v. $ XXVIII). — 213 — PARTE 2.* — NODOSARINE VARIE Genere Nodosaria Lamarck. XXXIV. « Nodosuria subcostata ». — Una diecina di esemplari, la maggior parte di Nod. obliquata (v. $ XXIV), tra i quali uno completo, che riproduco nella qui unita tav. II (fig. 5) (1). Vi osservo inoltre un esemplare di N. skobina (v.$ XXXI) e uno di N. obliqua Linné sp. Quest’ ultimo, come si rileva dalla fig. 7 della mia tavola II, presenta alla estremità posteriore quella forma di rigonfiamento che riscontrasi spesso nella Marginulina co- stata e che osservasi anche in uno degli esemplari di cui sarà parola nel paragrafo seguente (tav. II, fig. 18), che per il tipo dell’ apertura riferisco appunto al genere Marginulina. KXXV. « Nodosaria siphunculoides (accedit) ». — Una diecina di esemplari com- pieti e incompleti, riferibili parte alla Mod. obliquata, parte alla N. obliqua e parte alla Marginulina costata Batsch sp. (Brady: Chall.). Di N. obliqua (la N. siphunculoides, come dimostrai al $ VI, ne é sinonimo) riproduco un frammento a coste numerose (tav. II, fig. 8) e un esemplare completo (fig. 9). Quest’ ultimo presenta due particolarità: 1’ una si riferisce alle coste che offrono in grado massimo il carattere della interruzione; l’altra riguarda la estremità posteriore che ricorda assai quella di certi esemplari di Marg. costata (v. $ precedente). Al quale proposito, credo inoltre op- portuno di riprodurre (tav. II, fig. 18) anche un esemplare di quest’ultima specie, di forma assai allungata, che rappresenta un termine di passaggio alla N. obliqua. XXXVI. « Nodosaria spinulosa. — N. citrullus. — N. cultrata ». — Quattordici esemplari di Marginulina, riferibili alla M. costata Batsch sp. e alla sua varietà M. spinulosa Costa sp., della quale ho trattato recentemente nella citata revisione della piccola collezione Seguenza del Museo di Bologna. — (1) Ricorda la fig. 5 (tav. II) della memoria di Costa su Messina. — 214 — La Nod. spinulosa e sue varietà sono descritte da Costa a pag. 11 e 12 (num. 8) della memoria su Messina, e figurate nella relativa tav. I (fig. 28). La varietà cu/frata non è altro che la Marg. costata (v. la mia tav. II, fig. 19). La M. spinulosa è variabilissima nell’ aspetto, come può vedersi nelle fig. 22 e 23 della mia tav. II. Il tubetto contiene inoltre una dozzina di esemplari completi e incom- pleti di nodosarie, le quali tutte, meno una che è costata, sono riferibili alla N. farcimen e alla sua varietà N. communis (v. tav. II, fig. 1 e 2). L’ esemplare costato è troppo affine a quelli che ho determinati per N. pungens Reuss sp. (v. $$ XXVII XXX, XXXIII) perché lo possa separare da essi. XXXVII. « Nodosaria constricta (an cultratae varietas) ». — Quattro esemplari, uno dei quali riproduco nella tav. II (fig. 21). È più che giustificato il dubbio dell’ autore che la N. constricta sia una varietà della culrata, poiché tanto l’ una che l’ altra evidentemente non sono che sinonimi della Marginulina costata (v. $ precedente). XXXVIII. « Nodosaria pusilla ». — Due esemplari di Marginulina. Nella memoria sopra Messina, la specie trovasi descritta a pag. 16 (num. 2) col nome di Glandulina pusilla, ed è figurata nella relativa tav. II (fig. 2, capovolta). Confrontisi la mia tav. II fig. 24. — La riferisco alla Marg. spinulosa Costa sp., di cui è parola al $ XXXVI. XXXIX. « Nodosaria aculeata d’ Orb. ». — Una ventina di esemplari di Mar- ginulina hirsuta d’ Orbigny (Tableau e Vienna: v. la qui unita tav. II, fig. 14); più un esemplare di Nodosaria fistuca Schwager (Kar Nikobar). — Nella memoria su Messina, l’ autore giustamente osserva (pag. 14) che la N. aculeata d’ Orb. è identica alla N. ARispida, e che essa è strettamente col- legata colla Marg. hirsuta. XL. « Nodosaria? ». — Tre esemplari di Marginulina Behmi Reuss (1866, Foram. Septarienthones : v. la mia tav. II, fig. 17), la quale differisce dalla — 215 — M. hirsuta d° Orb. solamente per la disposizione delle spine, ‘che in essa sono ordinate a modo di coste longitudinali. Per farsi un’idea della varia- bilità della M. Bermi basta osservare la figura di Reuss e quelle di Hantken (1875, Clav. Szaboi Schichten, tav. V e XIV). XLI. « Nodosaria tetraedra ». — Un frammento di Frondicularia carinata INfeuisieboren sp. (1556, Ober-Bapugy; vi la mia. tav. IL, fig. 11 e 11 a). Nella memoria sui foraminiferi delle marne vaticane (1857), l’ autore illu- stra questa specie col nome di N. tetragona, e Silvestri, nella sua mo- nografia, con quello di N. gemina. In realtà, essa può presentarsi con se- zione trasversa circolare come è caratteristico delle nodosarie, ma nella maggior parte dei casi è compressa come lo sono le frondicularie, colle quali dei resto é strettamente collegata secondo le osservazioni di Se- guenza (Reggio, pag. 219). — La identità poi della N. gemina colla Den- talina carinata Neug. fu riconosciuta gia da Silvestri. XLII. « Nodosaria ». — Un frammento, che (come si può rilevare dalla fig. 28 (e 28 a) della qui unita tav. II) è da riferirsi alla Vaginulina le- gumen Linné sp., della quale ho trattato nel vol. V del Bollettino della Società Geologica Italiana, e recentemente nella revisione gia citata della piccola collezione Seguenza del Museo di Bologna. Genere QOrthocerina d’' Orbigny. >UGILVE « Orthocerina subbullata. Tav. I, fig. 24 ». — Tre esemplari, di uno dei quali (forse quello stesso che fu figurato dall’ autore nella memoria su Messina, conforme alla indicazione che leggesi sulla scheda) presento il disegno nella mia tav. II (fig. 6). Si tratta evidentemente della Nodosaria obliquata Batsch sp. (forma B:v. $$ XXIV e XXXIV). Il termine Ortho- cerina poi fu adoperato da d’ Orbigny per indicare un gruppo di forme assai diverse tra loro, delle quali, quelle che appartengono alle nodosarine si riferiscono presentemente al genere Rhabdogonium di Reuss. — 216 — XLIV. « Orthocerina? lamellosa. Tav. I, fig. 23 ». — Cinque esemplari di Fron- dicularia carinata Neugeboren sp. (v. $ XLI). Dei due esemplari che riproduco nella mia tav. II (fig. 12 e 13, 12 a e 13 a), quello che è rap- presentato dalla fig. 12 è forse lo stesso che fu figurato da Costa nella memoria su Messina, conforme alla citazione scritta sul cartellino. Genere Triplasia Reuss. DUNE « Triplasia Manderstjeni ». — Un solo esemplare, quello stesso di cui scrive l’ autore a pag. 19 e 20 della memoria su Messina. Non è altro che la Cristellaria latifrons Brady (Chall., tav. LXVIII, fig. 19), come si rileva dal disegno che io ne presento (tav. II, fig. 36 e 36 a). — Il termine Tri plasia poi fu da Reuss stesso (1861, Zusammenst. d. Foram.) portato a sinonimo di Rhabdogonium. Genere Lingulina d’ Orbigry. DST « Lingulina costata d° Orb. ». — Due esemplari, di cui uno è quello stesso che fu figurato dall’ autore nella tav. II (fig. 6) della memoria su Messina (v. la mia tav. II, fig. 10 e 10 a). Nel testo di essa memoria, la specie è descritta a pag. 20, come Ling. multicostata. In realtà, le coste non sono tanto numerose da potere, per le forme che posseggono questo carattere, adottare un nome nuovo. Genere Vaginulina dOrbigny. >IAVALE « Vaginulina gigas ». — Tre frammenti di Vag. legumen Linné sp. (v. $ XLII e la qui unita tav. II, fig. 26 e 26 a). Questa specie, nella me- moria su Messina, é illustrata da Costa col nome di V. italica (pag. 17, num. 1). — 217 — XIEVII. « Vaginulina ornata ». Un solo esemplare (v. la mia tav. Il. fig. 25 e 25 a), riferibile alla V. /egumen (v. $ XLII e XLVII) Questa forma nella memoria su Messina, é illustrata dall’ autore col nome di V. lens (pag. 18, num. 2). XIETX. « Vaginulina silicula ». — Un esemplare completo (v. la qui unita tav. II, fig. 35 e 35 a) e un frammento di una cristellaria, la quale fu da Costa illustrata nella memoria su Messina (pag. 18, num. 3; tav. II, fig. 17?) col nome di Vag. sulcata. È la stessa specie che ho figurato nella tavola con foraminiferi di San Rufillo (1889) sotto il nome di Cristellaria Forestii Forn. — A Costa spetta la priorità di nomenclatura. Genere Marginulina d’ Orbigny. L. « Marginulina speciosa ». — Un frammento di nodosaria (v. laîqui unita tav. II, fig. 4), molto probubilmente di Nod. vertebralis Batsch sp. (Brady: Chall. — V. anche i $$ XXIX e XXXI). LI « Marginulina cultrata ». — Un solo ‘esemplare di M. costata (v. la mia tav. II, fig. 20). È la stessa specie che nella memoria su Messina fu da Costa illustrata come Nodosaria cultrata (v. $ XXXVI). LII. « Marginulina hirsuta d° Orb. ». — Sei esemplari, alcuni dei quali si presentano compressi nella porzione spirale, nel qual caso le spine acqui- stano una disposizione secondo linee trasversali (v. tav. II, fig. 15) come nella M. cristellarioides, di cui al $ seguente. Non credo che siano perciò da separarsi dalla specie orbignyana (v. $ XXXIX). Serie V. — Tomo IV. 28 — 218 — LITI « Marginulina nana ». — Un solo esemplare (v. la qui unita tav. II, fig. 16), compresso nella sua porzione spirale e a sezione circolare nell’ ul- timo segmento, che riferisco alla Marg. cristellarioides Czjzek (1847) del bacino di Vienna. LIV. « Marginulina inversa ». — Due frammenti (v. la qui unita tav. II, fig. 32 e 33) che rappresentano la porzione ultima di una nodosarina, che ho già osservato nel miocene dei dintorni di Bologna in esem- plari completi, riferibili al genere Cristellaria. — Sul cartellino è seritto inoltre « Paleont. ». — E infatti, la M. ‘inversa (0 meglio un frammento di essa) trovasi illustrata nella 2* parte della « Paleontologia del Regno » (pag. 183, tav. XII, fig. 16). Conservo per questa forma la denominazione specifica costiana : Cristfellaria inversa Costa sp. LV. « Marginulina de Natalis ». — Un solo esemplare (v. la qui unita tav. II, fig. 29 e 29 a) di Cristellaria inversu Costa sp. (v. $ precedente). IENWIG « Marginulina compressa (1) ». — Un esemplare di Crisfellaria inversa (v. i due $$ precedenti) nel quale si osservano alcune tracce di coste nella porzione iniziale (v. la qui unita tav. II, fig. 30). Questa forma è molto interessante poiché serve a collegare la Crisf. inversa con un’altra nodo- sarina, del pliocene bolognese, che illustrai nel vol. II del Bollettino della Società Geologica Italiana col nome di Margin. bononiensis. Questa varietà, che differisce dalla Cr. inversa perché ornata di coste, è anch’ essa una Cristellaria. (1) Sulla etichetta era prima scritto Dentalina compressa. Fu dall’ autore cancellata la parola Dentalina e sostituita con Marginulina. Quindi il termine specifico era dapprima destinato a quello generico Dentalina. — MLT LVII. « Marginulina clavicula ». — Due esemplari (v. la mia tav. II, fig. 31 e 27), di cui uno di Cristellaria inversa (v. $$ LIV e seg.) e l’ altro di Vaginulina legumen Linné sp. — Quest’ ultimo, al quale si riferisce la determinazione scritta sulla scheda, é quello stesso che fu figurato dal- l’autore nella tav. II (fig. 18) della memoria su Messina, e descritto a pag. 19 (num. 4) di essa memoria, col nome di Vaginulina clavata. Si allontana alquanto dal tipo linneano (v. $$ XLVII e XLVIII), sopratutto per la tenue compressione; ma non credo che si possa giustamente separare da esso. LVII. « Marginulina parallela ». — Un solo esemplare (v. la mia tav. II, fig. 34 e 34 a) di Cristellaria sulcata Costa sp., della quale è parola al $ XLIX. PARTE 3.* — CRISTELLARIE Genere Cristellaria Lamarck. LIX. « Cristellaria detruncata ». — Due esemplari incompleti di Crist. italica Defrance sp. (ne riproduco uno nella tav. III, fig. 8 e 8 a) e uno di Cr. arcuata d’ Orbigny (fig. 9 e 9 a). Quest’ ultima specie è assai varia- bile, come si rileva dalle figure di d’ Orbigny (Vienna) e da quelle di Hantken (Clav.-Seaboi Sch.) La Cr. italica poi fu illustrata da Brady (Chall.). LX. « Cristellaria lanceolaris ». — Due esemplari (v. la qui unita tav. III, fig. 12 e 13) di Crist. elongata, una delle specie fondate nel 1826 (Tableau) da d’Orbigny sopra figure di Soldani, varietà assai compressa e ca- renata della Cr. crepidula. — 220 — LXI. « Cristellaria ». — Un solo esemplare di Cr. elongata (v. $ precedente) che riproduco nella tav. III (fig. 11 e 11 a). LXII. « Cristellariae ». — Otto esemplari, riferibili alcuni alla Crist. crepidula Fichtel e Moll sp. (v. Brady: Chall.) e i più, alla Cr. elongata d’ Orb., di cui al $ LX. La fig. 10 e 10 a della mia tav. III riproduce uno degli esemplari spettante alla prima delle due. LXIII. « Cristellariae ». — Una dozzina di esemplari di Cr. elongata, tranne uno che é di Cr. crepidula (v. i tre $$ precedenti). La Cr. elongata è assai variabile nel carattere che suggeri a d’ Orbigny l’ attributo specifico (v. la mia ttav esile) LXIV. « Cristellaria pulchella. — Cr. subaequalis ». — Due esemplari, che ri- produco nella qui unita tav. III (fig. 16, 17 e 17 a). Come si rileva da queste figure, essi differiscono ben poco tra loro, sicché non dubito di riferirli entrambi alla Crisf. pulchella Costa, colla quale denominazione credo che l’autore abbia voluto determinare l’ esemplare rappresentato dalla fig. 16. La Cr. pulchella fu illustrata da Costa nella memoria sui foraminiferi ° delle marne vaticane, e si distingue dalla Cr. elongata per la spira mag- giormente ravvolta dei segmenti iniziali (1). LXV. « Cristellaria discoidalis ». — Cinque esemplari, riferibili a tre forme diverse. L’attributo specifico discoidalis spetta a una sola di esse e cioé a quella che ho riprodotta nella tav. III (fig. 18 e 19), e per la quale credo opportuno di conservare la denominazione costiana. La seconda forma (tav. III, fig. 15) è inseparabile dalla Crist. pulchella Costa, di cui al $ pre- (1) Robulina pulchella d° Orbigny (1826: su figura di Soldani) è sinonimo di Cristellaria calcar Linnè sp. — 221 — cedente. Debbo peraltro osservare che in essa la porzione iniziale della spira si trova disposta in modo che da uno dei lati non appare affatto (fig. 15 a). Quanto poi alla terza forma (fig. 21 e 21 a), non oso di con- siderarla come distinta dalla Cr. cassis Fiehtel e Moll sp. (1803). LXVI. « Cristellaria produeta ». — Due esemplari (ne riproduco uno nella tav. II, fig. 20 e 20 a) riferibili alla Crist. gibdba d’Orbigny (Brady: Chall.). LXVII. « Cristellaria? sanclaea ». — Una dozzina di esemplari, che riferisco alla Cr. papillosa Fichtel e Moll sp. (Brady: Chall.). — L’aspetto di questa cristellaria é variabilissimo, pure mantenendosi costante il carattere della presenza dei tubercoli, giacché questi stanno in corrispondenza della suture, e le suture possono essere più o meno vicine fra loro a seconda del maggiore o minor numero dei segmenti. Riproduco due delle forme meno prossime anche per lo sviluppo degli aculei (tav. III, fig. 30 e 32). LXVIII. « Cristellaria spinulosa ». — Cinque esemplari: quattro di Cr. papillosa (v. $ precedente, e tav. III, fig. 29 e 29 a), e uno di Cr. echinata d’ Orb. sp. (VAS REXV). LXIX. « Cristellaria striolata (an Robulina?) ». — Un solo esemplare (tav. III, fig. 36 e 36 a), che credo di non dover separare dalla Cr. ariminensis di ORbISp, di cui al SUEXSVIT Genere Robulina dOrbigny. LXX. « Robulina simplea d’ Orb. ». -- Quattordici esemplari, i quali (tranne uno di Cr. echinata) sono riferibili alla Cr. rotulata Lamarek sp. e alla Cr. cultrata Montfort sp. (v. Brady: Chall., e le fig. 24 e 26 della qui — 22% — unita tav. III). Rodulina simplea d’ Orbigny (Vienna) è sinonimo di Cr. rotulata. LXXI. « Robulina ». — Due esemplari, uno di Crisfellaria rotulata (v. tav. III, fig. 25) e l’altra di Cr. cultrata (v. $ precedente). LXXII. « Robulina festonata ». — Un solo esemplare (v. tav. III, fig. 27) di Cristellaria cultrata (v. $ LXX). La Rob. festonata trovasi figurata nella « Paleontologia del Regno » (parte 2°, tav. IX, fig. 1). LXXIII. « Robulina imperatoria d° Orb. ». — Un solo e mal conservato esem- plare (tav. III, fig. 28) di Cristellaria vortea Fichtel e Moll sp. (v. Brady: Chall.). La od. imperatoria d’ Orb. è forma cultrata della Cr. vortex. LXXIV. « Robulina cultrata d° Orb. ». — Tre esemplari, dei quali riproduco i due meglio conservati (tav. III, fig. 22 e 23) riferendoli alla Cristellaria cassis Fichtel e Moll sp. (d’ Orbigny: Vienna). LXXV. « Robulina echinata d’ Orb. ». — Un solo esemplare (tav. III, fig. 34) di Cristellaria echinata d’ Orbigny sp. (Vienna). LXXVI. « Robulina echinata d° Orb. ». — Una ventina di esemplari di Cr. echinata (v. $ precedente). La forma tipica di questa specie ha per carat- tere di avere un cordone più o meno rilevato in corrispondenza delle suture. Ma osservo che in certi esemplari (v. tav. III, fig. 33) in luogo del cordone si ha una serie di tubercoli, come nella Cr. papillosa. Tali sono le forme illustrate da Brady (Chall.). Io propongo di separarle dalla forma tipica, come si distingue la Cr. mamilligera dalla Cr. cultrata, adottando la denominazione di Cr. papilloso-echinata. - pe IDGXGVII. « Robulina ariminensis d’° Orb. » — Una dozzina di esemplari che ri- ferisco tutti alla Crisfellaria ariminensis d’ Orb. sp. (Tableau e Vienna). — Questa specie è estremamente variabile nel suo aspetto, variabilità che è dovuta sopratutto al numero e allo sviluppo delle coste (v. tav. III, fig. 35 e 35 a, 37 e 38) sicché dalle forme più riccamente ornate si passa per gradi a quelle in cui si osservano appena aicune tracce di coste. Osservo peraltro in essa un carattere costante, quello della convessità laterale dei segmenti, carattere che la fa distinguere, a mio avviso, dalla Crisf. costata Rage, Sp. PARTE 4. — FORAMINIFERI VARII LXXVII. « Oolina sphaeroidalis ». — Un esemplare di El4psoidina ellipsoides Seguenza (1859) (1) che riproduco nella tav. III (fig. 5 e 5 a). LX XIX. « Glandulina rudis. Tav. I, fig. 12, 13 ». — Una ventina di esemplari di Clavulina rudis Costa sp., della quale ho trattato nella già citata re- visione della collezione Seguenza del Museo di Bologna. La specie è figurata nella memoria di Costa su Messina, conforme alla indicazione scritta sull’ etichetta, ed è descritta a pag. 16 (rum ‘%4). Vedasi la mia tav. III (fig. 4 e 4 a). PSSE « Glandulina rudis ». — Un esemplare di Clavulina rudis (v. $ pre- cedente). LXXXI. Indeterminata. — Un esemplare di Marginulina (v. la mia tav. III, fig. 7), che riferisco alla M. glabra d’ Orbigny (Brady: Chall.). Sulla etichetta (1) Nuovo genere di foram. foss. di Mess. (« Eco peloritano »). — 224 — si legge « pubblicata. Vedi tav. I, fig. 8 ». Evidentemente questa figura non corrisponde affatto all’ esemplare della collezione, e perciò la indica- zione deve essere errata. Credo invece che l’ autore abbia voluto citare la fig. 1 della tav. II, la quale rappresenta meglio, sebbene capovolto, 1° esem-- plare medesimo. Nel testo della memoria, tale figura è descritta come Glandulina oblonga (pag. 15, num. 1). LXXXII. « Pyramidulina eptagona ». — Un frammento, che (come può rilevarsi dalla fig. 6 della qui unita tav. III) rappresenta la porzione iniziale di una Nodosaria, e con ogni probabilità della N. raphanus (forma B). Si con- frontino le figure che Silvestri presenta di questa specie nella sua mo- nografia. — Il termine generico Pyramidulina Costa, era, per quanto mi consta, inedito, ed è, come si vede, insussistente. LXXXIII. « Operculina ». — Sette esemplari di una P«lvinulina (tav. MI, fig. 43, 43 a e 43 bd), che riferisco alla P. awricula Fichtel e Moll sp. (Brady: Chall.). — Opereulina d’ Orb. fu da Costa applicato altrove anche alle cornuspire. LKXXIV. « Polystomella zanclaea ». — Due esemplari di Cristellaria papillosa (tav. III, fig. 31), cioè la stessa specie che l’autore ha già determinata per Crist.? zanclaea e Cr. spinulosa (v. $$ LXVII e LXVII). LXXXV. « fosalina ». — Oltre una dozzina di esemplari, che riferisco alla Truneatulina Dutemplei d Orbigny sp. — Per farsi un’idea della varia- bilità di questa rotalina si confrontino la figura d’ Orbigny (Vienna) con quella di Reuss (1866, Foram. Septarienth.), di Hantken (Clav. Szaboi Sch.) e di Brady (Chall.), e colle mie (tav. III, fig. 40, 41 e 42-a e d): LXXXVI. « Bulimina ». — Quattro esemplari di Uvigerina tenuistriata Reuss (Brady: Chall.). Vedi tav..II, fig. 39 e 39. — po LXKXXVII. « Bulimina ». — Il tubetto è vuoto. LKXXVIII. « Teatularia mutabilis ». — Sette esemplari di Bigenerina pennatula Batsch sp. (Brady: Chall.). Non potrebbero la 2. pennatula e la B. ca- preolus essere riguardate come le forme A e B della stessa specie? Ripro- duco tre degli esemplari nella tav. III (fig. 1 e 1a, 2 e 3). LXXXIX. « Rostellina ». — Il tubetto è vuoto. — Il termine generico fostellina era inedito. ea Serie V. — Tomo IV. 29 ARERENID EC COLLEZIONE SEGUENZA À « Orbulina universa d’ Orb. ». — Numerosi esemplari della comune specie orbignyana, della quale ho trattato nella memoria più volte citata intorno alla collezione Seguenza del Museo di Bologna. Osservo inoltre un esemplare di Glodigerina bulloides d’ Orb. (Brady: Chall.). b « Cornuspira foliacea Phil. sp. ». — Un esemplare della medesima forma che ho figurato nella memoria sulla collezione Seguenza, e due frammenti spettanti alla stessa specie. C « Cornuspira carinata Costa sp. ». — Quattro esemplari. Specie che ho, come la precedente, figurato nella citata memoria. D « Nodosaria ovularis Costa ». — Tre esemplari di Nod. radicula Linné sp. — Questa specie fu illustrata per molto tempo e da parecchi autori, da Reuss (1851) sino a Brady: (Chall.), col nome di Nod. soluta. La N. ovularis, che ne é sinonimo, fu illustrata da Costa nel lavoro su Mes- sina (vedasi il $ XVII della presente memoria). E « Lingulina sp.».-- Un esemplare di Lingulina carinata d’Orb. (1826: Modelli). — 227 — F « Robulina ceultrata d’ Orb. ». — Un solo esemplare di Cristellaria cultrata Montf. sp. (v. $$ LXX e LXXII.. G « Robulina inornata d’ Orb. ». — Due esemplari, che non oso di ri- ferire decisamente alla Cristellaria rotulata Lam. sp., della quale é sino- nimo ftod. inornata d’ Orb. (Vienna), possedendo essi una carena molto acuta e avendo maggiore affinità colla Cr. cultrata. H « Rotalina partschiana d’ Orb. ». Una dozzina di esemplari di Pulvi- nulina elegans, della quale ho trattato nella memoria sulla collezione S e - guenza del Museo di Bologna. I « Rotalina peraffinis Costa ». — Tre esemplari di 7runcatulina unge- mono Nd Orbe ispo (Vienna; ce Brady: Chall). La for perafinis tu da Costa figurata nella « Paleontologia del Regno » (tav. XXII, fig. 17), ma non fu mai descritta. J « Truncatulina lobatula d’ Orb. — Una dozzina di esemplari di 7r. /o- batula Walker e Jacob sp., della quale ho trattato nella memoria sulla collezione Seguenza di Bologna. L « Anomalina helicina Costa sp. ». Due esemplari di Anom. ammo- noides Reuss sp. (Brady: Chall.). La Nonionina ? helicina fu da Costa figurata nella « Paleontologia del Regno » (tav. XIV, fig. 13), ma non fu mai descritta. — 228 — M « Anomalina sp. ». — Quattro esemplari di Anom. coronata Parker e Jones, della quale ho trattato nella memoria sulla collezione Seguenza di Bologna. N « Rosalina calabra Costa ». — Due esemplari di una Pulvinulina di grandi dimensioni, che riferisco alla P. punctulata d’ Orb. sp. (Brady: Chall.). La Rosalina calabra fu da Costa figurata nella « Paleontologia del Regno » (tav, XIV, fig. 6), ma non fu mai descritta. 0 « Clavulina irregularis Costa ». — Sei esemplari e frammenti di Clav. communis d’ Orb., della quale ho trattato nella memoria sulla collezione Seguenza di Bologna. P « Teaxtularia Partschi Czjzek ». — Due esemplari di Gaudryina chi- lostoma Reuss sp., della quale ho trattato nella memoria sulla collezione Seguenza di Bologna. Questa specie ha rapporti strettissimi colla G. dae- cata Schwager. 0 « T'eatularia sp. » — Una dozzina di esemplari di una forma allun- gata, arenacea, a segmenti numerosi, a suture più o meno orizzontali, compressa e non carenata nella porzione terminale, che riferisco alla T. sagittula Defrance, della quale ho trattato nel vol. VI del Bollettino della Societa Geologica Italiana (pag. 377, tav. IX). R « Biloculina simplex d’ Orb.? » — Due esemplari della medesima specie che ho illustrata col nome di 2. infermedia nella memoria sulla collezione Seguenza di Bologna. — 229 — S « Biloculina elypeata d’ Orb. ». — Due esemplari, di cui uno riferi bile alla B. intermedia Forn. (v. $ precedente) e 1’ altro verosimilmente a quella specie che ho illustrata nel vol. V del Bollettino della Società Geolo- gica Italiana, col nome di 2. drachyodonta. T « Biloculina circumelausa Costa». — Un solo esemplare, che non ap- pare dissimile dalla comune 2. depressa d’ Orb. (Schlumberger: Ré- vision des biloculines des grands fonds, 1891). U « Biloculina tubulosa Costa ». — Due esemplari, di cui uno esternamente biloculinare e l’altro triloculinare, riferibili alla 5. lucernula Schwager (Schlumberger: Révision des biloculines des grands fonds, 1891). V « Spiroloculina ezcavata d° Orb. ». — Due esemplari mal conservati e riferibili probabilmente alla specie orbignyana (Sechlumberger: Mo- nographie des miliolidées du golfe de Marseille, 1893). Z « Quinqueloculina vulgaris d° Orb.». — Una ventina di esemplari della specie orbignyana, della quale ho trattato nella memoria sulla collezione Seguenza di Bologna. Per riassumere e riordinare le precedenti osservazioni, ho creduto utile di riunire in un quadro tutti i nomi delle specie fossili di Messina esistenti nella collezione Costa del Museo di Napoli, in modo che si abbia ad un tempo la spiegazione delle figure che rappresentano dette specie, la cor- rispondente denominazione costiana, e l’ indicazione dei paragrafi in cui ho fatto parola degli esemplari illustrati. Quanto alla piccola collezione Seguenza del Museo di Napoli, essa può dirsi costituita dalle specie seguenti : i — 230 — Fam. MILIOLIDAE: Biloculina intermedia Forn. Biloculina brachyodonta Forn. Biloculina depressa d’ Orb. Biloculina lucernula Schwager Spiroloculina excavata d’ Orb. Quinqueloculina vulgaris d’ Orb. Cornuspira foliacea Phil. sp. Cornuspira carinata Costa sp. Fam. TEXTULARIDAE: Textularia sagittula Defr. Gaudryina chilostoma Reuss. sp. Clavulina communis d’ Orb. Fam. LAGENIDAE: Nodosaria radicula Linné sp. Lingulina carinata d’ Orb. Cristellaria cultrata Montf. sp. Fam. GLOBIGERINIDAE : Globigerina bulloides d’Orb. Orbulina universa d’Orb. Fam. ROTALIDAE: Truncatulina lobatula W. e J. Sp. Truncatulina ungeriana d’ Orb. sp. Anomalina ammonoides Reuss sp. Anomalina coronata P. e J. Pulvinulina punetulata d’Orb. sp. Pulvinulina elegans d’ Orb. sp. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Tavola I. SecoNDO FORNASINI: Ingr. SecoNnDO Costa: $$ 1 Nodosaria aequalis Reuss sp. . . . Xx 27 Nodosaria pygmaea Costa. . I. 2 » ambigua Neugeboren. . » » subaequalis Costa. . . o SING 3 » INACLA RUSSE IE » » ovularis Costa . XVIII. 4 » radicula Linné sp.t. a. 0» » pyruaiCGosta lana i XXXIII. 5 » farcimen Soldani sp. . . » » bilocularis Costa . . . XIX. 6 » farcimen » Dear » » ‘graculimaCosvagizoti XX. 7 » farcimen » Di kent » Dentalina scripta? d Orbigny. XXVIII. 8,9 » communis d’ Orbigny . . » » Spr ae ao + XXVIII. 10 » communis » DRESS » » inornata d Orbigny. XXXII. 11 » annulata Reuss. . . . . » » aequalis Costa . XXXI. 12 » annulata Diluaaataie, » » SPERO de are XXXII. 13 » ovicula d’ Orbigny . . . » » arundinacea Costa . . . XXVI. 14, 15 » adolphina d’Orbigny sp. » Nodosaria gomphoîdes Costa. . . NE 16-18 » hispida d Orbigny . . . » » hispida d Orbigny . . XVI, XVII. 19 » vertebralis Badisiehispi eg» Dertalina Spi (3) sean “e XXXI. 20 » vertebralis » Dono e » » triquetra Costa . XXIX. PA » PICUTARCOSUIASPINT NOIA TOSI PIA Spia ne XX. 22) » pleura » DIRE eo Dentalnaipleurn Costa aio XXVII. 23 » pungens Reuss sp. . . . » » nodosa d Orbigny . . XXX. 24 » pungens » DEI tre e » » Sp. (5) . XXVIII. 25 » pungens » Dini Mata » » CNCERIIA CIO SITA MARE XXXIII. 26 » pungens » Diari: Soft » » sp. (6) . XXXII. 2I » seminuda Reuss sp. . . » » DOOR A FO XXXII. 28 » Jissteostata Gimbel sp. . Xx 18 » Muaa Costa Ao ta XXII. 29 » skobina Schwager. . . Xx 27 » Spa (e XXXI. 30, 31 » obliquata Batsch sp. . . X 18 » trregularis Costa. XXIV. 32 » SP 40 ati ono re » Nodosaria compressa Costa. . . . XII. 33-35 » PROXTVASSII VICI SIN » trilocularis Costa (8) . . XIII. 36 » scalaris Batsch sp.. . . » Dentalina clavata Costa. XXIII. 37 » scalaris » » . +. +.» Nodosaria trilocularis Costa. XIII. 38 » Bassanti Fornasini. . . » » Sp. RP > XI. 39 » Bassanii » SO) » annulata Reuss xe 40 » Bassanii » IS » » Sp. SSR RT ri Miogioi DI 41 » raphanus Linné sp.. . . X 18 » inflata Costa, var. . VIII. 42 » raphanus » DE ei » inflata Costa . . VII 43 » raphanus » Dio po 18 » Sp. ai IX. 44, 45 » raphanus » Dist x » » abbreviata Costa (9). VE 46 » OOQUIARII NRCISPIR OO » mutabilis Costa III. 47 » obliqua » ». ... » Dentalina mutabilis Costa. XXI. 48 » obliqua » DIRO IENO COSATTANTVU TAO ISEGOSTANIVAnt: IIVÈ 49 » obliqua » DIA A S01 0) » siphuneuloides Costa . VI. 50 » raphanistrum Linné sp. . » » UIZIAI COSIO VII. 5)! » raphanistrum » DI SRO » bacillum Defrance. . . SUO (1) Nel tubetto della Dentalina scripta? d’ Orb. (6) Nel tubetto della Dentalina inornata d’ Orb. (2) Nel tubetto della Dentalîina inornata d’ Orb. (7) Nel tubetto della Dentalina aequalis Costa. (3) Nel tubetto della Dentalina aequalis Costa. (5) Nel tubetto della Dentalina scripta? d’ Orb. (8) E anche Nodosaria semistriata Costa. (4) Nel tubetto della Nodosaria gracillima Costa. (9) E anche Nodosaria contracta Costa. Fig. SeconDo FORNASINI: 1 Nodosaria farcimen Soldani sp. . 2 » communis d’ Orbigny. 3 » Jistueca Schwager 4 » vertebralis Batsch sp. 5 » obliquata Batsch sp. 6 » obliquata Batsch sp. Ù » obliqua Linné sp.. 8,9 » obliqua » ». 10 Lingulina costata d’ Orbigny 1l Frondicularia carinata Neugeb. sp. . 12 » carinata » » 13 » carinata » » 14 Marginulina hirsuta d’ Orbigny . 15 » hirsuta » La 16 » cristellarioides Czjzek. 17 » Behmi Reuss . . . 18 » costata Batsch sp. 19 » costata » » 20 » costata » ai 21 » costata » Dl 22 » spinulosa Costa sp. . 23 » spinulosa » » 24 » spinulosa » » 25 Vaginulina legumen Linné sp. . 26 » legumen » » 27 » legumen » » 28 » legumen » » 29 Cristellaria inversa Costa sp. . . . 30 » inversa » » s1 » inversa » » 32, 33 » inversa » » 34 » suleata » » 35 » sulcata » DA, 36 » latifrons Brady . . . (1) Nel tubetto della Nodosaria spinulosa Costa. (2) Come la precedente. (3) Nel tubetto della Nodosaria aculeata d' Orb. (4) Nel tubetto della Nodosaria subcostata Costa. (9) E anche Lingulina multicostata Costa. (6) Nel tubetto della Modosaria siphunculoides Costa. (7) E anche Nodosaria citrullus Costa. Tavola II. SEcONDO Costa: Dentalina sp. (1) » PrO Nodosaria sp. (3) . Marginulina speciosa Costa . Nodosaria subeostata Costa . Orthocerina subbullata Costa Nodosaria sp. (4)... . . » » si(phuneuloides Costa Lingulina costata d’ Orbigny (5) . Nodosaria tetraedra Costa. Orthocerina? lamellosa Costa lamellosa » Nodosaria aculeata d° Orbigny . Marginulina hirsuta d Orbigny » nana Costa. Nodosaria? sp. . INOCOSATTASSPA(OTI AO » cultrata Costa Marginulina cultrata Costa Nodosaria constricta Costa. » » » spinulosa Costa (7) spinulosa Costa. pusilla Costa (8) Vaginulina ornata Costa (9) . » gigas Costa (10) Marginulina clavieula Costa (11) NOCOSORIOSPRR IO Marginulina de Natalis Costa » compressa Costa sp. (12). inversa Costa. parallela Costa . Vaginulina sulcata Costa (13). Triplasia Manderstjeni Costa. (8) E anche G/andulina pusilla Costa. (9) E anche Vaginulina lens Costa. (10) E anche Vaginulina italica Costa. (11) E anche Vaginulina clavata Costa. (12) Nel tubetto della Marginulina clavicula (13) E anche Vaginulina silicula Costa. $$ XXXVI. XXXVI. XXXIX. L. XXXIV. XLIII XXXIV. XXXV. XLVI. XLI. XLIV. XLIV. XXXIX. LII. LIII. XL. XXXV. XXXVI. LI. XXXVII. XXXVI. XXXVI. XXXVII XLVIII. XLVII. LVII. XLII. LV. LVI. LVII. LIV. LVII. XLIX XLV Costa. 18, 19 22, 23 30, 32 34 35, 38 36 37 39 43 (1) Nel tubetto della Cristellaria detruncata Costa. (2) Nel tubetto della Oristellaria discoidalis Costa. Marginulina glabra d’ Orbigny . . » SecoNDO FORNASINI: Bigenerina pennatula Batsch sp. Clavulina rudis Costa sp. . . . . » Ellipsoidina ellipsoides Seguenza . Nodosaria raphanus Linné sp. Tavola III. Ingr. SeconpDo Costa: x 13 Textularia mutabilis Costa. Glandulina rudis Costa . Oolina sphaeroidalis Costa. Pyramidulina eptagona Costa. Glandulina oblonga Costa . . Xx 18 Xx 27 Cristellaria italica Defrance sp. . X 13 Cristellaria detruncata Costa. . Di arcua ord Orbi any 27 » SPAM » crepidulaFichtele Mollsp. » » SPIRA > longatoNd40)r biSny@l » SPARE oo » elongata » X 18 » lanceolaris Costa. » elongata » » » SOS I » pulchella Costa » » Sp. (2). » pulchella » 0 » » pulehella Costa » pulchella » 30 » » subaequalis Costa » discoidalis Costa. . . . . » » discoidalis Costa. Uvigerina tenuistriata Reuss . 40-42 Truncatulina Dutemplei d° Orb. Sp. . Pulvinulina auriculaFicht. e Moll sp. gibba d’ Orbigny. eassis Fichtel e Moll sp. cassis rotulata Lamarck sp. rotulata eultrata Montfort sp. . » » produeta Costa Sp. (3). Robulina cultrata d° Orbignv. XxX >18 » » DITO Xx simplex d’ Orbigny. Do X XxX 10 DI RESO, I SRO ME SPA) eultrata » Do OR » » festonata Costa vortee Fichtel e Moll sp. » » imperatoria d' Orbigny papillosa Fichtele Moll sp. x 18 Cristellaria spinulosa Costa papillosa » » » XxX 13 Cristellaria? sanclaca Costa . papillosa » DO) » Polystomella zanclaea Costa . papilloso echinataFornasini » echinata d Orbigny sp. . ariminensis d Orbigny sp. ariminensis ariminensis Serie V. — Tomo IV. Robulina echinata d° Orbigny O X 18 » echinata d Orbigny X 13 » ariminensis d Orbigny . » » X 27 Cristellaria striolata Costa. » » X10 Robdulina ariminensis d’ Orbigny . X 18 Bulimina sp. . > 3WRosalinafspi 0 00. X 18 Operculina sp. — 6A —_>_—__-— S$ LXXXVIIE LXXIX. LXXVHI. LXXXII. LXXXI. LIX. LIX. LXII. LXI. LX. LXIII. LXV. LXIV. LXIV. LXV. LXVI. LXV. LXXIV. LXX. LXXI. LXX. LXXII. LXXIII. LXVIII. LXVI!I. LXXXIV. LXXVI. LXXV. LXXVII. LXIX. LXXVII. LXKXXVI. LXXXV. LXKXXIII. (3) Nel tubetto della Cristellaria discoidalis Costa. (4) Nel tubetto della Rodulina simpleo d’Orb. ang + Papdi tai da su fini dl Li Bei Ud, | aula Re: no * va pei a AAT Cata dg alal NI >. lt; wie di Ao tiva] SL IPPIBRP RAY / 1% gd: i î i: PM di ia: 0, E Ù i mA j 2 I LI t i 3. Pot gi priest È l 4 LAT 4 ARE SE ere PIER - z x 4207 ados ae al deli ii 0) ht L "o Ie 51% €34 lira È Seco fissi n LIE VESPE 1) a i ® ‘ DA Fornasini_Coll.Costa_Tav I. Mem San lion De -Bologna Î Lik Mazzoni e Rizzol E. Contoli, inc. C fornasini, dal vero Fornasini_Coll Costa_Tav. II. Mem._Ser. 5° tomo IV. Lit Mazzoni e Rizzoli-Bologna E Contoli inc. C fornasini, dal vero Mem. Ser. 0° tomo IV. Fornasini_Coll. Costa _Tav. IL C.fornasini, dal.vero E Contoli inc. Lit. Mazzoni e Rizzoli-Bologna DELLE LINEE PIANE ALGEBRICHE LE PEDALI DELLE QUALI POSSONO ESSERE CURVE CHE HANNO POTENZA IN OGNI PUNTO DEL LORO PIANO MEMORIA IL DEL PROF. FERDINANDO PAOLO RUFFINI (Letta nella Sessione Ordinaria delli 11 Marzo 1894). In uno scritto che col medesimo titolo fu pubblicato fra le Memorie di questa Accademia ® indicai come si potessero trovare le equazioni di curve, le pedali delle quali hanno potenza in ogni punto del loro piano, e dissi che si poteva raggiugnere questo fine col risolvere il problema in- verso, col determinare, cioé, le pedali negative delle linee che hanno po- tenza in ogni punto del loro piano. Nel modo ivi descritto si può bensi pervenire all’equazione di una curva la di cui pedale positiva ha potenza in ogni punto del piano quando si fa coincidere il polo della pedale colla origine delle coordinate (cartesiane ortogonali) alle quali si supponeva ri- ferita la linea di cui si determinava la pedale negativa, ma rimane il dubbio se si sarebbe ottenuto il medesimo risultamento se si fosse tra- sportato altrove il polo della pedale. Mi propongo ora di risolvere questo dubbio col dimostrare che se la pedale di una curva della quale è data l’ equazione ha potenza in ogni punto del piano, o, diremo più brevemente, ha potenza quando il polo della pedale coincide coll’origine delle coordinate, essa conserva questa sua proprietà comunque si trasferisca il suo polo in rispetto alla curva. Ricordando che una linea ha potenza se il membro supremo della sua equazione é della forma Af(e° +), essendo A, una costante, a e le (*) Nel T. III, della S.IV, a pag. 277-285. Nella presente Memoria II.* si numereranno le equa- zioni in continuazione di quelle notate nella Memoria ora citata, alcune delle quali saranno an- che qui richiamate. — 236 — coordinate generali della curva, # un numero intiero e positivo, dimostrerò ancora che se la pedale di una curva data per mezzo della sua equazione ha potenza, e perciò il membro supremo dell’ equazione della pedale é della forma ora ricordata, la pedale conserverà tale proprietà comunque si sostituiscano ai coefficienti dell’equazione data altri coefficienti, com- preso lo zero, purché i nuovi coefficienti non abbiano valori tali da ren- dere nulla la costante A,. Accennerò in fine i risultamenti che si possono avere nel caso che valori particolari dei coefficienti dei termini dell’equa- zione della curva data rendessero la costante A, = 0. JE Sia data l’equazione che si supporrà del grado n 16) P(a, B)=0 di una curva riferita a due assi coordinati ortogonalmente nel suo piano. È stato dimostrato che si può ottenere l’equazione 170) (ae, y) = 0 della pedale della curva in rispetto all’origine delle coordinate col sosti- tuire nell’ equazione (16) 18) co+I e dgy_a a luogo di a e 8 rispettivamente e poscia porre eguale allo zero il discriminante, in rispetto al parametro (4:u), dell’equazione trasformata ‘. Però per la soluzione del problema qui proposto, non é necessario conoscere tutta l’ equazione della pedale della curva (16), ma soltanto il membro supremo di tale equazione e chiarire se esso sia o non sia riducibile alla forma 19) A@Ey ove A, è una costante e %X un numero intiero e positivo **. E facile (‘© Frattini — Un teorema di geometria. Roma, Tipografia delle Scienze Matematiche e Fi- siche, 1873. (**) Veggasi: Delle curve piane algebriche che hanno potenza ecc. Memorie di quest’ Accade- mia T. X della S. IV, p. 340. — 237 — dimostrare che il membro supremo dell’ equazione della pedale è il discri- minante del membro supremo dell’ equazione (16) trasformato. Indichiamo con w; la funzione asd + bAST!U + CATU + + Ahyu, nella quale 4;, ds, 65, :..,%;s sono funzioni algebriche razionali intiere e omogenee delle variabili @ e y, e del grado s. L'equazione (16) trasfor- mata e liberata dai divisori colla moltiplicazione dei suoi termini per u” avrà la forma 20) UR" + Un_AT'UFUn_NTUL + uu"=0: rappresentiamo con U il discriminante del primo membro di questa equa- zione e con 4 il discriminante del suo membro supremo «,. La stessa equazione (20) scritta per disteso sarebbe 21) an4'+ hi ut NTUÙ+ dNTW+ + hu" + dn, AT Ut 0n_NTUWA+ di _ NTU + lin" + Cn_ATU+ di _A'TUWA + lin" Lira dd iu Ret hei e ciò rende manifesto che se si pone DAME RI eo. ETRE ERMES EN risulterà Ò (1) Ò Ò (2) 22) UZA+( ++ A) + palate sp0)A dd, DG dh 1-2 og RA ò d h 7 n Da ep I che posto eguale allo zero diventa l’ equazione U= x, 9)=0 della pedale. — 238 — È evidente che per essere le «, 6, €,... tutte di grado inferiore a n il membro supremo dell’ equazione 23) y=A é formato dalla funzione A, cioé dal discriminante del membro supremo dell'equazione (16) trasformato : e come i coefficienti del membro supremo dell’equazione (16) non variano comunque si trasporti da un punto al- l’altro del piano l’ origine delle coordinate, si dovrà inferirne che quando il discriminante del membro supremo dell’ equazione (16) trasformato riesce della forma (19), la pedale della curva rappresentata da quell’ equazione avrà potenza quando il suo polo. coincide coll’ origine delle coordinate anche se l’origine delle coordinate sia stata trasportata comunque nel piano e la curva sia stata riferita ai nuovi assi, e perciò qualunque sia, in rispetto alla curva, il polo della pedale. Da ciò segue altresi che se il discriminante del membro supremo del- l'equazione (16) trasformato è della forma (19), la pedale della curva rap- presentata dall’ equazione (16) avrà potenza qualunque sieno, o comunque sì mutassero, gli altri termini della stessa equazione (16); onde: se discriminante del membro supremo trasformato dell'equazione di una curva data riesce della forma (19), la pedale della curva ha potenza qualunque sia il polo della pedale e qualunque sieno i valori dei coefficienti dei ter- mini dell’ equazione della curva, purché questi valori non rendano nulla la costante A, Suppongasi ad esempio che il membro supremo dell’ equazione (16) sia 24) pa + q83; la trasformata di questa funzione è (pa + qy)A +3( pay — qa + 3(qe'y + pey)Au + (— ga + py)u° e il suo discriminante risulta 25) PIO+y); perciò ogni curva rappresentata da un'equazione col membro supremo della forma (24) ha per pedale una linea che ha potenza qualunque sia il polo della pedale e qualunque sieno i coefficienti dei termini dell’equazione della curva, purché né la p né la q abbiano il valore zero. — 239 — Così nel caso particolare che l’ equazione della curva fosse della forma semplicissima pa +qg8°+h=:0, la trasformata dell'equazione sarebbe PA + 3pxe°yA°u + 3poyAu° + pyu' qyA — 3gqaoyRu + 3g yAu° — qa u* +‘ hu =;0) o e si avrebbe de== GRA } SIA qyG, RESA b,= pay — qeY, cs=qg0Yy + pay, b) ? d,=—-qe + py, 3 da = 2aîd, + 40} — 64,5;6;, dd, dA È dd = 2aA3 5 e quindi ui SAR VA fatte le sostituzioni e le riduzioni, si ottiene l’ equazione della pedale PI(d+y)— 2pqh(po'— ap + y) + h(pao' + gg) =0. La pedale di una curva avrebbe potenza anche se il membro supremo dell’equazione della curva fosse del 4° grado e della forma pao'—q'gf = (pa + qy9)pe° — qy). Infatti se si trasformino col mezzo delle (18) le due funzioni a) po +99, b) pe — gg; — R4O — si ponga a, = pa + quit aj="(p— 9Xy; a,=q% + py°, b=pa— gg, b=(p+9y, b,=—-9Q0+py, e si indichino con ANIA E i discriminanti delle funzioni (a) e (0), trasformate, rispettivamente e il loro eliminante, si troverà A,= 4, — a = pq(+)}, A,= bb — bi =— prc +) E non (4003 TUE 300) + 4(a4,00 -_— db) (4105, rat A3b;) == ipf(a'— yP+16p"Pfao ge + gf = pf + gg), onde AZAAE=t 4p'a'(e +): ‘ espressione che non cambia valore se a ° si sostituisca — p°: quindi : una curva del 4° ordine, il membro supremo della quale sia della forma pas==905 ha per pedale una linea del 16° ordine che ha potenza, qualunque sieno i coefficienti dei termini dell’ equazione della curva, purché né la p né la q steno lo zero, e qualunque sia il polo della pedale. Allorquando l’ equazione del grado n ha coefficienti arbitrarii, e il di- scriminante del membro supremo dell’ equazione trasformato è della forma (19) e perciò dell'ordine 2%, essendo, generalmente parlando &£= a(n— 1), si può con sicurezza ritenere che quando a lucgo dei coefficienti arbitrarii si sostituissero coefficienti particolari con determinate relazioni fra loro, tali però da non rendere nulla la costante A4,, la pedale della curva avrà potenza; ma può accadere che l’ equazione di questa pedale sia riduci- bile a un grado inferiore a quello ora detto. Si sa, per esempio, che in generale l’ equazione della pedale di una conica, della quale 26) aa? + 2ha8 + 68° + 2ga + 2/6 +c=0 — 241 — sia l'equazione, è rappresentata dall’ equazione del 4° grado 27) Cd + 9) — 2C(Ga + FyX(a° + dP) + (G°+ A,6)o° + 2YG — A,h)ay+(F°+Aa)j=0 ove èé i C=ab— hè, DÀ F=gh— af, G= hfT— bg, e C è il discriminante del membro supremo dell’ equazione (26): perciò qualunque sieno in casì particolari i valori dei coefficienti 28) | d, h, db, 93 SG, C, purché questi valori non rendano nullo il discriminante C, la pedale della, conica sarà una linea che ha potenza: ma può accadere, in casi particolari, che v’abbiano fra i coefficienti (28) relazioni tali da rendere (G° + A b)ae° + 2(FG— Ah)aey+(F°+Aa)f=Dd +); e quando ciò avvenisse, se si fa astrazione dalla soluzione e? + =0, l'equazione della pedale diventerebbe Ce +g)—2C(Ga+Fy)+D=0, rappresentante una linea del 2° ordine e precisamente un circolo. Quando ciò avviene, quando, cioè, determinate relazioni fra i coefficienti dei termini dell’ equazione data della curva hanno per effetto di diminuire il grado dell’ equazione della pedale, come quelle relazioni, in generale, si mutano cangiando !’ origine delle coordinate, é chiaro che la pedale parti- colare di grado inferiore a quello della pedale corrispondente al caso ge- nerale non può aver luogo se non quando il polo della pedale soddisfaccia a quelle certe condizioni che sono imposte dalle relazioni supposte fra i coefficienti dell’equazione data, e qualora si assumesse per polo della pedale un punto che non soddisfacesse a tali condizioni, la pedale sarebbe pure una linea che ha potenza, ma la sua equazione risalirebbe al grado corrispondente al caso generale. Serie V. — Tomo IV. Dili — 242 — Cosi nel caso particolare della conica rappresentata dall’equazione (5) a luogo dei coefficienti (28) si hanno i coefficienti AARON ASTRO 3 rispettivamente e A=C=— c(a'+0b°— c°) A=A°=Cl°=c(a+6— e), F=bc(a+60—c)=—bA, G=ac'(a°+0b— e)=— aA G+Ab6=c4=F°+A4a, FG-Ah=0; e l'equazione (27) della pedale col proprio polo nell’origine delle coordi- nate, ove non si tenga conto della soluzione LCt+y=0, sì riduce alla L+yY+ (ax + by) +e =0 che è la (4) e rappresenta un circolo: ma ciò avviene soltanto, come si è veduto, quando l’origine delle coordinate, e per conseguenza il polo della pedale, coincide con un fuoco della conica. II. Se il discriminante A del membro supremo trasformato dell’ equazione di una data curva per valori particolari dei coefficienti si riduce a zero la pedale della curva non può essere, in generale, una curva che abbia po- tenza, poiché la funzione 4 che forma il membro supremo del discrimi- nante U é del grado 2n(n — 1) in rispetto alle variabili @ e y, e se questo riesce identicamente nullo, il membro supremo del discriminante U è, in generale formato dal membro supremo del polinomio 30 dr d i A ) (7 +04 +0) della formola (22) che essendo di grado impari non può essere ridotto alla forma (19). Un esempio molto noto, nel quale si ha appunto A=0 s'incontra nella — 243 — ricerca delle pedali delle coniche. In generale la pedale di una conica rappresentata dall’ equazione (26) ha potenza, come dimostra la sua equa- zione (27): se però si avesse C=ac—h=0, la conica sarebbe una parabola, e la pedale di una parabola é una cubica ciclica che non ha potenza se non nel punto nel quale la sua tangente è parallela all’ assinto reale della curva. Questo risultamento è dato anche dalle formule precedenti. Sia (pa+q8B}+2ga+2f6 +e=0 l'equazione della conica. È manifesto che il discriminante del membro supremo dell’ equazione trasformato è nullo. L’ equazione trasformata è PILA + Qpaoyiu + Py + 2pqaeyA® — 2po(a° — Pu — 2pqayu w NATE IPeyiu + Pau -- 2grhu + Qgyu° + ofgdhu— 2feu + Gui =0 onde «= po + Qpqay + Py, b,= pay po - GP) Pay, C,= P'Y — 2pqay + qa, bo=gXK+ fyi, e=—2fc4+Qq9y+e dA dA e, ZOnE nni Sa RA) Ni=la:c = —=00 wir 203, de o d°A dA A7/A\ i ae è pertanto U=—2bb+ a, — bb — 244 — sostituendo i valori precedenti e ponendo il risultamento eguale a zero = 299 — PÎ(pr + Me + $@)— (ge +fyY + pa + qy)=0. Se per semplificare si prende l’ equazione della parabola nella forma dy+29ge=0, si dovrà porre nell’ equazione precedente oeyj_e0d, e si ottiene C+ — I a=0, y Y) od che rende evidente l’accennata proprietà della pedale della parabola ©. Potrebbe accadere che insieme colla À riuscissero nulli anche i ter- mini tutti del membro supremo del polinomio (30), e allora la pedale sarà una curva che ha potenza o non ha potenza secondo che il membro su- premo del polinomio (22) sarà o non sarà della forma (19) o riducibile a questa forma. In generale quando il discriminante A del membro supremo trasfor- mato dell'equazione data di una curva é nullo, affinché la pedale della curva abbia potenza é necessario 1° che il membro supremo del polinomio (22) sia di grado pari; 2° che tale membro supremo sia anche riducibile alla forma (19). Un esempio molto semplice si ha nella ricerca della pedale della curva rappresentata dall’ equazione 31) pa + 3ga +3f6=0. Il discriminante del membro supremo dell’equazione trasformato é nullo: (*) Cfr. - Pedali delle coniche - nel T. II, della S. V. di queste Memorie a pag. 130-131. — 245 — si ha poi CIT 2 0A—ipociop : c=GL+JY, Co PXY , St. d=— 3fe — 99), d,= py', A= aid} + 4ascì + 4bìd — 303cì — 64,b3c3d;; le derivate parziali del discriminante A, le quali pei precedenti valori non si annullano, sono i OPA SL han NIZAN o VA _ RR 276 OAV MM al ar i ’ nia ; mentre le derivate parziali del discriminante À in rispetto della è, non appariranno nella U per essere 8=0: si ha dunque = (5 C+ i cd + ne) —- È dia pure\0ez ded, ddì 6 0cH0 2 e l'equazione della pedale apparisce dell’ 8° grado, stante che il suo membro supremo è formato da T/07AT dA dA s(- =" Oi il cal). 2\dG3 d6,Òd, dd; È dunque soddisfatta la prima delle due condizioni affinché la pedale possa essere una linea che ha potenza, ma non è soddisfatta la seconda; poiché sostituendo nella U i precedenti valori, si riconosce immediatamente che l’equazione che si ottiene ponendo il risultamento eguale a zero si risolve nelle due CAION Mo ) 32) a|y(gao +fy) + x(fe — 99)} + gp (9° +fy}=0. — 246 — Per g= 0, l'equazione (31) prende la forma 33) po + f0°=0, e quella (32) diventa ed 34) ad + 4 + DI =0. rappresentante una linea che ha potenza in quelli soltanto fra i suoi punti nei quali la tangente é parallela all’ assintoto reale della linea stessa. Quando è A=0 il grado della pedale può variare se si trasporta da un punto all’ altro il suo polo. Questo grado è dato manifestamente dal primo dei termini, secondo l’ ordine col quale sono scritti, che nell’ espres- sione (22) della U non riesce eguale a zero, e se si avverte che il grado di questo termine dipenderà da quello delle funzioni 4;, bs, ...,4s Si ri- conosce come al variare del grado di queste debba variare anche il grado della pedale. Se il primo dei termini che nella formola (22) risulta diverso da zero è una derivata dell’ordine r e le a,,...,% sono del grado s rispetto alle variabili @ e y l’ equazione della pedale riuscirà del grado 2n(n-1)—rn+rs=2n(n_-1)—r(nT— s). Ciò posto, può accadere che quando si trasporta da un punto all’ altro del piano l’ origine delle coordinate succeda una variazione nella forma ‘dell’ equazione della curva data, per la quale essa acquisti, o perda, alcuni dei suoi termini e che conseguentemente varii il grado delle a, d,..., f: e quando ciò avviene, varierà il grado della pedale corrispondente alla diversa origine delle coordinate. Riprendasi in esame la pedale della curva rappresentata dall’ equa- zione (31). Se il polo della pedale coincide colla origine delle coordinate, sì ha PROMESSI e l’equazione della pedale doveva manifestarsi del grado 8°. Si voglia ora che il polo della pedale sia il punto (— X, — Y); e perciò si trasporti in questo punto l’ origine delle coordinate col porre nell’ equazione (31) a+ X e 8+ Y in luogo di a e 8 rispettivamente, poi si cerchi l’ equazione della pedale col suo polo nella nuova origine delle coordinate. — 247 — L’ equazione (31) prende la forma p(a+Xf}+g(a+ X)+f(8B+Y)=0; la sua trasformata diventa po + 3poygRu+ 3pegiu + pyu +3pXa°Xu + 3-2pXoyAu° + 3pXy"u' + 3pX°xAu + 3pa’yu® + 3gadu° + 3gyu' + 3fyiu — — 3fyu Ci + 3g9Xu° + 3fYru=0. posto per brevità u=(pX°+9)x +fq, v=fe—(pX+9)y, P=pX°+3(gX+/fY), sarà O — pai : u) 0=—ipXa b=p%Y, 5 e==QpXxy +, CNIPIUYI 3 Î i d=3pXxy — 30 + P, d,= py', A = aìdî? + 4ascì + 4bìd, — 302 — 643b;c3d, : le derivate parziali della A che non riescono identicamente nulle e i loro valori sono Do = 6p'oy', = 18pîo'gP, = Pa, ne AI Ta = 6p'a'9, Si = 6p°a%y, = 24py', co= nd, a = — 6048, sine = — 1200y", oa = — 12004, Sg = 04; — 248 — onde U= (Ce De + Ar) + Sor -- sog - SI. + (20 + E + CRA) + pa tea (ont sc ale i Sto) fatte le sostituzioni dei precedenti valori e posto il risultamento eguale allo zero, si ottiene un’equazione della pedale che apparisce veramente del 10° grado, ma che si risolve nelle due po =0, — 6p°X°xy + 9pa(2v + yu) — 6pa(Pa — 3Xu)xcv + yu) + pP°’a°— 6pXau+ 40 = 0. Se in quest’ultima equazione che è del 7° grado si pone X=0, essa si abbassa di grado riducendosi alla seguente del 5° grado 9pa(y(9x +fy)+2( fe — ga)Y)_ 6pfYaeyge +fy) + a(fae — 94) + pf'Y°o + Age +fy? = 0: e se si vuole sia anche Y=°0, si ottiene di nuovo l’ equazione (32). Concludasi che la pedale della curva rappresentata dall’ equazione (31), se si fa astrazione dalle soluzioni 2 = 0, è una linea del 5° ordine se il polo della pedale è un punto dell’ asse y delle ordinate ed è invece una linea del 7° ordine se il polo é qualsivoglia altro punto del piano. Se, infine, l’ equazione della curva fosse della forma più semplice (33) la sua pedale col polo nell’origine delle coordinate sarebbe una linea del 5° ordine che avrebbe potenza in quei punti soltanto nei quali la tangente è pa- rallela all’ asse 2 =0 cui é parallelo l’ assintoto reale della linea medesima. -—__T—oARrISLI-_T____ RICORDI STORICO-CRITICI INTORNO IL PARTO FORZATO LD IMMEDIATO PER LE VIE NATURALE NELLE MORTE INCINTE IN SOSTITUZIONE DEL TAGLIO CESAREO E SUE NUOVE E VARIE APPLICAZIONI INTONA: DEL Cav. Dottor FERDINANDO VERARDINI (Letta nella Sessione ordinaria delli 18 Febbraio 1894). Unicuique suum. La Storia è la maestra degli Uomini. Dacchè venni pubblicando nel fascicolo di Marzo del 1859 nel Bullettino della nostra Medico-Chirurgica Società il fatto che casualmente ebbi ad osservare eseguito dall’illustre e sempre con affetto da me ricordato Prof. Comm. Francesco Rizzoli, e nel modo il più pronto, facile e semplicis- simo, ossia l’ estrazione col parto forzato d’ un feto a termine per le vie naturali, da una Signora improvvisamente mancata alla vita, ne rimasi tanto colpito che volli di subito renderlo noto ai Colleghi perché se ne approdassero. Di tale mia sollecitudine rimasi poi seguitamente soddisfatto, in quanto che datomi a tutt’uomo a ricercare se altri prima di me avessero pub- blicato studii particolari su questo proposito, potei accertarmi che il campo era vergine, che nessuno prima di me sì era preoccupato di col- tivarlo, che nessuno s’ era formato del metodo or mo accennato «n con- cetto scientifico, ma attuatolo puramente in modo pratico, e ciò fino dai più lontani tempi, cominciando da Celso, in talune gravissime contin- genze, come unica ancora di salvamento, ma non quale un precetto, e specialmente da adottarsi in casi di donne morte incinte ed a gravidanza inoltrata, per essere sostituito al taglio Cesareo. Serie V. — Tomo IV. 32 — 20 Questa affermazione, ch° é molto importante per la Storia, verrà autore- volmente suffulta riportando parole e fatti narrati da illustri Clinici ostetrici e da valentissimi Colleghi, a mano a mano che svolgerò succintamente i pre- senti ricordi; coi quali ho mirato appunto di coordinare tutto che di più importante sì è verificato sopra questo argomento, cominciando dall’ an- no 1859 a tutto il presente e mostrare le inesattezze accidentalmente incorse. Per seguire adunque la parte istorica, é mio obbligo, che soddisfo colla massima compiacenza, il dichiarare che il nostro celebratissimo Clinico Chirurgico, Rizzoli, e come se ne esprime Esso medesimo nella impor- tantissima Collezione delle Memorie di Lui (pubblicata in due volumi nel- l’anno 1869), per evitare ulteriori e gravi dispiacenze nelle quali era in- corso per mal animo d’un suo Collega, trovò molto opportuno di avva- lersi del parto forzato ed immediato per le vie naturali al fine di estrarre dalle morte incinte i loro feti piuttosto che eseguire l’ orrendo taglio Ce- sareo e ne dava contezza nelle sue Lezioni ai giovani studenti della nostra Università. Ma di questo suo metodo non se ne faceva motto da alcuno e non si pubblicarono fatti, i quali ne rendessero manifesta 1’ adottazione, o ne pro- vassero l’ utilità. E qui mette bene il riportare le dichiarazioni pubblicate da valorosi Colleghi, raffermative il mio asserto, non solo di connazionali, si bene di esterni Per fermo, il chiarissimo Sig. Prof. Sante Sillani, nel pregevole suo Manuale d’ Ostetricia, alle pagine 203 e 204 del Vol. 2°, 1868, così si esprime : « Il convincimento sull’ utilità ed importanza del metodo Rizzoli, in- dussero il Verardini ad illustrarlo e renderlo di pubblica ragione. Fino al 1859 la stampa aveva taciuto su questo, ed il Verardini fu il primo che nel Marzo di detto anno, non solo mostrò la convenienza di questo metodo nuovo e la maniera di praticarlo, ma ne fece eziandio sentire l’ u- tilita seientifico-religioso-forense che dal medesimo ne sarebbe derivata, e con molta saviezza fece conoscere al Governo la convenienza di modifi- care la legge in siffatto proposito ». « L’ articolo detto, per altro, fruttò al Verardini delle obbiezioni e specialmente dall’ illustre Prof. Scipione Giordano. Ma non rimase in silenzio e trovò nuovi e plausibili argomenti ed anche ben gravi ragioni per sostenere il suo assunto; quindi degnamente rispose al suo dotto oppo- sitore... Laonde non solo ebbe l’ approvazione di molti ed importanti Giornali dell’ Arte, ma quello che più monta si é che il Giordano medesimo, colla ingenuità ch’ é propria dei dotti e probi cultori dell’ Arte salutare, invian- dogli una sua Lettera, dichiarò di apprezzare molto le osservazioni di Lui, e desiderare che la quistione venisse sciolta dai fatti ». — 251 — Ed essi non mancarono siccome risulterà un po’ più avanti, deside- rando di produrre ancora altre autorevolissime conferme, onde togliere qualsiasi dubbietà (senza molto curarmi delle date) intorno le affermazioni storiche da me indicate; locché stà in cima d’ ogni mio pensiere. Il chiarissimo Sig. Prof. Aurelio Finizio, Clinico ostetrico in Napoli, mi scrisse una Lettera, inserita poscia nel Bu/ettino di questa nostra Medico- Chirurgica Societa, alla pagina 159 del 1862, XVIII, nella quale se bene co- nosca avere il preclaro Collega ecceduto verso di me in troppa cortesia e mi senta ritroso di qui richiamarla, tuttavia non credo di dovermene esi- mere perché in modo speciale raffermativa le or poste premesse e perché appartiene cosi com’ è alla Storia. « Il nodo gordiano del Parto forzato in sostituzione della gastro-istero- tomia post-mortem, Ella pregevole Collega Verardini l’ha sciolto, e ri- tenga pure che | ha sciolto non col romanzo, ma coll’ eloquenza dei fatti. Dopo avere con attenzione letta la dettagliata Memoria di Lei all’ oggetto pervenutami dal Sig. Commendatore De Renzi, me ne avvalsi, non ha molto; in una mia Lezione ecc...... Onorevole Collega, il parto forzato in sostituzione della gastro-istero-tomia, da oggi in poi resterà questa nella mente solo dei parolai teoretici, ma non certo nell’ animo dei Clinici di azione. Ella col suo lavoro ha dato un positivo impulso a questo punto trascurato di pratica ostetrica, ed è meritevole di lode. La accolga pure da parte mia con animo sincero e mi abbia per suo Dev. Collega Aurelio Riimaiziio LL’ egregio Sig. Dott. Gaetano Moretti nell’anno 1877 pubblicò in Milano un suo scritto « Sul parto forzato nella donna gestante e prossima a morire ». Alla quarta pagina dice: « Il Rizzoli nel 1834 praticò la versione e l’ estrazione del feto per le vie naturali in donna morta incinta per rottura d’ antico aneurisma, e d’ allora inculcò colla parola e coll’e- sempio ai suoi discepoli d’ attenersi ad un tal metodo..... Se non che ve- runa Memoria scritta era comparsa per divulgarlo e sottoporlo alla critica della Scienza. II Verardini s’ assunse questo compito e con quella pas- sione che può dare il convincimento, nel Bul/ettino delle Scienze Mediche di Bologna, e negli Annali Universali di Medicina di Milano, sì fece stre- nuo ed indefesso propugnatore del metodo Rizzoli e..... raccolse tale una messe di fatti, da rendere persuasi anche i meno proclivi, a riconoscere la bontà del metodo, una delle cui prerogative é quella di proteggere la vita della madre quando la morte della stessa non fosse che apparente; ciò che non si ottiene certo col parto Cesareo. Il chiarissimo Sig. Dott. Rosario Vitanza pur Esso ha spezzato una lancia a favore: Del parto forzato su donne agonizzanti, Napoli 1892. Premesso, Fi dice, che il merito della diffusione del metodo Rizzoli si Re deve al Verardini, il quale con perseverante lavoro fece sapere ovunque che il Rizzoli estraeva il feto dalla donna morta col solo soccorso della mano, facendo! il parto forzato ecc. dopo avere esposto i casi a Lui offertisi e con esito felicissimo, dichiara apertamente che « non solo si estraggono così dei feti vivi, ma anche che le madri morienti talvolta ritornano in vita » come lo addimostrano le istorie da me e da altri riferite. Inoltre prova, l’onorevole Collega, che questo metodo operatorio non porta lesioni 0 danni gravi alla madre, non riscontrandosi nell’ utero che quelle lesioni superfi- ciali del suo collo, le quali avvengono anche nel travaglio del parto na- turale, se la testa del feto è alquanto voluminosa; e conferma pur Esso, che questo procedimento operativo non desta orrore ‘agli astanti come l’ operazione cesarea. L’ illustre Clinico Ostetrico in Bruxelles lo Hyernaux, nel suo Tra? tato pratico dei parti, dell’anno 1866 alla pagina 800 parlando del parto forzato cosi s’ esprime: « Nous entendons par aecouchement forcé V extra- ction aussi prompte que possible du foetus a travers les voies naturelles, alors que celle ci sont encore peu ow point preparées a se Jaisser franchir. La difference entre cette extraction forcée et l accouchement prematuré artificiel est essentielle; dans celui ci la nature fait presque tout; 1’ art ne lui communique qu’ une légére impulsion, mais sure; dans le premier au contraire, l’ art agit presque seul, et tout ce que la nature cede, il faut le lui arracher avec effort». Stupenda definizione che proprio, proprio traduce esattamente il processo operativo e par quasi addimostri |’ affrettata solle- citudine dell’ Uomo dell’ Arte, per sopperire all’ imperioso momento, al fine di tentare con un mezzo pronto e violento di salvare la vita periclitante della madre, o del feto a tenore del caso intorno a cui si dibatte. Anche un esimio nostro Collega porse un’esatta definizione e vera- mente corretta del parto forzato, e dell’ aborto ad arte precurato che a decoro della presente e modesta mia Annotazione riporto. Alludo ad un pregevole lavoro monografico del chiarissimo e compianto Sig. Dott. An- tonio Agostini « Sul parto prematuro e sull’ aborto per arte provocati » che nell’ anno 1860 inseri negli Annali Universali di Medicina di Milano, volume ‘173, fascicolo di Agosto e di Settembre. « Il parto prematuro artificiale è quella specie di sgravamento anzi ter- mine fisiologico, a cui l’Arte determina natura dal settimo mese in poi, con mezzi dinamico-meccanici, allo scopo benefico di salvare possibilmente madre e feto dai pericoli necessariamente inerenti alla continuazione e al compimento della gravidanza, non che alle pratiche altrimenti indispensa+ bili ad epoca di maturità, le quali esporrebbero od ambedue le vite, od indubbiamente ’ una o l’altra a sicura perdita. « Per ragione di tempo il parto prematuro artificiale si distingue dal- — 258 — l'aborto; per indole di procedimento dal parto forzato. E concluse molto opportunamente che « Fra le più valide cause che influirono a far ritar- dare lo sviluppo di questa operazione, e che le procacciarono tante oppo- sizioni é senza dubbio alcuno da annoverarsi la confusa promiscuità con cui si alternarono ed affestellarono insieme i due vocaboli parto prematuro ed aborto ». Posto quest’ intermezzo, per le ragioni esposte, termino il riferimento sopra l’illustre Autore Belga, il quale esattamente riporta i fatti da me pubblicati a diffusione ed a sostegno dell’ operato dal Rizzoli e li dichiara, alla pagina 807, eloquentemente favorevoli, e riconosce la facilita dell’ e- secuzione, la sua sicurezza e la prontezza sua. Essa ha poi il merito sin- golare (inappréciable) di non compromettere la situazione della donna se essa é non completamente estinta. Il celebratissimo Schroeder, alla pagina 254 del suo Manwuale d’ O- stetricia, 1883, dichiara che « il Verardini si fece caldo e convinto di- fensore e propagatore della dottrina del Rizzoli » massime riflettendo alla grande facilità con cui vide attuato il parto forzato, o parto provocato ed artificiale istantaneo per le vie naturali. i Mi torna qui opportuno, a verità storica e per ispeciali mie ragioni, di rilevare fin d’ ora che il chiarissimo e celebrato Autore che ricordo, non parmi si addimostri poi tanto inesorabilmente ostile al parto forzato, come sembra lo voglia far ritenere l’ onorevole Sig. Dott. L. M. Bossi, libero docente Ostetricia in Genova, di cui da ultimo porgerò una rivista critica della sua Memoria « Sulla provocazione artificiale del parto, e sul parto forzato, col mezzo della dilatazione meccanica del collo uterino » estratta dagli Annali di Ostetricia e Ginecologia, del Dicembre 1892. E per fermo, l’illustre Sehroeder da veramente savio ed erudito scien- ziato, con bei modi pone innanzi le sue idee relative all’ un metodo, piuttosto che ad altro, ed alla pagina 255 op. cit., annota prudentemente che « a diversa indicazione si deve obbedire quando la donna fosse venuta in fine di vita per malattia acuta, non di necessità mortale, o per qualche grave accidente o complicazione insorti improvvisamente come ad esempio, le varie manifestazioni croniche, le apoplessie, le congestioni e gli edemi pol- monali, l’ assistolia e via dicendo ; in questi casi vuolsi data la preferenza al parto forzato, sino a che é acconsentito, senza straordinaria difficoltà, dallo stato delle vie naturali, ed in qualche caso si è visto la donna che già si credette morta, dopo il parto rianimarsi non solo, ma ancora guarire ». Vi può essere modo più proprio di trattare la quistione, e non é esso la conferma di quanto é stato dichiarato, or qua, or là da quegli egregi confratelli che s’ occuparono senza prevenzione del metodo ora discusso e riesaminato ? — 254 — Dopo tale avvertenza, che non mi ha stornato dall’ argomento, almeno a mio vedere, e parmi anzi l’ abbia chiarito, riprendo il mio cammino e riferisco ulteriori valutazioni sul metodo Rizzoli, di talun altro eminente Ostetrico straniero ed incomincio dal Depaul. Il quale, nella sua Memoria, intitolata « De l’ operation Cesarienne posé mortem à Vl occasion d’ une discussion soulevée sur ce sujet a l’ Académie Imperiale de Medicine » Paris 1861, si addimostrò propenso ad accogliere il metodo del Rizzoli, o metodo Italiano come fu chiamato, ed alla pag. 46 op. cit. afferma nella sua undecima conchiusione: « Avant de recourir à l’ operation Cesarienne posf-mortem il emport de s’ assurer si 1’ enfant peut-étre extrait par les voies naturelles » ecc. Anche il chiarissimo Sig. Dott. A. Thévenot inseri negli Annali di Ginecologia, Parigi 1878, una ben compilata ed estesa Monografia intitolata : «de l’ accouchement artificiel par les voies naturelles, substitué a l’operation Cesarienne post-mortem ). Premette a questo suo dotto lavoro una bibliografia alquanto estesa, indì enumera i lavori principali di Chirurghi Esteri e di Italiani, i miei com- presi, e ne svolge i fatti storici dei quali Esso ha potuto venirne a conoscenza. Scrutando l argomento, per prima cosa ricorda il fatto rarissimo del Rigaudeaux che chiamato l’ otto Settembre 1745 nel villaggio di Lo- warde per assistere una partoriente, certa Dumont, il marito l’ avverti che ‘era. pur troppo tardi; ‘e che sua moglie era da due oretmortameNcbedinon sì era trovato Chirurgo per farle l’ operazione Cesarea. Informatosi minutamente del caso ed avendo manifestato il desiderio. d’ esaminare la morta, trovò che aveva molta schiuma alla bocca e non riscontrò in essa alcun segno addimostrativo che la vita non fosse ancora affatto spenta. Gli corse quindi alla mente l’idea d’ esplorare la donna col dito introdotto in vagina e verificò 1’ orifizio molto dilatato e gia formate le acque. Rotte le membrane, senti la testa del feto, ed assicuratosi che 1° 0 rificio della matrice era sufficientemente aperto, fece la versione e con. somma facilità compi il parto Agrippino, consegnando nelle mani della balia il feto che sembrava morto, consigliandola però a prestarvi molte; cure, che suggeri, e. ciò per non perdere tempo. Fatto é che il#bam- bino dopo alcune ore si mostrò vivo e tale si mantenne, e la madre pure- sì riebbe e ricuperò perfetta salute. Volli qui riprodurre alla distesa il caso occorso al Rigaudeaux perché attragga pur sempre l’ attenzione degli Ostetrici novelli, e perché da altri é stato riferito non esattamente (e lo prova lo stesso Corradi nella. sua Opera classica e di cui ripetutamente terrò proposito) e perché riconfer- mativo non solo la facilità colla quale può eseguirsi ed il breve tempo che. trascorre nell’ attuare il parto forzato, si bene ancora per addimostrare ai, — 259 — dubbiosi ed ai negativi che il feto si può estrarre e si estrae vivo, come ho notato in più luoghi pel passato ed eziandio nell’ attuale compilazione di questi cumulativi storico-critici ricordi. Richiamato questo forse primo fatto, il quale è tanto consunstanziato coll’ argomento, fo ritorno al chiarissimo Thévenot per quel tanto che mi riguarda, premendomi di far conoscere esattamente le cose come nacquero e si svolsero. Sono impertanto costretto di rilevare succintamente che 1’ onor. Signor Collega alla pagina ottava, ove parla del parto forzato e dice che; « faut arriver jusqu’ en 1861 pour entendre une voix autorisée conseiller l accouchement forié aprés la morte, méme au pria d° un debridement du col» non si è apposto al vero, e Gli ricordo e Gli affermo d’avere io replicata- mente ed in varie circostanze pubblicato : che il Rizzoli l’ attuò fino dal 1833, e Gli sottopongo che la riportata affermazione é poi anche in con- traddizione con ciò ch’ Esso stesso ha in altro luogo dichiarato. Un secondo appunto che debbo fare all’egregio Sig. Thévenot è questo e cioé di attribuire alla pagina nona al compianto ed esimio Col- lega Belluzzi Dott. Cesare, il merito d’ avere per primo addimostrata la facilità dell’ esecuzione del parto forzato. No, questo non é; e le nume- rose comunicazioni pubblicate rendono manifestamente evidente 1 errore di data e di fatti, e mi dispenso da ulteriori parole limitandomi a con- ferma sicura di riportare quelle colle quali il Belluzzi incominciò il suo riferimento inserito nel Bu/llettino delle Scienze Mediche di Bologna, Serie 4°, Vol. XVI, pag. 195: Sul « Parto forzato in donna gravida nel nono mese, prossima a morire ». Dappoiché Due anni or sono Vl egregio Verardini fece conoscere per le stampe ecc. il metodo adottato dal Rizzoli per estrarre dall’ utero il feto nelle donne morte incinte e cioé il parto forzato anche fuori del travaglio del parto, avendo osservato un caso che interessa questo vitale argomento dell’ Ostetricia mi sento obbligato di pubblicarlo ecc. Altre affermazioni non esatte le rilevo alla pagina 22, ove dopo aver no- tato il modo col quale il Rizzoli eseguiva materialmente l’ atto operativo per liberare le morte incinte dal loro portato, afferma che: « ces amis d’ abord, plus tard ses éléves, accepterent cette idée, si bien que les accou- cheurs qui sortaient de Vl École de Bologne ne perdaient pas une occasion de tenter laccouchement par les voies naturelles. Les faits se multiplierent, et une fois nombreux, Verardini et Belluzzi en Italie, Iansens en Belgique, se mirent d les faires connattre ». È verissimo, e l’ ho ben dichiarato nelie mie Memorie che il Rizzoli anche dalla Cattedra invitava i giovani studenti a giovarsi di questo me- todo, specie a scanso di dispiacenze gravi, ma nessuno mai pensò di at- tuarlo, o n’ ebbe circostanza, né alcun scrittore di cose ostetriche pubblicò fatti di estrazione di feti dalle vie naturali in morte incinte, e ripeto che — 256 — solo io e non altri in Italia mi diedi a pubblicare, a promulgare, a difen- dere il metodo Rizzoli, o metodo Italiano come concetto scientifico, e gli Ostetrici ed i Chirurghi s° accordarono ad accettarlo allora quando ven- nero a cognizione dei fatti da me raccolti e seguitamente da altri. Per cui sta bene quanto un po’ più oltre nota ed afferma 1’ onorevole Sig. Dott. Thé- venot e cioé: « Les Medecins Italiens ont fait cette methode leur, et il se- rait injust de ne pas lut laisser le nom de methode Italienne ou de Rizzoli ». Altri errori di data e di inesatta attribuzione dei fatti occorsi si rilevano sfuggiti all’ esimio Thévenot e mi duole d’ essere stato costretto d’ ac- cennarli, ma il compito che mi sono prefisso essendo quello appunto di coordinare e rettificare questi fatti e le particolarità loro, non ho potuto a meno, sebbene a male in cuore, di dispensarmene. Vado sicuro che la causa principale delle incorse inesattezze, oltre le difficoltà che incontra in genere il compilatore, specialmente se Straniero, di rilevare il materiale necessario pelle sue ricerche, sia da attribuirsi al non avere il Thévenot potuto consultare l’ Opera stupenda dell’ illustre nostro Collega e concittadino, il Comm. Alfonso Corradi, ahi troppo presto rapito ai progressi della Scienza e dell’ Arte, intitolata: « Dell’ Oste- tricia in Italia, dalla metà del Secolo scorso fino al presente, e pubblicata nel 1874 ». Opera che stà ad imperituro monumento e glorioso, addimo- strativo, specie agli Stranieri, che la Scienza ostetrica fu vastamente stu- diata ed esplorata dagli Italiani; Opera che l’illustre Sànger chiamò feno- menale, e mi condolgo che pur troppo questo grande lavoro, sia poco conosciuto e non studiato, specialmente dai nostri connazionali, e pro- prio, proprio da coloro che vorrebbero andare per la maggiore ed essere riconosciuti Maestri in Ostetricia. Ebbene, alla pagina 696 avrebbe rilevato le seguenti parole che accenno appena, per indi passar oltre ad esaminare li altri studii che mi ri- mangono ed esaurire così il materiale più elaborato che sia stato offerto alla pubblica disamina. Eccole : « Parecchi Colleghi e discepoli del Rizzoli seguivano la sua pratica e ne riconfermavano l’ utilità: ma soltanto nel 1859 veniva essa fatta co- noscere dal Verardini; il quale poi con altre scritture maggiormente illustrava, aggiungendo nuovi fatti e rispondendo alle obbiezioni, che par- ticolarmente dal Prof. Giordano erano mosse alla pratica medesima ». Esaurite queste disamine mi dispongo a rendere palese il convincimento del dottissimo Clinico Ostetrico di Padova, il Prof. Michele Frari, espresso nel suo Trattato di Ostetricia pratica, al Libro terzo, pagina 106 e seguenti, circa il tema del parto forzato ed alle sue applicazioni. Esso approva questo metodo e lo crede un mezzo sicuro per salvare tal- volta la partoriente, ed unico poi per la prestezza e per la facilità della — 257 — sua attuazione anche quando la donna é primipara, non in soprapparto ed a collo chiuso. Ne ricorda esempii ed afferma che non ebbe giammai a pentirsene per letali conseguenze, ed i feti vennero levati dalla matrice vegeti e sani. La manualità la descrive di facile esecuzione e non temibile per la madre e pel feto nel maggior numero dei casi; laonde dichiara che non dev’ essere biasimato, ma anzi accolto come unica ancora di salvezza in varie contingenze. Io ho eseguito, dice testualmente, più volte il parto for- zato per gravi accidenti che minacciavano la vita della madre e del feto, e la donna non ebbe a risentirsene dalla operazione ed il peurperio procedette regolarmente. Con ciò credo d’ avere dimostrato l opportunità del parto forzato nelle indicazioni ammesse dai pratici. Ebbene, anche questo erudito, onesto e valentissimo Cattedratico, per non avere sventuratamente attinto a purissime fonti storiche, ed essersi im- battuto a caso in Memorie od Articoli sul parto forzato non corretti, commise pur Esso errori storici e cronologici. Basti il citare il passo seguente che si legge alla pagina 109 del libro 3°, perché emerga l’ esattezza del mio ap- punto ed è questo: « L’ operazione del parto forzato sarà più facile e meno ne soffrirà il feto, sempre che l’ operazione venga eseguita prontamente, perche. il ifeto. muore) collà madre. o poco dopo. #erciò lEsterle,, il Rizzoli, il Belluzzi, il Verardini ed altri per salvare il feto propo- nevano il parto forzato nell’ agonia della gravida ». Ora seguo narrando che l’ operosissimo e dotto Collega ed Amico, il Sig. Dott. Angelo Cianciosi, Med. Chir. Prim. in Sora, coll’ intendimento di portare un contributo alla Storia dell’ Eclampsia ed alla statistica del parto forzato, e richiamarlo di nuovo in onore, si determinò di riferire due casi occorsigli da poco tempo ed uno con esito infausto per la madre. Analizza impertanto il responso delle statistiche relativamente alla gastro- istero-tomia, col parto forzato e ricorda pur Esso che nella Storia dell’O- stetricia in Italia del celebre Corradi sopra 140 Sezioni Cesaree post mortem si ebbero due soli feti vivi, che estratti vivi furono in condizioni di continuare la vita. Invece, di 60 casi, di cui 45 riferiti dal Corradi, 9 dal Verardini, 3 dal Bergesio, 1 dal Romiti, 1 dal Minella, 2 dal Bonpiani, sonosi avuti 22 feti vivi, senza contare quello da Lui estratto, che pur visse 20 giorni. Analoghe conchiusioni, intorno questi risultamenti comparativi, annoto di trovarli dichiarati eziandio dall’illustre Morisani nel suo discorso recitato all'Accademia Medico-chirurgica di Napoli, riportato nella Aivista Clinica Terapeutica del 1883, e pur pure da varii altri, specie dall’ esimio Sig. Dott. Vitanza di cui feci poc’ anzi encomiato ricordo e come ne allusi in proposito. Serie V. — Tomo IV. 33 — 208 — Eziandio m’ é caro di potere, anzi di dovere in questa compilazione annoverare uno studio speciale del valentissimo Collega Sig. Dott. Anto- nino D'Amato, che rese di pubblico diritto nel Giornale « il Filiatre Sebezio dell’ anno 1867, alla pagina 333 e successive ». Sul parto prema- turo forzato nelle donne incinte, in sostituzione del parto Cesareo post mortem. In esso narra accuratamente che applicò questo metodo in una moriente, gravissimamente e da tempo inferma, in condizioni insomma che si addimostravano disperate, e tentò, ciò nulladimeno, l’ operazione colla mira, se altro non fosse, di procurare di porre in salvo la pericli- tante esistenza del feto, ch’ era vivo ed a termine, incoraggiato dalla let- tura ch’ aveva fatta di uno scritto dell’ egregio Collega Dott. Cesare Bel- luzzi; al quale con espansione fervorosa attribuisce tutto il merito della. diffusione del parto forzato, specie applicato nella moriente; scritto pub- blicato nel 1861, e del quale ne porsi a suo luogo onorevole accenno. Di questo suo caloroso apprezzamento ne farò poch’ altre parole finali, appena narrato che avrò in succinto la Storia dell’ onorevole Sig. Dott. D'Amato, che così la continuo. Dopo avere Esso verificato, entrato che fu colla mano nell’ utero che facilmente si prestò, essere la testa gia discesa in basso nella escavazione, si decise d’ applicare il forcipe, e ne estrasse felicemente un feto maschio e vivente; il quale però uscito fuori nel vero stato d’idro-anemia, ed asfissia, dopo avere vagito e protratta la sua vita per circa un’ ora, mori. A rendere a mille doppii maggiormente interessante questo caso cli- nico rendo aperto che la moriente madre andò dopo l’ operazione miglio- rando, si rianimò ed a maniera da illudersi essa medesima di poter supe- rare i suoi mali cardiaci e riabilitarsi in sufficiente sanità. Ma appunto per le organiche sue alterazioni, ben determinate dal va- lente Medico, nel decimo giorno di puerperio la donna, che si chiamava De Paola, cessò alla vita per sincope improvvisa. Ebbene si, sono lieto d’ aver potuto registrare questo fatto nell’ attuale compilazione, in quanto che mi appresta argomento e mi spiana la via per esprimere nettamente e con non molte parole, il concetto che si deve avere del parto forzato eseguito su donna moriente ed in istato d’ avanzata gravidanza o sul terminare di questa; giacché alcuni l’hanno frainteso, e forse per ragioni particolari l’ hanno voluto far ritenere in qualche modo diverso, quasi nuovo. Mai no; quest’ atto operatorio non è puramente che una ulteriore applicazione del metodo eseguito nella donna già morta, in sostituzione del parto Cesareo e come all’ evidenza risulta dagli studii che sono andato e che vado ricordando. Di questa affermazione mia, se pur se ne volesse una conferma, 1’ e- sibisco subito e ben volentieri di uno fra i più autorevoli Ostetrici d’ Italia, —. Rodi — e che ha poi il diritto di preminenza in questa materia; alludo a Fran- cesco Rizzoli. ll quale, nella Collezione delle sue Memorie, al volume 2°, pagina 559 così si esprime : « L’ esperienza mostrò che anche quando il tra- vaglio del parto non è iniziato, il parto provocato ed artifiziale istantaneo per le vie naturali, da me proposto nella donna morta in sostituzione al parto Cesareo, allora quando un ostacolo insuperabile non impedisca di compierlo, può essere adottato anche nella moriente, affine di salvare col medesimo, con pari sicurezza il feto tutt’ ora vivente ». Analoga dichiarazione trovasi nella Memoria dell’ esimio Collega e caro Amico il Dott. Federico Romei, resa di pubblico diritto nel Buertino delle Scienze Mediche di questa Med. Chir. Società, nel fascicolo di Giugno del 1870, la quale incomincia colle nobili parole che riporto a rafferma dell’ importanza acquistata in breve tempo mercé della promulgazione fatta da me del metodo Rizzoli. « Ora che con tanto onore della Seuola Bolo- gnese all'Accademia Medico-Chirurgica di Bruxelles si discute il grave argo- mento del parto forzato nelle morte incinte o presunte tali e non in #ravaglio di parto, anche il chiarissimo Iansens (Segretario dell’ Accademia) all’ ap- poggio degli Scritti interessantissimi del Verardini e del Belluzzi, ha confermato che questo metodo adottato e proposto dal Rizzoli é una vera gloria italiana, spero ritornerà grata |’ esposizione del fatto occor- somi ». Il quale è di sommo interesse e scorrendolo vi si notano le seguenti parole che traggo dalla 1* conclusione: il metodo Rizzoli d’ estrarre il feto per le vie naturali determinando il parto artificiale istantaneo, se venga esteso alle morienti è metodo sanzionato dalla pratica. Aggiungo, a bella opportunità, che un egregio Collega, il Sig. Dott. Campione, ha qui di fresco pur Esso dichiarato alla pagina 243 del Giornale La Puglia Medica dell’anno 1893, parlando saviamente del Parto forzato da adottarsi nelle gravemente inferme, per malattie anche estranee alla gravidanza (riportando eziandio fatti occorsi all’ illustre Prof. Mara- gliano; vedi anche il Progresso Medico del 15 Ottobre, N. 19, Napoli, alla pagina 464, « Sull’ opportunità d’ interrompere artificialmente la gra- vidanza in caso di malattia interna) » dichiara esplicitamente questo me- todo « consigliato anche dall’ Esterle » non essere che l’ allargamento delle indicazioni del parto forzato nelle morte incinte. Allargamento d’ applicazione pratica che non si ristette solo ai casì del Rigaudeaux, del Pellegrini, dello Esterle, del Belluzzi, e prima di questi dai descritti da qualche altro, come risulta dalla Storia citata del Cor- radi, e cioé di eseguire tale metodo eziandio sulle gestanti venute a termine di vita per gravi evenienze sopraggiunte durante la loro gravidanza, ma che andò oltre e ne discorsi specialmente nella mia Memoria: « Del parto provo- cato e del parto forzato nelle agonizzanti e nelle incinte affette da cardo- — RD — patie inserita negli Atti di questa Accademia al Volume 9, Serie 3*, del 1878. A prova maggiore degli accennati ulteriori progressi nell’ applicazione di questo metodo nei mali del cuore, mi rendo sollecito di chiarire che il Prof. Tibone aveva pur Esso verificato che nelle affezioni cardiache tiene un primo posto, e che ora in una recentissima sua pubblicazione, a rafferma, é giunto perfino a dichiarare che nella lunga ed estesa sua pratica, pub- blica e privata, di dovere forse pentirsi d’ avere troppo ritardata la pro- vocazione del parto nei vizii cardiaci e nelie affezioni polmonari, mentre nei vizii pelvici talvolta si è rimproverato il precoce intervento. M° innoltro ancora e narro che il celebratissimo Prof. Tarnier in una splendida ed eruditissima Lezione di Clinica Ostetrica, circa i rapporti fra l’assistolia e la gravidanza, riassunta nella Rassegna d’ Ostetricia e Genecolo- gia, N. 2. Napoli 15 Febbraio 1894 « addimostra che le malattie di cuore nelle donne incinte, hanno una speciale gravità e sintomi speciali; la car- diopatia e la gravidanza influiscono una sull’ altra, e la prognosi diviene più grave ». Accenna in questa Lezione alle osservazioni dell’ illustre Peter, tolto pur troppo al progresso Scientifico or non è molto; il quale provo essere dovuta la gravezza delle cardiopatie, complicate a gravidanza, al fatto che la massa sanguigna é più considerevole nelle gravide, quindi che « meccanicamente » il cuore si stanca più presto. Anche il Durozier ha pubblicato ultimamente una Momoria in cui tratta dell’ influenza delle malattie cardiache sulla gravidanza, e sonovi accennati lavori di un Badin, di un Porak, del Larchet, del Ducret, e del Blot, il quale giunse a determinare che la differenza nel cuore normale del suo peso che è di circa 280 grammi, in donna gravida (pag. 42, Ras- segna Ostetrica cit.) questa differenza é di circa 50, oppure 60 grammi. Ho raccolto l’ asserzione, senza compromettermi di accertarla per as- solutamente possibile, e lo sarà; ma perché prova l’ asserto, e ciò ben mi caleva, dei non discontinuati studii e per ogni dove intrapresi sulla necessità di ricorrere in dati casi al parto forzato. Riprendendo adesso seguitamente il caso dell’ onorevole Sig. Dott. d’ Amato onde mantenere la promessa di addimostrare il sentimento di troppo calda ammirazione da cui fu preso questo esimio Collega, riflettendo intorno il valore della pubblicazione del Belluzzi sul parto forzato nelle incinte agonizzanti, e spezialmente pensando che di tal guisa si poteva ap- portare un più pronto soccorso al feto. Ebbene si, questo stato dell’animo suo mi sembra gli impedisse di ri- flettere se tale una proposta, od analoga avesse potuto essere stata avan- zata pur da altri antecedentemente, e formò proposito che l’ ora compianto Ostetrico della Maternità, per primo avesse promulgato e pel primo avesse eseguito sulla moriente il metodo Rizzoli in sostituzione del parto Cesareo; il che davvero non é. — 261 — ._ Le prove di tale assoluta negativa risultano numerose e palesi nella, Storia di questo rilevantisimo ramo d’ Ostetricia; in relazione poi alla par- ticolarità del fatto mi é bastevole unicamente di chiamare alla memoria del confratello Napoletano, essergli sfuggita la valutazione del primo pe- riodo preposto dallo stesso integro Collega Belluzzi alla sua Memoria e da me opportunamente riportato anche nella presente compilazione lad- dove parlo de’ suoi lavori, e si renderà capace di subito che :il Belluzzi declina qualsiasi primato in proposito. Rilevo poi da ultimo che la Me- moria del Collega Bolognese porta per titolo: « Del parto forzato in una donna gravida al nono mese, prossima a morire, onde salvare con mag- giore sicurezza la vita del feto. Bologna 1861 » non già quello che vi ap- pose inavvertitamente il D'Amato; titolo che invece appartiene alla mia Memoria pubblicata negli Affi di quest Accademia delle Scienze dell’ Istituto, nel 1861 e fu ristampata con aggiunte nel 1868, negli Annali Universali di Medicina di Milano. Sono spiacente di avere dovuto porre le avvertenze ora dichiarate, ma non poteva farne a meno dal momento (sono costretto di ripeterlo) che questa mia Nota la ho compilata espressamente per appurare, secondo mie facolta, la Storia del parto forzato; per cui ben anco in questa circostanza avrei addimostrato di non essere consentaneo con me stesso. Pure un altro lavoro, pubblicato l’anno appresso del qui dianzi esa- minato, mi sento in dovere di farne accenno, sia perché ricordato nell’ in- dice bibliografico del ch. Thévenot, quindi da Lui considerato, sia perché fa parte della collezione, fors’ unica, delle Memorie da me con molta dili- genza riunite e possedute intorno il parto forzato, appena uscivano al pub- blico, e per la particolarità che 1’ Autore di essa Memoria rimase non solo compreso d’ammirazione, si bene dirò d’entusiasmo dalla lettura degli studii sul parto forzato applicato nelle agonizzanti, annunciati dall’ onorevole Col- lega Dott. Belluzzi, e perché cadde medesimamente pur Esso prima di darlo alle stampe nello errore di non avere riandata ed essersi addentrato nella Storia di questo metodo italiano, sulle Opere maggiori, e nelle fin d’ allora abbastanza numerose e molto valutabili pubblicazioni appunto usci- te da questa Scuola Bolognese. Alludo alla Memoria dell’ onorevole Sig. Dott. Torquato Ferratini, Chirurgo Primario dell’ Ospedale di Sarzana, pubblicata in Genova nel 1868, ed estratta dal Giornale La Liguria Medica. Se volessi punto per punto analizzare molte affermazioni che s’ incontrano leggendo questa Memoria, dovrei ripetere per addimostrale non esatte, la più parte delle ragioni e dei fatti che si contengono nelle elocubrazioni da me fedelmente annoverate, e ridire in parte le cose che ripetutamente, in or- dine alla qualità dell’ attuale mia compilazione, sul parto forsato furono da — 262 — anni pubblicate ed in particolare le riunite negli attuali ricordi storico-critici, laonde me ne sto; eziandio poi per risparmiarmi la dispiacenza di porgere alquante osservazioni critiche ad un onorevole e stimabilissimo Collega. Il quale deve appunto andare lodato pel caso clinico occorsogli e pubblicato coll’ ottimo divisamento di estendere vieppiù le prove in favore del metodo del parto forzato nelle morte incinte, reso pubblico da me pel primo (il ripeto per necessità) fino dall’ anno 1859, e poscia adottato nelle agoniz- zanti, e via via nelle affette da varie organopatie, specie cardiache e come ad esuberanza risulta dall’ attuale mia Nota critica; particolare che oggi forma una originalità dei nostri tempi come affermò l’ illustre Morisani nel suo citato discorso, o l’ adottazione di questo metodo in malattie indi- pendenti dalla gravidanza e sopraggiunte nel percorso di lei, e che può essere praticato anche quando non v’ ha dilatazione del collo dell’ utero, non solo, e che natura non ha promosso veruna disposizione al partorire. Osservo tuttavia lealmente all’ onorevole Collega che l illustre Rizzoli non ebbe giammai ad incontrare opposizione alcuna, né ebbe motivo a pubblicamente difendere il metodo da Lui proposto in pratica. L’ egregio Sig. Dott. Ferratini può .inoltre verificare che i fatti da Lui allegati fu— rono primamente raccolti da me e bastava che avesse con pacato animo ponderato l’ art. 999 da Essolui richiamato, dalla pagina 132 della Liguria Medica nell'Aprile del 1861 in cui é annunciato fedelmente il primo mio art. del 1859 varie volte accennato, ove si dichiarano le lotte ch’ io, non altri, dovetti sostenere per convincersene e cosi avrebbe dovuto modificare- le asserzioni sue. La Storia, specie l’ autorevolissima raccolta dal Corradi, prova ad esuberanza le mie affermazioni, e conferma che i fatti narrati dall’ egregio e molto compianto Collega carissimo Dott. Luigi Golinelli e quelli del Tallinucci e di altri riprodotti dal Sig. Dott. Ferratini ven- nero diffusi mediante la mia Memoria, « sul parto forzato nelle morte in- cinte in sostituzione del taglio Cesareo » se ben lo ricordo. Sono degni di lode i primi imitatori ed i primi esecutori del metodo che tanto ci interessa e ci onora, e che vivamente difendemmo e difen-. diamo, e queste lodi lealmente ed in ogni incontro furono a larga mano distribuite; noi parlammo per ver dire, non per odio d’ aleuno o per di- sprezzo, ed appunto sopra questa ragione ponemmo in cima della presente Nota « unicuique suum; la Storia é la maestra degli uomini » e ci parve necessario di rettificare errori commessi pel passato, e procurare d’im- pedire che si ripetessero nell’ avvenire. Poste le quali dichiarazioni, passo da ultimo a tenere non lungo discorso, e per le medesime ragioni ripetutamente dichiarate, della recente pubbli- cazione dell’ onorevole Sig. Dott. L. M. Bossi di cui ne toccai appena in- cidentalmente sul principio di questo mio comunicato. — 263 — Con ciò credo di poter affermare di porgere una rivista dei primarii lavori resì di pubblica ragione dal 1859 al presente, e forse l’intero com- plesso sommario intorno la studiata materia. Il chiaro Sig. Dott. Bossi incomincia il suo studio monografico-clinico, affermando che « Una delle condizioni sine qua non che si richiedono perché l’ Ostetrico possa accingersi cosi a provocare 1’ espulsione, come a - praticare l’ estrazione del prodotto del concepimento, é che il collo uterino sia sufficientemente dilatato e dilatabile. Questo che rappresenta una delle leggi più elementari, ma fondamentale dell’ Ostetricia operativa, varrebbe a stabilire un limite razionale e preciso fra gli atti operativi che si com- piono a collo sufficientemente dilatato, o dilatabile (rivolgimento, applica- zione di forcipe) e gli atti operativi che si mettono in pratica per ottenere tali condizioni del collo uterino. In questa seconda categoria entrerebbero la provocazione artificiale dell’ aborto, o del parto prematuro; 1 accelera- zione artificiale del periodo della dilatazione ed anche il parto forzato, « tale solo dovendosi chiamare per la forzata dilatazione del collo » ed ecco quindi come in tal modo questa seconda suddivisione calzerebbe per- fettamente al nostro caso, perché comprenderebbe tutto quanto, come dal titolo si può vedere, l’ argomento della presente Memoria ». Questo esordio, che comprende davvero tutta 1’ orditura della Memoria del chiaro Sig. Dott. Bossi lo posi a risparmio di inutili parole, le quali sarebbero riuscite ad una ripetizione dei pensamenti da me manifestati e che difendo per intimo convincimento, e raffermo esplicitamente col- l attuale mio scritto ; il quale, a mio avviso, porge tali e tante prove dell’ utilità del metodo Rizzoli nelle sue varie e nuove applicazioni, da farmi sperare, anzi nutrire ferma fiducia che eziandio il valente Col- lega dell’ Università di Genova, esaminando e serutando con animo calmo e sereno tutto che é stato esposto, possa valere a fargli mutare la sua opi- nione e temperare le sue idee intorno all’ effettuamento del parto forzato, secondo che i fatti l hanno addimostrato possibile ed attuabile. Ho già appena appena accennato che egregi ed autorevolissimi Colleghi modificarono pur Essi gli apprezzamenti ch’ avevano dianzi e seguitando ne porgerò tuttavia prove; intanto riassumo i punti principali pei quali mi trovo in disaccordo coll’ onorevole Sig. Dott. Bossi affinché meglio da Lui sia serenamente esaminata la quistione scientifica e pratica. Io ammetto adunque e sostengo, in compagnia d’ una onoranda e valoro- sissima schiera composta di celebratissimi Uomini di Scienza, che il parto forzato, o quell’atto prudentemente violento eseguito dal Chirurgo ostetrico, si può ed in particolari circostanze si deve effettuare eziandio a parto impre- parato ed a collo chiuso, giusta gli insegnamenti da Celso, al Rizzoli, e prevalentemente di quest’ ultimo, introducendo il più che sia fattibile con — 264 — sollecitudine e gradualmente l’ indice, poscia a poco a poco le altre dita, ed alla perfinita tutta la mano nella cavità uterina; rotte le membrane venire all’ estrazione del feto mediante il rivolgimento se é fattibile, diver- samente e se necessità il richiede valersi dell’ applicazione del forcipe per compiere il parto. Quest’ atto operatorio, del quale ho esibito le prove che riesce gene- ralmente innocuo, od apportatore di lesioni per lo più di poco momento, nol si può, né sì deve confondere con altri procedimenti preparatorii, no; è un atto istantaneo quale efficacemente lo defini il Clinico Belga, che ricordai, e tuttavia anche lo stesso Sig. Dott. Bossi nell’ esordire. Non acconsento con Lui laddove adunque si addimostra troppo fiero oppositore del parto forzato, se il parto non è di qualche maniera dispo- sto, e quando si fa forte dell’ opinione altrui riproducendo, come alla p. 18 della sua Memoria, alcuni brani p. e. dell’ illustre Schroeder, che ho addimostrato invece rimanere di molto modificati riferendoli senza precon- cetti e confrontandoli con altri estratti dal medesimo citato Autore, e pre- cisamente quelli della pagina 254, e come riportai. L’ammettere che il parto forzato non è possibile a collo non preparato, non dilatato, è una troppo recisa condanna che rimane trionfalmente a- brogata dalle storie documentate e dai fatti riportati in passato e partico- larmente dai numerosi sapientemente raccolti nella più volte citata Opera classica del Corradi e dai recentemente occorsi e registrati da valenti ed intemerati Colleghi. Osservo eziandio all’ onorevolissimo Sig. Collega: che anche il Prof. Ti- bone da Lui portato quale oppositore del metodo Rizzoli non lo si può considerare tale ed a prova « ch’ io dirò antica » riproduco quanto ne pub- blico lo stesso Corradi alla pagina 710. « Il Tibone dice che non per facilità e prontezza d’ esecuzione prevale il parto forzato, in donna morta incinta, sul Cesareo, ma bensi per la rapidità con cui può venire intra- preso, non dovendosi perdere un tempo prezioso in ricerche diagnostiche. Merita perciò la preferenza se, incerti sulla morte della donna, lo stato del condotto uterino non rende soverchiamente arduo alla mano e rischioso il passaggio alle fragili membra di feto immaturo ». Colle recenti dichiarazioni poi dello stesso chiarissimo Tibone da me poc'anzi annotate, deve ognuno persuadersi che il Mondo cammina e che le opinioni degli Uomini eminenti si conformano al progredire della Scienza e dell’ Arte, quindi ho tutta ragione di escludere il Tibone dalla nota degli oppositori. In tutte le operazioni dell’ intelletto « dissi nella mia citata Me- moria del parto provocato e del forzato nelle agonizzanti, 1879 », si pro- cede sempre gradatamente e qui lo raffermo. La Scienza non giunge mai di slancio alla conquista di un vero, ma vi perviene movendo un passa dopo l’ altro ; in ciò sta il progresso. — 265 — Finalmente pongo innanzi all’onorevole Sig. Collega di Genova e sempre collo intendimento di addimostrargli che questi accennati mutamenti di idee sì sono avverati nella fattispecie nostra, questa domanda : trova Ella che il celebratissimo Ottavio Morisani dell’oggi in rapporto alla Storia ed alla valutazione del parto forzato, sia lo stesso Morisani, traduttore ed annotatore de]l’ Opera del Braun? Le cose dichiarate ed in gran mag- gioranza accettate, nel suo discorso recitato innanzi l’ Accademia di Napoli e come ne allusi nel contesto di questo mio scritto, le sembrano contrarie al metodo del parto forzato, sempre che speciali contingenze non lo ren- dano impraticabile ? E questo mutamento che m’ auguro, non potrà accadere anche in Lei giovine colto ed operoso di cose Ostetriche, ed alla portata di bene esa- minarle ? A raggiungere questo fine mi permetto ben anco di far considerare all’ egregio confratello che nulla ostante i grandi perfezionamenti che so- nosi fatti intorno al taglio Cesareo, e specialmente dall’ illustre Porro, il quale colla sua ardita innovazione apri agli Ostetrici un campo presso che inesplorato, come risulta da una elaboratissima Opera dell’ esimio Sig. Prof. Luigi Mangiagalli che porta per titolo: « Le più recenti modifica- zioni del taglio Cesareo » pubblicata l’anno 1884 in Milano dalla tipografia Agnelli, riconfermasi sempre dalle esaminate statistiche che 1’ estrazione del feto anche mediante la gastro-isterotomia alla Porro, continuano ad essere molto sconsolanti, e raccomandasi dallo stesso ch. Mangiagalli che si debba senza eccezione alcuna premettere, innanzi di eseguire qual- siasi operazione cruenta, di tentare se é possibile l estrazione del feto dalle vie naturali. Alla pagina poi 198 Cap. IV, dichiara d’essere convinto che l’enucleazione per la vagina può in molti casi anche complicati a contigenze patologiche far evitare il parto Cesareo, e riporta le parole del celebratissimo Fischel; il quale considera che in questi ultimi anni, per la introduzione d’ una scrupolosa nettezza e dell’ anzisepsi nella pratica ostetrica, la prognosi del parto per vias naturales sì è in alto grado mi- gliorata. Si, ben la esamini quest’ Opera stupenda del Mangiagalli, nella quale non so se più debbasi ammirare la paziente e lunganime e ben condotta ricerca di tutte quante le osservazioni Cliniche meglio pregevoli che furono pubblicate fin qui, ed in tutti i maggiori centri scientifici co- nosciuti, e dei più preclari Uomini, e dall’ avere percorsa tutta quanta la letteratura Ostetrica, oppure li maestrevoli e sobrii appunti fatti, pei quali addimostra la più corretta e la più fruttuosa via da percorrersi onde me- glio raggiungere gli intendimenti a cui precipuamente mirar debbono i Chirurghi ostetrici, ossiano: di salvare possibilmente la madre ed il feto, o, se non altro, di togliere di mano alla morte quell’ esistenza che più dav- Serie V. — Tomo IV. 34 — 266 — vicino è minacciata, e cosi rassicurare la tranquillità loro, e rendere meno dolorosa la situazione delle famiglie che incorrono in si gravi calamità. Affermati cosi questi miei voti, compio la disamina sulla Memoria del- l’ oncrevole Sig. Dott. Bossi, osservando che essendo Esso, molto proclive al parto provocato artificiale, consentaneo a sé stesso, pensò e riusci, onde facilitarne |’ attuazione a fare costruire un nuovo dilatatore; il quale potesse tornare di facile applicazione, specie in que’ casi « dice Esso » nei quali dopo avere tentati con ansietà e fatica, i molteplici mezzi finora conosciuti (pagina 21) si vede |’ Ostetrico spirare dinnanzi la paziente col prodotto del concepimento. Si fa indi a descrivere il suo nuovo meccanismo, ne presenta la figura; ne porge le norme per applicarlo secondo le condizioni del collo uterino ; ne mostra il modo d’ agire e le indicazioni sue, e ne lascia scorgere le nuove applicazioni. Infine accenna, alla pagina quarantunesima, i casi pei quali ebbe campo di applicarlo, e furono 41, non che i buoni risultati ottenuti. Mi rallegro coll’ onorevole Collega e desidero che questo suo nuovo dilatatore (movente principale della sua Memoria) possa servire anche me- glio degli altri conosciuti, massime di quello ‘del Tarnier che da lungo tempo va lodato ed è per le mani di valenti Ostetrici, e mi sto contento all’ asserto di Lui e de’ suoi spettabili confratelli, e di buon grado ri- porto l affermazione dell’ egregio giovine Assistente di Guardia Ostetrica permanente di Genova, che nel N. 34 del 4 Dicembre 1893 nella Riforma Medica afferma « che il dilatatore del Bossi è mezzo utilissimo alla pro- vocazione del parto, superiore al metodo di Krause ch’ é lungo e peri- coloso. E tanto più me ne compiaccio di sua buona riuscita perché ri- cordo coll’ illustre Balocchi che, in genere, i processi di dilatazione più o meno forzata (pagina 847) conducono più facilmente degli altri metodi od a convulsioni nel parto, oppure a metriti consecutivi al parto me- desimo ». E qui faccio sosta, perché in questa Rivista storico-critica ho mirato puramente, esclusivamente a ricordare e ad epurare, a tenore di mia possibilita, la Storia nostra del parto forzato che tanto ci onora, ed il feci serenamente e con tutta coscienza, ed intorno ad ognuno degli spettabili Colleghi di cui tenni parola, mi diedi cura di far bene spiccare la parte che loro spetta, e rendere palesi le varie ed utili proposte di applicazioni di questo metoda ; il quale ebbe il suo primo punto pratico di partenza dall’ illustre Rizzoli, ma che il suo primo concetto scientifico nacque col primo Articolo già citato, che posi nel Bu/Mettino nostro delle Scienze Me- diche Vl anno 1859. In esso Articolo v’ è consunstanziato tutto 1’ insieme che apprestò poi motivo ad alquanti valorosi ed illustri Colleghi ad av- ranzare nuove ed utili proposte di applicarlo oltre che nelle morienti, in — 267 — varie malattie organiche, come voglio sperare d’ avere a mano a mano chiarito nelle successive mie pubblicazioni, e nel riportare le affermazioni di altri studiosi ed in affezioni morbose indipendenti dalla gravidanza ; pro- poste che acquistarono ratificazione e furono accolte in pratica, come ap- pare massimamente dall’ Opera classica del Corradi (pur troppo neppur ricordata dal Bossi) e dalle elocubrazioni del Morisani e di parecchi altri egregi come ne porsi indubbie nozioni ed utili accenni pel passato e ne esi- bisco eziandio delle novelle testimonianze in questa compilazione. Alla quale pongo termine raggruppando le principali mie vedute, colle conchiusioni che scendo a vergare, non senza prima rendere aperto all’ o- norevole Sig. Dott. Bossi che in Italia non mancano, né si .ha difficoltà a trovar modo di consultare lavori bibliografici (come me ne fece parola) e tuttavia che non riconosco alcuna ragione plausibile d’ avere Esso di- menticato il mio nome; in quanto che nei libri da Essolui consultati e segnati nel suo Elenco bibliografico, col quale chiude la sua Memoria (ove erroneamente al N. 38 ha ricordato un lavoro del Rizzoli « del parto forzato artificiale istantaneo in sostituzione del taglio Cesareo », del 1855 che non esiste affatto) evvi molte volte registrato onorevolmente se non altro per rispetto alla Storia; la quale non si può, né si deve giammai trascurare. Ora adunque delle conclusioni finali: 1° Il parto forzato ed immediato per le vie naturali può effettuarsi e si effettua con relativa e maggiore facilità e prestezza nelle morte in- cinte e nelle agonizzanti non solo, ma eziandio nelle primipare sebbene il partorire non sia preparato ed esista chiusura del collo uterino; ogni qual- volta però la donna sia ben conformata e non esistano patologiche e spe- ciali concomitanze; 2° che al parto forzato non susseguono, generalmente, inconvenienti apprezzabili, né mi é noto alcun fatto in cui siasi verificata grave e mor- tale emorragia ; 3° che l’ atto operatorio si compie in pochi minuti e non abbiso- gnano apparati e mezzi meccanici speciali, ai quali però si può, e sì deve ricorrere in circostanze determinate, e nei casi nei quali lentamente, o ad epoca stabilita, si vuole ottenere |’ attuazione del parto stesso e per motivi ben considerati ; 4° che la Storia addimostra essere la mortalità dei feti assai minore se estratti per le vie naturali, in confronto dell’ estrazione loro eseguita col taglio cesareo; una estesa Statistica provativa, trovasi spezialmente nella citata Opera del Corradi e se n’ ha una più recente ed autorevole con- ferma nel discorso, varie volte citato, del chiarissimo Morisani. Il quale narra dei felici risultamenti ottenuii col parto forzato eziandio quando non — 2638 — c’era veruna disposizione allo sgravio e, (lo si noti) tanto in gestanti ancor vive, quanto in quelle già defunte. Tali affermazioni trovano pure appoggio in varie delle recentissime Memorie da me esaminate e pur pure nella pre- sente comunicazione ; 5* che l’ applicazione di questo metodo in donne agonizzanti è stato attuato, forse primamente da Rigaudeaux, poscia dal Dott. Giuseppe Pellegrini da Bergamo nel 1837 (nell’ Opera del Corradi sono portati in antecedenza anche altri nomi) indi dall’ Esterle di Trento e poco stante del nostro esimio confratello, il Belluzzi, e che in seguito dei buoni effetti ottenuti, a mano a mano il parto forzato venne praticato in varii casi di malattie dalle quali erano comprese le gestanti e non in rapporto colla gravidanza medesima. SOPRA UN NUOVO PRINCIPIO DELLA bee COTTO, MEMORIA DI GIACOMO CIAMICIAN £ PAOLO SILBER (Letta nella Seduta dell’ 11 Marzo 1894). La casa E. Merck di Darmstadt ci inviò qualche tempo fa un nuovo composto, che era stato rinvenuto nella vera corteccia di « Coto », durante il processo di estrazione e di purificazione della Cofoina. Il prodotto da noi preso in esame aveva l’aspetto di una materia micro- cristallina debolmente colorata in giallo, che fondeva a 66-68°. Si appalesò subito come un nuovo individuo chimico in istato di sufficiente purezza. Tuttavia non lo analizzammo direttamente e trovammo che esso poteva ve- nire facilmente purificato mediante. alcune cristallizzazioni dall’ etere pe- trolico bollente. Da questo solvente si separa per raffreddamento in aghi lunghi e splendenti privi di colore o leggermente colorati in giallo, che fon- dono a 68°. L’ analisi condusse alla formola : C,,H30,, che, come si vedra, venne ulteriormente confermata dallo studio di tutti i suoi derivati. 0,1156 gr. di sostanza dettero 0,3262 gr. di CO, e 0,0500 gr. di 7,0. In 100 parti : trovato calcolato per C,77,0, 27 ss — _ — ss e CM/6,96 76,74 PIMC:A:30 4,65. — 270 — Da un esame superficiale della nuova sostanza potemmo subito avve- derci che essa presentava molte analogie di comportamento con la para- cotoina da noi studiata lo scorso anno, per la quale avevamo proposto con riserva la formola : (CEL) E GELA CHSOE, che si riassume nella espressione empirica : CEHRON Supponemmo quindi che il prodotto inviatoci dalla casa Merck fosse una paracotoina senza il biossimetilene, CH,0,, e tutte le esperienze ven- nero a confermare questa supposizione, la formola : CH, i C,H,0, ’ deve essere considerata perciò come la vera espressione della nuova cotoina. Il lavoro veniva ad essere in questo modo già tracciato perchè erano da applicarsi alla nuova sostanza tutte le reazioni da noi eseguite |’ anno scorso colla paracotoina ®. Prima però di procedere oltre abbiamo voluto assicurarci che la for- mola da noi trovata corrispondesse realmente alla nuova sostanza. Questa da, come la paracotoina, un prodotto di addizione poco stabile coll’ acido bromidrico, che non si può analizzare, ma da cui si riottiene facilmente la materia primitiva. Agitando 1 gr. di sostanza, finamente polverizzata, con 10 c. c. di acido bromidrico, fumante saturato a 0°, avviene prima soluzione, ma dopo qualche istante si separa un composto cristallino, de- bolmente colorato in giallo, che si filtra e si pone a seccare nel vuoto sulla soda caustica. Esso perde spontaneamente acido bromidrico e si tra- sforma a poco a poco in una polvere bianca; per eliminare completamente il primo venne sciolta quest’ ultima in alcool e precipitata con acqua. La materia così ottenuta cristallizza, dopo essere stata seccata, dall’ etere pe- trolico in aghi lunghi, appena colorati debolmente in giallo, che fondono nuovamente a 68°. L’ analisi dette numeri, che confermano la formola già indicata : 0,1618 gr. di materia dettero 0,4542 gr. di CO, e 0,0678 gr. di 7,0. ) Gazzetta Chimica, 23, II, pag. 194. — 271 — In 100 parti : trovato calcolato per C,,/40, A a = <7rrr*e===# C-0-96 76,74 H 4,66 4,65 . Lo stesso comportamento si osserva anche coll’ acido cloridrico fumante; anche in questo acido la nuova sostanza si scioglie, come farebbe una base, dando evidentemente un cloridrato, che però non si separa dal li- quido ; per aggiunta di acqua si riottiene il prodotto primitivo. Questa pro- prietà potrebbe servire benissimo per separarlo da altre sostanze p. es. dalla cotoina, che è insolubile nell’ acido cloridrico. Infine anche il peso molecolare, determinato in soluzione acetica col- l'apparecchio di Beckmann, viene a confermare la nostra formola : Peso molecolare Concentrazione Abbassamento trovato calcolato 7 tm n T_—__ it -—_rn —_ sE SÒ RIE RR] 0,9850 060195 169 172 1,4956 0925 179 Le proprieta del nuovo composto sono le seguenti: nell’ etere, nell’ al- cool, nell’ acido acetico glaciale e nel cloroformio si scioglie facilmente, anche l’ alcool metilico lo scioglie a temperatura ordinaria, a 0° però cri- stallizza quasi tutta la sostanza disciolta ; l’ etere petrolico ne scioglie poco a freddo e non molto a caldo, nell’ acqua bollente fonde e si scioglie dif- ficilmente, per raffreddamento si separa in squamette. Gli alcali caustici sciolgono il composto anche a freddo dando una so- luzione colorata in giallo, lo stesso fanno poi lentamente le soluzioni dei carbonati alcalini; i liquidi cosi ottenuti hanno odore di acetofenone. A caldo la soluzione avviene più pronta in entrambi i casi e lo svolgimento di vapori di acetofenone é più abbondante. Acidificando le soluzioni si ottiene un precipitato giallo amorfo del tutto simile all’ acido paracotoinico. L’ acido solforico non scinde ne altera il nuovo composto; esso si scioglie nell’ acido concentrato a freddo dando una soluzione giallo chiara, riscaldando il liquido si colora maggiormente ma per aggiunta d’acqua il composto si separa nuovamente, mantenendo inalterato il suo punto di fusione. L’ anidride acetica è senza azione sul nuovo composto, lo si riottiene inalterato col punto di fusione a 68°. Ugualmente risultato negativo ottiensi riscaldando la sostanza con acido jodidrico nell’apparecchio di Zeisel. A (Aa Essa non contiene, come la paracotoina, né ossidrili, né gruppi ossimetilici. Derivato bromurato. Questo ed il seguente derivato nitrico furono preparati per confermare vie maggiormente la formola della nuova sostanza che accompagna la Cotoina. Sciogliendo la sostanza (1 gr.) in cloroformio (6 c. c.) ed aggiungendo al liquido raffreddato lentamente bromo fino che questo non viene più assorbito non si separa nulla, ma lasciando svaporare spontaneamente il cloroformio resta indietro un residuo cristallino rossastro. Questo trattato con anidride solforosa ed indi cristallizzato dall’ alcool si presenta in aghi lievemente colorati in giallo, che fondono a 138-139°. La loro composizione corrisponde alla formola : C,;H,Br0,. 0,3046 gr. di sostanza dettero 0,2273 gr. di AgBr. In 100 parti: trovato calcolato per C,,H,Br0, Pr e in ——Tr__ Pr _rTTTTTAA_—_———r—___—_ bre3100 31,87. Derivato nitrico. La paracotoina da facilmente una binitroparacotoina per trattamento col- l'acido nitrico ed uno dei residui nitrici entra senza dubbio nel nucleo aromatico che essa contiene, (CH,0,)- C,H,- C.H,0,, perché é noto che nel radicale piperonilico il residuo nitrico si sostituisce facilmente ad un atomo d’idrogeno. Il secondo gruppo NO, sarà invece con ogni probabilità contenuto nell’ altro complesso C,77,0,. Cosi stando le cose era da aspettarsi che nella nuova sostanza da noi esaminata non entrasse che un solo radicale nitrico per dare il derivato: C,H,- C,H,(N0))0,, perché il radicale benzoico dà meno facilmente composti nitrici. — 273 — L’ esperienza confermò la previsione ; si ottiene realmente un mononitro- composto. Trattando 2 gr. di sostanza con 20 c.c. d’ acido nitrico della densità 1,4 si forma un olio giallastro che a freddo surnuota sull’ acido. Scal- dando avviene prima soluzione completa e poi una reazione vivissima accompagnata da abbondante svolgimento di vapori nitrosi. Per prolungato riscaldamento si forma molto acido benzoico, ciò che prova che nella reazione il radicale aromatico viene risparmiato. Si interrompe perciò lo scaldamento appena terminato lo sviluppo di vapori rossi e si versa il prodotto nell’ acqua. Anche in questo modo però non si impedisce del tutto la formazione di acido benzoico, che rimane sciolto nell’ acqua. Agi- tando la soluzione acquosa si separa tosto un precipitato fioccoso, giallo, che si fa cristallizzare ripetute volte dall’ acido acetico glaciale. Da questo solvente il composto mononitrico si separa in tavolette a sezione rombica, che fondono a 161°. L’analisi confermò la formola preveduta : C,,H,(N0))0,. 0,1768 gr. di sostanza dettero 9,6 c. c. d’ azoto, misurati a 12°,5 ed a 764,8 mm. In 100 parti. trovato calcolato TT _— er o —1 N 6,48 6,45. Azione della fenilidrazina. La fenilidrazina agisce sulia nuova sostanza in modo perfettamente corrispondente al suo comportamento colla paracotoina. Se si riscalda con un eccesso del reattivo in un tubo d’ assaggio per circa due minuti in un bagno metallico, si elimina acqua ed il colore della soluzione si fa sempre più chiaro. Il prodotto sciolto nell’ acido acetico glaciale da coll’acqua un precipitato fioccoso, che dall’ alcool cristallizza lentamente in aghetti finis- simi bianchi, che fondono a 198°. La formola del composto è C,,H,,N,0. Serie V. — Tomo IV. 35 — 274 — I. 0,1258 gr. di sostanza dettero 0,3426 gr. di CO, e 0,0728 gr. di 7,0. II. 0,1078 gr. di sostanza svolsero 13,8 c. c d’ azoto misurati a 12°,3 ed a 756,6 mm. In 100 parti: trovato calcolato Pri A _ sn - i — ss _ I Il. C 74,26 —— 74,06 H 6,43 —— 9,95 N —— YZ: 15313" La sua formazione può essere interpretata nel seguente modo: C,,H,0, + 2C,H,N,H,= H,0 + C,y3H,,N,0, la sua composizione corrisponde a quella del derivato della paracotoina, che ha la formola: 03, H,, N, O, 5 Anche l’ anilina reagisce a caldo sulla nuova sostanza formando un composto, che cristallizza nell’ alcool in aghetti fusibili verso i 143°. Azione della potassa. Bollendo la paracotoina con gli alcali caustici si forma il sale d’ un acido amorfo e nello stesso tempo per parziale decomposizione si svol- gono dei vapori d’ un chetone volatile, che noi abbiamo riconosciuto es- sere l’ acetopiperone, (CH,0,)- C,H,. CO. CH,. Per fusione con potassa si ottiene invece |’ acido piperonilico, (CH,0,)- C}H,. COOH. Dalla nuova sostanza erano, secondo la nostra interpretazione della sua formola, da aspettarsi prodotti di decomposizione analoghi, cioé: acetofe- none ed acido benzoico. Cosi avviene difatti. Distillando in corrente di vapore acqueo una solu- — 275 — zione di 2 gr. di sostanza in 20 c. c. di potassa al 20 pcto, passa, assieme all’ acqua, in piccola quantità, un olio, che ha distintamente l’ odore del- l’ acetofenone ; estraendo il distillato con etere si ottiene un residuo oleoso, che dà coll’ acetato di fenilidrazina un composto cristallino, il quale puri- ficato dall’ alcool fonde a 105°. Tale é appunto la temperatura di fusione dell’ idrazone dell’ acetofenone indicata nel trattato del Beilstein. La soluzione alcalina, che resta indietro, contiene, come già dicemmo, il sale d’ un acido, che per le sue proprietà somiglia moltissimo all’ acido paracotoinico descritto da Iobst e Hesse. Pur troppo esso presenta la stessa difficoltà nella sua purificazione. Acidificando il liquido, che ha un colore rosso-bruno, si forma tosto un precipitato amorfo, fioccoso, colo- rato in giallo, che non siamo riusciti ad ottenere allo stato cristallino. Fondendo 1 gr. della nuova sostanza, proveniente dalla vera corteccia di Coto, con 5 gr. di potassa, si forma da principio un liquido rosso-bruno, che a poco a poco prende un colore giallo chiaro; trattando con acqua ed estraendo la soluzione acidificata con etere si ottiene una materia cri- stallina, che ha tutte le proprietà dell’ acido benzoico. Dal comportamento della nuova sostanza colla potassa acquosa appa- risce che essa, come la paracotoina, si comporta come un /attone, perché per trattamento con gli alcali si trasforma in gran parte in un acido. Questo molto probabilmente avrà tendenza a polimerizzarsi, cosi almeno si potrebbero spiegare le sue proprietà. Tale facoltà la possiede del resto anche il composto primitivo come lo prova 1’ Azione dell’ acido cloridrico. Scaldando 4 gr. di sostanza in soluzione di 20 c. c. d’ acido cloridrico fumante in un tubo a 110°, sì osserva che parte della materia dopo il ri- scaldamento s’ é separata dal liquido, colorato debolmente in giallo, in forma di una resina brunastra a cui sono frammisti dei cristalli. Il liquido contiene in soluzione gran parte della sostanza inalterata, che si separa per trattamento con acqua, ma i cristalli sono un nuovo corpo che ha però la stessa composizione della materia primitiva. Dopo avere tolta la soluzione cloridrica, si tratta la massa, che resta indietro attaccata alle pareti del tubo, con alcool il quale scioglie a freddo soltanto la resina lasciando indietro la parte cristallina. Questa viene poi sciolta in alcool bollente, da cui si separa per raffreddamento. Ripetendo le cristallizzazioni dall’ alcool e facendolo in fine cristallizzare dall’ acido acetico glaciale, si ottiene un prodotto perfettamente bianco, che fonde a 214° ed ha la stessa composizione della sostanza naturale. = 276 — 0,1819 gr. di sostanza dettero 0,5130 gr. di CO, e 0,0796 gr. di 7,0. In 100 parti : trovato calcolato per C,, 750, o rr T_—____ssssr — ——=tn_° ____T Cao: 92 76,74 H 4,86 4,65 . Tenendo conto dell’ elevato suo punto di fusione e della sua poca so- lubilità in quei solventi in cui la sostanza primitiva si scioglie facil- mente, non è da dubitarsi che si tratti di un polimero della semplice for- mola C,40, . A noi per ora non interessava lo studio ulteriore di questo composto. Azione del joduro metilico in presenza di potassa. La grande analogia del nuovo composto, rinvenuto nella corteccia di Coto, colla paracotoina si svela segnatamente nel suo comportamento col joduro di metile, perché in questo modo si ottiene una sostanza che cor- risponde perfettamente alla dimeti[paracotoina, massime nella sua scissione con gli alcali caustici. Noi abbiamo trovato l’ anno scorso che la paracotoina, sebbene non contenga ossidrili liberi, dà per azione del joduro di metile in presenza di potassa in soluzione di alcool metilico la dimeti[paracotoina, in cui i due metili sono attacati a carbonio : (CHLOlCEL'CHTIACRBICHC(CEHNIIO Quest'ultima sostanza si scinde poi per ebollizione colla potassa in modo da dare un composto volatile, l’ omoacetopiperone, a cui spetta assai pro- babilmente la formola : (CH,0;)- C,H,- CO- CH,- CH,. In modo del tutto corrispondente si comporta la sostanza di cui ci oc- cupiamo in questa Memoria. Anche essa dà un composto bimetilato, CHCHO i CELIO, dal quale, come era da prevedersi, si ottiene per scomposizione con gli — 77 — alcali 1’ efi/fenilchetone, C,;H,-.CO-CH,-.CH,, descritto per la prima volta da W. Kalle. La formola dell’ omoacetopiperone di Angeli riceve così indirettamente - una nuova conferma. Per preparare il composto bimetilato noi abbiamo riscaldato a b. m. in un apparecchio a ricadere munito d’ una colonna a pressione di mer- curio di circa 40 cm., 5 gr. di sostanza con 10 gr. di potassa deacquifi- cata, sciolti in 25 c.c. d’ alcool metilico, e 25 gr. di joduro di metile. Dopo il riscaldamento si trova che la soluzione ha perduto il suo colore giallo intenso e che s’é separato joduro potassico. Distillando 1’ alcool metilico e l’ eccesso di joduro di metile resta indietro un residuo resinoso, che si lava con acqua e si spreme fra carta per eliminare una sostanza oleosa, che esso contiene in piccole quantità. Il prodotto solido cosi ottenuto, seccato sull’ acido solforico, cristallizza facilmente dall’ etere petrolico in aghi lunghi, debolmente colorati in giallo, che fondono a 100-101°. Le analisi corrispondono, come s’ é detto alla formola : CH O, 3 I. 0,2114 gr. di sostanza dettero 0,6054 gr. di CO, e 0,1144 gr. di 7,0. II. 0,1896 gr. di sostanza dettero 0,5407 gr. di CO, e 0,1051 gr. di H,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,,7,0, -T —__-v->-_-T,r._. rr er-————___— _ _ I II. Co 310 (8 78,00 H 6,01 6,16 6,00 . Il rendimento di questo nuovo corpo é soddisfacente, lo si ottiene in quantità uguale a quella della sostanza impiegata. È solubile facilmente nel- l’etere, nell’ alcool, nel benzolo si scioglie pure nell’ acido acetico glaciale e nell’ etere petrolico bollente, nell’acqua è assai poco solubile anche a caldo. L’ acido solforico concentrato Jo scioglie con colorazione gialla; diluendo con acqua la sostanza torna a separarsi inalterata. Gli alcaii lo scindono a caldo formando, come s’ è già accennato, l’ e- tilfenilchetone. A questo scopo si bollono a ricadere p. es., 4 gr. del com- posto bimetilato con 100 c. c. di liscivia di potassa al 20 pcto.; la sostanza — 278 — fonde e mentre il liquido si colora in giallo sì svolgono vapori di reazione aldeidica, che in parte sfuggono dal refrigerante. Distillando poi in cor- rente di vapore acqueo passa assieme a questo un olio aromatico. Estraendo con etere si ottiene un liquido, che, debitamente seccato, bolle quasi com- pletamente fra 212° e 216°. Il punto di ebollizione del prodotto e a 215°,5; posto nel ghiaccio si solidifica in tavolette senza colore, che fondono a 20-22°. Tutte queste sono proprietà dell’ etilfenilehetone, descritto da W. Kalle e da Freund ©. L’ analisi della porzione che bolliva esattamente a 215°,5 dette numeri conformi alla formola: C.H\C0VCE.HS 0,2352 gr. di sostanza dettero 0,6942 gr. di CO, e 0,1598 gr. di 4,0. In 100 parti : trovato calcolato per CH,0 LTT —_s — —_—_;sg Ty —"__—__ Cd 30,49 80,59 Eli 7,95 7,46. Nel liquido alcalino rimangono disciolte piccole quantità di una sostanza acida, che si ottiene acidificando la ‘soluzione ed estraendo con etere. Questo prodotto non venne ulteriormente studiato. Questi sono i principali risultati dei nostri stud) sul nuovo composto che accompagna la Coftoina. Essi dimostrano prima di tutto che esso è una sostanza molto simile alla Paracotoina e perciò crediamo che le for- mole da noi attribuite a questi due corpi vengano reciprocamente a con- fermarsi. Se però dalle formole empiriche si passa a quelle di struttura le difficoltà che sì incontrano nella soluzione del problema sono naturalmente maggiori e noi non osiamo affermare d’ averle per anco superate. Tuttavia sebbene non sia possibile per ora stabilire con certezza la costituzione delle due sostanze in parola, pure crediamo, che quanto stiamo qui esponendo, pos- sieda un certo grado di probabilità. Per questa ragione ci siamo astenuti di dare un nome speciale al nuovo principio da noi studiato : i nomi em- pirici non servono ad altro che a rendere più complicato {l' elenco dei corpi che si rinvengono in natura; abbiamo perciò creduto di poterne far senza, sperando che la costituzione che noi attribuiamo alla nuova so- i) Beilstein. Handbuch der organischen Chemie, Bd. III, 79. — 279 — stanza venga confermata dagli studj ulteriori ed il nome che ne deriva le sia realmente appropriato. Comune alla paracotoina ed alla nuova sostanza è, come s’ é visto, il * nucleo: C.H7,0,, di cui è sconosciuta la costituzione, CHGHO; (CHO) GH-CHo, TY_—__ sg Pr — on. Tr se — ton.) nuovo corpo paracotoina CI l’altra parte delle loro molecole é indubbiamente determinata nella sua struttura. Ora, se sì pone mente che il detto residuo contiene evidente- mente un legame lattonico, che esso, sebbene non saturo, dà dei prodotti di addizione assai instabili e forma invece derivati per sostituzione tanto col bromo che col residuo nitrico, si può supporre che il complesso C,77,0, sia costituito in anello come nella cumalina. I due composti sarebbero in tal modo derivati cumalinici ed avrebbero le seguenti formole di struttura : CH CH HC CH HC CH ©RHESE CO (CEROCHESC CO 5 (8, 4) (1) 7 eso a paracotoina Il nuovo composto sarebbe perciò da chiamarsi fenileumalina, la para- cotoina, come già abbiamo accennato in altra Memoria, verrebbe ad essere la biossimetilenfenilcumalina. Le proprietà dell’ anello cumalinico sono state studiate segnatamente da von Pechmann %, da Hantzsch ® e da Anschùutz © assieme a P. Bendix e W. Kerp, ma disgraziatamente la reazione principale dei derivati cumalinici, cioé la loro trasformazione in corpi della serie piridica, non poté essere effettuata nel nostro caso. La nostra sostanza - fenilcu- malina - avrebbe dovuto dare il fenilpiridone, ma tutti i tentativi fatti in proposito ci hanno dato finora risultati negativi. Ci conforta a questo ri- guardo però il fatto, che non tutti i derivati cumalinici sì trasformano in ( Vedi ad esempio: Liebigs Annalen: 261, pag. 190; 264, pag. 261; 273, pag. 164. (2) Ibid: 222, pag. 1. (3) Ibid: 259, pag. 148. — 280 — piridoni con uguale facilità, anzi la cumarina, che fino ad un certo punto può compararsi alla fenilcumalina, non dà il corrispondente derivato chi nolinico, il carbostirile : : CH @Hi CH HC CH C;H, CO CHESG CO O O TT_ = TP n Cumarina Fenilcumalina Noi abbiamo tentato anche la trasformazione della nostra sostanza nell’ etere del corrispondente ossiacido, seguendo il processo applicato da Pechmann "” all’ acido cumalinico, ma senza frutto. Lasciando abban- donata a se stessa per molti giorni una (soluzione della fenilcumalina in alcool metilico, saturato a 0° con acido cloridrico, si riottenne per tratta- mento con acqua inalterato il composto primitivo. La saponificazione del lattone avviene, come s’é gia detto, facilmente con gli alcali, ma l’ acido che si forma é molto probabilmente polimeriz- zato, esso é amorfo e poco si presta ad uno studio ulteriore. Non avendo potuto ottenere né con la nostra nuova sostanza, né colla paracotoina una diretta dimostrazione della natura cumalinica di questi corpi, abbiamo cercato di vedere se qualche derivato della cumalina mo- strasse un comportamento simile alle sostanze :da noi studiate. Queste ul- time, come ce’ è noto, hanno la rimarchevole proprietà di trasformarsi per azione del joduro metilico in presenza di potassa in derivati della stessa natura chimica, ma che contengono due metili in luogo di due atomi d’ idrogeno. Un analogo contegno lo abbiamo riscontrato nel cosi detto mesitenlat- tone o meglio dimetilcumatlina, C- CH, HC CH CH,-C CO 0) ) (1) Liebigs Annalen der Chemte, vol. 273, pag. 171 — 281 — mentre invece l’ etere metilico dell’ acido cumalinico e la cumarina non ci dettero il risultato desiderato. Il mesitenlattone si trasforma in un com- posto metilato, che dovrebbe essere la #rimetileumalina, in cui naturalmente resterebbe indeterminata la posizione del terzo gruppo metilico. Il mesitenlattone venne preparato seguendo le indicazioni di Anschùtz, Bendix e Kerp © per distillazione dell’ acido isodeidracetico; 8 gr. del lattone vennero poi riscaldati in soluzione di 45 c. c. d’ alcool metilico con 14 gr. di potassa deacquificata e 45 gr. di joduro di metile, come si fece colla fenileumalina. Il liquido, che da principio è colorato in giallo, perde dopo il riscaldamento ogni colore; svaporando il solvente si ottiene un residuo solubile nell’acqua, da cui l’ etere estrae una sostanza oleosa, che in parte si solidifica. I cristalli, separati per filtrazione dall’ olio e spremuti fra carta, sono solubili nell’ acqua bollente, per raffreddamento si separano aghi lunghi, che riempiono tutto il volume occupato dalla soluzione. Con- tengono acqua di cristallizzazione e fondono a 45-46°, la sostanza deacqui- ficata fonde invece a 74°. Il mesitenlattone (dimetileumalina) ha un punto di fusione più basso: 51°,5. La determinazione dell’ acqua di cristallizzazione condusse alla formola: (AOSTA 0,2790 gr. di sostanza, seccata fra carta da filtro, perdettero, stando nel vuoto sull’ acido solforico , 0,0774 gr. di 4,0. In 100 parti: trovato calcolato per C;H,0, +3H,0 27 —al 5 T_—_—_6m 6 lane» see, HO 27,74 28,12. 0, 1394 gr. di sostanza, seccata nel vuoto sull’ acido solforico, dettero 03958. gr. dll CO Ne 10,091 gr. (divi. In 100 parti; trovato calcolato per C,H,9, SP —. _—_ 9 CY CAR 09.61 69,57 Hi oi 7,20. () Liebigs Annalen der Chemie, vol. 259, pag. 154. — Vedi anche A.Hantzsch ibid. 222, pag 16. Serie V. — Tomo IV. 36 — 282 — Il nuovo composto ha un odore aromatico caratteristico, nell’ acqua si scioglie dando una soluzione neutra. E assai probabile ch’ esso sia una trimetilcumalina della formola : C,H(CH,),,0,, in questo caso la dimetileumalina mostrerebbe un comportamento analogo alle sostanze ricavate dalle corteccie di Cofo, essa darebbe col joduro me- tilico e potassa un derivato metilato, mentre le ultime danno derivati, bimetilati. Tenendo conto di tutti i fatti esposti ci sembra abbastaza probabile che la paracotoina e la nuova sostanza da noi descritta in questa Memoria. abbiano realmente la costituzione chimica, che noi loro attribuiamo. Per ultimo vorremo aggiungere qualche osservazione sulla dicotoina di Iobst e Hesse, che secondo questi autori accompagnerebbe anche essa. la cotoina nella vera corteccia di Cotzo. La dicotoina sarebbe un anidride della cotoina, 2Co9H 30; — H,0= CAELOS ’ e si trasformerebbe in quest’ ultima per ebollizione con acqua. Tenendo ora conto di quanto noi abbiamo trovato, tutto ciò non sembra assai pro- babile e fa nascere il dubbio che 1’ esistenza della dicofoina non sia ancora. sufficientemente provata. Iobst e Hesse non hanno certamente avuto puro il prodotto ch’ essi chiamano dicotoina e non è improbabile che questa sostanza non sia altro che un miscuglio di cotoina e del composto descritto in questa Memoria. Con tale supposizione starebbe in accordo la composizione della dicotoina ed anche il suo punto di fusione, che i citati autori trovarono fra 74 e 77°. Con ciò noi non intendiamo emettere sulla dicotoina un giudizio definitivo ed insistiamo su questo punto per togliere al Sig. Hesse ogni pretesto di risposta o giustificazione che non sia accompagnata da nuovi fatti vera- menti dimostrativi. Bologna, 1° Marzo 1894. SU:ld Ass COMPOSIZIONE CONDILI OCCIPITALI NELLE VARE GLASSI DI VERTEBRATI SULL'OMOLOSIA DEL TERZO CONOILO OCCIPITALE DELL'UOMO CON IL CONDILO OCCIPITALE UNICO DEGLI UCCELLI E DEI RETTILI NO'LA DEL EROE CASETTE ACCOMPAGNATA DA UNA TAVOLA (Letta nella Seduta del 25 Febbraio 1894). Tutti sanno che la composizione dei condili occipitali dell’uomo e dei mammiferi è per quattro parti od elementi ossei, due per ciascun condilo, uno contribuito dall’ occipitale basilare o corpo della vertebra occipitale, l’altro dall’ occipitale laterale, od arco vertebrale. Le due parti sono ben distinte nel feto, ed anche dopo la nascita fino ad una certa età, e sono riunite da prima per sincondrosi ed in fine per sinostosi. I due condili che ne risultano, tengono i lati del grande forame occipitale più o meno in avanti, e distano più o meno fra loro con la estremità anteriore od infe- riore, e possono essere molto vicini; di che si hanno esempi già nei mammiferi (Camello, Antilope, Monotremi). Cotesto avvicinamento, va se- condo che pare, di conserva con notabile loro grandezza, o vero con non troppa larghezza dell’ occipitale basilare, ed è passo alla coalizione e con- fusione loro in un condilo unico quale si trova negli uccelli e nei rettili eccetto i Batrachi, Rane, Salamandre, Cecilie ecc., se però queste ultime non vogliansi avere per Ofidi nudi come certi naturalisti e G. Cuvier le qualifica (1), i quali batrachi hanno due condili ben distinti e grandi. Si fatta eccezione non è poi solo solo di questi rettili, ma di altri vertebrati infe- riori, cioé di alcuni pesci cartilaginei : di che fia più oltre trattato e discusso. È dettato che i condili occipitali dei Batrachi siano semplici pertinenze (1) Régne animal, édition accompagnée des Planches gravées ecc. Reptil Texte, pag. 133 e segg. — Atlas PI. 36ter, — 284 — degli occipitali laterali, o siano, come dicono, portati semplicemente da. questi, e che alla loro composizione nulla può contribuire l’ occipitale basi- lare, siccome quello che manca, mancanza di esso loro caratteristica (1). Questa eccezione è generalmente ammessa dagli Anatomici anche recen- tissimi (2), ed è eccezione molto forte; imperocché negli altri vertebrati l’occipitale basilare entra nell’ articolazione occipito-vertebrale o nella com- posizione dei condili, ed anche da solo può formare il condilo : di che tro- vansi prove negli uccelli ed altresi nei pesci ossei. Infatti, scrive Cuvier (3), nella Fistularia tabacaria e nell’ Aulostoma chinese, non che nella Centrisca. e nell’ Anfisile l’occipitale basilare in cambio di essere posteriormente cavo è pieno e convesso, e forma un condilo simile a quello dei rettili squamosi. La quale similitudine non mi fa troppo capace, essendo il condilo unico di questi rettili non cosi semplice, ma di più parti composto. E per fermo nei pesci mentovati alla composizione dell’unico condilo non concorrono punto gli occipitali laterali, i quali nei rettili squamosi prendono parte a quella com- posizione. Ed in molti pesci ossei occorre altrettanto, e le parti o faccette articolari contribuite dagli occipitali laterali e dall’occipitale basilare formano una cavità avente un forame nel mezzo, la quale suol essere conica, e si unisce con altra simile della prima vertebra, venendone così un’ unica biconica comune, riempiuta dalla porzione dilatata corrispondente della corda dorsale. Non saprebbesi dire il medesimo rispetto a’ pesci cartilaginei per ragioni di struttura ben cognite, che io perciò mi dispenso di qui ad- durre; ma la loro cartilagine cefalica o craniense, si certamente con la porzione che corrisponde all’ occipitale basilare, sì unisce alla colonna ver- tebrale, e quest’ unione, da alcune eccezioni in fuori, è immobile: di che potrà chiunque trarre facilmente prove irrefragabili da due pesci cartila- ginei comuni appo noi, l’Acipenser sturio, e lo Squalus canicula. Finalmente l’unico condilo degli uccelli é secondo Cuvier (4) formato per la mas- sima#parte dall’ occipitale basilare, ‘e’ Pierrier scrive Op cità @pag88903 « condyle occipitale porté par le basi-occipitale », trattando dell’ articola- zione cranio-vertebrale degli uccelli, e adducendo ad esempio la Meleagris. Mexicana. Su di che mi fermerò esaminando particolarmente 1’ unico loro condilo. Per le quali tutte cose é manifesto che l’ intervento dell’ occipitale basilare nella composizione dei condili è come a dire continuo a petto di quello degli occipitali laterali, che certamente non di rado manca nei pesci, (1) Vedi G. Cuvier, Legons d’Anat. comp., Troisième édition, Tome premier, Bruxelles 1836, pag. 367. (2) Fra gli altri vedi E/em. d’Anat. comp. par Remy Perrier, Paris 1893, pag. 896. (3) Legons, Tomo cit. pag. 388. (4) Huitième legon, pag. 274. — 285 — ed aggiugniamo anche negli uccelli, e che perciò l’ eccezione vuolsi facciano i Batrachi è veramente grande. Io ho consultate le figure dei crani de’Batrachi date da Cuvier nel- l'Opera sulle ossa fossili, figure riprodotte nell’ A/ante dei Rettili del Regno animale (1), e par bene che non vi habbiano che gli occipitali laterali for- manti o portanti i condili e prolungantisi nella base craniense dove ven- gono a contatto (Salamandra acquaiuola o cristata) lasciando una rima fra loro, in cui s’ insinua nella Salamandra terrestre e nell’ Axolotl una por- zione del corpo sfenoidale che va fino al grande forame occipitale, e del pari nella Salamandra gigante Barton (Menopoma), ove la detta porzione di corpo sfenoidale giunta al detto grande forame tiene una faccetta con- cava per l’articolazione della testa con la prima vertebra (2). Sarebbe mai che quella porzione fosse pertinenza dell’ occipitale basilare anchilosatasi con il corpo sfenoidale o non individuatasi ? Del resto la rima divisata non sempre apparisce, e nella Figura che Cuvier dà della base craniense della grande Salamandra dell’ America settentrionale (Menopoma Alleganiensis, Harlan) non è rappresentata, né io la veggo ne’ preparati che ho sott’occhi di Batrachi comuni (Rana Bufo Fig. 1* e Salamandra acquaiuola o cri- stata Fig. 2°). Pare che in questi due Batrachi siavi proprio l’ occipital ba- silare saldato già agli occipitali laterali, se voglia prendersi la porzione ossea a Fig. 1%, Fig. 2*, come tale, e per tale ne inviterebbe a prenderla l’ essersi trovato nel Bufo Marinus, secondo che nota Stannius (3), un piccolo occipitale basilare osseo affatto separato o individuato, e cosi pure nella Pipa e nel Proteo, secondo che pone G. F. Meckel (4), ed in fine anche i casì di occipitale basilare cartilagineo contiguo o continuo con l’in- crostazione cartilaginea dei condili, se però così fatto basilare non potesse avere la significazione di legamento intervertebrale. E se il vedere non mi ha sconciamente illuso, esso occipitale basilare nella Rana Bufo contribuisce una particella esiguissima 6 Fig. 1* alla composizione dei condili. Ma pas- sando a considerare la grande estensione degli occipitali laterali nella base nasce l’idea in essi pur si contenga l’ occipitale basilare, che è rimasto indi- stinto, come nel cranio primordiale, e questa supposizione riceve conforto dall’ essere gli occipitali laterali processi o produzioni dell’occipitale basilare, siccome ne induce a pensare la cartilagine crociforme, o a similitudine di una X rinchiusa nel corpo vertebrale di certi pesci ossei (Esox Lucius), (1) Recherches sur les ossemens fossiles, édition in 4°, Tome V, 2° partie, Tav. XXV-XXVI- XXVII e Régne animale, édition cit. PI. 40, 41bis, 42. (2) Legons, Tomo cit. pag. 370. (3) Nouveau Manuel d’ Anat. comp. par M. M. C. Th. de Siebold et H. Stannius, Tome deu- xiéme, « Animaux vertébrées ecc. » Paris 1850, pag. 165. (4) Traité gener. d’ Anat. comp. Tome deuxième, Paris 1828, pag. 688, 89. — 286 — dalle estremità delle due aste della quale prolungansi superiormente gli archi costituenti l’anello vertebrale o nervoso, ed inferiormente gli archi viscerali o vascolari (1). Io non so se queste ragioni mi verranno menate buone o se verranno reputate alla circostanza; ma comunque sia, esse mi hanno tenuto, e mi tengono tuttavia perplesso ad accogliere il dettato di Cuvier che nei Batrachi manchi al postutto l’ occipitale basilare, o che nella com- posizione dei condili non entrino che gli occipitali laterali. E qui parmi luogo opportuno di prendere in considerazione la duplicità dei condili occipitali ammessa dagli Anatomici in certi pesci cartilaginei esaminandone la conformazione e la composizione in rapporto con la con- formazione e la composizione di quelli dei Batrachi, o vero se in essa entri si o no, e con piena certezza, l’occipitale basilare. Tali pesci appartengono al gruppo dei Plagiostomi, e sono le Chimere e le Raje. Per tale bisogna io non ho potuto giovarmi che della Raja clavata, ed ecco quanto mi é venuto di osservare. E primieramente quelli che gli autori chiamano con- dili, non hanno nella detta Raja la forma di semplici condili come nelle Rane e nelle Salamandre, ma di superficie articolari sigmoidee Fig. 3°, for- mate da un condilo interno a, e da una doccia o cavita glenoidea esterna è terminata da una crestolina ec leggiermente rilevata che a prima giunta direbbonsi troclee, meglio però superficie articolari sigmoidee paragonabili alla cavità glenoide unita al condilo della radice trasversa dell’ apofisi zigo- matica del temporale umano; superficie situate l’ una da un lato, l’ altra dall’altro lato del grande forame occipitale, separate da uno spazio inter- condiloideo, o vero intersigmoideo piuttosto ragguardevole. A queste due superficie articolari occipitali corrispondono due altre superficie articolari concavo-convesse e sigmoidee della vertebra retroposta Fig. 3°, però disposte inversamente, siccome quelle che portano il condilo f esternamente, e la cavità glenoidea g, internamente, la quale riceve il condilo occipitale; in mentre che la cavità glenoidea posta all’ esterno di questo riceve il condilo della detta vertebra, e tali superficie articolari sigmoidee di esso lei stanno, ben s’ intende, come le due ampie cavità glenoidee dei Batrachi poco sopra nominati. Se non che oltre queste due articolazioni cranio-vertebrali late- rali ne ha una terza media che scevera la Raja al postutto dai Batrachi, e l’accosta ai Rettili squamosi ed agli Uccelli, ed avviene per un lato me- diante una cavità glenoidea doppia d, Fig. 3°, avente per separazione un piccolo sprone e, la quale cavità trovasi subito al di dentro del segmento inferiore angoloso del grande forame occipitale, e per l’altro lato mediante un doppio condilo portato da un processo della vertebra retroposta sud- (1) Vedi Gegenbaur, Manuale di Anat. comp. tradoito in italiano dal Prof. C. Emery. Na- poli 1882, pag. 497, Fig. 223 — 287 — detta’ Fig. 3°. Questa vertebra é foggiata a canale o a tubo, fornita di un robusto processo spinoso portante nell’apice una bella epifisi, ed è priva di corpo, e il tubo nella parte od estremità anteriore é tagliato a somiglianza di penna da scrivere superiormente aperta, la quale a’ lati della punta ha le due cavità sigmoidee sopradette, e nel largo finisce in due condili & se- parati da un solchetto i, e descriventi insieme uniti un semicircolo, insi- nuato dentro il grande forame occipitale, ed articolato con la doppia cavità glenoidea o le due cavità glenoidee d, poste dentro dalla sua parte infe- riore nell’occipitale basilare. In questa doppia articolazione cranio-verte- brale media ha certamente l’ intervento di quella porzione della cartilagine cefalica, corrispondente all’ occipitale basilare: ma delle articolazioni cranio- vertebrali laterali si può egli dire altrettanto ? Parmi che no; imperocché non essendo distinte o individuate nella cartilagine craniense o cefalica le parti componenti l’ occipitale, non si può dire con sicurezza, se o solo gli occipitali laterali, come a prima giunta parrebbe, od anche l’ occipitale basilare entri nella composizione di quelle superficie articolari sigmoidee craniensi. Laonde qui pure ci troviamo nelle dubbiezze nelle quali siamo stati rispetto ai Batrachi circa tale argomento, e nulla, ben s’ intende, n’é venuto di luce circa l’ esserci o non esserci nella composizione de’ loro condili l’occipitale basilare, o più convenientemente colle premesse circa l’ esserci o non esserci questa porzione dell’osso occipitale. Ma negli altri rettili l’ occipitale basilare fuor d’ogni dubbio esiste, ed entra nella composizione dell’ unico loro condilo, che già Cuvier ne’ Che- loni disse composto di tre tubercoli, chiamati condili da Carus, l’infe- riore dei quali tubercoli che é medio ed impari, è formato dall’occipitale basilare, ed ì superiori che sono laterali, dagli occipitali laterali, tubercoli riuniti fra loro per un’articolazione a Y rovesciata (1). Lo stesso Cuvier trattando del condilo occipitale de’ Sauri dice che esso é formato quasi per intero dall’occipitale basilare (2), e rispetto agli Ofidi squamosi nulla ne dice; ma Carus nota che il condilo è talvolta « muni de trois facettes articulaires (3) ». Stannius però è quello che ha generalmente assegnato all’ unico condilo non solo degli Ofidi, ma e de’ Sauri tre tubercoli, come ne’ Cheloni (4). La quale triplice composizione dell’ unico condilo occipitale nei rettili divisati é certamente indubitabile, e chiunque n’ habbia preparato qualche cranio, ne sarà sicuramente testimonio. Se non che alcuno potrebbe dire esserci delle eccezioni, ma oltre che il generalmente non le esclude, (1) Leeons, Tome premier, pag. 350. (2) Lecons, Tomo cit., pag. 356. (3) Traité elem. d° Anat. comp. Tome premier, Paris 1835, pag. 189. (4) Op. cit. Tomo cit., pag. 169. — 288 — il Wiedersheim potrebbe rispondere, che qualora il condilo apparisse semplice, dovrebbe nondimeno essere considerato composto di tre parti (1). L’occipitale basilare è nei tre detti ordini di rettili stretto al grande forame occipitale, dove forma il tubercolo medio od impari quando sottoposto, quando frapposto ai tubercoli laterali, menati già dagli occipitali laterali, come fu detto. Il tubercolo medio od impari é l’omologo delle due porzioni ossee contribuite dall’ occipitale basilare alla composizione dei condili occi- pitali dell’uomo e dei mammiferi, e ciò è provato dal trovarsi non di rado doppio, o per intero, o vero in gran parte. Questa duplicità mi é occorsa la prima volta preparando il piccolo cranio di un Crocodilino del Nilo, (Crocodilus vulgaris C.) lungo poco più di 24 centimetri. La superficie, onde l’unico condilo si articola con la prima vertebra della colonna Fig. 5*, ritrae da quella onde l’occipitale di non pochi pesci ossei si articola con la me- desima vertebra, e siane esempio quella della Solea comune, che vedi ritratta dalla Fig. 4*. Paragonando le due citate Figure si ha la convinzione di ciò; e si vede che nel Rettile la porzione a é corrispondente alla porzione a della Solea, salvo che in questa é dessa concava, laddove in quello è piana; la quale pianezza potrebbe ricordare quella del tubercolo inferiore o medio od impari del condilo occipitale unico di una Testudo Cauana adulta, il cranio della quale ebbi 32 anni sono da un carissimo amico ahi! troppo presto rapito alla scienza, il Prof. Filippo Carli di sempre cara ed onorata memoria presso chiunque habbia in pregio il gentil costume ed i buoni studi. E pare che tale pianezza habbia rapporto di causalità con lo stato della cartilagine che la copre, la quale se fresca fa che il tubercolo riesca rilevato e tondeggiante, ma seccandosi fa che si ab- bassi e si appiani, come ho veduto in altre specie di testuggini certo non vecchie, ed altrettanto se levata o distrutta, donde sembra potersi conget- turare avere quella Cauana, tutto che adulta, dovuto essere forse stata non di gran tempo; la quale cagione, se mal non mi appongo, credo possa essere pure stata la medesima che ha prodotta la pianezza della porzione media ed inferiore del condilo occipitale unico del Crocodilino; se non che superiormente nel Crocodilino ha un solco che la divisa in due, il quale solco nella Cauana, come in altre, non apparisce: ma negli individui gio- vanissimi convien ammettere che tale segno di divisione del tubercolo infe- riore od impari in due generalmente esista; poiché l’ ho trovato in una pic- cola T. Lutaria e più evidentemente, secondo che dimostra in a la Fig. 6°, in una piccolissima T. Greca: nella quale bipartizione di quel tubercolo infe- riore o medio od impari ci abbatteremo più oltre in altri rettili squamosi. (1) Compendio di Anat. comp. dei vertebrati, pag. 76, « Rettili ». — Edizione italiana per cura di Giacomo Cattaneo. Casa editrice Dott. Francesco Vallardi. = R8% — Nella parte superiore della porzione piana « Fig. 5° sonvi nel Crocodilino i due piccoli tubercoli 6 omologhi agli a della Fig. 6°, i quali s’ ingrandiscono a spese della porzione detta discendendo verso il piano indiviso che ne forma come a dire il ceppo, e questa differenza allontana il crocodilino dalla te- stuggine, e l’accosta al pesce, ove alla parte superiore della porzione a Fig. 4° trovansi pure le particelle 6, paragonabili ai due tubercoli anzidetti; all’ esterno di questi veggonsi i due tubercoli c, pertinenti agli occipitali laterali: nella Solea al di sopra ed un po’ al di fuori delle particelle 6 tro- vansi le particelle un po’ maggiori e pertinenti esse altresi agli occipitali laterali. Le particelle c poi e le 5, sono cave ed unite ad angolo posterior- mente aperto, nella cui apertura od insenatura sì mette il processo a mo?’ di bietta, formato dalle particelle e, f, Fig. 4? degli archi della prima vertebra, ma nel Crocodilino le particelle 6, c, sono convesse, e le ec al lato esterno delle 5, e non superiori. Questo parallelo e questa che mal avrebbesi per omologia, si dirà forse, avrebbero trovato luogo più opportuno parlando della mancanza dell’ occipitale basilare nei Batrachi; ma dirne in quella circostanza non potevasi, stante che avrei alterato di troppo l’ ordine di questa esposizione, essendo che presupponeva la cognizione delle parti articolari descritte nell’ osso occipitale del Crocodilino. Nel Ramarro (Lacerta viridis) veggonsi bene nell’ unico condilo i tre tubercoli, ed il medio od impari è grande, ma non distinguesi che sia veramente diviso in due; del pari nel Platidactylus guttatus, o Gecko a gocciette, nel Camaleonte, nell’ Uromastix Spinipes ecc. Che se in questi Sauri cotal divisione o non apparisce od é dubbia, ben altrimenti in altri; ed un accenno me ne ha presentato il Psammosauro grigio, ed evidentis- sima m’ è occorsa nel Varanus elegans Fig. 7°, e specialmente in un Mo- nitor di specie dubbia, indeterminato (1), ma che non ostante ho voluto rap- presentare per essere un bell’ esempio di quattro tubercoli quasi simili Fig. 8°, laddove nel Varanus i due esterni sono più voluminosi. Quanto agli Ofidi, l’Anguis fragilis, il Coluber Asculapii, l’ Atrovirens ecc. non portano che tre tubercoli, ed il medio é indiviso, ma non mancano esempi di divisione, non sempre però così perfetta come nei Sauri divisati, ed uno me ne ha presentato il Crotalus horridus Fig. 9°, ed altro il Coluber natrix tropidonotus Fig. 10°. In fine mette conto notare che ai quattro tubercoli corrispondono nell’atlante o prima vertebra della colonna quattro piccole cavità glenoidee contigue come quelli, ma tre solo ne porta la detta ver- tebra, quando il tubercolo medio non é diviso in due. Negli uccelli, secondo che nota Stannius (2) il condilo occipitale è (1) Questo teschio un po’ malconcio tratto da vecchi scarti del nostro Museo Zoologico ha delle somiglianze con quello del Monitor Americanus, e sembrerebbe di una specie affine. (2) Op. cit. Tomo cit., pag. 288. Serie V. — Temo IV. 37 — 2000 emisferico e semplice negli individui adulti, ma ne’ giovani si compone sempre di tre tubercoli contigui che appartengono uno all’ occipitale basi- lare, i due altri agli occipitali laterali. Le quali asserzioni non disconven- gono certo col vero. Se non che occorrono delle eccezioni, essendovi degli uccelli a condilo formato semplicemente dall’ occipitale basilare, esclusa affatto la cooperazione degli occipitali laterali; condilo già omologo al tu- bercolo medio od impari suddetto, od alle due porzioni dell’ occipital ba- silare che lo compongono, e tali eccezioni, a dir vero, non sono troppo scarse. Io fra varie che ne posseggo, ho toltone l’ esempio dal cranio di un Hrosone o Becco grosso adulto (Loxia Coccothraustes L.) Fig. 11°, dove si vede in a il condilo prodotto dall’ occipitale basilare uscire come da un calicetto non in forma di tubercolo emisferico, o di renuncolo globoso con l’ hilo in alto ed in avanti, ma allungato, e sembiante ad un piccolo pene umano emergente da uno scroto fesso come in certi casi d’Ipospadia, o ad una voluminosa clitoride emergente d’infra due grandi labbra aperte; condilo articolato con una cavità scolpita nell’ apice del corpo dell’ atlante od apofisi odontoidea; veggonsi poi in 6 due tubercoletti degli occipitali laterali, situati alla articolazione coll’ occipitale basilare, ma non incrostati di cartilagine, né articolantisi con l’ atlante che non ha una corrispondente faccetta o cavità articolare per accoglierli; iubercoletti distanti ciascuno dal condilo quasi un millim., e fra loro uno e mezzo, e molto meno rile- vati di quello. Non è già nuovo che il condilo occipitale negli uccelli sia produzione esclusiva dell’ occipitale basilare, che, come riferii di sopra, Perrier tale pure lo ha ammesso nella Meleagris Mexicana, e pare che della eccezione faccia egli una -regola: la qual cosa non è. Ben s’ in- tende che l’ emancipazione dell’ unico condilo dagli occipitali laterali ripete quella della Fistularia tabacaria e degli altri pesci ossei nominati di sopra, e che comprova vieppiù la principale importanza dell’ occipitale basilare nell’articolazione del cranio con la prima vertebra della colonna. Final- mente importa notare che in questi casi il processo odontoideo è molto elevato al di sopra dell’arco anteriore dell’ atlante, e che porta nell’ apice un piccolo cotile, nel quale è ricevuta l’ estremità articolare convessa del condilo occipitale descritto. Ma poste da banda le eccezioni, certa cosa è che negli uccelli giovani di molte specie sono più o meno manifesti i tre tubercoli componenti l’ unico condilo, i quali talvolta anche negli adulti appariscono distinti, e cosi li ho trovati in un Airone di non picciol tempo (Ardea Major), e li vedi ritratti dalla Fig. 12°. I tre tubercoli sono di presso che eguale grandezza, lateralmente addossati e stivati fra loro, ed uniti per sinostosi formando un archetto a concavità superiore, dal centro del quale comincia un solco che si divide in due leggierissimi arcuati che discendono abbracciando il tubercolo medio od impari, e separandolo dagli altri due ed pari che sono laterali. Questi sono pertinenze o produzioni degli occipitali laterali, quello dell’occipitale basilare, ed é come nei rettili ad unico con- dilo occipitale, omologo alle due porzioni contribuite nell’ uomo e nei mam- miferi alla composizione dei condili dall’ occipital basilare, e ai due tuber- coli medi dell’ unico condilo de’ giovani Cheloni, de’ Sauri e degli Ofidi sopradetti. Non sarà superfluo aggiugnere che la cavità glenoidea corri-- spondente dell’atlante è formata di tre fossettine circolari accoglienti la convessità dei tre tubercoli; differenza notevole con quanto ha offerto il Frosone, ed offrono non pochi altri uccelli. Ho cercato in altri uccelli adulti la descritta distinzione dell’ unico condilo occipitale dell’ Airone in tre tu- bercoli, ed appena !’ ho scorta in qualcuno, ma debolissima, ed anche dubbia (Gallinacei, Anitre ecc.). Spessissimo ho veduto una profonda incisura supe- riore, che divisavalo in due tubercoli; incisura che sarebbesi detta uno spazio intercondiloideo strettissimo occupato da un piccolo, ma robusto legamento che aveva sembiante del sospenscrio del dente, e al di dietro della incisura un tubercolo molto maggiore emisferico, nulla distinto da quelli per un solco, tutto che leggerissimo, ma che nondimeno poteva con- siderarsi quale tubercolo medio od impari dato dall’ occipitale basilare cui era continuo. Dei due cranj che ho preparati di Faraona (Numida Meleagris) in uno quell’ incisura degenerava in un solchettino finissimo, o piuttosto linea scura Fig. 13* abbastanza visibile, che percorreva arcuando la linea media del condilo, e dileguavasi presso il centro del medesimo : altro sol- chettino o linea consimile, moveva pure da una incisura inferiore o poste- riore più piccola dell’ altra, ed ascendeva arcuando sulla parte media del tubercolo impari, ma non aggiungeva la superiore, ed era ivi ad indicare l’ essere il condilo divisibile in due metà laterali, nelle quali non potevasi a meno di avvisare superiormente i tubercoli laterali pertinenti agli occi- pitali laterali, e nel centro ed inferiormente il tubercolo medio od impari pertinente all’occipitale basilare; tubercolo avente cosi faccia di essere diviso in due. Finalmente nel pulcino del Phasianus Gallus ho trovato ben distinti i tre tubercoli articolati insieme per sincondrosi, ed é molto nota- bile come la cartilagine loro frapposta piuttosto abbondante ben presto si ossifichi e s’ incorpori con essi si fattamente da aversi un tutto indistinto, o tale da non lasciar scorgere o mal scorgere traccia della primitiva com- posizione : alla quale cagione vuolsi certamente attribuire 1’ apparente sem- plicità del condilo occipitale che si avvisa generalmente negli uccelli adulti. Di questi tre tubercoli poi del pulcino i superiori sono i più piccoli, l’ infe- riore il più grande appartenente all’ occipitale basilare, laddove quelli agli occipitali laterali. Nessun indizio ho scorto di distinzione nel maggiore in due tubercoli. La cavità glenoidea dell’ atlante era come nell’ Airone. Dalle osservazioni fin qui riferite si trae; — "RAD Che l’importanza principalissima nella composizione della parte o parti, o vero condili dell’osso occipitale articolantisi con la prima vertebra della colonna, é dell’occipitale basilare, tutto che possa venir parata davanti qualche eccezione, però dubbia ; Che l’occipitale basilare, esclusi affatto gli occipitali laterali, forma tal- volta da solo un condilo unico (certi pesci pag. 284, non pochi uccelli pag. 290) omologo alle due parti ossee contribuite alla composizione dei condili occipitali nell’ uomo e nei mammiferi dall’ occipitale basilare, ed é indubitatamente omologo al tubercolo inferiore o medio od impari del- l’unico condilo occipitale de’Cheloni, de’Sauri e degli Ofidi, non che al tuber- colo medio od impari dell’ unico condilo occipitale degli Uccelli specialmente giovani, i quali essi altresi offrono nell’ unico lor condilo occipitale, salvo i casi ne’ quali gli occipitali laterali non ne partecipano alla composizione, i tre tubercoli come in quei rettili: composizione piuttosto rara ad incon- trarsi ben distinta negli individui adulti; Che l’omologia del tubercolo inferiore o medio od impari sopradetto, già pertinente all’occipital basilare, con le due parti da questo contribuite alla composizione de’ condili occipitali dell’uomo e dei mammiferi non ammetta dubbi, si ha dal trovarsi tale tubercolo diviso perfettamente in due medi ritraenti le dette parti, di che ne hanno offerto esempi chiarissimi i Rettili squamosi suddivisati, e per ciò che ne farebbe credere la Numida Meleagris, anche gli uccelli; Che in fine l’unico condilo occipitale di quei rettili, e di una gran parte di uccelli è composto delle medesime parti dei condili occipitali dei mammiferi e dell’ uomo. Ma se così è, sì può egli accogliere l’omologia pensata da Gian Fe- derico Meckel del cosi detto terzo condilo occipitale dell’uomo con l’ unico condilo occipitale degli uccelli e dei rettili? Certamente che non, e gli anatomici se ne sono prestamente avveduti, onde che ne hanno ristretta l’omologia con il tubercolo inferiore o medio od impari, ed il Prof. Romiti che é stato il primo ad avvisarne l’inammissibilità, l’ha ristretta con il tuber- colo inferiore o medio od impari dell’ unico condilo occipitale dei Cheloni (1), ed il Prof. Tafani (2) con il tubercolo medio dell’ unico condilo occipitale degli Ofidi, ed un terzo forse potrebbe voler aggiugnere ciò che vale pur il medesimo, all’ unico condilo occipitale di quegli uccelli che hanno formato dal solo occipitale basilare. Ma anche cosi circoscritta, l’omologia non pare (1) Una osservazione di terzo condilo occipitale nell’ uomo e considerazioni relative. Atti della Società Toscana di Scienze naturali, Vol. VII, 1885. (2) Della presenza di un terzo condilo nell’uomo. Archivio per l’Antropologia e 1’ Etnologia, Vol. XV, fascicolo I. — 1993 sostenibile, perché il terzo condilo occipitale non è omologo alle due parti che l’occipitale basilare contribuisce alla composizione dei due condili oc- cipitali dell’uomo e dei mammiferi, com’ è di queste parti omologo il tu- bercolo inferiore o medio od impari del condilo occipitale unico dei rettili sopradetti ed omologo altresi l’unico condilo degli uccelli, quando è formato dal semplice occipitale basilare : ond’ é manifesto che e tubercolo inferiore o medio od impari e terzo condilo occipitale dell’uomo non saprebbonsi assi- milare, e così l’unico condilo occipitale degli uccelli qualora formato dal solo occipitale basilare; né quindi potrebbero essere omologhi. I pochi casi che posseggo di questo terzo condilo occipitale dell’ uomo, sono presso che simili ai divisati ed illustrati dai varii Autori : il perché sarebbe superfiuo descri- verli. Di uno però non voglio passarmi, ed esso appartiene al cranio di un uomo di 52 anni, ad indice cefalico 81, ed era un ladro. Il detto condilo Fig. 14°, é situato nella parte media dello spazio intercondiloideo anteriore che misura la lunghezza di 15 millim., ed è quadrilatero ; piatto posterior- mente, leggiermente convesso anteriormente, ov’ è un po’ più lungo, termi- nando in guisa di piecola eminenza mammillare. È di non grande volume, lungo millim. 7, largo 7, limitato, e come a dire separato lateralmente, però nella parte posteriore solo, dall’occipitale basilare per due solchi lon- gitudinali, il più profondo dei quali è il sinistro, ed in ciascun solco infe- riormente ha un forame venoso un po’ più alto a sinistra che a destra. La sua faccia posteriore o libera è piana, tutta articolare, ed articolar doveasi, come generalmente, con il processo odontoideo in simili casì più lungo del solito. I condili occipitali laterali sono ben rilevati e normali, onde il terzo condilo rimane molto alto, e come fra essi sepolto, ed il forame grande occipitale è lungo millim. 35, largo 32. Considerando la forma e quasi isolamento del terzo condilo descritto, e ripetutamente contemplandolo mi si é fatto davanti alla mente il legamento sospensorio del dente, o com’oggi lo chiamano con uno dei soliti nomacci legamento apicale. Questo legamento è piatto ed in forma di quadrilungo, inserito superior- mente in quel medesimo punto dello spazio intercondiloideo anteriore, dal quale muove il terzo condilo occipitale. Si sa poi, ch’ esso legamento è una particella intervertebrale della corda dorsale, e simile ad un legamento intervertebrale, il legamento intervertebrale tra il corpo dell’ atlante od apofisi odontoide ed il corpo della vertebra occipitale od occipitale basilare. La corda dorsale come per entro i corpi delle vertebre si ossifica, cosi può anche nei legamenti intervertebrali come nell’ anchilosi delle vertebre e nella unione ossea normale dei corpi delle false vertebre, quali sono quelle che compongono il sacro. La quale ossificazione nulla ripugna ad ammet- tere non possa accidentalmente accadere anche nel legamento sospensorio, ed ossificandosi si distacchi dall’ apofisi odontoide per amore della libertà — R94 — e maggior estensione del movimento articolare, saldandosi od articolandosi di necessità con il corpo della vertebra occipitale, od occipitale basilare. Questa l’ interpretazione che uom potrebbe dare del terzo condilo occipitale suddivisato, cioè di un’ossificazione accidentale del legamento sospensorio del dente, o legamento intervertebrale odonto-basilare scioltosi dall’ apofisi odontoide, con cui però rimane mobilmente articolato, ed anchilosatosi con il corpo della vertebra occipitale, od occipitale basilare. Se qui il sito, la forma quadrilatera piatta, l’ isolamento ecc. ne persuadono la esposta inter- pretazione, la mancanza di tali circostanze potrebbe forse dissuaderla, e dissuaderebbela la situazione laterale del terzo condilo presso ad uno dei condili normali cui fosse pur unito come per un istmo, od il prolungarsi di un condilo divenuto men prominente e più stretto fin presso il punto medio dello spazio intercondiloideo anteriore, ed esigerebbene un’ altra. Ma checché sia, io non mi sono proposto di dare novelle interpretazioni del terzo condilo, ma solo di mostrare che l’omologia di esso con l’unico condilo occipitale degli uccelli e dei rettili, o con il suo tubercolo inferiore o medio od impari, o se vuolsi aggiugnere, ciò che vale lo stesso con il condilo unico di quegli uccelli nei quali é semplicemente formato dall’ oc- cipitale basilare, non è, secondo che parmi, sostenibile. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Tutte le Figure di questa Tavola ritraggono gli oggetti di grandezza naturale. Fig. 1° - Base del cranio di una Rana Bufo adulta dimostrante special mente la composizione dei condili occipitali. a, occipitale basilare? — 6, particella che esso contribuisce alla com- posizione dei condili — c, porzione dell’occipitale laterale contri- buita alla composizione dei condili suddetti. Fig. 2* - Base del cranio di una Salamandra acquaiuola o crestata. a, occipitale basilare? — 6, condili. Fig. 3° - Parti della regione occipitale della Raja clavata articolantisi con la colonna vertebrale. — 295 — Fig. 3° - Parti onde la prima vertebra della colonna vertebrale sì articola. con il cranio della Raia medesima. a, b, c, superficie articolari sigmoidee situate a’ lati del grande forame occipitale, cioè a, condilo — , cavità glenoidea — e, crestolina ond’èé terminata questa cavità — d, cavità articolari glenoidee si- tuate allo interno del margine inferiore del grande forame occipitale — e, piccolo sprone separante le due cavità glenoidee notate — f, 9, superficie articolari sigmoidee situate a’ lati del tubo della prima vertebra, o della porzione di tubo tagliata a somiglianza di penna da scrivere: la , indica un condilo della superficie, la 9g, una cavità glenoidea — A, condili portati dalla estremità anteriore di questa porzione di tubo così foggiata separati da un leggier sol- chettino i. Fig. 4* - Fig. 4° - Superficie onde l’occipitale sì articola nella Solea comune (Pleuronectes Solea L.) con la prima vertebra della colonna, e su- perficie articolare corrispondente della prima vertebra detta. a, superficie articolare concava dell’occipitale basilare — 6, particella distinta di questa superficie articolata con l’occipitale laterale cor- rispondente — c, particella contribuita alla detta superficie dall’ oc- cipitale laterale — d, superficie articolare concava anteriore del corpo della prima vertebra, superficie corrispondente alla indicata a del corpo della vertebra occipitale — e, due superficie articolari oblique unite ad angolo, e formanti come una bietta messa nell’ an- golo o seno angoloso tra le parti destre e sinistre 5, c, — .f;, super- ficie articolari degli archi nervosi della prima vertebra. Fig. 5* - Composizione dell’ unico condilo occipitale di un Crocodilino del Nilo (Crocodilus vulgaris Cuvier). a, porzione articolare semplice dell’ occipitale basilare — d, tubercoli ond’é superiormente divisa — e, tubercoli formati dagli occipitali laterali. Fig. 6° - Condilo occipitale presentante il tubercolo inferiore o medio od impari diviso in due di una piccola Testudo Greca. a, il detto tubercolo bipartito — 6, tubercoli degli occipitali laterali. Fig. 7* - Condilo occipitale quadripartito del Varanus elegans. a, tubercoli medi dell’ unico condilo occipitale — 6, tubercoli laterali più voluminosi dei medi. — 296 — Fig. 8° - Condilo occipitale quadripartito di un Monitor di specie dubbia. a, tubercoli medi — 5, tubercoli laterali presso che simili di volume ai primi. Fig. 9* - Condilo occipitale unico del Crotalus horridus. Fig. 10° - Condilo occipitale unico del Coluber natrix tropidonotus. In amendue le Figure a, tubercolo medio imperfettamente diviso nel primo, ma perfettamente nel secondo — 5, tubercoli laterali. Fig. 11° - Condilo occipitale unico di un Frosone o Becco grosso (Loxia Coccothraustes L.). a, il detto condilo — 5, tubercolo non articolare dell’occipitale laterale. Fig. 12° - Condilo occipitale unico tripartito di un Airone (Ardea major). a, tubercolo medio od impari — 5, tubercoli laterali. Fig. 13° - Condilo occipitale unico di una Faraona (Numida Meleagris). a, tubercolo inferiore o medio diviso imperfettamente in due dal sol- chettino d — 5, tubercoli laterali divisi dal solchettino c. Fig. 14* - Terzo condilo occipitale nell’ uomo. o ig L.Calori E Contoli dis. Lit-Mazzoni e Rizzolr-Bologna CONTRIBUTO ALLA GENERALIZZAZIONE DELLE PRAZION I:GONTINUV-E MEMORIA DEL PROF. SALVATORE PINCHERLE (Letta nella Sessione Ordinaria delli 18 Febbraio 1894). INTRODUZIONE Il Jacobi, che per primo si é occupato della estensione dell’ algoritmo delle frazioni continue (*), si è proposto come scopo di questa estensione sia di determinare, dati tre numeri %,, 0; 6%, Una serie di numeri legati da una relazione ricorrente di terz’ ordine, i quali servissero a stabilire fra i tre numeri dati una relazione lineare omogenea approssimata, sia di esprimere i rapporti v,:%, Wi % per mezzo di frazioni approssimate aventi lo stesso denominatore. Disgraziatamente il lavoro del Jacobi, postumo e dato alla luce dallo Heine, non si può dire compiuto, e lo stesso Heine lamenta (**) che nel manoscritto da lui pubblicato, nulla si trovi che valga a guidare nella determinazione dell’ approssimazione rag- giunta arrestando ad un dato punto il procedimento indicato. dall’ Autore. Le ricerche di Jacobi, abbandonate o quasi nel campo aritmetico, vennero invece riprese nel campo algebrico in cui si sono mostrate assai feconde. In generale, le questioni da cui si parte in simili ricerche sono del seguente tipo : Date p serie di potenze (per es. intere negative) della variabile «, S,, 9,3 --- Sp, sì domanda di determinare p sistemi di polinomî interi in «, di grado assegnato dipendentemente dall’ indice n, An, Asn,-.. Apa i (*) Allgemeine Theorie der Kettenbruehihnlichen Algorithmen u.s.w. Crelle, T. LXIX, pag. 29, 1868. (COILOCLCITRIPre9: Serie V. — Tomo IV. 38 — 298 — quali siano tali che nella espressione AnnS, UA Ao.nS3 mp e PARISE i termini contenenti potenze negative di a abbiano a fattor comune a7', »v essendo l’intero più grande possibile compatibilmente col grado dei polinomi A,,;..-- Apr. Nalere il punto di vista sotto cul imifsonoMpesio in due precedenti lavori (*); tale é sopratutto quello assunto nella recente Memoria, cosi ricca di risultati, del ch." Hermite (**). Dalle condizioni cui sono così assoggettati i polinomî A,,,... Apn discende, come proprietà più notevole, che essi sono soluzioni (o con vocabolo speciale, integrali) di una stessa equazione ricorrente dell’ordine p +1, analoga a quella di secondo ordine cui soddisfano i numeratori e denominatori delle ridotte di una frazione continua. Ma come accade per le frazioni continue, anche per questa loro genera- lizzazione due sono i punti di vista sotto i quali si può considerarne la teoria. Nel primo, come é stato fatto nei citati lavori dal Jacobi per i nu- meri, dall’ Hermite e da me per le funzioni, sì può prendere le mosse da numeri (o funzioni) dati e da questi dedurre successioni di numeri (o fun- zioni) che conducono alle relazioni approssimate opportune. Nel secondo invece si può assumere come punto di partenza l’ equazione ricorrente, e vedere sotto quali condizioni essa definisce dei numeri (o risp. delle funzioni) cui quelle relazioni approssimate siano applicabili, nel modo stesso che avendosi una frazione continua, si può cercare sotto quali condizioni essa è, o no, convergente. In altre parole, data una equazione ricorrente dell'ordine p di cui A,n, A42».... Apn è un sistema fondamen- tale d’ integrali, si può proporsi la ricerca di numeri 4,, 4,,...4, tali che il nuovo integrale A Ann =" ASA SP ELI UA tenda per n= co, il più rapidamente possibile a zero: l’esistenza di questi numeri 4,... 4, essendo, per l’ equazione considerata, ciò che é la convergenza nel caso della frazione continua. L’ integrale corrispondente prenderà il nome di integrale distinto. (*) Saggio di una generalizzazione delle frazioni continue algebriche. Mem. dell’ Accad. di Bo- logna, S. IV, T. X, p. 513, 1890. Sulla generalizzazione delle frazioni continue algebriche. Annali di Matem., S. II, T. XIX, pag. 75, 1891. (**) Sur la généralisation des fractions continues algébriques. Ann. di Mat., S. II, T. XXI. pag. 289. (1893). — 299 — La presente Memoria ha appunto per oggetto di studiare, sotto al secondo punto di vista indicato (*), l'equazione ricorrente del terz’ ordine, prima per equazioni a coefficienti numerici, ossia dipendenti dal solo indice, poi per equazioni ricorrenti algebriche, cioè i cui coefficienti contengono razional- mente un parametro «. Nella prima parte, dopo riassunte alcune formole già date in precedenti lavori e di cui dovremo poi fare uso, daremo la definizione e la condizione di esistenza dell’ integrale distinto ed il metodo per giungere alla sua determinazione, accennando anche all’ estensione della teoria ad equazioni di ordine superiore al terzo; nella seconda, supporremo che i coef- ficienti dell’ equazione contengano linearmente un parametro « e conside- rando un sistema di integrali A,, B,, C,, di ovvia determinazione, razionali interi in ®, ci proporremo di cercare se esistono serie di potenze negative di x, S ed S,, per le quali l’° integrale An + SBn4.S Cn risulti della forma Na GIOCA CE + 6,0 + eee, 0 essendo » il più grande possibile compatibilmente col grado di A,, B,, C,; e troveremo, non solo che un tale sviluppo esiste formalmente, ma che per valori di « sufficientemente grandi in modulo, esso coincide coll’ in- tegrale distinto dell’ equazione ricorrente, quale si é definito nella prima parte. Si ottiene cosi, sotto un nuovo aspetto, la generalizzazione della teoria delle frazioni continue algebriche e più specialmente della parte più difficile di essa: di quella parte che si occupa delle condizioni della loro convergenza. (*) Le frazioni continue algebriche sono considerate sotto a questo punto di vista nel mio la- voro: Sur les fractions continues algébriques, Ann. de 1’ Ecole Normale, S. III, T. VI. x 00 I. 1. Riassunto di formule. — a) Abbiasi l’ equazione ricorrente lineare (1). Hai Cnn Online Mino (n7—i02 195 QU Gli integrali A,, B,, C- di questa equazione, definiti dalle condizioni iniziali (Aire Ari A 0 (2) Bi—0;° SBE=MR05, 20) Meet formano un sistema fondamentale, ed ogni altro integrale F, della (1) è espresso mediante i suoi valori iniziali da (3) cade b) È noto che il determinante di AS Brea, Choi, A, B, C3 An4yi Bn4 Cn4i è identicamente uguale all’ unità (*). Indicandone ordinatamente con TESA (e ROSS, ? Ù , r PS Quai RS b) I "I "I P.4+1 Qi RI 9 gli elementi reciproci, sì scorge subito che Poi — n I Quei = Q, b) o = ao ; (" Jacobi, Crelle, T. LXIX. — 301 — di più, é facile verificare che (4) apo — Pr “ar beni ’ Qn4r a Q+1 "00 bn1Qhn4+1 ’ (x) Rn42 == RESA sii On-1Rn41 . Cc) Le P.,, @., È, sono integrali dell’ equazione ricorrente (5) Fny-gt OnbEngo + On_dn41 7 Fan 0, inversa della (1) (**); e poiché i valori iniziali di questi integrali sono le P., @, È, costituiscono un sistema fondamentale d’ integrali della (5), di cui ogni altro integrale FX, si scriverà, mediante la conoscenza dei suoi valori iniziali, sotto la forma (6) REP PROPTR,. d) Dalla definizione di Q,, £,, risulta CI Ba MARIE AE SA AA 0 An An onde C Q n n4r ny Bnar — n) IL SET NANI ( ) Ve RR orrogra ART 4 AGO, AZ, An, A ALAN: e) Dall’ essere il determinante d = 1, risulta senza difficoltà che le A,, B,, C, sono espresse in funzione di P,, Q,, £&, da cr QrSE Gare la ’ los — lea SR Jet ’ (E PnQn4, Q, P. n+41° dalle quali risulta Bri alta N41 Cn BIN Quai (A PR Pn ’ = cas ’ 1 VETEA RES Pa (© Ibid. (** Annali di Matem., loc. cit. $ 8. — 302 — onde r—1l r—]J (7°) Fnyr _ Pn ae Bat Che Bal? SEO Pr Pay” f) Infine, essendo dal determinante è AGETROS Fa ARES n Any 1Pn =1, Bre i ste PD Pi sta ERE =, (CE na CORIO A Cn Pn = 0 ? si ha, moltiplicando per tre costanti arbitrarie (*), sommando ed indicando con F, un integrale arbitrario della (1): onde risulta che avendosi l’integrale P, della (5), dal quale si deduce P, l’ integrazione dell’ equazione (1) é ricondotta a quelle di un’ equazione ricorrente di second’ ordine, a secondo membro costante. 2. Derivata nelle successioni. — Prima di applicare le formole ora riassunte e di ricavarne una estensione per la teoria delle frazioni continue convergenti, ci conviene di definire la derivata di due successioni aventi limite. Siano le successioni di'numeri qualsiasi 4, #,, (n (05M36R4666S5), n & kn 0 può o no, ammettere un n sia i. %; 0 talché sarà lecito di scrivere er _l4e,, ERE (TSE ZA v — 308 — Avremo in seguito a ciò: Gn Ina Indo +00 = Gl1 ++ En+- (+ Ea) +) ma lo sviluppo tra parentesi è convergente anche se i binomî / + esi sostituiscono con |/|+e; perciò si potranno svolgere i prodotti ed ordi- nare i risultati come più aggrada, donde 1 Gn + Ins + It = + a) con 1 1 ale [AU ossia Il S, e e lm (1—-)1—-|]|— 8) Analogamente si ha: LU Ul LU U 1 r dtd tg td z+ Si) dove .S,, come S,, tende a zero per n= co. Ciò posto, si ha dalle formole (7) e (11) che n AA I B, Ù R, dii A 9 I, —girgig tas onde gi + si) Bi An _ Ml ___ R,(1+S0—)) CZTTZO, di (; A DI Si) Q,41(1+S.(1—2)) — 309 — e passando al limite per n= 00: : B,— aÀ,, EPA : TERI rele 3' Ia BA ui o +1 u. 9 a' ; Da ciò risulta che sotto le ipotesi fatte in principio dal presente para- . grafo, l'equazione (1) é convergente, mentre la derivata della successione ml: rispetto a i, é nia talché, ricordando la (10), l’ integrale distinto sarà Sa=(00 + aa')A, — o B,— 8'Cn; ma il determinante (0), $ 1, ci da (13) ARIE, SO B,Q, ato Cf — 0 ’ onde dividendo per A4,P, e passando al limite, 1+aa'+68' =0; perciò l’integrale f, si scrive (14) fn= An+ a' By + 60'Cn. Sotto le stesse ipotesi, si trova senza difficoltà che l'equazione inversa (5) è convergente e che P,+aQ,+ BR, é il suo integrale distinto. 6. Applicazione del caso precedente. — È noto il teorema dato dal Poincaré (*) sulle equazioni della forma F,yr+ (0) 03 + + A(N)Fn — 0 x dal quale segue che se lima(n)=p,,...lima,(n)=p,, il rapporto Fny,:F NEO tende, per n = 0, ad una delle radici dell’ equazione + po D+... +p.,=0, (*) American Journal of Mathematics, T. VII, 1883. — 310 — detta caratteristica per l'equazione ricorrente, ed in generale a quella di modulo massimo. Per l’ applicabilità di questo teorema è però necessario che si sappia che il rapporto /,_1:XH, non è suscettibile di oscillare in- definitamente fra 0 ed co in valore assoluto. Se ora nelle equazioni (1) e (5) si suppone che a,, 6, tendono per n=c0 ai limiti p, 9g, il teorema ora ricordato risultando applicabile a que- ste equazioni, ed ammettendo di più che l’equazione caratteristica (15) 3—- pe—qe—1=0 abbia le tre radici diverse in modulo, é facile vedere che ci si trova nelle condizioni del $ precedente. Indicando infatti con p,, f,, pz le radici della (15) in ordine di modulo decrescente, il limite di uno almeno. dei rapporti 4,4, bp Cn41:Cx (in. generale di tutti e’ tre) ‘sarà p,: sia esso p. es. il/Mimaiteldi Any1:An; così, l'equazione caratteristica di (5) essendo la (16) +g?+pa—1=0, reciproca di (15), uno ‘almeno dei rapporti P.yisPi, GR per esempio il primo, ammette il limite a Ne viene che nelle serie (11), 3 il limite del rapporto di un termine al precedente è in generale 3% po- 3PF1 i 5; il Il i tendo in casi speciali essere 7 0d —- Macsitha 21 1 PPP231, onde il limite DE ed a fortiori gli altri sono minori dell’ unità: da cui 3P1 risulta la convergenza delle serie (11) e l’esistenza dei limiti a, 6 di Bn: An, Ch: An. Analogamente, considerando le serie della forma (formule (7')) che danno l’espressione dei limiti di 2 , Di del rapporto di un termine al precedente è in generale ,pî, potendo si trova che il limite — 311 — essere anche p,93 e p;: in ogni caso minori in modulo dell’ unità. Onde esistono anche i limiti a', 8' di Q,:P,, R,:P,. Sono dunque soddisfatte le ipotesi poste in principio del $ precedente, e gl’ integrali distinti delle equazioni (1) e (5) sono rispettivamente An+a'B,+68'C, P,+a@,+8KR,, 7. Equazioni ricorrenti d'ordine superiore. — Il metodo indicato al $ 4 ci permette di indicare la via da seguirsi onde riconoscere se una equazione ricorrente lineare dell’ordine 7 (17) Pnpr aula DI a CILE, + °° + arnln=0 abbia un integrale distinto, cioè tale che il suo rapporto ad ogni altro in- tegrale dell'equazione stessa tenda a zero per n = 00. Siano perciò r in- tegrali della equazione, AE AO sane: ZA, formanti un sistema fondamentale e tali che lim fee A, =. 034 (RAR) essendo le a, numeri finiti. L’ espressione (18) DC{Ain — GA n) i=2 costituisce una varietà co”7® ed ogni integrale di questa varietà ha, con ogni integrale non appartenente ad essa, un rapporto tendente a zero. Costruendo ora, p. es. in forma di determinante, l’equazione lineare ricor- rente dell’ordine 7 —1 di cui la (18) é l’integrale generale, siamo ricon- dotti a cercare se questa ammette l’integrale distinto, che sarà pertanto l’integrale distinto della (17). Per vedere ciò, si ricondurrà in modo ana- logo la questione alla ricerca dell’integrale distinto di un’equazione del- l’ordine r — 2, e così di seguito, in guisa da giungere ad un’equazione del terzo ed infine del second’ ordine. — 31%? — II. 8. Come si è accennato nella introduzione, in questa parte si conside- rerà l’ equazione ricorrente di terz’ ordine i cui coefficienti contengono li- nearmente una variabile complessa «. Si prenderà l’ equazione ricorrente sotto la forma (1) F,43 = AnFn4-2 He (0,4 IL DIVINI Sa Bi Data l’equazione (1), ho dimostrato in altro lavoro (*) che è sempre possibile di determinare formalmente, ed in modo unico, un suo integrale G, tale che le 0, costituiscono una successione di serie di potenze negative di x, di grado (**) ordinatamente decrescente di un’unità. La determina- zione delle o, si riduce alla ricerca dei coefficienti delle serie iniziali g,, 0, (facendosi o,="1), e questi coefficienti si possono determinare univocamente per mezzo di sistemi di equazioni lineari a determinanti non nulli. Ma la questione della convergenza di questi sviluppi, nonché quella del legame fra esso e l’integrale distinto, non è stata ancora considerata: ora nelle righe che seguono si tratterà appunto di tali questioni, alle quali si giun- gerà a dare una risposta soddisfacente dimostrando il seguente teorema: « I coefficienti a,, 6,, è, tendano, per n = 00, ai limiti finiti e determi- « nati a, 6, 6' rispettivamente e 6# si supponga diverso da zero. In tale ipo- « tesi, per valori della variabile complessa « di modulo sufficientemente « grande, la equazione (1) é convergente. Di più, il suo integrale distinto é pre- « cisamente quello (di cui é nota formalmente l’ esistenza e l’unicità) che è « rappresentato da un sistema di serie di potenze negative di x di grado « ordinatamente decrescente di una unità. » 8. Consideriamo, come nel $ 1, il sistema fondamentale d’ integrali An, Bn, C, della equazione (1) definito dalle condizioni iniziali ARTHUR RMIC05 AMORE As!0hi Baz Coi Si scorge senza difficoltà che questi integrali costituiscono tre sistemi di po- (*) Saggio di una generalizzazione ecc., $ 25. Ivi è considerato il caso di equazioni ricorrenti della forma (1), ma di ordine qualunque. (**) Con Possé, Sur quelques applications des fractions continues algébriques, (St Péter- sbourg, 1886) una serie di potenze decrescenti di x che incomincia col termine x! è detta del grado |. — 313 — linomi razionali interi in &, e che il grado di A, da od 2°. allo di 3 » den Ù oi. A n è pari o ispari. quello tdi 2° » =. Accanto all’ equazione (1) va pure considerata la sua inversa: (2) F,y3+ (0,6 + b)Fnyo + dn_1Fn41 TT F30, di cui un sistema d’integrali è dato ($ 1) dai determinanti dei secondo ordine P,, @,, È, ottenuti ordinatamente dalla matrice dove RIO Q,=0, R=1, de Q=0, R=0, p__—(6%+%)} Q=41, 30 In forza della (2), le P,,@., &, sono rispettivamente dei gradi n —2, n_-3,n-4ina. 10. Ciò posto, troveremo anzitutto che, sotto le ipotesi fatte per i coefficienti a,, d,, è, della (1), questa equazione è convergente (nel senso definito al $ 3) per valori della variabile @ di modulo abbastanza grande. Mostreremo a questo effetto che sono soddisfatte le condizioni di conver- genza del $ 6, provando che « per valori di a di modulo abbastanza grande, si può soddisfare alla « disuguaglianza Pr (3) ai « essendo 7 una quantità positiva. » Indichiamo con a, 6, d' i limiti superiori dei moduli di @,, è,, è, rispet- tivamente, con c il limite inferiore del modulo di d,. Serie V. — Tomo IV. 40 — 314 — Dai valori iniziali di P, risulta P,=1, .P;=-(6£0+6); se dunque prendo |x|> A, essendo brado (4) RETE 7 dove @ é una quantità positiva presa a piacere ma superiore a 2, avrò , pi 2 Analogamente la (3) si verificherebbe per n= 3, 4,... Supposta vera per un dato indice n — 1, si avrà per l'indice n, in forza dell'equazione (2); E ! Pia Rai | Da | — (DIO re db, 2° Se pT + pi | ’ t ESS TEC ma é |<, 5 = onde P, I ell > n + Ual —|@_a]—1 i Ma per essere |e| > A, si ha |bn_20|>db'+a+0 onde Pesshi ir att 1+7%, c.d. d. % A Se si può disporre delle prime costanti 8,, 6,, in modo che siano DARA 4 maggiori (in modulo) dell’unità, si dimostra nello stesso modo che per 1 Quai Buda |e|> A si ha anche o, (Fate a stanti sono date, basterà all’occorrenza ingrandire la quantità positiva A di una quantita finita ed in ogni caso si otterrà nel piano della variabile complessa « un cerchio fuori del quale le disuguaglianze precedenti sono soddisfatte. >1+ 7%. Se invece quelle co- — 315 — Ricordiamo ora che per un citato teorema del Poincaré, il limite dei rapporti suddetti è una delle radici dell’equazione caratteristica della (2), cioé di (5) +(8er+(B)°+az—1=0. Inoltre, al crescere indefinito del modulo di @, due delle radici di que- i sta equazione tendono a zero, mentre la terza cresce indefinitamente. Se indichiamo con p,(@), p(®), px(&) le radici dell'equazione (6) s- az—-(Bxr+(B')a-—1=0 ordinate secondo i moduli decrescenti, la radice di (5) il cui modulo cre- sce indefinitamente con |a] é taleché segue dalla proprietà dimo- saba ps()° stratat|P. sha 1, che P 1 lim=e = - n=00 Pr p.(e) ed analogamente per @, ed £,. Veniamo cosi a trovarci nelle condizioni del $ 6. Quindi, in seguito alle conclusioni di quel $, possiamo enunciare che : « pei valori di @ superiori in modulo ad un numero £ opportuna- « mente scelto, i rapporti @,: P,, R,:P, convergono, per n=0c0, a limiti « determinati che indicheremo con U(x), V(a); « di più, per tali valori di x, l'equazione (1) é convergente ed ammette « l’integrale distinto nella forma (7) X,= A,+U(@B,+V(@)C,. » ll. Per raggiungere pienamente il nostro intento, ci rimane ancora da vedere anzitutto se le U, V, X, sono funzioni analitiche di «x regolari fuori del cerchio di centro a =0 e di raggio A (che si dirà cerchio RK) e come tali sviluppabili in serie di potenze decrescenti di «; in secondo luogo, se le serie di potenze X, sono di grado ordinatamente decrescente di un’ unità e precisamente dell’ ordine — n, coincidendo così coll’ in- tegrale speciale che si é ricordato al $ 8. Ora ciò avviene effettiva- mente, qualora si sappia che il rapporto P,_..:P, tende uniformemente al suo limite ——- per i valori di 2 di ugual modulo. Fatta questa ipotesi, pe) — 316 — possiamo dimostrare le seguenti proposizioni : I. « Pei valori di « esterni al cerchio A, le P,(@) non si annullano. » Infatti, se tosse te, =/0-mnefverrebbesperllat) ‘50 Urra ; n+41 E ( pae ma il primo membro è maggiore di (1+ 2)(4 +7 + 2), mentre il secondo è minore di a +1, onde l’uguaglianza precedente è impossibile. II. « La serie vio È) >. n=0 « converge in ugual grado lungo le circonferenze del piano x avente per « centro 2a =0 e raggio abbastanza grande. » Dimostrazione. Intanto, per il teorema precedente, i termini della se- rie (8) rimangono finiti pei valori di 2 presi lungo una circonferenza di centro 0 e di raggio é superiore ad A. Ora, alla serie (8) sostituiamo la | vico dove le C, sono definite da (9) CHA = GC aBl(Q005 ea +C, colle condizioni iniziali Cj=0, C=0, C}=1; dal confronto della (9) colla (2) si ha manifestamente, per |a|= è, | Ca(0)] < CalÈ), onde dalla convergenza in ugual grado della (8') risulterà a fortiori quella della (8). Si faccia ora (10) Se, <)= Li Cao)"; ne risulta in forza della (9), e tenuto conto dei valori iniziali delle Ci: i ° NO, 11 N 2)i== 3 Chl Seo 1—-az— (600 + 0) — — 317 — lo sviluppo (10) sara valido, dato «, per tutti i valori di # il cui modulo é minore del modulo della minore radice dell’ equazione (12) + (be + 0')e-+az—-1=0; sia r(x) questa radice di modulo minimo. Lungo la circonferenza di centro 2 =0 e di raggio & la |r(@)|, come funzione continua di 4, avrà un minimo r(4), e se S é il massimo valore assoluto di S(a, #) per |e|=é e 2 interno al cerchio 7r/(2,), dove 7 è un numero positivo arbitrario minore dell’unità, si avrà per un noto teorema sulle serie di potenze : 3 S (13 C, gen ( ) +2(5) ” P (2) Ma dalla teoria delle equazioni algebriche si avverte facilmente che r(x) é sviluppabile in serie della forma (14) r(a)= (i rr... ) per tutti i valori di |a| superiori ad un numero positivo a il quale di- pende esclusivamente dall’ equazione (12), cioé dalle costanti a, d,d'; di più, per valori di |a] finiti ma superiori ad un numero positivo a', la serie tra parentesi nella espressione (14) non si annulla più ed ha quindi un limite inferiore per i suoi valori assoluti; sia questo KX. Per tali va- lori di 4 che sia e=[la|>iai>a si ha dunque K i >, lr) > 7E onde infine, per la (13): ; Sy E (15) C2r(6) = K"y" S Veniamo ora a considerare ìî denominatori dei termini della serie (8'). Ricordiamo: che il limite, di (Pf, P6, peri n. =i0c;; la radice di modulo — 318 — massimo dell’ equazione (5), la quale é sviluppabile in una serie della forma. Mo =gr+g+R+ + SODO } convergente per ogni |x|>}h, essendo b una quantità dipendente esclusi- vamente dai coefficienti dell'equazione. Per |e|>b'> Db, la serie g+i++ SOLI avrà un limite superiore X' dei suoi valori assoluti, e b' si potrà prendere abbastanza grande perché sia lglb'>K +6, essendo o una quantità positiva non nulla. Onde per |a|>hb' si ha (16) VOS: Infine, sia ancora %' una quantità positiva minore dell’unità: si può sempre prendere e tanto grande che per &=|x|> € sia (17) VE < Kyn'(\glé— K'— 0). Posto tutto ciò, si prenda & superiore ad A e alla più grande delle quantità a', b', c. Poichè si é ammesso che il rapporto P,_.1:P, converge uniformemente al suo limite 4(@) lungo le circonferenze concentriche ed esterne ad A, possiamo trovare un indice m tale che per n>m ed [Ria Dert0) > |a) —0, onde | IRA (20) | - | (4) | (| A(e) | Ere O) O Pertanto, per il termine generale della serie (8') si avrà |_Cs(8) VE” RSPEAEA K"n"(|Ma)}- 0)” — 319 — ‘essendo M un prodotto di fattori indipendenti da n che il lettore formerà facilmente. Tenuto conto delle (16) e (17), risulta dalla precedente che è L- SU nnt e con ciò viene dimostrata la convergenza in ugual grado della (8') e « fortiori della (8) lungo la circonferenza É e lungo ogni circonferenza con- «centrica ed esterna; c. d. d. Da questo teorema risulta, in virtù di una nota proposizione del W eier- strass, che la serie (8) si può trasformare in una serie di potenze decrescenti di @, la quale si ottiene svolgendo in serie di potenze le funzioni razionali e sommando i termini simili in queste serie. Lo stesso n PnPn4, vale per la serie talché si può enunciare che: « I limiti U(@), V(&) dei rapporti @,: P,, f,: P, sono, per valori di & « abbastanza grandi in valore assoluto, funzioni analitiche regolari di «. « Ambedue queste funzioni sono nulle di prim’ ordine per a = co. » 12. Dall ultimo teorema dimostrato risulta che anche X,(a) é una funzione analitica di 2. Per dimostrare che essa é nulla dell’ ordine — n per n= 0, osserviamo che si ha dalle (7') del $ 1: @n (6a, Ci n Pi Pip PRES v_ B,, TEiirer PO, PER IE onde sostituendo nella (7?) ($ 10), e ricordando ($ 1) che Ax, SF BI, Q, = Cilea =‘0 5 sl ottiene Pet Cp (18) X,(0) = Dj Se Sa RE, Si Esaminando ora il grado in a dei singoli termini di questa serie, e cercando — 320 — quindi il grado in & di X,(«), ricordando dal $ 9 che le B,, C, sono del _ per n pari e rispettivamente del grado —3 . 7 a dispari, mentre P, è del grado n —2, risulta che X, é del grado — n. Talchéè si è dimostrato quanto era stato enunciato, e cioè « X, è l'integrale distinto dell’ equazione (1), cioè il suo rapporto con « ogni altro integrale della (1) tende a zero per n= co, per valori di & « abbastanza grandi in modulo; inoltre esso è quell’ integrale il cui grado « è il minimo possibile in corrispondenza al grado dei polinomî A,, B,, C,.>» grado & per n RICERCHE SUL RICAMBIO MATERIALE DI CANE PRIVATI DELLO STOMACO E DI LUNGL[ TRATTI DI INTESTINO TENUE MEMORIA DEL DOTE DE ie EE (Letta nella Seduta del 18 Febbraio 1894). Nel Giugno 1892 il Dott. U. Monari, assistente, operava alcuni cani di esportazione di stomaco e di escisione di lunghe porzioni del tenue. Per sua gentile concessione ho potuto condurre a termine una serie di ricerche sul ricambio materiale degli animali operati, e venire a conclu- sioni che mi paiono non prive di interesse pel contributo che portano al- l’ argomento tutt’ ora così incerto dell’ importanza fisiologica della funzione dello stomaco e di quella dell’ intestino. Nelle precedenti esperienze di resezione di stomaco praticate sul cane (1) fu solo verificata la possibilità della vita, con nutrizione apparentemente non alterata, anche quando quasi tutto lo stomaco era stato esportato; ma non fu mai fatta alcuna ricerca metodica sul ricambio materiale e sull’assorbimento intestinale. Ogata (2), che poté avere da Czerny un cane operato qualche anno prima da Kaiser e studiarlo per più mesì, si limita a dirne che l’ appetito era nor- male, le feci normali, e che con una ricca alimentazione si aveva facile au- mento di peso. Ma intanto, prima di conoscere le osservazioni di Czerny e Kaiser, egli aveva fatto una serie di ricerche eliminando lo stomaco dal circolo degli alimenti con un altro metodo. Praticava cioè una fistola gastrica in immediata vicinanza del piloro, e la rivestiva di una cannula (1) Czerny. — Beitr. z. operat. Chirurg. Stuttgart 1878, $ 141, ff.; e Kahler, Sem. Méd. 18910 p-152) (2) Ogata. — Ueber die Verdauung nach der Ausschaltung des Magens. Arch. f. Anat. u. Phys., 1883, Abth. Phys., p. 89. Serie V. — Tomo IV. 41 — 322 — per la quale poteva portare gli alimenti ridotti a fina poltiglia direttamente nel duodeno mediante un tubo di vetro curvo traversante il piloro. Questo veniva chiuso subito dopo con una palla di gomma peduncolata gonfiata con acqua. Uccideva poi i cani un’ ora e mezzo o due ore dopo introdotto il pasto, e faceva l’ esame chimico del contenuto intestinale, oppure li te- neva in vita parecchi giorni per fare l’ esame delle feci. Egli poté cosi venire alla conclusione che, sottraendo intieramente la funzione gastrica, i carnivori possono continuare a nutrirsi regolarmente, mantenendo costante il peso del corpo, con formazione di feci normali. L’albumina, le sostanze alimentari, il tessuto connettivo cotto sono per- fettamente digeriti dal solo tenue; l’ assorbimento procede pure rapidis- simo, e corrispondentemente si osserva un notevole aumento nella elimi- nazione dell’ urea nelle prime ore dopo introdotto un pasto nel tenue. Sebbene manchi l’ azione sterilizzante del succo gastrico, non hanno luogo putrefazioni anormali nell’ intestino. Le feci presentano una caratteristica assenza di acidi biliari (reazione di Pettenkoffer), e contengono gene- ralmente del grasso quando ne fu somministrato nella alimentazione. Lo stomaco avrebbe quindi per funzione principale quella di modificare coi suoi acidi il tessuto connettivo (crudo). Parecchie sostanze alimentari sono solo digerite dopo aver subito alcune modificazioni alla loro superficie, o dopo essere state divise in fini pezzetti. Inoltre lo stomaco servirebbe a lasciar passare solo lentamente nell’ intestino le sostanze alimentari dige- rite, d’ onde una maggiore regolarità nella scomposizione dell’ albumina in urea. Queste ricerche di Ogata, preziosissime pei dati nuovi che forniscono sulla capacità di digestione dell’ intestino non coadiuvato dall’ azione chi- mica stomacale, non costituiscono però un vero e proprio studio di ri- cambio. Per questo era necessario mettersi in condizioni tali che nessuna eausa esterna potesse avere un’azione sul ricambio dell’ animale in esame (fistole aperte, manipolazioni necessarie per introdurre il cibo, ecc.), e stabilire un vero bilancio fra 1’ entrata e l’ uscita dell’ organismo, per sor- prendere alterazioni anche minime sia della assimilazione, sia della scom- posizione. Gia Sticker (1) nel 1887 trovava che la saliva ha una impor- tanza notevole sulla digestione per l’ influenza che essa esercita sulla secrezione stomacale ; Biernatzki (2) in un altro lavoro ne confermava le conclusioni; e recentemente v. Mering (3) attribuiva i gravi disordini (1) Sticker. — Wechselbeziehungen zwischen Speichel und Magensaft. Volkmann’s Hefte N. 297, 1887. (2) Biernatzki. — Die Bedeutung der Mundverdauung und des Mundspeichels fir die Th&- tigkeit des Magens Zeitschr. f. Klin. Méd. XXI, 97, 1892. (3) I. v. Mering. — Ueber die Function des Magens. Therap. Monatsch. 1893, Mai, p. 201. — 323 — seguiti da morte, da lui osservati in canì nutriti pel duodeno, alla soppressa azione dei secreti boccali. Per poter attribuire con certezza i fenomeni os- servati alla sola mancanza dello stomaco è indispensabile istituire le ri- cerche in animali che si nutriscano per la bocca. Nelle mie ricerche seguì interamente lo schema di studio del ricambio proposto da v. Noorden nella sua recente monografia sull’ argomento (1). I cani erano tenuti in gabbie abbastanza ampie a fondo di zinco inclinato con un foro nel punto declive pel quale venivano raccolte le urine. Le feci si potevano pure riunire abbastanza facilmente senza alcuna perdita, nessuno degli animali in esperienza avendo diarrea. Prima di co- minciare un periodo di studio, l’animale era lasciato in gabbia per una o due settimane, finchè si fosse abituato a vivere rinchiuso, e tenuto ad una dieta approssimativamente uguale a quella da somministrarsi durante 1’ esame (2). Dopo pochi giorni generalmente le minzioni e le defecazioni, dapprima irregolari, si compievano in periodi normali. Il cane era cateterizzato al principio ed alla fine di ogni periodo per riunire con sicurezza maggiore tutte le orine riferentisi ed esso. Generalmente l’esame veniva cominciato nel giorno che seguiva ad una scarica abbondante: ad ogni modo le prime feci raccolte erano quelle emesse nel secondo giorno, e si raccoglievano pure quelle emesse nelle 24 ore successive all’ ultimo giorno del periodo di studio. L’alimentazione veniva fatta con carne magra di cavallo cruda, con latte e pane bianco. Ne riunivo una quantità sufficiente per tutto un periodo d’ esame, sulla quale praticavo ogni volta i dosaggi dell’ azoto, degli idrati di carbonio e dei grassi. La carne poi veniva conservata sotto ghiaccio, il pane in recipienti chiusi per evitarne 1’ essic- camento, e il latte si sterilizzava in palloni di vetro. L’azoto fu sempre dosato col metodo Kieldah]1 modificato, quale venne descritto da Argutinsky (3); gli idrati di carbonio nel pane e nelle feci col metodo Allihn- Liebermann (4), sostituendo alla pesata del rame il dosaggio volumetrico col liquido di lehling titolato, e nel latte col metodo volumetrico dopo averlo diluito e dopo deal- buminazione con acido cloridrico e coll ebollizione (5). Il grasso si determinò nel latte col metodo areometrico di Soxhlet (6); nelle feci mediante estrazione con etere e de- terminazione del peso del residuo, colle precauzioni indicate da v. Noorden (7). La tav. I.°, nella quale ho riunito i dati raccolti da un periodo di esame su un cane normale, rende chiaro il modo tenuto nel disporre le ricerche. (1) v. Noorden. — Grundriss einer Methodik der Stoffwechsel Untersuchungen. Berlin, 1892. (2) v. Noorden. — Loc. cit., p. 7. (3) Argutinsky. — Arch. f. Physiol. v. Pfitiger. Bd. XLVI, 1890, p. 581. (4) Liebermann. — Jahresb. d. Thierchemie 1886, p. 55, (5) O. Hammarsten. — Lehrbuch der physiologischen Chemie, 1886, p. 55. (6) Lehmann. — Die Methode der praktisch. Hygiene, 1891, p. 326. (7) v. Noorden. — Loc. cit., p. 44. = ‘Bale Cane operato di asportazione totale dello stomaco. Era stato operato dal Dott. U. Monari il 23 Giugno 1892, aspor- tando tutto lo stomaco meno una piccola porzione di parete imbutiforme presso al cardias alla quale aveva innestato il duodeno reciso subito sotto al piloro. Cominciai le mie ricerche nella metà di Febbraio 1893, quasi otto mesi dopo I’ atto operativo. L’ animale era in ottime condizioni di nutrizione, mangiava con buon appetito la dieta mista degli altri cani (minestre, pane, residui di. carne) senza avere mai vomito né diarrea, aveva un peso medio di kg. 15. Le ricerche, alternate con quelle che pra- ticavo sul cane operato di resezione intestinale, durarono fino alla fine del Maggio. Il cane fu ucciso il 2 Giugno 1893, e l’ autopsia dimostrò che mancava la quasi totalità dello stomaco, e che non esisteva nessuna dila- tazione sacciforme fra l’ esofago e il duodeno. La tav. II. dimostra un periodo preliminare di ricerche nel quale non mi occupai che del bilancio dell’ azoto, e che mi convinse subito della necessità di uno studio più completo, specialmente per quel che riguar- dava le feci. Ad ogni modo basta a far risaltare la perdita percentuale considerevole di azoto colle feci (gr. 19,2), attribuibile senza dubbio alla non avvenuta digestione della carne, di cui venivano spesso emessi pezzi interi ancora perfettamente riconoscibili macroscopicamente. Nelle urine sono negative le reazioni dei pigmenti biliari, ma vi ha quasi costantemente una quantità di urobilina rilevabile collo spettrosco- pio. Non so se, e fino a che punto, si possa collegare questo fatto collo scoloramento delle feci, nelle quali mancarono sempre gli acidi biliari. È quanto aveva già osservato Ogata nei suoi cani nutriti per la fistola pilorica. i i La tav. III. dà un periodo di studio completo, durante il quale il peso del cane rimase costante, ip cui quindi non si possono attribuire le per- dite colle feci ad una alimentazione esuberante. Paragonandola con quella contenente il periodo di ricambio del cane normale, spicca subito la no- tevole differenza nelle perdite percentuali di grasso e di azoto colle feci (pel cane normale 8,2 e 8,25; pel cane senza stomaco 15,88 e 20,00). Gli idrati di carbonio sono utilizzati completamente. Come si sa, il loro assor- bimento non presenta anomalie che nel caso di gravi alterazioni del tubo digerente (1). (1) v. Noorden. — Loc. cit., p. 24. — 325 — Restava a vedere se tutta la perdita di azoto era imputabiie alla mancanza della digestione e dell’assorbimento della carne. Intanto i dati forniti dalle tav. II. e III. indicano che per lo meno una parte di essa doveva venire assorbita. Dalla tav. III. infatti risulta che il valore medio dell’ azoto eli- minato quotidianamente colle orine (gr. 8,9493) è maggiore del valore me- dio dell’ azoto del pane e del latte (gr. 8,2942); e in ambedue si vede che — la perdita quotidiana di azoto colle feci (gr. 2,5126, tav. II.; e gr. 2,3834, tav. III.) é inferiore alla quantità giornaliera dell’ azoto introdotto colla carne (gr Wos,tav.. Il; e gr. 3,6931,. tav. IU). Si poteva supporre: che venissero intaccate e rese assimilabili solo quelle porzioni di carne che erano state separate dai pezzi più grossi nella masticazione, mentre i liquidi peptici del tubo digerente non potevano trasformare che superfi- cialmente i pezzi inghiottiti interi. Stando in vero al fatto verificato da Ogata (1), della non assorbibilità cioè del tessuto connettivo crudo per parte dell’ intestino, é evidente che il connettivo interstiziale dei muscoli doveva notevolmente difficoltarne la digestione. Feci perciò ancora due periodi d’ esame; in uno soppressi completamente la carne nella alimentazione, costituita solo di latte e pane in quantità non superiori a quelle dei due periodi precedenti; nell’ altro tornai alla dieta del pane, latte e carne : ma quest’ ultima venne somministrata ridotta in fina poltiglia con triturazione prolungata. Nella tav. IV. é esposto il primo di questi periodi: come si vede l'azoto totale introdotto si ridusse a gr. 7,735 pro die, invece di gr. 11,92 del periodo precedente (tav. III), ma la perdita colle feci non fu che di gr. 5,0 per cento, epperciò inferiore a quella osservata nel cane normale tenuto a dieta mista (8,25, tav. I.). La perdita percentuale dei grassi scese pure da 15,88 a 3,4; ed è senza dubbio questa utilizzazione maggione dei grassi dell’ alimentazione che permise al cane di mantenere costante il suo peso nei 7 giorni di esame, sebbene 1’ alimentazione fosse molto più scarsa, e l’ azoto utilizzato pel ricambio in quantità minore che nel periodo prece- dente (azoto eliminato colle orine gr. 6,4309 di contro a gr. 8,9493 della tav. III.). La perdita di grasso maggiore osservata nei precedenti esami era senza dubbio dovuta all’ azione che esercitavano sul tubo intestinale le masse di carne indigerite, probabilmente attivandone la peristattica, e non dando così tempo al grasso introdotto in quantità notevole nell’ in- testino di subire i cambiamenti necessarii al suo assorbimento (2). (1) Ogata. — Loc. cit., p. 95. i (2) Non è dimostrato che lo stato di fina emulsione, nel quale si trova il grasso nel latte, co- stituisca una condizione specialmente favorevole al suo assorbimento. Di fatti gli esperimenti di Ogata (loc. cit., p. 113) sulla digestione del chilo nel tenue, sebbene non conclusivi, fanno rite- — 326 — Infine la tav. V. è lo specchio del bilancio del cane nutrito con latte, pane e carne ridotta in fina poltiglia. Essa dimostra un ricambio perfetta- mente normale, con una utilizzazione dei materiali introdotti che corrisponde a quella osservata nel cane in condizioni fisiolegiche. Nei cinque giorni di durata dell’ esame si ebbe un aumento di 100 gr. di peso, sebbene l’azoto introdotto e l’ azoto utilizzato pel ricambio fossero in quantità minore dî quella del secondo periodo d’ esame (confronta tav. II). Anche qui il fatto deve essere attribuito all’ assorbimento molto più completo dei grassi. Mi pare che gli esperimenti sopra esposti bastino a far ritenere dimo- strate le seguenti conclusioni che si avvicinano di molto a quelle enun- ciate da Ogata: I cani operati di asportazione totale dello stomaco possono continuare a nutrirsi normalmente con formazione di feci normali. La carne cruda deve essere somministrata finamente divisa perché i succhi intestinali possano trasformarla in modo da renderla assimilabile nel tempo che essa impiega a percorrere il tubo digerente; introdotta in pezzi grossi non viene intaccata che superficialmente, e produce disturbi nel- l’ assorbimento causanti una incompleta assimilazione dei grassi. Gli idrati di carbonio sono assorbiti completamente. I grassi non subiscono una perdita percentuale superiore a quella osservata nel cane normale. Non pare che abbiano luogo processi putrefattivi anormali nell’ intestino per la mancata azione sterilizzante del succo gastrico. Ogata (1) attribuisce la caratteristica mancanza di acidi biliari nelle feci alla non avvenuta scissione di questi acidi per opera dell’ acido clo- ridrico stomacale. La reazione di Pettenkoffer nelle feci del cane nor- male é infatti dovuta all’acido colico, pressoché insolubile in acqua, pro- dotto nello sdoppiamento dell’ acido taurocolico per opera dell’ acido cloridrico dello stomaco (2). L’ acido glicocolico manca normalmente nella bile del cane (3). Se, e fino a che punto, queste conclusioni siano applicabili all'uomo é difficile dire. Parecchi fatti clinici però lasciano supporre che anche nell’uomo la funzione gastrica possa venire soppressa senza che ne risultino notevoli alterazioni nel ricambio. Tralascio i casi di resezioni più o meno estese dello stomaco, nei quali può rimanere il dubbio che sia rimasta una por- nere probabile, che almeno una certa quantità del chilo introdotto nel duodeno non venga assimi- lata tale e quale, ma dopo che il grasso si è riunito in gocce più grosse per venir poi nuovamente emulsionato. (1) Ogata. — Loc. cit., p. 106. (2) Demargay. — Liebig’'s Annalen d. Chem. Bd. XXVII, S. 289. (3) Emich. — Monatshefte f. Chemie, 1882, Bd. III, S. 336. (4) C. Kaensche. — Untersuchungen iber das functionelle Resultat von Operationen am Magen. Deut. Med. Woch. Dec. 1892, N. 49, p. 1114. — 327 — zione. anche piccola di mucosa secernente, e nei quali del resto, che io sappia, non fu fatto nessuno studio regolare di ricambio dopo l’ operazione. C. Kaensche (1), che studiò il risultato funzionale di alcune operazioni praticate sullo stomaco, espone fra le altre osservazioni quella di un ope- rato di resezione di piloro carcinomatoso, in cui dopo sette mesi la sola funzione motoria era ritornata normale, mentre persisteva anacloridria completa, e il succo gastrico non digeriva in stufa neppure coll’ aggiunta di acido cloridrico. Ciò malgrado il paziente era in grado di tollerare qual- siasi dieta, ed era aumentato di peso in modo notevole. V. Noorden (2) verificò che nelle forme di alterata secrezione gastrica non vi ha aumento nella scomposizione dell’ albumina dell’ organismo, né alterazioni nell’ as- sorbimento delle sostanze alimentari; e che aumentando la dieta si ha pure una scomposizione normale, colle solite modificazioni portate dalla prece- dente nutrizione insufficiente. Tutti i fenomeni osservati in questi casi sa- rebbero quindi dovuti solo alla insufficiente introduzione di alimenti, e la alterazione gastrica per se stessa non avrebbe che una importanza secon- daria nella produzione dei sintomi. Infine i processi putrefattivi dell’ intestino non paiono subire alcuno sviluppo anormale neppure nelle alterazioni più gravi della secrezione ga- strica, quando lo stomaco, ridotto a cavità inerte, presenta le condizioni più favorevoli per lo sviluppo e la moltiplicazione dei germi più diversi (6). IUK Cane operato di resezione di m. 1,90 di intestino tenue. L’ operazione fu praticata dal Dott. Monari il 25 Giugno 1892. Subito dopo il cane ebbe un periodo di progressiva denutrizione che in circa quindici giorni raggiunse proporzioni gravi: poi poco per volta si riebbe, grazie alla alimentazione con carne cruda, e tornò in condizioni apparen- temente normali, mantenendosi in discreto stato di nutrizione colla dieta mista solita degli altri cani. Nel Novembre portò felicemente a termine una gravidanza, e nei primi giorni di Dicembre partori quattro cagnolini, dei quali due morirono subito ed uno dopo 5-6 giorni, mentre il quarto fu allattato dalla madre durante tre settimane circa, senza che si notasse in lei altro che un po’ di dimagramento. L’ animale fu ucciso il 2 Giugno (1) v. Noorden. — Uber die Ausnutzung der Nahrung bei Magenkranken. Zeitschr. f. klin. Med. XVII; e Lehrbuch der Pathologie des Stoffwechsels, Berlin 1893, p. 239 e seg. (2) v. Noorden. — Lehrbuch ecc., p. 245. HR = 1893, e l'autopsia dimostrò che non rimanevano che 25 cent. di tenue, circa un ottavo della lunghezza totale primitiva. Lo studio del ricambio fu cominciato nove mesi dopo l’atto operativo, e i risultati ottenuti sono riassunti nelle tav. VI. e VII. L’ unica alterazione rilevabile in queste è il difettoso assorbimento dei grassi, che danno una perdita percentuale colle feci di gr. 19 (tav. VII.). Invece l’ azoto della ali- mentazione dà una perdita poco superiore a quella osservata nel cane normale tenuto ad una dieta uguale (confr. tav. I.). La minore utilizza- zione dei grassi fa si che per mantenere costante il peso dell’ animale è necessario fornirgli una dieta relativamente più abbondante. E infatti il cane privato di tenue, sebbene pesasse quasi un chilogr. meno del cane normale, riusciva appena a mantenere costante il suo peso con una dieta sufficiente a produrre un aumento in quest’ultimo (confr. tav. VII. con tav. I.). Le feci erano generalmente scure, piuttosto fetenti, poltacee, mai diarroiche, eccettuati pochi giorni nei quali venne data una quantità esage: rata di latte. Si deve quindi venire alla conclusione che nel cane l'asportazione della quasi totalità del tenue (sette ottavi) non solo non è incompatibile colla vita, ma permette all’ animale di mantenersi in buone condizioni di nutri- zione con un assorbimento intestinale poco alterato. È notevole il fatto che il breve tratto di intestino rimasto bastò per supplire al bisogno esa- gerato di materiali utilizzabili durante la gravidanza e l allattamento senza che il cane paresse soffrirne. Di fronte a questi risultati sì deve ammettere che il crasso possa as- sumere vicariamente la funzione dell’ assorbimento al posto del tenue mancante, ipotesi confortata pure da risultati ottenuti nella Clinica coi cli- steri nutrienti. La facilità e la rapidità colla quale i peptoni e le uova crude emulsionate sono riassorbiti dall’ ultima porzione del tubo digerente, è stata bene dimostrata dagli esperimenti di Voit e Bauer, Leube e Pfeiffer, Eichorst pel cane e per l’uomo ‘sano, di EwéaldfA per l’uomo malato ; esperimenti ripresi e in gran parte confermati recente- mente da A. Huber (Q). Nota. — A lavoro finito mi venne sott’ occhio una breve comunica- zione di Pachon e Carvallo alla Società di biologia di Parigi (seduta del 25 Novembre 1893) (3), sulla digestione del cane gastrectomizzato. Le (1) C. A. Ewald. — Uber die Ernihrung mit Pepton und Eierkl]ystieren. Zeitschr. f. klin. Med. 1887, H. 5, p. 407. (2) A. Huber. — Uber den Nahrwerth der Eierklystiere. Deut. Arch. f. klin. Med. Bd. XLVII. p. 495. (3) Sem. méd. 29 Nov. 1893. 89 conclusioni si riferiscono solo alla digestione della carne, che è meno per- fetta di quella osservata nei cani studiati da Ogata e da me. Il cane che fece oggetto delle osservazioni di Pachon e Carvallo mangiava lenta- mente e con masticazione prolungata, e presentava spesso vomito di so- stanze contenenti acidi organici quando venivano emesse 3-4 ore dopo l’ ingestione. Quello, sul quale praticai le mie ricerche, non si distingueva affatto da un cane normale, e non presentò mai nessuna particolarità nel modo di prendere il cibo, né alcun disturbo dopo averlo ingerito. Serie V. — Tomo IV. 42 ‘efeuzou Q1dwes (1IGI]IQ IpIo®) Jogo uonod Ip ‘zeoy ‘oamp 07s0gmIc ‘opto ;uoo eI1dwes ‘1)u010; 01UOWwIYZOLOST(] 8 ME RED AIR I ICRAI O) S S ‘euImoge equewmzoSde] Ò tamou euomztoI IP _2INOs-018113 100] ‘O[Oqep ‘2AIIIS 8 ERE IARE E « -od ojuoweiouod (10pvU0g-9]er) OUtOTPur ep ‘200% ‘0u0J098 Qu 0I0qIINZ QU COR OTO « « GUIUNAE TE] "OUeSOwI-OSSO1 [? 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Î pa A Azoto totale |ni si; Azoto YFeci secche Azoto Azoto totale Sun | Eve e oro | dle introdotto L10080) Dani delle oring gr. delle feci eliminato I 2,00 150 100 | 480 9,5626 195 | 1043 7,1152 15,0 0,9696 8,0848 II 150 100 | 400 9,025 290 | 1020 6,0924 12,5 0,9298 7,0222 III 5,050 | 100 117 400 8,7025 320 | 1028 8,1728 11,0 0,6759 8,8487 IV 100 150 | 390 9,7888 260 | 1044 7,2952 15,9 1,319 8,6142 V 5,100 | 100 150 | 500 10,548 500 | 1028 10,820 17,5 0,8207 11,6407 VI 150 150 | 500 11,265 410 | 1021 10,1176 14,5 1,078 9,1956 VII 5,250 | 100 150 | 360 9,6072 290 | 1045 10,0944 19,0 0,8442 10,9386 | VIII 100 100 | 300 7,426 420 1 1020 7,1152 22,5 1,5106 8,6258 IX 9,250 I 100 150 È 300 9,204 145 | 1038 7,090 7,090 Xx 5,250 | 150 120 | 500 10,4082 365 | 1023 8,3362 lo 0,6762 9,0124 XI 5,300 | 150 150 | 500 11,475 200 | 1031 6,208 15,0 1,5762 7,71842 Quantità complessive ..... 107,0123 | 3395 86,4570 163,5 10,4002 96,8972 Medie giornaliere . ...... 9,7283 309 7,8597 14,8 0,9455 8,8052 Azoto introdotto . .... gr. 107,0123 » eliminato ..... » 96,8572 Differenza gr. 10,1551 di Azoto in parte trattenuto, in parte (gr. 30 di au- mento di peso rappresenterebbero gr. 10,08 se fossero avvenuti interamente per aumento di albumina). Perdita precentuale di Azoto colle feci 9,7. Orine mai albuminose nè zuccherine. Colore giallo-giallo d’oro carico. Reazione dell’ indacano general- mente negativa. Feci scure poltacee o conformate, mai diarroiche. Reazione degli acidi biliari (Pettenkoffer) positiva. Il Residuo dello svaporamento con H,S0, diluito forma una massa nerastra, poltigliosa, di aspetto grasso. Reazione del Pettenkoffer positiva. ‘(IA ‘A6J,) tIopeIeO MITOS 1 0uEIuOSEId 100] 0] è eurio 01] ‘ompied 07077 Ip_69ceE ‘18 ezuesogi( der i i - Ise n n POM SRO O o o « « GESNEO € > ‘oprurunte « 000° > > * * * * oruoqieo) IP HBIP] - 1997 oT[00 atenzueosed eupsoq 1018°99 ‘13 © «© * + *** 0Mopoaui 090zy €890 | GFI | 008 | FLOE9 | L93520 | I109°0 10% | GI°SSSS | #89 [9156 Po eearL |: ‘esotreusor8 orpoy RIodo ouEed CEN eSle Sio PONS I DEL MUSEO DI BOLOGNA MEMORIA DEL PROF. GIOVANNI CAPELLINI (Letta nella Seduta del 22 Aprile 1894). CON DUE TAVOLE Avanzi di Rinoceronti del Bolognese. La celebre porzione anteriore di mandibola di Rinoceronte, illustrata nel secolo passato da G. Monti e da esso riferita al genere ARosmarus, è il più antico avanzo di Rinoceronte fossile conservato nel Museo di Bologna. Nella primavera del 1718 Giuseppe Monti, trovandosi a villeggiare a Monte Biancano presso il signor Biancani, di ritorno da una escursione al vicino Monte Maggiore, incontrò un contadino che gli presentò una pietra raccolta in fondo al burrone detto Balzo del Musico e nella quale era incastonato un osso con denti ancora in posto. Dopo avere esplorato il luogo ove quel fossile era stato trovato e la balza dalla quale naturalmente doveva essere precipitato, appena tornato a Bologna si adoperò per liberarlo dalla roccia nella quale era sepolto e convinto che si trattasse di un animale marino, dopo molti confronti, con- cluse che si doveva riferire al genere Rosmarus. Nel 1719 il Monti illustrò il fossile di Monte Biancano con un opu- scolo corredato di tavole incise in rame, e della nuova scoperta si valse per avvalorare la tradizione del Diluvio, strenuamente sostenuta e difesa dai naturalisti bolognesi (1). L’ egregio botanico per corroborare la sua tesi tirò in campo ogni sorta (1) Monti J. — De Monumento diluviano nuper in agro bononiensi detecto. Bononiee 1719. Serie V. — Tomo IV. 43 — 338 — di argomenti, e per mostrare i rapporti del fossile bolognese con il Rosmaro del Wormio, da questi copiò anche una figura per confronto. Quella pubblicazione valse ad accrescere fama all’autore e chiunque, in seguito, ebbe ad occuparsi di fossili, ricordò il cranio del Rosmaro bolo- gnese, taluno accettandone senz’altro come esatta la determinazione, altri (Gesner e Baumer) moltiplicando gli errori fino a riferire che dal Monti fosse stato giudicato un frammento di cranio di Ippopotamo. L’abate Fortis, trovandosi in Bologna come bibliotecario (1801-1803), fu il primo a sospettare dell’ errore del Monti; tolse ancora notevole por- zione di roccia attorno al fossile, ne fece preparare un buon disegno da mandare al Cuvier per opportuni confronti, ciò che non avvenne essendo morto prima di fare il progettato invio (1). Frattanto però il Cuvier, giudicando dalle cattive figure del Monti, dichiarava che il fossile bolognese non aveva alcun rapporto col genere Trichechus e mostravasi inclinato a riferirlo piuttosto al genere Masfodon. L’abate Camillo Ranzani, succeduto a Camillo Galvani nella direzione del Museo di Storia naturale, pare che fino dal 1805 apprezzasse il dubbio affacciato dal Fortis, e per assicurarsi che realmente non si trattasse del genere Rosmarus cercò di averne un cranio da confrontare e si accinse egli pure a togliere altra roccia dal fossile, abbandonando però presto la difficile impresa, persuaso che correva rischio di danneg- giare non poco il prezioso esemplare. Brocchi G. B. nella sua Opera immortale : Conchislogia fossile sub- apennina, cita il lavoro del Monti e riferisce il giudizio che ne aveva dato il Cuvier nel Vol. VII degli Annales du Museum nel 1806 ed anche nella 1.* edizione degli Ossements ‘fossiles che, sebbene pubblicata nel 1812 non poté essere corretta come l’autore avrebbe desiderato, perché in realtà quell’opera si componeva semplicemente con le Memorie già pubblicate negli Annales du Muscum d’ Histoire naturelle (2). Frattanto il Ranzani aveva potuto consultare i lavori di Pallas e Cuvier sui Rinoceronti fossili, e ormai si era persuaso che tra questi si avesse a collocare anche il famoso esemplare descritto dal Monti; pare tuttavia che annunziando per la prima volta quella sua opinione, nella circostanza di un discorso di laurea, non conoscesse ancora quanto il Cuvier già aveva scritto in proposito. Ma il grande naturalista francese essendosi recato in Italia per studiare particolarmente gli avanzi di verte- brati fossili del Valdarno raccolti nei musei di Firenze e Figline, passando per Bologna nel 1810 poté vedere il fossile di Monte Biancano ed ebbe (1) L’Abate Fortis morì in Bologna il 21 ottobre 1803. (2) Brocchi G. B. — Conchiologia fossile subapennina. Tomo I, pag. XXVII. Milano 1814. — 339 — subito a convincersi del retto giudizio intorno ad esso gia pronunziato dal- l'abate Ranzani. Infatti nella seconda edizione della classica opera Sulle Ossa fossili, pubblicata nel 1823, si affrettò a correggere l’ errore che si trova nella 1.* edizione del 1812, narrando che l’ esatto riferimento del famoso esem- plare a una mandibola di Rinoceronte era dovuto al dotto naturalista abate Ranzani che, da lui pregato, aveva pure liberato meglio il fossile dalla roccia, sicché aveva potuto accertarsi che non si era ingannato (1). Il disegno riprodotto dal Cuvier nella fig. 10, Tav. IX, a } del vero, era stato eseguito prima in grandezza naturale per cura del Ranzani e da questi portato a Parigi nel 1811; da allora in poi tra i resti fossili di Rinoceronti, i naturalisti registrarono anche la porzione di mandibola sco- perta nel Bolognese nel 1718. Nel 1835 De Christol, nelle sue ricerche sui caratteri delle grandi specie di Rinoceronti fossili, descrivendo la mandibola inferiore del suo preteso Ah. fichorhinus (Rh. megarhinus?) trovato a Montpellier, mentre sbaglia asserendo che al Cuvier era bastato un disegno della mandibola pubblicata dal Monti come Morsa fossile, per riconoscerla invece come spettante a un Rinoceronte e determinarne esattamente la specie, riproduce la figura pubblicata dal Cuvier a 7, del vero e ammette che offre tutti i caratteri della mandibola di Montpellier, aggiungendo, inoltre, che questa vista di profilo non differisce punto da quella del Rinoceronte unicorne di Giava (2) Per mezzo di Alberto Lamarmora, allora colonnello, il De Chri- stol si procurò disegni del cranio e della mandibola del Rinoceronte sco- perto nel 1805 a Montezago e descritto dal Cortesi nei Saggi geologici. E mentre contestò che si potesse ammettere una corta sinfisi, fece notare che l’ esemplare era sciupato; ma poiché sul carattere della sinfisi e sulla assenza di ogni traccia di incisivi il Cuvier aveva insistito per il suo RA. leptorhinus e d’ altra parte i disegni fatti eseguire dal Lamarmora sotto la sorveglianza del Prof. Gené a Milano e le relative informazioni assicu- ravano che il cranio trovato a Montezago (3) aveva setto nasale, De Chri- stol concluse che si trattava di un rinoceronte coi caratteri del R/. f#{eho- rinus e negava la esistenza di un vero AA. leptorhinus. De Christol fondando per il rinoceronte fossile di Montpellier il suo (1) Cuvier G. — Ossements fossiles. 2.2 édit. Vol. II, p. I, pag. 73, 74. Paris 1822 — Vol. V, p.I, pag. 234. Paris 1823. (2) De Christol — Recherches sur les caracteres des grandes espèces de Rhinocéros fossiles. Annales des Sciences naturelles. Seconde Série, Tom.IV. Zoologie pag. 58, pl. I, fig. 4. Paris 1835. (3) Cortesi G. — Saggi geologi degli Stati di Parma e Piacenza, pag. 73, Tav. V, fig. 5 e Tav. VII. Piacenza 1819. — 340 — Rh. megarhinus, lo confronta con il rinoceronte bicorne di Sumatra e in seguito, parlando delle ossa fossili sparse, raccolte in Italia e attribuite al Rh. leptorhinus, aggiunge : poiché é evidente che il RA. leptorhinus non ha esistito, dette ossa probabilmente appartengono al RA. megarhinus e per i denti se ne ha la certezza. De Christol conclude che non avrebbe creato un nome nuovo, se i disegni avuti da Lamarmora e Gené gli avessero permesso di riferire il rinoceronte di Cortesi a una specie senza setto nasale. Erano le cose a questo punto quando Camillo Ranzani 1’ 11 maggio 1837 presentò all’ Accademia di Bologna la sua Dissertazione: De mazilla in agro bononiensi reperta a Iosepho Monti (1). Dopo avere riepilogato la storia della scoperta di quel fossile e dopo avere accennato come avesse potuto sospettare che si trattasse di una mandibola di Rinoceronte, passando in rivista le varie specie fossili e avendo avuto la opportunità di esaminare la recente memoria di De Chri- stol sul AQkinoceros megarhinus di Montpellier, ammette pei confronti delle mandibole che il Rinoceronte di Munte Biancano certamente poco doveva differire da quello di Montpellier. Ranzani si proponeva di tornare un altro anno su quell’ argomento e discorrere più diffusamente dei rapporti e delle differenze del prezioso fossile; ma pur troppo fu quello 1’ ultimo lavoro che si ebbe dal nostro Accademico, che mori nell’ aprile del 1841. Dopo il Ranzani, il Blainville si interessò non poco del Rinoce- ronte bolognese e nella sua laboriosa Memoria sul genere Ahinoceros (2) ne parla ripetutamente per ricordare che da Cuvier era stata attribuita a un Mastodonte e che invece dal Ranzani era stata riconosciuta come mandibola di Rinoceronte; quindi discorrendo lungamente delle scoperte del Cortesi e del cranio di Montezago con o senza setto nasale, dichia- rando che nell’ esemplare conservato nel museo di Milano non esiste setto nasale, conclude che si deve riferire al ARA. leptorhinus e che si tratta della stessa specie che si trova nelle sabbie plioceniche di Montpellier, ossia del ARA. megarhinus De Christol. Nel trattato di paleontologia di Pictet, a proposito del genere 7richechus è fatta menzione del celebre fossile illustrato dal Monti per ricordare che in realtà non si trattava di Tricheco ma bensi di Rinoceronte. H. Fal- coner venuto a trovarmi a Bologna nella primavera del 1861, interessan- dosi allora in modo particolare dei Rinoceronti fossili pei quali gia aveva raccolto copiose notizie, esaminò anche il prezioso esemplare di Monte (1) Ranzani C. — De maxilla in agro bononiensi reperta. Novi Commentarii Acad. Se. Inst. bon. Tom. VI, pag. 295. Bononiae MDCCCXLIV. (2) Blainville Ducrotoy de — Ostéographie des Mammiféres. Tom. IV, genre RAinoceros pag. 120. Paris 1839-1864. — 341 — 'Biancano, e, pur non dubitando che per nulla dovesse specificamente dif- ferire dai rinoceronti del Piacentino e da quello di Montpellier, riconobbe che sarebbe stato conveniente di togliere la roccia che ingombrava la sinfisi di quell’ avanzo di mandibola, ciò che gli promisi di tentare a mo- mento opportuno. Ma poiché distratto da altri lavori non mi occupai subito di quanto il Falconer mi aveva suggerito, cosi non ebbi occasione di fargli in pro- posito alcuna comunicazione, né prima d’ oggi si ebbe una nuova figura del fossile completamente spogliato della roccia, in modo da togliere final- mente ogni incertezza sul giudizio esatto che era stato pronunziato dai paleontologi che di recente se n° erano occupati. Morto il Faleconer nel gennaio del 1865, le sue note paleontologiche furono con ogni cura raccolte e pubblicate con la assistenza di suoi an- tichi discepoli ed intimi e illustri amici quali Sir Proby, Cautley, Grote, Wood e Ed. Lartet; tra esse figurano le numerose e impor- tanti osservazioni fatte sui materiali del Museo di Bologna, di Imola, di Vicenza ecc. ove io ebbi l’ onore e la fortuna di poterlo sempre accompa- gnare, ma per il fossile di Monte Biancano neppure una parola, perché eravamo d’ accordo che, a suo tempo, gli avrei reso conto della doccia sinfisiaria liberata dalla roccia che la ingombrava. Le figure 1-3, Tav. I, rendono conto delle fasi diverse di preparazione del fossile, rappresentato a metà della grandezza naturale. La fig. I, corri- sponde alla fig. 1.° della tavola che si trova unita alla dissertazione del Monti, la fig. 2.* è la fedele riduzione a metà grandezza della Tav. I. del Ranzani. Da analogo disegno fu fatta la riduzione della stessa figura pubblicata dal Cuvier a /, del vero nella seconda edizione degli Osse- ments fossiles, riprodotta in seguito da De Christo]; la fig. 3.* ci rappre- senta il prezioso esemplare come oggi si trova tra le reliquie del Museo Monti, nella tribuna aldrovandiana. La fig. 3.* cavata da una fotografia, permette di apprezzare in quale stato si trovi il fossile dopo che attorno ad esso lavorarono Monti, Fortis, ripetutamente il Ranzani e da ultimo io pure, che con un for- tunato colpo di scalpello bene applicato potei togliere in un sol pezzo la roccia che ostruiva la doccia sinfisiaria e che conservasi presso 1’ esem- plare per mia giustificazione. Dopo questa operazione non v’ é dubbio che si scambierebbe facilmente il fossile bolognese con un frammento della mandibola del AA. megarhinus De Christol (4h. leptorhinus pro parte) delle sabbie di Montpellier. Anche le traccie degli incisivi che del resto erano state notate dal Ranzani (V. fig. 2.* qa) sono oggi rese meglio appariscenti che non lo fossero allorché 1)’ esemplare fu illustrato da chi pel primo ne aveva ap- prezzato i veri rapporti. — 342 — Bacino di Rinocerente presso Rio Secco. Dalla scoperta del fossile di Monte Biancano trascorsero più di 150 anni prima che nel Bolognese fosse segnalato qualche altro avanzo di Rinoceronte. Nella seduta dell’ Accademia di Bologna del Maggio 1871 annunziai come nelle sabbie plioceniche di Rio Secco presso il Sasso aveva trovato un bacino incompleto, ma pure molto interessante, di Rhinoceros megarhinus e fin d’ allora mi proposi di farne la illustrazione in un lavoro speciale sui Rinoceronti fossili del Museo di Bologna (1). Nel Marzo del 1871 il Signor Fortunato Rossi avendomi recato un frammento di osso stato raccolto dal contadino Isidoro Lolli in una balza presso il Rio Secco nelle vicinanze del Sasso, il 27 di quel mese, accom- pagnato dal Sig. F. Rossi, dai suoi nipoti Francesco e Guglielmo, dal l’ Ing. Dall’ Orto di Milano allora mio alunno e dal contadino sopra ricor- dato, mi recai sul luogo. Lasciando la strada provinciale e risalendo il Rio Secco per circa duecento metri, sulla sinistra si trova una strada la quale conduce alia villa Cel- lini. La strada é aperta attraverso le sabbie gialle compatte che in più circostanze ho avuto da ricordare per i resti di Mastodonti e di Sirenoidb che vi sì raccolsero a Mongardino, Montelungo, Riosto; queste sabbie, tal- volta cementate in guisa da poterle considerare come vere molasse, lungo la detta strada raggiungono da sei a otto metri di potenza e si presentano distinte in grossi strati. Percorsi circa cento metri dal Rio, appena un metro sul livello della strada ebbi il piacere di trovare ancora in posto una porzione di grossa amigdala di molassa, dalla quale era stato staccato un bel blocco conte- nente più di una metà del bacino di un mammifero che non esitai a ri- conoscere doversi riferire al genere /hinoceros. Fatti esportare i blocchi di roccia con ossa, e raccolti per via parecchi frammenti dispersi e gia trascinati dalle piogge a non breve distanza dal luogo in cui il fossile giaceva sepolto, con molta cura potei ricomporre la notevole porzione di bacino rappresentata nella Tav. I, fig. 4. La metà sinistra di questo bacino può dirsi completa, se si eccettuano piccole sbocconcellature nella spina posteriore, nel margine del cotile e nel pube. La piccola porzione che manca per rendere perfetta la lamina dell’ ileo (1) Capellini — Vertebre cervicali di una baiena affine alla RA. dysceajensis e bacino di Rhinoceros megarhinus. Rend. Sess. Acc. Sc. Ist. Bol. 1870-1871, pag. S1, 82. Bologna 1871. — 343 — permette di apprezzare la grande sottigliezza della lamina stessa verso la, cresta; la spina, invece di esser bifida come nel Rinoceronte unicorne del- I’ India, é tuberosa come nel Rinoceronte di Giava, al cui bacino in com- plesso grandemente somiglia l’ esemplare fossile del quale si tratta. Manca un piccolo frammento in corrispondenza della tuberosità pubica, senza di che la cresta sarebbe completa. La cavità cotiloide ha un diametro di m. 0,098 e la distanza tra il mar- gine superiore della cavità destra e il corrispondente della cavità sinistra si può valutare m. 0,400; non potendosi indicare questa misura come ri- gorosa, a motivo delle piccole sbocconcellature già sopra accennate. Il foro ovale od otturatore destro essendo integro ne ho potuto misurare il diametro anteroposteriore eguale a m. 0,098 e il diametro trasverso digimi. 0,078. L’ischio sinistro è completo, il destro manca di una parte della sua tuberosità. L’ apertura pelvica ha un diametro trasverso di m. 0,270; altre misure non sono possibili mancando interamente 1’ ileo destro. Avendo accennato al carattere della spina pel quale gia il Cuvier aveva notato doversi distinguere il Rinoceronte di Giava dall’ ordinario rinoceronte indiano, avendo fatto osservare che il bacino del Rinoceronte di Rio Secco offre appunto questa notevole particolarità della non bifidità della spina dell’ ileo, mi torna qui opportuno di ricordare che il De Chri- stol a proposito del RA. megarhinus aveva insistito sui suoi stretti rap- porti con il vivente rinoceronte di Giava. Conseguentemente, il Rinoceronte bolognese pei suoi rapporti col Rinoceronte di Giava viene pure ad iden- tificarsi col RA. megarhinus di De Christol. Frammento di omero del Colle della Casazza. La fig. 5 della Tav. I rappresenta, a 1 del vero, la porzione superiore di un omero sinistro proveniente dal Colle della Casazza e donato al Museo geo- logico dal Prof. Giuseppe Bertoloni nel Luglio 1876. Questo frammento, quantunque assai guasto anche dal lato posteriore figurato, pure ha un qualche interesse pel luogo ove fu trovato e per le sue dimensioni che ho riscontrato quasi eguali a quelle dei più colossali esemplari di Ahinoceros pachygnatus di Pikermi coi quali ho potuto confrontarii. Non avendo da rilevare alcuna particolarità e trattandosi di esemplare troppo incompleto, tralascio ogni descrizione, sembrandomi che possa ba- stare la figura citata. Malgrado le più accurate ricerche, nel Colle della Casazza non si tro- varono altri avanzi di rinoceronte, né mi riesci di avere esatte indicazioni — 344 — sul giacimento di questo frammento che ho motivo di credere proveniente dalle sabbie gialle argillose plioceniche, essendo in gran parte ricoperto di una crosta argillo-ferruginosa. Quanto alla specie, si tratta sempre del Rh. megarhinus. Dente molare presso Montelungo. Trattando dei resti di Mastodonte nel Bolognese, ebbi occasione di ri- cordare che il Signor D. Badini, curato di Vizzano, fino dal 1874 aveva pure raccolto sotto Montelungo di Musiano un bel dente di Rinoceronte (1). Benché spezzato e mancante di piccola porzione di smalto nel denti- colo anteriore esterno, quell’ esemplare è sommamente interessante essendo, per ora, il solo molare superiore di Rinoceronte stato raccolto nei dintorni di Bologna. Questo dente (Tav. I fig. 6-7) per accurati confronii con quelli del Rino- ceronte di Montegioco nel Piacentino e col Rinoceronte dell’ Imolese la’cui serie dentaria fu descritta e figurata dal Falconer, evidentemente spetta al RA. megarhinus di De Christol. Si tratta del primo vero molare o. antipenultimo della mascella sinistra, ed eseguite le jopportune misure e proporzioni si riconosce che corrisponde perfettamente al Rinoceronte del Piacentino un poco più piccolo dell’ esemplare Imolese (2), non tanto per- ché si tratti di varietà od altro, ma piuttosto perché si riferisce a indi- viduo notevolmente più giovane, quantunque neppure l’ esemplare del Museo d’ Imola possa ritenersi che fosse vecchissimo. Come si può rilevare anche dalle figure in grandezza naturale, questo: dente é lungo 41 millimetri e largo 55 millimetri; è facilmente riconosci- bile per la evanescenza del cingolo basale nel lato interno. Anche di questo fossile il Museo di Bologna ha dovuto contentarsi di fare eseguire un modello, non essendo stato possibile di persuadere il proprietario D. Badini che, tenendolo presso di sé a Vizzano con molte cianfrusaglie, rischiava di vederlo sciupato e che forse un giorno sarebbe andato perduto anche per gli studiosi. (1) Capellini — Resti di Mastodonti nei depositi marini pliocenici della provincia di Bo- logna. Mem. della R. Accad. delle Scienze di Bologna. Serie V, Tom. III, pag. 363. Bologna 1893. (2) Falconer H. — Palaeontological Memoirs and Notes. Vol. II, pag. 395, PI. 31, fig. 1. London 1868. sido — Ossa diverse presso Pradalbino. Nel 1887 il Signor Torquato Costa di Anzola mi feceva avere, per esame, alcune ossa trovate in parte nel Rio Martignone e presso Pradalbino. Quelle ossa erano state raccolte nel 1885 e 1886 da Gaetano Gandolfi proprietario della possessione Puglia, in Monte Oliveto comune di Monte- veglio, e per la maggior parte erano ridotte a frammenti poco utilizzabili, ma facilmente riconoscibili per ossa di cetacei (Balaenula, Cetotheriopsis, Tur- siops, ecc.); però esaminando attentamente in mezzo a quei resti di Ta- lassoterii fui lieto di trovare anche porzioni di ossa di mammiferi terre- stri e tra queste i seguenti avanzi riferibili al genere Rinoceronte. 1.° Piccola porzione anteriore del ramo destro della mandibola di un giovane individuo con le radici di tre premolari; è un frammento lungo circa nove centimetri, mancante della sua porzione inferiore, epperò ap- pena riconoscibile e da ricordare. 2.° Porzione del condilo interno del femore sinistro; le estremità ante- riore é integra, nel lato posteriore 1’ osso é rotto obliquamente e ne manca una piccola parte. i Nella porzione mediana questa faccia articolare ha un diametro di cin- quantadue millimetri; per la forma differisce sensibilmente da quella che ho potuto riscontrare nel RA. etruseus e nel RA. pachygnatus, ma più non potrei dirne. 3.° Il corpo di una vertebra dorsale incompleto. 4.° Finalmente un bellissimo astragalo perfettamente conservato. Questossofeherhoeredutodegnodi essere figurato!(Tav. I fig:*879, 10) spetta all’ arto sinistro e corrisponde perfettamente all’ astragalo sinistro del Rinoceronte raccolto dal Cortesi a Montegioco e di cui unitamente al corrispondente calcagno diede una cattiva rappresentazione nella Tav. JI, fig. 4 (1). — L’originale del Cortesi si conserva nel Museo della R. Uni- versità di Parma; però fino dal 1861, essendomi stato comunicato per studio, potei cavarne un modello e di questo mi sono ora giovato pei confronti con lo stupendo esemplare raccolto dal Gandolfi. L’ astragalo di Rinoceronte trovato presso Pradalbino é appena appena più piccolo di quello del Rinoceronte di Montegioco, tanto che la differenza nei diametri maggiori arriva soltanto a un millimetro; il suo stato di con- (1) Cortesi — Sulla scoperta dello scheletro di un quadrupede colossale fra strati marini, pag. 7, Tav. II, fig. 4. Piacenza MDCCCXXXIV. Serie V. — Tom) IV. 44 — 346 — servazione, poi, nulla lascia da desiderare ed è di gran lunga superiore a quello dell’ esemplare piacentino. La lunghezza dal lato esterno è di m. 0,080; la larghezza della puleggia tibiale, m. 0,086. La fig. 8, Tav. I, rappresenta il fossile visto per la sua faccia superiore ben conservata, la fig. 9 lo fa vedere per il lato interno e nella fig. 10 si può apprezzare la stupenda conservazione delle faccie di articolazione di quest’ osso col calcagno. Modelli e avanzi di Rineceronti di località diverse. Oltre ai resti di Rinoceronti del Bolognese dei quali ho finora discorso, nella ricca collezione di vertebrati fossili di questo Istituto si conservano parecchi altri avanzi dello stesso genere i quali meritano di essere per lo meno ricordati in questa circostanza, anche per vantaggio degli studiosi che avessero da ricercarli per opportuni confronti. E anzitutto sono da menzionare la estremità superiore e la estremità inferiore di un omero destro descritti e figurati da Cuvier nella seconda edizione della sua opera sulle Ossa fossili. Questi due frammenti di ignota provenienza furono acquistati dall’ abate Ranzani a Parigi, come narra lo stesso Cuvier cui furono comunicati per studio. Cuvier riferi questi avanzi alla stessa specie alla quale riferiva il Rinoceronte del Valdarno illustrato dal Nesti; pure quando si confrontano questi frammenti con le corrispondenti estremità di un omero di Ah. etruscus vi sì notano sen- sibili differenze, mentre meglio convengono con quello del RA. megarhinus De Christol. i Nella Tav. II, fig. 1 a 6, ho creduto opportuno di riprodurre le sei figure pubblicate già dal. Cuvier nella Pl.X, fig. 5,a,;10. del VolZi6p2r dell’opera più volte ricordata. Il solerte paleontologo francese si limitò a constatare che sì trattava di animale adulto e che la larghezza del capo inferiore era soltanto di m. 0,118, terminando la breve nota con queste parole : Ces morceaux achetés a Paris chez un marchand, par M. l abbé Ranzani, sont dits avoir été trouvés en France, mais on en ignore le lieu précis (1). La bellissima porzione di cranio di Rhinoceros etruscus descritta e figu- rata a }, della grandezza naturale nelle Memorie paleontologiche di Falc o- ner (2) Vol. II, pag. 363, PI. XXIX, faceva parte del materiale paleontolo- (1) Cuvier G. — Ossements fossiles. 2.° édit. Tom. II; p. 1.°°, pag. 79, PI. X, fig. 5, 6,7,8,9, 10. Paris 1822. (2) Falconer H. — Palaeontological Memoirs and Notes. Vol. II, pag. 363, PI. XXIX. Lon- don 1868. — 347 — gico ‘raccolto, per cura del prof. Alessandrini, nel Museo di Anatomia. comparata, e passato al Museo geologico nel 1861. Questo importante esemplare (Tav. II, fig. 7) fu trovato nel 1845 a piccola distanza da Barberino del Mugello, insieme ad altri avanzi dello stesso animale. Il signor Onorio da Barberino, veterinario allievo del prof. Alessan- - drini, dopo aver regalato parecchi di quei resti fossili al Museo di Ana- tomia comparata, riesci ad acquistare il classico esemplare del quale si tratta e nel marzo del 1847 lo inviò a Bologna. Quando nel maggio 1861 il dott. Falconer si tratteneva in Bologna per studiare i resti di Elefanti, Mastodonti e Rinoceronti del Museo paleon- tologico, il prezioso esemplare si trovava già nella collezione del Museo geologico e fui lietissimo di permetterne al grande naturalista uno studio accurato, facendone anche eseguire un modello per il Museo britannico di Londra e il disegno pubblicato nella tavola XXIX dell’ opera citata. Oltre a questo importantissimo esemplare, il Museo possiede parecchî altri avanzi e modelli di esemplari classici della stessa specie, tra i quali gioverà di ricordare i denti e porzioni di mandibole provenienti da Bar- berino del Mugello, dal Valdarno e da Barga; il modello del cranio illu- strato da:Falconer (Opera cit. Vol. Il, pag. 359, PI. 28, fig. 1) e che. si conserva nel Museo di Firenze e alcuni modelli dell’ omero, del femore e del piede gia illustrati dal Nesti e ricordati pure dal Cuvier. Del Ahinoceros megarhinus De Christol vi hanno modelli dei più interessanti esemplari che si trovano nei Musei di Parma e di Imola e che sono disegnati e descritti nelle Memorie di Falconer; vi ha pure un bel modello del cranio trovato nelle sabbie di acqua dolce di Lons l’ Etang presso Moras (dipartimento Dròme) ed ora nel Museo di Lione. Di questo modello ebbe pure un esemplare il Dott. Falconer nel 1858 e ne fece preparare un disegno che vedesi riprodotto nella PI. XXXI, fig. 3 (1) nella quale é pure messa a confronto la bella serie dei molari superiori del AA. megarhinus trovato in Imola con quella che si ha dello stesso ani- male nel Museo di Lione. Gli editori delle memorie di Falconer, non avendo trovato note cor- rispondenti a quelli importanti avanzi, pregarono il Prof. Flower di volere almeno eseguire alcune misure a corredo delle figure stesse. Questi esemplari hanno per noi particolare interesse, perché servirono al Falconer per opportuni confronti col Rinoceronte imolese. Del Rhinoceros pachygnatus Wag. del celebre giacimento di Pikermi, (1) Falconer — Op. cit. Vol. II, pag. 369, PI. XXXI, fig. 3. London 1868. — 348 — il Museo di Bologna possiede un bellissimo modello del cranio completo illustrato del Prof. H. Gaudry e per suo mezzo avuto in cambio dal Museo di Storia naturale di Parigi. — V. Gaudry: Animaua fossiles de Vl At- tique. PI. XXVII. Paris 1862-1867. Inoltre una bella serie di ossa assai ben conservate in parte raccolte e donate da me e in parte avute in cambio dal Museo di Atene nella circostanza del mio viaggio in Grecia nella primavera del 1872. — Meri- tano di essere ricordati: una bella porzione di cranio, un intero arto si- nistro, un femore sinistro, tibia e perone destro, notevoli porzioni del bacino, parecchie ossa del carpo e meftacarpo, e aleune ossa del metatarso. Del Rhinoceros occidentalis Leidy vi hanno due bellissimi molari (1° ul- timo e penultimo superiori sinistri) che ottenni nel Nebraska nella circo- stanza del mio viaggio in America; vi hanno pure due denti molari del Rhinoceros nebrascensis Leidy, donati coi precedenti nel 1864. Il Rhinoceros tichorhinus Dower é rappresentato da un cranio di un vecchio individuo abbastanza ben conservato, avuto in cambio dal Museo di Pietroburgo ; vi ha inoltre un discreto numero di denti provenienti da Creswell. Del Ah. minutus Cuv., vi sono interessanti avanzi del celebre giacimento di Quercy, donati dal Prof. Filhol; il modello della porzione di man- dibola sinistra e denti molari trovati a Nuceto e Sassello e illustrati da Gastaldi. — B. Gastaldi, Cenni sui vertebrati fossili del Piemonte, Tav. I, I, III. Mem. della R. Accad. delle Scienze di Torino. Serie II, Tom. XIX. Torino 1858. Sono quindi da ricordare il modello della mandibola di ARhQrinoceros insi- gnis Jourdan trovata a Gannat ed ora nel Museo di Storia naturale di Lione, e il modello di una mascella di AhRinoceros Goldfussi Kaup., trovata a Mantscho presso Graz. Finalmente del AhRinoceros incisivus Cuv. il Museo possiede alcuni bellissimi denti provenienti da Issoire, nonché altri avanzi dei giacimenti di Quercy e St. Antonin avuti in dono dal Prof. Filhol. Vi hanno inoltre i modelli dei denti trovati a Chevilly e illustrati da Cuvier. (V.° Recherches sur les Ossements fossiles PI. VI. Paris 1822). Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. — 349 — SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tavola I. Rhinoceros megarhinus Chr. 1. — Mandibola raccolta presso Monte Biancano: Figura pubblicata dal Monti nel 1719, ridotta a %,. 2. — La figura dello stesso fossile, in parte liberato dalla roccia, pub- blicata dall’ Ab. Ranzani nel 1844, ridotta a }4; aa tracce dei denti incisivi; 50 conchiglie. 3. — Lo stesso esemplare rappresentato come si trova attualmente, liberato dalla roccia che ne ingombrava la doccia sinfisiaria; %, dal vero. 4. — Bacino scavato a Rio secco presso il Sasso; 5, della grandezza naturale. 5. — Omero sinistro, porzione superiore, proveniente dal colle della Casazza, }/, dal vero. 6. — 3° vero molare superiore sinistro, visto per la faccia superiore e rappresentato in grandezza naturale. 7. — Lo stesso esemplare visto per la faccia anteriore. 8. — Astragalo sinistro visto per la sua faccia superiore in grandezza 1, dal vero. 9. — Lo stesso osso rappresentato per il lato interno. 10. — Lo stesso osso figurato per la sua faccia inferiore. Tavola II. 1, 2, 3. — Porzione superiore di omero destro illustrato da Cuvier; 1. della gradezza naturale. 4, 5, 6. — Estremità inferiore dello stesso osso pure illustrato da Cuvier, rappresentato a } dal vero. 7. — Porzione di cranio illustrato da Falconer, rappresentato a 14 della sua grandezza naturale. i pei aipost sI ‘aq odsiv ‘ame —. asaepa or paloll-rsdp betta 7 Sco LA For danttronate e Gannat 00 Gna nav Minedo.att vi “PA, 0 pension inn “dy GidtiroeongigrG E” Pieché ni tenzz fsginionen «viario pen pe ai | Fri 1 b SM hemga-t da Cave to Ra da erioiani sli [oa Vie venta sp ‘rei Bb otevtanili otteob | dharma: ra oq0raque pron ‘dd: “oil, olsitsa assobérg: ‘alleb ‘#6 otertenili Ci daso ossile ‘ollabi otoltelgi stic mortali AIOY l8b a 4‘ Gislne2stggRi. ° i) dl: otninozsmaget nego Tab (Ch Pi ib ARRE assente sue eno be pr Mem. Ser. V. Tom. IV. A Agostini dis. dal vero ig.10. N Bologna Tit Mazzoni e Rizzoli E. Contoli li Mem. Ser V. Tom. IV. (3. Capellini Tav. IL EF. Chiarini Lit Lit Mazzoni e Rizzoli-Bologna SULLA MACLUKRINA E. FLORETINA NOTA DI GIACOMO CIAMICIAN £ PAOLO SILBER (Letta nella Seduta del 27 Maggio 1894). Nella nostra Memoria (') sulla costituzione della cotoina, recentemente pubblicata, abbiamo dimostrato che questo composto, che é da riguardarsi come un etere monometilico della benzofioroglucina, dà per trattamento coll’anidride acetica oltre al derivato biacetilico una sostanza, la quale ha la composizione della diacetilcotoina meno una molecola d’acqua: Cis H, O, CE, O, _—_ n _—____— ___&6T T___ e tt __— diacetato di cotoina nuovo composto Quest’ ultimo, come s’ è visto, non é altro che un prodotto di conden- sazione della cotoina con l’acido acetico e deve essere considerato come l’acetato d’ una metildiossifenileumarina, della formola : O AVBSTCO) C,H,(0H)(0CH,) c‘ CH - CH, Noi abbiamo trovato che la maclurina e la floretina danno anche esse coll’ anidride acetica sostanze analoghe a quella ottenuta dalla cotoina, e (1) Gazzetta chimica 24, I, pag. 407. — 352 — crediamo perciò che questi corpi abbiano costituzione simile al prodotto che deriva dalla cotoina. Maclurina. La sostanza greggia proveniente. dalla fabbrica di E. Merck venne purificata nel seguente modo : la soluzione eterea, filtrata da un piccolo residuo insolubile a freddo nell’ etere, da per trattamento con nero animale un prodotto assai meno colorato; questo, che si deposita per concentra- zione del liquido, venne. fatto. cristallizzare prima. dall’acido acetico al 50 p.cto. e poi dall'acqua. Si ottiene cosi una polvere cristallina, gialla, che _ ha la composizione attribuitale da Hlasiwetz e Pfaundler ('), la quale venne confermata dal Benedikt (?). Il prodotto seccato nel vuoto sull’ acido solforico contiene una molecola d’acqua di cristallizzazione ; all’ analisi dette numeri conformi alla formola : Ci; HO, +!Hj0. I. 0,2018 gr. di sostanza dettero 0,4138 gr. di CO, e 0,0760 gr. di 7,0. II. 0,1526 gr. di materia dettero 0,3116 gr. di CO, e 0,0564 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per CHO + H,0 Pre o tr —_—__îiz; rr CT ee _____ I, II. Cv? 39,69 59,71 FA, 4,11 4,28. I cristalli seccata nel vuoto vennero indi deacquificati a 130-140°. 0,6216 gr. di sostanza, seccata nel vuoto, perdettero 0,0360 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per C;,H4,0; + H,0 2 —T TT. = —__— e Oo 6,43. (1) Liebigs Annalen 127, pag. 352. (2) Ibid. 185, pag. 117. — 393 — «La maclurina anidra dette poi all’ analisi numeri corrispondenti alla . formola: C,3H09g> 0,1684 gr. di sostanza dettero 0,3676 gr. di CO, e 0,0590 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,,H,0, e —T— _— 1. — = —___&6k C 59,53 59,54 H 3,89 3810 che venne confermata da una determinazione del peso molecolare eseguita in soluzione acetica: peso molecolare concentrazione abbassamento trovato calcolato I La TaebFTFPr—_r "e t__s”T T__—_ e 9 — CAR > 0,6154 0°, 090 267 262 . La formola proposta da Hlasiwetz é dunque perfettamente esatta. Hlasiwetz considera la maclurina come una specie d’ etere composîio della fioroglucina coll’ acido protocatecico, e questa interpretazione della costituzione della maclurina crediamo sia tutt’ ora quella generalmente am- messa. Sebbene non ci sia stato possibile d’ottenere colla maclurina per trattamento colla fenilidrazina e colla idrossilammina prodotti bene definiti, pure noi siamo propensi a ritenere che la maclurina abbia con maggiore probabilità una costituzione analoga a quella della cotoina e sia, cioé, un composto chetonico. Come è noto, una simile considerazione, è stata fatta da Etti (') per l’acido tannico della Quercus pedunculata. La nostra sup- posizione viene avvalorata dal fatto, che la maclurina dà per azione del- l’anidride acetica ed acetato sodico un composto analogo a quello che, assieme al diacetato, si ottiene dalla cotoina. La cotoina, CEHLO 1247? dà, come abbiamo dimostrato recentemente (*), un prodotto di condensa- (1) Monatshefte fur Chemie 10, pag. 647. (2) 1. c. Serie V. — Tomo IV. 45 — 354 — zione a cui spetta la formola empirica : CH ; la maclurina si comporta analogamente, perchè dà del pari un prodotto, che ha la composizione d’ una pentaacetilImaclurina meno una molecola d’acqua: C.3H,9; C,3H,0,(C,H30), = C3Hx0n CxH,g0, T_s3> ln _— iL se —_ see {__ —— Le; —_— ee _ _______ maclurina pentaacetilmaclurina prodotto di condensazione che fonde a 181-182°. Hiasiwetz e Pfaunder (') ottennero dalla maclurina un mono- acetato oleoso, ma essi operarono col cloruro d’acetile, noi invece impie- gando anidride acetica ed acetato sodico potemmo avere un prodotto cri- stallino, che fonde a 181-182°. Per preparare questo composto si fa bollire 10 gr. di maclurina con 60 gr. di anidride acetica e 50 gr. di acetato sodico anidro per 5 ore a ricadere. L'anidride viene indi eliminata distillando a pressione ridotta a b. m. ed il residuo lavato con acqua bollente per sciogliere l’ acetato sodico. La massa brunastra, che così si ottiene, cede all’ alcool freddo una materia resinosa, che in tal modo viene asportata, e cristallizza poi dal- l'alcool bollente in aghi bianchi, che fondono a 181-182°. La sua composizione corrisponde alla formola : CL O, Ò 0,1884 gr. di sostanza, seccata a 130°, diedero 0,4194 gr. di CO, e 0,0678 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,H4,30;o 7 it — ss” — Tr ww —_——_—€rPrPr— C. (60,71 60,79 H 3,99 3,96 . Da 10 gr. di maclurina si ebbero 6 gr. del nuovo prodotto ; nell’alcool (') Bedlstein. Handbuch der organischen Chemie Ill, pag. 435. — 359 — rimane disciolta una materia resinosa che non abbiamo potuto purificare ulteriormente. L’acetato ora descritto viene facilmente saponificato dagli alcali caustici, ma i prodotti, che cosi si formano, sono tanto alterabili in soluzione al- calina, che, anche operando in un’atmosfera di idrogeno, non abbiamo potuto studiarli. Per questo motivo abbiamo tentato di eseguire la saponi- ficazione coll’acido jodidrico, che ci aveva dato buoni resultati nello studio del prodotto di condensazione derivante dalla cotoina. Coll’acetato della maclurina però sembra assai difficile ottenere la completa eliminazione dei gruppi acetilici, a meno di non voier insistere troppo nella ebollizione coll’ acido jodidrico, nel quale caso poi si va incontro ad altra difficoltà, cioè alla scomposizione del fenolo cercato. Per analogia col fenolo-ottenuto dalla cotoina era da aspettarsi la formazione d’un prodotto della formola : CHO 1076? che avrebbe potuto prodursi secondo l’ eguaglianza : C,H0, + 4H,0= C;H,0,+ 4C,H,0;; 10 6 le analisi del composto ottenuto oscillano invece fra i valori richiesti dalle formole : CHO: e CHE; S Noi abbiamo bollito durante circa un pajo d’ore 4 gr. dell’ acetato con 40 ce. ce. d’acido jodidrico del punto d’ ebollizione 127°. Versando il pro- dotto nell’acqua ed aggiungendovi anidride solforosa per togliere il jodio libero, si depositano dopo qualche tempo squamette molto colorate, che vennero fatte cristallizzare dall’acqua bollente. Col nero animale la solu- zione sì scolora alquanto e da per raffreddamento pagliette gialle, splendenti, che a 270° non fondono ancora. Sembra contengano acqua di cristallizza- zione, che perdono nel vuoto o a 100°. Le analisi dettero i seguenti resultati, a cui non possiamo attribuire che un valore molto relativo. In 100 parti: calcolato per trovato CREO, CELL: CHEISO] e _ __— e ape conte (1) __ N ai = Sn I. iù II. IV. Corogto 102,20 161,807, 6:14 62,93 62,19 61,62 el DTT 3,03 3,69 3,39 3,49 3,66 3,78 () 11 prodotto che ha servito per quest’ ultima analisi, era stato preparato con un’ ebollizione meno prolungata (circa mezz’ ora) dell’acetato con acido jodidrico. — 356 — Noi non osiamo nulla affermare né rispetto alla costituzione della ma- clurina e meno ancora riguardo a quella dell’acetato da essa ottenuto, se però si vuole ammettere per la maclurina una costituzione analoga a quella. della cotoina, sarebbero da adottarsi le seguenti formole : H H o) @ CHO OH © CHO co H ICOSCHTÌ H CH OH o) C:C,H, Tee — 7 "see __ CT (C;H,0) C,,H,,0, Cotoina 1 C,3,0; H E o) dii DI (C,H,0)0 CO | + H SAD cO-C.H(0H), H CH OH o) C-C,H(0C,H,0), (C,H,0) C,3Ho% Maclurina _—t€, —____——__m C3H,50,0 In ogni modo però crediamo d’avere dimostrato che la maclurina può formare con eliminazione di sei molecole d’acqua un composto che contiene cinque residui dell’acido acetico. Ammettendo nella maclurina un legame anidridico si dovrebbe aspet- tarsi, nel miglior caso, la formazione d’ un derivato tetracetilico : C,H,(0H),- 0- CO- C,H,(0H),. Floretina. La floretina che ci ha servito nelle seguenti esperienze l’ abbiamo pre- parata, coll’ elegante metodo di Ugo Schiff ('), dalla fiorizina fornitaci (1) Liebigs Annalen der Chemie, vol. 172, pag. 357. — 357 — | «dalla casa E. Merck di Darmstadt. Il prodotto venne purificato per cri- «stallizzazione dell’ acido acetico. Abbiamo confermato la formola della fioretina con la seguente analisi: 0,1980 gr. di sostanza ne dettero 0,0944 gr. di 7,0 e 0,4774 gr. di CO,. In 100 parti: trovato calcolato per C,;H,0; - "JI -T{—_P__sss =" ——. C_ 65,75 65,69 pio: 29 5,11. Ugo Schiff descrive una diacetilfloretina amorfa, ottenuta col cloruro -d’acetile ('). Senza dubbio l'anidride acetica in presenza d’acetato sodico ‘anidro ha un’azione diversa da quella del cloruro d’acetile e perciò il prodotto studiato da questo chiarissimo autore non poteva essere identico ‘al nostro. Anche la fioretina dà coll’ anidride acetica ed acetato sodico, similmente alla cotoina ed alla maclurina, un composto che ha la formola d’ una tetraacetilfloretina, meno una molecola d’acqua : CHO; C,5H,,0;(C,H,0), = CygHy50, Ca Hn0; "—T _P n. — ===” z° °_ TTT _ sr —_ -— = _ floretina tetracetilfioretina prodotto di condensazione che fonde a 173°. Questo corpo venne preparato bollendo a ricadere 10 gr. di floretina ‘con 65 gr. di anidride acetica e 65 gr. di acetato sodico anidro. Dopo avere distillato a pressione ridotta a b. m. l’ eccesso di anidride ed esau- rito il residuo con acqua bollente e poi con alcool a freddo, si fa cristal- lizzare la parte che resta indisciolta dall'alcool bollente. Da questo solvente, in cui é poco solubile, si separa in forma di aghi bianchi, che fondono a 170-171°. | Il prodotto cosi ottenuto non è perfettamente puro, perché assieme ad ‘esso si forma un’altra sostanza, che si rinviene massime nei liquidi alco- ‘olici, e che ha un punto di fusione più basso, 145-150°, dalla quale è assai difficile separarlo del tutto. Noi abbiamo perciò trasformato il composto acetilico nel fenolo corrispondente, per saponificazione con acido jodidrico, «ed abbiamo poi preparato nuovamente l’ acetato dal fenolo puro. Il prodotto (1) Liebigs Annalen der Chemie, vol. 156, pag. 2. — 358 — riottenuto in questo modo, cristallizzato dall’alcool e dall’ etere acetico, fonde a 173° e dà all’analisi resultati migliori. Con questa sostanza venne eseguita la terza delle analisi, che qui ri- portiamo. I. 0,1836 gr. di sostanza dettero 0,4344 gr. di CO, e 0,0772 gr. di H,0. II. 0,1862 gr. di sostanza dettero 0,4404 gr. di CO, e 0,0802 gr. di H,0. III. 0,1734 gr. di sostanza dettero 0,4118 gr. di CO, e 0,0773 gr. di H,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,H,9; aaa — AT ssi NOI x or _—_—___€—y Î II. III. C 64,53 64,50 64,77 65,09 54 4,66 4,78 4,95 4,76. Il nuovo composto è solubile nell’ etere ed a caldo nell’ alcool, nell’ etere acetico, nell’ acetone, nel benzolo e nell’acido acetico. Per raffreddamento si separa da tutti questi solventi quasi completamente. Bollendo per circa mezz’ ora il composto acetilico ora descritto con 10 volte il suo peso d’acido jodidrico (p. eb. 127°), si ottiene, versando il liquido nell’acqua ed aggiungendovi anidride solforosa, un precipitato re- sinoso, che però dopo qualche tempo si trasforma in una massa cristallina. Il prodotto cristallizza. dall’ acido acetico al 50 p.cto. in aghi debolmente: colorati in giallo, che fondono a 213°. All’analisi dettero numeri conformi alla formola : CHTRO: A 0,2162 gr. di sostanza dettero 0,5422 gr. di. CO, ‘e 0,0918 gr. di Z,0. In 100 parti : trovato calcolato per C,,7,0; - > _—_____sss — —T sn C 68,39 68,45 dado 4,69. Il nuovo composto é solubile nell’alcool, nell’ etere, nell’acido acetico e nell’ etere acetico ed insolubile nell’ etere di petrolio. Gli idrati ed i car- bonati alcalini lo sciolgono. In soluzione idro-alcoolica dà col cloruro fer- rico una colorazione rossastra. — 359 — ‘Per ebollizione con anidride acetica ed acetato sodico, si riottiene, come s’ è detto, l’acetato che fonde a 173°. Volendo ammettere anche per la fioretina una costituzione analoga a quella della cotoina, si potrebbero attribuire ai composti ora descritti le seguenti formole : CH HO-C C-O0H HC C-CO-CH-CH, C.O0H C,H,-0H e” -,tceeoo_— C5Hy0,; iO I CH 0 HO. ‘090 COMMICEO0C 00 HC CH HC > CH C C A C.OH C-CH-CH, CO(C,H,0) C-CH- CH, C,H,-0H CH,0(C,H,0) _—=xne FT .P}P— Ch EI, O, (GA EL, 0; che noi naturalmente non crediamo ancora sufficientemente dimostrate. No 8 RICERCHE SULLO SVILUPPO EVOLUTIVO DI DUE SPECIE NUOVE DI FUNGHI LAGENIDIUM PAPILKOSUM: eo EXCASCUS_ ELAVO-AUREUS E SUL PARASSITISMO peLà PHOMA UNCINULA sui UNCINULA ADUNCA Lev. MEMORIA DEL PROF. GIROLAMO COCCONI (CON UNA TAVOLA) (Letta nella Seduta del 27 Maggio 1894). Il presente lavoro ha per oggetto lo studio dello sviluppo di alcuni interessanti fungilli, i quali sono dati da una Ancilistacea, il Lagenidium papillosum; da un’ Exoascacea, l’ Exoascus flavo-aureus, ed infine da uno spermogonio parassita dell’ Uncinula adunca, il quale appartiene al gen. Phoma (Ph. Uncinule). Non v’ha chi disconosca la fondamentale importanza che hanno gli studi sul ciclo evolutivo delle specie per la definizione dei loro rapporti di affinità e per procedere poi ad una razionale Classificazione delle forme viventi. Ed é per questo che le ricerche e le osservazioni qui riferite rie- scono particolarmente interessanti, specialmente riguardo al Lagenidium papillosum, appartenendo esso ad una Famiglia molto scarsa in rappre- sentanti e ben poco conosciuta, per cui si perviene così all’ importante risultato di confermare o di completare alcune fasi vitali finora dubbie ed imperfettamente conosciute. Serie V. — Tomo IV. 46 — 362 — Lagenidium papillosum sp. n. (fig. 1-3.). Questo fungillo si potè osservare con qualche abbondanza in alcuni filamenti di un’ Alga appartenente al gen. Spirogygra, di specie però inde- terminabile stante le profonde alterazioni dall’ alga presentate nei singoli segmenti od articoli. In alcuni di questi le alterazioni erano tanto rilevanti che i cloroplasti caratteristici delle Spirogire, (perché formanti tanti nastri spirali) erano può dirsì irriconoscibili, essendo ridotti a tanti cumuli più o meno grandi ed irregolari e sparsi qua e là nella sostanza fondamentale protoplasmica delle cellule costituenti i filamenti delle Spirogire (fig. 1, cl.). Accanto a queste alterazioni così cospicue dei corpi clorofillofori o cloro- plasti, se ne osservavano altrettante nel plasma dei singoli segmenti, per cui questo presentavasi ridotto ad una massa molto acquosa, scarsamente gra- nulosa e per ciò contenente tenui quantità di sostanze albuminoidi; del nucleo non si vedeva più traccia, od almeno i suoi resti erano chimica- mente non distinguibili. A prima vista dunque riconoscevansi i filamenti di Spirogira aventi nel loro interno il parassita predetto; ed anche al microscopio si discer- nevano benissimo questi filamenti principalmente pel loro colorito verde pal- lidissimo, in taluni casi anche giallastro. E furono appunto questi filamenti cosi decolorati e che per ciò chiaramente dimostravano una vita languente, che attirarono l’ attenzione. Sottoposti al microscopio i fili così alterati di Spirogira, subito si scorgeva che anche nei tratti in cui le alterazioni nel plasma e nei corpi clorofillo- fori erano maggiori, la forma generale dei singoli articoli o segmenti era conservata invariata (fig. 1.). Anche la parete cellulare era pure normale, se si toglie qualche lieve assottigliamento in vari punti, indizio questo forse di un’ incipiente corrosione della parete cellulare per l’azione di quanto ora sì procede a studiare. Il modo più frequente con cui si presenta il fungillo parassita è quello di un micelio costituito da un filamento la cui lunghezza giammai perviene ad uguagliare quella del segmento dell’ Alga (fig. 1, m.). Detto filamento od ifo presentasi a decorso più o meno marcatamente flessuoso, ma in niun caso però dimostrasi ravvolto o ripiegato su sé stesso ; dapprima é continuo, cioè non septato, ma quando disponesi alla riproduzione od alla fruttifica- zione, allora si segmenta a regolari distanze. — 363 — La sua membrana è molto sottile e perfettamente incolora e non pre- senta giammai la reazione della cellulosa sia che venga trattata coll’acido solforico e colla tintura di jodio, ovvero col cloroioduro di zinco. Questo fatto è molto importante, giacché nei Ficomiceti spesso si osserva mante- nuto il carattere della cellulosa nella loro membrana. Il contenuto é molto denso e finamente granuloso e rivelasi formato da cospicue quantità di sostanze albuminoidi; non si ha però la genuina rea- zione di queste, massime se trattate colla tintura di jodio, giacchè mescolate ad esse si osservano sempre proporzioni più o meno rilevanti di quella forma di zucchero che è il glicogeno. Il nucleo non poté mai mettersi chia- ramente in rilievo ; talvolta osservaronsi corpuscoli più o meno regolari, uno per ogni cellula, ma essi non presentarono con certezza la caratteri- stica reazione della nucleina. Ciascun individuo del fungo forma gli organi sessuali in una maniera semplicissima. Un articolo o cellula del filamento sì ingrossa notevolmente ed assume una forma globosa e costituisce l 0ogonio (fig. 1, 0.); il suo contenuto si differenzia in due parti nettamente distinte. La porzione cen- trale assume forma sferica, e presentasi costituita da un plasma densamente granuloso nucleato nel suo centro, e sprovvisto di parete cellulare ; sola- mente alla sua superficie notasi uno straterello più denso del rimanente plasma, il quale coll’ uso di appropriati reagenti appare formato da sem- plice sostanza protoplasmica condensata. Alla periferia di questo corpuscolo centrale dell’oogonio che non è che l’oosfera (fig. 1, of.), cioè l elemento sessuale femminile, si nota uno strato periferico di plasma molto acquoso, al quale puossi applicare la denomi- nazione di periplasma (fig. 2, r.). A distanza più o meno grande dall’ Oogonio, si dirama dal filamento del fungillo un filamento piuttosto breve, il quale tende ad applicarsi contro la parete dell’oogonio, e contro questa infatti sviluppa una papilla coni- forme acuminata in forma di esile becco; questa formazione non é altro che l’Anferidio (fig. 1, a.). Nel plasma di questo organo sessuale maschile si rileva un piccolo nucleo, nella sostanza del quale non si poté riconoscere alcuna differenziazione. Allorché l’ Oogonio e l’Anteridio sono maturi, manifestasi l’ atto della fecondazione. L’Anteridio applicasi strettamente col suo becco contro l’00- gonio (fig. 1, a, of.), nel punto di contatto la membrana dell’ Oogonio viene disciolta e cosi la porzione terminale penetra nell’ interno di quello, attra- versa il periplasma e viene ad apporsi intimamente contro lo strato pla- smatico più esterno o corticale, il quale pure viene attraversato. Effettuati questi passaggi avviene il processo della fecondazione. Se tutta la sostanza plasmica dell’Anteridio, congiuntamente al nucleo attraversa in via diosmo- — 364 — tica la membrana della porzione apicale dell’Anteridio stesso, ovvero se in questa porzione di membrana verificasi una dissoluzione, per cui il con- tenuto dell’organo maschile può liberamente migrare nel corpo dell’ oosfera, non si é potuto bene accertare. È un fatto però che dopo poche ore dacché l’Anteridio trovasi a contatto dell’ Oogonio, il plasma dell’ oosfera diventa più denso ed opaco, si contrae alquanto e mostra contorni assai meglio delineati di fronte al periplasma, contrazione questa che indica essere già avvenuta una fusione, una compenetrazione reciproca nei due plasmi ses- suali, maschile e femminile. Avvenuta la fecondazione, l’oosfera ben presto si circonda di parete, mentre l’Anteridio a poco a poco va perdendosi, inquantoché la sua mem- brana si avvizzisce, il suo contenuto scompare totalmente e dopo circa un giorno o due si disgrega in tante porzioni, finché sì distrugge interamente. Nel fungillo disegnato nella fig. 1, scorgesi che nello stesso individuo ha avuto luogo la formazione di due organi sessuali femminili a diverso grado però di età; anzi contemporaneamente osservasi il processo della fecondazione ed una oospora formata in seguito ai fatti della fecondazione. Concretata l’ intima fusione fra il plasma maschile ed il femminile, vedesi come s’é detto, che l’oosfera si circonda di membrana, la quale a poco a poco s’ inspessisce e diventa di un colore bruno tendente un po’al giallastro, mentre alla sua superficie sviluppa numerosissime papille bene visibili (fig. 1, os.). Questa membrana é benissimo differenziata in due strati: |’ esterno od episporio porta le papille precedentemente descritte ; l’ interno è molto sottile, conserva la natura cellulosica e mostrasi incoloro. Dopo la formazione delle oospore, ché tali sono appunto gli organi pre- cedentemente descritti, il micelio gradatamente si distrugge e le oospore perciò si isolano e si rendono libere, in seguito anche alla dissoluzione della parete dell’ oogonio. Contemporaneamente alla formazione delle oospore, si può verificare nell’ interno dello stesso segmento dell’ Alga la forma riproduttiva asessuata del fungillo in esame, come benissimo vedesi nella fig. 1. Quivi osservasi un zoosporangio lungamente peduncolato col filamento radicale immerso nel plasma della cellula ospite; la grande cellula madre che poi si svilup- perà nel zoosporangio, ha forma globulosa, e si sviluppa fuori della cellula dell’ Alga. All’epoca della maturità, il protoplasma del zoosporangio (fig. 1, #s.) si divide in numerose zoospore, le quali pervengono all’ esterno mediante dissoluzione di punti circoscritti della parete della cellula madre, e si pre- sentano sotto forma di corpuscoli energicamente moventisi nell’ acqua, aventi configurazione piriforme, e provvisti di due ciglia vibrattili. (fig. 1, 2.). Trascorso un po’ di tempo, dacché le dette zoospore sì sono mosse nell’ acqua, il movimento diviene più lento finché cessa interamente; le — 365 — due ciglia vengono ritirate e la zoospora acquista forma globulosa, e da ultimo si circonda di un esile velamento di cellulosa. È evidente che le dette zoospore coi zoosporangi appartengono al ciclo evolutivo del fungillo più sopra descritto, poiché in un caso fu dato di os- servare che da uno stesso micelio formavansi le oospore colla fase degli organi sessuali precedentemente necessaria, ed i zoosporangi. Quindi, non- ostante non sì potesse osservare alcun ulteriore sviluppo delle zoospore incistidate, per cui non si poté assodare in via genetica che la forma a zoosporangi appartiene al ciclo evolutivo del Lagenidium papillosum, non si può mettere in dubbio che tanto la forma sessuale che conduce alla costituzione delle oospore, che quella agama cioè a zoosporangi, non sono che due manifestazioni diverse dello stesso fungillo. Scorgesi però chiara- mente che la coesistenza delle due forme riproduttive in uno stesso mi- celio, è un fenomeno molto raro; in generale notansi le due forme rispet- tivamente distinte, però è incomparabilmente più frequente il modo di riproduzione sessuale. Notisi poi che in molti segmenti fu dato di rinvenire numerosi tratti di micelio sterile, il quale per la sua forma, dimensione e pei suoi carat- teri, apparteneva evidentemente al fungillo in questione. Fu tentata la coltivazione delle zoospore nell’ acqua sui vetrini portog- getti: ma sebbene si tenessero in osservazione per molto tempo, circa cinque settimane, non si poté constatare alcuna fase evolutiva dopo quella gia accennata della formazione della membrana, ovvero dell’ incistidamento delle zoospore; queste rimanevano inerti ed immobili. Certamente si ri- chiederà un lungo periodo di quiescenza affinché tali spore possano essere atte al germogliamento, per dare origine o alla forma a zoosporangi o a quella sessuata. Il carattere della presenza delle papille nell’ episporio, e le altre diffe- renze che esistono fra la specie in esame e la forma ad esso più affine, il Lagenidium Rabenhorstiù Zopf, (il quale pure vive parassita nei fila- menti di Spirogyra) autorizzano a proporre il fungillo in quistione come una specie nuova, la quale, in ragione della presenza delle papille sulla parete delle oospore, può congruamente denominarsi L. papillosum. Il Lagenidium Rabenhorstii stando a quanto ne descrive il Tavel (1), si differenzia dalla specie studiata, astrazion fatta dall’ episporio papilloso, per un sistema miceliale più sviluppato e pel fatto che la forma sessuale riscontrasi abitualmente isolata nei singoli segmenti di Spirogira. Una congettura molto plausibile si è che, come nel L. Rabenhorstii, (1) J. von Tavel — Vergleichende Morphotogie der Pilze — Jena 1892. — 366 — anche nel L. papillosum le zoospore penetrino nell’ interno della cellula dell’ Alga ospite, disciogliendo innanzi a sé la membrana della cellula di Spirogira, entro la quale poi germoglierebbero per riprodurre il fungillo. E Exoascus flavo-aureus sp. n. (fig. 4-5.). Numerose sono le specie appartenenti al gen. Exoaseus Fuckel. La specie della quale ora si passa allo studio merita particolare considerazione si per le gravi alterazioni che produce, come anche per l’ importanza mor- fologica che presenta, segnando il passaggio o l’ anello di congiunzione fra due gruppi del gen. Eeoascus. Nello scorso estate nei dintorni di Bologna (Corticella) venne osservato nelle foglie di Populus pyramidalis Roz. una malattia ia quale manifesta- vasi sotto forma di tante macchie di un bel color giallo d’oro, le quali avevano un contorno irregolare e la loro presenza provocava degli storci- menti e delle torsioni nella lamina fogliare. Praticando una sezione trasversa nelle foglie in corrispondenza ai punti più malati, notaronsi i seguenti fatti: anzitutto un fungillo parassita, ciascun individuo del quale, formato da un asco piuttosto voluminoso, avente forma cilindrica ma alquanto irregolare, giacchè la sua porzione terminale é leggermente ingrossata (fig. 4, a.). La parte inferiore di questo asco è peduncolata, e mediante questo filamento radicale trovasi insinuata. fra le cellule epidermiche (fig. 4, f.r.). Però in non pochi aschi osservasi che detta appendice radicale presentasi molto ridotta in volume, talehé non poche volte vedesi costituita dalla semplice base dell’ asco acuminato in una tenue papilla; in questa ultima forma può dunque dirsi quasi intera- mente soppressa la differenziazione di un filamento radicale nell’ asco. L’asco completamente evoluto è costituito di 8 ascospore ovoidali, le quali presentano il fenomeno curiosissimo di trovarsi nella fase della gemmazione (fig. 4, a.). Questo fatto però non é mai molto accentuato entro l’ asco; se invece si determina la lacerazione della parete di questo, le singole asco- spore pervengono allo stato di libertà, e se nel liquido di coltivazione si aggiungono bastevoli proporzioni di zucchero, allora le ascospore entrano in un energico processo di gemmazione, in seguito al quale si costituiscono colonie gemmulari più o meno lunghe, semplici o ramificate (fig. 3.). —= a Le otto ascospore sono avvolte da una sostanza (l’epiplasma) proto- plasmica, la quale contiene in notevole proporzione del glicogeno. L’appen- dice rizoide contiene una sostanza ialina sommamente acquosa. Sono interessanti pel loro notevole grado le alterazioni riscontrate nelle cellule epidermiche delle foglie e nel parenchima immediatamente sotto- stante. Il protoplasma è ridotto ad un piccolo cumulo di una sostanza pressoché omogenea, la quale talora presenta una o poche granulazioni grosse, che certamente sono date dalla regressione o dal disfacimento del nucleo (fig. 4, e., pr.); questa sostanza reagisce poco sensibilmente ai rea- genti degli albuminoidi. I cloroplasti sono interamente scomparsi, almeno nei tratti in cui il fungillo è maggiormente addensato nei suoi individui; con questo si spiega il colore giallognolo che si nota nella faccia della foglia opposta a quella occupata dal fungillo. Nella fig. 4, a. i. osservasi eziandio il modo di sviluppo degli aschi, il quale non presenta notevoli varianti di fronte a quello comune e consueto degli altri aschi. La sostanza fondamentale protoplasmica differenziasi in epi- plasma ed in protoplasma propriamente detto, il quale ultimo viene utilizzato per la formazione delle ascospore. Dapprima compajono otto nuclei, attorno ad ognuno dei quali gradatamente si deposita uno strato di sostanza pro- toplasmica, ed infine questa si secerne alla propria superficie una mem- brana. È un fatto importante che l’ appendice rizoidale, quando esiste, si differenzi sempre anteriormente alla costituzione delle ascospore. La deiscenza degli aschi effettuasi in generale nella porzione loro ter- minale in seguito allo scoppio dell’ asco che si produce per |’ assorbimento di considerevoli quantità di acqua nell’ interno degli aschi stessi. Però al- cune volte si poté osservare la deiscenza avvenire per liquefazione o ge- latinificazione della membrana in tutti i punti di questa. Premessa questa succinta descrizione del fungillo maturo, dando un’oc- chiata alle forme incluse nel gen. Exoascus notiamo che in parte di queste il micelio perennante si estende nella primavera negli spazi inter- cellulari dei giovani germogli della pianta infetta; e che gl’ ifi fertili ven- gono tutti consumati nella formazione degli aschi; gli aschi maturi stanno fra loro densamente avvicinati e presentano un’ appendice rizoide, la quale é separata dall’ asco mediante un. sepimento trasverso. Invece nell’ altro gruppo di specie di Exoaseus abbiamo che il micelio si diffonde nei gio- vani germogli solamente fra le cellule epidermiche e la cuticola. Convien escludere il primo gruppo di forme, giacché nella specie in quistione non si osserva il fatto caratteristico di quello, ma bensi si ha che il micelio è localizzato fra la cuticola e le cellule epidermiche, come si é potuto verificare molte volte; non solo, ma nella specie ora descritta hotasi che gl’ ifi fertili vengono tutti impiegati nella formazione degli aschi, i — 368 — quali in alcune specie sono penduncolati, cioè portano un filamento rizoi- dale, mentre in altre manca questo filamento. Anzi è appunto sulla presenza o mancanza di questa appendice rizoi- dale che il Winter (1) distingue alcune specie di Exoaseus da altre e cioé l’ E. alnitorquus (T ul.) Sab., E. turgidus Sab., E. fiavus Sab., E. Betulae Fuck.; dall’ E. aureus (Pers.) Sab., E. coerulescens (Desm. et Mont.) Sab., E. Carpini Rostr., E. epiphyllus Sab. ed E. Ulmi Fuck. Ora dopo quanto si è osservato nella specie in questione, risulta molto chiaramente il poco o niun valore che ha il carattere dell’ appendice rizoidale per di- stinguere gruppi di specie di Exoascus da altri. Pel principale carattere delle gradazioni che si riscontrano nello svi- luppo del filamento rizoidale, e per alcuni caratteri che sono in certo modo comuni all’ Exoascus flavus Sab. ed all’ E. aureus (Pers.) Sab., la presente specie viene creduta nuova e colla denominazione specifica di flavo-aureus, la quale denota non solo la comunanza di alcuni caratteri colle due forme accennate, ma mette in rilievo il fatto più importante che é quello della gradazione lenta ed insensibile che puossi verificare tra forme aventi aschi lungamente peduncolati ed altre in cui gli aschi sono, può dirsi, sessili. IE Parassitismo della Phoma Uncinula sp. n. sull’ Uncinula adunca -Lév. (fig. 6-7.). Rari e molto curiosi sono i casì in cui forme di spermogonii crescono parassite sui periteci di fungilli Erisifei. Recentemente venne trovata una specie di Phyllosticta parassita della Phyllactinia suffulta (Rebent.) Win- ter. È singolare il fatto del parassitismo fra le Erisifee e gli spermo- goni, specialmente per l’ alto grado di consistenza che presenta il pseudo- parenchima fittissimo componente la parete dei periteci, per cui parrebbe che questa dovesse essere refrattaria allo sviluppo di fungilli spermogoniali parassiti. Conviene dunque necessariamente ammettere che i rapporti fra il fungillo ospite e quello parassita, che poi conduranno alla forma di simbiosi che ora si passa a descrivere, si stabiliscano allorché 1’ Erisifea trovasi nello stadio giovanile della sua esistenza. (1) Rabenhorst’s Kryptogamen Flora von Deutschland, Osterreich. u. der Schweiz. — I B. II Abtheil., Pilze. von Doct. G. Winter, pag. 8. — 369 — L° Uncinula adunca di cui qui si procede allo studio fu raccolta ab- bondantemente nello scorso estate sulle foglie di Popu/us alba. In alcuni periteci venne riscontrato uno spermogonio parassita, il quale ha i seguenti caratteri (fig. 6, pa.). La parete presentasi membranacea e colorata in un bruno nerastro; la forma degli spermogoni è press’ a poco ovoidale ed al loro apice pre-- sentano un piccolo poro od ostiolo, pel quale sortono gli spermazii riuniti insieme in modo da formare un lungo budello che poi si espande, giacché gli spermazii sono messi in libertà in seguito alla dissoluzione della gela- tina che li manteneva uniti. La forma degli spermazii è ovoidale oblunga, inoltre questi elementi si presentano ialini, e mostrano due gocciolette minutissime di olio alle loro due estremità (fig. 7.). Se per una parte é evidente che la forma parassita ora descritta appar- tiene al gen. Phoma, lo stesso grado di certezza non può aversi relativamente allo stabilire la forma specifica. Tenuto conto però del fatto che la specie in questione si presenta parassita sopra una Erisifea, è necessario mettere in rilievo questa importante particolarità biologica coll’ istituirne una specie nuova, il cui nome è appunto tolto da quello del fungillo ospite, e cioè Phoma Uncinule. i Presenta molto interesse il fatto che in taluni casi in cui gli spermogoni parassiti erano alquanto più sviluppati del consueto, ed avevano dato ori- gine a numerosi spermazii, i periteci dell’ Uncinula presentavano un nu- mero molto scarso di aschi, e talora il numero di questi vedevasi ridotto a due, nei quali le ascospore si erano arrestate ad un basso grado di sviluppo, per cui erano affatto incapaci di germinare onde riprodurre gl’ individui di Uncinula. Questa sterilità completa che alcune volte potè molto chiaramente dimostrarsi nei periteci di Uncinula, é assai importante, ed è molto ovvio il ritenere che la causa di essa sia il fatto del paras- sitismo della specie di Phoma più sopra descritta. Serie V. — Toma IV. 47 Fig. 1-3 — — 370 — SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Ciclo evolutivo del Lagenidium papillosum sp. n. Fig. 1 — Un segmento od articolo di un filamento di una .Spirogyra cl — 0g indeterminabile, stante le profonde alterazioni che quest’ Alga presenta nel proprio contenuto protoplasmico e nei eloroplasti — X 820. protoplasma della cellula ospite di Spirogyra, il quale presen- tasi assai acquoso e molto depauperato nelle sostanze albumi- noidi costituenti, per cui appare cospicuamente acquoso o scar- samente granuloso. avanzi irregolarmente globosi dei cloroplasti spirali caratte- ristici dell’ Alga suddetta; questi cloroplasti, hanno subito un processo marcatissimo, di dissoluzione, per cui sono ridotti e disgregati in tanti cumuli di un verde pallido e di varia di— mensione. micelio del fungo parassita (Lagenidium papillosum), che sì presenta sotto forma di un filamento septato a regolari distanze e talora ramificato. Oogonio od apparato sessuale femminile, il quale nel suo interno contiene una massa sferica di protoplasma che è 1° 00- sfera od elemento sessuale femminile, che presentasi nweleata, of — Oosfera. a — Anteridio che proviene da un filamento diramatosî a breve distanza dal filamento generale del fungo. L’ Anteridio ha la forma come di becco, e vedesi già penetrato nella sostanza dell’ oosfera (0) Fig. 2 al p? Fig. 5 Fig. 6-7 — 371 — — Oogonio sul quale la oosfera ha già subita la fecondazione e si € cangiata in oospora, la quale, come vedesi chiaramente sulla figura, mostra un episporio spiccatamente papilloso, ca- ratteristico della specie. — Zoosporangio appartenente al ciclo evolutivo del fungillo pa- rassita. La maggior parte delle sue zoospore sono gia state evacuate. — Zoospore bicigliate. — Filamento radicale del zoosporangio, il quale è immerso nella sostanza protoplasmica della cellula dell’ Alga. — Oogonio visto ad un maggior ingrandimento — X 1260. — Parete dell’ oogonio. — Ospora. — Residuo del protoplasma della cellula oogoniale. — Filamento miceliale tuttora connesso coll’ oogonio. — Oospora matura vista in rillevo — %X 1260. — Sviluppo dell’ Exoascus flavo-aureus sp. nova. — Sez. trasversale di una foglia di Populus pyramidalis affetta dall’Exoascus flavo-aureus — X 610. — Asco con otto ascospore, alcune delle quali presentano il fenomeno della gemmazione. — Asco immaturo nel quale si riscontrano otto nuclei. Il pla- sma è circondato da uno strato di epiplasma. — Filamento radicale degli Aschi. — Epidermide, in una cellula di questa osservasi il protoplasma alterato dall’ azione del parassita. — Parenchima verde sottostante notevolmente alterato; i cloro- plasti sono scomparsi, e non è rimasto che un cumulo di plasma molto acquoso. -— Alcune colonie gemmulari prodotte dalle ascospore dissemi- nate in soluzioni zuccherine — X_ 720. — Parassitismo della Phoma Uncinulae sp. n. sull’ Uncinula adunea Lév. — 872 — Fig. 6 — Un individuo di Uncinula adunca Fries, il quale alla sua superficie porta uno spermogonio della Phoma Uncinulo. pa — Spermogonio parassita dato dalla Phoma Uncinulo. sp — Spermazii uniloculari — X 320. Fig. 7 — Spermogonio molto più ingrandito. sp — Massa degli sporidi uscita dagli spermogoni ed avvolta da una sostanza gelatinosa — X 580. | ie = Mem. Ser V. Tom.IV G. Cocconi- Ricerche Biologiche sopra alcuni Fungilli Fig.6° à N "\ \ IRIS = LL ETà a; N DG IR #® E. Morinî dis. dal vero E. Contoli inc Lit-Mazzoni e Rizzo “Bologna SULLE SERIE DOPPIR TRIGONOMETRICHE NOTA DEL PROF. CESARE ARZELÀ (Letta nella Sessione ordinaria del 27 Maggio 1894). 1. In una nota Sulle serie di funzioni pubblicata nei rendiconti, per l’anno 1885, dell’ Accademia dei Lincei, ho dimostrato la proposizione: STano Yi, Ya: Ya; -. infiniti numeri aventi per numero limite il numero y, € nel piano delle x e y sopra ognuna delle rette y=Y,};Y=Ya..., nell’ în- tervallo a...b, siano segnati dei tratti, separati gli uni dagli altri, in nu- mero finito, che può variare da retta a retta, e anche crescere indefinita- mente via via che y;s si approssima a y,. La somma dei tratti d,s, das... segnati sulla y="y;s, sia d,. Se per ogni valore s=1,2,3,... si ha d;>d, d numero determinato maggiore di zero, esiste sempre, tra a e b, almeno un punto x, tale che la retta x=x, incontra un numero infinito di tratti è. In altra nota, pubblicata pure nei detti rendiconti, ho dedotto poi, dalla proposizione suesposta, come conseguenza quasi immediata, un teorema fondamentale relativo alle serie trigonometriche semplici, e che dal signor Cantor era stato stabilito con metodo piuttosto laborioso. Nella memoria del prof. G. Ascoli Sulla rappresentabilità di una fun- zione a due variabili per serie doppia trigonometrica pubblicata nell’anno 1879 dall’ Accademia dei Lincei, sì pone a fondamento il teorema: Se per ogni punto (x,y) di un’area A, essendo b.,=(a,ysenue + a — ny COSU4) Sen vy +(a,-,Senux + a_y_yCOSUX)COsvy, é soddisfatta la condizione lim Buy= 09, p+v=0 — 374 — i coefficienti DEI convergono uniformemente allo zero. Questo teorema che è l’estensione di quello suaccennato dal sig. Cantor, è dal prof. Ascoli stabilito con una dimostrazione, che si informa a quella del sig. Cantor medesimo, e sulla quale egli stesso è ritornato con una nota pubblicata nel 1882 nei rendiconti dell’ Istituto Lombardo. Qui io dimostro che alla mia proposizione, richiamata in principio, si può dare una ben naturale estensione e trarne agevolmente una proposi- zione generale che contiene in sé quella del sig. Ascoli. 2. — Sia A un’area determinata nel piano delle xa e y e sopra di essa un gruppo infinito ‘di \pianitzi—@=, <=, <=, (aveni unepiano limite «= «,. Dentro l’area A, sopra ognuno di essi z=zs si considerino due pezzi 0°, @0,...0% determinati e separati gli uni dagli altri il cui nu- mero può anche crescere al tendere di zs a z,; se la somma delle aree di questi pezzi è sempre maggiore di un numero assegnabile d, esiste almeno una retta x=X,, Y=Y: Ao essendo un punto dell’area A, la quale in- contra infiniti pezzi ©, giacenti in piani del gruppo. Accennerò rapidamente la dimostrazione che é in tutto simile a quella da me data pel caso che il campo A sia una linea. Si segnino nel piano #= , dentro il campo A, i contorni dei pezzi 0!...00 o almeno dei cerchi contenuti in essi. Sopra ognuno di tali con- torni o cerchi, come curve direttrici, si immagini una superficie cilindrica colla generatrice parallela all'asse #; se nessuna di tali superficie cilindri- che incontra infiniti pezzi @, situati nei piani successivi, nel quale caso il teorema sarebbe dimostrato: vuol dire che da un certo piano in poi, i pezzi © ivi esistenti giacciono in modo che dentro una almeno delle superficie cilindriche menzionate vi è sempre su tutti i piani successivi una porzione di essi che è in somma, maggiore di 9, numero assegnabile: ovvero ciò non è. In questo secondo caso, preso e piccolo a piacere, si troverà, proce- dendo innanzi, un piano, oltre il quale la somma dei pezzi o porzioni di pezzi @ contenuti dentro quelle superficie cilindriche, è minore di e: e quindi, a partire da un tal piano #=%,, i pezzi ® esistenti nei piani successivi, oltre le parti di essi interne ai cilindri, giaceranno in una por- zione del campo A, espressa da A — (d, — 0,6), 0,1 essendo un numero tralio esse Si parta dal piano #£=%;, e si operi su esso, come si é operato sul piano #= 2: si trova una superficie cilindrica che incontra infiniti pezzi @ o almeno che contiene dentro di sé una somma di essi o di porzioni dei medesimi, maggiore di un numero assegnabile g,, ovvero ciò non è. In questo secondo caso si trova un piano «= #;,, a partire dal quale, su tutti i successivi, i pezzi @, tolta la parte di essi, che é interna a quei ci- — gia lindri, giacciono in una porzione del campo A espressa da A—-(d—-0,e)— (d, — 0£). Cosi continuando, se non si trova mai né una superficie cilindrica che incontri infiniti pezzi @, né una che contenga dentro di sé, sopra infiniti successivi piani, una porzione di pezzi @ maggiore di 9g, assegnabile, si dovrà pervenire a un piano #==%,,, sul quale i pezzi @ che vi esistono, tolte le parti di essi interne ai cilindri, giacciono in una porzione di campo A espressa da A-(d,—-0,e)—(d, — 0,6) —---— (d,_, 0,6); Al la quale, se p é abbastanza grande e e abbastanza piccolo, sarà necessa- riamente minore di d: il che è assurdo, giacché ne deriverebbe che. sui piani successivi al piano #= <,,, i pezzi @ occupano una parte di A mi- nore di d. Nel seguito dell’ operazione così descritta, si troverà dunque una su- perficie cilindrica che incontra infiniti pezzi @, ovvero, una che contiene dentro di sé, su infiniti piani, una somma di pezzi, o parti di pezzi ©, che é maggiore di 9 assegnabile. In quest’ ultimo caso, se sul pezzo @ che è base di una siffatta super- ficie cilindrica si ragiona, come qui s’é fatto sull’intero campo A, si vede che necessariamente o si trova una superficie cilindrica che incontra infiniti pezzi @, ovvero una interna a quella che si considera, e sulla quale si può ragionare come sulla precedente: i pezzi © ognuno interni al precedente, che sono le basi di queste successive superficie cilindriche, tendono ad un punto, che é precisamente quello del quale devesi provare l’ esistenza. 3. — Se ne deduce subito l’ altra. Si consideri un’area A, dentro la quale si muove il punto (x), e inol- tre un gruppo qualsiasi di coppie di valori (m,n,), (2,7,),... aventi un’ u- nica coppia limite (mm). La A, y, m, n) indichi una funzione che per ogni coppia di valori (m,n,) é determinata in tutta l’area A in ogni punto della quale è limo igm i R)0 al tendere della coppia (m;, n) alla coppia (m,, 2) e dove pP(m;, 2;) è una funzione che ha valore determinato per ogni coppia (m;, 75). Se per ogni coppia di valori (m;, n;) esistono nell’ area dei pezzi —376 — @, 3 03, ...@p, nei quali é sempre |f(@, Ya Ms, > (67 c numero assegnabile, e la somma Ot, +: +0, = ds é sempre maggiore di un numero assegnabile d, necessariamente deve essere lim p(ms, ns) =0 al tendere di (m;, ns) a (m,, Dy- Ad ogni coppia di valori (m;, 5) si immagini associato un piano nel quale si consideri l’area A: si avranno così le infinite funzioni F(%, CE) mM), S(%, I, UE date ognuna nell’area A, sopra uno dei piani detti. Tra questi se ne consideri un gruppo qualsivoglia infinito (STIA MERE Per la proposizione dianzi dimostrata vi sarà un punto, (2%) dell’area A, tale che la retta c=4%,9=% incontra infiniti pezzi @, giacenti sopra piani del gruppo considerato per es. sui piani (15, P05,,) ? (USS) OE Manifestamente dovrà la serie dei valori P(MspPsp,) / P(Msp3e5p,) DECO tendere al limite zero. Si vede dunque che la serie dei valori a) Pimn), mn)... è tale che da una altra serie qualunque in essa contenuta 8) P(msns), Pmsns),... — 377 — se ne può sempre trarre una terza 7) P(Msp,PNsp,) 2 P(Msp,Psp,) 2a il cui termine generale F(m,ns,) tende a zero col tendere di ms,, ns) @& (mn); ma ciò significa che fra i termini della serie a) ve ne é solamente un numero finito, il cui valore assoluto sia maggiore di un numero e,. preso ad arbitrio : perché, se ve ne fossero infiniti, con essi si formerebbe una serie come la 8), dalla quale sarebbe impossibile trarne una come la y), i cui termini tendono a zero. Dall’essere finito il numero dei termini «) maggiori di un numero e arbitrario, segue evidentemente lim P(m;, n) = 0 al tendere di (m;, 2) a (m, ©), come volevasi dimostrare. In particolare, il gruppo dei valori (n, n) potrebbe essere quello di tutti i valori interi positivi e negativi, e allora la coppia limite (m,,) sarebbe. la coppia per la quale è |m|]+]|n|= cc. 4. — Ma si può anche stabilire un risultato più generale. Siano fi(@4Mg Ns); S(CYMsNs), + fp(Eyms,hs,) delle funzioni in numero finito, ognuna delle quali, per ogni coppia di valori (m, n) presi tra quelli di un gruppo finito 10) UCI III e data im tutti i punti (a, y) di un’area A e al tendere di. (m, n) verso (my) coppia-limite del gruppo detto, sia per ogni punto (@, 4) 2) lim PM, 2a) (yM JA PM, n) f(EYM N) A O 0°O —- MICZIMENDO( Fissati due numeri positivi g e g', prossimi ad arbitrio, esista nell’area A, per ogni coppia di valori (m, n), un insieme di pezzi @, di somma 2 2 >) 2 sempre maggiore di d, numero assegnabile, nei quali sia ognuna delle WERM5./ compresa fra ge, gi; parimente esista, un insieme di pezzi @;, di somma sempre maggiore di d, assegnabile, nei quali sia /} compresa og e —g, mentre le altre {,,f},--:/5 rimangono comprese ‘tra ‘gie g': vi sia poi un’altro insieme di pezzi o", pure di somma maggiore di Serie V. — Tomos IV. 48 d,, nei quali è f, compresa fra —g' e —g, le altre ff... comprese tra ge gi, e così Via. Or si consideri un gruppo qualsivoglia di infinite coppie di valori 3) (MD) b) (MN) gio 0 scelte tra le 1). Vi sarà nell’area A un punto (x,y) tale che. la retta c=%Y=% incontra infiniti pezzi @ giacenti in piani del gruppo 3), i quali indicheremo con 4) (Mr (ra Vi sarà poi anche un punto (x,y,) tale che la retta a=a yg=% incontra infiniti pezzi @' giacenti su piani del gruppo 4) i quali indicheremo con 5) (RARE In virtù dell’ipotesi 2), se s’ immagina la coppia di valori (m, n ten- dente a (m7,) passando per le coppie di valori 5), avremo lim {P,(Mmaf(eynn) ++ P(mf(eymn)i = 0 6) ; lim {P(ma)f(eymn) +-+ Ppmn)f(cymn)}=0 e quindi tenderà a zero anche la differenza di queste due quantità : diffe- renza che si potra scrivere Pm, ngt N) + Pm, ng — G+ + Pm, DI 9) essendo 9, 92,---9, di) d;-- 9, numeri tutti compresi tra 9g e g'. Ora ge g' si possono prendere prossimi tra loro quanto si vuole; e quindi ma- nifesto che deve tendere a zero la successione dei valori $,(m, n), quando la coppia (m, n) tende a (m7,) passando per le coppie 5). Per considera- zioni identiche a quelle svolte al n.° 3, se ne conclude che deve tendere a zero la successione dei valori P.mn) Pmn)... che prende P(m, n) quando (m, n) tende a (m) passando per tutte le coppie 1). In modo analogo si proverebbe che tendono a zero Pm, 2), ... P(M, n). — 379 — | 5. — A questa conclusione si perviene anche ponendo altre ipotesi pei valori della ff ---/p nei pezzi @, 0', 0". Basterà che si possano stabilire p relazioni distinte della forma 6). 6 Nelleg fe Seen, MipuoNsupporrefchenNlefvariabilisiano#p1ùtdi due e così pure i parametri (m, n,...): tenute ferme le stesse ipotesi sì. perviene alle stesse conseguenze. Non si ha più qui |’ aiuto dell’ intuizione geometrica immediata, ma non è difficile dare al ragionamento una veste prettamente analitica. f. — Facciamo un’applicazione delle proposizioni precedenti. Sia f(@,y) una funzione delle variabili reali 4 e y, coi due periodi e t', dimodoché si abbia f(a+t,49)=/(, 9) f(a,gy+t)=/f(2,4) e si sappia che essa ha un valore positivo maggiore di g, in tutta un’area determinata @ minore o eguale a 77'; condizione che sarà certo verificata se f(&,y) è continua e in un punto ha un valore g" maggiore di 9g posi- tivo. Si consideri f(ma, ny) dove m e n sono due interi: si avrà S(ma +7, ny) =/(m (@ + ) 3 n9) ma, n4) f(ma, ny + c) =f(me, n(4 + L)) —f(m@, ny) LU f(ma,ny) avrà dunque per periodi atte e in ogni rettangolo di am- T im) © fa] iu 7 o) piezza ma esisterà un’area mal nella quale è sempre f(ma, ny) 9g. | | Inoltre, se |mn], é abbastanza grande: nel campo A, qualunque ne sia ' TT ELA PR, la grandezza, entrerà sempre almeno un rettangolo lai e quindi un’area n 1 (f1) Dee: LI = . Perciò se é Imal, |mn|=|mn|g+r nell’area A esisteranno almeno gq aree ria nelle quali è (ma, ny)> 9, perché si ha oli: BIIORT + ® Oa Tm] (ma [mn], —. |mn,+ q mn], «d’altra parte è @ quo 1 [mn] Pl glmn|,+|mn| 1 O O — g|ma|, 1° ‘con che rimane provato che per ogni coppia di valori interi (m, n) esiste un insieme di pezzi ©, di somma sempre maggiore di un numero deter- minato, e nei quali la f(ma, ny) é in tutti i punti maggiori di 9g, e quindi se in tutti i punti dell’area A, è ar Ga, 09) 0 || +la|=00 ‘Umn essendo un coefficiente fisso per ogni coppia (m, n), sì avrà, in virtù «della prop. del n.° 2, iù oo = 0 |n|+|al=00 S. — Si abbiano poi le funzioni RCA E), ) ‘ognuna doppiamente periodica : nell’area A esista un pezzo @, in cui tutte ‘hanno valori compresi tra 9g e 9g, g e g'" essendo numeri positivi che possono supporsi prossimi tra loro come vuolsi; un pezzo @' in cui tutte e quattro sono comprese tra —g' e —g, e inoltre i pezzi @,, @,,...0,, in ognuno dei. .quali le funzioni di una coppia f;;/s, ovvero fi, fg, etc. sono rispettiva- mente comprese tra —g' e —g9, mentre le due rimanenti lo sono tra g ‘e g' ; la quale condizione è certamente verificata se le fi; fr fe fa SONO «continue e vi sono punti, nei quali tutte e quattro hanno valori maggiori di un numero g positivo, e punti nei quali le funzioni delle coppie ora dette hanno rispettivameute valori minori di —g, mentre le due funzioni ‘rimanenti sono maggiori di g. Aggiungasi ora l’ipotesi che, essendo P(m, n), Pm, n), Pm, n), Pm, n) — 381 — delle funzioni aventi valore determinato per ogni coppia di valori interi (m, n), la quantità 1) P(m,n)f(me, ny) + Pm, n)f(Mm, ny) + Pm, nf, NY) + Sla Pm, n)f(m&a, ny) tenda a zero in ogni punto (2, y) dell’area A, quando, con qualsiasi leeseMlefcoppietdiimumerti@ a} n), variano in modo che Im+a] dal +] dal +3], Tall +2] crescono indefinitamente. Con ragionamento analogo a quello del n.° 4, tenendo conto di quanto fu stabilito al n.° 7 per le funzioni doppiamente periodiche, si prova che si hanno otto relazioni analoghe alle 6 del n.° 4 dalle quali si trae subito che tendono a zero le quantità Pm, n), Pm, n) ’ Pam, n) ’ Pm, n) quando m e n variano in modo che |m|+-|n| tende all’ co. Le otto relazioni sono anzi, per lo scopo qui detto, sovrabbondanti. 9. — Tutte le condizioni qui poste, sono soddisfatte per le funzioni fi g)= sena:seny fi 'y)=cosa'seny f(@, y) = sen & cosy Tic) _icosxicosgk basta, senz’ altro, osservare che nei punti — Ir quelle funzioni hanno rispettivamente tutte e quattro il valore a OVVero: DO il valore eli ovvero due qualunque di esse il valore S le altre due il valore —; etc...., e si ha così la proposizione del sig. Ascoli. L AOOÎT VOKTICOSI DI ORDINE SUPERIORE AL PMO IN RELAZIONE ALLE EQUAZIONI PEL MOVIMENTO DEI FLUIDI VISCOSI NOTA DI CORNELIA FABRI (Letta nella Sessione ordinaria del 22 Aprile 1894). Le equazioni, generalmente adottate, pel movimento di una massa fluida incompressibile, quando si suppone che esistano forze d’ attrito o di viscosità, sono le seguenti : du __ 1 dp o dari pag Aa doma 1òp Da a dw _ 1 dp Dio ini o dove «, v, w denotano le componenti della velocità, X, Y,Z quelle delle forze esterne; p indica la pressione, /% la densità e £ una costante, se il fluido è omogeneo, ovvero una funzione delle coordinate, nell’ ipotesi opposta. Queste equazioni, non differiscono da quelle date da Eulero, pel moto dei fluidi perfetti, che per l’ aggiunta dei termini KA°«, RA°v, KA°w0. È quindi importante porre in evidenza il significato cinematico di questi termini aggiunti, indagando quali sono i cangiamenti che avvengono nel movimento del fluido, per effetto delle forze d’ attrito. — 384 — A tale scopo, in questa nota, supporrò che il fluido viscoso sia sempre, non solo incompressibile, ma ancora omogeneo, vale a dire che % e % siano costanti; inoltre ammetterò che le forze esterne abbiano un poten- ziale V. Le indicate ipotesi sono, evidentemente, quelle che più si avvici- nano alla realtà, quando si vogliono studiare i movimenti che avvengono comunemente nei liquidi. Allorquando si sviluppano le componenti «, v, w della velocità in serie di.Taylor, e si tiene conto, non solo dei termini di primo sradeMbfcome ha fatto Helmholtz, ma ancora di un numero qualunque di termini susseguenti, si è condotti a considerare uria serie indefinita di movimenti, rappresentabili con vettori, le componenti dei quali sono collegate fra loro da equazioni differenziali simili a quelle che esprimono le componenti della rotaziene, mediante quelle della velocità. Questi movimenti sono stati chiamati moti vorticosi di ordine supe- riore ; alcuni di essi hanno effettivamente una evidente analogia colle ro- tazioni, altri però ne differiscono essenzialmente. I termini aggiunti, KA°, kA°0, KA°%, rappresentano, all’ infuori del fat- tore numerico — 6, le componenti 4, u,» di quello dei suindicati movi- menti che deriva dai termini di secondo grado nello sviluppo in serie di Taylor delle «, v, w; movimento detto di fiessione (*). Ciò dimostra che, tenendo conto nei fluidi della viscosità, si viene ad ammettere che nel loro movimento abbiano luogo delle flessioni; inversa- mente poi, se queste mancano, non potranno esservi forze d’ attrito, ed il fluido non sarà viscoso. Le ipotesi fatte conducono quindi a stabilire il principio seguente: In un fluido viscoso in movimento devono esistere sempre dei filetti di flessione (**). i Questo principio, mentre offre un esempio dell’esistenza oggettiva dei moti di flessione, serve altresi a dimostrarne l’ importanza, perché si col- lega ad una parte interessantissima dell’ idrodinamica, cioé alla teorica dell’ attrito interno nei liquidi. Il principio precedente può enunciarsi ancora come segue: In un fluido viscoso in movimento non può esistere potenziale di rotazione. (*) Per conoscere la natura dei moti di flessione vedasi la memoria del Sig. Boggio-Lera: Sulla cinematica dei mezzi continui, inserita negli Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa dell’ anno -1886. Pei moti di flessione, ed in genere pei moti vorticosi di ordine superiore, vedasi pure la mia memoria: Sui moti vorticosi nei fluidi perfetti. Bologna, Tipografia Gamberini e Parmeggiani, 1892. Un sunto di questa memoria è inserito nel giornale / nuovo cimento. Pisa 1892, pag. 135 e 221. (**) È bene notare, a scanso di equivoci, che con ciò non s’ intende dire che in un fluido non viscoso non possano esservi moti di flessione, perchè anzi niente è contrario alla possibilità della loro esistenza, dipendendo questa dalla forma che avranno le funzioni V e p. — 389 — Se vi ha potenziale @ di flessione, le equazioni del movimento possono seriversi come segue : i 3 d Cp sE GR) leo rogo dw c 10 RI eV ONION ea dt Ò ( do) h (a i; dalle quali si vede chiaramente che, il movimento di un fluido viscoso, soggetto a forze che ammettono un potenziale V, e nel quale esiste un poten- ziale D di flessione, avviene come se il fluido non fosse viscoso e le forze esterne avessero per potenziale la funzione V — 6kTp. Laonde, lasciando a parte questo caso, supporrò che non esista poten- ziale di flessione, cioé che il trinomio Ade + udy + vds non sia differenziale esatto. In questa ipotesi, il movimento del fluido viscoso differisce essenzial- mente da quello di un fiuido non viscoso; e non sarà fuor di luogo ri- cercare le condizioni, che devono essere soddisfatte, perché continui a sus- sistere l’ importantissimo teorema di Helmholtz sulle rotazioni. Se e indica un qualsiasi contorno chiuso, il teorema di Helmholtz può esprimersi colla seguente uguaglianza : » qfcedo + vdy + wde)=0 c cioè d du + v+ w fav a + MEETS sù hfcaruda + A?vdy + Atode)=0 . Il primo integrale è uguale a zero, perché la quantità sotto il segno integrale è un differenziale esatto. Rimane quindi, per l’esistenza del teo- Serie V. — Tomo IV. 49 — 386 — rema di Helmholtz, la condizione seguente: k[(arudo + A°edy + A°wds)= 0 1 1 1 x e ricordando che — gi, — gd, gio, sono le componenti 4, &, », della flessione, e che f4ax + udy + vds) rappresenta la vorticosità di 2° ‘ordine, si può enunciare il teorema seguente : È condizione necessaria e sufficiente per l’ esistenza del teorema di Helm- holtz in un fluido viscoso, che sia nulla la vorticosità di 2° ordine per qualunque linea chiusa tracciata nel fluido. È facile vedere che ciò equivale ad ammettere l’ esistenza del poten- ziale di flessione ; di modo che, all’ infuori di questo caso, pel quale si é veduto che il fluido può considerarsi privo d’ attrito, mai potra sussistere il teorema di Helmholtz, nel movimento dei fluidi viscosi. Anche il Prof. Poincaré, nelle sue lezioni, testé pubblicate, Sulla feo- rica dei vortici (*), ricerca in quali casi sussiste il teorema di Helmholtz nei fluidi viscosi, ma trova soltanto la condizione necessaria (non suffi- ciente) che il vettore (0, Y, p) della rotazione coincida, in direzione, con quello di componenti A°o, A°y, A°p. Quando esiste potenziale di flessione, questa condizione è sempre soddisfatta, perché essendo dy dg n DÀ dv (1) wI=3(Z;) 3 dll dA Sca 5 € nullo il secondo vettore indicato dal Poincaré, il qual vettore è quello che rappresenta il moto vorticoso di 3° ordine. Dalle equazioni del moto, derivando la terza rispetto ad y e sottraen- dola dalla seconda, derivata rispetto a 2, si ottiene do AIZI du du —=ki°o+_-c0+X+ << dt da dy e ; (*) H. Poincaré. Théorie des tourbillons, lecons profesées a la faculté des sciences de Paris. pag. 192. Paris, Georges Carré ; 1893. — 387 — e, in modo analogo possono ottenersi le altre : dy dv do dv A -KAXZ+-@0+% di ì VE al dp do dt 10 —_ = kA° O+ CZ + — di Mg Sag Tg che sono le equazioni di Helmholtz trasformate pel caso del fiuido viscoso. Se si indicano con A, B, C le proiezioni sui piani coordinati 2g, 42, Y%, dell’ area del triangolo formato dai vettori della velocità e della rotazione, e dalla congiungente i loro estremi, sarà: di A = ipo — 2%), B=i(0w0— pu), C=jAu—ov); e non é difficile verificare che le tre equazioni scritte di sopra equivalgono alle seguenti : COMI CRE vo TM NUBE ; (2) | = +04, Se la velocità del fluido si mantiene costantemente piccolissima, le precedenti equazioni si riducono alle seguenti: DOMINO Ur O Ode 0 3g AO, a RAT, x FAP; cioè prendono la forma dell’ equazione per la propagazione del calore. Quando il moto è permanente, sarà: — 388 — e le equazioni (1) (2) permettono di enunciare il teorema: In un fluido viscoso, che ha moto permanente, l espressione (RA + 3k4)de + (2.B + 3ku)dy + (2C + 3kv)dz é un differenziale esutto; dal quale teorema si deduce il corollario: Se in un fluido viscoso, che ha moto permanente, le linee vorticose coincidono colle linee di corrente (A=B=C=0) non potra esservi moto vorticoso di terzo ordine, e il teorema di Helmholtz sard verificato. Quando il moto é permanente, può porsi: da ire 09 cp i dy ° RI Canio Lungo una linea s di corrente si ha: da U due v dee do) ds frena » data ape pae S_VW°+oe+%w S__VUW+0d+%w S_VU+0+% — 389 — e l’ eguaglianza du dv duw det gt = (v_L_49)de+ (VE 49)dy + Ò p A s(v-f- 1G)d:+ i(Adw ae Cd:) diventa si(e+o Ma p(v_fa o (V_P_4g) Sail + w Wale D)+3g nin B)o+ + i(1faent( ta). 0 de laonde sulle linee di corrente è s(e+ D+ 1) +5 + 4D@ —-V= cost. Sulle linee vorticose, indicando con ds l’ elemento della linea, si ha da o) dg X USI p ds T V@estPeR EEE e l’ eguaglianza duda dv dy dwds _ p da Ò p dy di ds di ds dt ds cei A) +3 (Vl) da dc) h s 8 ds si trasforma nella seguente CSA LE duw de' LEA slug) TOLLO P 5) Vea ds h (*) Si suppone che le funzioni V, p, P non contengano esplicitamente il tempo. — 390 — dalla quale si ricava il teorema: Lungo una linea vorticosa, l° espressione ( v—P_ 45) varia come la proiezione dell’ accelerazione sulla tangente alla linea stessa. L’ eguaglianza precedente può ancora trasformarsi come segue: d p à) (de du du | s(V-i-49)= 7 il gg He Vo+%°+ pî lè dy dg di ia VARE IA 2 Ò de ÒWw Ò 0 do ETA Sa Ma Vo+%°+ p° ida °yY de | Mi U (du dog, do (i v du, do nda AGERE dal | Va+X xp} idy dy 2" O i dv dW Vo+X+ pi ds ds da 1 { /du du du Ò dv dv = - O+Z+ ut+t(_-0+T% o+ a+ X+ p°i\de dy d Ò OGTO do ÙL0 d0 ) +(_0+-Z+—p)w 00 e += gene de iode Questo risultato, unito all’ altro analogo ottenuto precedentemente per le linee di moto, mostra che, anche pei fluidi viscosi, sussiste il teorema, gia noto pei fluidi privi d’ at'rito, che si esprime nel modo seguente? Quando il moto del fluido é permanente, esiste una infinità di superficii p lu +v0+w)+ pin 4@ — V= cost. sulle quali si possono tracciare linee di corrente, e linee corticose in numero infinito (*). (*) Il Prof. Thomas Craig in una memoria pubblicata nell’ Amerzean Journal of Mathematies del Settembre 1880 enuncia un teorema molto simile a questo, se non che egli aggiunge qualche — 391 — Dalle relazioni precedenti si ricava altresi SA da doy + deo cn; di” VoPR+p° a =, D+ 0); Laonde: Quando il moto é permanente, il quadrato della velocità varia, lungo una linea vorticosa, come la proiezione dell’ accelerazione sulla tan- gente alla linea stessa. Nel movimento permanente la vorticosità di 2° ordine di una linea chiusa qualsiasi L è data, a cagione di un teorema dimostrato precedente- mente, da _ "i (Ada + Bdy + Cd); L ed osservando che Au+Bo+Cw=0, Ao + B%X + Cp=0, si ha il teorema seguente: Nel moto permanente é nulla la vorticosità di 2° ordine, per quelle linee chiuse che sono, 0 linee vorticose, 0 linee di moto. Le cose, esposte in questa nota, mostrano come sia necessario ricor- rere ai moti vorticosi di secondo ordine, ossia alle flessioni, per interpre- tare completamente le equazioni del movimento dei fiuidi viscosi. Ciò non deve recare meraviglia, se si considera che, per tener conto della viscosità, sì sono aggiunti alle equazioni Euleriane dei termini for- mati colle derivate seconde delle componenti della velocità, i quali, tro- vandosi nella parte di secondo grado dello sviluppo in serie di Taylor delle componenti suddette, dovevano, necessariamente, aver relazione con quei moti che si sono studiati considerando i termini di secondo grado in quello sviluppo. È poi probabile che le formole, oggi adottate, pei fluidi viscosi, rap- presentino solo una prima approssimazione; vi è quindi ragione di credere che, proseguendo lo studio di questo importante argomento, e confron- tando accuratamente i risultati del calcolo coi responsi dell’ esperienza, possano essere aggiunti, alle ricordate equazioni, altri termini composti colle derivate di ordine superiore al secondo, i quali abbiano relazione altra condizione, a quella che il moto sia permanente, e considera un sistema di snperficii al- quanto diverso, da quello da me sopra indicato. — 392 — coi moti vorticosi degli ordini corrispondenti a quelli delle derivate suin- dicate. Ciò non potrà creare gravi difficoltà nello studio del moto del fluido perché, come ho mostrato nella mia antecedente memoria, i moti vorticosi dei diversi ordini hanno fra loro stretti legami di somiglianza, ed è facile avere di essi un’idea perfettamente concreta. Pei fluidi compressibili od aeriformi, possono farsi ricerche analoghe a quelle esposte in questa nota. Ciò mi propongo mostrare in altra pub- blicazione. — reg O Ra ——— PROTOVO E GLOBULI POLARI Et HONOR COMUNICAZIONE DEL PROF. SALVATORE TRINCHESE (Letta nella Seduta del 27 Maggio 1894). Nell’ adunanza della R. Accademia dei Lincei del 1° Giugno 1879, lessi una mia memoria intitolata: Z primi momenti dell’evoluzione nei molluschi (1), nella quale esposi molte singolari particolarità da me notate circa la for- mazione dei globuli polari dell’ Amphorina coerulea. Le mie osservazioni su questo argomento erano rimaste per molti anni quasi del tutto ignote ai naturalisti italiani e stranieri; quando il prof. E. van Beneden prima e il prof. Augusto Weismann poi, rivolsero ad esse la loro attenzione. Quest’ ultimo, anzi, lamentò che le figure illustrative di quella mia memoria fossero cosi poco conosciute. Ora ritorno sull'argomento, perché pochi mesi or sono ho potuto pro- curarmi un individuo di Amphorina coerulea sulle cui uova ho fatto alcune nuove osservazioni che reputo degne di nota, tanto più che in questi ultimi 10 anni é tale l’importanza attribuita dagli embriologi ai globuli polari, che qualsiasi nuovo particolare ad essi riferentesi, desta il massimo interesse. Sl conosce oramai l’origine dei globuli polari e il meccanismo della loro formazione, ma il loro significato fisiologico nell’ontogenesi è ancora sconosciuto. Queste strane formazioni, si considerino come uova abortite, secondo il concetto di Boveri e Giard; o come una reminiscenza atavica della partenogenesi primitiva, secondo l'opinione di Bitschli e Whitman; o come elementi maschili dell'uovo ritenuto una cellula ermafrodita, giusta (1) Memorie della classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei. Vol. VII. Roma. S-zrie V. — Tomo IV. 50 — 394 — un’ipotesi di van Beneden et Minot; o come eliminatrici del plasma istogeno e di una parte del plasma germinativo, secondo l’ ingegnosa teoria di Weismann, sono ancora un vero enimma, che soltanto 1’ embriologia sperimentale potrà spiegare. Se i globuli polari, dopo la loro espulsione, restassero indipendenti dal- l'uovo, e presto si atrofizzassero e morissero, sarebbe molto probabile che essi avessero l’ ufficio di eliminare dall’ uovo qualche elemento ormai inutile o anche nocivo allo sviluppo del nuovo essere. Ma siccome vivono assai lungo tempo attaccati all’ embrione e si sviluppano in essi degli organi, talvolta complicati; cosi è molto più probabile che non abbiano quell’ ufficio, il quale cesserebbe colla loro espulsione dall’ uovo ; e se pure lo hanno, non deve essere il solo, ma devono averne un altro da compiere dopo la loro espulsione ; altrimenti sarebbero incomprensibili i fenomeni che descriverò in questa mia breve comunicazione. In tutte le uova di molluschi da me particolarmente studiate, i globuli polari sono uniti tra loro da un filamento di protoplasma, più o meno fa- cilmente visibile secondo la sua maggiore o minore grossezza. Un altro simile filamento unisce il secondo globulo polare al vitello. Nel mezzo del primo di questi due filamenti, trovasi un corpuscolo sferoidale o al- lungato (punctum intermedium), fiancheggiato da due altri corpuscoli rotondi o allungati trasversalmente. Il significato morfologico e fisiologico di queste formazioni è sconosciuto affatto. I globuli polari delle specie da me osservate, subito dopo la loro espul- sione prendono le forme più diverse e strane: somigliano ora a trottole, ora a clave, ora a mannaie, ora a fusi diritti o piegati ad arco. Queste forme sono dovute a movimenti ameboidi e si succedono nell’ Ercolania Siotti le une alle altre durante tutta la vita dei globuli. Nella Berghia coerulescens i globuli polari presentano queste forme per breve tempo; poi diventano sferici, e tutta la loro superficie si cuopre di sottilissimi prolunga- menti protoplasmatici diritti e rigidi, simili, nell’apparenza, a quelli degli Eliozoi. Nel secondo globulo polare dell’ Amphorina coerulea, dopo i movimenti ameboidi, appariscono simili prolungamenti sottili; ma nel primo globulo o in ciascuno dei globuli derivati da semmentazione del primo, si sviluppa un grosso prolungamento conico (fig. 1-2) il quale poi, assottigliandosi, si trasforma in un tentacolo cavo terminato da un rigonfiamento a guisa di ventosa. Tutto il tentacolo si allunga e si accorcia rapidamente, come — 395 — un cannocchiale. Quando vi sono due primi globuli polari, spesso il ten- tacolo dell’ uno si piega verso il vitello da una parte e quello dell’ altro dalla parte opposta (fig. 3, 9-p, g-p'). Quando l’estremitaà rigonfia del tentacolo è giunta a breve distanza dal vitello, una punta sottilissima, fortemente rifran- gente, sporge fuori dal rigonfiamento e s’im- merge nel vitello (fig. 4, r). Pochi minuti dopo, la punta rientra, e il tentacolo si addirizza rapidamente per tornare a ripiegarsi. Questi movimenti sì ripetono con maggiore o minore frequenza sino alla formazione della blastula : poi il tentacolo rientra nel corpo del globulo polare, mentre questo perde la sua forma di pera e diventa ovoide o rotondo. Dal momento in cui comincia l’invaginazione gastrulare, ap- pariscono i primi segni dell’ atrofia nei globuli polari, i quali si staccano più tardi dall’ em- brione e vengono sbalzati qua e là nell’albume dai cigli del velo che si sviluppano. I movimenti ameboidi sono stati notati da lungo tempo nei globuli polari di vari animali; non cosi i prolungamenti protoplasmatici e i ten- tacoli. Ciò può essere accaduto o perché le osservazioni non sono state fatte sul vivo, o perché realmente i globuli degli altri animali hanno perduto la facoltà di emettere pseudopodi e tentacoli. Questa seconda ipotesi, pertanto, non dovrà es- sere ammessa se non quando saranno stati esa- minati i globuli delle diverse specie allo stato vivente e colle precauzioni richieste dalla straor- dinaria delicatezza di queste formazioni. | Nel 1879 non avendo ancora osservato il ripie- garsi dei tentacoli verso il vitello e l’atto che essì fanno d’immergervi la loro punta, supposi che i globuli polari dovessero servire a procurare, dall’ albume in cui sono immersi, qualche ali- mento al vitello cui sono uniti per un filamento. Ora però credo che quella supposizione non avesse fondamento, non essendo possibile che i globuli prendano dal vitello stesso l’ alimento che dovrebbe servire per esso. Se i tentacoli hanno l’ ufficio di prendere l’ alimento, questo non può servire ad altro che a nutrire i globuli che li portano. Ma allora viene spontanea la dimanda: se il primo globulo serve ad espellere dall’ uovo il plasma istogeno ormai inutile, giusta la teoria di Weismann, — 396 — o a scacciare il plasma maschile dell’uovo, giusta l'opinione di van Beneden e Minot, a che si svilupperebbero i tentacoli; a che tanto lusso di movimenti in questi? A che la nutrizione e il prolungarsi della vita dei globuli sino ad uno stadio molto avanzato dello sviluppo em- brionale ? Tutto ciò non sarebbe consono alle leggi economiche della natura (nella quale tutto è matematicamente calcolato), se coll’ espulsione dall’uovo del primo globulo polare, il compito di questo fosse finito; e dovrebbe necessariamente esserlo, se consistesse nell’ espulsione di un pla- sma inutile. È quindi logico ammettere che il primo globulo polare, o i due globuli che da esso derivano sovente, abbiano un altro significato, un’ altra funzione da compiere dopo la loro for- mazione. Tutti riconoscono ormai che il nucleo del primo globulo polare é for- mato dalla meta della vescicola germinativa; ma non si sa ancora comu- nemente |’ origine del protoplasma che forma il corpo di questo globulo, sebbene io l’abbia dimostrata sin dal 1879. La confermo ora colle mie nuove ricerche. Il protovo dell’Amphorina coe- rulea ha un protoplasma naturalmente colorato in verde (fig. 5, p) il quale viene poi circondato dal deutoplasma incoloro (fig. 5, d). Il protopla- sma verde, o primitivo, sì divide in due parti . (fig. 6, p, p'), una delle quali è attratta da un polo, l’altra dall'altro polo del primo fuso dire- zionale. Si formano cosi gli astri del primo anfia- stro direzionale, la cui metà esce dall’ uovo per formare il primo globulo polare. Questo globulo, adunque, è formato dalla metà dell’ uovo primi- tivo (fig. 7, p). L’ altra metà rimane nella massa deutoplasmatica (fig. 6, 7, p, D'). Quando si forma il secondo fuso direzionale, la metà del protoplasma primitivo rimasta nell’ uovo, si divide alla sua volta in due parti, una delle quali é attratta da un polo, l’altra dall’ altro polo di questo fuso. Si for- mano così i due astri del secondo anfiastro direzionale. Una metà di questo viene espulsa per formare il secondo globulo polare; l’altra rimane nel- l'uovo per formare, colla sua parte nucleare, il pronucleo femminile, il quale viene circondato dal protoplasma primitivo che formava l’ astro cor- rispondente. Questo protoplasma, col pronucleo femminile fecondato, si divide poi, insieme col deutoplasma, per formare i blastomeri. Il secondo Fig. 5 — 397 — globulo polare, adunque, é formato dal quarto del protovo, mentre soltanto il quarto residuale di questo prende parte alla formazione dell’ embrione. Il protoplasma verde si divide secondo questo schema nel massimo numero delle uova in cui é in piccola quantità. Talvolta però la sua quan- tità é maggiore, e allora ne é attratta soltanto una parte ai due poli del primo fuso direzionale; l’altra sfugge all’azione polare di questo fuso. Quest’ ultima parte e quella che formava l’ astro interno del primo fuso direzionale, vengono di- vise in due parti eguali dal secondo fuso dire- zionale. In questi casi, il secondo globulo polare è grosso quanto il primo e talvolta anche di più. Accade rarissimamente, forse una volta su cento, che la quantità di protoplasma verde ri- masta nell'uovo dopo l’espulsione dei globuli polari, sia maggiore di quella impiegata per for- marli. Questo fatto però è anormale, poiché l’ evoluzione delle uova nelle quali l’ho osservato, non é mai andata al di là della prima semmenta- zione. Sembra che per l espulsione della massima parte del protoplasma verde, il nucleo spieghi meglio la sua azione dinamica sul deutoplasma. I globuli polari non si formano per gemmazione del deutovo, il quale si dividerebbe, secondo il comune degli osservatori, due volte in una parte più piccola ed una più grossa; ma per due divisioni successive del pro- tovo in due parti eguali. Il deutoplasma non prende parte alla formazione dei globuli. Esso, però, durante quella formazione, risente l’azione del nu- cleo, la quale si limita a costringere le granulazioni lecitiche a disporsi in file corrispondenti ai meridiani del deutovo. Viene cosi determinata l’ origine del protoplasma dei globuli polari. Questo fatto, la cui importanza non isfuggirà ad alcuno, ho potuto dimo- strare servendomi di un mollusco, le cui uova primordiali sono colorate in guisa che sì possano distinguere dal deutoplasma che le circonda tar- divamente. — 398 — SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Le figure intercalate nel testo di questo lavoro, sono riproduzioni in zinco-tipia di fotografie prese dal vero e rappresentano uova in diverse fasi di sviluppo dell’ Amphorina coerulea, fissate colla soluzione di acido osmico 1 per 100. Le fotografie furono fatte dal sig. Alberto Grieb adoperando l’obb. pantacromatico 3.0*2 di Leitz e l’ocul. di proiezione Zeiss 2. Fig. 1 — Semmento di un vitello col primo globulo polare p poco fa formato. Fig. 2 — Semmento di un vitello col primo globulo polare, dal quale emana un prolungamento p che poi si trasforma in un tentacolo. Fig. 3 — Un uovo intero colla membrana dell’albume e l’albume, nel quale é immersa la morula. g:p-9:p', globuli polari formatisi per semmentazione del pri- mo globulo. Ciascuno é munito di un tentacolo. Il secondo glo- bulo polare trovasi a sinistra tra g-p' e ©. Fig. 4 — Una morula. g:p-9:p';, due globuli polari, uno dei quali é munito di un tentacolo, dal quale vien fuori una punta r che s’immerge in una cellula della morula. Fig. 5 — Uovo il cui albume non é stato rappresentato. — È nel periodo che precede la formazione dei globuli polari. P, protoplasma primitivo verde. d, deutoplasma. — 399 — Fig. 6 — Uovo il cui albume non é stato rappresentato. Il protoplasma primitivo verde si é diviso in due parti, una delle quali (P superiore) formerà il corpo del primo globulo polare ; l’altra (P inferiore) resterà nell’uovo per dividersi di nuovo. d, deutoplasma. Fig. 7 — Uovo il cui albume non é stato rappresentato. PD; primo globulo polare in via di formazione. Nel suo in- terno si vede il protoplasma primitivo verde circondato dalla membrana vitellina sollevata. p', protoplasma primitivo verde rimasto nell’ interno del deutoplasma d. RICERCHE SUGLI ALCALOIDI DEL MELAGRANO SUI DERIVATI DELLA GRANATONINA II. MEMORIA DI GIACOMO CIAMICIAN e PAOLO SILBER (Letta nella Seduta del 27 Maggio 1894). Nella nostra prima Memoria sulla granatonina (*), abbiamo dimostrato: che da questo corpo, per successiva riduzione, si possono ottenere i se- guenti alcaloidi, che sono perfettamente comparabili ai derivati della tropina: Granatonina, C,H,,ON, Granatolina, C,H,(0H)N, Granatenina, C,H,N, Granatanina, C,H,,N. Quest’ ultimo si forma, come é noto, per idrogenazione della granate- nina, o anche direttamente dalla granatolina, con acido jodidrico e fosforo a 240°, assieme ad esso prende origine però un’altra base, che contiene un metile di meno la norgranatanina, il di cui studio l’anno scorso era rimasto incompleto. (*) Gazzetta chimica, 2A, I, pag. 116. Serie V. — Tomo IV. 57 — 402 — V. (*) Norgranatanina. Noi abbiamo ripreso perciò 1’ esame di questo interessante alcaloide ed ‘in questo capitolo diamo la descrizione del suo comportamento. Per ottenere più abbondantemente la norgranatanina conviene scaldare la granatolina a 260° invece che a 240°. Noi abbiamo scaldato, in ciascun tubo, 2 ‘4, gr. di base, con 10 c. c. d’acido jodidrico e 1 gr. di fosforo du- rante 6-8 ore. Dopo il riscaldamento i tubi contengono spesso dei cristalli colorati in bruno, ma senza tener conto di essi conviene trattare il pro- dotto con potassa e distillare in corrente di vapore; se l’operazione è stata ben condotta l’alcaloide si solidifica già nel refrigerante. Il distillato viene trattato con potassa, per spostare la base, ed estratto con etere; dalla solu- .zione eterea, seccata con potassa fusa e convenientemente concentrata, si precipita la norgranatanina allo stato di carbamato mediante una corrente di anidride carbonica secca. Nella soluzione eterea rimane sempre un mi- ‘scuglio delle 2 basi terziarie, fra cui predomina quasi esclusivamente la gra- natanina, giacché il residuo passa sempre fra 189-193°; esso viene distillato e sottoposto a nuovo trattamento con acido jodidrico e fosforo. Da 10 gr. «di granatolina si ottengono in questo modo circa 6 gr. di carbamato puro. Esso fonde a 135-136°. La norgranatanina libera si ottiene scomponendo i suoi sali, cloridrato ‘0 carbamato, con un eccesso di potassa concentrata, in forma di aghetti bianchi, filiformi, facilmente solubili nell’ etere, d’ un odore penetrante e ‘disaggradevole. Per la grande avidità con cui attira 1’ anidride carbonica dell’ aria, non abbiamo potuto determinare con esattezza il suo punto di fusione, che pare essere fra 50-60°. Nella nostra precedente Memoria abbiamo descritto soltanto il cloro- aurato, aggiungeremo ora, che il cloridrato forma una massa cristallina priva di colore, solubilissima nell’ acqua ma non deliquescente; il eloroplatinato, (CH,;N),H,PiCl,, sì separa dopo qualche tempo, aggiun- gendo cloruro platinico alla soluzione non troppo diluita del cloridrato. Cristallizzato dall’ acqua acidulata con acido cloridrico, in cui non è molto solubile, forma tavolette gialle, che a 255° non fondono ancora. 0,2770 gr. di questo sale, seccato nel vuoto, dettero 0,0808 gr. di platino. Inidi00fpardk trovato calcolato per C,H,,N;.PICI, PT e! — —_—__ _e— ———_ _____€& Pi 9 29,49 . (*) Continua la numerazione della precedente Memoria. — 403 — Già la formazione del carbamato dimostra che la norgranatanina deve essere una base secondaria, ma per accertare maggiormente questo fatto e nel tempo stesso anche la composizione del nuovo alcaloide, ne abbiamo: preparato ed analizzato la nitrosammina ed il derivato benzoilico. La nitrosonorgranatanina, C,H,N- NO, si ottiene facilmente trattando la soluzione concentrata del cloridrato con una soluzione, del pari con- centrata, di nitrito sodico, in presenza d’acido cloridrico ; si forma tosto un intorbidamento a cui fa seguito la separazione d’ una materia cristal- lina. Noi abbiamo scaldato poi il liquido fino ad ottenerlo limpido, per raffreddamento la nitrosammina cristallizza in gran copia. La si purifica facilmente dall’ etere petrolico, da cui si separa in squame debolmente colorate in giallo, che fondono a 148°. L’ analisi ne confermò la formola: I. 0,1619 gr. di materia ne dettero 0,3638 gr. di CO, e 0,1358 gr. 47,0. II. 0,1324 gr. di materia svolsero 20 c. ce. d’azoto, misurati a 9°,5 e: 760,6 mm. In 100 parti: trovato calcolato per CH, N,0 _7_—,n_—__t__s5g8335r'' Tr TTT ART‘ _ SEME I II G 62,12 — — 02,98 H 9,32 — — 9,09 N — — 18,16 18,18. La nitrosonorgranatanina si scioglie facilmente anche nell’ etere, nel benzolo e nell’ acqua bollente. Essa non dà la reazione di Liebermann, trattandola però con stagno ed acido cloridrico si riottiene facilmente l’ alcaloide. Noi abbiamo bollito 1 gr. di nitrosammina in soluzione cloridrica con limatura di stagno per circa mezz’ ora. Il liquido, da cui per raffredda- mento si separano dei cristalli, venne diluito con acqua a caldo fino a completa soluzione ed indi liberato dallo stagno con idrogeno solforato. Dal filtrato concentrato, si ottenne con potassa la base nella solita forma di aghi filiformi, che, sciolti nell’ etere, dettero con, anidride carbonica i noti prismi del carbamato, che fondevano a 136°. La denzoilnorgranatanina, CyH,N + COC,H,, venne preparata col metodo di Baumann, cioé con cloruro benzoilico in presenza di soda caustica. Ad 1 gr. di carbamato, trattato con soda al 10 p.cto, si aggiunse, senza tener conto dei cristalli dell’ alcaloide libero, che si erano separati, il clo- — 404 — ruro benzoilico, agitando il miscuglio in un vaso a tappo smerigliato. A reazione compiuta si estrae la materia cristallina, che surnuota sulla li- scivia, con etere; la soluzione eterea viene quindi agitata prima con acido cloridrico diluito, poi con soda ed in fine lavata con acqua e seccata con cloruro calcico. Svaporando l’ etere e cristallizzando il residuo dall’ etere di petrolio, si ottengono aghi privi di colore, che fondono a 111°. All’ analisi si ebbero numeri conformi alla suindicata formola. 0,1900 gr. di sostanza dettero 0,5455 gr. di CO, e 0,1437 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato ealcolato per C,,HJN0 27 ss ee csi die _— de _- C 78,30 78,60 Eli 8,40 8,30 . Trasformazione della norgranatanina in a-propilpiridina. La norgranatanina é isomera colle coniceine di A. W. Hofmann (*) e di Lellmann (**) ma sembra non essere identica con nessuna di esse, non per tanto la sua costituzione deve fino ad un certo punto corrispon- dere a quella di queste basi, perché la norgranatanina dà, come la y-co- niceina, l’ a-propilpiridina (***). Tale fatto ha naturalmente una grande importanza perché dimostra la profonda analogia che esiste fra la grana- tolina e la tropina, giacché è noto, che la noridrotropidina di Ladenburg può essere trasformata in a-etilpiridina. Per ottenere l’ a-propilpiridina abbiamo seguito il metodo di Hofmann, che già in tanti casi si é dimostrato efficacissimo per eliminare gli idro- geni addizionati, dai derivati della piridina e chinolina. A questo scopo abbiamo sciolto 3 gr. di carbamato di norgranatanina nell’ acido cloridrico diluito ed abbiamo distillato il sale risultante, seccato a 110°, con un ec- cesso di polvere di zinco. L’ operazione venne eseguita in un tubo a com- bustione a mite calore, facendo passare in principio ed in fine dell’ espe- rienza una corrente di idrogeno. Tosto che la reazione incomincia, 1’ idro- geno si svolge dalla massa cosi abbondantemente, che la corrente esterna (*) Berichte. 18, pag. 7 e 112. (**) Berichte. 22, pag. 1000. — Ibid. 23, pag. 2141. — Liebigs Annalen, 259, pag. 193. (***) Vedi E. Lellmann e W. Otto Miiller, Beriehte, 23, pag. 680. — 405 — diviene superflua. Nel collettore si raccoglie un liquido oleoso, d’odore pi- ridico, i di cui vapori arrossano però intensamente una scheggia d’ abete intrisa d’ acido cloridrico, perché assieme alla propilpiridina si formano anche, in piccola quantità, dei prodotti pirrolici. Per eliminare questi, si scioglie la base nell’ acido cloridrico diluito e si estrae con etere ; la solu- zione acquosa dà per svaporamento un residuo ancora molto colorato, che venne perciò ripreso con acido cloridrico concentrato e scaldato in tubo a 130°. Onde liberare la propilpiridina dalla base rimasta inalterata, si distilla il contenuto del tubo con potassa, si estrae con etere e si fa passare nella soluzione eterea, convenientemente seccata e concentrata, anidride carbonica. Noi abbiamo preferito studiare la base piridica allo stato di cloroplatinato e perciò la soluzione eterea, da cui s’ era separato il carbamato di norgranatanina, venne agitata con acido cloridrico diluito, il cloridrato ottenuto per svaporamento, che era ancora colorato, venne ripreso con acqua e trattato con nero animale, in modo da ottenere una soluzione incolora, a cui venne in fine aggiunto il cloruro platinico. I cri- stalli, che si separarono, avevano subito il punto di fusione 170°, che si mantenne inalterato, anche dopo ulteriori cristallizzazioni dall’ acqua, in cui si sciolgono abbastanza facilmente. L’ analisi condusse a numeri, che concordano esattamente con quelli richiesti dalla formola : | (C.H.,N),- H,PiCI,. I. 0,2948 gr. del sale, seccato nel vuoto, dettero 0,3182 gr. di CO, e 0,1034 gr. di /70. II. 0,2052 gr. come sopra, dettero 0,0612 gr. di platino. In 100 parti: trovato calcolato per CJ, N, PiCI, e — a _—___sgen T_ ———cppss — TY = __ I. II. C 29,44 — — 29,47 JE 3,89 == 3,68 164 = 29,82 29,85. Ladenburg (*) dà per il cloroplatinato di a-propilpiridina il punto di fusione 159-160°, però Lellmann e Mùller (**), che ottennero questa base (*) Liebigs Annalen, 247, pag. 20. (**) Berichte, 23, pag. 681-682. — 406 — dalla y-coniceina, trovarono anch’essi come noi, pel cloroplatinato un punto di fusione più elevato, cioé 172°. Questi chimici attribuiscono per ipotesi il disaccordo all’ esistenza di due diverse a-propilpiridine, noi crediamo in- vece, che la differenza sia del tutto casuale, perché le misure cristallogra- fiche eseguite dal Prof. G. B. Negri sul nostro prodotto, coincidono per- fettamente con quelle fatte da Wleugel e da Liweh su campioni di sostanza forniti loro dal Ladenburg, dunque col cloroplatinato che avrebbe il punto di fusione 159-160°. Riportiamo per intero i dati numerici, che dobbiamo alla gentilezza del nostro amico Prof. G. B. Negri, e che compariamo con quelli trovati dai citati autori. In questo caso le misure cristallografiche hanno una grande importanza perché, per una strana combinazione, anche il cloro- platinato di a-isopropilpiridina fonde secondo Ladenburg (*) a 170°. WLEUGEL LIWEH NEGRI Rot in __ o _ 5; _ = @ Angoli Calcolati —Misurati Medie Limiti n Calcolati 001:100 — — 87°.13' 87°.01' 87°.17" 87°.10'1 — 87°.23' S 87506 1i1:1I11 — — 80°.54' 80°.50' 80°.58'* 80°.38' — 81°.09' 14 — — 001:111 — — 63°.04' 63°.01' 63°.04' * 62° 49" — 63°.31' 13 — — 001710120929 TINE IE II R7R008 370097] 159990) 001:11Î 66°.11' 66°.08' 66°.54' 66°.12' 66°.02' — 66°.19' 7 (66248; 1145 115045050841 1503300090733 00 1 509743) 100.111 50°.43/ | — 150° 48'!50%, 46! * 50°.33' —— 50% 54 9g — — 100 CARI 29 ASA 09 ER 952999] 111:012 41°.01' 41°.08' -- — 40°.59' 40°.45' — 41°.13' LORO T11: TTT 88°.32' 83°. 30! 83°. 45/‘83°:30° “839. 20/0) — 83°. 409/8852001 Dagli angoli asteriscati il Prof. Negri calcola le seguenti costanti: OTO 150029319308 OSATO che differiscono appena da quelle date da Wleugel: OSO CM06225 1119336 O=ISUCA30 (*) Liebigs Annaten, 247, pag. 23. — 407 — tanto che un maggiore accordo non si potrebbe desiderare. Il Prof. Negri ha misurato inoltre altri 4 angoli, pei quali esiste del pari perfetta coinci- denza fra osservazione e calcolo. Egli ha notato poi, come Wleugel, attraverso a (001) l’ uscita dei due assi ottici, il cui piano é normale a (010). Gli assi compariscono sul lembo esterno del campo, formando un’ an- golo assai piccolo. C’ è forte dispersione con p > v. Il Prof. Negri os-. servò una sfaldatura assai perfetta secondo (001), che è sfuggita tanto a Wleugel che a Liweh. La comparazione cristallografica dimostra dunque nel modo il più evi- dente, che la base ottenuta dalla norgranatanina è 1’ a-propilpiridina. VI. Norgranatolina, C,H,,NO. Ossidando a freddo la granatolina con permanganato potassico in so- luzione alcalina si elimina un metile, e la base che risulta é secondaria. Come si vede anche in questo caso |’ analogia di comportamento fra la granatolina e la tropina è perfetta, perché, secondo le esperienze di Mer- ling (*), questo alcaloide dà del pari per ossidazione col camaleonte una base secondaria, ch’ egli chiama tropigenina, la quale corrisponde all’ al- caloide, che noi proponiamo di chiamare norgranatolina : tropina CH, ONCH, granatolina C;H,,JONCH, tropigenina C,H,,ONH norgranatolina C,H,,ONH. Per preparare la nuova base vennero sciolti 5 gr. di granatolina in 200 gr. di acqua ed alla soluzione, resa alcalina con 5 gr. di potassa in 50 c. c. di acqua, si aggiunse, a poco a poco ed agitando continuamente il liquido, 550 c. c. d’ una soluzione al 2 peto. di permanganato potassico. L’ ossidazione sì compie agevolmente a freddo e dopo circa due ore tutto il camaleonte è scomposto. Si filtra e si lava ripetutamente con acqua fredda gli ossidi manganici e si concentra i filtrati, acidificati con acido cloridrico, arb. m. Il residuo salino, quasi incoloro, che rimane indietro, contiene il clo- ridrato del nuovo alcaloide, che si ottiene senza difficoltà e subito abba- stanza puro, sciogliendo il detto residuo in poca acqua, aggiungendo un forte eccesso di potassa solida ed estraendo con etere. La base si separa in aghetti bianchi, che sono poco solubili nell’ etere; ripetendo però più volte il trattamento, si riesce ad esportare tutto il prodotto, che cristallizza (*) Liebigs Annalen der Chemie, 216, pag. 343. — 408 — poi, depositandosi sulle pareti del vaso, durante la concentrazione della so- luzione eterea. Essendo la base cosi poco solubile nell’ etere, questo si presta benissimo per purificarla e difatti basta lavarla a caldo con etere per ottenerla perfettamente pura. Il rendimento è ottimo, da 5 gr. di gra- natolina si ebbero 4 gr. di prodotto purissimo. La norgranatolina fonde a 134°. L’analisi dette numeri corrispondenti alla formola : C,H,0NH. 0,1600 gr. di materia dettero 0,3973 gr. di CO, e 0,1557 gr. di 7,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,H7,,N0 Pm... ae ame ——Pr up —=z_—_—_—m€ Giunone 68,08 Ho 19,81 10,63. La norgranatolina è assai solubile nell’ acqua e nell’ alcool, dall’etere, in cui si scioglie a caldo difficilmente, cristallizza in aghi o prismi privi di colore; stando esposta all’ aria va lentamente in deliquescenza ed at- tira l anidride carbonica. Il cloridrato è un sale cristallino e deliquescente. Il cloroaurato, C,H,,NO- HAuCI,, si ottiene subito per precipitazione in forma di aghetti gialli, che cristallizzano dall’ acqua acidulata in prismetti appiattiti, d’ un colore giallo pallido e fondono a 215°. All’ analisi si ottenne: 0,2868 gr. di sostanza, seccata sull’acido solforico, dettero 0,1170 gr. di oro. In 100 parti: trovato calcolato per CH, NAUCI, —_ ita Pe eq COMORE cc dice _____——— Qu Au 40,79 41,04. Il cloroplatinato è solubilissimo e non si ottiene che lasciando svapo- rare la soluzione concentrata del cloridrato, trattata con cloruro di platino. La nitrosonorgranatolina, C,H,,ON - NO, dimostra che il nuovo alca- loide è base secondaria. Trattando la soluzione concentrata del cloridrato. — 409 — con nitrito sodico, si forma tosto un intorbidamento, a cui fa seguito la; separazione di goccie oleose. Bollendo e poi raffreddando, il prodotto au- menta ma non si solidifica; venne estratto con etere parecchie volte,.. essendo poco solubile in questo solvente. Il residuo, sciolto nell’acqua bol- lente, si separa in fogliette larghe e quasi prive di colore, che fondono a 72-73°. Contengono acqua di cristallizzazione, che perdono stando a lungo. nel vuoto. Il prodotto deacquificato fonde a 125°. 0,2694 gr. di sostanza perdettero nel vuoto sull’ acido solforico, 0,0244 gr. di H,O. In 100 parti: trovato calcolato per C,H,,N,0, + H,O 7 ass” — tT—_—___ sese - Cee ——— H,O 9,06 DOSE Il prodotto anidro ha la suindicata formola, come lo prova la seguente» determinazione d’ azoto : 0,1510 gr. di sostanza, deacquificata nel vuoto sull’ acido solforico, svol sero 21,4 c. c. d'azoto, misurati a 19° e 755,8 mm. In 100 parti: trovato calcolato per C,M,,IN,0; — Tae -|{[{ =_——+ PPP ul =] ]{ N 16,27 16,42. Né la nitrosammina idratata, né quella anidra danno la reazione di’ Liebermann, si comportano dunque a questo riguardo come la nitroso-- norgranatanina. Distillazione del cloridrato sulla polvere di zinco. . Anche la norgranatolina viene privata in questo modo dagli idrogeni. addizionati, ma in luogo di un derivato piridico, si ottiene la piridina stessa. La catena laterale viene dunque staccata. Noi abbiamo distillato il cloridrato, seccato a 110°, proveniente da 2 gr. di base, nel modo anzi- detto. La reazione non procede così regolarmente come nel caso prece- dente ed il prodotto, che ha intenso odore piridico, non si scioglie com- pletamente nell’ acido cloridrico. Anche questa volta abbiamo notato la Serie V. — Tomo IV. 52 — 410 — ‘presenza di derivati pirrolici. La base venne perciò scaldata con acido - cloridrico concentrato, in tubo chiuso, a 130° ed il cloridrato, purificato nel modo già descritto, venne trasformato in cloroplatinato. Cristallizzando quest’ ultimo da poca acqua, dette prismi rosso ranciati, che fondevano -a 236-237° ed aveano la composizione del cloroplatinato di piridina : (C.H,N),- H,PiCI,. 0,2802 gr. di sostanza dettero 0,2176 gr. di CO, e 0,0600 gr. di H,0. In 100 parti: trovato calcolato per iChHE NEErOh T______ see === °____m C 21,20 21,15 HI 2,38 Al Azione dell'acido fodidrico sulla norgranatolina. La norgranatolina contiene ancora l’ossidrile e si comporta perciò col- l'acido jodidrico come la granatolina; scaldandola con questo acido, in tubo, a 140°, si trasforma nel joduro: C,H IN - HI, il quale per azione della potassa dà la base corrispondente alla granatenina, C,HyN, “che noi chiameremo norgranatenina. Noi abbiamo operato analogamente a quanto abbiamo fatto colla granato- lina. 4 gr. di base vennero riscaldati, per circa 20 ore a 140° in un tubo ‘chiuso, con 20 c. c. d’acido jodidrico distillato, della consueta concentra- zione, e con 1 gr. di fosforo rosso. Siccome l’ acido jodidrico salifica semplicemente l’ ossidrile e non si scompone, non si trova pressione nel tubo. Il prodotto della reazione è un liquido, in cui, assieme al fosforo rimasto inalterato, si notano sospesi dei cristalli senza colore. Trattando tutto con poca acqua e scaldando, questi si disciolgono e si può separare il fosforo per filtrazione; dalla soluzione acida si depongono, dopo 24 ore, dei prismi incolori, che sono il joduro della sopraindicata composizione. ‘Separati dal liquido e cristallizzati dall’acqua, in cui anche a caldo non — 4ll — sono molto solubili, fondono a 221° con decomposizione. L’analisi ne con-- fermò la suindicata formola: I. 0,2752 gr. di sostanza dettero 0,2538 gr. di CO, e 0,1028 gr. di 77,0... II. 0,1648 gr. di sostanza dettero 0,2045 gr. di Ag. In 100 parti: trovato calcolato per CH, NI, i \- 57 —, T_———_ __e —trT= mm E II. Cio lo zz 25,33 oi een 3,96 64,07 67,02 . Il liquido acido, da cui si separarono i cristalli ora descritti, dà per trattamento con un eccesso di potassa, un alcaloide oleoso, d’ odore poco intenso ma disaggradevole, che venne estratto con etere. Facendo passare nella soluzione eterea, seccata con potassa deacquificata e conveniente- mente concentrata, una corrente di anidride carbonica secca, si depositano. sulle pareti del vaso dei cristalli, privi di colore, che fondono a 104°-106°. Da 4 gr. di norgranatolina si ottennero nel modo ora descritto, 0,5 gr.. del joduro C,H,, NZ, e 3,6 gr. del carbamato. Noi non abbiamo fatto uno studio completo della base che si ottiene- dalla norgranatolina per azione dell’acido jodidrico a 140°, ma non du- bitiamo, ch’ essa sia la norgranatenina della suindicata formola GN. Come si vede, tutte le basi secondarie di questo gruppo hanno la pro- prietà di combinarsi coll anidride carbonica, proprietà che manca alle corrispondenti basi terziarie. Il composto solido suaccennato, che fonde a 104-106°, sara senza dubbio il cardamato di norgranatenina. Noi non lo abbiamo analizzato, ma ce ne siamo serviti per preparare degli altri sali. Il cloridrato di norgranatenina, forma dei prismi che all’aria lenta- mente vanno in deliquescenza. A 250° non fondono ancora. . Il cloroaurato di norgranatenina, C,H,N- HAuCI,, sì ottiene in forma di precipitato giallo, che cristallizza dall’acido cloridrico diluito in pagliette- gialle, splendenti, che fondono a 186°. All’analisi sì ottennero i seguenti numeri: I. 0,2969 gr. di sostanza dettero 0,2306 gr. di CO, e 0,0868 gr. di 17,0. II. 0,4064 gr. di sostanza dettero 0,1732 gr. d’oro. — 412 — In 100 parti: trovato calcolato per C,A,NAuCI, nn sr —. =—— ss _—=——_____—_€_m I. IH. Clo = 20,78 3,03 42,43. ano Agi SN l9l6? Il cloroplatinato di norgranatenina, (C,H,,N),H,PtCl;, precipita in forma di tavolette d’un colore giallo rossastro. A 260° non fonde ancora. 0,1390 gr. di questo sale dettero 0,0422 gr. di platino. In 100 parti: calcolato per G, Ho Neuer trovato E ce °° _ "o AATaèkT sr Pt 30,36 30,32 . La norgranatolina dà dunque coll’acido jodidrico il jodidrato del cor- »rispondente joduro : C,.H,(0OH)NH+2HI= H,0+C,H,INH-HI, il quale perde per azione dell’alcali facilmente acido jodidrico per trasfor- smarsi in norgranatenina : C,HINH-. HI — 2HI=CH,NH. La serie completa delle basi, da noi derivate dalla granatonina é dun- «que la seguente: Granatonina, C,H,ONCH,. Granatolina, C,H(O0H)NCH,, Norgranatolina, C,H,(0H)NH, «Granatenina, C,H,NCH,, Norgranatenina, C,H,NH, Norgranatanina, C,H,NH. Granatanina, C,H,,NCH,, Alla fine della nostra prima Memoria non abbiamo creduto conveniente aprire la discussione intorno alla struttura di questi alcaloidi. Il riserbo — 413 — ‘era allora quanto mai opportuno, perché ci mancava ancora la cognizione d’ un fatto di fondamentale importanza: la trasformazione della norgrana- tanina in a-propilpiridina. Questo passaggio determina esattamente le rela- zioni che esistono fra i nostri alcaloidi ed i derivati dell’ atropina; le ana- logie che manifestano, in tutto il loro comportamento chimico, la tropina ‘e la granatolina e che continuano a sussistere nei loro derivati, facevano | prevedere una profonda somiglianza di costituzione fra questi due gruppi «di basi, questa somiglianza trova ora esatta espressione nel fatto, che mentre la noridrotropidina può essere trasformata in a-etilpiridina, la norgranata- nina dà, con lo stesso processo, l’ a-propilpiridina. La granatolina é dunque l’ omologo superiore della tropina, ed anche la posizione del metile, per cui essa differisce da quest’ ultima, é fino ad un certo punto determinata. Se però in base a questo ravvicinamento, si tenta di costruire la formola di struttura della granatonina o dei suoi de- rivati, si incontrano difficoltà, che dimostrano come il materiale sperimen- tale sia ancora insufficiente alla soluzione del problema. Le considerazioni, che noi crediamo opportuno di fare, sono perciò da riguardarsi come un primo tentativo, che noi pubblichiamo col massimo riserbo. I fatti finora meglio accertati e più importanti, di cui bisogna tener conto, sono sopratutto due: la formazione di acido fenilgliossilico (C,H,- CO. COOH) per ossidazione del granatone, C,H,.0, ed il suaccennato passaggio della norgranatanina alla a-propilpiridina. In quanto al granatone la sua costi- tuzione non è ancor sicura, tutto però farebbe supporre, che esso sia un diidroacetofenone. Tenendo conto di ciò e della analogia esistente fra tro- pina e granatolina, si potrebbe attribuire alla granatonina la seguente for- mola di struttura : CH HC CH, H,C CH CH,-C0- CH, N CH. 3. ‘che corrisponderebbe a quella che Ladenburg (*) dà ora alla tropina. Questa formola renderebbe conto senza difficoltà della trasformazione della norgranatanina in a-propilpiridina, e potrebbe anche, fino ad un certo punto, spiegare la scissione del jodometilato di granatonina in dimetilam- (*) Berichte 26, 1065 e Liebigs Annalen 279, pag. 351. — 414 — mina e granatone, per ebollizione con barite : CH | | cossa s«-T_- CH, CH=CHT-CH=CH—CH-CO-CH,, TIC. CH Vai 1) a (A (5) (6) H,C CH—CH|H|.co.cH, il quale dà poi l'acido fenilgliossilico :. CH HC C-CO- COOH HC CH CH Dopo i recenti lavori di Merling noi non crediamo però, che le ve- dute di Ladenburg possano essere accettate senza discussione; a noi sembra anzi, che la formola della tropina sostenuta da questo illustre au- tore non corrisponda più a tutti i fatti e massime a quelli posti in rilievo da Eykman (*) Se dunque la formola di Ladenburg non ci sembra più sostenibile, dobbiamo però aggiungere che anche quella di Merling non ci appare ancora sufficientemente provata. Data la grande analogia, che: esiste fra la tropina e la granatolina, non é possibile trattare della costi- tuzione di quest’ ultima, senza toccare da vicino la difficile questione che riguarda la prima. Ora, ammettendo le formole di Merling per la tro- pina ed i suoi derivati, bisognerebbe attribuire agli alcaloidi da noi stu- diati una struttura fondamentale corrispondente ad uno dei due seguenti schemi: GC C (6) a) C C 65) oppure C C 14) 5 N (*) Bertchte 26, pag. 1400. — 415 — ‘onde spiegare la formazione di a-propilpiridina dalla norgranatanina ; ma così facendo si trova una grande difficoltà a darsi ragione del modo come possa ottenersi l’ acido fenilgliossilico dal granatone. Perché anche non facendo nessuna ipotesi sulla costituzione di quest’ ultimo, né sulla posi- zione e funzione dell’ atomo di ossigeno nella granatonina, risulta evidente, che per scissione del jodometilato di questa, con eliminazione di dimetilam- mina, dagli schemi suindicati deriverà sempre un anello benzolico bisosti- tuito in posizione « orto » (1, 2 oppure 1, 6), che naturalmente non può corrispondere all’ acido fenilgliossilico. Le formole di Merling non si prestano dunque a rappresentare la co- stituzione della granatonina e dei suoi derivati e questa difficoltà le rende a nostro avviso poco attendibili in genere, perché noi non crediamo che gli alcaloidi da noi studiati possano avere una struttura essenzialmente diversa da quella delle basi derivanti dall’ atropina. Per ora non stimiamo opportuno proporre un nuovo schema di for- mole, diverso da quello di Ladenburg e di Merling, perché ci sem- bra che prima di farlo sia necessario attendere i risultati di ulteriori ‘esperienze. Pas dl Cari i dea Loi Martial dt oe arabi i ni CARI SULLE LOCALIZZAZIONI ANATOMO-PATOLOGICHE E SULLA PATOGENESI DELLA TABE MEMORIA DEL PROF. FLORIANO BRAZZOLA (Letta nella Seduta del 13 Maggio 1894). Le localizzazioni anatomo-patologiche e la patogenesi della tabe,.non-- ostante tutti i lavori pubblicati anche recentemente, sono tuttora incerte e controverse. Gli ultimi lavori (ricordo in modo speciale quelli di Flechsig ('), di KiaussiFLdlWVtyririorrchi i eci dce ie) Sigma us) dI UElchhNorst (ft), di Borgherini(, di Marinesco (0). ibi deMarie (di Wolllienb eng (3); di Darier:(*), di Golds-- cheider (‘*), di Dejerine (”) ecc.) hanno sicuramente portato prezio- sissimi contributi allo studio della tabe, ma in genere, o confermano dati gia noti sulle degenerazioni dei cordoni spinali, o riferiscono particolarità isto- logiche sulle lesioni spinali, oppure richiamano l’ attenzione sulla compar- (1) Neurologisch. Centralbl. Bd. IX, 2-3. (3) Archiv fiir Psychiatr. XXXIII, 2, p. 387. (3) Revue de Medecine. XI, 1, p. 1. (4) Inaugural-Dissertatio. Erlangen 1892. (3) Wien. Jahrbuch. f. Psych. XI, 1-2, 1892. (6) Deutsches Archiv. f.Klin. Med. XLVI, 2, p. 113. (7) Virehow's Arch. CXXIV, 1, p. 25. — Deutsehe med. Wochensehr. XVII, 23. (8) Revue de Neurologie. I, 11, 1893. (9) Wiener med. Wochensehr. XLI, 51-52. (10) Gazette hebdom. de med. el de chirurg. N. 13-14. (11) Progrès Medicales. XX, N. 52. (12) Archiv. fiur Psych. und Nervenkr. X.XIV, 2. (13) Gazette hebdom. de med. et de chirurg. N. 5. (14) Zettsehrift fiur Klin. Med. XIX, N. 5 e 6. (13) Semaine med. XII, N. 63. — Progrés med. XXI, L Serie V. — Tomo IV. d3 — 418 — tecipazione nel processo, motboso, { dei gangli ‘Spinali, e [dei nervi periferici. In precedenti lavori io invece, come era già Stato iniziato da Jendrasky e da Hyrt, rivolsi l’attenzione specialmente sull’ encefalo, e cercai di dimostrare che la tabe deve essere considerata un’affezione generale del sistema neryoso, nop gia una malattia spinale: le lesioni del midollo spi- nale non- costituiscono l essenza anatomo-patologica delta malattia, ma il sistema nervoso é interessato in tutte le sue parti, prevalentemente nei centri sensitivi e vie sensoriali. Ritorno ora sulla questione con nuovo materiale di studio, con nuove ‘osservazioni. Sono altri tre casi di tabe, a diverso periodo di sviluppo, che potei minutamente esaminare, e siccome ebbi l’ opportunità di accompa- gnare il processo morboso, si può dire nelle sue fasi evolutive, cosi trovo utile riferirne i risultati, mettendoli in relazione colle osservazioni antece- denti. Questi tre casi-poi.sono importantissimi anche per il fatto che, la morte avvenne per altri processi morbosi, e quindi le lesioni po- terono essere meglio stabilite nelle loro diverse fasi evolutive. Per poterli poi studiare convenientemente, pur cercando di essere per quanto è possibile conciso, riferirò le storie cliniche dei singoli casi colle relative alterazioni anatomo-patologiche. minute, riservandomi di fare in ultimo quei raffronti e.quelle considerazioni che crederò opportune. Devo i migliori e più vivi, ringraziamenti al Prof. Murri ed al Dott. Ruffini i quali misero a mia disposizione il materiale di studio. | I. CASO Maria CC. Nulla, o ben poco, si può sapere dell’anamnesi, perché l'am-. malata si rifiuta a fare il racconto di quanto le é successo nella vita. Ammalò di reumatismo articolare, e dopo non le fu più possibile fare lavori appena. un po’ faticosi, venendo subito presa da cardiopalmo ed affanno di respiro.” Entrò nell'ospedale maggiore di Bologna, accusando questi disturbi ed al- l’esame obbiettivo fu riscontrato un vizio cardiaco: insufficienza mitrale e vizio composto dell’ aorta. L'attenzione si fermò sulle lesioni del cuore e la cura fu diretta su di esso. Lia Dopo alcuni giorni di degenza nell'ospedale ammalata accusò feno- meni di diplopia, fenomeni i quali, secondo l’asserzione dell’ammalata, non si erano mai presentati prima di entrare nell’ ospedale. Interrogata sì poté sapere che dopo il suo ingresso nell'ospedale aveva sofferto dei dolori lancinanti agli arti inferiori, dolorii quali però non erano molto intensi, tantoché li aveva sopportati, senza richiamare su di essi l’ atten- zione di quanti la circondavano. - 419 -: L'esame obbiettivo; per Senio si Mica al sistema nervoso; diede; f iseguenti dati; èin ‘e ;jvsgia% sbios. soizut 00! Imuscoli della medie, sia fono stato di riposo chè in funzione; agiscono normalmente ; solo nei muscoli: motori dei bulbi ‘ocùlari si motalunafcerta ‘deficienza: vi è un leggerissimo strabismo. Nella -lingùa nulla degno di nota. sLa motilità sia attivasche° passiva degli-arti è conservatas solo nella deam- bulazione ad occhi chiusi sì osserva un leggiero vacillamento della persona. ‘Le ‘sensibilità in genere sono conservate, solo la tattile e l'a termica-sornio un po’confuse, specialmente negli arti inferiori. Il senso muscolare é quasi com- pletam'ente conservato, un po’diminuito negli arti inferiori. Manca.il riflesso. spatellare d’ambo i lati; le pupille sono miotiche ; la ‘sinistra un. po’ più sampia della. destra; non reagiscono affatto alla luce e soli in modo. ap- pena percettibile all’accomodazione. e Sensi specifici poco alterati ; solo. sì nota leggera diminuzione delle fa- = coltà visiva e diplopia manifestissima. Venne fatta la diagnosi di tabe dor- -sale allo stadio iniziale. L’ammalata mori per disturbato compenso cardiaco. Lesioni: anatomo-patoltogiehe. — Riferisco unicamente i risultati - dell’ indagine microscopica, poiché le lesioni macroscopiche nulla presen- stavano degno di:nota speciale (va :senza dirlo per parte del «sistema. ner- «voso). e perché non farei che ripetere cose note. ni bd’ indagine microscopica venne portata su tutto. il sistema nervoso, sia - centrale che periferico: encefalo, midollo spinale, gangli spinali, netvi pe- «fiferici, Il materiale venne sempre raccolto hel maggior stato/possibile. di freschezza, fissato colle maggiori cure nei diversi liquidi di cui disponiamo, a preferenza liquido:di Mùlker,-e: soluzioni di ‘bicromato : di. potassiora diverso grado. di contentraziohe. L’ inclusione venne fatta’ in celloidina, è furono usati: i diversi metodi di ricerca es cia «colorazione; de cui 10881 \(pos- ‘siamo; disporre. i 1 Rispetto al i nie d'esame poi; hi midollo san il maidallo. -allungato, i peduncoli ecc. furono sezionati sempre in serie ; Tg T- 0Xg dY, dl; dY, dZy dXy dove (2) t= Pa, 0,.. M=WXg, Vyg Ag) @ denotando la predetta forma quadratica e w la forma quadratica reci- proca. Inoltre (2) mi (xa SRROCEREIAZA ZA) e per la variazione dr valgono le due espressioni reciproche (3) dr=X,da+Y,db+---+ 0h (3') 0r=4d0X,+ b0Y,+---+A10X, mentre la variazione seconda assume la forma $@(da, db,...0k) ovvero WdX,,0Y,,...0X,) ed è quindi essenzialmente positiva. Denotiamo con II l’espressione integrale che rappresenta l’energia di deformazione di tutto il corpo e con dII la sua variazione, cioé II illude 2 OII = fdrdr dove dr indica l'elemento di volume, e 7, dm s'intendono definiti come sopra in funzione delle componenti di tensione e di deformazione. Servendosi delle (a) e a mezzo di note trasformazioni si hanno per II e ÒII in corrispondenza colle (2),, (3), (3') le altre espressioni 1 1 (4) I=— Su + Go+ Hw)dt — Sui +Y0 + Z,t0)do 6) dI=—/Fd1+6Gd0+ Hd —f(x,du +Y,d0 + Zyd1)do (55) dl = — f(udF + 00G + wd H)dr — f(udx, + 00Y, + vd Z,)do i — 451 — nelle quali i primi integrali si riferiscono a tutto il volume del corpo ed i secondi a tutta la superficie, di cui do indica l’ elemento; avendo posto pei punti interni pda dg dx da dy de RE OTTAVA nu vi MT, (A) Gi= e rea % (Z. — le Xx= 4a; Va=2G) __ dda day Hr da dy de e valendo per la superficie le note relazioni X,= Xx COS(na) + X, cos(ny) + X, cos(ne) (A) Y,=Y,c0s(nx) + Y, cos(ny) + Y. cos(ne) Z,=Zz C0S(na)+ Z, cos(ny) + Z; cos(na) in cui n designa la normale diretta verso l’interno. Va notato che tutte le equazioni precedenti sussistono anche quando le quantità indicate dai simboli anziché valori assoluti rappresentano le dif- ferenze relative a due diversi stati di deformazione, intendendo allora che mt sia funzione quadratica delle dette differenze. — In particolare la (4), indicando in forma esplicita le differenze, diviene (4) fpAa, Ab,... And = = —3/(AFAL+AGAr + AHAw)dtr—3 f(AX,Au +AY,Ap+AZ,Aw)do e di questa si avrà a far uso fra poco. Le quantità F, G, H definite dalle (A) stanno a rappresentare le com- ponenti delle forze (riferite all’unità di volume) che sollecitano gli ele- menti del corpo per effetto dello stato di tensione. Esse, insieme con le tensioni superficiali X,, Y,, Z definite dalle (A,), rappresentano le forze o reazioni elastiche nascenti dalla deformazione, che per comodità di di- zione io designo col nome speciale di elatéri, le quali nello stato di equi- librio sono uguali e contrarie rispettivamente alle componenti X, Y, Z della forza esterna agente sulla massa degli elementi (riferita all’ unità di volume) ed alle componenti L, M, N della forza esterna applicata alla su- — 452 — perficie (riferita all’unità di superficie), come è significato dalle equazioni (B) F+X=0, G+Y=0, H+Z=0 le quali, posti per Y, G, H i valori (A), sono le note equazioni indefinite | di equilibrio interno, e dalle equazioni di superficie che ad esse vanno ag- giunte (B,) X,tL=0, Ya +M=05 ZEN =0. Si sa poi che esiste una corrispondenza univoca fra i detti elatéri ed il sistema («, v, w) di spostamenti: di guisa che, come dati questi ultimi gli elatéri risultano evidentemente determinati in virtù delle relazioni (a) e delle (4), (A), (A), reciprocamente dato, il sistema (#,G, die Gse0eZz) degli elatéri, sono perfettamente determinate le «, v, w in tutti i punti (a meno di un movimento generale del corpo come rigido, da cui qui si prescinde). Questa seconda parte della proposizione, che per le (B, B,) com- prende la proposizione fondamentale relativa all’ unicità del sistema di spostamenti che fa equilibrio a date forze deformatrici, si deduce come conseguenza immediata dell’ equazione (4), alle differenze. La quale dimo- stra che se per due stati gli elatéri hanno lo stesso valore, talché sia dappertutto AK = AGTNH—0R6AX:T— AVTCAZE=045ara fpi(Aa, Ab,...Ah)dr=0 il che per la natura della funzione @ esige che sia dappertutto Aa=0, Ab=0;---AQrh=0; e questo. porta ‘anche ‘che sialtAu =Ao=Aw0 in tutto il corpo (sempre prescindendo da un moto d’insieme). Onde infine gli spostamenti sono eguali nei due stati, i quali perciò coincidono. Più in generale si deduce dalla stessa equazione che lo stato del corpo é pienamente determinato quando pei suoi punti interni e superficiali sieno assegnati in parte gli elatéri e in parte gli spostamenti — per es. quando sieno assegnati gli elatéri XY, G, H in tutti i punti interni e gli spostamenti u,v,w pei punti della superficie — e più largamente ancora, in tutti quei casì in cui si assegnino condizioni tali che rendano comunque uguale a zero il secondo membro della (4). Al sistema delle equazioni (B, B,) si può sostituire l’equazione generale d’ equilibrio (C) SE+Zdu+(G+Y)do +(H + Z)dw}dr + ++ Ddu+(Yx+Mdo +(Z+Mdw}do=0 — 453 — che traduce il principio delle velocità virtuali, e che avuto riguardo alla (5) ‘e supponendo un potenziale P alle forze esterne talché il lavoro virtuale relativo ad esse venga rappresentato da —dP, prende la forma (C') dI + P)=0 e significa l’annullarsi della variazione prima della somma IT + P, cioè dell’ energia complessiva che comprende l’ energia di deformazione e quella «che fornisce il lavoro delle forze esterne. Quanto alla variazione seconda, sappiamo che per la parte che spetta a II essa é essenzialmente positiva e per la parte che spetta a P, ritenendo costanti (cioé indipendenti dagli spostamenti «, v, w) le forze esterne, essa sara nulla. Onde l’equazione (C') viene a significare un minimo della suddetta energia complessiva; il che rientra nella nota legge generale dell’ equilibrio stabile. In ciò che precede si é supposto tacitamente che lo stato primitivo del ‘corpo non soggetto ad alcuna forza esterna sia tale che le tensioni sieno nulle dappertutto. Ma può accadere invece che per effetto di mutua costri- zione, in cui possono trovarsi eventualmente le parti del corpo, preesista uno stato di tensione. Le tensioni iniziali, che designeròo con X,, Y,,-.-Xy; potranno essere qualunque, colla condizione però che gli elatéri siano nulli; e ciò per necessità d’ equilibrio, poiché mancano le forze esterne. Allora lo stato iniziale é anch’esso in qualche modo uno stato di de- formazione ed il corpo ha già in sé una certa energia di deformazione che rimane per cosi dire latente, ma si estrinsecherebbe rompendo la connessione delle parti del corpo stesso. Per effetto della deformazione (a, b,...h) dovuta al sistema («, v, w) di spostamenti contati da un tale stato iniziale nasce allora un nuovo sistema (X,, Yy,... Xy) di tensioni che si sovrappongono alle preesistenti e che potremo chiamare tensioni rela- tive; e riferendosi a queste ultime, é facile vedere che tutte le relazioni precedenti sussistono ancora, purché lo stato iniziale sia di equilibrio sta- bile, il che é necessario per conservare a 7 il suo carattere di forma qua- dratica positiva. Chiamando e l’ energia di deformazione per unità di volume, si ha | adesso e-e=X41+Y,b+---+Xh+7 (a=$@(4,0,...h) dove e rappresenta il valore iniziale; e quindi 7 non corrisponde più sem- plicemente all’incremento di energia a partire dallo stato primitivo. Se però s’integra a tutto il corpo e si rappresenta con E l’ energia totale data da fedt, notando che la parte che proviene dall’ integrazione dei termini Xyd +Yyb+---+ X,h — 454 — sparisce (perché trasformata al modo solito verrebbe a contenere i valori iniziali degli elatéri che si disse esser nulli), si trova ET—-E=Il onde si vede che II risulta senz’altro uguale all’ incremento E— E della energia, ossia rappresenta il lavoro di deformazione che ha per misura tale incremento. Dall’ essere poi Il essenzialmente positivo ne viene che, mentre per singole parti del corpo la differenza e —e può anche essere negativa, per l’intero corpo invece ogni deformazione (a, d,...4) importa necessariamente un aumento di energia, la quale ha perciò nello stato primitivo il suo valor minimo E. Questa energia iniziale £ rappresenta una costante che non ha influenza sulle formole. S’intenderà sempre in ciò che segue. che le X,, Y,,,... Ag rappresen tino tensioni relative, cioè contate a partire dallo stato primitivo del corpo non soggetto a forze esterne, senza occuparci delle tensioni preesistenti, le quali per quanto si è detto non influiscono sul valore degli elatéri nè sulla dipendenza fra questi e gli spostamenti e quindi fra le forze esterne e gli spostamenti che ad esse fanno equilibrio. $ 2. — Dato a priori un sistema continuo di sei funzioni a, d,... & delle coordinate «,g,z dei punti del corpo nel suo stato primitivo, affin- ché esso sistema rappresenti una vera e propria deformazione possibile del corpo stesso, cioè esista un sistema continuo («,v,w) di componenti di spostamenti da cui si possano far dipendere la «a, 6,... & giusta la (a), è, ‘come si sa, necessario e sufficiente che sieno soddisfatte le sei equazioni (8) Vai OO 0] ani dy 3) le quali risultano dalle (a) eliminando le «, 0, %w per via di derivazione. E similmente, per la corrispondenza esistente fra lo stato di tensione e quello di deformazione, affinché un dato sistema continuo di sei funzioni Xx, Yy,... Xy rappresenti un possibile stato di tensione derivante da deformazione del corpo, si hanno sei equazioni di condizione che risultano dalle (8) ponendo i loro valori in funzione delle X,, Y,,...X, dati dalle (1'); equazioni la cui forma, a differenza delle (8), dipende dalla natura del corpo in quanto questa influisce sulla forma della funzione 7. Notiamo però che, se per un punto (@, y, ) si considera un intorno o — 455 — particella elementare che si riguardi come isolata e indipendente dal resto, si può sempre intendere che le a, 6,... è date in quel punto rappresentino una deformazione della particella considerata, e le X,,Y,,....Xy dedotte colle (1) rappresentino le componenti della tensione corrispondente; e re- ciprocamente, date ad arbitrio le X,,Y,,...Xy, si può sempre immaginare che ad esse corrisponda una deformazione della particella giusta le (1'), tale cioé da riprodurre colle tensioni che ne derivano i valori dati. Le equazioni predette esprimono le condizioni che chiamerò di coerenza, cioé le condizioni affinché tutte queste deformazioni parziali sieno conciliabili insieme fondendosi a costituire una deformazione continua di tutto il corpo connesso. Altrimenti il complesso delle deformazioni (a, 0,... A) rappre- senterà un sistema incoerente. Qui si vuole d’ ora innanzi intendere in generale che la a, d,... A e le Xx, Yy,-:..Xy possano essere qualunque, senza cioé escludere a priori i sistemi incoerenti; e solo si suppone sempre la mutua corrispondenza e- spressa dalle (1), (1'), in virtù della quale i sistemi (a, d,... A), (Xx, Yy;--.-Xy) risultano mutuamente determinati in funzione l’ uno dell’ altro, onde ci serviremo a significar ciò della notazione cumulativa (a,....j Xx,....)1 e questo anche quando sieno in questione le sole «,d,...f%, o le sole DEA, Neliqual'casossifdovratintendererehe:lewxX,, Y,,,... Xy rap- presentino semplicemente funzioni lineari della a, d,... A date dalle (1), o reciprocamente. Si conserverà tuttavia il nome di componenti di deformazione alle a, b,...h, di componenti di tensione alle quantità coniugate X,, Y,,... Xy, di elatéri alle F, G, H (elatéri interni) e X,, Yn, 4 (elatéri superficiali) che dipen- dono da queste giusta le (A), (A,) e di lavoro di deformazione alla quan- tità II rappresentata dall’ integrale /7rd7, sebbene quando non si tratta di una vera e propria deformazione del corpo essa non abbia più che un significato astratto, cioé di somma computata idealmente pei diversi ele- menti considerati come indipendenti. Cosi i sistemi coerenti (a,...; X,,...) si presentano come casi partico- lari pei quali, soddisfacendo le a, 6,...4 alle (8), esiste il sistema («, v, 0) da cui esse dipendono secondo le (a); e quando occorra li distinguerò colla notazione (a,...; X,,-..) (4, v, w). Per questi II significa un reale in- cremento di energia dovuto alla deformazione continua del corpo connesso, ed ammette l’espressione data dal secondo membro della (4), e OII le e- spressioni date dai secondi membri delle (5), (5'). La (4) ci rappresenta II in funzione mista dagli elatéri e degli spostamenti ; onde per la summen- tovata corrispondenza esistente fra questi e quelli, esso II può considerarsi quale funzione sia delle sole («,v, w) sia dei soli elatéri, al che corrispon- dono rispettivamente le due forme (5), (5') della variazione dII. — 456 — Ma in generale, ripeto, II e OII s’ intendono definiti semplicemente da. Sadr e SOrdt, dove per x si hanno le espressioni (2), (2), e per dr le e- spressioni (3), (3'). Ed è alla quantità II presa cosi nel suo significato più largo che s’intendono riferite le seguenti considerazioni di minimo: no- tando che per essere la variazione seconda di II essenzialmente positiva, l’annullarsi della variazione prima basta senz’ altro a caratterizzare il mi- nimo, e non può essere questione che di questo. Di più, siccome il minimo. assoluto di II è evidentemente lo sero, il quale si ha solo nello stato pri- mitivo, si vede che, all’ infuori di questo, non può farsi quistione che di minimo relativo, compatibilmente cioé con certe condizioni imposte ai si stemaii(@ 0.3 A): Tali condizioni consisteranno qui principalmente nel supporre assegnati, in tutto o in parte, i valori degli elatéri, onde le espressioni (A, A,) che li rappresentano dovranno risultare uguali a funzioni date delle x, g, 2. Premettiamo perciò un’ osservazione risguardante in generale il caso di condizioni che si traducano, come queste, in equazioni di carattere li- neare. — Supponendo due sistemi (a,...; X,,-..), (a',...; X,,...) che con siffatte condizioni diano per II lo stesso valore, si avrà o=figla', d',...h')- Pa, db... dr ovvero, chiamando Aa, 48,...Ah le differenze a'— a, d'— db,...h'— h: o=fjxX,Aa +Y,Ab+---+X,4h+$(Aa,Ab,...Ah)}dt Si consideri ora il sistema (a +0Aa,...; X,+0A4X,,...) dove @ indica. un numero compreso fra 0 e 1: esso soddisferà del pari alle dette condi- zioni, e designando con II il valore ad esso relativo, avremo per la dif- ferenza IIg — II fra questo ed il valore comune II spettante ai due primi sistemi IH —IH=f\f(a+0A4a, ...) —P(4,...)} dt cioé II — IH=f(0(X,4a +--) + 0°$(A4a,...)}dr da cui sottraendo l’altra moltiplicata per 0 si ottiene Il, —IHI= 0(0 — 1)fP(Aa, Ab,... Ah)dr. Questa, per essere 9 <1 e /P(Aa, Ab,...Ah)dr > 0, ci mostra che II, (U,u, + V,0, + W,10,) e analogamente dalle (g), (g') si deducono le espressioni di II — 471 — (e) dI= — X(U,du, + V.dv, + W,dtw,) (8) dI = — X(u,0U.,+ 0,0 V,+10,0W,). $ 10. — Ciò premesso, ricordiamo come si procede in via ordinaria per risolvere il problema della determinazione delle tensioni. S’ incomincia coll’ esprimere le tensioni stesse per gli spostamenti dei vertici mediante le relazioni (c) e (d), che danno (h) T.5 = Er,5 | (Us-Ur)Ar,s + (05-0n)Br,s + (W05-107)Y7,s da cui conoscendo i 3n-6 spostamenti (E=39)3 (4,7); (ao) (Un, o (0) DIQIOICIO (Un, Dr, Wr)j... mediante i quali per il modo con cui si sono scelti gli assi vien definita la deformazione, si possono avere le tensioni di tutte le sbarre. Si sostituiscono quindi le U,., V,, W, calcolate mediante le (a) coi valori (h) nelle equazioni (b,), le quali vengono per tal modo a contenere linearmente gli spostamenti suddetti ed essendo in numero eguale ‘ad essi possono servire a determinarli. Si ottengono cosi i loro valori in funzione lineare ed omogenea delle componenti delle forze esterne; e trovati questi, le stesse (h) danno poi senz'altro i valori cercati delle tensioni. Facciamo ora intervenire la condizione del minimo di II seguendo il nostro ordine di idee. E in primo luogo osserviamo che le espressioni (e), (f), danno II come somma dei lavori di deformazione relativi alle singole sbarre indipendentemente dal loro collegamento, ed è solo per II inteso così che si potra parlare di minimo compatibilmente con dati valori delle forze esterne o degli elatéri U,, Vi, W,. È chiaro che ciò non avrebbe senso per II dato nella forma (f) relativa al sistema delle sbarre collegate, perché le forze date determinano completamente tutti gli spostamenti Ur Or Wr e non si può quindi immaginare nessun sistema di variazioni du,, dv,, do, compatibile con esse forze. Riferendoci dunque a II inteso nel primo significato, mostriamo dap- prima che la condizione del minimo per dati valori delle U,, V.,, W, importa quella del collegamento delle sbarre. Partendo per ciò dall’ espres- sione (g') di OII, osserviamo che se II è un minimo nelle dette condizioni, esisterà un sistema di 3n — 6 quantità (9/0 (eV tali che moltiplicando per esse ordinatamente le espressioni (---), (0U,,--), (0U,,0V,,-); (0U,dV,,d6W.),...(0U,,0V.,0W,), — 472 — calcolate colle (a), ed eguagliando a zero la detta espressione di dII accre- sciuta della somma di cotali prodotti, l'equazione che ne risulta sia sod- disfatta supponendo le 07; tutte arbitrarie. Ordinando rispetto alla 07, con riguardo all’essere 7,;=7,,,l’ equa- zione predetta si riduce alla forma DO, 0Prs —=0 dove 0,.; == Arie sor (Us Con Ur)Uy.s cu (0; TRE DA), = (0; = WOr)Yr,s1 la quale si scinde perciò in tante equazioni 0,,=0 quante sono le d7,;. Queste equazioni sono di forma identica alle (c). Onde resta provata l’esistenza di un sistema di quantità «,, v,, w, dalle quali, considerate come componenti di spostamento dei vertici p,, risultano gli allungamenti 4,; corrispondenti al minimo di II: e quindi si ha come si era detto, che la condizione del minimo importa il collegamento delle sbarre. Di più si vede subito che le «,, v,, ‘o, sono precisamente gli sposta- menti che fanno equilibrio ai dati valori delle forze esterne. Infatti per determinarle si ha da esprimere per esse le 7, servendosi delle (c), (d), con che si giunge alle espressioni (h), e quindi calcolate con queste le U,, V,, W, secondo le (a), servirsi delle equazioni (b,), precisamente come nel problema di equilibrio. Tutto ciò si accorda con quanto si é detto per l’ addietro in generale. E inoltre si vede, in relazione coll’osservazione fatta allora, che mentre per la via indicata il criterio del minimo conduce alle stesse equazioni date dal metodo ordinario, esso può anche servire a determinare le tensioni direttamente senza far intervenire gli spostamenti. Si può per es. servirsi delle 3n —6 equazioni che si ottengono eguagliando a zero le d U,, d V.,, 0W, per esprimere 3n — 6 fra le 07,, in funzione delle altre, sostituire tali espressioni nel secondo membro della (g') ed uguagliare poi a zero i coefficienti delle d77,, rimaste, che sono tutte indipendenti. Aggiungendo le equazioni che così si ottengono alle 3n — 6 equazioni (b,) sì ha preci- samente il numero di equazioni occorrenti alla determinazione di tutte le 7,.,. Oppure si può procedere cosi: Trascegliendo nel sistema 3n — 6 sbarre quali sbarre principali, immaginiamo per un momento soppresse le altre, sostituendo nei vertici cui fanno capo delle forze uguali alle rispettive tensioni delle sbarre soppresse, con che l’ equilibrio non sarà turbato; e supponiamo calcolate le tensioni delle sbarre nel sistema cosi modificato, il che può farsi semplicemente colla statica dei sistemi rigidi. Tali tensioni verranno a dipendere dalle tensioni delle sbarre soprannumerarie soppresse — 473 — che designerò con 6@,;e che qui figurano quali forze esterne; e cosi ne ‘dipenderà il lavoro di deformazione del sistema modificato che suppongo espresso per le tensioni e che indico con II'. Se ora ritornando al sistema primitivo si indica al solito con II il lavoro di deformazione ad esso re- lativo, sarà e per la variazione di II nell’ ipotesi che rimangano invariate le forze esterne e quindi Il' varii solo dipendentemente dalle @,,, si avrà Xe tepo, Introducendo adesso la condizione del minimo col porre dII=0, si ottiene cosi un sistema di equazioni della forma dl + dns ="0 OLI che sono in numero eguale alle 08,, e le contengono linearmente, talché possono servire a determinarle. Dopo di che anche le altre tensioni risul- tano determinate per mezzo di esse. Volendo infine far cenno anche del caso in cui vi sia da tener conto di legami, prendiamo l’ esempio più semplice possibile che è quello in cui sì imponga ad un vertice pz di rimanere in un piano. Se ax+By+ysz=d € l’equazione del piano stesso in forma normale, dove quindi a, 8, y rappresentano i coseni della perpendicolare al piano, dovranno gli sposta- menti uz, 0£, wr Verificare l’ equazione au, + Bor + ywr= 0. Poniamo la condizione del minimo di II nell’ipotesi che siano date tutte le forze esterne e solo resti indeterminata la resistenza sviluppata dal piano, che indicheremo con 4, e che sappiamo dover esser normale al piano stesso. Potremo qui riferirci all’ espressione (f,)) di II e quindi all’ espressione (g;) di OII, la quale per l’ipotesi fatta si riduce alla sola parte relativa al punto px, onde ol =— (uzÒ U,, ste DÒ Va e wxÒ Wa). Serie V. — Tomo IV. 60 — 474 — Ma dovendo Ux, Vi, Wi, rappresentare con segno cangiato le componenti della resistenza 4 che, per esser questa normale al piano, sono date da 4a, 48, Ay, si avrà dI = (aux + Bux + y10x)dA, e quindi la condizione del minimo ossia dell’annullarsi di dII porta che sia soddisfatta l’ equazione che si ottiene eguagliando a zero il coefficiente di 04, ed è appunto quella che rappresenta il legame imposto. Fssa condizione porta al tempo stesso alla determinazione del valore di 4 e con ciò alla determinazione dello stato di equilibrio del sistema. Poiché supponendo nel secondo membro della (f,) poste per Ux, Va, Wx rispettivamente — 4a, — 48, — 4y, per le altre U,, V,, W, le date forze esterne prese con segno cangiato, e per gli spostamenti ,, 0,, tw, le loro espressioni in funzione di tutte le forze, comprese le Za, 48, 4y considerate anch’esse come date, si avrà per II un’espressione contenente la 4 al secondo grado oltre ad altre quantità tutte note, e quindi l’ equazione data dalla predetta condizione del minimo, conterrà la 4 al primo grado e servirà a determinarla. CIAFREME SOPRANNIMERARIO N [AM DOTI MEMORIA DEEXCROLESSOR I NCENZO LI COLUCCI (Letta nella Sessione del 27 Maggio 1894) (CON UNA TAVOLA). Fra le numerose e ben note anomalie di forma, di volume e di posi- zione dei reni, sono relativamente assai scarse quelle riferentisi al numero aumentato o diminuito di questi organi. Poche osservazioni sono registrate di mancanza congenita dei due reni, collegata sempre ad estesi vizi di conformazione del corpo dei feti in cui fu rinvenuta. l Maggiormente scarse sono le osservazioni di reni soprannumerari, non avendo potuto io trovare che tre casì soli registrati negli Annali Veterinari: due descritti dal Gurlt ed uno dal Moulé; e dei quali, due osservati nel porco ed uno nel bue. Il Gurlt (1), in un mostro bovino — perosomus monomelus — fra le molte anomalie dello scheletro, colla normale costituzione degli organi toracici ed addominali trovò una notevole anomalia dei reni. In questa vitella, di- fatti, esistevano quattro piccoli reni, due a destra e due a sinistra. Il destro ed il sinistro anteriori erano al loro posto, ed ognuno aveva un uretere proprio, il quale, nel punto dove la vagina si congiunge all’ intestino retto, riceveva il corto uretere del rene posteriore corrispondente — che formava con quello un angolo retto — ed andava poi a sboccare nella vescica uri- naria. I due reni posteriori sarebbero stati quindi situati nella cavità pel- vica, se questa fosse esistita, e le loro arterie provenivano dalle arterie ombelicali. Tre reni furono pure trovati dal Gurlt (2) in una troia, in tutto il resto (1) Magazin fiir die gesammte Thierheilkunde. Dritten Jahrgang. Berlin 1837. (2) Drei Nieren bei einem Schweine. Magaz. fiir die gesam. Thier. Berlin 1866. — 476 — ben conformata. Tutti e tre i reni erano di forma irregolare, due a destra ed uno a sinistra. Il destro anteriore, alquanto più grosso del posteriore, era situato nel suo posto normale, e questo ultimo là dove l’ osso sacro è unito all’ ileo. Dal rene anteriore destro al posteriore andava un condotto urinario (uretere), il quale colla sua estremità anteriore s’ introduceva e terminava nel bacinetto renale; ma inoltre un particolare condotto si par- tiva dal rene anteriore, al quale un altro veniva incontro dal rene poste- riore, dalla cui unione al primo ne risultava un unico uretere, il quale dirigendosi in addietro andava a sboccare nella vescica urinaria. Il rene sinistro, di volume normale, era irregolare soltanto per la forma. Una terza osservazione di rene soprannumerario in una troia ben nu- trita e perfettamente conformata, è stata fatta dal Moulé (1). Presentava questa tre reni, di cui due al lato destro: il primo a livello dell’ ultima vertebra lombare, il secondo a dieci centimetri dal primo, quasi in posi- zione normale. Erano piccoli tanto che, presi insieme, non raggiungevano il volume del rene sinistro. Il posteriore centimetri 10 lungo e 5 largo, l’ an- teriore 7-5 lungo, 4 largo; il rene normale sinistro 12-15 lungo, 6-7 largo. Comunicavano i due reni di destra per mezzo di vasi sanguigni, e di un enorme uretere, che con due branche penetrava nel bacinetto del rene po- steriore, e ad alcuni centimetri dall’ anteriore aveva un ramo che andava alla vescica. Nel rene posteriore l’ ilo era alla sua parte anteriore, e nel- l’altro nel posto normale. La sostanza corticale era più abbondante del- l’ ordinario. Bacinetti ed ureteri pure normali. Il rene sinistro, situato alquanto più vicino al bacino, era normale; solo che l’ uretere si divideva in due branche, di cui una andava nell’ ilo mediano del bacinetto, e l’ altra all’ estremità anteriore del rene. Il baci- netto, che occupava la maggior parte del rene, era diviso in due cavità; nell’ anteriore, più piccola, si apriva la relativa branca dell’ uretere, e nella posteriore l’ altra. Son queste tre le sole osservazioni che ho potuto trovare ricercando negli annali di Veterinaria, e che, quantunque assai scarse e alquanto diffe- renti fra loro per la forma dell’ anomalia ed anche per le specie animali in cui vennero fatte, pure contengono in sé circostanze comuni che meri- tano di essere rilevate, perché, secondo a me pare, sono importanti a poter stabilire la genesi di tali anomalie. Ed esse sono: 1° che nelle due troie in cui furono trovati tre reni, la duplicita è stata sempre a destra; 2° che nel caso della troia, osservato dal Gurlt, il rene duplice — nella figura. e descrizione data — apparisce come un rene diviso per metà, le cui due: parti sono collegate da un doppio condotto, dal più interno dei quali ha (1) Bulletin de la Société centrale de Medecine Veterinatre. Paris 1887, pag. 431. — 477 — origine l’ uretere principale, che va a sboccare nella vescica urinaria; 3° che nella osservazione del Moulé, i due reni di destra stanno in rapporto fra loro per un solo ampio condotto — non per due come nel caso di Gurlt — dal mezzo del quale parte l’ uretere che va in vescica. Quantunque non vi sia figura illustrativa, pure il fatto che nel rene posteriore l’ ilo era si- tuato alla sua parte anteriore, accenna a certa somiglianza fra questa dupli-. cità e quella dell’ altra troia del Gurlt; 4° che nel rene sinistro — situato più prossimo al bacino — quantunque unico, vi sì aprivano due branche dell’ uretere: una, cioé, nell’ ilo mediano, e l’ altra all’ estremità anteriore del rene, e che l’ampio bacinetto era diviso in due cavità, a ciascuna delle quali corrispondeva una branca dell’ uretere. Queste particolarità, comuni alle due osservazioni fatte nella troia, e in qualche punto appa- rentemente dissimili, considerate in relazione alla prima osservazione del Gurlt, ed a quello che or ora riferirò circa un’ altra da me fatta in una vacca, sembranmi, come ho detto, importanti dal punto di vista genetico di tali anomalie. Nell’ Agosto dello scorso anno veniva accolta e macellata, nel pubblico mattotoio di Messina, una vacca calabrese, in buonissimo stato di nutrizione e perfettamente conformata. Allo esame dei visceri e delle carni si trovò l’ utero gravido, e fu sequestrato. Terminata la macellazione, in sull’ im- brunire, mi feci ad aprire quell’utero gravido per estrarne il feto e con- servarlo, e vidi inserito sull’ ovaia destra, fig. 1% 0, e propriamente al- l’estremità sua posteriore e nel bordo superiore un corpo rotondo, a, di color rosso pavonazzo, quasi sferoidale, con un diametro trasverso di cen- timetri 2,5 circa, e un po’ schiacciato alla sua parte inferiore, dove per un breve peduncolo era attaccato all’ ovaia. Alla base del peduncolo, e propriamente a destra dell’ angolo che esso forma colla sua inserzione all’ovaia — siccome è rappresentato nella figura — parte un cordone, grosso in media mm. 4, c, il quale si prolunga in addietro flessuoso ed aderente al legamento utero-ovarico, nel quale insensibilmente si perde a centi- metri 4 di distanza dall’ ovaia. Il colore di cotesto corpo, la sua forma e consistenza mi fecero credere potesse trattarsi non di altro che di una glandola sanguigna. Nondimeno estratto il feto di circa 5 mesi, conservai tutto l’ utero in una soluzione di allume creosotata, per osservare meglio quell’ anomalia nel giorno seguente. L’ esistenza di quel cordone cosi conformato e disposto, in diretta con- tinuazione col peduncolo, mi distolse dalla mia prima ipotesi, e non po- tendo farne altra più plausibile di quella, che fosse un piccolo rene acces- sorio, prima d’inciderlo, volli esaminare più minutamente i suoi rapporti coll’ ovaia e le parti vicine. Null’ altro d’ importante a questo riguardo vi — 478 — rinvenni, tantoppiù che — come succede quasi sempre nei macelli, nella esportazione dei visceri — il legamento largo dell’ utero era stato strac- ciato in maniera da non potersi più nulla rilevare sulla possibile esistenza del prolungamento in addietro di quel cordone, e del suo rapporto col- l’ uretere destro, il quale neppure si è potuto ritrovare. Solo potei stabilire, che la vascolarizzazione del supposto rene deriva dall’ arteria utero-ovarica, dalla quale tentai iniettarlo, ma con risultato poco soddisfacente sia pel modo com’ era stato asportato il viscere dal corpo, sia perché i tessuti erano raggrinzati dall’azione del liquido conservatore. Ciò fatto, misi il pezzo in alcool, e dopo 24 ore staccai quel corpo dall’ ovaia incidendo a metà della sua lunghezza il peduncolo, e poscia con taglio perpendicolare, comprendendovi anche questo, lo divisi in due parti eguali. Gia a prima vista, pel colore diverso e per la disposizione della sostanza che lo componeva, onde potevasi distinguere in una parte corticale e una centrale, ed in mezzo a questa si prolungava il differente tessuto del peduncolo, mi confermò nell’ ultima ipotesi, giustificata dipoi dall’ osservazione microscopica. Nella fig. 2° é ritratta una sezione verticale del piccolo rene, eseguita verso il mezzo di esso, e 5 volte ingrandita. È coperto dalla sua tunica fibrosa, a, alla quale é sovrapposta ed unita mercé connettivo più lasso la sierosa peritoneale, misuranti in grossezza tutte e tre prese insieme mm. 0,24-0,36. La sierosa presenta delle piccole pieghe, onde la super- ficie del rene era aggrinzata. La sostanza corticale, c, più chiara della midollare, si distingue anche a questo piccolo ingrandimento, col quale però non possonsi scoprire i tubuli contorti. Essa ha una disposizione irregolare, per cui forma uno strato molto ineguale; non pertanto in vari punti é possibile riconoscere i suoi prolungamenti nella sostanza midol- lare — colonne di Bertin — e i raggi midollari che dalle piramidi malpighiane in essa sì avanzano, senza però giungere fino al disotto della tunica fibrosa. Nella sostanza midollare, m, sono nettamente delimitate le piramidi — benché molto irregolari per forma e grandezza — da tra- mezzi connettivi percorsi da vasi sanguigni, le quali terminano nelle pa- pille sporgenti e bene visibili nel connettivo del bacinetto p, ed appariscono pure i tubuli retti come fine strie longitudinali. Il bacinetto renale o, colle sue incavature caliciformi e, fra le papille, è tutto occupato da tessuto connettivo fibroso percorso da vari rami arte- riosì 5 e lacune vascolari v, e continuo col tessuto più compatto. del pe- duncolo. In questa sezione non si vede traccia della cavità della pelvi re- nale. { prolungamenti di questo tessuto connettivo sono quelli che delimi- tano le piramidi midollari. I vasi sanguigni arteriosi corrono in questi tramezzi connettivi, e giunti MARS quasi al limite interno della sostanza corticale, conservano ivi una dispo- sizione che assomiglia in qualche punto agli archi arteriosi esistenti nor- malmente alla base delle piramidi f; e di là, o mandano un ramo diritto nella sostanza corticale, o si dividono subito in più rami f', alcune volte imolto ravvicinati alla base, a guisa di pennello, e poi divergenti in vario senso. Ciò ch’ é notevole, è la mancanza assoluta di corpuscoli malpighiani, non esistendovi neppure una traccia. Nella sostanza corticale, ad un maggiore ingrandimento, fig. 3°, si ri- levano i tubuli contorti 7, ma meno facilmente dei tubuli retti della so- stanza midollare, per la particolare degenerazione patita. Essi sono molto atrofizzati, non misurando in media che mm. 0,010-0,012, e separati da abbondate tessuto connettivo fibroso c, in mezzo al quale vedonsi pure vasi arteriosi a, perloppiù occlusi da trombi freschi o organizzati. Non ho potuto far risaltare molto bene i tubuli nei preparati, anche facendo uso delle più forti tinture carminiche ed ematossiliche. Coi colori basici di anilina ottenni delle tinzioni diffuse, di maniera che appena po- tevo distinguere i tubi dal connettivo, ed assai meno bene che colle solu- zioni di carminio e di ematossilina. Non pertanto mi è riuscito stabilire ch’ essi erano stati colpiti da necrosi di coagulazione fig. 5°, f, consecutiva probabilmente ad avanzata atrofia, onde n’ é prova la proliferazione del connettivo interstiziale, e 1’ esistenza in molti tubuli — meglio ora detti cilindri di sostanza amorfa o omogenea — di alcuni nuclei dell’ epitelio, & e di vacuoli ialini, è. Nella sostanza midollare i tubuli retti, anch’ essi atrofici e pure dege- nerati, sono un po’ meglio visibili, perchè maggiormente refrangenti la luce, senza nuclei né vacuoli ialini, fig. 4°. Il peduncolo, alto circa 3 millimetri, alla sua inserzione al piccolo rene presentava un solco circolare poco profondo a guisa di colletto, fig. 2° n, ed in basso si fondeva coll’ ovaia. Era un po’ piatto lateralmente, così che la superficie della sezione trasversa, eseguita a metà della sua lun- ghezza, è di forma ovale, fig. 6°. È coperto, come il rene, dal peritoneo, il quale aderisce intimamente alla sua tunica fibrosa, formando assieme uno strato di tessuto più grosso verso le estremità — mm. 0,21-0,36, più sottile ed ineguale sui lati 0,12-0,18. È costituito nel resto da tessuto fi- broso più o meno denso, a fibre raggianti verso la periferia, e variamente dirette nella parte centrale, dove scorrono vasi arteriosi per jlo più trom- bosati, vene quasi tutte occluse e lacune vascolari. Vicino ad uno dei suoi lati ed in mezzo al tessuto fibroso denso, si vede un’apertura ellissoide c, rivestita al suo interno da uno strato ineguale di piccole cellule rotonde disposte in due e tre serie, fra esse alcune un po’ allungate ma di aspetto — 480 — non decisamente epiteliale : parrebbe però derivassero da proliferazione di elementi epiteliali preesistenti. Queste serie di cellule poggiano su di uno strato di connettivo fibroso meno denso dell’ altro circostante, il quale é inoltre più ricco di giovani elementi. In una sezione del peduncolo eseguita più in alto e vicino alla sua inserzione al rene, nella stessa direzione, cioé vicina allo stesso lato e in mezzo al connettivo fibroso denso, si vede pure un’ apertura, fig. 7* a, in gran parte occupata dalle stesse cellule rotonde e disposte in serie più numerose. Il tessuto connettivo circostante é molto più ricco di elementi cellulari e meno compatto. Più in alto — come ho detto — nelle sezioni verticali di parte del peduncolo e del connettivo del bacinetto non ho trovato traccia di cavità con epitelio. Invece, seguitando colle sezioni trasverse della base del peduncolo fin dove esso entrava a far parte del corpo dell’ ovaia, si trova la stessa apertura, più larga ancora di quella mostrata dalla fig. 6* — quasi del doppio — rotonda e rivestita da uno strato più alto di identiche cellule, le più interne delle quali in via di di- sfacimento, e poggiante sopra uno strato di connettivo fibrillare, fig. 8°, c. Nelle sezioni fatte più in basso del punto medio della inserzione — fra la base del peduncolo e l’ovaia — del cordone descritto ed indicato nella fig. 1% c, non si trova più tale apertura. Essa quindi era non altro che la sezione trasversa di un canale che dal bacinetto del rene si prolungava nel cordone. Le sezioni trasverse di questo, infatti mostrano che cosi realmente era, ma le tracce soltanto di un ampio canale preesistito esistono. Nella fig. 9*, che ritrae una piccola parte di sezione trasversa — ese- guita a pochi millimetri di distanza dall’ ovaia — del detto cordone co- stituito da tessuto fibroso compatto, quasi tendineo a fibre longitudinali, in mezzo a numerosi tagli di arterie e vene trombotiche a, e di lacune vascolari v, si riscontrano degli isolotti cellulari rotondi, ovali o di altra forma, circondati da uno strato di sostanza quasi ialina c,c. In questi iso- lotti osservati con più forte ingrandimento, fig. 10% e, si riconoscono le stesse cellule che vedemmo rivestire l’ interno delle due aperture nelle fig. 6° e 8° e di quelle nella fig. 7°, e il tessuto connettivo a fibre circo- lari ora ridotto ad uno strato fibroso con elementi cellulari atrofici ap- pena visibili 5, o affatto ialino d. Questi isolotti cellulari sono evidente- mente gli avanzi dell’ epitelio proliferato, che rivestiva il canale dell’ ure- tere, ora occluso da connettivo neoformato — analogo a quello che si trova a costituire il peduncolo e a riempire il cavo del bacinetto renale — il quale deriva dal connettivo sotto mucoso, i di cui elementi proliferando penetrarono nella cavità e la divisero in tanti piccoli canali, ora ridotti in cordoncini cellulari atrofici, che scompaiono a poco a poco nelle se- zioni più lontane del cordone stesso. — 481 — Pei caratteri anatomici e microscopici surriferiti é evidente, che |’ ano- malia osservata in questa vacca, consiste nell’ esistenza di un rene destro accessorio, saldato di buona ora all’ ovaia del lato corrispondente. Questa anomalia differisce dalle altre tre osservate e descritte dal Gurlt e dal Moulé: 1° per la sede, poiché i reni soprannumerari da loro trovati, erano posti o nella cavità pelvica o nell’ entrata di essa alla re- gione lombo-sacrale ; 2° perché erano liberi, e sempre in relazione fra loro per il condotto urinario, e vascolarizzati da rami dell’ arteria renale, o dell’ ombelicale — vaso cospicuo nel feto —; 3° perché in tutte e tre, i reni essendo pur piccoli, avevano costituzione e funzionalità normali. Nel mio caso, invece, il rene era impiantato sull’ ovaia, isolato dal rene nor- male corrispondente per interruzione del condotto urinario e per essere vascolarizzato dai rami dell’ arteria utero-ovarica, e infine atrofico in tutti i suoi tessuti costitutivi, e mancante assolutamente di corpuscoli malpi- ghiani. Dal lato funzionale non poteva avere che piccola importanza, e solo in principio di sviluppo, ma più tardi nessuna; infatti gli altri due reni principali di questa vacca erano normali per sede, volume, struttura ed organi accessori di escrezione. Il fatto però merita di essere preso in considerazione dal lato genetico, viste le particolari circostanze di sede, dell’ incompleto sviluppo e del- l’ atrofia successiva del rene accessorio. Debbo prima far notare una circostanza comune a tre delle anomalie di questo genere, finora osservate; e cioé, che dei tre reni, 1’ accessorio o sopranumerario fu sempre trovato a destra, e che il rene sinistro, unico, in un caso si trovò col bacinetto doppio, nel quale aprivansi le due branche dell’ uretere biforcuto. Quindi anche nel rene sinistro vi era in questo caso una tendenza a duplicità, non però realizzata come nel destro. Certo non è facile trovare la ragione di questa frequenza di duplicità uni- laterale destra del rene: ma potrebbesi forse dirigere l’attenzione alla ipo- tesi che, nello sviluppo del rene destro, dovendosi esso portare più. avanti del sinistro, vi sia maggiore energia formativa del canale renale e quindi sviluppo di diverticoli. Ma è questa una semplice ipotesi, che difficilmente sì potrà provare, se non in qualche speciale anomalia di questa parte del- l’ apparecchio urinario. Tenendo ora presenti i fatti principali, già assodati dall’ Embriologia, nello sviluppo degli organi genito-urinari, esporrò brevemente l’ ipotesi, secondo me più probabile, circa il modo come è avvenuta questa anomalia. Il canale renale, che nasce dal condotto escretore del rene primitivo, si allunga in avanti, e quando, pel rigonfiamento della sua estremità cieca Serie V. — Tomo IV. 61 — 482 — anteriore, si distingue in rene propriamente detto ed in uretere, raggiunge l’ estremità posteriore del corpo di Wolff. Procedendo ancora in avanti, verso l’estremità anteriore di questo eseguisce un movimento di torsione, pel quale va a situarsi in avanti e al disopra di esso. Ivi, allargandosi ancora l’ estremità sua, si forma il bacinetto renale, donde, per successive gem- mazioni, nascono dapprima i calici e poscia i tubuli renali, alle di cui estremità periferiche sviluppansi i corpuscoli di Malpighi. In tutte queste fasi di rigonfiamento e gemmazione della estremità anteriore del canale renale si vede differenziarsi d’intorno al rene in formazione 1’ inviluppo mesodermico, e sempreppiù delimitandosi, isolarsi dai tessuti vicini. I dati anatomici raccolti e brevemente descritti, nella presente ano- malia, autorizzano, secondo a me pare, ad ammettere che, nelle prime fasi di sviluppo del rene permanente, dal condotto renale siasi per gemmazione formato un diverticolo, il quale essendo più corto, nel movimento di tor- sione da quello eseguito attorno al rene primitivo, si sia arrestato in pros- simità della glandola genitale — ovaia —. Ivi per incompleta delimitazione del suo inviluppo mesoblastico dalla parte dell’ ovaia, ne risultò il pedun- colo, pel quale rimase a questa aderente; mentre il canale principale, al- lungatosi in avanti, andò a formare il rene normale, che ebbe il suo completo sviluppo. Il tratto del canale ostrutto del rene accessorio, che dal peduncolo e attraverso la parte estrema posteriore del parenchima ovarico si prolunga in addietro nel legamento utero-ovarico, parmi stia a provare che realmente tale sia stata la genesi del rene accessorio, e la maniera ond’esso rimase aderente all’ ovaia. Notevole è la mancanza assoluta di corpuscoli malpighiani e di qual- siasi traccia di essi in mezzo agli elementi atrofici del rene. La spiega- zione di tal fatto è possibile, appoggiandosi alle cognizioni embriologiche relative alla comparsa e allo sviluppo dei glomeruli. Infatti, giusta le os- servazioni del Kòlliker (1), essi nascono, nel coniglio, fin dalla seconda generazione di gemme vuote derivate dalla dilatazione terminale del ca- nale del rene, e più tardi nei vitelli. Le esatte osservazioni del Toldt circa l’ origine dei glomeruli, confermate dal K6lliker, hanno stabilito, che essi derivano dal ricurvarsi ad S di una gemma terminale di 2% ge- nerazione del canale renale, la cui seconda, o terminale, sinuosità si tra - sforma in capsula di Bowmann, mentre l’ inviluppo mesodermico in essa sinuosità rinchiuso, mercé la proliferazione dei suoi elementi cellulari e la penetrazione ed accrescimento delle anse vascolari, diviene il glome- rulo propriamente detto. Riguardo alle cause che danno origine ai corpuscoli malpighiani, Kò1- (1) Embryologie. Trad. Schneider. Paris 1892, pag. 991. — 483 — liker riconosce esatta l’ opinione di Remack, a cui è sembrato che 1l glomerulo nasce affatto indipendentemente dai tubi uriniferi, le di cui estremità semplicemente circondano i vasi. Ciò non esclude però che le due parti influiscano l’ una sull’ altra, e la formazione del glomerulo ed il suo incapsulamento dal tubo urinifero rappresentano due fenomeni indi- pendenti, ma concomitanti, di accrescimento. Le fasi di sviluppo dei corpuscoli malpighiani del rene possonsi facil- ‘mente studiare nelle sezioni trasversali del corpo di embrioni bovini di 2-3 mesi, nelle quali con opportuni metodi di tinzione — eosina e carminio alluminoso — sì riesce a vedere il progressivo sviluppo dei vasi del glo- merulo. In ognuno di questi, dal punto dove la estremità della parte ri- curva del tubulo urinifero viene a formare l’ ilo della capsula, penetra un ramo vascolare che va direttamente verso il centro del mesoderma rin- chiuso, dopo aver dato, entrando, due o tre rami laterali, e col progredire della proliferazione degli elementi cellulari, avanza altresi l’ accrescimento delle anse capillari, mentre si dilatano il ramo primitivo dell’ ilo e i late- rali da esso nati. Come per la vascolarizzazione di tutti ì tessuti ed organi, cosi anche per questa dei glomeruli, oltre all’ accrescimento numerico degli elementi istologici, vi concorre potentemente la pressione del sangue nell’ interno delle arterie; e già il Kòlliker ha fatto notare, che la curvatura delle estremità dei tubi uriniferi, come la differenza di grossezza dello strato epiteliale esterno ed interno dei glomeruli potrebbero dipendere in parte da cause meccaniche; le quali non possono essere altro che l’ aumento di volume della porzione mesodermica rinchiusa, e la pressione del sangue nei vasi neoformati. Ciò posto dev’ essere tenuta nel debito conto, per lo sviluppo dei glo- meruli, la pressione interna nei rami dell’ arteria renale, che, pel calibro relativamente ampio, pel corso breve e retto, e pel modo semplice suo di dividersi nell’ interno del rene, dev’ essere certamente maggiore assai in essa che nella flessuosa arteria utero-ovarica, e più ancora che nei rami da questa derivanti per la vascolarizzazione del rene accessorio in qui- stione. Parmi quindi spiegabile la mancanza dei corpuscoli malpighiani, attribuendo un ufficio importante per lo sviluppo della loro porzione vasco- lare alla pressione endoarteriosa, che in questo caso ha dovuto essere minima. 1 A questo stesso debole coefficiente è in gran parte da ascriversi l’ atrofia del rene accessorio, il cui abbondante numero di tubuli fa supporre che essi fin dal principio ebbero dimensioni molto ridotte, e quindi per questo e più per la mancanza dei glomeruli la quantità di urina da esso secreta è stata minima, onde ne segui l’ occlusione e l’ atrofia dell’ uretere in dire- — 484 — zione centripeta. Gli elementi glandolari colpiti da necrosi, l’ occlusione più o meno completa, per trombosi ed endoangioite, di quasi tutti i rami arteriosi nel rene accessorio, fan prevedere che, fra non molto, di questo piccolo organo difficilmente si sarebbe potuto stabilire l’ origine e na- tura sua. i % Ed ora, dopo la precedente analitica esposizione anatomo-fisiologica dei fatti osservati, parmi poter tutto sintetizzare nelle seguenti conclusioni. 1° Che circa la natura del piccolo organo, trovato sull’ ovaia destra di una vacca ed ivi fissato mercé un corto peduncolo, non vi può esser dubbio trattarsi di un piccolo rene accessorio, i cui tubuli furono tutti colpiti da atrofia e poscia da necrosi di coagulazione, e i vasi sanguigni quasi tutti progressivamente trombosati. 2° Che detto rene accessorio mancava inoltre assolutamente di cor- puscoli malpighiani, e il suo bacinetto era tutto occupato da tessuto con- nettivo. 3° Che al peduncolo seguiva un corto cordone, residuo dell’ uretere: nel primo si trovò un piccolo canaletto vuoto e rivestito da più strati di piccole cellule rotonde ; le quali esistevano pure nel secondo, ma in iso- lotti sparsi e circondati da una membrana fibroso-ialina. Questi isolotti cellulari erano gli avanzi dell’ epitelio dell’ uretere, la cui cavità era stata divisa e poscia occlusa dal tessuto connettivo sottomucoso proliferato. 4° Che il piccolo rene, per tutte queste circostanze, é dubbio che abbia funzionato, o almeno molto imperfettamente, nella vita intrauterina della vacca che lo portava; poscia la sua funzionalità cessò totalmente. 5° Che circa all’ embriogenesi di questa anomalia, é da ritenersi con molta probabilità, che il piccolo rene accessorio abbia avuto origine da un diverticolo del canale renale; il quale diverticolo, arrestato nel suo sviluppo, sì fermò vicino alla glandola genitale, a cui rimase aderente mercé il pe- duncolo derivato dalla incompleta delimitazione dell’ inviluppo mesoder- mico; mentre il canale principale, progredito nel suo sviluppo in avanti, ha dato origine al rene normale corrispondente. 6° Che la mancanza dei corpuscoli malpighiani è da attribuirsi tanto al deficiente sviluppo dei tubuli, che alla poca pressione endovascolare nelle arterie del piccolo rene, provenienti da rami dell’ arteria utero-ovarica,; tali essendo i due fattori necessari per lo sviluppo di questi speciali ele- menti costitutivi del rene. Fig. 1° (07 Fig. 4* t c — 485 — SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA — In cui È ritratta, a meta grandezza del vero, l’ estremità anteriore del corno destro dell’ utero coll’ ovaia. Rene accessorio atrofico, impiantato mercé peduncolo sulla estremità posteriore dell’ ovaia. Ovaia. Cordone cilindrico, che dalla base del peduncolo renale si prolunga in addietro nel legamento utero-ovarico. Estremita del corno uterino. Legamento largo dell’ utero. — Sezione perpendicolare del rene accessorio. Ing. 5 volte. Tunica fibrosa rivestita dal peritoneo. Sostanza corticale del rene. Sostanza midollare. Papille renali. Calici. Archi arteriosi alla base delle piramidi di Malpighi. Bacinetto renale occupato totalmente da tessuto connettivo fibroso, in mezzo al quale si trovano Sezioni di arterie in gran parte trombotiche, e Lacune vascolari. — Parte di sostanza corticale del rene. Ingr. 100 volte. Tubuli contorti atrofici, e in molti punti fusi fra loro. Connettivo fibroso. Arterie trombosate. — Parte di sostanza midollare. Ingr. 100 volte. Tubuli renali retti. Connettivo fibroso. — 486 — Fig. 5° — Sezione di sostanza corticale. Ingr. 400 volte. t# Tubuli renali contorti atrofici e degenerati in una sostanza omogenea. t'Tubuli fusi assieme si da sembrare come ramificati. î Vacuoli, o piccole sfere ialine nella sostanza omogenea dei tubuli. n Avanzo di nuclei delle cellule renali. ec Connettivo fibroso. Fig. 6° — Sezione trasversa del peduncolo, praticata nel mezzo della sua lunghezza. Ingr. $ volte. a Membrana fibrosa coperta dal peritoneo. o Tessuto fibroso del peduncolo, percorso da buo Arterie. v Lacune vascolari. e Canale renale rivestito da alcuni strati di piccole cellule rotonde. Fig. 7* — Parte di una sezione del peduncolo in vicinanza all’ilo del rene. Ingr. 110 volte. a Sezione trasversa del canale renale molto più ristretto che nella sezione della figura precedente, e quasi ripiene di piccole cellule rotonde. Fig. 8* — Sezione trasversa alla base del peduncolo inserita nel paren- chima ovarico. Ingr. 8 volte. o Tessuto fibroso. f. Piccola cicatrice ovarica. c Canale renale formato da una membrana fibrosa e da più strati di piccole cellule. Fig. 9* — Parte di sezione trasversa del cordone e della fig. 1*. Ing. 32 v. ov Lacune vascolari. a Vasi arteriosi e venosi trombosati. ce Avanzi cellulari del canale renale, circondati da membrane fibroso- laline. Fig. 10° — Parte della precedente figura. Ingr. 200 volte. Le lettere si cor- rispondono. b Strato fibroso con elementi cellulari atrofici. d Strato ialino. Mem. Ser V Tom. IV. V Colucci G. Miniali dis. dal vero Lit Mazzente Rizzoli-Bolorma V Colucci Ser. V Tom. IV. Mem. Tit Mazzone Rizzoli: Bologna G Ni ES sd, 1 25, A; Gis NANA O (* es 2), ZZKR == 4 VEE i Fig” 1. E. Contolime e 2 6 Miniati dis dato « su OSCILLAZIONI ELETTRICHE A PICCOLA: LUNGHEZZA D'ONDA E SUL LORO IMPIEGO NELLA: PRODUZIONE DI FENOMENI ANALOGIE AL PRINCIPALI PENOMENI DELL’ OTTICA MEMORIA DEL PROLIUIGUISTORRIGENS (Letta nella Seduta del 27 Maggio 1894). PARTE LI. Descrizione degli apparecchi. 1. Introduzione. Dopo che Hertz riesci ad ottenere dei raggi di forza elettrica, e a dimostrare che essi si riflettono, si rifrangono ed interferi- scono come i raggi luminosi, vari altri sperimentatori ripeterono le sue celebri esperienze, confermandole ed estendendole. Però poco aggiunsero in appoggio all’analogia che da quelle esperienze scaturiva fra le proprietà delle vibrazioni elettriche e quelle delle vibrazioni luminose, se si eccettua l’ esperienza di concentrare le radiazioni elettriche per mezzo di una lente, eseguita da Lodge e Howard (1) e qualche altra esperienza intorno alla riflessione ed alle proprietà di reticoli a fili metallici paralleli, ese- guite da vari autori. Eppure uno dei lati più importanti, secondo me, del lavoro di Hertz, risiede appunto nella analogia suddetta. Se questa analogia verrà dimo- strata intima e completa, aumenterà con ciò grandemente la fiducia da riporsi nel concetto sviluppato da Maxwell, e cioè nell’ ipotesi che i fe- nomeni luminosi altro non sieno che fenomeni elettromagnetici. È facile però spiegarsi come sia accaduto che poco finora siasi pro- gredito in questa via. La lunghezza d’onda minima ottenuta da Hertz (1) Phil. Mag. t. XXVIII, pag. 48, 1889. — 488 — e dai suoi continuatori, fu di circa 66 centimetri. Una tal lunghezza d’onda obbiigherebbe a far uso di apparati di dimensioni grandissime, onde: evitare fenomeni di diffrazione tali da mascherare molti dei fenomeni ana- loghi a quelli che di solito producono le onde luminose. Onde progredire nella dimostrazione della predetta analogia, occorreva. anzi tutto creare degli apparecchi coi quali fosse possibile produrre e stu- diare raggi di forza elettrica con lunghezza d’onda assai minore di 66 cent., e a questo intento rivolsi da prima le mie indagini. Queste fortunatamente mi condussero a realizzare il mio progetto, ponendomi in grado di espe- rimentare con lunghezze d’onda di pochi centimetri (anche di soli due cen- timetri e mezzo circa). i In possesso di questi apparecchi, i quali hanno altri peculiari vantaggi, ho a più riprese istituite delle esperienze, dalle quali è risultato dimostrata la più perfetta analogia fra le onde elettriche e le luminose. In varie Note preliminari (1) ho brevemente descritti non solo gli ap- parecchi da me inventati, ma anche alcune esperienze con essi realizzate (diffrazione, riflessione totale, polarizzazione circolare ecc.). Ma in seguito ho avuto l’ opportunità di perfezionare di molto quegli apparecchi e di rea- lizzare molte nuove esperienze. Perciò ho creduto di dovere dedicare la presente Memoria alla esposizione completa dei risultati da me ottenuti, ed alla descrizione degli apparati più perfetti che mi hanno servito per ottenerli. Gia nella forma che loro diedi da principio, i miei apparecchi furono adoperati da diversi sperimentatori (2). È quindi sperabile che perfezionati come ora sono, possano rendere segnalati servigi alla scienza. 2. Gli oscillatori. Un eccitatore o oscillatore di Hertz non é altro che un condensatore che ripetutamente si scarica, attraverso un circuito tale che la scarica sia oscillante. Il periodo d’ oscillazione cresce, secondo una nota formola, insieme alla capacità del condensatore ed all’ autoindu- zione del circuito. Negli oscillatori di Hertz le armature sono costituite dalle due aste poste sul prolungamento l’ una dell’ altra, e dalle lastre me- talliche che in molti casi sono riunite alle loro estremità più lontane. Il circuito di scarica è costituito dalle aste stesse e dalla scintilla che le (1) Rend. della R. Acc. dei Lincei, v. II, 1.° Semestre, pag. 333 (1893). » » » Vega » » 505 (1893). » » » VeG1229 » » 7 (1893). » » » VARIO » » 157 (1893). (2) V. per esempio: Rubens: Nature, n. 1259, p. 167. » Duro CPRIT ICI 19 » Zenhder: Weed. Ann., 1894, n. 5, p. 34. » Elster e Geitel: Weed. Ann., 1894, n. 7, p. 450. » Garbasso u. Aschkinass. Naturwiss. Rundschau, Jahrg. IX. Nr. 34. (Quest’ ultima citazione è stata aggiunta durante la correzione delle bozze.). — 489 — congiunge, ossia dal gas incandescente che si produce sino dall’ inizio della scarica. Il dielettrico del condensatore altro non è che l’aria ambiente che circonda i due conduttori, e nel seno della quale si propagano a di- stanza le onde elettromagnetiche. Per ottenere brevissimi periodi d’oscillazione occorreva dunque dimi- nuire la capacita e l’autoinduzione. In vista di ciò i miei oscillatori con- stano semplicemente di due sfere metalliche poste abbastanza vicine l’ una all’ altra onde, una volta oppostamente caricate, possano scaricarsi con una breve scintilla. Gli effetti che dà un oscillatore di tal genere, costituito con palline di pochi centimetri di diametro, sono assai deboli. Ma si accrescono enor- memente ricorrendo ad un artificio dovuto a De la Rive e Sarasin (1), il quale consiste nel far scattare la scintilla che congiunge i due conduttori entro un liquido isolante. Ho appunto adottata questa disposizione, e cioé ho collocato un liquido isolante fra le due sfere; ma ho trovato assai preferibile l’olio di vasellina all’ olio d’ ulivo, adoperato dai due fisici gine- vrini, specialmente rendendolo poco scorrevole col disciogliervi una suffi- ciente quantità di vasellina. L’ efficacia del liquido mi sembra possa spiegarsi in questo modo. Onde si inizi la scarica fra i due conduttori, occorre che sia raggiunta una dif- ferenza di potenziale fra essi di gran lunga maggiore, allorché sono sepa- rati dal liquido isolante, che quando lo sono semplicemente dall’aria. Perciò é assai maggiore la quantità di elettricità che si muove nella scarica oscillante. Ma l’oscillatore a liquido presenta un altro incomparabile vantaggio. È noto infatti a quanti hanno ripetuto le esperienze di Hertz, che onde avere buoni risultati é indispensabile mantenere perfettamente terse le su- perfici metalliche fra le quali si produce la scintilla, ragione per cui oc- corre pulirle a brevissimi intervalli, per esempio con carta smerigliata. Cogli oscillatori ad olio di vaseliina nessuna cura speciale é necessaria, giacché seguitano indefinitamente a produrre effetti perfettamente costanti, anche se dopo un lungo uso il liquido é divenuto nerissimo per carboniz- zazione, ed un deposito nero si è formato sulle due palline. 3. Modo d’ eccitazione degli oscillatori. Per eccitare gli oscillatori, Hertz e gli altri che si occuparono dopo delle stesse ricerche, ricorsero ad un rocchetto d’induzione. Soltanto Toepler (2) sostitui al roechetto una macchina ad influenza. (1) C. R. t. CXV, pag. 489 (1892). (2) Wied. Ann. 1892, t. 46, pag. 306. Serie V. — Tomo IV. 602 — 490 — Dal canto mio ho preferito adoperare una grande macchina ad influenza a quattro dischi (sistema Holtz) e a conduttori diametrali, già adoperata e citata a proposito di tante altre mie ricerche, e con essa ho avuto effetti assai superiori a quelli che potevo ottenere coi medesimi apparecchi ecci- tati per mezzo d’ un rocchetto di Ruhmkorff di gran modello. Il mio modo d’impiegare la macchina d’ Holtz diversifica da entrambi i metodi indicati da Toepler. Nel mio metodo la macchina deve privarsi dei suoi condensatori, poi devono congiungersi i suoi conduttori principali, per mezzo di fili di rame o meglio di conduttori flessibili introdotti in tubi di gomma, con due sfere, poste in linea retta colle due costituenti |’ oscil- latore, ed una per parte. Mentre la macchina funziona si scorgono tre scintille, e cioé due nell’aria fra le palline comunicanti colla macchina e quelle costituenti l’ oscillatore, ed una nel liquido isolante. Siccome la mac- china fornisce un efflusso abbondantissimo di elettricità, le tre scintille si rinnovano con tal frequenza, che all'occhio sembrano quasi costituire un fenomeno luminoso centinuo. In generale la mia macchina é mantenuta in azione da un motore ad acqua di Semidt d’un quarto di cavallo. Come si vedrà più innanzi, le scariche che avvengono lungo i fili di comunicazione e.le due scintille nell’ aria, non danno effetto sensibile sui risonatori. Esse servono solo a caricare le due sfere dell’ oscillatore, le quali con rapida vicenda si sca- ricano in modo oscillatorio per mezzo della scintilla centrale. 4. Disposizione pratica degli oscillatori. I miei primi oscillatori (descritti nelle note citate più sopra) erano verticali, e cioé le quattro sfere metalliche avevano i centri sopra una stessa verticale. Le due sfere me- diane, e cioé quelle che più propriamente costituiscono l’ oscillatore, era- no fissate con mastice nell’ apertura minore di due vasi tronco-conici, ottenuti tagliando opportunamente degli imbuti di vetro. L’inferiore di questi vasi, o per meglio dire, lo spazio che il superiore, che in parte en- trava nell’ inferiore, lasciava libero in questo, veniva riempito col liquido isolante. Col giuoco d’ una vite si poteva regolare la distanza fra le due palline centrali. Questa posizione verticale dell’ oscillatore ha però l’ inconveniente di richiedere in certi casi apparecchi assai incomodi e complicati, per esempio nello studio della riflessione (vedi la 3.* delle note citata). Era quindi de- siderabile potere dare all’ oscillatore qualunque direzione, e poterla facil- mente mutare da un istante all’ altro, precisamente come è utile che un polarizzatore possa girare intorno al proprio asse, onde il piano di polariz- zazione della luce che da esso emerge assuma ogni voluta orientazione. I nuovi oscillatori si prestano appunto per soddisfare a questa esigenza. — 491 — Le due sfere A, B dell’oscillatore (fig. 1) sono fissate nel centro di ‘due grossi dischi di legno, di vetro, o meglio di ebanite CD, EF, formanti le due basi d’ un recipiente cilindrico, le cui pareti laterali sono flessibili. Un foro praticato in uno dei dischi permette di riempire coll’ olio di vasellina il recipiente e dà sfogo ai gas che svolge la scintilla, mentre una disposizione qualunque permette di regolare la distanza fra le due basi, e quindi quella fra le due sfere. È bene poi che la superficie interna dei due dischi sia convessa, onde il livello 4 del liquido sia alquanto più alto del luogo Fig. 1 ove si forma fra A e B la scintilla, anche quando i dischi sono orizzontali. La parete fiessibile viene formata con membrana animale, oppure con carta pergamena, riunita in anello con colla, é primitivamente bagnata con acqua. È bene aggiungere a questa della glicerina onde la carta si conservi morbida. La gomma elastica non può servire perché l’ olio di vasellina la gonfia enormemente. Questa disposizione ha un piccolo inconveniente, che però non impe- disce di adoperare con ottimi effetti il nuovo apparecchio, ed è che il li- quido qualche volta trasuda dalla membrana, o in altro modo esce lenta- mente dal recipiente. Nella fig. 2 sono rappresentate le parti essenziali dell’ oscillatore, visto nella direzione del suo asse di figura e munito del suo riflettore cilindrico parabolico. Naturalmente l’ asse dell’ oscil- latore O coincide colla linea focale dello specchio SS. Quest’ ultimo, formato d’ una lastra di rame, è rigidamente fissato, po- steriormente ed all'altezza del centro del- l’oscillatore, ad un asse d’ ottone AB che può girare entro un foro praticato del dritto CC che regge l’intero apparecchio, insieme ad un indice BD ad esso congiunto, il quale scorre sopra un cerchio graduato EF fissato sul dritto CC. Con questa disposizione la ra- diazione che emana dailo specchio SS ri- mane sempre orizzontale, finché si lascia Fis. 2 verticale il dritto. CC, ma l’azimut delle vi- brazioni può assumere qualunque valore, che viene poi determinato col cerchio graduato. Da principio cercavo di dare al riflettore una distanza focale eguale al quarto o ai tre quarti della lunghezza d’ onda propria ai risonatori che (Coi — 492 — intendevo adoperare, e ciò allo scopo che l’effetto delle onde partite diret- tamente dall’ oscillatore si sommasse a quello delle onde rifiesse dallo specchio. Ma il primo effetto scema cosi presto colla distanza, che il van- taggio che si ottiene é piccolo. Perciò ho finito col modificare la distanza focale, quando ciò tornava comodo per le dimensioni dei dischi dell’ oscil- latore. Come si vede l’ oscillatore disposto nel modo qui descritto può adope- rarsi alla guisa d’ un nicol o altro simile polarizzatore. Nella fig. 3 (a) vedesi l’ oscillatore che più di frequente ho adoperato specialmente per onde di circa 10,6 centimetri di lunghezza, che sono Fio. 3 praticamente le più opportune nel maggior numero delle mie esperienze. Lo specchio ha in tal caso 8 cent. di distanza focale, 40 c. di altezza e 50 c. di apertura, ed i dischi, che portano le due sfere formanti l’ oscilla- tore propriamente detto, sono d’ ebanite, e hanno circa 15 c. di diametro. Pel modo nel quale l’ apparecchio fu collocato nell’ atto di farne la foto- grafia che ha servito di modello alla fig. 3, non è in questa visibile la disposizione che permette di regolare ia distanza fra le due sfere dell’ o- scillatore; ma non è meno facile perciò il descriverla. L’ inferiore dei due (a) Le altre parti della fig. 3, che qui non sono descritte, lo saranno più oltre ai $ 9 e 20; ma non faccio parola dei dettagli di forma, che possono rilevarsi osservando la figura e senza bi- sogno di spiegazione. = 4g dischi d’ ebanite é fissato invariabilmente sullo specchio o per meglio dire ad una costola robusta d’ ottone che al di dietro dello specchio riunisce ' le due lastre grosse d’ ottone 45, CD cui lo specchio é saldato. Il disco superiore è invece connesso ad un pezzo mobile fra due guide. Una ap- posita vite, che si trova al di dietro dello specchio, permette di eseguire il movimento progressivo del disco superiore, anche mentre l’ apparecchio é - in azione. Nella fig. 3 vedesi in E una delle due sfere comunicanti, colla mac- china elettrica, ed in Y una delle due fissate nei dischi d’ebanite. Le prime sono unite a fili di rame terminanti in rerrafili G, H, che passano entro canne di vetro opportunamente incurvate e sorrette da due colon- nette di ebanite, di cui una / è visibile nella figura. Queste possono fis- sarsi a varie altezze, onde con ciò variare la distanza fra le sfere estreme e l’oscillatore propriamente detto. Altri apparecchi di cui ho fatto uso hanno dettagli diversi di costru- zione. Per esempio, il disco superiore, anziché ricevere un moto nella di- rezione dell’ asse dell’ oscillatore, si sposta secondo un arco di cerchio. La costruzione è allora assai semplice. Il disco superiore si prolunga in una leva, che passa al di dietro dello specchio per apposita apertura e che ha il suo fulero presso lo specchio medesimo. Girando una vite posta all’ estremità della leva si accostano l’ uno all’altro i due dischi, che una molla antagonista allontana di nuovo, allorché si gira la vite in senso op- posto. Questa disposizione é opportuna per oscillatori ai quali si vuole a volontà applicare o togliere lo specchio parabolico. Per un dato oscillatore |’ effetto dipende grandemente dalla distanza che separa le due sfere, come pure da quelle che separano l’ oscillatore dalle sfere comunicanti colla macchina. In altri termini l’ effetto dipende dalla lunghezza delle tre scintille. Quella centrale deve essere sempre molto più breve delle altre due, per esempio 0,08 c. quando queste sono di 2 c. È sempre facilissimo trovare le distanze migliori, osservando 1’ effetto pro- dotto in un risonatore. 5. Dove si producano le oscillazioni. In quanto precede ho ammesso che le oscillazioni elettriche, che propagate poi a distanza eccitano le oscillazioni d’ un risonatore, si pruducano nel sistema conduttore costi- tuito dalle due sfere separate dall’ olio isolante, ma congiunte momenta- neamente da una scintilla. Siccome intorno alla validità di tale supposi- zione estremamente spontanea è stato messo fuori qualche dubbio, così prima di procedere oltre presenterò le ragioni per le quali tali dubbi mi sembrano destituiti di fondamento. Intanto l’ effetto ottenuto dipende dalla presenza del liquido. Senza di = 400 — questo un risonatore, che si eccitava a parecchi metri di distanza, non mostra più qualche rara scintilla che a pochi centimetri dall’ oscillatore. L’ effetto dell’ oscillatore dipende enormemente dalla distanza delle due sfere che lo costituiscono, ma assai meno dalla distanza fra esse e le due sfere comunicanti colla macchina. Ciò sarebbe difficile da spiegare se le oscillazioni utili non avessero la sede loro attribuita. Se le due sfere dell’ oscillatore si toccano, cessa affatto l’azione sopra un risonatore, se anche è assai sensibile e vicino. Infine, ho di recente riconosciuto che se le due sfere sono cave, l’ effi- cacia dell’ oscillatore è minore che quando sono piene, cosa questa che forse non era facilmente prevedibile. Per esempio con un oscillatore for- mato con sfere massiccie di quasi 4 c. di diametro, l’ effetto sopra un ri- sonatore cessava solo a circa 11 metri di distanza, mentre sul medesimo risonatore l’ effetto spariva gia a circa 6 m., allorché a quelle sfere se ne sostituivano due altre di egual diametro esterno ma cave, con spessore di parete di circa 0,15 c.. Due altre a parete assai più sottile davano un ef- fetto anche più ridotto. Invece le sfere comunicanti colla macchina pos- sono essere indifferentemente piene o cave, ed, entro certi limiti, aver un diametro più o meno grande, senza che mutino gli effetti che si ottengono dall’oscillatore. Anche il variare alquanto le dimensioni e la disposizione dei fili che vanno alla macchina elettrica non ha seusibile influenza. Il Sigg Zehnder ha recentemente tentata una diversa spiegazione del modo d’ agire del mio oscillatore (1). Egli, se non ho mal compreso il suo concetto, non si occupa di sapere se le scariche che si producono sieno o no oscillanti, e suppone che le due scintille nell’ aria non sieno simultanee, ma si seguano a brevissimo intervallo. Ognuna di esse genererà una sem- plice onda nello spazio, e potrà darsi, egli dice, che si riesca a tentativi a far si che l’ ondulazione generata da una delle scintille cominci nell’istante in cui cessa quella generata dall’ altra. Sarebbero allora due onde sole che si propagherebbero nello spazio, e non sarebbe possibile osservare interferenza che con differenze di cammino di S o di 3 5° Il'Sig-'Zehmider propenderebbe a credere che in questo modo si potessero spiegare i risul- tati da me ottenuti. Però, anziché cercare una qualche conferma alla sua spiegazione, egli si limita a proporre due esperienze decisive. La 1.* sa- rebbe l’ esperienza d’interferenza di Boltzmann; la 2.* consisterebbe nel collocare le due sfere comunicanti colla macchina, non più sull’ asse dell’ oscillatore ma lateralmente, in modo che le due scintille nell’ aria rie- (1) Wie. Ann. 1891, n. 5, p. 34. — 495 — scano quasi parallele e quasi ad angolo retto coll’ asse medesimo. Secondo le idee del Sig. Zehnder eseguendo la 1.° esperienza non dovrebbero n osservarsi interferenze corrispondenti a più di 3 9 di differenza di cammino, ed eseguendo la 2.* dovrebbe sparire ogni azione per parte dell’ oscillatore. Quest’ ultima esperienza non é praticamente facile a realizzarsi ma la prima, e cioé quella di Boltzmann facilissima e l’ho eseguita molte volte e in varie occasioni. Or bene, ho potuto sempre osservare interferenze corri- spondenti a differenze di cammino assai maggiori di 3 3 fra i due raggi di forza elettrica interferenti, e non dubito che egual risultato avrebbe otte- nuto il Sig. Zehnder, se si fosse dato la pena di fare l’ esperienza mentre aveva montato un oscillatore del tipo da me descritto. Mi pare quindi che non sia a dubitare affatto che le oscillazioni elet- triche fornite dagli oscillatori nelle mie esperienze, provengano da scariche oscillanti generate nel sistema delle due sfere separate dal liquido isolante. 6. I risonatori. I risonatori originari di Hertz erano di due specie: o un circuito metallico quasi chiuso, o un conduttore rettilineo diviso a mezzo, nel punto d’ interruzione dei quali si mostravano delle scintille al- lorché delle oscillazioni elettriche si generavano in essi. I risonatori dei quali si é fatto uso dopo sono sostanzialmente i medesimi, ma i vari espe- rimentatori hanno escogitati diversi artifici onde renderli più sensibili o renderne l’ azione più visibile a distanza. Questi artifici sono svariatissimi. Infatti o si é cercato di rendere più luminose o più voluminose le piccole scariche del risonatore, mediante un tubo a gas rarefatto con o senza elettrodi ausiliari comunicanti con una sorgente d’ elettricità, oppure si èé cercato d’ avere un segno visibile dell’ esistenza delle oscillazioni elettriche nel risonatore, ricorrendo a coppie termoelettriche, al bolometro, alla dila- tazione del risonatore, all’ elettroscopio o al galvanometro riuniti ad una pila, alla rana galvanica ecc., e da alcuni altri si è ricorso ad azioni mec- caniche prodotte dalle cariche alternative delle estremità del risonatore o dalle oscillazioni stesse che in esso si formano, od anche alla combina- zione di gas esplosivi, agli effetti fotoelettrici ecc. Tutti questi mezzi sono utili per la dimostrazione dei fenomeni di Hertz nei corsi, ma per la maggior parte risultano poco comodi per le ricerche di gabinetto. Nei miei risonatori mi sono quindi attenuto al metodo originale di Hertz, cioé alla scintilla; ma ho cercato di renderla più brillante facen- dola produrre alla superficie del vetro. Si sa da molto tempo, benché la ragione non ne sia ancor bene chia- rita, che a parità di differenza di potenziale si ottengono scintille assai più — doo — lunghe allorché esse si generano alla superficie d’ un corpo isolante o se- miconduttore piuttosto che nell’ aria libera. Cosi per esempio, mentre colla mia macchina ad influenza ottengo al massimo scintille di circa 30 c. di lunghezza nell’ aria libera, e soltanto di 12 c. allorché colla stessa mac- china carico il mio grande condensatore di 108 grandi bottiglie di Leyda, ottengo facilmente da questo condensatore delle scintille lunghe quasi tre metri alla superficie dell’ acqua. È noto d’ altra parte con quanta facilità si ottengano lunghissime scintille allorché un condensatore si scarica spontaneamente lungo il vetro da un’ armatura all’ altra. Qualche cosa di simile accade nei miei risonatori. Ciascuno di essi è costituito da una striscia di vetro argentata in parte della sua lunghezza. L’ argento costituisce il risonatore, e la parte di vetro nudo serve come manico o sostegno. L’ interruzione per la scintilla è poi ottenuta togliendo 1’ argento a meta lunghezza secondo un tratto trasver- sale assai stretto nel quale il vetro è messo a nudo. La sensibilità di tali risonatori cresce al diminuire della larghezza del taglio. Se questo vien fatto con un diamante da incisore, in modo che risulti di appena due millesimi di millimetro di larghezza, la sensibilità del risonatore diviene veramente straordinaria. Per risonatori grandi, ad esempio per quelli che rispondono ad onde di 20 o più cent., la sensibi- lità é il più delle volte sufficiente anche se il taglio viene fatto con una riga ed un temperino (a). Naturalmente la lunghezza d’ onda delle oscillazioni proprie di un ri- sonatore dipende dalle sue dimensioni, e più oltre indicherò quelle dei risonatori dei quali ho principalmente fatto uso. Ho costruito anche dei risonatori circolari levando parte dell’ argento da una lastra da specchio, in modo da lasciarvi solo un anello chiuso. Col diamante si fa poi un taglio radiale. Però ho adoperato specialmente i risonatori rettilinei, ai quali può applicarsi uno specchio parabolico. Per quelli più piccoli ho sempre osservato le scintille con un oculare. Secondo alcuni (1) in un risonatore rettilineo. in azione ciascuna delle sue due metà si comporterebbe in modo simile ad un tubo sonoro aperto alle due estremità, che dia il suo suono fondamentale, i ventri di questo corrispondendo ai punti del conduttore nei quali si producono le massime (a) Per mostrare a molte persone le scintille che si producono nei risonatori grandi (quelli pei quali X== 20 c.) è vantaggioso praticare non uno solo, ma molti tagli finissimi nell’ argento, per mezzo del diamante, distribuiti in tutta la lunghezza del risonatore. Questo si comporta allora come un quadro scintillante, giacchè in tutte le interruzioni dell’ argento si producono le brillanti scintillette verdi. (1) Toepler, Wzed. Ann. t. 46, p. 306, 464. — 497 — variazioni di potenziale, e nei quali non si ha corrente, ed il nodo centrale ‘al punto del conduttore nel quale il potenziale non varia, e la corrente alter- nativa ha la massima intensità. Le scintille che si osservano nell’ interruzione sarebbero dovute a ciò, che mentre l’ estremità d’ uno dei due conduttori assume un potenziale positivo, l’ estremità attigua dell’ altro assume un potenziale negativo e viceversa. Dal modo nel quale si comportano i miei risonatori sono indotto invece ad ammettere, che l’intero risonatore in azione si comporti come un tubo sonoro aperto. Secondo me, la scintilla congiunge le due metà conduttrici del risonatore in un unico conduttore, nel quale si producono oscillazioni elettriche analoghe alle oscillazioni del- l’aria nel tubo sonoro. Le due estremità del risonatore sono dei ventri, ed il punto di mezzo della scintilla è un nodo, vale a dire che alle due estre- mità del risonatore sì hanno le massime variazioni periodiche del poten- ziale e corrente nulla, mentre in corrispondenza alla scintilla si ha poten- ziale nullo e massima corrente ondulatoria. In appoggio di questa mia opinione citerò i due fatti seguenti: 1.° Un filo metallico sottile, lungo presso a poco come un risonatore, agisce come tale, e lo si riconosce dalle onde secondarie (vedi Cap. VII) che esso pro- duce, e che possono agire sopra un risonatore ordinario. 2.° Se lungo un risonatore in azione, disposto parallelamente all’oscillatore che lo eccita, si fa scorrere una delle estremità di un secondo risonatore (che può es- sere più corto) tenuto perpendicolarmente al primo, e quindi sottratto al- l’azione dell’oscillatore, si vedono nel secondo vive scintille, quando é di fronte ad una delle estremità del primo, ma queste scintille secemano grado a grado sino a sparire, allorché il secondo risonatore arriva a metà della lunghezza del primo. Quando si espone un risonatore nuovo alle radiazioni dell’ oscillatore, tenendolo da questo dapprima a grandissima distanza e poi accostandolo poco a poco, ad un certo istante compaiono le scintille, e siccome si se- guono con grandissima rapidità e cambiano di posto lungo il taglio fatto dal diamante nell’ argento, cosi sembra di vederne simultaneamente un gran numera allineate. È proprio come una fila di stellette verdi brillan- tissime. A poco a poco però si fanno più rade e più grandi e poi cessano affatto. Bisogna allora accostare assai più il risonatore all’ oscillatore onde vederle riapparire, e cosi di seguito. La sensibilità d’un risonatore scema dunque assai presto. Guardandolo ad intervalli col microscopio, il taglio fatto col diamante, che prima dell’ uso era strettissimo e ad orlì rettilinei regolarissimi, sì mostra dopo di più in più largo e con profonde intacca- ture irregolari. La diminuzione progressiva della sensibilità sì deve dunque al consumarsi dell’ argento. In una serie di esperienze occorre perciò cam- biare spesso il risonatore adoperato in uno nuovo, e necessita quindi es- Serie V. — Tomo IV. 63 MS sere sempre provvisti di qualche decina di risonatori pronti. Ciò non è un grave inconveniente, vista la facilità con cui se ne può preparare in poco tempo un numero assai grande. Qualche volta succede che un risonatore nuovo non da scintille nep- pure a moderata distanza dall’ oscillatore. Se allora lo si avvicina moltis- simo, toccando anche con esso, se occorre, uno dei conduttori della mac- china, le scintille ad un tratto compariscono. Bisogna allora prontamente allontanarlo onde non consumarlo inutilmente, giacché dopo questa prima eccitazione esso é divenuto sensibile in modo normale. Sembra che questo curioso comportamento di un risonatore abbia luogo, allorché il taglio del diamante non fu perfetto, ma lasciò qualche esilissima comunicazione fra le due metà dell’ argento. Delle intense oscillazioni elettriche finiranno al- lora per riscaldare e disaggregare 1’ esile filamento, dopo di che il riso- natore è restituito alle condizioni normali. Ho pure osservato che un risonatore che si allontani poco a poco dal- l’ oscillatore, seguita a scintillare anche a tal distanza, alla quale messo dapprima non mostrava alcun effetto. Parmi che ciò sia dovuto al calore sviluppato dalle sue scintille. Un analogo fenomeno si osserva quando in altro modo si espone il risonatore ad una radiazione elettrica d’intensità decrescente. 7. Dettagli di costruzione dei risonatori. Le lastre argentate da me adoperate furono sempre o specchi del commercio, o lastre di vetro ar- gentate col comune metodo di Martin. In generale gli specchi sono pre> feribili, mentre le lastre argentate da me le trovai migliori per i risonatori piccolissimi (quelli per onde lunghe circa due centimetri e mezzo). Preso un specchio ABCD (fig. 4), si comincia col mettere a nudo il vetro per mezzo d’ uno scalpello da legnaiuolo guidato da una riga, in guisa tale che resti intatta solo la porzione rettangolare E/G, la cui lar- ghezza EG = FH deve essere eguale alla lun- A ghezza che devono avere i risonatori. Ciò fatto, E __|gp se si adopera uno specchio del commercio, oc- 1 peli abi Mili: ELA m corre togliere la vernice rossa o bruna che ri- G Hy ©opre l'argento, se non in tutto, almeno presso la retta LM parallela ad EN e GZ ed equidi- D C stante da queste due rette. A seconda della Fig. 4 composizione della vernice si raggiungerà lo scopo lavando la lastra con etere solforico alla temperatura ordinaria, oppure con alcool assoluto o essenza di tre- mentina bollente, aiutando il distacco della vernice, ove occorra, con un poco di cotone. — 499 — Si passa allora alla parte delicata dell’ operazione, e cioé la divisione, dell’ argento in due secondo il tratto LM. La lastra si deve far scorrere orizzontalmente fra due guide, sotto la punta del diamante, del quale si sarà prima scelta bene la posizione e regolata la pressione da esso eser- citata sulla lastra, in modo che esso lasci nell’ argento un taglio ben retto e deciso e della larghezza voluta. In generale il diamante, fissato ad uno dei bracci d’ una leva orizzontale, deve esercitare, appena col proprio peso, una pressione lievissima sull’ argento. Della bonta del taglio si giudica col microscopio. Fatto il taglio dell’ argento non resta più che tagliare il vetro in stri- scie parallele ai lati AD, BC e della dovuta larghezza, onde avere un buon numero di risonatori pronti all’ uso. Per fare rapidamente e con regola- rità i tagli della lastra, adopero il carretto d’ un tornio. Sulla parte fissa di esso é adattata una tavoletta di legno orizzontale, sulla quale si fissa con punte cortissime la lastra da tagliare, mentre sul carretto mobile è fissata una riga di ferro lungo la quale si fa scorrere il diamante da tagliare. Questa riga é parallela alla lastra di vetro ed ai lati AD, BC di essa, e gli é vi- cinissima senza toccarla. Girando la vite annessa, la riga si sposta paral- lelamente a sé stessa. Nel caso mio questa vite ha il passo di 4 mm. Perciò quando voglio fare risonatori larghi, per esempio, due millimetri (tale è la larghezza dei risonatori dei quali più spesso ho fatto uso) faccio fare mezzo giro alla vite fra un taglio di diamante ed il successivo. Lo spessore del vetro argentato non deve essere troppo grande, se no è difficile separare i risonatori. Se questi sono larghi due millimetri, pos- sono adoperarsi bene i piccoli specchi argentati del commercio; ma pei risonatori larghi un millimetro o meno, bisogna ricorrere a lastre di vetro di un millimetro o meno di spessore. Quando si ha pronto quanto occorre, la descritta serie di operazioni si eseguisce in poco tempo. Per esempio in poco più d’un’ora riesco a pre- parare due centinaia dei risonatori, che più comunemente adopero, cioé quelli pei quali A= 10,6 c. 8. Dimensioni degli oscillatori e dei risonatori. Al principio delle mie ricerche lo scopo unico che avevo in vista era quello d’ ottenere onde assai brevi. Perciò cominciai col preparare oscillatori di più in più piccoli e per ognuno di essi cercai a tentativi quali dimensioni dovevo dare ai relativi risonatori, onde mostrassero la loro scintilla stando il più lontano possibile dall’oscillatore. I detti tentativi erano condotti in questo modo. Da un’ unica lastra di vetro argentata di gran dimensione, preparata col segno di diamante come ho spiegato nel precedente paragrafo, tagliavo tanti risonatori che separavo in molti gruppi di lunghezze e spesso anche — 500 — : di larghezze diverse. Presentavo uno a uno quei risonatori all’ oscillatore in azione partendo da assai lontano, e notavo la posizione nella quale co- minciava a scintillare. Potevo vedere così quali erano quelli che si mo- stravano più sensibili. Per poter riconoscere delle differenze abbastanza grandi fra i vari riso- natori, occorreva che per dimensioni differissero assai gli uni dagli altri, e perciò avessero periodi proprii d’oscillazione assai differenti. È noto in- fatti che un medesimo oscillatore può eccitare risonatori di lunghezze d’onde assai differenti, ciò che in oggi generalmente viene attribuito alla rapida diminuzione d’ intensità, ossia al rapido smorzamento, delle oscil- lazioni nell’oscillatore. Ne consegue che una volta costruito un oscillatore si ha molta latitudine nella scelta dei risonatori corrispondenti. Nelle citate note diedi le dimensioni degli apparecchi allora adoperati, valevoli. per lunghezze d'iondarda ‘20fcx a 475561). In seguito però sono stato condotto ad invertire la mia linea di con- dotta, e cioè a cercare quali dimensioni più opportune dovevo dare al- l’oscillatore, onde un dato risonatore mostrasse le scintille più vive o si illuminasse alla maggior distanza. Potrebbesi credere forse che questo modo d’operare conducesse a ri- sultati simili a quelli dati dal primo metodo, ma cosi non è. Supponiamo infatti che con un oscillatore formato con sfere di 1,36 c. di diametro si sia trovato che fra risonatori di dimensioni svariatissime rispondono meglio quelli ecrrispondenti a 4= 10,6 c.. Se allora si espon- gono questi risonatori all’azione di oscillatori formati con palline più grosse, per esempio di 3 o 4 c. di diametro, essi si mostrano assai più sensibili che di fronte all’ oscillatore primitivo. Naturalmente un risonatore corrispondente ad un maggior valore di 4, per esempio 4= 20 c. sarebbe anche più sensibile all’ oscillatore più grosso. Si vede dunque che si ha vantaggio a far uso per un dato risonatore di un oscillatore più grande di quello pel quale il risonatore stesso pos- siede le più adatte dimensioni, ciò che certamente proviene dalla maggior quantità d’ elettricità messa in moto nelle scariche oscillanti dell’ oscillatore più grande. (1) Per errore di copiatura nella 2.* delle citate note preventive si sono attribuite ai risona- tori per X=7,5 c. le dimensioni che spettano invece ai risonatori la cui lunghezza d’ onda è X= 10,6 c. M’accorsi dell'errore leggendo nel giornale Nature (n. 1259, december 14, 1893, p. 167) un cenno intorno ad esperienze eseguite coi miei apparecchi dal Sig. Rubens davanti la Società Fisica di Berlino. In quel giornale si diceva che in quelle esperienze la lunghezza d’onda era di circa 10 c., il che è naturale, ammesso che lo sperimentatore abbia fedelmente adottate le dimen- sioni da me indicate. — 501 — Sono stato cosi indotto ad aumentare alquanto le dimensioni degli ‘oscillatori, ed ho finito coll’ adottare i valori seguenti, espressi in centimetri: DIAMETRO 0 E PI ADE PONEHEZZO PERCHE ZZA PL INESZZA TT IPO D'ONDA DELL’ ONATORE RISONATORE APPARECCHI RIS SONATOR CORO I 0,9 0, 1 2,6 0,8 II 4 0,2 10, 6 3, 75 1II 10 0, 6 20 8 Naturalmente non conviene eccedere troppo nelle dimensioni dell’ oscil- latore. Per esempio i risonatori piccolissimi (4 = 2,6) si eccitano assai meno coll’ oscillatore formato con sfere di 3,75 che non coll’ oscillatore costituito da palline di 0,3 di diametro. Gli apparecchi più grandi (apparecchi I) sono opportuni per mostrare le esperienze fondamentali a più persone, come pure per certe ricerche, come quelle di diffrazione. Gli apparecchi II (4 = 10,6) sono quelli che più convengono nelle ricerche di laboratorio. Gli apparecchi II, che sono i più piccoli, sono utili solo in casi speciali. I numeri seguenti serviranno a dare idea della straordinaria sensibilità che possedono i miei apparecchi. Coi risonatori I eccitati dall’ oscillatore II, 1’ effetto è ancora ben visibile allorché i due apparecchi, entrambi muniti del loro specchio parabolico, sono alla distanza di 25 metri l uno dall’ altro, cioé ad una distanza di ben 125 volte la lunghezza d’onda. Non mi é stato possibile esaminare sino a che distanza gli stessi risonatori I si eccitano sotto l’azione del- l’ oscillattore I; ma credo non esagerare affermando che si abbia 1’ effetto distanza più che doppia. Cogli apparecchi II la distanza massima alla quale si manifestano an- cora le scintille è di più di 20 metri, cioé circa 190 lunghezze d’onda. Infine cogli apparecchi II l’effetto si osserva sino a circa 80 c., cioé a circa 31 lunghezze d’onda; ma potrebbero certo migliorarsi assai, in caso di bisogno, aumentando un poco le dimensioni dei riflettori o costruendoli con maggior cura, e sopratutto dando ai risonatori minor larghezza e lun- ghezza un poco maggiore. Naturalmente, sopprimendo il riflettore parabolico annesso al risonatore la detta distanza massima diminuisce, e più ancora se si sopprime anche lo specchio dell’ oscillatore. Cosi per esempio si ha effetto ben distinto senza gli specchi e cogli apparati I soltanto fine alla distanza di tre o quattro metri fra oscillatore e risonatore. — 502 — 9. Montatura dei risonatori. Nel maggior numero dei casi é vantag- gioso munire il risonatore di uno specchio cilindrico parabolico. Tale di- sposizione vedesi in L (fig. 3) come pure nella fig. 5, che rappresenta una sezione dell’ apparato fatta perpendicolarmente al risonatore. Il risonatore si fissa in A per mezzo di due elastici contro ad una riga d’ebanite lunga quanto lo specchio e di cui BC é la sezione. Questa riga si può fissare al suo posto o togliersi facilmente onde cambiare, quando occorre, il risonatore. Im corrispondenza al suo mezzo, e quindi anche al punto di mezzo del risonatore, sì adatta ad essa un cilindretto cavo di ebanite, che giunge sino alla superficie dello spec- chio ,SS e viene a costituire, insieme al tubo d’ot- tone XG che sostiene lo specchio, una specie di camera buia, entro la quale si osservano le scin- tille del risonatore, per mezzo d’una lente conver- gente /, attraverso un piccolo foro / apposita- mente praticato nello specchio. Il tubo poi è girevole nel sostegno LM, ed é munito d’ un indice N che si muove sulla graduazione d’un disco d’ot- tone OP, allorché s’ inclina comunque il risonatore insieme al suo specchio. Nella fig. 3 vedesi il rifiettore L del risonatore, ed il cerchio graduato K, indicato con OP nella fig. 5. Il riflettore L della fig. 3, che è quello che serve per 4= 10,6, è alto 21 c. con 25 c. di larghezza fra i suoi orli ret- tilinei, mentre la sua distanza focale è circa 2,6 c. (un quarto di onda). Il risonatore, cosi montato, si adopera come un analizzatore ottico, e, a seconda della natura della ricerca, può fornire le indicazioni seguenti : a) Determinazione dell’azimut delle oscillazioni che giungono al risona- tore. Se, per la natura della ricerca che si sta facendo, l’ orientazione delle. oscillazioni che giungono al risonatore é incognita, ed occorre determinarla, non si ha a far altro che girare il risonatore intorno al proprio asse oriz- zontale, sinché le scintille che in esso si osservano acquistino il massimo splendore e la massima frequenza. Sarà meglio però allontanare angolar- mente nei due sensi il risonatore dalla orientazione nella quale le scintille. sono massime, sinché si spengano o stieno per spegnersi, ed assumere come orientazione cercata quella che é in mezzo alle due così determinate. Od ancora, allontanare angolarmente nei due sensi il risonatore dalla orien- tazione ove per quanto sensibile non dà scintille (che é ad angolo retto colla orientazione cercata) sinchèé appaiano appena le scintille. La orienta- zione perpendicolare a quella che sta in mezzo alle due cosi determinate sara quella che si cerca. — 503 — _ 6) Misura dell’ intensità della radiazione. Se è noto l’ azimut delle oscil- lazioni che giungono al risonatore, si potrà con questo misurarne appros- simativamente la relativa ampiezza in varie circostanze e quindi la intensità relativa. Il bisogno di questa misura si presenta, per esempio, nello studio della diminuzione d’intensità che si ottiene ponendo certi corpi sul cam- mino delle radiazioni. Se le vibrazioni sono verticali, si inclinerà il riso- . natore a partire dalla verticale, facendo girare il tubo /°G (fig. 5), finché le scintille si spengano, od almeno si riducano piccolissime e rare. Si ripe- terà l’operazione dopo aver posto il corpo che si studia sul cammino delle radiazioni, e cioé si farà girare ancora, a partire dalla verticale, il risona- tore, sinché le scintille si spengano, o si riducano deboli e rare in egual grado che la prima volta. Il rapporto dei coseni dei due angoli così determinati sarà eguale al rapporto delle ampiezze delle oscillazioni che nei due casì giungono al risonatore. c) Determinazione della direzione d’un raggio di forza elettrica. Nelle esperienze sulla deviazione operata da un prisma occorre determinare la direzione delle radiazioni emergenti, come si vedrà più oltre. Si fa girare allora il risonatore insieme ad un braccio mobile che lo regge, finché le scintille divengano massime. Onde non sciupare troppo presto il risonatore, lo si potrà disporre, non gia parallelo alla direzione delle vibrazioni emer- genti, ma più o meno inclinato, onde, agendo su di esso soltanto una com- ponente della vibrazione, esso non dia che deboli scintille solo nella posi- zione del massimo, cioé nella posizione cercata. d) Uso del risonatore nel caso in cui le vibrazioni sieno elittiche 0 circolari. Dirò più oltre come sia giunto a produrre per la prima volta oscillazioni di tal specie. Se si hanno vibrazioni circolari, si riconoscerà che sono tali dal fatto che. le scintille nel risonatore conservano uno splen- dore invariato comunque si faccia girare il risonatore stesso intorno al proprio asse. Se il risonatore dà scintille in tutti gli azimut, ma queste sono d’intensità variabile, presentando un massimo per un certo azimut ed un minimo per un secondo azimut perpendicolare al primo, ciò indi- cherà che le vibrazioni sono elittiche. I due azimut determinati in tal modo saranno quelli degli assi della vibrazione elittica. È chiaro che se l’elisse è assai allungata ed il risonatore non abba- stanza sensibile, non si vedrà scintilla né nell’ orientazione dell’ asse minore né nelle sue vicinanze, ed allora resterà dubbioso se la vibrazione sia elit- tica o rettilinea. Però, siccome la diminuzione nelle scintille, che si ottiene girando il risonatore a partire dall’ azimut corrispondente al massimo, è più lento nel caso di una vibrazione elittica che in quello di una rettilinea, — 504 — così, una volta che si sia acquistata una certa pratica, si può riescire a comprendere con qual forma si ha a che fare. Se invece l’ elisse é poco differente da una circonferenza, la variazione delle scintille, prodotta colla rotazione del risonatore intorno al proprio asse, é assai poco sensibile, e può facilmente passare inosservata. In questo caso è bene attenuare in un modo qualunque, per esempio allon= tanando assai il risonatore, l’azione che questo subisce, ed allora osservare se si arriva ad ottenere la cessazione delle scintille per una certa orien- tazione. Qualora ciò accada, quell’ orientazione indichera la direzione del- l’asse minore dell’ elisse. 10. Risonatore senza lo specchio parabolico. Per alcune ricerche, come: ad esempio parte di quelle relative all’ interferenza ed alla diffrazione, non. si può adoperare un risonatore munito di specchio parabolico. È però co- modo anche in tal caso che il risonatore sia girevole intorno ad un asse parallelo al cammino delle radiazioni. L'apparecchio resterà quale lo mostra. la fig. 5, meno il riflettore parabolico ,SS. Però, a parità di altre condizioni, le scintille nel risonatore saranno allora assai indebolite, come è naturale. Ma si possono invigorire alquanto ponendo al posto del riflettore SS una semplice striscia di rame, parallela al risonatore, larga per esempio 1 c. (per gli apparecchi di 4= 10,6) e lunga 15 o 20 c., e con un foro nel mezzo onde non impedisca di vedere ancora la scintilla attraverso la lente H. La distanza fra la striscia di rame ed il risonatore sarà eguale a circa il quarto della lunghezza d’onda. La striscia di rame, quantunque tanto stretta, produce il fenomeno della riflessione, ciò che dà luogo ad un aumento nell’ intensità delle oscillazioni. del risonatore, data la posizione che esso occupa. Ma oltre a ciò accade un altro fenomeno, del quale si tratterà dettagliatamente più oltre. Dirò per ora soltanto che le oscillazioni elettriche eccitate nel risonatore generano per conto loro delle onde secondarie, le quali si propagano all’intorno. Queste onde secondarie, riflesse dalla striscia di rame, arrivano di nuovo sul risonatore con fase appropriata onde aumentare le oscilla- zioni che in esso gia esistono. Ad ogni modo la sensibilità del risonatore rimane assai minore di quando è circondato dal suo solito specchio. Per, alcune esperienze ho adottato una disposizione in certo modo intermedia. Ho cioè munito il risonatore di una lastra cilindrica larga pochi centimetri (circa 6 c.) che ha press’a poco la forma della parte centrale del riflettore cilindrico L della fig. 3. Quand’anche non sieno piane le onde che giun- gono su questo stretto specchio concavo, esso le concentra a sufficiente prossimità del risonatore, perché questo dia scintille assai vive. — 505 — 11. Osservazioni finali sugli apparecchi. Nel corso d’una ricerca non si ha quasi mai ad occuparsi degli oscillatori, purché le distanze delle palline restino fisse. Ai risonatori invece converrà rivolgere continua at- tenzione, onde rinnovarli spesso, particolarmente allorquando si abbiano a fare esperienze di confronto. Pei risonatori tagliati da una stessa lastra non esiste differenza percettibile di sensibilità, e quindi si possono in ge- nerale liberamente sostituire gli uni agli altri. Quando si deve giudicare della eguaglianza o meno delle scintille viste in due casi diversi, s’ incontra in principio una certa difficoltà per il fatto che in generale si nota qualche variabilità od intermittenza nelle medesime, speciaimente allorché sono debolissime. Ma si acquista presto una certa pratica che permette di formarsi un giudizio sicuro sulla intensità dell’ ef- fetto, nel quale giudizio entrano come elementi, non solo la vivacità delle scintille, ma anche la loro maggiore o minore frequenza. Per cui succede che, quantunque gli apparecchi qui descritti sieno più che altro atti a ri- cerche qualitative, pure, adoperati da chi ne abbia molta pratica, possono fornire, colle misure angolari, anche risultati quantitativi d’una precisione maggiore di quella che si potrebbe a priori supporre. Dei molti apparati accessori adoperati nel corso delle mie ricerche, darò la descrizione mano a mano che se ne mostrerà il bisogno. Serie V. — Tomo IV. 64 —- 506% — PASRIPIADE Esperienze. CARTOLERIE Esperienze di Hertz. Frangie d’ interferenza. 12. Esperienze di Hertz. Naturalmente risulta facilissimo il ripetere, cogli apparecchi descritti nella Parte I, l’ esperienza classica dell’ interfe- renza fra le onde dirette e quelle riflesse normalmente sopra una lastra metallica. Il riflettore avrà dimensioni che saranno in relazione colla lun- ghezza d’onda adoperata. Cosi pel caso degli apparecchi più piccoli (A=2,6 c.) una lastra grande come la mano é quanto occorre; anzi il fenomeno si ottiene in modo evidentissimo adoperando come riflettore una semplice moneta da 10 centesimi. La distanza massima alla quale potrà collocarsi il riflettore dall’oscillatore (che si supporrà sempre munito di specchio parabolico quando non si avverta il contrario) sarà di mezzo metro o poco più. Cogli apparecchi più grandi questa distanza può essere di parecchi metri ed il riflettore potrà essere una lastra lunga e larga qualche decimetro. In ogni caso vedesi il risonatore (in questo caso tenuto a mano e senza alcun accessorio) scintillare vivamente allorché è a circa 2 di distanza dal riflet- : AB i SaRa) tore, spegnersi completamente a }, scintillare da capo alla distanza di 3 7 0 La determinazione di 4 è però un poco mal sicura. Val meglio assai ricorrere al metodo descritto più oltre (vedi $ 15.). Le altre principali esperienze di Hertz, come rifrazione in un prisma, effetti di polarizzazione prodotti da reticoli di fili paralleli, riflessione per parte dei medesimi ecc., si ripetono pure colla massima facilità, e con ap- parecchi accessori di dimensioni assai ridotte. Per esempio per la rifra- zione, il prisma potrà non essere più grande di quelli che si adoperano in ottica, se si fa uso degli apparecchi II appropriati alle onde di 2,6 c. di lunghezza. — 507 — 13. Esperienza degli specchi di Fresnel. Boltzmann realizzò per primo una esperienza analoga a quella degli specchi di Fresnel (1). Non avendo questo autore pubblicato alcun dettaglio circa la sua esperienza, non si può sapere se sia giunto ad osservare molte frangie d’ interferenza, distribuite le une presso le altre, per una data posizione degli specchi. V’é anzi motivo di supporre che ciò non gli sia stato possibile, per la grande. lunghezza d’onda adoperata. Fra l’ esperienza di Fresnel e quella analoga prodotta colle ondula- zioni elettriche corre infatti una differenza grandissima dal punto di vista pratico. Quando si opera colle onde luminose si deve cercare di ottenere delle frangie d’ interferenza le cui distanze reciproche sieno molto maggiori della lunghezza d’onda, senza di che queste frangie non si potrebbero di- scernere. Di qui la necessità di fare poco minore di 180° l’angolo dei due specchi, e di osservare le frangie a grande distanza dagli specchi medesimi. Nell’analoga esperienza elettromagnetica, non solo non si presenta la neces- sità di frangie assai lon- tane, ma anzi é da procu- rare che le loro distanze reciproche superino di poco la mezza lunghezza d’onda, senza di che non vi sarà posto che per poche di esse nel campo comune ai due fasci di radiazioni riflessi . dagli specchi. L'angolo di questi dovrà dunque essere alquanto minore di 180°, e il risonatore si collocherà successivamente in vari luoghi della regione pros- sima agli specchi. Sarà evidentemente vantaggioso adoperare piccole lunghez- ze d’onda. Ho realizzato l’ esperienza colle onde lunghe 10,6 c. In O (fig. 6) é collocato l’oscillatore II. Esso é quello costituito da sfere di 3,75 c., privo del riflettore parabolico e ad asse verticale. SP ed SQ Fig. 6 (1) Wed. Ann. XL, p. 399 (1899). — 503 — sono due lastre metalliche verticali, di forma quadrata e di 40 c. di lato Se O, ed O, sono le immagini di O fornite dai due specchi, i due fasci interferenti, astrazion fatta dalla diffrazione, sono MO,S ed SO,N, e la re- gione ad essi comune è MBSCN (a). Il fenomeno è simmetrico rispetto al piano verticale passante per SA essendo A il punto di mezzo di 0,0,. Se lo specchio ,SQ fosse stato più largo di SP in modo che il punto Cio desse sulla perpendicolare BD abbassata da B sopra AS, allora anche il campo comune ai due fasci interferenti sarebbe stato simmetrico rispetto al detto piano. Se si chiamano : a l’angolo di PS col prolungamento di @QS, i l’ angolo: d’ incidenza di OS sullo specchio PS, i =i— a quello di OS rispetto allo specchio SQ, a la distanza OS fra la sorgente delle radiazioni O e lo spigolo comune degli specchi, 6 e d' le larghezze ,SP ed SQ di questi, con facili considerazioni geometriche sì trova : abcosi sc= ab'cos i asen2a — db cos (Ra — i)” — asen2a—bdb'cos(Qa + 1i')’ Spi e siccome gli angoli BSD e CSD sono eguali ad «a, si potranno trovare anche i valori di BD, SD, CE, SE. Siccome poi si ha ancora DI sen2ay/a° + dì — 2ab sen i b COS? 0,B=4+ SB, 0,B= SB 2 così si potrà trovare la differenza di cammino che corrisponde al punto £. Per conseguenza é possibile calcolare a priori la posizione e la forma del campo comune ai due fasci, ed il numero massimo delle frangie visibili, e così disporre le cose in modo che entro questo campo comune si forno interferenze numerose. Nel ‘caso della mia esperienza ‘si aveva 0S= 005 — 040 106 SD =:33 c., BD =39;3; el angolo PSD— 105%*SpostandoNda Diaz nen sonatore verticale (di quelli per 4 = 10,6) tenuto semplicemente nella mano, lo si vedeva brillare vivamente in D, poi spegnersi a qualche distanza, brillare di nuovo più oltre, poi spegnersi nuovamente ecc. Contando anche il massimo in D, sì vedevano così nell’ intervallo DB quattro massimi, nei quali il risonatore brillava fortemente, intercalati da tre minimi, nei quali il risonatore rimaneva oscuro. Se non fosse a temersi l’ influenza re- (a) Nel caso speciale della figura parte di questo campo comune, e precisamente CSQ, non è accessibile, e ciò per essere x>90—<. Gli angoli « ed 7 sono definiti più oltre. — 509 — ciproca dei risonatori, mettendone in fila un gran numero nel tratto DB si vedrebbero simultaneamente i massimi ed i minimi, cioé delle vere frangie d’ interferenza rese visibili dai risonatori. Una lastra metallica XX opportunamente collocata, sottraeva il risona- tore all’ azione diretta dell’ oscillatore. La fig. 6 rappresenta la disposizione vera dell’ esperienza alla scala. di },. Come si vede lo specchio SQ limita assai il campo comune ai due fascì riflessi giàcché O, cade al di sopra di SQ. Ne consegue che le ra- diazioni riflesse da SP possono riflettersi nuovamente su SQ. Ma esse al- lora non passano su BD, e quindi non disturbano affatto 1’ esperienza. Variando le dimensioni degli specchi, il loro angolo e la posizione del- l’ oscillatore, variano naturalmente di numero, posizione e reciproca di- stanza le frangie d’interferenze. Ma anche colle onde lunghe 10,6 c. è difficile osservare più di tre o quattro frangie d’ interferenza da ogni parte del piano di simmetria. Naturalmente, siccome nel caso della mia esperienza lo specchio SQ era (come nella figura) largo quanto SP e non di più, le frangie visibili al di qua del piano di simmetria A4D erano in numero minore. 14, Altra forma dell’ esperienza d’ interferenza con due specchi. Se i due specchi dell’ esperienza. di Fresnel si riducono ad essere nello stesso piano, il campo comune ai due fasci riflessi si annulla. Ma se questi fasci sì ricevono sopra uno specchio concavo che li concentri sopra un risonatore, potranno osservarsi in questo dei massimi e dei minimi d’ in- tensità, spostando uno degli specchi parallelamente a sé stesso. Questa disposizione, se non presenta l’ interesse speciale di imitare fedelmente un fenomeno ottico (salvo che non la si consideri analoga all’ apparecchio interferenziale di Fizeau), si presta però, meglio forse d’ogni altra, a fornire buone misure di lunghezze d’onda. Essa fu suggerita da Boltz- mann a Klemenciec e Czermak (1) e messa in pratica anche da Zehnder (2). Sia O (fig. ?) l’ oscillatore munito del suo specchio para- bolico S, 45, BC i due specchi piani. Le radiazioni si riflettono secondo AD, BE, CF verso lo specchio ,S' del risonatore A. Se uno degli specchi viene portato per esempio in 5, C, il fascio riflesso da questo specchio arriverà in È con fase diversa da quella del fascio riflesso da AB, e se la differenza di cammino fra i due fasci diventerà eguale ad un multiplo dispari di CÈ il risonatore cesserà di scintillare. (1) Wien Sitz. Ber. CI abth. a), pag. 935. (2) Weed. Ann. 1893, XLIX, p. 549. — 510 — I citati esperimentatori, applicando questa disposizione alla misura delle lunghezze d’ onda, non si sono preoccupati di due circostanze che possono alterare i risultati ottenuti. La prima si é che, non é possibile rendere piccolo, al di sotto d’ un certo limite, l’angolo d’incidenza sui due specchi, in causa del posto che necessariamente occu- pano i riflettori parabolici del- l’ oscillatore e del risonatore. Perciò è utile tener conto, ciò che non fu fatto sin qui, dell’an- golo d’incidenza, per calcolare la differenza di cammino dei due fasci che interferiscono. Se si indica con s lo sposta- mento dato ad uno degli spec- chi, in direzione perpendicolare al suo piano, e con i l’ angolo d’incidenza, é facile vedere che la differenza di cammino A fra i due fasci interferenti é data da A ANZI IOSTI I’ angolo : si potrà calcolare, per esempio in base alla misura dei tre lati del triangolo OBR, il cui angolo in B vale 24. La seconda circostanza degna di rimarco é la seguente. In causa dello spostamento d’ uno degli specchi, il fascio riflesso complessivo, che prima era ACDF, diventa più ristretto giacché solo le porzioni AG, B,H dei due specchi sono ora efficaci. Ciò non produce inconveniente di sorta se, come nella figura, lo specchio concavo S' del risonatore é abbastanza ampio da contenere, tanto prima che dopo lo spostamento di BC, l’ intero fascio riflesso, e se, ciò che più difficilmente si potrà ammettere, lo stesso riflettore è di forma perfetta. Ma in pratica accadrà che, onde attenuare la diffrazione, gli specchi piani saranno alquanto larghi, ed il riflettore del risonatore avrà una larghezza MN minore di quella del fascio da essi riflesso. In tal caso, se prima di muovere BC, il riflettore MM riceveva due fasci riflessi eguali, dopo lo spostamento esso riceverà assai più del fascio riflesso da BC che di quello riflesso da 45. Invece di osservare delle complete estinzioni del risonatore A, non si avranno che dei minimi di scintilla, i quali tenderanno a sparire. È: stato per togliere questa causa d’ incertezza che ho modificata la di- — Sll — sposizione di Boltzmann. Nella mia disposizione sperimentale i due specchi A, BC (fig. 8) ricevono normalmente le radiazioni riflesse dallo specchio parabolico S dell’ oscillatore O. Queste radiazioni prima di giun- gere ad essi hanno dovuto traversare una lastra di solfo DE (grossa quattro o cinque centimetri) inclinata a 45°, e dopo la riflessione sui due specchi piani le radiazioni stesse incontrano di nuovo la. lastra dielettrica, che in parte le ri- flette verso il risonatore A. Benché vi siano naturalmente delle notevoli per- dite d’ intensità dovute alla presenza della lastra di solfo, la quale non tras- mette e non riflette che in parte le radiazioni, pure 1’ effetto sul risonatore é abbastanza forte perché si possano fare delle buone misure. Spostando uno degli specchi, per esempio BC, sino in B,C,, le scintille spa- Fig. 8 riscono affatto dal risonatore se BB, é un multiplo dispari di 2 giacché la dif- ferenza di cammino fra i due fasci che si concentrano sul risonatore è evidentemente eguale a 2. B5,. Cogli apparecchi II ho potuto osservare parecchi massimi e minimi al- ternativi spostando BC verso M. I primi quattro minimi sono nettissimi ; il quinto lo è meno, e meno ancora il sesto. Il settimo poi è incerto. Ciò dimostra che ogni scarica oscillante delle due sfere dell’ oscillatore ha una durata tale da contenere almeno sei oscillazioni complete col pe- riodo proprio al risonatore (vedi $ 5). 15. Misura della lunghezza d’onda, e degli indici di rifrazione. Sia colla disposizione della fig. $ che con quella della fig. 7 (tenuto conto in tal caso dell’ incidenza i colla formola A = 2s cos î), ho misurato le lunghezze d’ onda proprie dei miei risonatori. Ripetendo più volte le misure, si tro- vano differenze fra i valori numerici alquanto minori di quelle che si ve- rificano misurando la lunghezza d’onda nel modo ordinario. Ponendo una lastra dielettrica a faccie parallele sopra uno dei due specchi piani, e spostando 1’ altro specchio, si può valutare lo spessore d’aria che corrisponde a quello della lastra, e trovare così l’ indice di ri- frazione di questa. Anche qui ho constatato che ripetendo le misure con una stessa lastra si hanno numeri meno differenti fra loro, che non quelli otte- nuti facendo più volte la misura dell’ indice per mezzo di un prisma. Per cui questo metodo d’ interferenza é bene adottarlo anche per le misure d’indici. — 512 — Può nascere qualche incertezza nella misura, in quanto che uno spo- stamento ulteriore eguale a — dello specchio mobile non altera le condi- 2 zioni teoriche d’ interferenza dei due fasci che giungono al risonatore; ma in pratica si può forse riescire a riconoscere se le due vie percorse dai fasci interferenti si equivalgono, dalla maggior vivacità che hanno allora le scintille nel risonatore, e d’ altra parte ogni incertezza sparisce se si é fatta in precedenza qualche grossolana determinazione dell’ indice di rifra- zione per mezzo del prisma. Ho adoperato appunto il metodo d’ interferenza qui descritto per mi- surare l’ indice di rifrazione della paraffina e dello zolfo. Per compensare l’ effetto d’ una lastra di paraffina grossa 4,2 c. posta sopra uno degli specchi, bisognava allontanare l’ altro di 1,8 c. Ne consegue che 4,2 c. di paraffina equivalgono a 4,2 +1,8=6 c. di aria. La lunghezza d’onda 4, DI nella paraffina sarà dunque 4, = = À, essendo 4 quella dell’aria, e l’ indice . è O À, 4,2 CO) 3 la) di rifrazione Tal nia 1,43. Analogamente trovai per lo zolfo a= 1,87 (1). 1 16. Interferenza con un solo specchio. L’ esperienza di Hertz, colla quale ottiene nodi e ventri fissi, risponde a questo titolo, ed è 1’ analoga dell’ esperienza ottica del Wiener. L’ esperienza che qui descrivo è in- vece l’ analoga di quella colla quale Fresnel ottenne le frangie d’ inter- ferenza, facendo riflettere parte delle radiazioni emanate da una sorgente luminosa lineare sopra uno specchio ad essa parallelo e sotto grandissima incidenza, e facendo interferire questa luce riflessa colla luce proveniente direttamente dalla stessa sorgente. L’ esperienza di Hertz è un caso parti- colare di quella qui descritta, e precisamente è il caso in cui l’ incidenza é nulla. In O (fig. 9) é collocato l’oscillatore II senza specchio parabolico, ed in SS' una lastra di rame verticale la cui lunghezza è 306 c. e l’ altezza 44 c. Il risonatore verticale , anch’esso privato del riflettore parabolico, ma munito della striscia di rame rinforzatrice ($ 10), può spostarsi lungo una retta BA perpendicolare allo specchio, e riceve tanto le radiazioni che arrivano direttamente da O, quanto quelle riflesse da ,SS', e virtualmente provenienti da un punto O' simmetrico ad O rispetto ad SS". Se si misurano, la distanza O0A=a fra lo specchio e l’ oscillatore, la (1) La media dei valori trovati da Schrauf (Wien. Ak. Ber. 41, p. 769) per l’ indice di ri- frazione dello zolfo rispetto alla riga B di Fraunhéòfer è 2,06. Il valore qui trovato è minore, come era a prevedersi. — 513 — distanza AB= fra questo e la retta BA, e la distanza BR=cfra il ri- sonatore e lo specchio, la differenza di cammino A delle onde che inter- feriscono in A sarà data da A=/b0+(a+c)—y/b+(cT—a), da cui pa sn SAI svga Si potranno dunque calcolare le posizioni del ri- sonatore che corrispondono a differenze di cam- À 7 34 DO CasogtatiualetMi= 1060. Come nella esperienza ottica di Fresnel, trovano i minimi nei punti pei quali A è eguale ad un numero intero di lunghezze d’onda, ed i mas- simi nei punti pei quali 4 vale un numero dispari di semionde. Anche per le onde elettriche si veri- N fica dunque una variazione di fase di mezz’ onda Fig. 9 nella riflessione, ciò che del resto risulta anche dalla esperienza di Hertz. In altri termini le frangie di interferenza, il cui mezzo é in 5, sono frangie a centro nero. Presso B diffatti il riso- natore non dà scintille, mentre dà un primo massimo di effetto in un punto la cui differenza delle distanze da O ed O' è di mezz’ onda. Nell’esperienza da me effettuata i luoghi di massimo e di minimo si trova- rono sensibilmente alle distanze calcolate. Cosi per esempio, con a = 42,4 c. b= 300 c., si aveva il primo massimo per c= 19 c. circa, il secondo mi- Md perio SIL 00 Nell’ esperienza ottica di Fresnel l angolo d’incidenza delle radia- zioni sullo specchio é necessariamente poco minore di 90°, e quindi cer- tamente maggiore della incidenza principale. Perciò l’ esperienza stessa dà sempre lo stesso risultato, sia che si adoperi luce naturale, sia che si ado- peri luce polarizzata in un azimut qualunque. Se fosse possibile vedere ancora distinte le frangie d’interferenza con un angolo d’incidenza minore dell’ incidenza di polarizzazione, il fenomeno cambierebbe. Si dovrebbero infatti ottenere in tal caso delle frangie a centro nero con luce polarizzata nel piano d’ incidenza, e frangie complementari alle precedenti e cioè a centro luminoso, con luce polarizzata perpendicolarmente al piano d’ in- cidenza. mino 4 eguali a 0, ecc., essendo nel Serie V. — Tomo IV. 65 — ‘bill Questa esperienza si può però effettuare colle radiazioni Fisegna:>> e si trova precisamente: il risultato previsto. Basta perciò disporre orizzontalmente tanto 1’ oscillatore o che il riso- natore A. Si trova allora che in vicinanza di 2 il risonatore da vivaci scintille, presenta un minimo ad una certa distanza dallo specchio, poi un secondo massimo più lungi ecc. Press’ a poco (ma non esattamente come si vedrà) i massimi e minimi del caso attuale occupano rispettiva- mente il luogo dei minimi e dei massimi che sì osservarono con oscilla- zioni verticali. Per le dimensioni degli apidarzcolii e le distanze relativamente piccole alle quali essi devono porsi onde avere effetti visibili, succede diffatti che l'angolo d’incidenza i delle radiazioni riflesse che giungono al risonatore, quasi sempre minore dell’incidenza principale. Infatti î si può calco- lare con | b ide == == a+ 7 e così sl può verificare, che salvo in qualche caso per punti vicinissimi a B, l’angolo i è sempre minore di 81°, che é il valore approssimativo trovato più avanti per l’ incidenza principale relativamente al rame. È necessario rimarcare bene l’ opposizione di effetti che si hanno presso B secondo che le vibrazioni dell’ oscillatore sono verticali o orizzontali. Nel primo caso presso B le vibrazioni si estinguono, e nel secondo si sommano. Si vedra più oltre come questo fenomeno d’interferenza può trarre in inganno allorché si studia la riflessione delle onde elettriche sui metalli. Anche una esperienza singolare, descritta da Hagenbach e Zehn- der (1), e che sembra costituire una obbiezione alla teoria di Maxwell, può essere ora spiegata. Secondo quella esperienza, una lastra metallica posta fra oscillatore e risonatore, muniti dei loro specchi parabolici ed affacciati, estingue le scintille nel risonatore, non solo quando é posta perpendicolarmente alle radiazioni, ma anche se é collocata in direzione parallela in pari tempo alle radiazioni ed all’ oscillatore. Questa estinzione evidentemente ha luogo in causa della interferenza, fra le radiazioni che direttamente colpiscono il risonatore, e quelle che lo raggiungono dopo essersi riflesse sulla lamina metallica. Può sembrare a prima giunta che questa riflessione non debba prodursi essendo le radiazioni parallele alla lastra; ma esse non possono considerarsi come rigorosamente tali, sia per (I) Wired. Ann. t. XLUI, p. 610. — lo — la diffrazione, sia per la non perfetta forma parabolica dello specchio an- nesso all’ oscillatore. Si prevede poi che nell’ esperienza di Hagenbach e Zehnder Il ri- sultato sarebbe differente, se la lastra metallica, pur rimanendo parallela alle radiazioni, venisse collocata perpendicolarmente all’ oscillatore. Infatti in tal caso le radiazioni riflesse si sommerebbero a quelle dirette, ed il risonatore mostrerebbe vive scintille. Col valore numerico adottato per 6, e cioè 6 = 300 c., occorre far uso di risonatori estremamente sensibili, onde 1’ esperienza sia possibile. Ma basta munire l’ oscillatore del suo riflettore parabolico, onde avere effetti notevolissimi anche con risonatori mediocri. Sia per imperfezioni inevitabili nella forma del riflettore parabolico, sia sopratutto per la diffrazione, ac- cade che le radiazioni emesse non costituiscono esattamente un fascio parallelo e perciò esse possono in parte riflettersi benissimo sulla la- stra SS', e dopo riflesse raggiungere il risonatore. Si è detto che i massimi ed i minimi osservati con oscillazioni oriz- zontali non occupano esattamente i luoghi dei minimi e dei massimi os- servati con oscillazioni verticali. La ragione si è che a seconda del punto della retta BA occupato dal risonatore A, il valore di i é differente, e dif- ferente perciò è pure il ritardo prodotto dalla rifiessione sulle vibrazioni À parallele al piano d’incidenza. Questo ritardo infatti cresce da 0 a 5 al- atte: À ala. lorehè 7 cresce da 0° a 90°, passando pel valore 7 allorché i è eguale sensibilmente all’ incidenza principale. IL’ aversi rilevato sperimentalmente questa non coincidenza, é dunque una riprova dell’ essere diversa, alle varie incidenze, la differenza di fase che per riflessione si stabilisce fra le vibrazioni parallele e perpendicolari al piano d’ incidenza. 17. Esperienza del biprisma. Per realizzare, colle vibrazioni elettriche, un’ esperienza analoga a quella ottica del biprisma, s'incontrano difficoltà simili a quelle rammentate nel caso degli specchi di Fresnel. Senza ri- portare le formole ed i calcoli che mi hanno guidato anche in questo caso, descriverò il biprisma che ho costruito, e l’esperienza con esso realizzata. Il biprisma é un blocco prismatico di solfo, ottenuto per fusione in uno stampo scomponibile di legno, avente la forma di prisma a base triangolare ABC (vedi la fig. 10 che rappresenta la disposizione della mia esperienza alla scala di /s). Il lato maggiore AB del triangolo ABC, che è isoscele, é lungo 70 c., mentre gli angoli A e B valgono 27°. L’altezza CD risulta quindi di circa 13,83 c. Il biprisma è alto 27 c. — 516 — Il fascio di radiazioni che sul biprisma manda l’ oscillatore (apparec- chi II) munito del suo specchio parabolico, si rifrange attraverso al biprisma, dividendosi in due fasci FCBE, GACH, che hanno in comune la regione ZCLM, la cui base ha natural- mente la forma di rombo. Le semidiagonali NL, NC delrombo sono lunghe rispettivamente 12,1 c., 20,1 c. circa, prendendo n= 1,87 come indice di rifrazione dello zolfo per le radiazioni elettriche. È nei vari punti di ZL, e cioé sopra una retta che dista circa 12 c. da C, che si collocherà sucessiva- mente il risonatore (senza riflettore parabolico) per rendere palesi le frangie d’ interferenza. In N deve osservarsi, e si osserva diffatti facendo |’ esperienza, un massimo di effetto; ad una certa distanza, da una parte e dall’ altra di N, il risonatore si spegne. Fig. 10 Più lungi ancora da N si ha un nuovo massimo. Se mentre il risonatore è nella posizione del minimo, cioè ove esso resta privo di scintille, si copre ad intervalli, me- diante una lastra metallica, o la metà AD o la metà BD della faccia grande del biprisma, le scintille ricompaiono ogni volta che la lastra inter- cetta uno dei fasci interferenti. Questa esperienza riesce oltremodo per- suasiva, almeno stando al giudizio di tutti quelli ai quali 1’ ho mostrata. CAPITOLO II. Interferenza colle lamine sottili. 18. Esperienze anteriori. Fenomeni analoghi a quelli ottici delle la- mine sottili, non furono prodotti finora in modo netto e deciso colle on- dulazioni elettriche. Soltanto Trouton (1) osservò che, mentre una lamina di paraffina di due centimetri di spessore non rifletteva sensibilmente le radiazioni elettriche (la cui lunghezza d’onda era di 66 c.), una grossa 13 e. dava una riflessione notevole. Secondo questo Autore, assumendo 1,51 come indice di rifrazione della sua paraffina, per la lamina grossa 13 c. la radiazione riflessa internamente sulla seconda faccia della lamina su- (1) Nature, t. XL, p. 398 (1889). — 517 — biva, sotto l’ incidenza di 55° alla quale operava, un ritardo di mezza onda, rispetto alla radiazione riflessa sulla prima, per cui tenuto conto della va- riazione di fase di mezz’ onda che si produce in una delle riflessioni, si stabiliva un perfetto accordo di fase fra le due radiazioni riflesse. Invece, nel caso della lamina di 2 c. doveva aversi una parziale inter- ferenza, e prodursi cosi un fenomeno analogo a quello ben noto delia macchia nera al centro degli anelli di Newton. Ammesso tutto ciò era da credersi che una lamina grossa 26 c. non avrebbe data riflessione sensibile, ma invece la riflessione ebbe luogo. Il Trouton pensò allora che il valore 1,51 dell’ indice, che altro non era che la radice del valore ammesso per la costante dielettrica di questa sostanza, non fosse esatto, e cercò determinarlo direttamente, arrivando cosi ad un altro valore, e cioè 1,8. Lamine di paraffina di spessore cal- colato in base a questo nuovo indice di rifrazione non diedero però gli effetti che se ne attendevano. Non mi consta che da altri si siano finora realizzati i fenomeni delle lamine sottili colle radiazioni di Hertz. Coi miei apparecchi i fenomeni stessi riescono benissimo, rimanendo anche in questo caso confermata la più completa analogia fra i fenomeni ottici e quelli provocati dalle onde elettromagnetiche. 19. Spessore delle lamine. Ho costruito lamine di paraffina e lamine di solfo, di spessore tale, che sotto un angolo d’incidenza di 45° esse producessero una differenza di cammino di : o di 4 fra i raggi riflessi dalle loro due faccie. Questa differenza di cammino A si calcola colla formola: == 2 Di A=?2ay//n°— sen?i, ove a è lo spessore della lamina, n il suo indice di rifrazione, ed i l’ an- golo d’ incidenza scelto, nel mio caso 45°. Siccome adoperai gli apparecchi II, pei quali si ha 4= 10,6 c., così calcolai i valori di a che davano A= 5,3 c. e A—= 10,6., assumendo per indici di rifrazione della paraffina e dello zolfo i valori 1,43 ed 1,87 deter- minati direttamente ($ 15 e $ 35). Le lamine capaci di generare una differenza di cammino di mezz’ onda riescirono grosse circa 2,1 c. quella di paraffina e 1,5 c. quella di solfo. Le lamine capaci di produrre una differenza di cammino eguale a 4, ebbero naturalmente doppio spessore, e cioè circa 4,2 c. quella di paraffina — 518 — e 3 c. quella di solfo. Chiamerò ordinatamente P,, S,, P,, .S, le quattro lamine, le quali sono rettangolari, lunghe 50 c. e larghe 25 c. La differenza di cammino fra il raggio trasmesso direttamente da una lamina e quello che ne esce dopo due riflessioni interne, ha lo stesso va- lore A. E siccome nelle esperienze ottiche, in causa del cambiamento di segno ammesso da Young quando la riflessione ha luogo sopra la superficie d’un corpo più rifrangente di quello nel quale si muove il raggio incidente, i massimi e minimi d’intensità della luce riflessa hanno luogo insieme ai minimi ed ai massimi della luce trasmessa, cosi le lamine P,,,S, dovranno dare massima riflessione e minima trasmissione, mentre le lamine P,, S, dovranno dare riflessione nulla e trasmissione massima. Le esperienze se- guenti confermano pienamente le previsioni. 20. Esperienze d’interferenza colle lamine sottili. Per queste espe- rienze, come pure per quelle destinate allo studio della riflessione e della rifrazione che saranno descritte più oltre, torna comodo far uso del so- stegno che si vede nella fig. 3 fra l’oscillatore ed il risonatore. Esso è formato da una tavoletta PQ che si può fissare sul banco MN, e dalla quale sorgono tre colonnette che reggono un disco di legno f, sul quale ne é collocato un secondo .S mobile a piacere intorno all’ asse di figura comune ai due dischi. Il contorno del disco superiore S è graduato, e per tal modo si può inclinare d’ un angolo noto il corpo collocato sul disco S (che nel caso attuale sarà una delle lamine di paraffina o di scelfo) sulla direzione delle radiazioni che emanano dall’ oscillatore. Infine, un lungo braccio 7U, mobile intorno ad un asse verticale che é sul prolungamento di quello del disco $, porta il risonatore. Questo braccio può girare, a par- tire da una direzione parallela alle radiazioni sino ad una perpendicolare. Una graduazione da 0° a 90° tracciata sulla tavoletta PQ fa conoscere la sua inclinazione. Per l’ esperienza attuale il braccio mobile 7U é messo in corrispon- denza allo 0° quando si vuol ricevere la radiazione trasmessa dalla lamina, ed al 90° quando si vuol ricevere nel risonatore la radiazione rifiessa. La lamina é collocata verticalmente sul disco ,S, col suo lato maggiore oriz- zontale, e col suo piano a 45° colle radiazioni incidenti. a) Lamine sottili per riflessione. La radiazione riflessa dalle lamine P, ed ,S, è assai intensa, mentre le lamine P, ed .S, non provocano che pic- colissime scintille nel risonatore quando questo sia estremamente sensibile. Lamine di paraffina o di solfo assai più sottili di P, ed S, non danno quasi affatto riflessione; ciò corrisponde al fenomeno ottico della macchia nera. Però ho riconosciuto che una lastra di cristallo da specchio di 6 0 — 019 — 7 millimetri di spessore produce una riflessione assai notevole, e cosi pure una lastra di vetro grossa meno di 0,2 c., ciò che si collega certamente alle altre singolarità presentate da questo corpo (vedi $ 34 e 40). Infine, se. mentre: é in posto una delle lamine. P, Ri: S, si colloca dietro gdfessaftotatlaminar®Pitotla ST isi ha effetto stesso che darebbe una lamina intera di spessore eguale alla somma dei due spessori. Una tal . lamina, grossa 6,3 c. nel caso della paraffina, e 4,5 c. nel caso dello zolfo, riflette abbondantemente le radiazioni, come fa la lastra P, o la S, da sola. Nel caso della lamina P, + P, oppure S, +, lo spessore complessivo é tale che il ritardo del raggio riflesso sulla seconda superficie, rispetto a quello. riflesso sulla prima, é d’ una onda e mezza. Si vede così che, te- nuto conto del cambiamento di segno alla prima, riflessione, i due raggi riflessi hanno fase concordante. . Una particolarità interessante risulta. da questa esperienza, ed è che se mentre la lamina $S,, per esempio, é in posto, si colloca dietro ad essa la S, e la si accosta poco a poco, le scintille nel risonatore compaiono assai prima che le due lamine arrivino a toccarsi, ed aumentano via via d’ intensità mano a mano che si diminuisce la distanza fra le due lastre. Quando sono abbastanza vicine si comportano quindi come formassero una lastra unica continua. Un’ osservazione analoga si fara più oltre ($ 37) a proposito delle espe- rienze coi prismi a riflessione totale. 6) Lamine sottili per trasmissione. Ricevendo nel risonatore la radia- zione trasmessa, si verifica pure un perfetto parallelismo col fenomeno ottico corrispondente. Infatti colle lamine P,,,S, si hanno nel risonatore scin- tille assai più deboli, che colle P,, S,. Anzi l’intensità della radiazione ricevuta dal risonatore, misurata col metodo 6) del $ 9, cioé misurando l’ angolo del quale deve farsi girare il risonatore intorno al proprio asse di rotazione onde spegnere le sue scintille, resta sensibilmente la stessa sop- primendo la lamina P, od S,. Colla lamina P, o S, l'intensità della radiazione che giunge al risona- tore è invece sensibilmente minore di quello che è sopprimendo la lastra, e ciò specialmente nel caso della lastra di solfo. Nel caso del corrispondente fenomeno ottico, l ampiezza della radia- zione trasmessa é ridotta, da una lamina di indice n e di spessore tale da en ——_.,. Per la paraffina la ridu- l+n zione d’ intensità sarebbe da 1 a 0,94 e per lo zolfo da 1 a 0,83. Questo numero concorda abbastanza con quello che si deduce dalle esperienze. Trovai infatti che per estinguere la scintilla nel risonatore senza lastra produrre il ritardo 3, nel rapporto da 1 a — 520 — interposta, occorreva una rotazione di 40°, mentre bastava una di 27° al- lorché era collocata al suo posto la lastra .S,. Il rapporto 2 che è quello delle ampiezze nei due casi, vale 0,85 numero poco differente dal valore teorico 0,83. c) Lamina sottile fra mezzi diversi. È noto che quando una lamina sottile è compresa fra due mezzi trasparenti tali che uno abbia l’indice minore e l’ altro maggiore di quello della lamina, il fenomeno ottico é in- vertito. Si osservano, per esempio, anelli di riflessione a centro bianco anziché anelli a centro nero. Una lamina di paraffina posta fra aria e solfo deve dare, è dà diffatti, fenomeni inversi a quelli che dà quando é circon- data dall’ aria. Cosi, se mentre si riceve nel risonatore la radiazione riflessa dalla la- stra P,, si colloca dietro di essa una lastra di solfo, le scintille nel riso- natore, che prima erano vivaci, scemano grandemente o spariscono. Invece, se dopo aver constatato la minima o nulla riflessione che pro- duce la lamina ?P, si colloca al di dietro di essa una lastra di solfo, subito sì veggono apparire scintille assai vive nel risonatore. Si possono fare altre esperienze colle lamine sottili, le quali riescono sempre conformemente alla previsione basata sull’ analogia ottica, ma quelle qui descritte mi sembrano sufficienti. CAPITOLO III. Fenomeni di diffrazione. 21. Disposizione generale delle esperienze. Nella 2.* delle Note citate ho già pubblicato un cenno di esperienze, le quali mostrano la produzione di fenomeni analoghi ai principali fenomeni di diffrazione. In quelle prime esperienze adoperai apparecchi con lunghezza d’ onda di circa 20 c.; ma ho riconosciuto dopo che le esperienze stesse riescono anche meglio con lunghezze d’ onda minori. Perciò mi limiterò a render conto di una serie di esperienze eseguite cogli apparecchi II. È. nota la spiegazione elementare che si dà dei fenomeni di diffrazione ricorrendo alla così detta graduazione dell’onda. Nelle mie esperienze ho cercato appunto di realizzare la divisione d’ un’ onda in elementi, onde — 521 — operare diversamente su questi a norma della esperienza da eseguire. La forma dell’ oscillatore e del risonatore suggerisce naturalmente di consi- derare il caso d’ un’ onda cilindrica, caso che è in pari tempo il più sem- plice possibile. Ho quindi cominciato col preparare un tracciato grafico ‘rappresentante una sezione trasversale dell’ onda cilindrica, e su questo tracciato ho poi collocati, diversamente nei vari casi, i necessari diaframmi. _ Sopra un gran foglio di carta steso sopra un tavolo ho segnato due punti O ed R, lontani 140 c. fra loro (fig. 11, scala /4,) ed un arco di cerchio FAF' di 75 c. di raggio col centro in O. Su questo arco ho se- gnati alla destra di A i punti 5, C, D... tali che le loro distanze da È superino sucessivamente RA di una, due, tre... mezze onde, e sulla si- nistra di A i punti B', C', D'... determinati nella stessa maniera. Verticalmente su O, e a circa mezzo metro d’ altezza, trovasi 1’ oscil- latore. Verticalmente su / ed alla stessa altezza stà il risonatore. La su- perficie cilindrica, di cui l'arco FF' è la trac- cia, sarà dunque la porzione d’un’onda ema- © | nata dall’oscillatore, considerata come di forma I cilindrica nella sua parte efficace, e le striscie verticali limitate dalle generatrici che hanno le traccie in B, C, D... B'C'D'... saranno pre- cisamente gli elementi dell’onda graduata. Per semplicità indicherò in quel che segue coi numeri 1, 2, 3..., questi elementi a partire dalla generatrice A, distinguendo poi con un accento quelli di sinistra. Per l’ esecuzione delle esperienze occor- rono altresi vari diaframmi metallici di forma rettangolare e fissati verticalmente su appositi piedi. Questi diaframmi, che sono di zinco ed alti circa un metro sono larghi precisamente come i vari elementi dell’ onda, di guisa tale {°° Fig.il che, se si collocano tutti in posto sugli ele- menti corrispondenti, sì viene a dar forma materiale all’ onda FY', la quale risulterà costituita da una lastra di zinco divisa in striscie verticali se- condo le verticali passanti per B, C, D ecc. Tanto l’ oscillatore che il risonatore devono essere adoperati senza il solito riflettore parabolico. Però é vantaggioso porne uno assai stretto al risonatore, o una semplice striscia di rame, onde aumentarne la sensibilità {vedi $ 10). Converrà però cambiare spesso il risonatore, giacchè occorrerà sempre adoperarlo colla sua massima sensibilità. Dirò una volta per tutte che in tutte le esperienze di questo capitolo Serie V. — Tomo IV. 66 e — 522 — l’ oscillatore si dispose col suo asse verticale, e che collocandolo invece orizzontalmente non si variarono gli effetti in modo sensibile. 22. Esperienza del diaframma di Fresnel. Nella spiegazione geo- metrica dei fenomeni di diffrazione si dimostra che gli elementi 2, 4,... 2', 4'... dell'onda inviano in A delle onde elementari che interferiscono con quelle.emanateridagli.elementisid;i 3}103 6,9, Hire sele tardi Billet (1), costruirono un diaframma opaco che collocato fra la sorgente luminosa O ed il punto R ove si osservava l'illuminazione da quella prodotta, copriva gli elementi d’ ordine pari 2, 2'..., ed ottennero con ciò il preveduto aumento d’ intensità in R. L’analoga esperienza elettromagnetica riesce in modo perfetto. Osservate le scintille nel risonatore posto in , e girato quest’ uliimo intorno al proprio asse dell’ angolo necessario ad estinguerle, onde avere idea della intensità delle oscillazioni ($ 9, 6), si collocano due dei dia- frammi metallici in corrispondenza di 2 e 2'. Immediatamente l’ effetto in R risulta notevolmente accresciuto, e se si vuol di nuovo estinguere la scin- tilla nel risonatore, conviene girarlo d’ un angolo maggiore di prima. Se si aggiungono anche i diaframmi in 4 e 4', si osserva nettamente un ulteriore aumento nelle oscillazioni elettriche del risonatore. Colle distanze scelte, l’ effetto dei diaframmi 6, 6' non è sensibile. 23. Diffrazione prodotta da una fenditura. È noto che nel fenomeno ottico di diffrazione prodotto con una stretta fenditura, si ha nel mezzo del fenomeno intensità massima o minima, secondo che la fenditura la- scia liberi sull'onda un numero dispari o pari di elementi, e che ai lati di quel massimo o minimo esistono rispettivamente due minimi o due mas- simi, ai quali altre alternative d’ intensità possono seguire. Si collochino i diaframmi in 4, 5, 6... 4', 5‘, 6,... e cioé si lascino liberi i primi tre elementi dell’ onda da ogni parte del polo. L’ effetto in R sarà accresciuto. Spostando il risonatore lateralmente, lungo un arco di cen- tro O, onde non variare la sua distanza dall’ oscillatore, si trova. da ogni lato una posizione nella quale la scintilla è assai affievolita. Continuando però lo spostamento del risonatore le scintille in esso tornano ad aumen- tare, sinché si raggiunge un massimo marcatissimo, nel quale anzi le oscil- lazioni del risonatore sono più intense che quando è in A. Si ha dunque un massimo d’ effetto in R e due minimi dalle due parti seguiti da due massimi; in altri termini si riconosce l’ esistenza di frangie di diffrazione. (1) Traîté d° Optique physique, t. I, pag. 104. — 523 — Le posizioni dei minimi sono sensibilmente quelle previste dalla teoria, e cioé tali che relativamente ad esse si trovino circa due soli elementi liberi dell’ onda da una parte del rispettivo polo e circa quattro dal- l’ altra. Si può anzi, senza spostare il risonatore, realizzare sensibilmente lo stesso minimo, ponendo i diaframmi in 3, 4, 5... ed in 5', 6°... A ri- gore però la larghezza della fenditura diffrangente non è in tal caso esat- . tamente la stessa che nel caso in cui si sposta il risonatore. Cosi pure si dica per la posizione dei secondi massimi, che sono in luoghi tali che, graduando l’ onda rispetto ad essi rimane circa un solo elemento da una parte del polo e circa cinque dall’ altra. Anche questo caso si può ottenere quasi identico senza spostare il ri- sonatore ponendo diaframmi in 2, 3, 4, 5..., ed in 6', 7... Nel mezzo del fenomeno di diffrazione si ha qui un massimo. Per ot- tenere un minimo nel mezzo, ciò che corrisponde al caso dell’ ombra nel centro dell’ imagine di diffrazione data da una fenditura sottile, bisogna che la fenditura sia larga da C a C' oppure da E ad E' ecc. Si pongano ‘infatti i diaframmi su 3, 4, 5... 34, 4, 5°... In AR le scin- tille spariranno; ma diverranno vive spostando sufficientemente il risona- tore a destra o a sinistra. Anche in tal caso le posizioni dei massimi sono sensibilmente quelle volute dalla teoria. Il fenomeno ottenuto con fendi- tura CC' è dunque veramente simile a quello delle frangie di diffrazione a centro nero Se la fenditura è larga solo da B a B' non si hanno più massimi e minimi. Lo stesso, come si sa, accade in ottica con fenditura estremamente ristretta. L’ intensità in A è maggiore che quando si tolgono tutti i dia- frammi, come appunto era a prevedersi. 24. Diffrazione prodotta dall’ orlo di un corpo opaco. Altri feno- meni di diffrazione. Si copra coi diaframmi l’ arco AF, oppure si collochi un grande diaframma metallico, terminato a sinistra secondo la verticale in A, e che si estenda di molto verso destra. L’ intensità della radiazione in A sara ridotta assai. Spostando però il risonatore verso sinistra, sì osserverà nettamente un massimo a qualche distanza. Questa distanza è tale che graduando l’ onda rispetto alla nuova posizione del risonatore rimane un solo elemento alla destra del nuovo polo. La diminuzione, che pei vari noti motivi ha luogo, degli effetti che produ- cono in Ri successivi elementi 1, 2,... dell’ onda, è così rapida, che certi altri fenomeni di diffrazione non si possono facilmente realizzare. Tale é il caso, per esempio, della diffrazione nell’ ombra d’una striscia opaca. L’ esperienza seguente merita di essere descritta, non già perché simile — 524 — ad una delle esperienze ottiche note, che anzi la sua analoga colla luce sarebbe non facile ad effettuarsi, ma perché serve a chiarire certi feno- meni di cui si parlerà più avanti. Lasciando fisso in A il risonatore, si .collochi uno dei diaframmi di zinco, per esempio quello largo come l’ elemento 5, successivamente in varie parti dell’onda. A questo scopo si fisserà la base del diaframma. sopra un regolo mobile sul tavolo intorno ad un pernio fissato nel punto O. È chiaro che a seconda che il diaframma mobile si troverà o in uno degli elementi d’ ordine dispari, 1, 3, 5... o in uno d’ordine pari, 2, 4... esso dovrà produrre diminuzione oppure aumento di effetto in A. Ciò si verifica benissimo. Spostando lentamente il diaframma da A verso £, si vedono le scintille nel risonatore ora deboli o nulle, ed ora più vivaci che senza diaframma, e quest’ ultimo fatto si osserva appunto quando il diaframma è in 2, 4,... 25. Fenomeni speciali prodotti da masse dielettriche. Studiando la trasmissione delle radiazioni attraverso diversi corpi, ebbi occasione di os- servare alcuni fatti singolari, che per molto tempo rimasero per me indeci- frabili, ma che ora ritengo abbiano attinenza alla diffrazione, come pure al fenomeno delle onde secondarie di cui tratterò più oltre (Cap. VII. Se fra il risonatore e l’ oscillatore si colloca un corpo dielettrico di di- mensioni non troppo grandi si osservano i seguenti fenomeni. Se il dielettrico é un blocco di paraffina e lo si meite in linea retta fra l’ oscillatore ed il risonatore, notasi subito in questo un sensibile, spesso anzi notevole, aumento delle scintille, aumento che sparisce togliendo il dielettrico. In modo simile si comportano l’ ebanite, il legno d’ abete, 1’ olio d’uliva e la benzina (posti in un recipiente di legno, di ebanite o di vetro sottile). La gomma lacca, e la colofonia danno 1’ effetto in modo incerto. Se si sposta lateralmente il dielettrico in modo da allontanarlo dall’ asse del fascio di radiazioni, si raggiunge presto. una posizione, stando nella quale il dielettrico stesso produce una evidente diminuzione nelle scintille del risonatore. Spostandolo ancora di più può notarsi un nuovo aumento d’ effetto nel risonatore. Questo fenomeno si ottiene con tutti i dielettrici nominati dianzi, anche colla gomma lacca, e la colofonia. Le cose cambiano affatto per altri dielettrici. Per esempio col vetro da specchi si ha diminuzione notevole delle scintille nel risonatore, allorché esso trovasi posto in linea retta fra i due apparecchi, ed aumento invece quando viene spostato lateralmente di una certa quantita. Lo stesso risultato dà l’ alecol posto in un recipiente di vetro, mentre collo zolfo si hanno risultati incerti, poiché qualche volta esso sembra com- — 90 — portarsi come il vetro e qualche volta invece debolmente alla maniera della paraffina (a). È comodo disporre l’ esperienza nel modo seguente. In O (fig. 12) sta l’oscillatore (apparecchio II) munito del suo specchio parabolico, e ad una distanza d’un metro o due il risonatore &, munito di listerella di rame o di riflettore strettissimo ($ 10). Fra O ed Asi colloca il cilindro C' formato dal dielettrico che si studia. In generale tali cilindri avevano 4 c. di dia- metro ed erano lunghi una trentina di centimetri. Il piede del sostegno sul quale è posto il cilindro può scorrere fra due guide secondo una direzione perpendicolare ad OA. Una scala a millimetri posta su una delle guide, serve a determinare la distanza CC' fra l’asse del cilindro e la retta OR. Siccome poi si può misurare anche CA, cosi può calcolarsi C'A. Un altro modo di sperimentare è il seguente. Si adoperano gli apparecchi disposti come per le esperienze di diffra- zione (fig. 11), ed il cilindro dielettrico si colloca sopra vari punti del- l'arco FF', facendolo portare dal regolo girevole intorno ad O già ado- perato nell’ ultima esperienza del $ 24. Anche in questo modo torna facile misurare la distanza fra il cilindro ed il risonatore. Anzi in realtà la disposizione della fig. 12 non è che un caso particolare di quella della fig. 11, giacché si può considerare il piano CC' della fig. 12 come una delle superficie d’ onda che partono dal riflettore dell’ oscillatore O, onde che appunto devono essere piane. a) Cominciamo dal caso in cui spostando il cilindro da C verso C' le scintille diminuiscono sino a ridursi ad un minimo (caso della paraffina, eba- nite ecc.). Raggiunto questo minimo, misuravo la distanza CC'. Siccome mi era già nota la CA, poteva calcolare C'A. Or bene, la differenza C'R—- CR della distanza di A da C e C' fu sempre assai prossima a 2,65 c. cioé ® 4° anche variando entro larghi limiti la distanza CA. Si può dunque ri- lemceeegfehe C'RT_-CR= 5: (a) Nella seconda delle Note citate in principio misi anche la gomma lacca nello stesso gruppo col vetro; ciò feci tenendo conto solo di una parte dei fenomeni qui descritti, i soli che allora conoscessi. — 3526 —- Aumentando assai la distanza fra il cilindro e la retta OA si trova una nuova posizione per la quale si osserva un massimo di scintille in A. In questo caso dalle misure si ricava sensibilmente: c'R— CR=34. 5) Nel caso in cui spostando il cilindro da C le scintille nel risona- tore aumentano (caso del vetro), la posizione C' del cilindro, per la quale le scintille in A sono massime, é tale che si verifica sensibilmente la relazione À Allorché si ha invece C'R— CR=all'incirca a 4, le scintille tornano ad essere deboli nel risonatore. c) Una disposizione inversa alla a) é il seguente. Due grandi lastre di paraffina (grosse circa 4 c.) sono disposte verticalmente in modo che fra esse rimanga un intervallo d’aria di 4a 6 c. di larghezza. Il sistema delle due lastre si fa scorrere lungo CC' (fig. 12), oppure, colla disposizione della fig. 11, lo si fissa sul regolo girevole intorno a O, in guisa che il piano delle lastre sia tangente all’ onda cilindrica. Nell’ un modo o nel- l altro l’ intervallo fra le due lastre può trovarsi in linea retta fra O ed A, oppure occupare sull’ onda una posizione laterale. Se, posto l’ intervallo fra le lastre in linea retta fra O ed A, si spo- stano le due lastre lateralmente, le scintille in A aumentano di splendore. L’ esperienza però non si presta a misure, giacché, quantunque le scin- tille brillanti si presentino allorché la distanza fra il risonatore e 1° intervallo È SA, Les i d’aria ha ricevuto un aumento di -, pure esse restano sensibilmente in- 4 > À i PE dopo di ché scemano qualche poco di splendore. Se non fosse questo lento variare delle scin- tille colla posizione occupata dall’ intervallo d’aria si potrebbe forse dire che il fenomeno in questo caso c) è inverso che nel caso a). variate, sinché il detto aumento diventa eguale a d) Si sostituiscano delle lastre di vetro da specchi a quelle di paraf- fina dell’ esperienza c). Siccome non avevo lastre abbastanza grosse ne sovrapposi quattro per parte in modo da formare uno spessore comples- — 587 — sivo di circa tre centimetri. Il risultato che osservai non è, come era da aspettarsi, inverso a quello del caso 2). Invece è quasi identico a quello del caso precedente. Infatti, quando l’ intervallo fra le lastre è in linea retta con O ed A le scintille sono deboli, ma crescono allorché si spostano le lastre, raggiungendo un massimo allorché la distanza fra l’ intervallo d’aria ed il risonatore ha aumentato di È. dopo di che, se si continua lo spo- stamento delle lastre, le scintille decrescono molto lentamente. Questi fenomeni, e specialmente a) e 6), sì producono naturalmente anche quando non è ad essi che si presta attenzione, e perciò possono generare errori. Cosi per esempio se si vuol concentrare la radiazione con una lente convergente di paraffina, e se questa non é abbastanza grande, essa produce l’ effetto a), e cioé un aumento delle scintille, che a torto si at- tribuirebbe alla rifrazione, e che ad ogni modo deve alterare i risultati che senza di ciò produrrebbe la lente. 26. Tentativo di spiegazione dei precedenti fenomeni. Nella Nota preventiva (la seconda di quelle citate in principio) proposi una spiega- zione basata sulla diffrazione. Allora non conoscevo che ii fenomeno @a) ed imperfettamente i fenomeni d) e c). I risultati un poco più completi che oggi posseggo, richiedono che quella spiegazione venga modificata. La spiegazione che espongo a titolo provvisorio, quantunque mi sembri ancora incompleta, si basa, non solo sulla diffrazione, ma anche su un fenomeno speciale di risonanza che verosimilmente si produce nei dielet- trici. Si vedrà più oltre (Cap. VII) come un risonatore in azione si com- porti alla maniera di un oscillatore, e cioé generi all’ intorno delle onde elettriche, la cui fase, allorché giungono in un dato punto, è opposta alia fase che hanno nello stesso punto le ondulazioni che ivi giungono diret- tamente dall’ oscillatore, dato che la via da esse percorsa dall’ oscillatore al risonatore e poi da questo al punto considerato, sia di eguale lunghezza a quella percorsa dalle onde dirette, dall’ oscillatore al punto medesimo. Sembra naturale il supporre che un fenomeno simile avvenga in un qualunque dielettrico di potere induttore maggiore di quello dell’ aria in cui è immerso (a). Forse anche si produrrà nell’ aria stessa, ma per sem- plicità terremo conto solo dell’ effetto relativo, come se nell’ aria il detto fenomeno non esistesse. Perciò si ammetterà che: a) Allorché si applica il principio d’ Huyghens al calcolo dell’ effetto che un’onda produce in un dato punto, se una parte dell’onda è occupata da (a) Tale ipotesi fu fatta anche da Trouton (Phel. Mag. XXIX, g. 274). = 9R6 — un dielettrico solido, si dovrà aggiungere all’effetto che darebbe l’ onda intera, nel caso in cui fosse tutta nell’aria, l’ effetto prodotto da quella specie di risonanza nel dielettrico, e non si dovrà dimenticare la differenza di fase eguale a 7, cioè corrispondente ad una mezza onda, delle onde addizio- nali provenienti dal dielettrico. 8) D’ altra parte è noto che nell’ applicazione del principio d’ Huy- ghens al calcolo dell’ azione di una onda luminosa, é necessario supporre che le onde elementari provenienti dai singoli punti dell’ onda considerata abbiano un anticipo di fase di > come se il cammino che percorrono le onde elementari per giungere al punto rispetto al quale si calcola 1’ azione dell’ onda intera, fosse minore del vero della quantità È (PERroon cercò di spiegare questo anticipo di fase, partendo dalle espressioni date da Hertz per le forze elettriche e magnetiche all’ intorno d’un oscillatore rettilineo (2), supponendo che le stesse espressioni siano valide anche quando le onde hanno per causa delle oscillazioni elettriche eccitate in un dielettrico. y) Infine terrò conto del fatto, che verrà messo. in rilievo più oltre ($ 40), e che si collega all’ altro della forte riflessione prodotta da lamine di vetro sottili ($ 20, a), e cioé che si ha una notevole diminuzione d’ in- tensità nelle radiazioni che traversano una lamina di vetro, come se questo corpo producesse assorbimento. Con queste premesse si spiegano bene le esperienze a), d) e c). Quanto alla d) si trova che almeno non contraddice decisamente alla spiegazione. Esperienza a). Sia (fig. 13) £ il risonatore AB un’onda che non lo ha ancora raggiunto, C' il polo di questa rispetto ad A. Si può supporre l’ onda cilindrica, come nel caso della fig. 11, o piana come SIR a: nel caso della fig. 12. Se un dielettrico, per esempio Hi n un bastone di paraffina, trovasi sull’onda in C' | l’azione totale dell’onda in AR si comporrà : 1.° del- l’azione che si avrebbe ove il cilindro non esistesse ; 2.° dell’azione supplementare dovuta al fatto che in C' si ha la paraffina al posto dall’ aria. Se si prende i come unità l’ ampiezza dell’ oscillazione risultante in e R allorché non esiste il cilindro di paraffina e si (1) Vedi per esempio: Mascart, Trazté d’ Optique, t. 1, pag. 250. (2) Wied. Ann. 36, p.1, 1888. « Untersuchungen ueber die Ansbreitung der elektrischen Kraft » Leipzig 1892, p. 147. =I0299= indica con a quella dell’oscillazione in A dovuta alla risonanza nella paraf- fina, l’intensita in A colla paraffina a posto sarà (per la regola di Fresnel) 1+a°+2acos$, indicando con @ la differenza di fase della. parte supplementare che ag- giunge il dielettrico solido. La quantità « sarà a ritenersi minore di 1. Supponiamo che la paraffina si trovi in C. In tal caso @ si riduce all’ an- ticipo di fase 5 (8) ed alla differenza di fase 7 (a). Dunque cosg=0, e l’ intensità si riduce ad 1+ a°. La presenza del dielettrico in C aumenta dunque le scintille in A, giac- ché senza di esso l'ampiezza dell’oscillazione sarebbe 1. In secondo luogo supponiamo che il dielettrico sia in un punto C' tale che C'R—_ cr=f. Il maggior cammino C'A — CA delle onde provenienti da C' compensera l’anticipo di fase 8), e perciò resterà solo la differenza di fase a), e sì avrà cosp=—1 e per l’intensità: 1+a°—2a=(1— a). L’ effetto in A è dunque minore che in assenza del dielettrico. Se poi C'R—- DRZTA sì ha evidentemente cos@=1, e l’ intensità diviene 1+a°+2a=(1+a), che è maggiore, non solo di quello che è in assenza del dielettrico, ma anche maggiore che quando esso si trova in C. Esperienza 6). Per spiegare il comportamento del vetro, si può sup- porre che il fenomeno che si produce nel caso a) esista, ma venga ma- scherato dall’ indebolimento che il vetro produce sulle radiazioni che lo attraversano. Esaminerò dunque le conseguenze di questa diminuzione di intensità. i Se nelle esperienze ottiche di diffrazione si sostituissero ai diaframmi dei corpi semplicemente meno trasparenti dell’aria ambiente e di egual indice di rifrazione, i fenomeni stessi non sarebbero modificati che nella loro intensità. Infatti essi diverrebbero la sovrapposizione, 1.° del fenomeno or- dinario di diffrazione prodotto con una intensità di luce eguale a quella assorbita dai diaframmi semi-trasparenti, e 2.° dell’ illuminazione prodotta Serie V. — Tomo IV. 67 — 530 — da una intensità luminosa eguale a quella che esce dai diaframmi stessi. Però ove il corpo assorbente abbia un indice maggiore di quello dell’aria, bisognerà tener conto del ritardo da esso prodotto, il quale darà per con- seguenza uno spostamento dei minimi e dei massimi; ma questo sposta- mento sara assai piccolo se il detto corpo essendo assai sottile non pro- duce che un ritardo di piccola frazione di lunghezza d’onda. Analogamente, se nelle esperienze elettriche di diffrazione descritte nei primi paragrafi di questo capitolo, si sostituiscono lastre di vetro alle lastre metalliche, non si avrà altra modificazione che di rendere i minimi meno differenti dai massimi. Cosi avverrà in particolare per l’ ultima esperienza del $ 24. Se invece della lastra mobile di zinco si adopera una lastra od un bastone di vetro di tal larghezza da poter coprire una delle striscie elementari A, BC, CD... della fig. 11, si avrà un minimo in A quando la lastra copre le striscie 45, CD, ed un massimo quando copre BC, DE.... Se la lastra metallica o di vetro non ha sufficiente larghezza, non si può prevedere in qual porzione di 425 debba collocarsi per produrre il massimo indebolimento, ed in qual porzione di BC per dar luogo al mas- simo aumento delle scintille in f. i Ma rifacendo l’esperienza del detto $ 24 mettendo in posto della lastra di zinco un tubo metallico grosso quanto il cilindro di vetro della espe- rienza 6), si trova che il maggior indebolimento si ha quando il tubo é in A o poco oltre, ed il maggior aumento delle scintille quando è in B o assai presso. Ora é questo appunto quanto si osserva nell’ esperienza 5) col ci- lindro di vetro. Dunque il fenomeno 5) é un fenomeno di diffrazione nel quale il vetro si comporta come corpo assorbente. Esperienza c). In questo caso il dielettrico, per esempio paraffina, oc- cupa tutta l’ onda 45, ad eccezione di un certo intervallo verticale ove trovasi invece l’ aria. Sia 1 l ampiezza dell’oscillazione in A dato che l’ intervallo d’ aria non esista; ma quando esso esiste, bisogna tener conto della circostanza che in esso non si producono le oscillazioni di risonanza, le quali sareb- bero atte a produrre in A l’ ampiezza da. L’ intensità in A sarà dunque 2 l4a —acosp, dicendo $ la differenza di fase delle vibrazioni in XA provenienti dall’ in- tervallo d’aria rispetto alla vibrazione risultante dell’ onda intera. Ciò posto supponiamo dapprima che l’intervallo d’aria si trovi in € aa (fig. 13). La differenza di fase @ sarà # in virtù di a) e 3 in virtù di 6); quindi cosg@ = 0 e l'intensità in A sarà 1+0a°. Se in secondo luogo l’intervallo d’ aria è in C', e siha C'RA— cr=É, allora questo ritardo compensa l’ anticipo di fase 8), e si ha cosgp=— 1, e per l’ intensità in A les gP 2 Dunque l’ intensità è massima quando é soddisfatta la condizione C'R_RC= È . Se si avesse C'R— CR= - A, allora sarebbe cosg=1 chisgimvensitva ini be: l+4a'—2a sarebbe minima, anche minore di quando l’intervallo d’ aria é nel polo C dell’ onda. Come vi vede, l’ esperienza c) resta spiegata nella sua più spic- cata particolarità. Se 1’ esperienza non corrisponde più esattamente nei suoi dettagli colla spiegazione, ciò può in parte attribuirsi al ritardo subito dalle radiazioni attraversando la paraffina. Questo ritardo nel caso del- i, SIE: 1 (TELL l’ esperienza c) era di circa 6 d’ oscillazione. Esperienza d). Infine nell’ esperienza d) predomina 1’ effetto di risonanza nel vetro, forse perché la massa di vetro impiegata é qui notevolmente maggiore che nel caso della esperienza 5). L’ esperienza d) è dunque iden- tica alla c), salvo che mentre il massimo di scintille dovrebbe prodursi quando l’ intervallo d’ aria è in un punto C' (fig. 13) tale che C'R— CR= ; Messo ha luogo quando c'r—cr=3. A ciò forse contribuisce la riflessione sull’ orlo delle lastre di vetro. L’ esperienza d) non si può dunque spiegare completamente; ma al- meno da essa non risulta nulla che contraddica alla spiegazione generale. Può darsi che questa spiegazione, naturalmente incompleta e provvi- soria, dei singolari fenomeni descritti nel paragrafo precedente, possa su- bire delle modificazioni, ma credo che nelle sue linee generali renda conto dei fatti osservati. — 532 — Quanto all’ analogia fra questi fenomeni con fenomeni ottici, é chiaro che questi ultimi non possono facilmente realizzarsi, stante la necessità che si avrebbe di adoperare corpi di dimensioni estremamente piccole. CAPITOLO IV. Riflessione. 27. Leggi della riflessione. Che le onde elettriche si riflettano come le onde luminose, obbedendo alle stesse due ben note leggi, risulta dalle esperienze originarie di Hertz, eseguite con lastre piane metalliche op- pure con reticoli di fili paralleli, come pure implicitamente dall’ effetto che producono i riflettori parabolici. Un’ esperienza che mostra il fatto in una maniera più evidente, giacché é analoga a quelle che si sogliono ripetere nei corsi per mostrare la ri- flessione del suono e del calor raggiante, è la seguente. Ho preso i due specchi sferici concavi di metallo, adoperati nelle le- zioni per la riflessione del suono e del calore, i quali hanno 44 c. di diametro e 18,6 c. di distanza focale, e collocati di fronte a cinque o sei metri di distanza, ho disposto nel fuoco di uno di essi l’oscillatore II e nel fuoco dell’ altro un risonatore II. Quest’ ultimo mostra delle scintille assai vivaci, che spariscono interpo- nendo fra gli specchi una lastra di metallo o il corpo dello sperimentatore. Si può anche eseguire un’ esperienza di riflessione mettendo gli assi dei due specchi concavi in modo che formino un angolo, e collocando al ver- tice di questo una lastra piana normale alla sua bisettrice. Non appena si allontana la lastra dalla sua giusta orientazione spari- scono le scintille nel risonatore. La lastra piana riflettente può essere me- tallica, o dielettrica, purché in tal caso abbastanza grossa. Una di vetro da effetto notevole anche se sottile, come si disse nel $ 20 a. In conclusione, gli specchi sferici potrebbero sostituirsi a quelli cilin- drici ordinariamente annessi agli oscillatori ed ai risonatori. Se si segui- tera a dare la preferenza a quelli cilindrici, sarà dunque solo per la facilità della loro costruzione. Se dallo studio geometrico della riflessione si passa allo studio fisico della medesima, e cioè se anziché occuparsi della sola direzione delle ra- diazioni riflesse si vuol studiare anche quale sia la loro intensità nei vari — 533 — casi e la direzione delle loro vibrazioni, é a prevedersi che si avranno per mezzo delle onde elettriche fenomeni analoghi a quelli prodotti dalla luce polarizzata, giacché le radiazioni elettriche generate dagli ‘oscillatori sono per loro natura polarizzate. Le esperienze in proposito devono essere in grado di fornire, o meno, una conferma diretta della teoria elettromagnetica della luce, secondo la quale il piano di polarizzazione deve essere parallelo alla direzione della forza magnetica e perpendicolare a quella della forza elettrica. In altri termini, assumendo con Fresnel come direzione delle vibrazioni in un raggio polarizzato, quella perpendicolare al piano di polarizzazione, si deve trovare che la direzione della forza elettrica deve corrispondere alla dire- zione delle vibrazioni dell’ etere nella teoria di Fresnel (Vedi Nota in fine della Memoria). Tratterò separatamente della riflessione sui metalli, e di quella sui die- lettrici, cominciando da quest’ ultima. 28. Riflessione sui dielettrici. Disposizione delle esperienze. Alcune esperienze di riflessione delle onde elettriche sui dielettrici furono fatte da Trouton (1) e da Klemenciec (2). Il primo, facendo riflettere le radia- zioni obbliquamente sopra un muro di circa un metro di spessore, trovò confermata la prevista esistenza di un angolo di polarizzazione. Il secondo studiò la riflessione sopra una lastra di solfo, e trovò lo stesso fenomeno. Però non ottenne in generale buon accordo fra i suoi risultati e quelli calcolati colle formole di Fresnel. Cogli apparecchi II si può comodamente studiare la riflessione, in con- dizioni più vantaggiose, in quanto che il fascio di radiazioni emesso dallo specchio annesso all’ oscillatore ha una larghezza di 6 a 7? volte la lun- ghezza d’ onda, ed una lastra dielettrica riflettente che utilizzi tutto il fascio, non acquista perciò dimensioni eccessive. Converrà però porre mente ad una circostanza sulla quale si é sorvolato, e cioè che se la lastra dielet- trica è a faccie parallele e non abbastanza grossa, la riflessione sulla se- conda faccia e le riflessioni multiple interne possono alterare i risultati. Per le esperienze di riflessione, la superficie riflettente viene collocata sulla piattaforma girevole S (fig. 3) in modo che sia verticale e perpendi- colare al fascio di radiazioni che proviene dallo specchio BC allorché sulla graduazione tracciata sul disco S si legge lo zero. Inoltre si porrà il dielettrico a tale altezza che resti metà al disopra e metà al disotto del piano orizzontale passante per l’ asse di rotazione dell’oscillatore. Il riso- (1) Nature, XXXIX, n. 1008, p. 393. (2) Wiener Beriehte, januar 1891, p. 109. — 534 — natore, anziché essere collocato ove lo mostra la fig. 3, sara posto sul braccio mobile TU. Converrà avere gran cura onde le radiazioni dirette non agiscano sul risonatore allorchè, l’ angolo d’ incidenza essendo assai grande, il risona- tore è quasi rivolto verso l’ oscillatore. Perciò le distanze fra l’ oscillatore e il corpo riflettente e fra questo ed il risonatore si faranno le più grandi possibili, compatibilmente colla sensibilità del risonatore, e immediatamente prima della lastra riflettente si collocherà un largo diaframma metallico con una apertura circolare di 20 a 30 c. Girando la piattaforma .S si da all’ angolo d’ incidenza i il valore che meglio piace, e per ricevere nel risonatore la radiazione riflessa, si colloca il braccio 7U in modo che faccia, colla direzione delle radiazioni inci- denti, un angolo eguale a 180° — 2i, che si leggerà sulla graduazione trac- ciata sulla base PQ. Facendo poi girare l’ oscillatore intorno al proprio asse, e leggendo la sua posizione sull’ annesso cerchio graduato, si potrà far si che le vibra- zioni incidenti sieno o perpendicolari al piano d’incidenza, o parallele a questo piano, o inclinate d’ un angolo qualunque. In complesso | apparecchio si adopera come il noto apparecchio di Ja min per lo studio della riflessione della luce polarizzata. 29. Esperienze intorno alla riflessione sopra i dielettrici. Coll’appa- rato descritto ho studiato la rifiessione sullo zolfo, la paraffina ed il vetro. Nel caso dello zolfo la superficie riflettente era una delle faccie di una lastra di solfo prismatica. Le radiazioni riflesse internamente non potevano cosi sovrapporsi a quelle studiate ed alterare i risultati. In un’ altra serie di esperienze ho fatto rifiettere la radiazione sulla faccia maggiore del biprisma descritto nel $ 17. Anche per la riflessione sulla paraffina ho fatto uso d’un blocco pri- smatico, oppure del grande prisma a base trapezoidale che sarà descritto nel $ 38. L’ intensità della radiazione riflessa é notevolmente più piccola che collo zolfo, come é naturale pel minor indice della paraffina. Infine ho esaminata la riflessione operata da una lastra di vetro da specchi a faccie parallele grossa circa 0,7 c. Quantunque così sottile, una lastra di vetro dà una energica riflessione, mentre una altrettanto sottile di paraffina o di solfo non produce che una riflessione debolissima, in causa dell’ interferenza (fenomeno analogo a quello della macchia nera negli anelli di Newton). In causa di questo singolare comportamento del vetro, del quale ho già fatto cenno e su cui dovrò tornare in seguito, i risultati ottenuti colla lastra da specchi sono da accogliere con molta riserva. — 5389 — I risultati avuti con questi tre dielettrici furono pienamente concordanti ed analoghi ai corrispondenti fenomeni ottici. Per chiarezza d’ esposizione supponiamo di osservare le vibrazioni in- cidenti VW nella direzione della loro propagazione e precisamente dalla superficie riflettente S verso 1’ oscillatore O (fig. 14), e le vibrazioni ri- flesse VW, nella direzione di loro propagazione, dal risonatore £ verso la superficie riflettente S. Tanto sopra un raggio incidente 0B come sul relativo raggio riflesso BA si prenda un punto qualunque A o C, e si conduca per esso un piano normale al raggio; poi, sui due piani PQ e P,Q, così condotti, si traccino due assi ortogonali, uno orizzontale, AX, CX, ed uno ver- ticale AY e CY,. Indicheremo con a l’ angolo che la vibrazione elettrica VW sul raggio incidente fa coll’asse verticale, e con £ quello che la vibrazione riflessa fa pure coll’asse verticale, pren- dendo come positivi questi angoli, allorchè si contano nel verso op- posto a quello del moto degli indici di un orologio. IL’angolo a si misurerà sul cerchio graduato dell’ oscillatore, e gli si potrà dare a piacere qua- lunque valore. Se si farà a = 0, e cioè si porrà verticalmente l’asse di figura dell’ oscillatore, le vibrazioni incidenti saranno perpendicolari al piano d’incidenza OBR, che è orizzontale. Facendo invece a= 90°, e cioè disponendo l’ asse dell’ oscillatore orizzontal mente, le vibrazioni inci- denti saranno nel piano d’ incidenza. Nel primo caso le vibrazioni riflesse saranno esse pure verticali, e nel secondo orizzontali, per ragione di simmetria, e perciò per raccoglierle per intero e farle agire sul risonatore dovrà farsi 8=0 nel primo caso e 8=90° nel secondo. I valori di 8 si leggeranno sui cerchio graduato annesso al risonatore. In questi due casi, nei quali è nota l’ orientazione della vibrazione ri- flessa, sì potrà ottenere una misura relativa della sua ampiezza col me- todo 6) del $ 9, e cioé osservando di qual angolo deve girarsi il risonatore, Fig. 14 — 536 — a partire dalla orientazione, rispettivamente nei due casi, verticale od oriz- zontale, onde spegnere le sue scintille o ridurne l’intensità e la frequenza ad uno stesso valore costante ed assai piccolo. Si giunge cosi ad avere una misura relativa dei coefficienti, che in ottica si sogliono indicare con # e k, per vari valori dall’ angolo d’ incidenza i. Per le formole di Fresnel, relative alla riflessione della luce sui corpi trasparenti, si ha ico! ({—- r) LED 1) KAESRNCOS ta sen (é+ r)” wi (Ce) SAP code) sen £ d'ovesseni= , n essendo l’indice di rifrazione del corpo adoperato. Se a ha un valore compreso fra 0° e 90°, anche 8 è acuto. Questo an- golo 8 si potrà determinare col metodo a) del $ 9. Nel caso della riflessione COS(î +7?) cos (i — r)" Se in particolare a = 45°, la determinazione di 8 farà conoscere il k rapporto fra 4 e X#, giacché si ha in tal caso evidentemente tang 8 = Si della luce si ha tang6 = tanga Esperienza a): a= 0. Tenendo l’ oscillatore col suo asse verticale e facendo variare 7, ho riconosciuto in tutti i casi che la radiazione riflessa aumenta d’intensità al crescere di î. Dunque A cresce coll’ incidenza, ap- punto come per la luce. Esperienza b): a = 90°. L’ asse dell’ oscillatore é orizzontale, e quindi le vibrazioni elettriche incidenti sono nel piano d’ incidenza. In questo caso l’ intensità della radiazione riflessa comincia col diminuire al crescere di i, sino a divenire sensibilmente nulla, poi torna a crescere sino alle mag- giori incidenze osservate. Dunque il coefficiente 4 ha lo stesso andamento come nel caso ottico, per cui bisogna ammettere che, nelle ondulazioni elettromagnetiche la forza elettrica é perpendicolare al piano di polarizza- zione, come vuole la teoria elettromagnetica della luce. Collo zolfo & si annulla per î compreso fra 60° e 64°, e colla paraffina quando i è compreso fra 52° e 59°. Ora, ammessi i valori 1,87 ed 1,43 per l’indice di rifrazione di queste due sostanze, il loro angolo di pola- rizzazione deve essere rispettivamente 61° 52' e 55° 2". (a) Ho dovuto prendere positivamente il valore di X in causa del modo nel quale ho scelta la direzione positiva degli assi. — 537 — ua ZIO all’ angolo di polarizzazione, cosiché dato che VW (fig. 14) sia la vibra- zione sul raggio incidente, quella sul raggio riflesso fa un angolo 8 nega- tivo quando i è compreso fra 0° e l’ angolo di polarizzazione, ed un angolo 8 positivo quando i é compreso fra l’ angolo di polarizzazione e 90°, essendo però in ogni caso 8 < a. Nella fig. 14 la vibrazione riflessa V,W, è rap- presentata pel caso di # maggiore dell’ angolo di polarizzazione, mentre per i minore di questo angolo la vibrazione V,W, deve immaginarsi col- locata entro l’angolo X,CY,. Naturalmente farò qui astrazione dai fenomeni di polarizzazione elittica che si producono alle incidenze vicinissime a quella di polarizzazione. Mi sembrava assai interessante 1’ ottenere colle radiazioni hertziane la verificazione del cambiamento di segno della vibrazione elettrica parallela al piano d’incidenza. L’ esperienza, in grazia delle disposizioni adottate, riesce facilissima. Si inclini l’ oscillatore in modo che il suo asse di figura faccia colla verticale un angolo qualunque «, meglio però se differisce non molto da 45°, e si dia ad ? un valore abbastanza piccolo, per esempio 45°. Si riconosce allora che 8 è negativo, e cioé che per rendere massime le scintille nel risonatore bisogna girarlo nel verso del moto degli indici nel- l’ orologio, a partire dalla posizione nella quale è verticale. Si riconosce inoltre che l’ angolo 6 è numericamente minore di «. Si dia quindi ad è il valore dell’ angolo di polarizzazione. Si troverà che, onde sieno massime le scintille, il risonatore deve rimanere verticale. Infine si faccia { maggiore dell’angolo di polarizzazione, per esempio 70°. In tal caso, girando il risonatore a partire dalla verticale nel senso di prima, si vedono diminuire in esso le scintille, anzichè aumentare, come accadeva per i = 45°. Per renderle del massimo splendore bisogna ora girare il risonatore in senso contrario a prima, cioé nel senso preso come positivo. Dunque 6 é ora positivo, come si era previsto, ed inoltre si ve- rifica che numericamente è ancora minore dì a. Esperienza c): & Si sa che nel caso dell’ottica £# cambia segno Esperienza d): a = 45°. In questo caso, come si è gia notato, la misura di 8 fa conoscere il rapporto Ò, Ho fatto qualche misura collo zolfo ed ho ottenuto i risultati della seguente tabella, la prima colonna della quale contiene l’ angolo d’ incidenza î, la seconda l angolo misurato #8, la terza il valore di into È, la quarta il valore di COM rar che deve essere h cos(î— r) eguale a a per le formole di Fresnel. Nelle due ultime colonne non si è tenuto conto dei segni. Serie V. — Tomo IV. 68 Siccome le misure di 8 non possono farsi che con poca esaitezza, così non dò alcun valore alla poca differenza che ce’ é fra qualche numero della 3* colonna ed il suo vicino della 4%. Ma credo che l’andamento generale dei DI valori di 7 Sia dimostrato abbastanza dai numeri ottenuti, per concludere anche qui alla verificata analogia col fenomeno ottico corrispondente. Esperienza e): confronto fra k ed h. Nel caso della luce X è sempre minore di A. Lo stesso avviene per le radiazioni elettriche, e lo si verifica in una delle due maniere seguenti. Tenendo costante i si pongano alternativamente in direzione verticale od orizzontale tanto l’ oscillatore che il risonatore. Sarà sempre più vivace la scintilla nel primo caso che nel secondo. Si può più comodamente esperimentare in quest’ altro modo. Si lasci fisso l’ oscillatore col suo asse a 45° dalla verticale, cioé si conservi a = 45°, e poi si collochi alternativamente il risonatore verticale od orizzontale, cioé si faccia 8=0 o 6= 90°. Sarà sempre maggiore la vivacità delle scintille nel primo caso che nel secondo. In questa esperienza l’ oscillazione incidente equivale alle sue due com- ponenti, eguali fra loro, prese secondo la verticale e l’orizzontale ; l’una o l’ altra soltanto di queste componenti influisce sul risonatore allorché sì trova in una delle sue due orientazioni principali. Le esperienze di riflessione su dielettrici riescono dunque di tutto punto conformi alle previsioni. Bisogna pero lasciare a parte la riflessione sotto angoli d’ incidenza assai grandi, divenendo allora difficile assai 1’ impedire la causa d’ errore già menzionata, e cioé l’azione diretia dell’ oscillatore sul risonatore. 30. Riflessione sui metalli; disposizione delle esperienze. Le espe- rienze intorno alla riflessione delle oscillazioni elettriche sui metalli, si — 539 — conducono nella stessa maniera che quelle del precedente paragrafo. Ma siccome le particolarità più interessanti si osservano colle grandi incidenze, eosi è necessario prendere le necessarie precauzioni onde avere effetti ab- bastanza distinti, ed evitare la causa d’ errore accennata al $ 16, la quale appunto si manifesta specialmente colle grandi incidenze. Una lastra piana il cui lato orizzontale / sia di 40 ce. o 50 c. é più che sufficiente per eseguire tutte le esperienze di riflessione se non si ha da oltrepassare l’ incidenza di 65° o 70°. Con î= 70° la larghezza /cosi del fascio di radiazione riflesso dalla lastra é ancora sufficiente per produrre vivaci scintille nel risonatore, quand’ anche, allo scopo di impedire alle radiazioni di giungere direttamente dall’ oscillatore al risonatore, si inter- ponga un diaframma munito di conveniente apertura. Ma per incidenze più grandi, per esempio di oltre 80°, onde impedire l’ azione diretta sul risonatore bisogna aumentare moltis- simo la distanza di questo, il che pro- duce, stante il non perfetto paralle- lismo delle radiazioni e sopratutto la diffrazione, un indebolimento fortis- simo nelle sue scintille, le quali anzi finiscono collo sparire affatto. Per le grandi incidenze bisogna dun- que aumentare la lunghezza del lato orizzontale della lastra. Ho quindi di- sposto l’ esperienza come segue. Una lastra di rame A5, lunga 306 c. ed alta 44 è posta sul disco graduato mobile S della fig. 3, rappresentato in DE nella fig. 15, in modo che l’asse di rotazione verticale C del disco si trovi a metà lunghezza della lastra. L’ oscil- latore é collocato a circa 150 c. da C in mvdo che il suo asse di rotazione passi pel centro di figura della lastra AB. Quanto al risonatore A, è esso pure collocato in modo che il suo asse Fig. 15 di rotazione passi pel centro della la- stra, ma la sua distanza da C è di almeno 400 c. allorché 1’ angolo d’in- cidenza é assai grande. Naturalmente il disco DE non è più portato dallo stesso banco che regge l’oscillatore, ed il risonatore non è più sul braccio mobile PQ della fig. 3, ma sopra un tavolo indipendente, in modo però da trovarsi sempre esattamente sul prolungamento del braccio stesso, che serve ora soltanto per indicare la posizione del risonatore. — 540 — Cogli apparecchi cosi disposti si può studiare comodamente la rifles- sione sul rame, anche per incidenze che arrivino agli 82° od 83°, senza che si abbia a temere una qualsiasi azione diretta dell’ oscillatore sul ri- sonatore. Come ho accennato nel $ 16, se al risonatore possono giungere diret- tamente le radiazioni dell’ oscillatore, esse interferiscono colle radiazioni riflesse dalla lastra 45. Il risultato di questa interferenza é di rendere più vive le scintille nel risonatore, allorché le vibrazioni dell’ oscillatore sono orizzontali, di quando esse sono verticali (vedi $ 16). È appunto questa la ragione per la quale trovai dapprima un risultato, che era in opposizione con quello dato dalla riflessione sui dielettrici, e con quello che predice la teoria elettromagnetica della luce. Ecco ora le principali esperienze eseguite. 31. Esperienze sulla riflessione metallica. Esp. a). Riesce come la a) del $ 29, e collo stesso risultato. Esperienza b). È simile alla 6) del $ 29, se non che con un risonatore nuovo ed assai sensibile si hanno sempre scintille. Dunque nel caso del rame si riconosce che il coefficiente £X non si annulla, ma passa sempli- cemente per un minimo all’ incidenza principale, che si trova essere di circa 81°. Secondo Jamin (1) l'incidenza principale varia pel rame da circa 67° a circa 71° andando dai raggi violetti ai raggi rossi. Era naturale che per le onde elettriche si dovesse trovare un valore alquanto più grande. Esperienza c). Riesce similmente alla ce) del $ 29, e cioè si constata che per ottenere il massimo di scintille nel risonatore, allorchè le vibra- zioni incidenti sono inclinate d’ un angolo a (fig. 14) colla verticale, con- viene inclinarlo d’ un angolo 68 a partire dalla verticale, verso destra per le incidenze inferiori a quella principale, e verso sinistra per quelle supe- riori; e che in ogni caso in valore assoluto si verifica essere 8 < a. Si osservi però che le vibrazioni luminose riflesse da un metallo sono elittiche, giacché la differenza di fase @, che si stabilisce fra le due com- ponenti della vibrazione incidente prese secondo il piano di riflessione e perpendicolarmente a questo piano, cresce gradatamente da 0 a 7, allorché I 2 cidenza principale, mentre nel caso della riflessione sopra un corpo traspa- rente la variazione di @ si compie rapidamente da 0 a 7 per valori di % l’ angolo d’ incidenza î cresce da 0° a 90°, assumendo il valore + per l’in- (1) Ann. de Chim. et de Phys. (3) t. XXII, pag. 311. — Sdi — vicinissimi all’ angolo di polarizzazione. Se nel fenomeno elettromagnetico avviene la stessa cosa, l’ azimut del risonatore pel quale le scintille sono massime, non sarà altro che quello cui corrisponde l’ asse maggiore della vibrazione elittica riflessa. Ma é facile dimostrare, benché ciò a quanto mi consta non si sia fi- nora esplicitamente affermato, che anche nel caso della riflessione della luce sopra un metallo, qualora per 8 si prenda l'angolo cha fa l'asse maggiore della vibrazione elittica riflessa colla perpendicolare al piano di riflessione, sussistono fra 8 ed a le stesse relazioni che nel caso della riflessione sopra un corpo trasparente, e cioé 1.° che 8 è di segno negativo © positivo secondo che l’ angolo d’ incidenza è minore o maggiore dell’ in- cidenza principale, 2.° che in valore assoluto sì ha sempre 8 TE/ JE ‘ ponendo per brevità n= pon V(1—n°tang*af'+4n°tang’acos’p, SÌ trova: __1+n°tanga tr 1+n'tangazr’ 1T- n’tangta tr Rntanga cos a p? tang8B = Se si sceglie per r il segno inferiore, allora 6> a, e 8 diviene l'angolo fatto coll’asse delle y dell’ asse maggiore dell’ elisse ; allora : __r—1+n°tang'a bagdi= 2ntanga cos (a) Qui x, è positiva in causa della maniera nella quale sono prese le direzioni positive de- gli assi. — 542 — Tenuto conto che r>1—n°tang°a, si vede cosi che tangg, e quindî anche 6, è negativo se 23, e positivo se dat Resta cosi dimostrata la 1.* proposizione. Per dimostrare la 2.* si prenda il valore assoluto di tang8, che é in ogni caso : r—Pri+n'tang'a tang0= Rn ptanga 7 ove p (compreso fra 0 ed 1) è il valore assoluto di cos @, od anche 1 1T— n° tanga tano. di= va ponendo per brevità p= Carino. . Se sì sup- 1T— n°tang’a Rn tanga mentre per p<1p ha un valore più grande, e tang8 uno minore che nell’ ipotesi di p= 1. Dunque tangé < ntanga, ed essendo n < 1, a mag- gior ragione tangé 8n°. Nessun corpo trasparente, che si presti all’ esperienza, ha un indice tale da soddisfare a questa ineguaglianza, e neppure vi soddisfano gli indici 1,43 ed 1,87 che hanno la paraffina e lo zolfo per le onde elettriche, per cui non è possibile ottenere con una ri- flessione totale la polarizzazione circolare. Fresnel ricorse a due, tre o più riflessioni totali con piano di riflessione comune, facendo i tale che è sia eguale alla metà, al terzo ecc. di Di e lo stesso ho dovuto far io per adoperare i due dielettrici ora nominati. Se non che, nel caso della paraffina bisogna adoperare almeno tre ri- flessioni totali, mentre bastano due nel caso dello zolfo. Infatti, se di — E onde il radicale sia reale occorre che si abbia (n° +1) (1 + cos 1)>8w, il che avviene se per n si prende l’ indice dello zolfo, ma non se per ansi prende quello della paraffina. Ho quindi costruito, per fusione in appositi stampi, un blocco di paraffina di forma prismatica, la cui base è un tra- pezio isoscele ABCD (fig. 21) e un blocco di solfo di forma prismatica a base di parallelogrammo EFGH4. Il prisma di solfo fu lasciato quale era uscito dallo stampo; ma quello di paraffina fu accuratamente piallato, onde — 557 — le sue faccie fossero ben piane e liscie, ed avessero esattamente le volute inclinazioni reciproche. Nel prisma di paraffina i raggi paralleli come aA, 56,, cB, entrano dalla faccia AB normalmente, subiscono in A45,c, una prima riflessione totale, sotto una incidenza i eguale evidentemente all’ angolo BAD, si riflettono di nuovo totalmente in a,0,c,, poi una terza volta in a,5,D, ed infine escono normalmente dalla faccia CD. Nel secondo, i raggi paralleli, come dE, ee,, fF, che entrano normal- mente dalla faccia E, subiscono una riflessione totale in Ee,ft, una se- conda in d,e,G, e poi escono normalmente dalla faccia GH. I due prismi agiscono dunque esattamente come i noti parallelepipedi di Fresnel. Per calcolare le loro dimensioni ho proceduto nel modo seguente. Pel prisma di paraffina ABCD, ho prima calcolato l’ angolo î, ponendo nella formola vez ed n= 1,43. Con questi dati la formola dà (in causa del doppio segno) î= 67° 45' ed #= 46° 52'. In ottica si sceglie il mag- giore dei due valori di 7 onde avere minor dispersione. Non essendovi qui tal motivo di preferenza ho adottato î= 46° 52' perché, a parità di grandezza delle faccie d’ingresso e di uscita delle radiazioni, il prisma acquista minor volume che adottando l’ altro valore di è. Indicando con a la lunghezza dei lati 425, CD del trapezio, si ha dalla figura, per l’ altezza del medesimo a,L= a seni; e per le lunghezze delle basi : AD=4AL— Ba,, BC=2AL+ Ba,. Ora sen? i i AL=a NBA TALIA COSI COSÌ i onde 3 sen®é + cosi 3 senÈf — COS; AD=a——_—___—,j, _BoOm3a—— così così Nel'inionprismatai=i2X2, per (culisi ‘trova ae’ 1986 c. AD = 82.140), BC = 44,98 c. Siccome poi l’ altezza del prisma, di cui il trapezio ABCD 9 3 6}5 è la base, é eguale ad a, si ha pel suo volume l’ espressione LEE A 34320 c. c. Pel prisma di solfo, bisogna porre nella formola 02 Cole ILS \ trovano per i i valori 33° 49', 62° 34'. Ho adottato i = 62° 34'. Avendo poi voluto che le faccie d’ingresso e d’ uscita delle radiazioni fossero quadrate, — 558 — e di 23 c. di lato, i lati EF e GH del parallelogrammo EFGH hanno la lunghezza a= 23. L’ altezza d,M ed i lati maggiori del parallelogramma 2a seni ——, ed il volume del pri- sono dati dalle formole d,M =aseni, EH= osi 3 33 sma é li Coi valori adottati per a ed : si trova d,M=20,4 c., ET icMeRpelexolune#69407ede: Tali sono le dimensioni che ho definitivamente dato ai due prismi, coi quali si effettuano le esperienze descritte nel paragrafo seguente. 39. Produzione di raggi di forza elettrica polarizzati circolarmente, o elitticamente. Per ottenere un raggio polarizzato circolarmente, biso- gna collocare uno dei prismi della fig. 21 davanti all’ oscillatore, in modo che le radiazioni, che partono dal riflettore di questo, cadano normalmente sulla faccia 45, oppure EF del prisma. Di fronte alla faccia CD, op- pure GI, sì colloca il risonatore, in modo che il suo asse di rotazione sia perpendicolare alla faccia stessa, e quindi nella direzione delle radia- zioni che emergono dal prisma. Se si adopera il prisma di solfo a due riflessioni, le radiazioni che emergono dalla sua faccia GZ sono parallele alle vibrazioni incidenti, e perciò può accadere che il risonatore venga eccitato dalle radiazioni che passano in vicinanza del prisma senza en- trarvi. Per escluderle basta però porre fra 1’ oscillatore ed il prisma, e assai vicino a questo, un largo diaframma metallico avente un’ apertura non più grande della faccia E ed in corrispondenza di questa. Il diaframma é inutile col prisma a tre riflessioni, il che é un piccolo vantaggio. Ma anche all’ infuori di ciò il prisma di paraffina è superiore a quello di solfo, per la nettezza e la precisione dei fenomeni che produce. Messo così a posto l’ uno o l’ altro dei due prismi, si inclina 1’ oscilla- tore in modo che il suo asse di figura faccia un angolo di 45° coi piani delle basi del prisma, ai quali piani é parallelo il piano delle riflessioni che hanno luogo entro di esso. Se allora si osservano le scintille del ri- sonatore, ed in pari tempo lo si fa girare intorno al proprio asse, sì ri- conosce che le scintille. stesse conservano una intensità costante. È ciò appunto che doveva osservarsi se, in causa delle riflessioni totali entro il prisma, le radiazioni escono da esso polarizzate circolarmente. Se le radiazioni polarizzate circolarmente che escono dal prisma, si fanno entrare in un altro, esso pure costituito in modo da trasformare un raggio a vibrazioni rettilinee in uno a vibrazioni circolari, avviene la tra- sformazione inversa, e all’ uscita dal secondo prisma la radiazione è di nuovo a vibrazioni rettilinee, inclinate a 45° sul piano delle riflessioni. L’ esperienza si può eseguire per esempio facendo prima entrare le radia- — 559 — zioni nel prisma di solfo, poi in quello di paraffina. Il risonatore, che ri- ceve le radiazioni elettriche uscenti dal secondo prisma, mostra infatti vive scintille quando è inclinato a 45° da una certa parte col piano delle riflessioni, mentre allontanandolo angolarmente da quella orientazione, mo- stra scintille di più in più affievolite. Uno dei prismi descritti può dunque servire a riconoscere se un raggio di forza elettrica é polarizzato circolarmente, ed appunto mi ha servito in tal modo in una esperienza del $ 32. Se nell’ esperienza descritta più sopra le vibrazioni che entrano nel prisma formano col piano delle riflessioni totali un angolo di 0° o di 90°, la radiazione resta a vibrazioni rettilinee, per ragione di simmetria. L’ e- sperienza lo conferma, giacché il risonatore, salvo 1’ intensità dell’ effetto, sì comporta come se, tolto il prisma, ricevesse direttamente le radiazioni dall’ oscillatore. Se poi le vibrazioni incidenti fanno col piano delle riflessioni un angolo compreso fra 0° e 90° e diverso da 45°, il raggio emergente deve essere a vibrazioni elittiche. Uno degli assi dell’ elisse sarà parallelo, e 1’ altro perpendicolare, al piano di riflessione, e ]’ elisse stessa sarà tanto più al- lungata, quanto più il valore del suddetto angolo sarà vicino a 0° od a 90°. Se quell’ angolo è < 45° l’asse maggiore dell’ elisse sarà parallelo al piano di riflessione; se è > 45 sarà perpendicolare a questo piano. Tutto ciò é d’accordo colle esperienze. Diffatti, salvo quando le vibra- zioni incidenti formano un angolo assai vicino a 0° od a 90° col piano d’ incidenza, nei quali casi è difficile riconoscere che le vibrazioni sono elittiche e non rettilinee, negli altri casi il risonatore mostra scintille, qua- lunque sia l’ azimut in cui é posto, e queste scintille hanno un massimo d’ intensità, quando il risonatore è parallelo o perpendicolare al piano di riflessione, ed un minimo quando é in un azimut perpendicolare a quello del massimo. Un secondo prisma posto dopo il primo, ristabilirà la polarizzazione rettilinea. Le vibrazioni emergenti saranno dunque rettilinee, ed inclinate, sul piano delle riflessioni, di un angolo eguale e di segno contrario a quello formato col medesimo piano dalle vibrazioni incidenti. Ciò si ve- rifica agevolmente, cosicché l’ analogia coi fenomeni ottici è anche qui completa. — 560 — CAPITOLO VI. Trasmissione delle oscillazioni elettriche attraverso i dielettrici. 40. Diminuzione d’ intensità delle radiazioni dovuta all’ interposi- zione d’ una lastra dielettrica. Se fra l’ oscillatore ed il risonatore si col- loca una lastra dielettrica a faccie parallele, sì nota in generale una leg- giera diminuzione delle scintille che si osservano nel secondo di quegli apparecchi, diminuzione che in molti casi si può considerare come dovuta. soltanto alla riflessione. Però per alcuni corpi questa diminuzione é con- siderevole, tanto che si potrebbe attribuire in parte anche ad assorbimento prodotto da essi sulle oscillazioni elettriche. . È necessario in queste esperienze di disporre le cose in modo che i fenomeni descritti nel $ 25 non possano prodursi. A questo scopo o dovrà adoperarsi una lamina dielettrica abbastanza grande perché su di essa cada tutto il fascio di radiazioni emesso dallo specchio dell’ oscillatore, op- pure, quando la lamina abbia piccole dimensioni, sì dovrà coprire con essa l’ apertura di un grande diaframma metallico posto fra l’ oscillatore ed il ri- sonatore. Questa apertura può essere di pochi centimetri di diametro, qua- lora le distanze del diaframma dall’ oscillatore e dal risonatore sieno piccole, senza che cessino le scintille nel secondo di questi apparecchi. Per avere una idea dell’ effetto prodotto da vari dielettrici, sì misurerà l'angolo di rotazione a del risonatore capace di produrre 1’ estinzione delle scintille prima di interporre il dielettrico, poi i’ angolo analogo 8 dopo che il dielettrico è messo in posto. Il rapporto cosa:cos8 sarà eguale al rap- porto delle ampiezze d’ oscillazione nei due casi. Ecco i valori di questo rapporto per diversi dielettrici. Ebanite (grossezza 4 c.), paraffina (grossezza 17 c.) e salgemma (gros- sezza 5 c. circa). Non si ha sensibile differenza fra a e 6, anzi in qualche caso sembra essere 8 alcun poco maggiore di a (cioé che potrebbe essere attribuito alla non completa eliminazione dei fenomeni descritti nel $ 25). Solfo grosso 2,5 c., Mica grossa 0,17 c. danno pel rapporto cosa: cos 8 — 561 — il&ivaloreba:.n. AR a a 059 Vetro da "pccehi oso OST. i) di il ora LO 03, UnogpilatdilWasietdtverrondattfotografia:(QNe.) 059 Gommatlaccal(GLOSSARA DA) e a La 98 PORCCMIRAB(ECOSSIE0 EC) I 07 MIGFIMOB(GROSSEZZA ERE e a Ea 056 ISCICRMICA(CROSSARITO TOA e Lobo la Sf 0;96 Quarsornormale (all'asse; grosso 0,8. c.. 0,6 Vaschetta di ebanite, contenente uno strato di 1 Gs ACCORDA I SA 07 » CURO CASINO EA MII RI 00 » di sol/furo di Lanbanio DAT 0,96 È certamente degno di nota il grande daino ali radiazioni prodotto dal vetro da specchi, e quello sensibilimente nullo prodotto dal salgemma e dall’ ebanite, giacché questi corpi si comportano in modo si- mile di fronte alle radiazioni calorifiche. Si sarebbe quindi tentati di am- mettere, che l’ effetto prodotto dal vetro da specchi, e dagli altri corpi che si comportano analogamente, sia, almeno in parte, dovuto ad assorbimento; ma é facile convincersi che le esperienze riferite non bastano ad autoriz- zare una tale conclusione. Ed invero, consideriamo particolarmente il modo di comportarsi del vetro. Si è visto nel $ 20 che questo corpo riflette con intensità relativa- mente grande le radiazioni, anche preso in lamine sottili, e quantunque questo fenomeno non si possa per ora spiegare, risulta da esso nondimeno che le radiazioni trasmesse devono necessariamente essere alquanto meno intense delle radiazioni incidenti. altra parte è chiaro come non sia possibile giudicare del comporta- mento relativo dei vari dielettrici, finché si prendono sotto forma di la- mine sottili, giacché, in causa delle interferenze che si producono fra le radiazioni direttamente trasmesse, e quelle che emergono dopo aver subito delle riflessioni interne, l’ intensità della radiazione emergente complessiva € funzione dello spessore e dell’ indice di rifrazione delle lastre. Si potrebbe credere che almeno fosse possibile stabilire se un dato die- lettrico assorbe o no sensibilmente le radiazioni, adoperandolo sotto forma di lamina tanto sottile, che la differenza di cammino fra i raggi che l’at- traversano direttamente, ed i raggi che ne escono dopo due riflessioni in- terne, sia una piccola frazione di lunghezza d’ onda. In tal caso sembrerebbe (a) Rubens e Richter (Wed. Ann. t. XL) non osservarono nessuna diminuzione nell’ in- tensità delle radiazioni, ponendo sul cammino di queste una o due lastre di vetro, comunque inclinate. Serie V. — Tomo IV. 744 — 5602 — potersi ammettere che la radiazione trasmessa debba essere sensibilmente eguale a quella incidente, se la lamina non esercita verun assorbimento, e che, se invece sì osserva una diminuzione d’intensità, 1’ assorbimento esista. Ma anche un tal modo di procedere non andrebbe esente da una obbiezione. Si é visto infatti ($ 37) che nella produzione del fenomeno della rifles- sione sulla superficie che separa due dielettrici, prendono parte probabil- mente anche quelle porzioni dei due corpi, che trovansi a qualche distanza da quella superficie, anzi sino ad una distanza di almeno mezza lunghezza d’ onda. Non é dunque lecito ammettere senz’ altro, che sulle due super- ficie d’ una lamina, il cui spessore sia assai minore della mezza lunghezza d’onda, la riflessione abbia luogo esattamente come alla superficie d’ una lamina assai grossa. Per esempio, si potrebbe ammettere che nel caso della lamina sottilis- sima, le radiazioni riflesse da ciascuna delle sue due superficie abbiano intensità assai piccola. In tal ipotesi, l’ essere piccolissima la radiazione complessiva riflessa da una lamina dielettrica sottilissima, non si spieghe- rebbe solo colla interferenza fra i raggi riflessi alla prima superficie, e quelli che si sovrappongono ai primi dopo aver subito una o più rifles- sioni interne, ma il fenomeno sarebbe dovuto sopratutto alla piccola inten- sita delle radiazioni riflesse da ciascuna delle due superfici della lamina. Un mezzo per decidere se una lamina dielettrica assorbe realmente in parte le radiazioni elettriche, potrebbe essere quello di misurare separa- tamente l’ intensità della radiazione incidente, di quella riflessa e di quella rifratta, e vedere se la somma delle due ultime è eguale o minore dell’in- tensità della radiazione incidente. Se quella somma é minore, ciò indicherà che il corpo ha un potere assorbente, giacchè la diffusione sembra do- versi escludere quando si adoperino lastre a faccie ben levigate. Ho fatto alcune misure di questo genere con una lastra di vetro grossa 0,7 c. inclinata a 45° sulle radiazioni, onde rendere più facile la misura della radiazione riflessa. Le radiazioni emesse dall’ oscillatore (ap- parecchi II) passavano per l’ apertura circolare larga 16 c. di un diaframma di rame posto a 22 c. dall’ oscillatore, poi cadevano sulla lastra, il cui centro era a 23 c. dal diaframma. Il risonatore, che distava circa 30 c. dalla lastra ed era posto sul braccio mobile TU (fig. 3), poteva raccogliere o le radiazioni trasmesse o quelle riflesse, od anche quelle incidenti, to- gliendo dal suo posto la lastra. Dicendo a, 8, y, le rotazioni da darsi al risonatore per annullare le scin- tille, allorché é colpito rispettivamente dalle radiazioni incidenti, dalle ri- COSA COSA flesse e dalle trasmesse, —— e cos8 cosy saranno le ampiezze delle vibrazioni — 5603 — cosa cos'a cos°8° cos°y’ le rispettive intensità, presa come uno l’intensità della radiazione incidente. 9 osta cos’a È —; + —- valori poco dif- cos | cos°y ferenti dall’ unità, e troppo variabili da una esperienza all’ altra, per poterne trarre qualche utile conseguenza. In conclusione non si può considerare come dimostrato che la dimi- nuzione d’intensità, che subiscono le radiazioni attraversando certe lamine dielettriche, sia veramente dovuta in parte ad un assorbimento. Fra le molte esperienze fatte sul comportamento delle lastre di vetro da specchi, descriverò per ultimo anche la seguente, per comprendere la quale bisogna rammentare che due lastre, le quali sieno in contatto fra loro o assai vicine, si comportano come una lastra unica (vedi $ 20, a). Fra l’ oscillatore ed il risonatore, e normalmente alle radiazioni, collocai due lastre di vetro grosse circa 0,7 c., lontane cinque o sei centimetri l’una dall’ altra. L'ampiezza delle vibrazioni trasmesse fu 0,38, prendendo come 1 quella delle incidenti. Accostando le due lastre sinché fossero in contatto fra loro, le scintille nel risonatore divennero più vivaci di prima, e l’ ampiezza della vibrazione trasmessa raggiunse il valore di 0,87, pren- dendo sempre come unità l ampiezza delle vibrazioni incidenti. riflesse e rifratte, presa come uno quella delle incidenti, e quindi Dalle misure fatte ottenni per la somma 41. Trasmissione delle oscillazioni elettriche attraverso il legno. Una tavola di legno tagliata parallelamente alle sue fibre indebolisce di- versamente le radiazioni, secondo che le fibre stesse sono perpendicolari o parallele alla direzione della forza elettrica. Fui condotto a constatare questo fenomeno dalla considerazione della diversa conducibilità che il legno possiede nelle varie direzioni. | Fra i legni usuali 1’ abete é quello che offre il fenomeno nel modo il più spiccato. Uno dei parallelepipedi d’ abete, già descritti nel $ 33, sia collocato sui disco mobile .S dell’ apparecchio fig. 3, in modo che le sue fibre sieno verticali e che il fascio di radiazioni emesso dall’ oscillatore attraversi il legno perpendicolarmente alle sue faccie maggiori. Se dapprima l’ oscillatore dà vibrazioni elettriche orizzontali, e quindi perpendicolari alla direzione delle fibre, si nota un lieve indebolimento delle radiazioni prodotto dal legno. Il rapporto fra l’ ampiezza di queste mentre il legno, grosso 11,4 c., era interposto, e l'ampiezza che avevano le radiazioni prima d’interporre il legno, fu trovato in una esperienza eguale a 0,91. Ridotte le vibrazioni ad essere verticali, il detto rapporto si trovò essere 0,5. — 5604 — Dunque il legno trasmette con maggior intensità le vibrazioni perpen- dicolari alle sue fibre, che quelle parallele alle medesime. Lo stesso risul- tato si ebbe con legni di diverse grossezze. Siccome si é visto ($ 33) che lo stesso legno riflette più abbondante- mente le vibrazioni parallele alle fibre, così sì vede che i due fenomeni sono in certo modo complementari, come era da prevedere. Anche nella trasmissione il legno si comporta dunque in modo simile ad un reticolo di fili paralleli; ma fra il legno ed il reticolo esiste questa differenza, che mentre con quest’ ultimo le vibrazioni parallele ai fili sono estinte, quelle che nel caso del legno sono parallele alle fibre sono sem- plicemente più indebolite che quelle dirette perpendicolarmente. Sperimentando successivamente con pezzi di legno d’ abete tolti da una stessa grossa tavola, e di grossezze diverse, si riconosce che il rapporto fra l’ ampiezza della radiazione trasmessa e quella della radiazione inci- dente non diminuisce regolarmente al crescere dello spessore del legno, ma passa per massimi e minimi successivi. Qui si ha evidentemente il fenomeno dell’ interferenza colle lamine sottili. Però con legni assai grossi il detto rapporto diviene assai piccolo. Si può constatare la diversa trasmissibilità delle radiazioni perpendi- colari o parallele alle fibre, senza muovere l’ oscillatore (vedi $ 29 Esp. e). Basta perciò lasciare l’ oscillatore inclinato a 45° colla direzione delle fibre del legno, e osservare le scintille nel risonatore, alternativamente posto in direzione perpendicolare e parallela alle fibre medesime. Le scintille sa- ranno sempre più vive nel primo caso che nel secondo. 42. Polarizzazione elittica prodotta dal legno. Se si lasciano le cose disposte nel modo or ora descritto, e si fa girare il risonatore intorno al proprio asse, si riconosce che in generale vedonsi scintille qualunque sia la sua orientazione. Soltanto si osserva un massimo di scintille per una certa orientazione del risonatore, ed un minimo per una orientazione per- pendicolare alla prima. La radiazione emergente é dunque a vibrazioni elittiche. Se la tavola d’ abete é piuttosto sottile, per esempio ha 3 c. di spes- sore, l’ elitticità é assai poco manifesta, e ad ogni modo 1’ azimut dell’ asse maggiore dell’ elisse é poco inclinato sulla direzione primitiva delle vibra- zioni. Con grossezza del legno di più in più grande l’ elisse diviene meno eccentrica, ciò che si riconosce dal fatto che diventa meno differente la vivacità delle scintille nel risonatore, allorché questo é orientato secondo l’asse maggiore o secondo l’ asse minore dell’ elisse. In pari tempo l’asse maggiore si accosta di più in più alla direzione perpendicolare alle fibre. Con un legno grosso 13,7 c. l’asse maggiore é sensibilmente oriz- — 565 — zontale, e cioè perpendicolare alle fibre. Se allora si diminuisce 1’ angolo che le vibrazioni incidenti fanno colla direzione delle fibre, ed invece di lasciarlo eguale a 45° lo si rende eguale a circa 22°, non si osserva più differenza sensibile nelle scintille al variare dell’ azimut del risonatore, e perciò la radiazione emergente dal legno é sensibilmente a vibrazioni circolari. i Se infatti si fa passare quella radiazione nel prisma di paraffina a base di trapezio ($ 3$), prima che arrivi al risonatore, questo fa vedere che la radiazione é divenuta a vibrazioni rettilinee inclinate a 45° verso. destra colla perpendicolare al piano di riflessione del prisma, se 1’ oscillatore é inclinato a 22° verso sinistra colla stessa direzione. Ciò conferma che la radiazione che esce dal legno è a vibrazioni circolari. Infine, adoperando un legno anche più grosso del precedente, per esem- pio tdi 17 c. (che può essere ‘costituito’ da due o più pezzi più sottili colle fibre tutte parallele), il raggio emergente ha di nuovo la polarizzazione elittica, ma l’asse maggiore é inclinato in senso contrario a prima. Si potrebbero spiegare tutti questi fenomeni ammettendo che le vibra- zioni perpendicolari alle fibre si propagano entro il legno con velocità diversa da quella con cui si propagano le vibrazioni parallele alle fibre. Col legno di 13,7 c. di grossezza il ritardo di una delle vibrazioni sull’altra, dovuto alla loro differenza di velocità, sarebbe sensibilmente un quarto di periodo, d’onde la polarizzazione circolare che si può ottenere in questo caso. In breve, il legno si comporterebbe in modo analogo alle lastre bire- frangenti tagliate parallelamente all’ asse, e la lastra grossa 13,7 c. sarebbe l’ equivalente d’ una lamina quarto-d’-onda. È da osservarsi che in ottica, onde avere un raggio polarizzato circo- larmente, bisogna far passare nella lamina quarto-d’-onda un raggio le cui vibrazioni sieno a 45° coll’ asse ottico della lamina, mentre qui invece le vibrazioni incidenti devono fare un angolo di circa 22° colla direzione delle fibre. Questa differenza fra i due casi è dovuta alla diversa trasmis- sibilità delle vibrazioni elettriche nel legno, secondo che sono parallele o perpendicolari alle fibre. Quando l’ angolo delle vibrazioni incidenti colla direzione delle fibre é minore di 45°, la componente parallela alle fibre della vibrazione incidente è più grande della componente perpendicolare ; ma siccome la prima soffre, pel suo passaggio attraverso il legno, una maggior diminuzione, come si é visto nel $ precedente, accade che al- l’ uscita dal medesimo la differenza fra le due componenti é minore che all’ ingresso. Col valore 22° dato a quell’ angolo le due componenti hanno egual grandezza all’ uscita dal legno, e siccome hanno acquistato una dif- ferenza di fase d’ un quarto di periodo, esse si compongono in una vibra- zione circolare. — 566 — La lastra di legno si comporterebbe dunque in certo modo come una lamina sottile di tormalina parallela all’ asse, piuttosto che come una di quarzo o di spato tagliata nella stessa maniera. CAPITOLO VII. Sulle onde emesse dai risonatori in azione. 43, Onde secondarie generate dai risonatori. Esponendo più risona- tori non troppo lontani fra loro all’ azione di un oscillatore, ho osservato: certi fenomeni che rivelano un’ azione reciproca fra i risonatori stessi. In certe circostanze un risonatore dà scintille più vive quando gli altri riso- natori sono presenti che quando sono allontanati, mentre in altri casi ac- cade l’ opposto. Per amore di brevità comincierò col dare la spiegazione generale di questi fenomeni, per poi applicarla caso per caso a render conto delle singole esperienze. La spiegazione suddetta si presenta spontaneamente allorchè si osser- vano attentamente i fenomeni, ed è semplicissima. Bisogna ammettere soltanto che, quando un risonatore è eccitato dalle onde emanate da un oscillatore, si comporti esso stesso come un oscillatore, e cioè produca delle onde, che chiamerò onde secondarie, le quali si propagano all’ in- torno e possono eccitare altri risonatori. Siccome poi questi risonatori sa- ranno in generale esposti in pari tempo all’ azione diretta dell’ oscillatore, così si produrranno fenomeni d’interferenza, i quali saranno causa dei fenomeni osservati. Per applicare questa spiegazione generica ai vari casi, occorre ancora riflettere, che le onde emesse da un risonatore hanno necessariamente fase opposta a quella delle onde che eccitano il risonatore stesso. Infatti, le cariche elettriche di segno opposto, che ad un istante qualunque esistono nelle due metà del risonatore, producono presso il risonatore stesso una forza elettrica di senso opposto a quella che è causa delle dette cariche. Ne consegue, che per valutare la differenza di fase che esiste, fra le onde che arrivano ad un risonatore A e provenienti direttamente dall’ o- scillatore 0, e quelle che arrivano ad R ma dovute ad un risonatore A', bisognerà tener conto, non solo della differenza fra i due cammini per- — 960% — corsi, che sono OR ed OR'+ R'R, ma anche della differenza di fase (corrispondente ad una differenza di cammino 9 or ora indicata. Ciò premesso, ecco le esperienze che mettono in evidenza le onde se- condarie di un risonatore. 44. Azione di un risonatore sopra un altro di egual periodo d°’ 0- scillazione. Per queste esperienze sono preferibili gli apparecchi I, giacché con questi le scintilie dei risonatori si vedono benissimo anche di lontano senza bisogno di guardarle con un oculare. In generale, quando due risonatori sono esposti all’ azione dell’ oscilla- tore ognuno di essi agisce sull’ altro; ma vi sono due casi nei quali 1’ a- zione reciproca dei risonatori obbedisce a leggi semplici. Questi due casi soni i seguenti. a) Risonatori posti sopra una stessa superficie d’ onda. Sia O (fig. 22) l’oscillatore ed AR, A' i due risonatori, collocati in uno stesso piano per- pendicolare alla direzione delle radiazioni che partono dallo specchio del- l’ oscillatore, e paralleli all’ oscillatore stesso (per esempio tanto 1’ oscilla- tore che i risonatori sono verticali). Se si osservano le scintille di uno dei risonatori, per esempio A, mentre si fa variare la distanza RA' fra i due risonatori, si nota questo fenomeno, e cioé che le scintille in ff sono di massimo splendore per certi valori di RA' e di splendore minimo per altri valori. Se la distanza RA' è assai piccola, il risonatore A resta oscuro, a meno che la sua sensibilità non sia assai maggiore di quella di A'. Quando VR =l le scintille in A hanno il mas- simo splendore. Aumentando ancora RA' 0 le scintille scemano di nuovo, e si ridu- cono ad un minimo per RE =4, poi crescono di nuovo, per raggiungere un Fig. 22 1 i SÙ, massimo, assai meno marcato del precedente, allorchè RA' =54 Questi effetti si osservano regolarmente tanto sul risonatore A che sul risonatore £', se i due risonatori hanno eguale sensibilità. Se uno dei ri- sonatori è più sensibile, le variazioni nelle scintille sono manifeste soltanto nell’ altro risonatore, ma in tal caso si osservano più facilmente che nel caso di sensibilità eguali. Perciò è bene fare l’ esperienza con un. risona- tore nuovo, e perciò sensibilissimo, ed uno adoperato già per qualche — 568 — tempo, e quindi dotato di sensibilità minore. È su questo risonatore che si osserveranno gli effetti prodotti dal risonatore più sensibile. La spiegazione generale del $ precedente rende conto facilmente dei fenomeni descritti. Al risonatore arrivano tanto le onde emanate da 0, quanto le onde secondarie che partono da £A'. Queste ultime giungono in con una differenza di fase, che si compone della differenza di fase 7, dovuta a ciò che sono onde secondarie, e della differenza di fase prodotta. dal tempo impiegato a percorrere la distanza RPR'. Se RA'=0,4,... le onde secondarie arrivano in A con fase opposta a quella delle onde di- 4 po secondarie hanno in A fase eguale a quella delle onde dirette, e si som- mano a queste. rette, e perciò interferiscono con queste; se invece RA = A...le onde 6) Risonatori posti sopra uno stesso raggio. Supponiamo in secondo luogo che i due risonatori siano in AR ed A", sopra una stessa retta con- dotta nella direzione in cui si propaga la radiazione, e si osservi l’effetto prodotto sul risonatore /? dal risonatore £", il quale sarà bene sia più sensibile di A. Anche in tal caso le scintille in f crescono quando si fa crescere la. distanza RA" a partire da un piccolo valore; ma esse raggiungono un massimo, non più quando la distanza fra i due risonatori è di mezza onda, À À RITA sar ? ma quando RR=] Quando Rio le scintille sono minime, e di CI SI À . CD NUOVO massime nperte fat 3 1 Insomma in questo secondo caso i mas- si e minimi si ottengono aumentando successivamente d’ un quarto d’ onda la distanza fra i due risonatori, mentre nel caso precedente si ottenevano con successivi aumenti di mezz’ onda della distanza medesima. La ragione di questa differenza sta in ciò che le onde secondarie emanate da A" oltre che essere in ritardo, suile onde dirette che giungono in fà in causa. del tempo impiegato a percorrere l’ intervallo da A" ad R, lo sono ancora perché generate con altro eguale ritardo dovuto al maggior cammino RA" delle onde dirette per arrivare ad A". Perciò la differenza di fase fra le onde dirette e le secondarie in /? si compone, della differenza di fase 7, e di quella dovuta al tempo impiegato a percorrere due volte la distanza RA". SG Se pri le fasi in R sono eguali, se RRU= le fasi sono op- 4 3? poste ecc. Tutto ciò finché si considera l’ azione del risonatore A" sul risonatore A. Consideriamo l’ azione opposta, e cioé quella del risonatore più vicino al- — 569 — l’ oscillatore sul risonatore più lontano, per esempio l’ azione di A" su A. In questo caso si osserva che le scintille in R scemano d'’intensità o anche spariscono affatto, qualunque sia la distanza A", ciò che si spiega subito riflettendo che fra le onde dirette che giungono in Re le onde se- condarie, generate da A'"' e che pure arrivano in A, esiste sempre solo la differenza di fase 7. Anche per questa esperienza è bene che A sia. meno sensibile di A'". Si può trovare facilmente a priori quale è il luogo dei punti, nei quali deve essere collocato un risonatore , affinché le onde secondarie da esso emanate, componendosi colle onde dirette, rendano massime o minime le oscillazioni in un oscillatore . Infatti, riferendo la posizione di S agli assi Ra, Ry, sì avra in R effetto massimo o minimo, secondo che BS+ SR sara eguale ad un numero dispari o pari di volte A Si ha dunque, indi- cando con £ un numero intero, flora ME A equazione di tante parabole col fuoco in /, che tagliano Py in punti che distano h3 da AR, e che hanno il vertice su Ra a distanza È dak* Per quelle parabole che corrispondono a X = 1, 3, 5... l’ effetto di un risona- tore che sia posto su di esse é quello di aumentare le scintille in AR; per quelle invece che corrispondono a &£ = 2, 4, 6... l’effetto in A è una di- minuzione di scintille. Analogamente, se si cerca il luogo dei punti nei quali deve essere col- locaio un risonatore S affinché Ie onde secondarie emanate dal risonatore A, componendosi colle onde dirette, rendano massime o minime le scintille 3 À i in S, si ha l’ equazione RS— BS=% 5» ossia 2 À Vo +y_-a=k;, la quale rappresenta tante parabole, simmetriche a quelle trovate nel pro- blema precedente, rispetto alla retta fRy. Secondo che X sarà un intero dispari o pari, la corrispondente parabola determinerà i luoghi di massime o di minime scintille. Nella fig. 23 sono tracciate in parte le parabole dei due gruppi. Le Serie V. — Tomo IV. 142 P,P,P,...(disegnate a tratto pieno) indicano i luoghi dai quali un risonatore, colle proprie onde secondarie rinforza le oscillazioni di R; P,, P,... (dise- gnate a tratto interrotto) indicano quelli dai quali un risonatore tende a spegnere le oscillazioni di A. Cosi le Q,, Q,, Q,... (a tratto pieno) e le Q,, Q,. .. (a tratto interrotto) sono i luoghi dei punti, stando nei quali un risonatore ha le sue oscillazioni rispettivamente rinforzate o indebolite dalle onde secondarie di A. i i Si vede cosi a colpo d’occhio nella figura quali sono le posizioni da dare ad un risonatore ,S perché si comporti in un dato modo rispetto al risonatore A. Se per esempio S é nel punto d’incontro fra due linee a tratto pieno, S ed ft si rin- forzeranno a vicenda, e se invece è nel punto d’incontro fra due curve a tratto interrotto, & ed S tenderanno a scemare reciproca- mente le loro scintille. Se immaginiamo tanti risona- tori posti lungo una delle para- bole: PP... Pep esempiolbee l’effetto di tutti su / sarà concor- dante. Essi verranno a costituire così una specie di specchio para- bolico interrotto, il cui effetto in è sarà simile a quello di uno specchio continuo di egual forma. È probabile che l’effetto in A di- penda dal numero dei risonatori Fig. 23 distribuiti su P,, giacchè se da una parte l’azione in A delle onde secondarie deve crescere col numero dei risonatori che le generano, al ere- scere di questo numero i risonatori stessi si troveranno di più in più vicini fra loro, ed in causa della loro influenza reciproca le loro oscillazioni tenderanno ad indebolirsi. Vi sarà dunque probabilmente una certa di- stanza fra i vari risonatori distribuiti sopra P, per la quale l’ effetto in È è massimo. Questo effetto massimo potrebbe forse superare quello prodotto da un rifiettore parabolico continuo. In tutte le esperienze del presente paragrafo si può sostituire al riso- natore che genera le onde secondarie, l’ effetto delle quali si osserva nel- l’altro risonatore, un semplice filo metallico, lungo press’ a poco come il risonatore al quale é sostituito. Nel filo si producono oscillazioni di riso- Pz P, P; — 571 —- nanza che generano onde secondarie, giacchè esso si comporta precisa- mente come uno dei soliti risonatori, salvo che mancano le scintille. Vedremo fra poco che il risonatore che genera le onde secondarie può essere più lungo (e quindi corrispondere ad una lunghezza d’ onda maggiore) del risonatore sul quale sì osservano gli effetti delle onde stesse. Ne con- segue che i risonatori distribuiti lungo la parabola P, possono essere sem-_ plici fili, aste, o striscie metalliche, ed essere più lunghi di quello che si trova in AR. Si rende conto cosi dell’ effetto che danno i riflettori parabolici recentemente descritti da Zehnder, i quali sono appunto costituiti da conduttori rettilinei paralleli (1). Si possono fare altre esperienze nelle quali le onde secondarie manife- stano i loro effetti; ma siccome é facilissimo immaginarle, o idearne di consimili, in base alla spiegazione data, cosi tralascio di descriverle per brevità. 45. Azione fra risonatori di periodi diversi. Nelle esperienze descritte nel $ precedente i risultati non mutano molto se i due risonatori sono di lunghezze differenti, e perciò corrispondono a diverse lunghezze d’onda. Supponiamo che il risonatore /, sul quale si osservano gli effetti delle onde secondarie, sia più corto del risonatore o conduttore rettilineo, che produce le dette onde. Le esperienze daranno gli stessi risultati avuti con risonatori sensibilmente eguali fra loro, salvo che gli effetti saranno un poco meno marcati, specialmente se le lunghezze dei due risonatori sa- ranno molto differenti. Se al contrario sì fa agire sul risonatore A un risonatore più corto, l’ effetto di questo è assai debole, e sparisce affatto quando la differenza di lunghezza fra i due risonatori non sia piccolissima. Per queste esperienze ho trovato conveniente adoperare l’oscillatore II ed i risonatori I e II (lunghezze d’onda 20 c. e 10,6 c.). L’ effetto d’ un risonatore I sopra uno dei II è sempre ben visibile, mentre l’azione di II sopra I é insensibile. Nel caso dell’azione d’ un risonatore lungo su uno corto (per esempio un risonatore I sopra un risonatore II), è la lunghezza d’onda del risona- tore piccolo che regola le distanze producenti massime o minime scintille. Cosi per esempio se A (fig. 22) è un risonatore pel quale 4= 10,6 c. ed A' uno TI pel quale A= 20 c., sono massime le scintille in R quando RA' Li 5,9 C. Similmente, se il risonatore più lungo è in A", le oscillazioni di A sono massime quando e. CUROCC® (1) Wired. Ann. 1894, n. 5, p. 34. > Sei Da quanto precede si ricava, che anche le oscillazioni di un risonatore sono capaci di eccitare altri risonatori di lunghezza d’onda differenti, ma segnatamente risonatori di lunghezza d’onda minore. Si ha dunque anche qui quel fenomeno della risonanza multipla, dimostrato già da De la Rive e Sarasin per gli oscillatori, e lo si spiegherà adottando una delle spie- gazioni proposte nel caso in cui questo fenomeno è prodotto da un oscil- latore. E cioè, o si ammetterà che nella radiazione emessa da un risonatore, come nella radiazione emessa da un oscillatore, esistano vibrazioni pen- dolari d’ogni lunghezza d’onda (entro certi limiti), in modo che la radia- zione stessa si possa paragonare alla luce bianca. O invece si adotterà la spiegazione di Poincaré, secondo la quale la radiazione emessa é sem- plice o pendolare, ma smorzata. Quest’ultima spiegazione è la più semplice e naturale, specialmente poi pel caso del risonatore. È interessante l’ esperienza nella quale i due risonatori sono sopra uno stesso raggio, come A'"' ed A (fig. 22) e si osserva l’azione di A" su RA. Se R'' è eguale ad A, questo risonatore resta oscuro; ma se A'"' non è eguale ad A allora si vedono le scintille. Queste sono debolissime se A" é più lungo di A, ma sono vivaci come se £'"' non esistesse, se questo ri- sonatore è più corto assai dell’ altro. Un risultato simile si ha se, invece di un solo risonatore £A'"', se ne adoperano molti tutti eguali fra loro, e distribuiti in un piano perpendicolare alla direzione nella quale si propa- gano le onde. Dall’ esperienza in discorso non si può concludere nulla a proposito della causa da assegnarsi al fenomeno della risonanza multipla (1), giacché se i risonatori A'"' estinguono le oscillazioni di R quando sono eguali ad R ma non quando sono più piccoli, ciò proviene soltanto dal fatto che nel primo caso, e non nel secondo, essi producono onde, che interferi- scono in A colle onde dirette. 46. Azione delle onde secondarie sopra un risonatore sottratto al- l’azione diretta dell’ oscillatore. Nelle esperienze dei due precedenti pa- ragrafi, l’azione delle onde secondarie emesse dai risonatori si manifestava per mezzo della loro interferenza colle onde emanate dall’ oscillatore. Ma è possibile studiare isolatamente l’ effetto delle onde secondarie, osservando l’ azione che esse producono sopra un risonatore, collocato in modo che l’ oscillatore non possa produrre su di esso nessun effetto. Basta perciò che il detto risonatore A (fig. 24) sia perpendicolare in pari tempo alla direzione delle radiazioni ed all’ asse dell’ oscillatore. (1) Cfr. Garbasso, Atti della R. Ace. di Torino, marzo 1893. — 979 -— Sia O l’oscillatore munito del suo riflettore parabolico e disposto ver- ticalmente, 0a la direzione orizzontale nella quale si propagano le radia- zioni, ed Oz la direzione (verticale) dell’ oscillatore. Il risonatore R_ dovrà essere parallelo alla retta Oy, perpendicolare al piano #0a. In tali condizioni il risonatore ft, per quanto sia sensibile, non dà scin- tille. Ma se in vicinanza ad esso si colloca un altro risonatore, e si fa variare sia la direzione che la posizione di questo, si trova che in molti casi compaiono delle scintille nel risonatore A. In alcuni di questi casi queste scintille potrebbero forse attribuirsi alla riflessione delle onde pro- dotta dal risonatore posto nelle vicinanze di A, ma non però in altri. In ogni modo l’ effetto di quella riflessione deve essere minimo, e dalle espe- rienze risulta affatto trascurabile. Fra le innumerevoli posizioni che può avere il risonatore, le cui onde Z, 7 E o 2. EA o Y N’ db N] U Te € (6 J D 0 n ba ni U' / Y, , 7 Î Ss T > 0 4 V (B 5A Q' P' Z2 Fig. 24 secondarie agiscono sul risonatore A, considererò solo le principali, e de- scriverò il risultato delle relative esperienze, che eseguii successivamente cogli apparati I e coi II. a) Si collochi un risonatore col suo centro in un punto A o B della verticale 2,5, passante pel centro del risonatore È, e lo si disponga nel piano y,Az, perpendicolare ad Ox. Se il risonatore è verticale od orizzon- tale, non compaiono scintille in R; ma se é inclinato, come in MM', in — 574 — modo da fare colla verticale Az, un angolo a, vedonsi subito in A delle scintille, tanto più vivaci, quanto minore è la distanza RA. Se si prende eguale ad uno l’ ampiezza delle oscillazioni elettriche in A, il risonatore MM' è esposto all’ azione di una oscillazione d’ ampiezza cosa. L’ oscillazione X cosa che parte da MM' equivale alle due £ cos'a. di- retta secondo As,, e XK senacosa diretta secondo Ay,. È quest’ ultima oscillazione, d’ ampiezza 5 Fk sen 2a, che eccita il risonatore A. Si vede così che l’ effetto massimo in A si avrà per a= 45°. Lo stesso accade nella ‘esperienza seguente. 5) Si collochi il risonatore, destinato a generare le onde secondarie, col suo centro in un punto C, o D della retta Ox, ed in un piano yg,Cs,, o y,Ds, perpendicolare ad Ox. Anche qui il risonatore non produce effetto su £, se é verticale od orizzontale, ma se è inclinato, per esempio a 45°, colla verticale, e cioé occupa una delle posizioni SS', 27", UU‘, VVI, fa. nascere delle scintille in A, dovute all’ azione delle onde secondarie da. esso emesse. In queste esperienze il risonatore mobile può essere un semplice filo di rame, di lunghezza press’ a poco eguale a quella di A, oppure più lungo. Se la sua lunghezza d’ onda è maggiore di quella del risonatore fisso A, questo si eccita per risonanza multipla, come si é detto nel $ precedente. Lo stesso si dica se il risonatore mobile é uno di quelli pei quali 4= 20 c., mentre A è uno di quelli pei quali 4= 10,6. In tal caso l’esperienza si eseguisce adoperando l’ oscillatore II. 47. Interferenza fra le onde secondarie di due risonatori. Quando due risonatori si fanno agire in pari tempo sul risonatore A, l’effetto complessivo dipende dalle fasi relative delle due onde secondarie da essi emesse. Per rendere più breve e chiara l’ esposizione delle esperienze farò ad essa precedere la relativa spiegazione. Esaminiamo dunque dapprima da che dipenda la fase delle onde secondarie che giungono in A, allorché un risonatore, che genera quelle onde, é posto col suo centro in A oppure in B, €, D. Indicheremo con a l’ angolo del risonatore colla verticale, an golo che nelle esperienze si prenderà eguale a 45° onde avere effetti mas- simi. Quest’ angolo a si prenderà negativamente se è misurato verso la destra d’ un osservatore che guardi da « verso 0. In tal modo. sarà ‘ne- gativo a per un risonatore posto in NN', QQ', TT", VV'. La distanza fra il centro del risonatore che genera le onde secondarie ed il centro A: del risonatore fisso si indicherà sempre con d. Determiniamo nei vari casi la — 575 — fase in A delle onde secondarie, considerando come zero la fase che a- vrebbero se il risonatore mobile fosse esso pure nel punto A. 1.° Risonatore in C, cioé fra l’ oscillatore ed il risonatore R. Se il ri- 1 2 come si é visto prima, e la sua fase é zero. Infatti le onde principali an- sonatore mobile é in SS' esso produce in A una vibrazione =Xsen2 a, . . O d . . O O e O ticipano di y» per essere il risonatore in C anziché in A; ma altrettanto tempo impiegano le onde secondarie da C ad A. Pel risonatore 777" l’ ampiezza della vibrazione generata in A dall’onda secondaria è —gFsen 2a e la fase zero. Ciò equivale ad una vibrazione di ampiezza g/sen2a e di fase #7. Dunque secondo che il risonatore é in SS' o in T7' le fasi in R sono opposte. 2.° Risonatore in D, cioé sul prolungamento della retta tirata dall’oscillatore al risonatore R. Le onde principali giungono al risonatore posto in D con un È CHAT : î : ritardo yy in causa dell’ intervallo RD che prima di raggiungerlo devono percorrere in più, che nel caso in cui il risonatore stesso fosse in /. Le onde secondarie devono poi percorrere ancora la distanza d per arrivare ad AR. Dunque la fase di esse in A è si 7° L’ ampiezza della vibrazione in Ré poi 5 ksen 2a pel risonatore in UU', e —;jksen2a pel risonatore in VV'. Si può anche dire che pel risonatore in VV' l'ampiezza è SI; sen 24 e la fase lu 3.° Risonatore in A od in B, cioé sulla verticale passante per R. L’ am- piezza è 3fsen2a per le posizioni MM' e PP', e 3% sen2 a per NN', QQ. In tutti i casi la fase é evidentemente QU Si può anche dire che À 0 ba, 3 set Rd per le posizioni NI, @Q' l’ ampiezza è o sen 2a e la fase (7a deni Riassumendo; mentre l’ ampiezza della vibrazione prodotta dalle onde i I 1 secondarie in f è sempre 5% sen 2a (E ie sea= 45°) , la fase é la se- guente : — 576 — POSIZIONE O DEL i FASE RISONATORE MM' 2a z NN' Le +r Pp' Sed z QQ — == ISSÙ (0) ARIDI tr A And UU TO | VV! ne 2D%w , | Come si vede, quando il risonatore, che produce le onde secondarie, è posto fra f ed O, la fase in A delle onde stesse é indipendente dal punto C del segmento OR nel quale il risonatore si trova. Ciò premesso, ecco ora le principali esperienze eseguite. Risonatori in A ed in B. Se i due risonatori sono inclinati dalla stessa parte, come in NN' e QQ', e sono ad egual distanza da , essi produ- cono onde secondarie concordanti, ed in A si osservano scintille assai brillanti. Infatti le loro fasi sono eguali. Ma se le distanze differiscono di 3, le loro fasi diversificano di 7 e le scintille in A sono assai deboli o nulle. Se poi i due risonatori sono inclinati in senso contrario, per esempio sono collocati secondo MM' e @QQ', e sono equidistanti da A, le fasi ri- Li e SET) cioè diver- sificano di 7. Le scintille in 2 spariscono completamente. Quindi, se uno dei risonatori si tiene fisso in MM', e all’altro si dà alternativamente la posizione PP' o la QQ, le scintille alternativamente compaiono e spariscono nel risonatore A. spettive delle loro onde secondarie in A sono — 577 — Se infine i risonatori sono disposti secondo MM' e @Q@Q', e le loro di- stanze da diversificano di 2. compaiono le scintille in A. Risonatori in A e C. Se i due risonatori sono inclinati a 45° dalla stessa. parte, come MM' ed SS', l’effetto prodotto in A dalle loro onde secon- darie dipende dalla distanza d = AR. Infatti le fasi in A di dette onde © secondarie sono "> e 10%Se a=t le fasi diversificano di 7 ed in AR non si hanno scintille; se d= 4 le fasi sono differenti di 27 e cioé divengono concordanti, ed in A veggonsi le scintille. Onde per d=5 le scintille in siano nulle, occorre che le ampiezze delle onde secondarie emanate da MM' ed .SS', allorché giungono in A, sieno eguali. Per soddisfare a questa condizione, basta variare opportuna- mente la distanza PC, la quale, come si è visto, non influisce sulla fase delle onde secondarie che partono da SS". Se invece i due risonatori sono inclinati in sensi opposti, come MM', TT", i fenomeni sono invertiti, e cioé si hanno scintille massime se AR=d= 9 minime o nulle se d=4. Per cui se, tenendo fisso in MM' uno dei riso- natori, si dà all’ altro alternativamente |’ orientazione SS' e 77, men- tre ar=3, sì veggono alternativamente sparire e comparire le scintille nel risonatore A. Se i risonatori, invece d’ essere collocati in A e C, lo fossero in B e C, tutto accadrebbe nella stessa maniera. Risonatori in A e D. Se sono collocati parallelamente in SS' ed UU', le fasi in delle onde secondarie da essi prodotte sono rispettivamente 0 sit: 1 A e — Perciò si ha effetto massimo in fà, se RD=d=0,5,4... ed ef- fetto minimo o nullo se d = 1° a Quando invece i due risonatori sono incrociati, per esempio sono posti in 77, UU', si hanno le massime toi, À 34 i À scintille per ED n — ed interferenza per d =0, 9° ACISEI: L’ esperienza conferma pienamente tutto ciò, ed anzi basta tener fisso un risonatore in SS' e dare all’ altro alternativamente le posizioni UU', VV', À ) CAST mentre AD è eguale a 7° POT vedere alternativamente in scintille nulle o scintille assai vive. Serie V. — Tomo IV. 73 — 578 — Risonatori in A e D, oppure in B e D. Se sono paralleli, come MM' ed UU' ed equidistanti da , le fasi diversificano di Za Perciò, se le due distanze RA ed RD sono eguali a 0, 4,... si hanno massime scintille RA Z . in A, e se sono eguali a DE, 3 gui ha in A interferenza. Tutto s’inverte se i risonatori sono incrociati, come NN', UU'. Se si tiene fissa la distanza RA —È mentre i risonatori sono paralleli, per esempio in MM' ed UU', allora per ep=4 le fasi in A sono con- cordanti e si hanno scintille massime. Se invece i risonatori sono incro- ciati, come MM' e VV' si ha in AR interferenza. L’ esperienza verifica completamente tutti questi fatti, ed altri che per brevità lascio a parte. I risonatori che generano le onde secondarie possono possedere lun- ghezze d’ onda differenti fra loro e differenti da quella del risonatore posto in A, ed essere formati da semplici fili ad aste di metallo, anziché colle solite striscie di vetro argentato. Tutti i fenomeni descritti si producono egualmente, ma le distanze fra i risonatori, alle quali corrispondono i mas- simi od i minimi delle scintille in , sono regolate unicamente dalla lun- ghezza d’ onda propria al risonatore AR. In questi casi di risonatori diffe- renti fra loro, il risonatore A è eccitato in causa del solito fenomeno di risonanza multipla. Conclusione. 48. Fatta astrazione dall’ ultimo capitolo, nel quale si tratta dei fenomeni prodotti dalle onde secondarie, e cioé dalle onde che emanano dai risona- tori eccitati da un oscillatore, la maggior parte delle altre esperienze de- scritte nel corso di questa Memoria dimostrano, che le radiazioni elettriche si comportano esattamente come le radiazioni luminose e calorifiche, tanto che con esse si possono produrre fenomeni perfettamente analoghi a molti di quelli che si studiano nell’ Ottica. Anche in quei casi nei quali sembrava dapprima che esistesse qualche divergenza (per esempio nella riflessione metallica), le ulteriori esperienze hanno ristabilito l’accordo migliore. È in certo modo l’Ottica delle onde lunghe qualche centimetro, che si è cercato di abbozzare nel corso di questo lavoro. Però quest’ Ottica manca ome di alcuni capitoli, e precisamente di quelli, che nell’ Ottica ordinaria riguar- dano fenomeni, a produrre i quali contribuisce la struttura molecolare dei corpi. Infatti non si è giunti ancora ad ottenere colle vibrazioni elettriche nessun fenomeno analogo per esempio a quelli della polarizzazione rota- toria o della doppia rifrazione, almeno se non sì vogliono considerare come fenomeni di doppia rifrazione quelli ottenuti col legno ($ 33 e 41). Profittando dei vantaggi che i miei apparecchi offrono sopra quelli finora adoperati, ho più volte cercato se qualche fenomeno di quel genere potesse osservarsi, ma sempre con risultati negativi. Cosi per esempio, posto fra oscillatore e risonatore un diaframma metallico avente una piccola aper- tura, e chiusa quest’ ultima con un disco di quarzo tagliato perpendicolar- mente all’asse, grosso 0,8 c. e del diametro di 8 c., non ho ottenuto verun indizio sicuro di rotazione delle vibrazioni. Risultati negativi, o almeno incerti, ho avuto pure cercando di realizzare, colle onde elettro-magnetiche, dei fenomeni analoghi ai fenomeni elettro- ottici o magneto-ottici. Cosi per esempio, facendo passare le radiazioni elettriche entro un cilindro di solfo lungo 56 c. e del diametro di 13 c., circondato da un rocchetto formato con 360 giri di filo disposto in 5 strati, non ho ottenuto nessun indizio certo di rotazione delle vibrazioni, man- dando nel filo del rocchetto una corrente di circa 11 Ampére. Parimenti, avendo fatto riflettere le onde generate cogli apparecchi III sul polo di una potente elettro-calamita, non ho ottenuto nessun segno concludente del fenomeno di Kerr. Questo era forse il fenomeno che of- friva miglior affidamento di successo, giacché, come altra volta dimostrai, il fenomeno stesso cresce d’ intensità insieme alla lunghezza d’onda delle radiazioni adoperate, almeno finché si tratta delle onde luminose. Del resto, dato che in futuro non si riesca a realizzare coi raggi di forza elettrica nessuno di quei fenomeni, che in Ottica sono determinati dalla struttura molecolare dei corpi, o dalle modificazioni transitoriamente prodotte in questa struttura, ciò non sarà difficile da spiegare, se si terrà conto del diverso ordine di grandezza delle onde elettriche finora prodotte, e delle onde luminose. Queste sono circa cinquantamila volte più brevi delle più corte onde elettriche da me adoperate; per cui, mentre le dimen- sioni molecolari possono essere paragonabili alle lunghezze delle onde lu- minose, esse possono essere in pari tempo trascurabili di fronte alle lun- ghezze delle onde elettriche. È probabile però che almeno si possano ottenere colle onde elettro- magnetiche, delle imitazioni di quei fenomeni dell’ Ottica che non si pos- sono fedelmente riprodurre. La via da seguire potrebbe essere quella di comporre dei sistemi di conduttori eguali, regolarmente disseminati entro un certo volume, e porre questi sistemi sulla strada percorsa dalle radia- — 580 .— zioni elettriche. Forse anche, per imitare certi fenomeni, occorrerà elettriz- zare, per esempio per influenza, quei conduttori, o sostituirli con calamite concordemente orientate ecc. Non é improbabile che da esperienze di tal genere si possa ricavare qualche lume intorno all’ intima struttura dei corpi, ed alle relazioni esi- stenti fra 1’ etere e la materia ponderabile. NOTA (vedi $ 27). Le formole per la riflessione e la rifrazione delle onde elettro-magnetiche ‘alla superficie di separazione di due dielettrici, si possono ricavare in modo .semplicissimo dalle equazioni di Hertz. Si prendano tre assi ortogonali cosi disposti, che l’asse delle # sia nor- male alla superficie di separazione, e quello delle y sia perpendicolare al piano d’incidenza, e sia i l’angolo d’ incidenza, cioé l’angolo che la normale alle onde incidenti fa coll’asse delle 2. La forza elettrica E abbia direzione costante, e cioé si supponga l’onda piana incidente polarizzata. La forza E è funzione del tempo # e della di- stanza p dell’onda da un punto fisso, o meglio funzione di (e —_ 5), ove Vé la velocità di propagazione. Infatti essa non deve cambiare di valore, aumen- tando # di una quantità qualunque 7, ed in pari tempo aumentando p della quantita Vr. Se «, y, #, sono le coordinate di un punto dell’onda incidente in una data posizione, si ha evidentemente p= cosi — x senî+a, a es- sendo una costante che dipende dalla scelta del punto da cui si misura p. Studiamo separatamente i due casi principali, e cioé quelli in cui la forza elettrica é perpendicolare o parallela al piano d’ incidenza. 1.° Forza elettrica perpendicolare al piano d’ incidenza. Le componenti X, Y,Z,'di E sono: X=0, Y= d o b° questo piano passerà per l’ intersezione del piano P col piano y0a, e se d> a passerà per l’ intersezione del piano P col piano #0, ed il raggio della circonferenza sarà eguale ad 4 nel primo caso ed a 6 nel secondo. Se ora si suppone che un raggio di questa circonferenza giri uniforme- — 590 — mente intorno al centro, in modo da impiegare in ogni giro il tempo 7, la sua proiezione sul piano P rappresenterà continuamente in grandezza e direzione la forza elettrica E nel punto A. Per un medesimo istante la forza E ha io stesso valore e la stessa «direzione, non solo in tutti i punti del piano P, ma anche in tutti i punti dei piani paralleli a P e distanti da questo di un multiplo intero di lun- .ghezze d’ onda, mentre per i piani intermedi avrà grandezza e direzione diverse, determinate dal valore differente, in proporzione della distanza dal piano P, dell’ angolo che il raggio mobile fa con una direzione fissa presa nel piano della circonferenza. Se quindi per tutti i punti di una retta normale alle onde, per esempio 0a, s’ immaginano rappresentate in grandezza e direzione, per mezzo di tante rette, le forze elettriche che ad un dato istante ivi agiscono, le estremità di tali rette disegneranno una specie di elica, giacente sulla superficie cilindrica che 2 2 ha per direttrice l’ elisse Lth ad Ox. Se poi si suppone, che questa curva si sposti uniformemente nel senso Oxa della propagazione delle onde con velocità V, essa varrà a dare idea della forza E nei vari punti della retta Ox (e quindi anche in tutti i punti dei piani normali ad Ox) nei successivi istanti di tempo. Una volta acquistata in tal modo la cognizione completa della forza elettrica E, sarà facile concepire anche la distribuzione, nello spazio e nel tempo, della forza jmagnetica F, rammentando che dalle sei equazioni scritte più sopra si ricava facilmente che / è perpendicolare ad È e che /uF=y€E. Naturalmente, le spiegazioni già date per render conto della distribu- zione delle due forze nel dielettrico pei casi di vibrazioni rettilinee e di vibrazioni circolari, si potrebbero dedurre, come casi particolari, dalla spiegazione ora data pel caso di vibrazioni elittiche. = 1, e per generatrici delle parallele LE Da 3. -OoOSQLIOUTA (I ] NO! 20. 28. . Misura della lunghezza dota e Gezni in- . Interferenza con un solo ozio o . Esperienza del biprisma. . Tentativo di spiegazione cf Pr ccadont i INDICE PARTE I. Descrizione degli apparecchi. APRO AZIONE II Gli oscillatori . . . ANESS Modo d’ eccitazione degli De illetoti Fares . Disposizione pratica degli oscillatori . . ,, Dove si producano le oscillazioni . . . SIErRISONato pie ten. IO . Dettagli di costruzione de risonatori. . , . Dimensioni degli oscillatori e deirisonatori ,, . Montatura dei risonatori . Risonatore senza specchio miglio, . Osservazioni finali sugli apparecchi . . , PARTE IT. Esperienze. CapITOLO I. 487 488 489 490 493 495 498 499 502 504 005 Esperienze di Hertz; frangie d’ interferenza. MElsperienzeggigrlionitiz. o. Mat. i Pag. . Esperienza degli specchi di Fresnel . Altra forma dell’ esperienza d’ interferenza te) con due specchi. » dici di rifrazione . . . CATO, CapitToLo II. Interferenza colle lamine sottili. MEISperIenzeRanteriorii SUSE e RIO) Spessore delle lamine 5 ò Esperienze d’ interferenza colle oo 303 tili 9 ù ” CapiroLo III. Fenomeni di diffrazione. . Disposizione generale delle esperienze . Pag. . Esperienza del diaframma di Fresnel . . Diffrazione prodotta da una fenditura. . Diffrazione prodoita dall’orlo d’un corpo opaco ; altri fenomeni di diffrazione va . Fenomeni speciali PA da masse di- elettriche . nomeni . 5 CapitoLro IV. Riflessione. “Leggi dellatriflessione:( .. 0 + 0. Pag. Riflessione sui dielettrici. Disposizione delle esperienze . 5) 506 507 016 517 018 527 532 033 29. 30. sl. 32. 33. Sd. 40. 4l. 47. 48. . Onde secondarie generate dai risonatori . Azione di un risonatore sopra un altro di Esperienze intorno alla riflessione sui Se elettrici. Riflessione sui al, reositiono La esperienze . : 0 Esperienze sulla a iciico LIT 7 Oscillazioni elettriche, elittiche e circolari Riflessione sul legno . 0 Altre esperienze di riflessione. CapiIToLO V. Itifrazione e riflessione totale. . Prisma, lastra a faccie parallele, lenti . Polarizzazione per rifrazione; pila di lastre . Riflessione totale BOLSA . Polarizzazione per riflessione ‘oo Co- struzione dei prismi a più riflessioni totali . Produzione di raggi di forza elettrica po- larizzati circolarmente o elitticamente. CapitoLo VI. 9” Trasmissione delle radiazioni elettriche attraverso i dielettrici. Diminuzione d’ intensità delle radiazioni dovuta all’ interposizione d’una lastra di- elettrica. . . Trasmissione elle] TIA SI nicho attraverso il legno. . Polarizzazione elittica natio del Segno CapitoLo VII. Sulle onde emesse dai risonatori in azione. egual periodo . . . . . Azione fra risonatori di atiodo aircoi . Azione delle onde secondarie sopra un ri- sonatore sottratto all’azione diretta del- l’oscillatore 5 Interferenza fra le CIG ii di duo risonatori . Conclusione Nota (annessa al $ 27) Errata-Corrige . Pag. 97 ” 9” ” ” ” . 549 501 502 505 508 564 566 567 571 D72 074 580 Va ot 9 di F mit PR x pe I vi iii ds È parola, i usa Follie 001 na na i ret Îigpissit pr ato si dti srnibritar sota eda a asa sue sartoria 194 È abi ave eq o alati orig RR ee ato ai ANT at È wii a hi Gee 47 Hib gs DA” li È dò raanart A ddt A dp si ano ‘Sarti A YET bra iva rhegton: avriigtraa vat airarra Csmotattisaa ‘È "i 4 U A HA £ I la e uti N PRO E anca “reti x i : i ate and grant ci para A NO ei ERE A ARI variata 18 inbaor EU 6 Dia) 3 PI pi dii di } h DATA du Cres ga e 5:7028 MRS È si s b) 3 "ir DI î Y È Rus) SER AI i 3 È; ù . ni = ze » S 3 " IA AI (3 ‘ è « pela Ù E È À, pe ni x n Sale i ) dei) Pia È Sì A ur Pi RIINA 11 SKSBIATE io ri L'AS SV OR, I TAG i si j È ” LO, a OSSERVAZIONI SUL PORI CUTANEI DEI COCCODRILLI MEMORIA DEL PROF. CARLO EMERY (Letta nella Seduta delli 27 Maggio 1894) (CON TAVOLA) In un lavoro precedente (1), nel quale ho discusso varie questioni re- lative alla morfologia dei peli e alle loro relazioni con gli organi epider- mici di altri Vertebrati, ho formulato la tesi, che i peli dei Mammiferi e i denti cutanei dei Selaci sono fra loro omologhi, perché derivano dagli stessi organi del tegumento dei Vertebrati primitivi, mentre le squame dei Rettili (dalle quali derivarono forse le penne degli Uccelli) rappresen- tano le piastre ossee di sostegno dei denti cutanei, col loro rivestimento epidermico divenuto preponderante sulle parti mesodermiche sottostanti. Non vi è dunque omologia fra i peli e le squame, ma queste due cate- gorie di organi cutanei possono coesistere, come avviene in fatti in ta- luni Mammiferi, nei quali la pelle è fornita di scudi o squame, e insie- me di peli. M. Weber (2) ammette che i primi Mammiferi avessero la pelle squa- mosa, e che negl’ interstizi delle squame sorgessero i primi peli dei quali non cerca di spiegare l’ origine. Credo anch’ io che i Mammiferi primitivi fossero forniti di squame epidermiche e forse anche di uno scheletro cu- taneo, dalle quali formazioni derivarono la corazza degli Sdentati loricati e le squame dei Pangolini e quelle che si osservano in varie parti del corpo di molti Mammiferi viventi; ma le mie osservazioni, e specialmente l’ esame della pelle di Dasypus e Chlamydophorus, mi hanno condotto a ritenere che i primi peli si trovassero, non tra le squame, ma entro l’ area (1) Emery. Uebder die Verhdltnisse der Séugethierhaare zu schuppenartigen Hautgebilden in: Anat. Anzeiger, 1893. VIII, N. 21-22, pag. 731-738. (2) M. Weber. Ueber den Ursprung der Haare und iiber Scehuppen bei Siugethieren. in: Anat. Anzeiger, 1893. VIII, N. 12-13, pag. 413-423. Serie V. — Tomo IV. 75 — 594 — di ciascuna squama, come i denti cutanei dei Selaci sono impiantati nel mezzo delle squame placoidi corrispondenti. Ma, se l’ origine dei peli è quale io 1° ho supposta, ne consegue che, nei primi Amnioti, dai quali derivarono Rettili e Mammiferi, e nei primi Stapediferi, antenati comuni degli Amnioti stessi e degli Anfibi, dovessero esistere organi omologhi ai peli dei Mammiferi. E ciò ammesso, diviene verosimile che, in alcuni Rettili, e forse ancora in alcuni Anfibi, si pos- sano riscontrare delle formazioni derivate dalla stessa fonte che die- de origine ai peli e ai loro organi ghiandolari. La scoperta di tali forma- zioni, se esistono realmente, dipenderà senza dubbio molto dal caso, ma sarà agevolata dal pensiero della loro probabile esistenza, almeno in for- ma rudimentale. I pori della pelle dei Coccodrilli che sono oggetto di questo studio, fu- rono scoperti dal Rathke (1). Secondo questo autore, si trovano sugli scudi del ventre, della coda, dei fianchi e di una parte della testa, nei Crocodilidi e Gavialidi, mentre mancano negli Alligatoridi. Sono situati nel mezzo di ciascuno scudo, più vicino al margine posteriore, anzi, pro- prio in vicinanza di esso margine negli scudi rettangolari del ventre, e costituiscono una leggera depressione della pelle, spesso rilevata ad om- belico nel mezzo. — C. K. Hoffmann, nel volume dei Rettili dell’ opera di Bronn, confermo i risultati di Rathke, ai quali aggiunse alcune os- servazioni istologiche poco importanti. — Del resto non conosco altri lavori originali su questi pori. Io non ho studiato i Coccodrilli adulti, dei quali non avevo a mia di- sposizione che vecchi esemplari secchi. In embrioni di Crocodilus, posso confermare quanto disse Rathke, circa la distribuzione dei pori. In un giovane A/ligator lucius, ho trovato qua e là pochi pori sugli scudi ventrali. La posizione di questi organi che ricorda quella del pelo centrale su- gli scudi cutanei degli Armadilli fu quella che mi fece sospettare che po- tessero essere organi omologhi ai peli e m’ indusse a studiarne la strut- tura e lo sviluppo. Se i risultati di questa ricerca sono molto incompleti, lo si deve anzitutto al materiale scarso e difettoso di cui ho potuto di- sporre. Questo consisteva da prima in alcuni embrioni di Crocodilus ni- loticus provenienti da Madagascar e vendutimi dal noto collettore Sikora. Il Prof. Wiedersheim ebbe poi la cortesia di mandarmi vari pezzi di embrioni di Crocodilus biporcatus di Ceylan e frammenti di pelle di un esemplare giovane della stessa specie (con 1’ etichetta C. porosus) prove- niente dall’ Australia; gliene esprimo qui la mia gratitudine. (1) Rathke. Untersuchungen iber die Entwickelung und den Kéòrperbau der Krokodile. Braunschweig 1866, pag. 23-24. — 595 — Le due specie studiate offrono fra loro differenze considerevoli, per cuî le descriverò successivamente. Nei più giovani stadi del C. niloticus che io abbia studiati (lunghezza totale 15 centim.) il punto del tegumento in cui deve formarsi un poro, offre un ispessimento dell’ ectoderma ; le cellule dello strato più profondo - si fanno alte e strette, e l’ ispessimento si approfonda nel derma sotto- stante (Fig. 1). Le cellule epidermiche dello strato profondo offrono alla loro base una zona striata perpendicolarmente al piano della membrana basale. Alcune cellule pigmentate si notano nel derma e anche tra le cel- lule epidermiche. Nel derma, al disotto dell’ ispessimento ectodermico, le cellule mesodermiche si raccolgono in maggior copia, costituendo un cu- mulo ben distinto. Questa condizione offre una rassomiglianza degna di nota col primo accenno di un pelo, come mostrerà il confronto con la Fig. 2, tratta dal cuoio capelluto di un embrione umano di 13 centimetri. Anche qui si ha un ispessimento dello strato profondo dell’ epidermide, sotto il quale si forma un cumulo di elementi mesodermici (abbozzo della papilla). In uno stadio molto più inoltrato, rappresentato a Fig. 3, il luogo del futuro poro costituisce alla superficie della cute una sporgenza rotondeg- giante, circondata da debole solco circolare. Sulle sezioni, si vede sotto la sporgenza dell’ epidermide un rilievo corrispondente del derma, a for- ma di larga papilla, in cui le cellule sono molto più stipate che nelle parti vicine della pelle, e in cui mancano le cellule pigmentate. Esami- nando attentamente le serie di sezioni, si può riconoscere che, in ciascuna papilla, penetrano un’ ansa vascolare e un sottile filetto nervoso; come quest’ ultimo vada a terminare non ho potuto riconoscere. In questo stadio, la struttura dell’ epidermide merita di fermare un momento l’ attenzione. Lo strato di cellule che trovasi alla superficie co- stituisce una membranella continua, mentre, alla sua faccia profonda, si differenzia in una zona di bastoncelli o peluzzi perpendicolari alla su- perficie, come si riscontra nel piano di sfaldamento dell’ epidermide nella muta dei Rettili. I nuclei stanno tra la pellicola superficiale e la zona a bastoncelli. Nelle cellule degli strati medii dell’ epidermide, si osserva il principio della formazione dello strato a bastoncelli sotto il nucleo. Io ri- tengo che queste apparenze siano l’ espressione di un processo di sfalda- mento degli strati superficiali dell’ epidermide, i quali si staccano ad uno ad uno, a differenza di quanto avviene in generale nei Rettili squamosi. L’ epidermide che riveste la papilla non differisce essenzialmente da quella delle parti circostanti. Essa é soltanto un poco più spessa, il numero de- gli strati di nuclei è un poco maggiore, e le sue cellule sono un poco più — 596 — piccole. Lo strato superficiale di cellule è più sottile, e specialmente la. relativa zona a bastoncelli è più regolare. (Vedasi anche la Fig. 4). Ho rappresentato nella Fig. 4 la sezione di una papilla delle labbra dello stesso embrione. Queste papille che si trovano al numero di una o due in ciascuna squama hanno la medesima apparenza esterna di quelle del tronco: la loro epidermide ha la identica struttura, ma, nel derma, vedesi differenziata una massa di cellule stipate, disposte a strati concen- trici, nella quale penetra un ramuscolo nervoso. Io considero questa for- mazione come un organo nervoso terminale, una specie di corpuscolo di Herbst molto meno altamente differenziato. — Che queste papille siano omologhe ai pori di altre parti del corpo mi sembra fuori dubbio; sol- tanto, intorno alla bocca, si sono perfezionate come organi speciali di senso tattile, per un differenziamento progressivo avvenuto nella loro parte mesodermica, intorno alle terminazioni nervose. Negli Alligatori, che sono privi dei pori cutanei del corpo (1), si ve- dono nella cute delle labbra delle macchiette prive di pigmento, e che, per la loro distribuzione, corrispondono esattamente alle papille labiali dell’ em- brione di Crocodilus niloticus. Ho fatto delle sezioni del labbro di un gio- vane Alligator luctus, ed ho potuto osservarvi organi terminali nervosi non dissimili da quelli descritti sopra nell’ embrione di Crocodilus. Ma lo stato di conservazione dell’ esemplare non concedeva uno studio più minuto. Lo sviluppo dei pori nel Crocodilus biporcatus offre un quadro molto diverso. In stadi corrispondenti al più giovane embrione di €. niloticus, l’ epidermide non offre alcuna notevole modificazione nel. punto dove si formera un poro, ma soltanto si osserva un cumulo di cellule mesoder- miche sotto 1’ epidermide. Per molto tempo, le cose rimangono quasi sta- zionarie, e una vistosa lacuna separa gli stadi embrionali più inoltrati che io abbia studiati dallo stadio giovane che ora passo a descrivere, rappre- sentato dall’ esemplare australiano mentovato sopra. In questo stadio, i pori sono poco profondi, e non offrono papilla no- tevolmente sporgente nel loro centro. Sulle sezioni, si può riconoscere talvolta una leggera sporgenza del derma sotto il poro, ed ivi il pigmento manca e le cellule mesodermiche sono più abbondanti in mezzo al con- nettivo, che costituisce un ammasso rotondeggiante, avvolto dal tessuto (1) Nell’ esemplare di A/ligator di cui ho esaminato le papille labiali, ho pure riscontrato sopra alcuni scudi addominali 1-2 pori, e ne ho fatto sezioni. Però, all’ infuori di un’ infossa- mento dell’ epidermide, non ho potuto riconoscere nessuna struttura degna di nòta. Forse sono rudimenti dei pori dei Crocodilidi. Non sarebbe inverosimile che, nello sviluppo degli A/ligator, si costituissero accenni di pori, destinati a sparire più tardi. — 597 — pigmentato circostante (Fig. 5, 8); vi penetrano vasi sanguigni e vi si scorge talvolta (forse sempre ?) un sottile filamento nervoso. L’ epidermide é molto diversa da quella del C. niloticus; allo strato profondo o basale, di cellule più o meno cilindriche, seguono due o tre strati di cellule po- liedriche a nuclei rotondeggianti, e poi strati di cellule piatte che si sfaldano in lamelle, ma che non sono separati fra loro da zone a baston-_ celli. Cosi è nell’ epidermide che circonda i pori. (Fig. 6). — Nei pori stessi, il numero degli strati di cellule sovrapposti allo strato basale é maggiore, e le loro cellule sono più appiattite e fanno gradualmente pas- saggio a quelle degli strati della superficie (Fig. 7), ma queste, invece di sfaldarsi facilmente a lamelle, sono strettamente aderenti fra loro, e co- stituiscono alla superficie dell’ epidermide del poro un rivestimento com- patto, da cui si staccano solo gli straterelli più esterni. Inoltre, 1’ epider- mide dei pori è manifestamente pigmentata: nello strato basale, il pig- mento sta entro elementi interposti tra le cellule epiteliali (cellule mi- granti); negli strati a cellule piatte, il pigmento trovasi intorno ai nuclei dell’ epitelio. Questa descrizione si applica a quei pori che ho creduto dovere con- siderare come in istato normale. Altri offrivano alterazioni dell’ epider- mide, con formazione di ispessimenti e distacco di strati dovuto alla pre- senza di un microparassita intracellulare. I risultati dell’ esame di queste due specie sono talmente discrepanti, che qualsiasi considerazione generale vi si voglia connettere dovrà essere espressa con molte riserve, essendo tuttora possibile che l’ esame di stadi differenti da quelli che ho studiati risolva le contraddizioni apparenti ; e perciò sarebbe sopratutto da desiderarsi lo studio di esemplari più svi- luppati del Crocodilus niloticus. Se le differenze nella struttura dell’ epi- dermide di quelle due specie sono veramente cosi profonde come sem- brano indicarlo i miei preparati, esse sono segno di grande divergenza nel loro sviluppo filetico. In quanto alle divergenze nella struttura e nello sviluppo dei « porî », forse trovano la loro spiegazione nell’ ipotesi che questi organi siano formazioni rudimentali, derivanti da organi molto dif- fusi nei Rettili primitivi e conservatisi solo nei Loricati, anzi, solo nei gruppi dei Crocodilidi e Gavialidi, ma non negli Alligatoridi, fuorché sulla pelle delle labbra, dove hanno acquistato uno sviluppo più completo e co- stante, come organi di tatto. Ho gia accennato sopra alle rassomiglianza tra il primo accenno dei « pori » nel C. niloticus con quello dei peli nell’ embrione umano. Nello stato sviluppato della pelle nel C. diporcatus, si può ancora considerare come condizione istologica rassomigliante a quella dei peli il fatto che, — 598 — nel poro stesso, l’ epidermide ha una tessitura più compatta, meno sog- getta a sfaldamento e offre ancora particolari condizioni di pigmentazione. Ma questi rapporti sono senza dubbio molto lontani: una comparazione diretta dei pori dei Coccodrilli coi peli non è ammissibile, ma solo una comparazione indiretta con un termine comune di confronto ancora ignoto, cioé con un organo primitivo, dal quale gli uni e gli altri sono derivati. APPENDICE Tr Dopo la presentazione di questa Memoria, alcune importanti pubblica- zioni intorno ad argomenti strettamente affini hanno veduto la luce. Il Dott. De Meijere (1) ristampa in tedesco il suo lavoro olandese, ag- giungendovi alcune considerazioni critiche al mio indirizzo; egli nega ogni valore alle mie vedute, perchè appoggiate sull’ esame di poche for- me, mentre le sue sono avvalorate dallo studio di un esteso materiale. A questi apprezzamenti rispondo col rimettermi al giudizio di chi verrà dopo di noi; ora la questione é aperta e non ‘mancherà chi se ne occupi. E appunto il Dott. L. Reh (2) ha fatto uno studio speciale delle squa- me dei Mammiferi e delle loro relazioni con i peli. Le sue ricerche af- fatto indipendenti dalle mie confermano la mia opinione, che i peli non nascono tra le squame o dietro le squame, ma nelle squame stesse. È poi particolarmente interessante un lavoro del Prof. Poulton (3) so- pra alcuni organi epidermici dell’ Ornitorinco. In questo animale, di cui l’ autore ha studiato un giovane esemplare che fu gia oggetto di vari im- portanti studi anatomici, egli distingue due sorta di peli. I più grandi, che sorgono isolati, sono piatti, con struttura simmetrica che può essere paragonata a quella delle penne; le prime fasi del loro sviluppo sono ignote. Gli altri sono raccolti a fascetti (4 fascetti per ogni pelo princi- (1) J. C. H. de Meijere. Ueder die Haare der Stugethiere, besonders tiber ihre Anordnung. in: Morph. Jahrb. 1894. XXI, pag. 312-424. (2) L. Reh. Die Sehuppen der Scùugethiere. in: Verh. Naturw. Verein Hamburg. (3), I, 1894. (3) Edward B. Poulton. The structure of the Bill and Hatrs of Ornithorhynehus para- doxus ; with a discussion of the homologies and origin of Mammatlian hair. in: Quart. Journ. Micr. Sc. (2) Vol. XXXVI, pag. 143-199, pl. 14, 15, 15%; 1894. — 599 — pale) che sorgono ciascuno dal fondo di una invaginazione cava dell’ epi- dermide. L’ autore pensa che queste invaginazioni cave rappresentano una condizione primitiva, rispetto all’ invaginazione solida dei peli degli altri Mammiferi, e che con questo fatto sparisce una delle principali diffe- renze tra pelo e penna; egli si sforza di ricondurre all’ unità di struttura questi due generi di appendici epidermiche. — Non é qui il luogo di di- scutere questa omologia, alla quale si oppone, a mio avviso, particolar- mente il diversissimo modo di muta dei peli e delle penne. Ma qualora si voglia pure ammettere che i peli e le penne siano derivati da un me- desimo organo primitivo, la loro parentela è cosi remota da non poter dare luogo ad un confronto diretto delle loro diverse parti. Nel becco dell’ Ornitorinco, il Poulton descrive certi organi epider- mici singolari cui dà il nome di « push-rods »: sono bastoncelli com- patti, differenziati dall’ epidermide circostante e che, con la loro base, stanno a contatto con un gruppo di corpuscoli paciniani ai quali trasmet- tono la pressione della superficie, come il bottone di un campanello elet- trico trasmette la pressione del dito alla molla sottostante. Per quanto differenti dai peli, questi organi, che non subiscono mute, offrono pure coi peli qualche lontana rassomiglianza nella loro struttura istologica. A me ricordano altresi, in certo modo, le papille labiali dei Coccodrilli, mentre i corpuscoli paciniani situati al disotto di essi mi sembrano rappresentare gli organi tattili molto più indifferenti degli stessi Coccodrilli. Anche que- sti organi non sono peli, ma io credo probabile che derivino da quelli stessi organi primitivi dai quali derivarono pure i peli, nonché le papille e pori cutanei dei Coccodrilli. Qualora venisse dimostrato che le penne non sono squame trasformate, ma organi sui generis, differenziatisi nel mezzo delle squame, potrebbero anch’ esse ricondursi alla medesima origine. Settembre 1894. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA — et Fig. 1 — Crocodilus niloticus. Embrione di 15 centimetri. Accenno di un poro cutaneo degli scudi del ventre. Ingrandimento 380 : 1. » 2 — Uomo. Embrione di 13 centimetri. Accenno di un pelo nel cuoio capelluto. Ingrand. 270 : 1. Fig. 3 » 4 » 5 » 6 Da » 8 » 9 — 600 — — C. niloticus. Embrione di 24 centimetri. Sezione trasversa di un piccolo scudo ventrale con poro cutaneo in forma di papilla sporgente. Ingrand. 180 : 1. — id. Sezione di una papilla del labbro. Ingrand. 270 : 1. — Crocodilus biporcatus, giovane. Sezione trasversa di un poro dei grandi scudi ventrali. Ingrand. 180 : 1. — Dallo stesso preparato. Epidermide del poro a più forte ingran- dimento. Ingrand. 380 : 1. — id. Epidermide delle parti che circondano il poro. Ingrand. 380 : 1. — C. biporcatus, giovane. Sezione di un piccolo scudo dei lati del ventre col suo poro. Ingrand. 180 : 1. — Dallo stesso preparato. Epidermide del poro a più forte ingran- dimento. Ingrand. 380 : 1. Mem. Ser. V. Tom.IV. a FAZI ae aes Emery_ Pori culanei dei Coccadrilli Me LIS MU °- se _ FS ST SUI DA 906 (E Emery dis. RSI DI È Ra 4 O 80092 00800 E SASA F. Chiarini lit. Lit Mazzoni e Rizzoli-Bologna IL METODO SCHUTZENBERGER-STEGFRIED PER LA DETERMINAZIONE DELL'OSSIGENO MOBILE DEL SANGUE PROVE SPERIMENTALI ESEGUITE CON UN NUOVO APPARECCHIO DEL Dott. IVO NOVI AIUTO E DOCENTE DI FISIOLOGIA NELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA (Lette nella Seduta del 10 Dicembre 1893). CON TAVOLA Il sangue trattato con idrosolfito di sodio secondo le indicazioni del Dott. Siegfried cede solamente una parte del suo ossigeno, di quello cioé che si può estrarre con la pompa. Quando il sangue ha perduto questa sola parte d’ ossigeno non pre- senta più traccia di ossiemoglobina rilevabile allo spettroscopio. Se la formazione e la riduzione dell’ ossiemoglobina rappresentano il meccanismo per il quale |’ ossigeno entra ed esce dal sangue, é chiaro che sarà l’ ossigeno dell’ ossiemoglobina determinabile coll’ idrosolfito, quello cche a vicenda entrerà ed uscirà dal sangue. È appunto questa parte dell’ ossigeno del sangue che ho ereduto op- portuno chiamare ossigeno mobile. Da quando il Boyle ha dimostrato che dal sangue si possono estrarre dei gas, vari metodi furono studiati e perfezionati per eseguire quest’ estra- zione e tutti oggi hanno ceduto il posto a quello della pompa a mercurio, metodo che fondato dall’ Hoppe-Seyler sul fatto scoperto dal Mayow, venne tanto perfezionato dal Ludwig e poi dal Pflùger. È noto che con questo metodo si mette il sangue in condizione di perdere tutti i gas disciolti o lassamente combinati e che tale condizione viene effettuata col porre il sangue in un ambiente in cui essendo stato fatto il vuoto quasi assoluto si é ridotta al minimo possibile la pressione parziale di tutti i gas. Se sì pensi che una modificazione delle più utili portate a questo me- todo consiste nell’ elevare la temperatura del sangue introdotto nell’ appa- Serie V. — Tomo IV. 76 — 602 — recchio in cui avviene l’ estrazione, e che questa. elevazione giunge ai 60° e 70°, si comprenderà di leggeri come a rigore non si possa ammet-- tere che questo metodo valga veramente a sottrarre dal sangue solamente: quella parte di ossigeno che si trova legata alla ossiemoglobina e che questa abbandona in seno ai tessuti. E d’ altra parte la pressione parziale dell’ ossigeno che si trova nei tessuti non è nulla com’é entro la pompa. Di certo questo metodo è il più esatto che ci permetta di determinare in toto la quantità di ossigeno contenuto nel sangue. Con esso le condizioni sperimentali sono ben determinate, sono sempre le stesse, le influenze che si mettono in azione non possono cambiare, ed i risultati devono quindi corrispondersi perfettamente, quando si agisca naturalmente sullo stesso materiale di esperimento. Non vi é chi non riconosca l’ importanza di una determinazione simile, ma nessuno potrà neppure negare che per il fisiologo sia meno interes- sante il sapere quanto ossigeno esista nel sangue, di quello che il cono- scere che una parte di questo quantum può entrare o uscire dalla mole- cola dell’ ossiemoglobina o della emoglobina ridotta. Nello stesso modo con cui non disconoscendo la necessità di sapere la composizione centesimale. di una sostanza, dobbiamo pur convenire che il conoscere i vari gruppi in cui ì singoli componenti si riuniscono, ci permette di fissare le pro-. prietà del composto finale, che possono essere assai diverse a seconda dei diversi raggruppamenti. È ben vero che fino ad oggi si é creduto che l’ ossigeno che si estrae mediante la pompa vada a combinarsi tutto con l emoglobina e a for-- mare cosi tanta ossiemoglobina, eccettuata s’ intende quella parte di ossigeno, del resto piccolissima, che si può trovare disciolta fisicamente nel sangue. Ma di fatto ciò non è, né può essere. Non è, perché le esperienze recenti di Siegfried (1) hanno dimostrato che lo spettro della ossiemo-. globina sparisce prima che sia estratto tutto quell’ ossigeno che la pompa può estrarre dal sangue e d’ altra parte per le indagini dello stesso Sie g-- fried si sa che la scomparsa dello spettro comincia quando la propor- zione dell’ ossiemoglobina diventa inferiore a 0,58% di menstruo. Né può essere almeno a priori, che l’ ossigeno ricavato con la pompa rappresenti quello combinato alla ossiemoglobina, perché nell’ organismo nel quale l’ossiemoglobina funziona, non esistono quelle condizioni di temperatura. e pressione che si formano artificialmente nella pompa e che occasionano l’ uscita dell’ ossigeno dal sangue nella quantità conosciuta. (1) Dott. M. Siegfried. Ueder Haemoglobin. Archiv fir Anat. und Physiol. Physiolog. Abth.. 1390, pag. 385 e seguenti. — 603 — È vero che nei tessuti la pressione parziale dell’ ossigeno è bassissima “e per questo fatto le condizioni della pompa si avvicinerebbero, senza però eguagliarsi, a quelle dei tessuti, ma innanzi tutto molto ci corre da pressione bassissima a pressione quasi nulla come quella della pompa -e poi é tanto vero che il fatto fisico della diminuita pressione parziale é insufficiente a spiegare l’ uscita dell’ ossigeno dall’ ossiemoglobina, che, se. non si riscalda il recipiente in cui sì fa l’ estrazione, questa segue lentis- sima ed incompleta, tanto lenta ed incompleta, che può ancora aversi a ‘lungo lo spettro dell’ ossiemoglobina. È noto anzi che in queste condizioni una parte dell’ ossigeno può essere alla sua volta di nuovo consumata dal sangue anche sotto bassissima pressione e ciò rende conto del caso interessante notato dal Meyer (1). Questi ha veduto che anche con un ‘minimo di 2 volumi di ossigeno per 100 di sangue é possibile la vita di ‘un animale anche con forti movimenti muscolari e così pure con un mas- «simo di 35 volumi di acido carbonico per 100 di sangue. Se si pensi che le cifre normali per l’ O e il CO? rispettivamente oscillano fra 19 e 26 per il primo e 38 e 50 per il secondo nel sangue arterioso (Bert) di cane, si potrà osservare non solo quale grande variabilità di contenuto di gas si abbia pur durando il regolare andamento delle varie funzioni organiche, ma anche entro quali estremi sia ancora possibile una serie di atti impor- tanti ed energici, come forti movimenti muscolari, che naturalmente non ‘sieno convulsioni di poco precedenti la morte. Se si voglia poi vedere la rapidità con la quale il sangue e rispettiva mente l’ emoglobina cedono ed assorbono di nuovo l’ ossigeno dell’ atmo- -sfera basterà eseguire il seguente semplicissimo esperimento. Si sciolga un po’ di sangue, 2 cc. circa in 500 di acqua distillata pre- viamente bollita e raffreddata in vaso chiuso e si faccia entrare questa .soluzione nel recipiente della pompa di Pflùger in cui si sia incomin- -ciata l’ estrazione. Si osservi a traverso al recipiente lo spettro e si ve- -dranno le linee nette della ossiemoglobina. Si estraggano allora comple- ‘tamente i gas e finché non ve ne sia. più traccia neppure dopo aver portato a 60° il recipiente contenente la soluzione di sangue. Nel frat- ‘tempo si osservi di tanto in tanto lo spettro e mentre si ricavano quantità piccolissime di gas e quindi più piccole ancora di ossigeno, quasi immi- «surabili, si seguiterà a notare invece ben apparente lo spettro della ossiemo- .globina. A estrazione finita, naturalmente, lo spettro è quello dell’ emoglo- bina ridotta. (1) Hans Meyer. Studien tber die Alkalescenz des Blutes. Arch. fir exp. Path. und Pharm. _Bd. 17, pag. 304 e seg. — 604 — Si lasci allora raffreddare e poi, mentre il manometro non segna che la pressione dovuta al vapor acqueo a quella data temperatura cui è giunto il recipiente della pompa, si lasci entrare in questo un po’ d’aria osservando l’ innalzamento corrispondente della colonna manometrica. La pressione parziale dell’ ossigeno sarà di necessità È circa di quella che si legge nel manometro, detratta la tensione del vapor d’acqua come si disse. Se si osserva di tempo in tempo la soluzione con lo spettroscopio si vedrà che abbastanza presto ritorna lo spettro dell’ ossiemoglobina. Presento una di queste prove. 22 Agosto 1893. Messa la pompa a O del manometro ed osservato che non si estrae più gas affatto si introducono 300 ce. di acqua distillata bollita conte- nente qualche goccia di sangue. Guardando attraverso al recipiente della. pompa si osservano ben distinte le linee dell’ ossiemoglobina. Si sgasa. completamente portando a 60° il recipiente della pompa, con l’ immergerlo. in un vaso contenente acqua a questa temperatura, finché si ottiene lo spettro della emoglobina ridotta, il che avviene in capo a 10 minuti primi.. Quando la temperatura della soluzione di sangue, segnata da un ter- mometro collocato nel recipiente della pompa è a 26°, si osserva che il manometro segna 26 mm. e lo spettro naturalmente è tutt’ ora quello. della emoglobina ridotta, (a 26° secondo la tavola di Regnault con le- correzioni del Moritz, la tensione del vapor acqueo è di 24,93). Allora si lascia entrare un po’ d’ aria nel recipiente essendo chiuso il robinetto che mette al vaso comunicante fisso della pompa, il manometro. sale a 46 cioé a dire l’aria fu introdotta in quantità tale da produrvi una pressione di 20 mm. e quindi di 4 mm. di ossigeno. Lasciata per un’ ora questa pressione, lo spettro apparisce immutato cioè persiste quello dell’ e-. moglobina ridotta. Si lascia entrare altra aria finché la pressione é salita. a 66. mm. La temperatura essendo ancora di 26° la tensione del vapor d’acqua. rimane sensibilmente a 26 mm. e però la pressione dovuta all’ aria entrata. è divenuta 40 mm. e rispettivamente quella dell’ossigeno 8 mm. Si lascia. passare un’ altra ora in queste condizioni, nel frattempo la temperatura interna é diminuita a 18° e però la tensione corrispondente del vapor. acqueo sarà ridotta a 15 mm. secondo Regnault. Il manometro segna.. 56-15 ora 56, resta quindi una pressione di ossigeno di = 8,2 mm. sotto . la quale lo spettro è chiarissimamente quello dell’ ossiemoglobina. Certamente ad una temperatura maggiore di 18° l'assorbimento sarebbe. stato più rapido trattandosi di una dissoluzione di sangue nell’ acqua di-- — 605 — stillata e quindi più propriamente di una soluzione di emoglobina. In ogni modo simili esperienze provano che a bassissima pressione l'ossigeno. é. già in grado di entrare nella molecola dell’ emoglobina ed occorre un tempo assai lungo od una temperatura elevata assai sopra a quella dell’ organismo perché completamente ne esca. Queste osservazioni fatte al metodo della pompa sono estensibili anche a vari altri, ma non a tutti. I trattatisti poco o punto discutono sugli altri metodi, soli Beaunis e l Hermann nei rispettivi manuali parlano un poco e si trattengono sulle determinazioni di ossigeno fatti con processi diversi da quello della pompa. La maggior parte degli autori da Foster a Bunge, da Burdon-San- derson a Frédericq (1) a Landois a Waller (2) si contentano di trattare del metodo della pompa e danno solamente i risultati ottenuti con questa, Burdon-Sanderson accenna che uno degli altri metodi di cui diremo, quello di Bernard, fondato sulla formazione della carbdossi- emoglobulina è poco preciso e dà valori assai disparati per |’ azoto e 1’ a- cido carbonico. Cyon nella sua metodica encomia il metodo del Bernard, ma dice che si può raccomandare solamente a chi non abbia la pompa a mercurio e voglia eseguire molte deteminazioni nello stesso tempo. Albertoni e Stefani nel loro manuale di fisiologia notano 1’ impor- tanza del fatto scoperto dal Bernard, ma danno solamente i risultati della pompa. Beaunis esposti diversi metodi in succinto e dettine i vantaggi ed i difetti brevemente raccoglie solo i valori trovati col metodo della pompa a mercurio. E non altro fa pure Zuntz nel manuale di Hermann, ma quivi però l’ argomento è trattato più estesamente. Anche il Zuntz crede assai imper- fetto il metodo del Bernard e non vi si trattiene gran fatto, più che non faccia a esporre il metodo di Schùutzenberger e quello di Hùfner. Questi ultimi metodi presentano certamente dei difetti, almeno serven- dosene come si è fatto finora, ma pure ci permettono di giungere alla determinazione vera della quantità di ossigeno del sangue, che prende parte al ricambio gasoso dei tessuti e che veramente é quella funzional- mente più importante. Noi intendiamo trattenerci specialmente sopra il primo di questi due metodi, quello di Schùtzenberger e in parte per confronto anche su quello di Bernard. (1) L. Frédericq. Manipulations de physiologie 1892. Bailliere et fils. pag. 105-111. (2) A. Waller. An introduction to humain physiology. London 1892. — 606 — Quanto al metodo di Hifner, che, usato con la massima diligenza, deve certamente rendere ottimi risultati, noi ci limitiamo ad accennare, che esso è fondato sulle proprieta ottiche, che hanno rispettivamente ’ e- moglobina ridotta e la ossiemoglobina quando si trovino entrambi in varie soluzioni nello stesso menstruo. Nel metodo del Bernard si trae partito dalla proprietà dell’ emoglo- bina di combinarsi con l’ ossido di carbonio per formare la carbossiemo- globina. Se all’ emoglobina era combinato già dell’ ossigeno questo esce dalla combinazione nella quale è sostituito vorume a volume dal CO. Questo fatto ha permesso al Bernard di formare un metodo di de- terminazione per l’ ossigeno del sangue, metodo insufficiente per gli altri gas che vi si trovano. Si sa che un soggiorno del sangue, minore di 20 ore circa nell’ atmo- sfera di CO alla temperatura di 20° circa non garantisce lo spostamento completo dell’ ossigeno, ed un soggiorno più lungo di 24 ore dà una scom- parsa di ossigeno, che viene riassorbito e consumato dal sangue. Se si opera con le norme che risultano da queste osservazioni si ottiene una quantita di ossigeno un po’ minore di quella data dall’ estrazione con la pompa. È chiaro che nel metodo del Bernard l’ossido di carbonio agisce per due meccanismi, l’uno che abbiamo già notato consiste nell’ affinità sua per l’ emoglobina, l’ altro perché in un’ atmosfera di CO i gas che si trovano nel sangue ne fuorescono, come uscirebbero se il sangue si tro- vasse nel vuoto. Però l’ esperienza ha dimostrato che gli altri gas non sono liberati completamente, probabilmente per il fatto che man mano che i gas passano a mescolarsi con l’ ossido di carbonio, la loro pressione parziale nell’ atmosfera soprastante cresce fino a stabilirsi l’ equilibrio, che invece col metodo della pompa non si può mai produrre, perché man mano che i gas escono dal sangue vengono anche tolti dal recipiente in cui hanno fatto diffusione. Nawrocki (1) che ha messo a confronto il metodo della pompa (ap- parecchio Setschenow) con quello di Bernard, conviene nella bontà del secondo e dichiara risultare pure dalle sue esperienze che l’ ossido di carbonio scaccia volume a volume l° ossigeno che si trovava nel sangue e che le piccole differenze tra esperimento ed s-pegigidie sono da attri- buirsi alla manualità operatoria. Abbiamo detto che per noi già a priori il metodo della pompa non poteva dare l’ ossigeno, che veramente si combina ed a vicenda esce dal- (1) Felix Nawrocki. De Claudi Bernardi methodo oxigenii copiam in sanguine deter- minandi. Dissertatio inauguralis physiologica-chymica. Wratislaviae 1863. — 60% — l’ emoglobina per il ricambio dei tessuti, e altrettanto dobbiamo dire per quello dell’ ossido di carbonio. Tuttavia in quest’ ultimo metodo si tratta di una sostanza che va a combinarsi con l’ emoglobina e ne scaccia 1’ ossi- geno, non precisamente quello che succede nell’ organismo, ma un quid simile, in quanto l’ ossido di carbonio non esercita nessuna dissociazione ulteriore e si limita anche ad estrarre solo una piccola parte dell’ ossigeno che si trova non combinato all’ emoglobina. Ma da ciò al dirci la quantità di ossigeno combinato alla ossiemoglobina molto ci corre, ed anche il metodo di Bernard è per questo lato del tutto insufficiente. Data però l'osservazione del Nawrocki potrà questo metodo come più comodo e spedito essere usato per termine di confronto purché si abbiano le cau- tele necessarie. Paolo Bert (1) dice a questo proposito che dovendo scegliere tra un metodo di applicazione malagevole, che ha bisogno di strumenti delicati e costosi, che espone a cause d’ errore anche in fuori della questione spe- rimentale, ma che può dare risultati quasi assolutamente esatti purché si abbiano attenzioni particolari, ed un altro metodo che dia solamente ri- sultati approssimativi, ma facile ad impiegarsi e che permetta |’ esecu- zione simultanea di numerose esperienze comparative preferisce que- st’ ultimo. Io ho fatto molte prove di confronto fra il metodo che esporrò e quello del Bernard. Confesso che da questo secondo mi era aspettato di più e che invece i risultati non sono stati molto concordanti per quello che a me occorreva. E però ho preferito non riportare qui nessuna di queste determinazioni, perché quelle in cui il soggiorno nel CO era stato lo stesso in tutte cioè di 20 ore non hanno il raffronto con le determinazioni ese- guite col metodo dell’ idrosolfito e non interessano quindi direttamente il nostro argomento. E cosi pure avrei potuto riportare molte esperienze in cui é provato che l’ ossigeno che il CO ha fatto escire dal sangue dopo un dato soggiorno, col prolungarsi di questo viene poi ripreso dal sangue, ma questo fatto che secondo il Bernard e anche il Bert non si verifica per un soggiorno breve stante la presenza del CO che si trova in eccesso, non ha qui importanza speciale e d’ altra parte é stato gia illustrato ric- camente dal Lambling. Xx Sit Le poche cose che ho esposto sopra questi metodi mi sembra met- tano in chiaro che la determinazione eseguita a mezzo di essi non dà ‘1) Bert. Legons sur la physiologie comparée de la respiration. Bailliere et fils, 1870, pag. 111. — 608 — ‘affatto 1’ ossigeno combinato veramente all’ ossiemoglobina, ma piuttosto rivela quello che vi si trova in complesso. Come dicevo più indietro è opportuno invece il conoscere veramente quanto ossigeno si combini di fatto con l’ emoglobina e quanto volta a volta se ne stacchi per la riduzione che avviene nell'organismo, o al meno per un meccanismo che sia analogo a questa. Il metodo che secondo me risponde più da vicino a questo concetto è quello meno noto e più dimenticato, il metodo dell’ idrosolfito di sodio in- trodotto da Schùtzenberger. Si sa che esso venne ideato per dosare l’ ossigeno disciolto nell’acqua o in altri liquidi e che per il caso appunto di una dissoluzione semplice esso da risultati del tutto conformi a quelli della pompa a mercurio. Tra i trattatisti l’ unico che ne parli un po’ é il Zuntz nel manuale di Her- mann, ma le poche linee che sono dedicate a quest’ argomento non esprimono certamente né fiducia nel metodo né lode veruna almeno per il concetto su cui è fondato. Ora, se é vero che i risultati ottenuti non erano tali da incoraggiare di molto, perché a detta del Zuntz si otteneva con esso il doppio circa dell’ ossigeno che sì estraeva con ciascuno degli altri metodi, é pur vero che il principio su cui era fondato é eminentemente fisiologico. Di fatti il metodo consiste nell’ aggiungere al sangue una so- stanza riducente, idrosolfito di sodio, fino a non aversi più traccia di os- sigeno libero. Ora, è da notarsi che l emoglobina ridotta con questa so- stanza è ancora atta ad assumere ossigeno, non è quindi alterata dal punto di vista di questa sua principale proprietà, certo non più che col metodo della pompa. A priori doveva pensarsi che questo riducente che era destinato a to- gliere l’ ossigeno disciolto nell’ acqua e che non era dotato di grande energia chimica, alle dosi ed alla concentrazione cui veniva adoperato, dovesse dare risultati più scarsi di quelli degli altri metodi, riuscendo a vincere solamente le combinazioni più lasse dell’ emoglobina con l’ossigeno. Secondo Bohr (1) infatti esisterebbero quattro specie di ossiemoglo- bina a, 8, y, d, che darebbero tutte lo stesso spettro. Un gramma di a si com- binerebbe a 0,4 cc. di ossigeno, uno di 8 a 0,8, uno di y a 1,7, uno di d a 2,7. In una successiva pubblicazione riportata negli stessi Annali (2) il Bohr mette in vista che queste quattro specie di ossiemoglobina differiscono inoltre per potere assorbente della luce, per contenuto in ferro, per peso molecolare, determinato naturalmente nei cristalli d’ emoglobina. (1) Christian Bohr, Ueber die Verbindungen des Haemoglobins mit Sauerstoff. Jahresbe- richte di Maly. XX, pag. 94. (2) Christian Bohr. L’ émoglobine se trouve ’t elle dans le sang è l’ état de substance ho- mogène ? Jahresberichte di Maly. XXI. — 609 — Ma quello che poteva presupporsi dalle nozioni esposte, che cioé si ‘si dovessero riscontrare solamente piccole quantità di ossigeno valendosi dell’ idrosolfito di sodio, non si verificò di fatto, ché anzi le prime prove tentate da Schùtzenberger diedero dei valori più alti e per esse il me- todo venne abbandonato. Zuntz come dicemmo, accenna chiaramente a valori nientemeno che doppi di quelli della pompa a mercurio. Lambling in una bella tesì (1) discussa a Nancy nel 1882 ha modi- ficato negli apparecchi il metodo di Sechutzenberger cercando di ese- guire la determinazione in ambiente privo di ossigeno. Ha trovato pure dei valori più alti di quelli riscontrati con la pompa. La differenza in più rappresenta un quarto o quinto della quantità di ossigeno rilevato col me- todo dell’ idrosolfito. E le prove istituite dal Lambling avendo dimo- strato che già in 30 minuti a 40° il sangue può perdere fino a 11.% di ossigeno, egli è giunto alla conclusione che veramente questa é la ra- gione del fatto, che con la pompa si ha sempre una perdita di ossigeno e che quindi la cifra trovata col metodo Schùtzenberger è la vera. Più recentemente in un interessante lavoro il Dott. Siegfried (2) ha ripreso il metodo di Sehùtzenberger e vagliate le esperienze di Lam- bling gli é parso che la differenza fra un metodo e l’altro fosse troppo forte. Egli ha perfezionato il metodo valendosi di una proprietà trovata da Hoppe-Seyler, che mescolando emoglobina ridotta a ossiemoglobina si possono vedere ancora tracce di quest’ ultima finché si trovi 0,19 di ossigeno ‘4 di menstruo. Mescolando emoglobina rigorosamente ridotta e mantenuta tale sotto un’ atmosfera d’idrogeno, con ossiemoglobina, il Siegfried poté osservare che le linee dell’ossiemoglobina si vedevano ancora con una miscela di 99,42 %, di emoglobina e di 0,58 % di ossiemo- globina. Le stesse cifre si ebbero ripetendo la prova con emoglobina spo- gliata del suo ossigeno col mezzo della pompa ed aggiungendovi poi os- siemoglobina. Questo fatto permette di determinare con lo spettroscopio la presenza di quantità minime di ossiemoglobina in un menstruo acquoso fino a una proporzione di 0,58 %. Ora si sa che col metodo di Schùtzenberger usato pure dal Lam- bling, sì deve prima allontanare tutto |’ ossigeno che si trova nel liquido in seno al quale deve essere eseguita la titolazione. Questo allontanamento si soleva praticare facendo uso di acqua bollita e facendo passare conti- nuamente una corrente di idrogeno attraverso al liquido, che doveva ri- manere così in un’ atmosfera di idrogeno. (1) E. Lambling. Des procèdés de dosage de l’ Hémoglobine. Nancy. Imprimérie Nancé- denne 1882. (2) Op. cit. Serie V. — Tomo IV. 7 — 610 — È noto che con questo modo non si riesce mai a scacciare completa- mente un gas neppure continuando per lungo tempo la corrente di idro- geno, ed è indubbiamente per questo fatto oltre che per colpa della sostanza indice (indacosolfato di sodio) che il Lambling ha trovato valori troppo forti in confronto a quelli dati dal metodo della pompa. Secondo l’ indicazione di Siegfried si aggiunga invece al liquido qualche goccia di sangue in modo che a traverso al recipiente si possano osservare nettamente le linee d’ assorbimento dell’ emoglobina. L’ allonta- namento dell’ ossigeno disciolto dal menstruo o aderente al recipiente in cui avviene la determinazione venga fatto con lo stesso reattivo, idrosol- fito di sodio, che serve appunto a dosare l’ ossigeno del sangue. Si aggiunga lentamente questo reattivo e si faccia per ogni aggiunta di esso l’ osservazione spettroscopica, il momento preciso in cui il reci- piente e il menstruo sono stati privati dell’ ossigeno viene indicato appunto dalla scomparsa delle linee dell’ ossiemoglobina e rispettivamente dall’ ap- parire della linea d’ assorbimento proprio dell’ emoglobina ridotta. Questo mezzo semplicissimo dovuto pure all’ Hoppe-Seyler (1) s’in- tende bene che é suscettibile della più grande precisione in quanto non si tratta di percepire una gradazione cromatica, ma la presenza di uno spettro o di un altro ben differente. Una volta raggiunto questo intento si introduca il sangue di cui si vuol dosare l’ ossigeno e si faccia entrare altro reattivo in modo da poter sapere quanto se ne introduce e man mano si ripeta l’ esame spettroscopico fino alla ricomparsa della linea d’ assorbimento propria della emoglobina ridotta. Vediamo ora il processo tenuto e l’ apparecchio col quale il Siegfried ha eseguito i suoi saggi di determinazione. Dopo la pubblicazione del Siegfried non è uscito più, o almeno non mi é noto nessun altro lavoro che suoni conferma o ripetizione di quelle prove, o anche che tratti di questo argomento. Io ebbi occasione di stu- diare il metodo per ricerche che dovevano essere eseguite nel nostro Istituto ed ebbi a notare diverse circostanze che, mentre mi resero con- vinto della bontà del principio, misero in vista certi inconvenienti pratici dell’ apparecchio. L’ apparecchio del Siegfried si compone (fig. 1) di un cilindro di vetro A capace di 300 cc. circa che termina da una parte in un tubo del (1) Hoppe-Seyler. Haemoglobin als Reagens auf freien Sauerstoff. Weitere Mittheilungen ‘iber die Eigenschaften des Blutfarbstoffs. Zeitschrift. fiir phys. Chemie, I, 121. — 611 — lume di 10 a 12 mm. e a fondo cieco è, dall’ altra termina in un tubo largo chiuso da un robinetto ad ampia apertura di 6 a 7 mm. di lume c. — Ai lati del cilindro si impiantano due tubi d, d saldati a 2 centim. circa dalle estremità paralleli fra loro ed aperti. Due pipette f, f, da circa 25 cc. luna hanno le loro estremità munite di robinetto e piegate ad angolo retto in modo da poter essere riunite mediante robusti tubi di gomma fra loro e coi tubi laterali del cilindro. Questa doppia congiunzione ha luogo a mezzo di brevi tubetti intermediari e, e fatti a 7. La fig. 1 mostra uno schema di quest’ apparecchio già montato. Dell’ apparecchio fa parte pure una pipetta speciale, che serve per in- troduzione del sangue. Essa è rappresentata dalla fig. 2. Un tubo di vetro munito di rubinetto a mette capo ad un rigonfia- mento 8 della capacità di 3 cc. circa, al rigonfiamento fa seguito un tubo più sottile di 1 a 2 mm. di diametro e che piegato ad « termina ad un altro rigonfiamento 4 di 3 cc.: La capacità di questa bolla é limitata fra due segni fatti l uno sul tubo che vi conduce e di cui abbiamo detto ora, l’altro su quello che ne parte e che si piega pure ad « due volte è. La figura 2 mostra all’ evidenza proporzione e posizione rispettiva dei vari tratti della pipetta. Tutto il tubo d è robusto ed ha un lume di 1 mm. circa. Ecco come si adopera questo strumento (1). Si riempiono le due burette col reattivo, idrosolfito di sodio e si congiungono strettamente al cilindro con robusti tubi di gomma poi si introduce nel cilindro A dell’ acqua distillata bollita e s’intende già raf- freddata in recipiente chiuso, si aggiungono circa 50 ce. di mercurio puro e qualche goccia di sangue. Si muove l’ apparecchio in modo da scacciare tutta l’ aria che può essere racchiusa nei tubi e si rimpiazza con altra acqua che si aggiunge dal robinetto c tenendo il cilindro « in posizione inversa a quella della figura. Si chiude il robinetto c e si guarda allo spettroscopio collocando davanti alla fessura dello istrumento la parte grossa del cilindro. L’ apparecchio é ben riempito quando allo spettro- scopio si osservano due belle linee ben nette e separate perfettamente luna dall’ altra. Se le linee sono poco appariscenti, cioé il sangue intro- dotto é in troppo piccola quantità, con l’ aggiunta del reattivo le linee scompaiono presto non perché veramente tutta 1’ ossiemoglobina sia scom- (1) Ho dato la descrizione di due apparecchi posseduti dal nostro Istituto. Uno di essi feci co- struire a Berlino dietro le indicazioni prese dal lavoro del Siegfried, l’ altro fu eseguito dalla casa Greiner e Friedrich a Stiitzerbach in Turingia con modelli espressamente spediti dal chiarissimo Dott. M. von Frey di Lipsia cui debbo rendere infinite grazie. Non traduco le parole del Siegfried perchè mi pare che sieno troppo riassuntive e quindi poco chiare, e perchè la pratica grande che ho preso di quest’ apparecchio me l’ha reso fami- gliare e mi fa sicuro che il processo che descriverò minutamente potrà dare buoni risultati come li ha dati a me. : — 612 — parsa, ma perché non se ne trova in quantità sufficiente da produrre lo spetiro proprio ben percettibile. E ciò è tanto vero, che l’ occhio esperto riesce talora a percepire lo spettro dell’ ossiemoglobina là dove un altro non abituato vede un spettro puro, e che una lieve aggiunta di sangue, una goccia sola può far apparire di botto le linee dell’ ossiemoglobina o dell’ emoglobina ridotta, a seconda che si era aggiunta insufficiente o suffi- ciente o anche eccessiva quantità di reattivo. Una quantità troppo forte di sangue produce come si sa un assorbimento continuo cioé riunisce in una le due linee dell’ ossiemoglobina e lo scopo viene certamente frustrato. Una volta riempito e chiuso il cilindro, si sbatte per rimescolare bene il liquido e suddividere il mercurio. Si fa entrare questo nei tubi delle burette, e tenendo convenientemente inclinato l’ apparecchio perché il mer- curio entrato nei tubi a 7° e in quelli delle burette vi rimanga, si apre il rubinetto superiore di una di queste lasciando che il mercurio cada da sé a goccioline nella buretta, scacciandone il reattivo che va a collocarsi nei tubi. Si richiude il rubinetto e si rimescola sbattendo ripetutamente il ci- lindro, in modo da far entrare il mercurio nei tubi e scacciarne tutto il liquido contenutovi. Allora si torna a guardare allo spettroscopio e si ripete la prova tante volte e aggiungendo poco reattivo, rispettivamente facendo entrare poco mercurio nella stessa buretta finche la linea sinistra é scom- parsa e si trova invece il solo spettro dell’ emoglobina ridotta. Si deve allora introdurre il sangue della determinazione. Come si disse. sì ricorre per questo alla pipetta. Un apparecchio a pressione di mercurio (basta all’ uopo un semplice imbuto terminante con un robusto tubo di gomma e portato da un soste- gno chimico dei soliti), si unisce a quel tubo della pipetta che porta il ro- binetto a. Tenendo la pipetta nella posizione inversa a quella rappresentata nella fisura si riempie con mercurio prima il rigonfiamento 8 e poi cambiando posizione si riempie anche il rigonfiamento y e il tubo d. Si chiude il ro- binetto a e invertita di nuovo la posizione della pipetta si immerge 1’ e- stremità del tubo d nel sangue che si vuol osservare e che può essere coperto da uno strato d’ olio, se si voglia operare lontano dall’ aria. Si abbassa l apparecchio di pressione del mercurio, in modo da produrre per il dislivello un’ assorbimento e si apre il robinetto a. Il sangue allora entra in è, traversa il rigonfiamento y senza fermarvisi per il proprio peso specifico inferiore a quello del mercurio e per il tubo ad « giunge al rigonfiamento 8 e lo riempie del tutto. Si richiuda a, si innalzi l’ imbuto del mercurio e si riproduca così la pressione nella pipetta conservando la posizione ultima cioé inversa alla LS figura e si apra a. È chiaro che il mercurio salendo in 8 ne scaccerà il 643% sangue e conseguentemente il mercurio che era rimasto nel rigonfia- mento y uscirà per d ed entrerà nel vaso del sangue. Il mercurio per questa guisa si fa entrare fino al primo segno che si trova avanti di giungere al rigonfiamento y e si chiude il robinetto. Riempita allora di. mercurio l’ imboccatura c del cilindro si capovolge su una larga vasca di mercurio profonda abbastanza perché sì possa approfondarvi completa- mente l’ estremo libero della pipetta ed introdurlo sotto al mercurio nel- apparecchio capovolto, dopo aver aperto il robinetto ec. Si apra allora di nuovo il robinetto a e | apparecchio a pressione di mercurio potrà allora spingere il sangue fuori della bolla y, e si richiuda quando il mercurio sia salito fino al secondo segno e cioè i 3 c.c. di sangue sieno entrati nell’ apparecchio. Si estrae la pipetta, si chiude c e. si toglie il cilindro dalla vasca rimescolando bene con lo scuotimento come si è fatto prima. A questo punto non si ha che a ripetere l’ introduzione del reat- tivo togliendolo dall’ altra buretta e regolandosi coll’ osservazione spettro- scopica, che si fa ora a traverso al tubo ristretto 5, arrestando poi l’ in- troduzione alla comparsa dello spettro proprio dell’ emoglobina ridotta. Se si stacchi allora la buretta che ha servito per il secondo assorbi- mento, e fatto uscire tutto il mercurio contenuto nei due estremi ricurvi della buretta si raccolga a parte il mercurio situato entro la buretta stessa e questo sia lavato e poi essiccato e pesato, si avrà il peso preciso del mercurio che é andato a rimpiazzare il reattivo nella buretta. Dividendo questa cifra per il peso specifico del mercurio si ha il volume di questo reattivo con una sicurezza che certamente nessuna lettura diretta po- trebbe dare. Resta ora da titolarsi il reattivo, liquido instabile per eccellenza, che cambia titolo ogni giorno e che, come ha indicato il Lambling, deve conservarsi in recipienti piccoli del tutto ripieni, chiusi e pronti all’ uso. La titolazione si-fa in un apparecchio che permetta nel modo migliore possibile un allontanamento dell’ ossigeno dalle burette e dal recipiente di titolazione. Questo apparecchio, che nel lavoro del Lambling è lo stesso in cui si fa la determinazione dell’ ossigeno del sangue é stato modificato dal Siegfried opportunamente. Io ho introdotto altre modificazioni e descri- verò-a suo tempo in tutte le sue parti l’ apparecchio di cui mi sono valso. Qui per compiere la descrizione del metodo del Siegfried basta che accenni, come una volta stabilito quanto ossigeno possa venir assor- bito da 1 c.c. di reattivo, si giunga facilmente a riconoscere quanto ossi- geno era contenuto in quei 3 c.c. di sangue e quindi in 100 c.c. Era necessaria una descrizione particolareggiata dell’ apparecchio Siegfried per indicarne i pregi ed i difetti in vista specialmente delle modificazioni che io ho introdotte. — 614 — Innanzi a tutto è facile a maneggiarsi | apparecchio del Siegfried? Si noti che le due burette sono congiunte al cilindro mediante 6 tubi di gomma, robusti fin che si voglia e adattati in modo che i vetri comba- cino senza lasciar giocare |’ elasticità della gomma, ma che non permet- tono certamente di muovere l’ apparecchio con la sicurezza e la facilità necessaria, molto più poi quando le burette contengano già una certa quantità di mercurio ed il centro di gravità dell’ apparecchio sia quindi di molto spostato dal centro di figura del corpo principale che sta fra mano dell’ operatore. Si noti che, secondo l’ indicazione del Siegfried, il mercurio con lo scuotere dell’ apparecchio si suddivide in goccioline e che appunto da questo fatto il Siegfried si ripromette una grande sen- sibilità dell’ apparecchio, in quanto si può far cadere nelle burette delle goccioline minime e farne uscire una corrispondente piccolissima quantità di reattivo, il che con le burette ordinarie non è fattibile. Si capisce co- me uno scuotimento così forte da far suddividere il mercurio anche se questo rimanga in piccola quantità nel cilindro non sia comodo ad ese- guirsi data la forma e le particolarità dell’ apparecchio, si capisce di leg- geri e forse meglio si riconosce alla prova, come sia incomoda |’ intro- duzione del reattivo, dovendosi scacciare dai gomiti dei tubi il liquido che volta a volta vi si introduce per sostituirlo col mercurio, operazione che richiede una pazienza da santi, un tempo lungo, e rappresenta un pericolo continuo per l’ incolumità dell’ apparecchio e quindi per il com- pimento della determinazione. Si noti ancora che suddiviso che sia il mercurio in goccioline, sarà ciascuna di queste attorniata da uno strato della soluzione sanguigna, strato non trascurabile perché gli si aggiunge anche quello compreso fra varie goccioline contigue. Questo liquido en- tra naturalmente col mercurio nella buretta del reattivo e vi si mescola alterando la proprietà riduttrice di questo e sottraendo una certa quantità di sangue e quindi di ossigeno alla determinazione. Si potrà pensare forse che di quanto diminuisce il titolo del reattivo, d’ altrettanto scema precisamente la quantità del liquido da ridurre, ma a ciò facilmente si risponde che il reattivo non va utilizzato tutto e che perciò il compenso non si può effettuare. D’ altra parte perché possa avvenire lo scambio fra il reattivo delle burette ed il mercurio soprastante non suddiviso in goccioline minute, occorre che |’ apertura del robinetto sia abbastanza larga e, secondo le mie prove, misuri dai 4 ai 5 millim., il che non è nell’ apparecchio ori- ginale del Siegfried, e tale debbo supporre sia quello fattomi espressa- samente fabbricare dal chiarissimo Prof. von Frey, docente nello stesso Istituto Fisiologico di Lipsia, nel quale Siegfried ha eseguito tutto il suo lavoro. — 615 — Una ampiezza di robinetti, come quella dell’ apparecchio Siegfried ,. richiede la suddivisione minuta del mercurio cogli inconvenienti testé ac- cennati. Si potrebbe anche effettuare l’ introduzione del reattivo nell’ ap- parecchio, inclinando il cilindro ed aprendo tanto il robinetto inferiore, come il superiore della buretta, ma in questo caso il reattivo entra troppo rapidamente e lo sperimentatore non ha una indicazione precisa della quantità di reattivo che introduce, se non si voglia tener conto delle di- visioni segnate sulle burette del Siegfried in decimi di c.c. La lettura evidentemente non sì può fare che dopo gia avvenuta l introduzione, quando si sia riposto l’ apparecchio verticalmente. Invece é necessario co- noscere la quantità del reattivo, mentre si effettua appunto 1 introduzione. Passiamo ora alla pipetta che presenta pure inconvenienti di mani- polazione. Dalla descrizione fattane si capisce facilmente che essa è sempre re- lativamente esile. Quando sì pensi che uno dei suoi estremi va collegato con un tubo di gomma a pareti spesse, perché deve sostenere delle pres- sioni di mercurio, e si pensi che varie volte va invertita la posizione della pipetta e infine si deve eseguirne delicatamente l’ introduzione nel cilindro sotto il mercurio, si comprende di leggeri la difficoltà della ma- novra, che riesce solo dopo parecchie prove e con una abbondanza no- tevole di mercurio. Ma fin qui passi, vi é di peggio. Si è visto il processo che si tiene per il riempimento della pipetta. E ovvio che le pareti di questa reste- ranno bagnate di sangue, come resterà bagnato di sangue il mercurio che vi é stato introdotto. L° introduzione lenta del mercurio non potrà mai allontanare completamente tutto il sangue che aderisce alle pareti. Ora, quando la bolla della pipetta è vuotata resta un po’ di quei 3 c.c. di sangue aderente alle pareti e l’ ossigeno che si determina si riferisce quindi non a 3 c.c., ma ‘a un po’ meno. Di questo fatto posso dare anche dimostrazione. Si riempie nel modo descritto la pipetta Siegfried con sangue defi- brinato di cane, poi si fa vuotare a mezzo del mercurio fiuente da un vaso a pressione, come si disse, indi avendo cura di pulir bene dal san- gue |’ estremo della pipetta si assorbe acqua distillata bollita e messa bollente sotto l’ olio in un imbuto di vetro provvisto di un tubo di gom- ma, che possa adattarsi all’ estremo della pipetta. Quando l’ acqua è fredda si eseguisce questa congiunzione lasciando la pipetta nella posizione ultima datale, quella cioé della Fig. 2. Si as- sorbe acqua coll’ abbassare il recipiente del mercurio e riempiendo cosi direttamente la bolla misurata e non 1’ altra. Noto qui incidentalmente che operando in questo modo si potrebbe — 616 — benissimo ridurre più semplice la pipetta e il suo maneggio abolendo la bolla che si trova più vicina al robinetto. In questo modo riempito il tubo d e la bolla y si sarà fatta una dis- soluzione del sangue rimasto in questi due vani. Si introduca col mezzo solito nell’ apparecchio Siegfried opportunamente preparato, cioè libe- rato dall’ ossigeno, e si guardi allo spettroscopio dopo l aggiunta di que- sta soluzione acquosa. Gia questa entro la pipetta sì vede assumere un colorito rosso chiaro leggero, ma visibile, senza stento, il che vuol dire che nella bolla e nel tubo si trovava del sangue. È certo che il sangue sarà rimasto nella pi petta in proporzioni un po’ diverse nella bolla o nel tubo in ragione della diversa superficie presentata dall’ uno e dall’ altra, ma ciò non può avere nessuna influenza perché nell’ apparecchio entra per prima l’ acqua che nella pipetta è entrata per ultima e che quindi ha trovato il tubo è gia lavato del tutto. Vi é però sensibile compenso. Nella prova che io feci, l’ introduzione dell’ acqua della bolla fece ricomparire le linee dell’ emo- globina ed occorsero c.c. 0,475 di reattivo corrispondenti a c.c. 0, 03375 di ossigeno per ritornare allo spettro ridotto. Questi 0,03375 sarebbero dunque andati perduti per una determinazione alla Siegfried e rappor- tati a 100 avrebbero dato 1,12, cifra non indifferente da aggiungersi a quella trovata prima. Si potrebbe opporre a questa mia prova, che l acqua anche bollita poteva contenere ancora ossigeno, ma ciò non può essere perchè | im- buto e il tubo di gomma furono prima lavati con altra acqua bollente avanti di chiudere l’ uscita del tubo e coprire con olio. In ogni modo 1 c.c. di acqua distillata a 0° può contenere disciolti c.c. 0,04 di ossigeno e quella invece da me usata era stata introdotta bollente ed era discesa certamente non più in basso di 90° per il contatto con l imbuto e il tubo, temperatura alla quale il coefficiente di solubilità é 0. L’ ultimo inconveniente e certamente non il più lieve è quello che con la pipetta descritta non si può prendere che sangue defibrinato più o meno fuori del contatto dell’ aria, ma in ogni modo niente altro che de- fibrinato, perché volendo adoperare sangue fresco appena estratto da un’ arteria o da una vena, nulla potrebbe impedire la coagulazione che nel ristrettissimo tubo della pipetta avverrebbe almeno 9 volte su 10. Ora, se è interessante l’ esame del sangue defibrinato, é di gran lunga più in- teressante quello del sangue fresco, che non ha nulla di artificiale e deve poter essere osservato rapidamente. Solamente cosi si potrebbero sor- prendere le variazioni rapide che avvengono nel contenuto dell’ ossigeno del sangue, mentre dovendo estrarre una certa quantità di sangue e de- fibrinarla sia pure sotto il mercurio precedentemente privato dall’ aria — 617 — che contiene, non si potrà mai essere sicuri di non aver a prendere in- sieme al sangue anche dei fiocchi di fibrina, che eventualmente possono liberarsi dalle gocce del mercurio. In ogni caso non vi ha chi non veda che l’ operazione riesce col sangue defibrinato più lunga e indaginosa e meno precisa, quando si voglia sperimentare lontano dall’ accesso del- l’aria. A tutti questi inconvenienti che sono venuto man mano accennando si potrebbe opporre che le prove di saggio date dal Siegfried sono di una concordanza maravigliosa e che se tante cause di errore ci fossero, come quelle indicate da me, tale concordanza non potrebbe sussistere. Le prove esposte nel lavoro del Siegfried eseguite in doppio sono le seguenti: Sangue defibrinato di cane . .'. a n ‘dl . Soluzione di ossiemoglobina . . | nd b) Esse danno in una la differenza di 0,3 %, in un’ altra 0,1, in un’ al- . tra mostrano concordanza perfetta. Questa concordanza forse per molte prove non si avrebbe, se devo desumerlo dal numero di osservazioni fatte da me, tanto con l’ apparecchio che descriverò in seguito, come con quello del Siegfried. Il Siegfried, col metodo che ho descritto, ha trovato una quantità percentuale di ossigeno di 6 a 7 nel sangue defibrinato di cane, lo stesso sangue gli dava con la pompa 17 di ossigeno. Quella differenza di 10 circa poteva ulteriormente estrarsi con la pompa e rappresentava ossi- geno che un tempo credevasi pure dovuto ad ossiemoglobina e che invece € unito ad altra emoglobina, chiamata da Siegfried pseudoemoglobina. Questa osservazione, che la pompa possa dare gli altri 10 c.c. d’ os- sigeno che rimangono per giungere ai 17, non è certamente una prova sicura che quei 7 rappresentino tutto 1° ossigeno dell’ ossiemoglobina e che quindi | apparecchio funzioni perfettamente. Nell’ eseguire questo esperimento il Siegfried ha ridotto l ossiemoglobina valendosi di una determinazione precedente, aggiungendo cioè quel tanto di reattivo che una osservazione precedente gli aveva indicato necessario per quella data quantità di sangue. Ma non fu fatto |’ esame spettroscopico della solu- zione sanguigna collocata entro la pompa, per assicurarsi veramente che lo spettro dell’ ossiemoglobina non ci fosse più. Ora é naturale che la pompa abbia estratto tutto l’ ossigeno sia di quella che il Siegfried Serie V. — Tomo IV. 78 — 618 — chiamò pseudoemoglobina, sia della ossiemoglobina che poteva essere rimasta. E però il conto doveva tornare per forza ! Perché il metodo del Siegfried mi parve eccellente ed invece 1’ appa- recchio da lui usato non rispondente del tutto alle esigenze del metodo, volli introdurre qualche modificazione che rendesse facile il maneggio dell’ istrumento, possibile ’’ esame del sangue fresco, togliesse 1’ errore: della pipetta e possibilmente riescisse anche di uso clinico. Forme diverse diedi all’ apparecchio rivolgendomi prima alla cortesia somma del collega Dott. Dessau, assistente alla Cattedra di Fisica, © facendo del mio meglio per mettere insieme altre forme in vetro. Non faccio perdere tempo al lettore dietro queste mie prove e oltre quella che mi pare corrisponda meglio allo scopo, e che descriverò par- ticolarmente, ricorderò un’ altra forma che qualunque anche poco esperto soffiatore di vetro, come me, può fabbricarsi senza difficolta. E descrivo questa in due parole senza bisogno di spiegare il modo di usarla, perchè potra facilmente intendersi da quello che dirò per 1’ appa- recchio più perfetto. Si prenda una bottiglia a tre colli capace di 400 a 500 c.c.; più pic- cola sarebbe più comoda, ma porterebbe dei colli troppo stretti, cui un tappo di gomma male si adatterebbe. Se i tre colli sono distribuiti due sopra ed uno sul fianco verso il fondo, come nella Fig. 3, é meglio, ma non è necessario. Si provvedano 5 robinetti di vetro fusibile che abbiano un lume di 5 millim. o poco meno. Quattro di questi si riuniscano due a. due per formarne due pipette f, f, operazione tutt’ altro che difficile per chi non richieda eleganza; il quinto robinetto si impianti su una delle branche di un altro robinetto a 3 vie, che abbia esso pure un lume in- terno di 5 millim. Quest’ ultima riunione si faccia senza rigonfiamento. Si avra così il tubo s, che é destinato a contenere il sangue da osservare. La capacità di questo tubo dal robinetto inferiore chiuso al superiore pure chiuso, si misura precisamente col mercurio. I tre pezzi così for- mati si adattano con buoni tappi di gomma ai tre colli distribuendoli co- me apparisce nella Fig. 3, e legandoli come si suole nelle bottiglie con- tenenti vino spumante. Ciò perché il peso del mercurio non abbia a far uscire un tappo o l’ altro. Del resto dopo un certo tempo che |’ apparec- chio è montato, la gomma si attacca al vetro e tante volte non si riesce neppure a toglierla almeno con mezzi meccanici. IL’ apparecchio che ognuno può cosi improvvisare non è maneggevole come quello che descriverò in seguito perché più voluminoso, ma rispon- OMO de benissimo allo scopo ed io me ne servo continuamente insieme agli altri. Nella Fig. 4 rappresento l’ ultimo strumento che feci costruire a Mo- naco di Baviera da Bender & Hobein, e che veramente, almeno a pa- rer mio non lascia nulla a desiderare, quando sia costruito nelle precise proporzioni da me indicate. Un cilindro di vetro A (Fig. 4), come quello dell’ apparecchio Sie g- fried, capace di 300 c.c. eirca, ma un po’ più grosso e più corto, porta ad uno dei suoi estremi due burette sferiche f, f, della capacità di 25 c.c. circa, munite ciascuna di due robinetti, che hanno un lume di 5 millim. Le burette sono fatte a bolla perché sieno più corte e meno voluminose e brevissimo é il loro tubo d’ impianto sul cilindro. L’ altro capo di que- sto termina in un tubo ristretto 5 del lume di 10 a 14 millim., lungo non meno di 5 a 6 centim., corrispondente al tubo 6 dell’ apparecchio Siegfried. L’ estremo di questo tubo fa capo ad un grosso robinetto R a due vie, di cui una larga 5 millim. mette in comunicazione il tubo 5 con un piccolo rigonfiamento superiore s destinato a raccogliere il sangue e capace di 3 a 4 c.c. da misurarsi esattamente col mercurio; 1)’ altra via, che può essere più stretta fino a 2 millim. di lume, indipendente affatto dalla prima, attraversa per tutta la sua lunghezza il corpo del robinetto e può quindi mettere in comunicazione il tubo 5 o il rigonfiamento s con l’ esterno. Il rigonfiamento s è chiuso superiormente da un robinetto r di 2 a 3 millim. di lume come il suo estremo piegato ad angolo retto nella dire- zione della seconda via del robinetto A. Infine un ultimo robinetto e di 5 millim. di lume si impianta su un tubo saldato lateralmente al cilindro tra il suo terzo superiore e il terzo medio, perpendicolare ad un piano ‘che passi per il centro di figura del cilindro e per i punti di impianto delle due burette. Questa disposizione permette ad un sostegno di legno (Fig. 5) di sor- reggere l’ apparecchio che si appoggia col tubo ec su di una forchetta del sostegno e col fondo del cilindro fra le inserzioni delle burette su di una specie di becco coperto di sughero. Le osservazioni spettroscopiche si se- guono così celermente, potendosi appoggiare |’ apparecchio senza bisogno di altro modo di fissazione. Come sit proceda nell’ uso di questo apparecchio. — Avanti di adope- rarlo occorre sia tutto asciutto particolarmente nel rigonfiamento s e ro- binetti vicini, e nelle burette e rispettivi robinetti. Si chiudono questi ul- — 620 — timi, si apre r e si mette / in posizione di far comunicare s con d. Si immerge l’ estremo di » nel mercurio asciutto e terso e si assorbe da c con la bocca fino a che il mercurio entrando per r abbia sorpassato il ro- binetto A, che allora si richiude subito stabilendo la comunicazione fra & e l’ esterno e così si chiude pure r. Se non si vuol assorbire con la boc- ca si chiude r tenendo aperta la via di / fra s e 5 e si introduce da e del mercurio fino a riempire s e sorpassare /, che poi si mette nella po- sizione anzidetta. Fatto uscire il mercurio che è rimasto in più nel ci- lindro si riempiono le burette f, f, col reattivo facendovelo entrare lenta- mente e tenendo appena aperti ì robinetti di accesso al cilindro. Per la- vare bene le burette dall’ ossigeno contenutovi si fa passare una discreta quantità di reattivo che si può lasciar scolare da ce, e compiuto il riempi- mento si chiudono tutti 4 i robinetti delle burette. Messo | apparecchio sul suo sostegno si introduce mediante un imbuto e un tubo di gomma da 50 a 60 c.c. di mercurio e successivamente l’ acqua distillata bollita. o no in cui si sieno disciolte 8 o 10 gocce di sangue corrispondenti a mezzo centimetro cubo circa. Questo liquido va introdotto fino a riempire quasi del tutto il tubo 6, ma non completamente per evitare che la 2° via del robinetto A resti bagnata. Si mette questo robinetto in posizione intermedia in modo cioé da chiudere ambe le vie e inclinando | apparecchio si fa salire l’ aria nel tubo c, scacciandola poi con l’ aggiunta di un altro po’ di mercurio. Si chiude e e si procede all’ allontanamento dell’ ossigeno dell’ acqua, delle pareti e del mercurio servendosi del reattivo della buretta destra per es. serbando la sinistra per il sangue. Per far entrare il reattivo dalle burette non si ha che ad aprire il ro- binetto che dalla buretta mette al cilindro. Moderando più o meno l’ aper- tura si ha un passaggio minore o maggiore e quanto mai pronto. Lo scuotimento dell’ apparecchio basta sia quel tanto che occorre per me- scolare il liquido e ciò si fa subito, non producendosi così suddivisioni del mercurio e cadendo quindi nella buretta sottoposta il metallo solo un po’ bagnato, ma non nelle condizioni speciali dell’ apparecchio Siegfried. Noto che per questo primo assorbimento non sarebbe a temersi certa- mente una mescolanza del reattivo col liquido. Anzi è opportuno quando si sia giunti ad un certo punto della riduzione, e le linee d’ assorbimento spettrale sieno divenute più leggere, rovesciare l’ apparecchio e far rien- trare dalla buretta nel cilindro il mercurio che n’ era uscito prima per essere sostituito da reattivo. Cosi naturalmente entra nella buretta una parte della soluzione sanguigna e va a cambiare il titolo del reattivo, ma ciò non fa danno veruno perché non èé affatto necessario il conoscere quanto ossigeno si conteneva nell’ acqua, nel mercurio e nell’ apparecchio — ee avanti la titolazione. Invece l’ operazione che io consiglio porta due van- taggi, l’ uno di diluire il reattivo e quindi rendere più esatta la riduzione preparatoria e più difficile e più leggero l’ errore che può provenire da un’ aggiunta eccessiva, e poi rende giallognolo il liquido di questa buretta ed impedisce quindi di confonderla con l’ altra, come potrebbe farsi in un momento di distrazione. I’ osservazione spettroscopica deve essere molto attenta e diligente avendo riguardo specialmente al grado di assorbimento che si nota fra le due linee, é opportuno all’ uopo valersi della fessura di riscontro che nello spettroscopio Virordt, piccolo modello, permette di fissare un dato campo dello spettro. Porre cioè l’ imagine della fessura luminosa in cor- rispondenza del limite esterno della linea sinistra dello spettro ed osser- vare quando questo si affievolisca e fra le due linee dell’ ossiemoglobina lo spettro si conservi ancora puro o invece si noti un assorbimento più o meno forte, meglio rilevabile poi con lo scomparire de!la forte linea sinistra. Una volta presente lo spettro dell’ emoglobina ridotta, si procede all’ introduzione del sangue. I’ apparecchio è tolto dal sostegno e messo in posizione inversa a quella della figura e tenutovi cosi un po’ per lasciare che il liquido che bagna il mercurio possa per il proprio peso specifico risalire in massima parte so- pra il mercurio stesso. Questo si trova nella porzione del tubo 6 vicina al robinetto A, che dovrà poi essere girato in modo da permettere la co- municazione fra l’ esterno ed s. Se il robinetto A nella sua prima via non fosse stato riempito di mercurio, non si potrebbe effettuare il cambio della comunicazione che si fa col robinetto . Se ora tenendo l’ appa- recchio nella posizione ultima detta si gira il robinetto & in modo da far comunicare l’ esterno con s, si potrà applicare sull’ esterno del robinetto R,là dove fa capo la seconda via, un tubo di gomma, che metta ad un imbuto pieno di mercurio, cioé a dire il tubo di un apparecchio a pres- sione di mercurio. Si riempiranno con questo i robinetti & e r, e la bol- la s, nella quale sarà probabilmente entrata un po’ d’ aria che deve es- sere accuratamente scacciata e poi si chiuderà » abbassando il serbatoio del mercurio e mettendolo dunque in posizione non di comprimere, ma di assorbire e ciò più o meno fortemente, cioé con un dislivello maggiore o minore, a seconda che si dovrà prendere sangue dalle vene o dalle arterie. La cannula collocata nel vaso sanguigno da cui si deve ricavare il materiale per la determinazione é riunita ad un tubo di gomma abba- stanza robusto, il quale una volta riempito di sangue va applicato all’ estre- mo del robinetto r col riguardo di non lasciarvi entrare traccia d’ aria. Tosto si apre r regolando con esso 1’ entrata del sangue, la quale deve == essere né troppo lenta, né troppo rapida. Appena il sangue é giunto a metà circa della seconda via di /, si chiude r e si stabilisce mediante A la comunicazione fra s e 5. Chiuso temporaneamente il vaso sanguigno e staccato dal robinetto r, staccato pure il rapporto tra A e il recipiente a pressione di mercurio, sì capovolge rapidamente l’ apparecchio e si fa quindi cadere il mercurio in s, con che il sangue che vi era contenuto entra nell’ apparecchio e non ha il tempo di coagularsi. Si rovescia due o tre volte l’ apparecchio ed eseguita un’ osservazione spettroscopica at- traverso al tubo 6 (per ciò fare basta sollevare con due parallelepipedi eguali di legno tanto lo spettroscopio come la lampada), si incomincia l’ introduzione del reattivo della seconda buretta, per es. la sinistra. S’ in- tende che in questo caso bisogna aver speciale riguardo che il mercurio dopo essere entrato nella buretta non ne esca più. Quando le linee si ve- dono sbiadite di molto bisogna girare molto adagio il robinetto e lasciar cadere poche e piccole goccie di mercurio nella buretta sottoposta. Terminata la riduzione si vuota l’ apparecchio aprendo i robinetti della 1* buretta ed'7 e scuotendo per far uscire. tutto il imercurio pollinfuna capsula si fa cadere cautamente il mercurio entrato nella 2* buretta apren- do prima il robinetto superiore e poi l’ inferiore. Questo mercurio va la- vato con acqua poi asciugato e pesata su bilancia che senta bene il cen- tigramma. Sensibilità maggiore non è necessaria perché 1 centigramma di mercurio non rappresenta che 7 decimi di millimetro cubo di reattivo, il che in una determinazione sopra 3 c.c. di sangue e dato il titolo solito del reattivo (10 c.c. = 1 c.c. di ossigeno) può rappresentare un errore massimo di 7 centes. di millim. c. di ossigeno su 3 c.c. di sangue e quindi di 2,5 millim. c. di ossigeno sopra 100 c.c. di sangue ! Nel caso si sia adoperato lo strumento improvvisato, di cui dissi più. sopra, si riempie prima la sola buretta che deve servire per il sangue, l’ altra si usufruisce come il tubo e dell’ apparecchio ultimo descritto, te- nendo aperta nel robinetto a tre vie del tubo s la via dall’ esterno alla bottiglia. Prima che il liquido abbia raggiunto il robinetto, questo si gira in modo da stabilire la comunicazione coll’ esterno e il tubo s e si scac- cia poi l’ aria aggiungendo per la buretta tuttora vuota un po’ di mercu- rio. Chiuso il robinetto inferiore di questa buretta si fa uscire il liquido che vi fosse risalito sia adoperando un sottile sifone, sia rovesciando in basso la. buretta e introducendo un tubetto di vetro per far entrar aria. Il reattivo, senza bisogno di lavare e asciugare la buretta, si introduce dal serbatoio del reattivo con un tubo abbastanza sottile da attraversare il robinetto superiore. Tutto il resto segue come per 1’ altro apparecchio. — 623 — Occorre adesso dire dei reattivi e descrivere l apparecchio per la tito- lazione dell’ idrosolfito e per la sua conservazione. — L’ idrosolfiito, come indica il Lambling (Op. cit.), si ottiene opportunamente mettendo in una bottiglietta a tappo smerigliato, e della capacità di 50 c.c., da 25 a 30 grammi di diso/fito di sodio puro, secco, e che sia stato conservato in recipiente pieno e ben turato. Si riempie la bottiglia con acqua distillata in modo da non lasciare aria e si chiude. Si mescola fino a dissoluzione completa, il liquido ha la densità sufficiente per raggiungere il titolo vo- luto. In altra bottiglietta da 100 c.c. si pongono dei ritagli di zinco puro o anche dei frammenti di bastoni, come si trovano in commercio. Sopra essi si versa la soluzione di bisolfito fino a riempire bene la bottiglia e si richiude. Lo zinco riduce ulteriormente il bisolfito e dà luogo alla for- mazione di idrosolfito. Dopo una mezz’ ora la reazione è completa e si può versare in una bottiglia da 5 litri cui si possono insinuare due tubi, l’ uno che faccia da sifone, l’ altro che sfiori solamente il tappo che at- traversa. In questa grossa bottiglia si sono messi in precedenza quattro litri e mezzo di acqua distillata, bollita e raffreddata in ispazio chiuso, all’ uopo possono servire due o tre matracci che si chiudono con tappo di gomma, mentre l’ acqua bolle ancora, si sopraversa la soluzione di idrosolfito e si fa precipitare lo zinco valendosi di 50 c.c. di un latte di calce che contenga il 20 % di calce viva torrefatta di fresco. Si riempie del tutto la bottiglia con altra acqua bollita e si chiude col tappo a due tubi di cui si è detto. Si rimescola due o tre volte e si lascia a sé, te- nendo chiusi i tubi cui si sono applicati tubi di gomma. Un precipitato fioccoso abbondante deve deporsi rapidamente, lasciando perfettamente limpido e incolore il liquido. Dopo un’ ora la precipitazione é quasi completa e permette di decantare il liquido a mezzo del sifone ab- bassandone man mano la branca interna. Il tubo corto -va messo in co- municazione con una sorgente di idrogeno che si lavi bene due volte. Il reattivo si raccoglie e si conserva in tante bottiglie di vetro colorato da 200 a 700 c.c., munite di tappo di sughero paraffinato o di gomma e at- traversato da due tubi piegati ad angolo retto. L’ uno lungo fino al fondo della bottiglia, l’ altro che sfiori il tappo solamente. Il reattivo che esce dal sifone della bottiglia da 5 litri si fa entrare per il tubo lungo, mentre l’ Idrogeno fa pressione nella bottiglia grande. Appena riempita ciascuna bottiglia se ne chiudono i tubi con piccoli tappi di sughero bolliti in pa- raffina, avendo cura poi di immergere in paraffina fusa gli estremi di questi tubi così turati. Gli ultimi residui del reattivo sì possono anche ottenere per filtrazione su filtro di carta a pieghe, disposto sopra un imbuto a fondo mobile, piatto e forato, ma però bisogna attendersi che il reattivo cosi ottenuto — 624 — abbia un titolo molto più debole dell’ altro per il contatto che ha luogo con l’aria. i Notiamo che lo zinco impiegato deve essere terso, può servire a lungo purché si lavi con acqua acidulaia con acido cloridrico e si asciughi poi del tutto. Il reattivo deve essere del tutto limpido e incolore. Quando non si sia aggiunto a sufficienza latte di calce, oppure quando -questo sia già vecchio e contenga poco idrato, può aversi facilmente che il reattivo non riesca limpido, l’ aggiunta di altro latte di calce fa precipitare com- pletamente tutto lo zinco. Per titolare questo reattivo lo si confronta con una soluzione di sol- fato di rame al 4,469 per litro, 10 c.c. della quale corrispondono a 1 c.c. di ossigeno. Il solfato deve essere puro, cristallizzato, non sfiorito. Se ne fa una soluzione ammoniacale, avendo cura di mettere ammoniaca in leggero eccesso e non solamente nella. quantità strettamente necessaria per ridisciogliere il precipitato formatosi colla prima aggiunta dell’ ammo- niaca. Se non vi sia questo eccesso si vedrà, specialmente se d’ estate, ridursi il reattivo rameico e precipitare del rame sulle pareti della botti- glia, alterandosi cosi di molto il titolo della soluzione. Dissi più sopra che la titolazione dell’ idrosolfito si fa in un apparec- chio speciale, che per il Lambling era quello stesso che doveva poi servire per la determinazione dell’ ossigeno nel sangue, dal Siegfried invece era stato modificato. Quello che io descriverò é essenzialmente quello del Siegfried con qualche altra modificazione che le esperienze fatte mi dimostrarono necessarie. Un grosso apparecchio Kipp 4 X (Fig. 6) da svolgimento di idrogeno (in sua vece servono benissimo due bottiglie unite insieme da un tubo di gomma, come nella figura, mettendo nella seconda un grosso strato di rottami di vetro: che comprende sufficiente spazio di raccolta di gas). L’ idrogeno sviluppato deve essere lavato esattamente. Ciò secondo le in- dicazioni di Jungfleisch si può fare in due bottiglie successive, la pri- ma contenente soluzione fortemente acida (acido solforico) di permanga- nato di potassio ZL, la seconda soluzione fortemente alcalina (soda o po- tassa) dello stesso sale L'". Fra le due è bene porre un’altra bottiglia vuota L' che impedisca il rigurgito di L'" in L, se la pressione nell’ ap- parecchio Kipp venisse a mancare o a diminuire. Il tubo d’ uscita del gas così lavato da L'" si suddivide in 2 altri, l’uno si porta in una piccola valvola a mercurio 7g, in cui il tubo di entrata pesca appena per non produrre una troppo forte resistenza. Dalla valvola il gas entra nella bot- tiglia a tre colli CuSO' capace di 300 c.c., nella quale è posta la soluzio- ne di solfato di rame. I tre colli di questa bottiglia portano rispettiva- mente un tubo che va fino al fondo e che é la continuazione di quello — 625 — testé indicato, proveniente dalla valvola Hg; un secondo tubo munito di robinetto c e che pesca pure fino al fondo, un terzo che fuoresce appena dal tappo e che porta un robinetto 7 a tre vie ed ha quindi due ramifi- cazioni. L’ una di queste sdoppiandosi a sua volta in due branche con- duce alle imboccature di due burette ordinarie B e 2' divise in decimi di c.c., alle quali ciascuna delle due branche è assicurata con tappo di gomma, l’ altro ramo, che parte da 7°, si porta attraverso a tappo di gom- — ma fino al fondo di un cilindro di vetro P a fondo cieco, nel quale si eseguisce la titolazione. Il terzo tubo che parte dalla bottiglia CuSO* prov- visto del robinetto c fa capo ad una delle braccia di un tubo a #, mentre delle altre due la superiore é unita all’ estremo inferiore di una delle bu- rette sopra indicate e l’ altra per un tubo di gomma, che può chiudersi con pinzetta Mohr, mette ad un tubo di vetro affilato che traversa il tappo del cilindro P. La seconda branca del tubo di svolgimento dell’ idro- geno proveniente da L'' conduce al tubo corto della bottiglia A conte- nente l’ idrosolfito, mentre il tubo lungo di questa si porta all’ altra bu- retta ed al cilindro P con un tubo a # analogo a quello già descritto per la prima buretta. Così il tappo del cilindro P é attraversato dai tubi af- filati provenienti dalle due burette B e 2', dal tubo che arriva fino al fondo del vaso P e che proviene dal robinetto 7, da un quarto tubo S che sfiora il tappo e che porta all’ esterno il gas che ha gorgogliato Cirone: Ho fatto varie prove per semplificare questo apparecchio, ma non sono riescito a buon risultato, e del resto |’ insieme non ha la complicazione che a prima vista apparisce, e che del resto una volta accordato in tutte le sue parti non ha più bisogno di nessuna sorveglianza speciale, fuori s’ intende del ricambio dei reattivi che si adoperano e dei liquidi di la- vaggio che col tempo non servono più allo scopo, prima la soluzione acida di permanganato che viene ridotta abbastanza presto. Tutte le riunioni dei tubi vanno fatte con raccordi di gomma nuova e robusti. Ogni contatto di gomma col vetro va assicurato con una legatura. I tubi di gonrama devono essere più corti che sia possibile e limitarsi a tener riuniti i vari tratti di vetro. Tratti in gomma lunghi possono met- tersi da 7 a P e in s. Per rendere più intelligibile la figura ho rappren- tato lunghe certe comunicazioni che di fatto sì possono fare brevi. Solo i tubi che provengono dalle burette B e B' devono avere un tratto di gomma abbastanza lungo perché le pinzette di Mohr vi facciano presa ed il cilindro P possa essere scosso per rimescolare il liquido contenu- tovi. Il robinetto dell’ apparecchio Kipp si lascia sempre aperto per man- tenere una forte pressione di idrogeno ed occasionare piuttosto una fuga di questo che un’ entrata d’ aria e quindi di ossigeno. S’ intende che Serie V. — Tomo IV. 79 — 626 — mentre il robinetto di X é aperto in permanenza dovrà essere chiusa in permanenza la via di 7 da CuSO' a P e chiuso pure il robinetto c. Quando si voglia eseguire la titolazione dell’ idrosolfito si dovrà prima. girare il robinetto 7 in modo da aprire la via da CuSO' a B e B' e la- sciar escire una certa copia di idrogeno per scacciare l’ aria che si tro- vava nelle burette, P sarà sciolto dal suo tappo. Riempite le burette di idrogeno vi sì introducono i reattivi. Secondo la figura descritta si intro- durrà il solfato di rame nella buretta 2 e l’ idrosolfito in B'. A ciò fare si gira 7 in modo da aprire la via che da B e 5B' mette a P passando per 7 e si apre c. Si capisce facilmente che l’ idrogeno gorgogliera in CuSO', farà salire il liquido nel tubo di cui si é aperto il robinetto ed entrerà nella buretta B, mentre il gas che vi si trovava uscirà libera- mente per la via B 7 P. Si chiuderà ec quando tutta la buretta B sarà riempita. Per il riempimento di B' si procede similmente e cioé tenendo aperta la via B' 7 P aprendo la pinzetta di Mohr. Riempite le burette bisogna scacciare il gas che si trova nei tubi al di sotto e al di sopra delle pinzette rispettive. A ciò fare si gira il robi- netto 7 in modo da aprire la via C«xS0'-T-BB' e si aprono adagio le pinzette tenendo alto 1’ estremo affilato dei tubi da cui dovranno uscire i reattivi. Asciugata bene 1’ estremità di questi tubi si adatta P al suo tappo, si chiude il robinetto di X e si aprono tutte tre le vie di 7°, poi tenendo il cilindro P in posizione inversa di quella della figura si apre adagio il robinetto di X e si lascia uscire idrogeno da ,S finché si creda che tutta l’aria che era contenuta in P sia stata scacciata. Un indizio grossolano di questo fatto può aversi facendo gorgoliare il gas che esce da $S in acqua saponata e appiccando fuoco alle bolle che si formano. Si osserva che da principio ogni bolla dà uno scoppio e in ultimo quando non con- tiene che poca o punto aria non fa che accendersi senza rumore. Allora si modera di più l’ escita del gas col robinetto di X e segnata l’ altezza dei reattivi nelle rispettive burette si incomincia la titolazione. L’ idrosolfito di sodio andando in contatto col solfato di rame gli to- glie la tinta azzurra e mano mano lo scolora completamente. Talora la decolorazione è lenta, e però è opportuno attendere qualche poco prima di aggiungere altro idrosolfito. Si può cosi aggiungere in 3 o 4 volte da 25 a 30 c.c. per ogni reattivo ed avere diverse cifre comparabili. L’ idrosolfito è riescito molto debole o contiene troppa calce oppure il solfato di rame contiene troppo poca ammoniaca, la decolorazione si fa lentissima e può arrestarsi per 5 o 6 minuti a un verde mare più o meno sbiadito. Aspettando qualche poco anche questo colore sparisce. La com- — 627 — parsa di un colorito giallo indica un eccesso di idrosolfito in quanto che vuol dire che del rame é stato ridotto. L’ idrosolfito che si ottiene con le indicazioni date corrisponde presso a poco volume a volume alla solu- zione di solfato di rame. Si intende che per ogni esperienza deve essere diligentemente rifatta la titolazione, perché il titolo dell’ idrosolfito non si mantiene mai a lungo. Debbo notare che secondo quanto aveva scritto Lambling la botti- glia dell’ idrosolfito poteva essere collocata in alto e provvista di lungo sifone. Il reattivo che usciva era rimpiazzato direttamente da gas luee. In questo modo feci io pure da principio, ma poi mi accorsi che talora il reattivo si caricava di ossido di carbonio, che, come si sa, si trova sempre in quantità più o meno forti nel gas d’ illuminazione, e messo in contatto col sangue, dava luogo alla formazione di carbossiemoglobina irriducibile. Nella titolazione dell’ idrosolfito non si devono fare differenze maggiori del 4 o 5 per 100 di idrosolfito. Le deviazioni più grandi vanno scartate. Avanti di accingersi ad una titolazione o all’ introduzione di idrosolfito nelle provette degli apparecchi per il dosamento del sangue bisogna far uscire tutto quello che si trova nei tubi compresi fra la bottiglia RA e la buretta B' e lasciarne scorrere altro per lavare il letto prima occupato dal reattivo che vi ha ristagnato. Ponendo mente a queste avvertenze ed operando sempre scrupolosa- mente si ottengono dei risultati sempre concordanti. * NORD Ed ora ecco i risultati ottenuti con questo metodo. Ho già riportato le cifre del Siegfried, riunisco le mie in 3 Tabelle, la prima delle quali contiene le determinazioni eseguite in doppio sullo stesso materiale d’ osservazione. Questa prima Tabella interessa dunque anche perché rappresenta una prova del metodo tenuto. — 628 — Tabella I. Determinazioni confrontate Data Osservazioni Animale Ossigeno % Luglio 1891 | Cane 5,96 Cane sano. Sangue defibrinato fresco. » » » 5,92 Novembre 1891 Cane 11,60 Cane sano. Sangue defibrinato fresco. » » » 1152 Novembre 1891 Cane 10, 68 Cane sano. Sangue defibrinato fresco. » » » 10, 23 Novembre 1891 Cane li Lo stesso cane con dispnea. Sangue defibrinato » » » ale fresco. Dicembre 1891 Uomo 13672 Uomo di 40 anni, tabetico; funzioni vegetative » » » 13,90 eccellenti. Sangue estratto per salasso e defi- brinato da 24 ore. 6 Aprile 1893 Cane 8, 67 Cane sano di kilogr. 15. Sangue defibrinato da » » » 8,95 24 ore. 25 Aprile 1393 Cane 3, 52 Cane di kilogr. 20 in preda a itterizia grave da » » » 3, 37 chiusura del coledoco. Sangue defibrinato fresco. 6 Giugno 1893 Cane 0, 4926 Cane di kilogr. 14,5, vecchio, sano. Sangue defi- » » » 0, 4932 brinato da 24 ore. ) 21 Luglio 1893 Coniglio 9, 65 Coniglio adulto, sano. Sangue defibrinato da 24 » » » 9, 67 ore, sbattuto di fresco. 1° Agosto 1893 Cane 5,19 Cane mops di kilogr. 12, 500, vecchio, sano. San - » » » 5,45 gue fresco dalla carotide. i 9,05 Lo stesso cane. Sangue defibrinato fresco. ) » » 8,80 2 Agosto 1393 Cane 8,51 Lo stesso sangue defibrinato da 24 ore. » » » 8,54 12 Agosto 1893 Cane 16, 3 Cane sano di kilogr. 13, 300. Sangue fresco dalla » » » 16, carotide. ; ; s 15, 63 Lo stesso cane. Sangue defibrinato da 24 ore 15, 74 lasciato a sè a 18°. 22 Agosto 1893 Coniglio 8, 28 Coniglio giovane, di kilogr. 1,600. Sangue defi- » » » 8,30 brinato fresco. Una scorsa alle cifre riportate ci dice come le differenze oscillino tra un massimo che si nota in un caso solo su 15 ed é di 0,45 %, ed un minimo pure unico ed è di 0 %. Ordinariamente si nota quella differenza di 0,1% che già il Siegfried aveva indicato. Ma io debbo porre in vi- sta un fatto importante. — 629 — Le nostre determinazioni furono eseguite coi tre apparecchi (1) che at- tualmente possediamo in Laboratorio, non sempre con quello stesso. È certo che lavorando sempre col medesimo istrumento si avvezza l’ occhio e si ar- resta sempre l'operazione a quel grado di assorbimento dello spettro che corrisponde a quel dato rapporto fra emoglobina ridotta ed ossiemoglobina. ‘Quindi 1’ errore che si commette è sempre lo stesso e fra due determina- zioni poca differenza può correre. Sarà opportuno nel fatto di giovarsi dello stesso apparecchio per una data serie di ricerche, ma talvolta oc- corre istituire insieme diverse prove, ed allora è necessario ricorrere ad ‘apparecchi che abbiano possibilmente gli stessi rapporti di volume ed il medesimo spessore in quella porzione almeno nella quale si deve compiere l’ osservazione spettroscopica. Cosi ad esempio, quando si debbano ese- guire determinazioni su di un sangue che rapidamente cambi il suo con- tenuto in ossigeno, come in diversi casi è occorso anche a me, oppure quando si vogliano studiare diverse condizioni della determinazione per uno stesso sangue. La bontà del metodo crediamo sia sufficientemente dimostrata dalle de- terminazioni citate. E qui solamente vorrei per ora arrestare il mio lavoro, ma l’ aver do- vuto accennare alle varie condizioni che il sangue osservato presentava in corrispondenza con vario contenuto di ossigeno, mi obbliga ad occu- parmi almeno un po’ dei risultati ottenuti, riserbandomi di farlo altra volta più estesamente e con. materiale più ordinato. La Tabella I contiene determinazioni di sangue di cane e di coniglio. Accenniamo così di sfuggita a due determinazioni di sangue defibri- nato fresco di cavia, determinazioni che non furono eseguite in doppio, ma che si corrispondono abbastanza. L’ una venne fatta ai 4 di Novem- bre, l’ altra ai primi di Dicembre del 1891. La prima diede 11,35 di ossi- geno, la seconda 10,10, e due altre di sangue pure defibrinato di topo bianco adulto eseguite rispettivamente il 10 e il 17 Luglio 1893, la prima delle quali diede 18 % di ossigeno e la seconda 17, 05. Il fatto che apparisce più manifesto dalle cifre riferite consiste in una grande differenza fra i diversi animali di specie diversa, fra individui della stessa specie e anche nello stesso individuo da condizione a condizione. I risultati ottenuti ci mostrano infatti che, coeferis paribus, di contro ad un contenuto di 18 % d’ ossigeno nel sangue di topo si può notare la quantità di 9 % nel sangue di cane, cioé la metà del precedente, che nella stessa specie di contro ad una cifra di 8,5 si trova quella di 15,7, che nello stesso individuo il sangue defibrinato fresco in condizioni di (1) Due di essi furono costruiti in Laboratorio, 1’ altro a Monaco. — 630 — respirazione regolare dimostra 10.6 di ossigeno %, mentre in istato di- spnoico speciale può presentare solo 7,12 volumi di ossigeno per cento. di sangue. Queste variazioni, che già le determinazioni dei gas con la pompa ave- vano dimostrato, si osservano anche con questo metodo, il che vuol dire che son proprie del sangue e non sono risultato del processo seguito, il quale si mostra esattissimo quando si operi nello stesso momento, sullo stesso sangue, tolto dalla medesima massa e nelle stesse condizioni. Ed a proposito di queste ultime osservo, che la temperatura sotto la quale si fa la determinazione non ha altra influenza, che quella di ritar- dare o accelerare il fatto chimico della riduzione e che quindi agendo ad una bassa temperatura, come avviene d’ inverno, occorre andar cauti nell’ aggiunta dell’ idrosolfito per non introdurne in quantità eccessiva. Una volta introdotto il sangue negli apparecchi, si procede alla deter- minazione dell’ una o dell’ altra prova, non importa quale, perché il poco sangue che si aggiunge a tanta acqua viene rapidamente di- sorganizzato e non può più vivere propriamente, non consumare cioé os- sigeno come fa quando venga lasciato a sé stesso. Per ispiegare le differenze, che, come ho accennato, si osservano da specie a specie, si può invocare la ricchezza maggiore o minore del san- gue in emoglobina nelle varie specie. Questa spiegazione ha bisogno naturalmente di essere dimostrata rigo- rosamente nei vari casi. Ma la determinazione quantitativa dell’ emoglo- bina può avere un’ importanza speciale, quando si confronti con quella dell’ ossigeno, fatta col metodo Siegfried, nei casi di differenze fra in- dividuo e individuo della stessa specie. Con questo raffronto si può dimostrare quando esista nei diversi indi- vidui veramente una diversa quantità di emoglobina, cui si debba il mag- gior contenuto di ossigeno del sangue, o invece si abbia a che fare con una diversa proporzione nel sangue di quella che il Siegfried ha giu- stamente chiamato pseudoemoglobina. Come si è accennato, rappresenta. questa un’ emoglobina che contiene ancora ossigeno estraibile con la pompa, ma che da lo spettro ridotto e non cede ossigeno all’ idrosolfito di sodio. Questa pseudoemoglobina, che il Siegfried ha veduto aumen- tare fortemente nel sangue asfittico fino a rappresentare tutta 1’ emoglo- bina presente nel sangue in quelle condizioni, può talora trovarsi in quan- tità diverse, come nei diversi casi da noi esaminati, ma quando si volesse stabilire appunto se le variazioni che si notano nell’ ossigeno, ottenuto col metodo del Siegfried, sieno dovute in parte a variazioni della quantità assoluta dell’ emoglobina o non piuttosto a variazioni della pseudoemo- globina, occorrerebbe eseguire contemporaneamente determinazioni quan- = 631 — titative della emoglobina totale. Dal confronto dei due risultati si saprebbe quanto si presti un dato sangue alla nutrizione dei tessuti in confronto alla sua ricchezza in emoglobina. Potrà darsi infatti che un sangue ric- chissimo di emoglobina si avvicini alle condizioni del sangue asfittico e però non abbia che poco o punto ossigeno da cedere ai tessuti, mentre con la pompa sia pur possibile il sottrargliene ancora. Ed invece un al- tro sangue contenendo la stessa quantità totale di emoglobina od anche una assai minore, possieda una copia assai più piccola di pseudoemoglo- bina e in compenso una maggiore di vera ossiemoglobina ed abbia così una provvista molto più considerevole di ossigeno da distribuire ai tessuti. In uno dei casi, che abbiamo riferito nella Tabella I, si trattava certa- mente di minore quantita di emoglobina totale. Era un cane in preda a grave itterizia dovuta ad occlusione sperimentale del coledoco. Certamente in esso era avvenuto ed avveniva una forte dissoluzione di globuli, molta emoglobina doveva essere eliminata e distrutta, poca quindi ne doveva rimanere funzionante per la ossidazione dei tessuti. La determinazione ha dato appunto una piccolissima quantità di ossi- geno 3,52 pur nel sangue defibrinato, che doveva contenerne al massimo, come quello che si é trovato in maggiore e più largo contatto con l’ aria atmosferica. Oltre la ricerca comparativa dell’ emoglobina totale sarà interessante quella comparativa dei globuli rossi, che, come si sa, possono anche non essere in rapporto assoluto con 1’ emoglobina totale, da che si conoscono globuli più o meno ricchi di questa sostanza, che rappresenta pure la loro funzione essenziale. Cosi, riscontrata la quantità di emoglobina, il numero dei globuli rossi, la quantità dell’ ossigeno che può essere sottratta dall’ idrosolfito di sodio, si avrà una serie di dati, che potranno farci formulare un giudizio sulla attitudine maggiore o minore di un sangue a intrattenere dal punto di vista dell’ ossidazione la nutrizione dei tessuti, assai meglio che non fac- cia per sè ognuno di questi dati. E veramente un sangue che contenga poco ossigeno, determinabile col metodo Siegfried, si dimostrerebbe già poco adatto alla ossidazione dei tessuti, ma per questa sola ricerca noi non sapremmo se quella con- dizione fosse passeggiera, se tenesse a poverta in emoglobina, se tenesse a povertà in globuli rossi, e però non sapremmo neppure se i fenomeni ge- nerali che potrebbero notarsi fosser l’ espressione di povertà d’ ossigeno o non piuttosto di povertà di emoglobina o di globuli rossi. Queste serie di ricerche, in parte già incominciate per la contatura dei globuli, intendo di continuare su larga scala, svolgendo 1 argomento co- me ho accennato più in dietro. — 632 — Tabella II. Influenza del tempo trascorso dal sangue fuori dei vasi e dello sbattimento in contatto dell’ aria Data | Animale |Ossigeno % Osservazioni 6 Aprile 1893| Cane 8, 67 Sangue defibrinato da 24 ore. 9 » » » 4,63 Lo penso, defibrinato da 96 ore, tenuto a 16° in vaso chiuso. 17 Maggio » Cane 10, 63 Cane di kilogr. 10, sano. Sangue defibrinato da 20 ore, tenuto a 16°. 18 » » » 8,03 Lo stesso sangue tenuto a 16°, dopo 50 ore dalla defi- brinazione. 5 Giugno » Cane 4, 58 Cane di kilogr. 14,5, sano, vecchio. Sangue defibrinato fresco. 6 » » » 0, 49 Lo stesso sangue dopo 24 ore, tenuto a 16°. » Da » » 2,82 Lo stesso sbattuto di nuovo a lungo. DIRO) » » CASI) Lo stesso dopo altri 30°. 14 » » Cane 10, 16 Cane febbricitante con ampie piaghe suppuranti. Sangue defibrinato da 24 ore, tenuto a 16°. » » » » 14, 63 Lo stesso sangue sbattuto di fresco. 23 » » Cane 9,30 Cane vecchio, robusto. Sangue defibrinato da 24 ore, sbattuto di fresco. 24 » » » 0, 00 Lo stesso sangue 48 ore dopo. Puzza di putrefatto. » » » » 7,52 Lo stesso sangue sbattuto di nuovo. 5 Luglio » Cane 10, 73 Cane vecchio, robusto. Sangue defibrinato fresco. 60» » » 6,95 Lo stesso sangue defibrinato da 24 ore, sbattuto di nuo- vo. Temperatura 23°. TANEROO,) » » 0, 15 Lo stesso sangue defibrinato da 48 ore, sbattuto per 2 o 3 minuti. » » » » 5, 35 Lo stesso sbattuto a lungo. DIS, » » 1,51 Lo stesso dopo altri 40°. SM » » 5,52 Lo stesso dopo 72 ore dalla defibrinazione, sbattuto di. nuovo. » » » » 0, 00 Lo stesso lasciato a sè altri 20°. 13 » Cane 8,79 Cane giovane. Sangue defibrinato di fresco. 14 » » » CHO Lo stesso sangue 24 ore dopo, sbattuto di nuovo. » » » » VESU Lo stesso dopo un’ altra ora. 16 » » » 0, 00 Lo stesso 72 ore dopo defibrinato. Temperatura 20°. Pu- trefatto. » » » » 8,41 Lo stesso sbattuto di nuovo. 27 » » Coniglio 7,86 Coniglio adulto, di kilogr. 1,800. Sangue defibrinato da 24 ore. » » » » 6,81 Lo stesso sangue tenuto a 25° per 30°. 12 Agosto » Cane 15, 63 Cane di kilogr. 13,300. Sangue defibrinato da 24 ore, te- nuto a 18°, sbattuto di fresco. ; » » » » Lo r90) Lo stesso sangue lasciato a sè per 2 minuti primi. = 1635 - Nella Tabella II ho riunito una serie di esperienze, nelle quali è messa in vista la proprietà che ha il sangue, una volta lasciato a sé, di perdere parte o tutto quell’ ossigeno che ho chiamato mobile, e che si determina col metodo di Siegfried. Il fatto già posto in vista per la prima volta dal Bernard per l’ ossigeno complessivo del sangue, che cioè special- mente a temperature superiori a 30° il sangue consuma del proprio ossi- geno, trova qui-una conferma. Noi abbiamo molte esperienze nelle quali sì tratta di sangue defibrinato di cane e di coniglio. In alcune di esse si giunge fino alla incipiente putrefazione del sangue e si osserva, come é gia noto, che quel sangue che già si presentava nero, privo di ossigeno determinabile con l’ idrosolfito di sodio e con lo spettro dell’ emoglobina ridotta, può ridivenire di color rosso chiaro e riacquistare dell’ ossigeno in quantita abbastanza notevole. Jolyet (1) aveva gia trovato che l’ assorbimento di ossigeno dimi- nuisce con l’ aumentare della putrefazione ed è in ragione inversa della produzione di carbonato d’ ammonio. Hoppe Seyler (2) aveva veduto che l’ ossiemoglobina chiusa in tu- betti, saldati alla lampada, resisteva alla putrefazione e manteneva a lun- go il suo contenuto di ossigeno. Le esperienze, che sono riferite nella Tabella II, mostrano che il san- gue estratto dai vasi, qualunque sia l’ animale cui apparteneva, perde una parte del suo ossigeno mobile, quando venga lasciato a sé per qual- che tempo. Gia dopo 24 ore la quantità di ossigeno determinabile con l’ idrosolfito può essere diminuita del 5 o 6 per 100, come nelle espe- rienze del 13-14 Luglio 1893, fino al 90 %, come nelle esperienze del 5-6 Giugno 1893. Il sangue già defibrinato, quanto più a lungo rimane a sé in recipiente chiuso, tanto più perde del suo ossigeno mobile, ma é sempre capace di riprenderlo, non però nelle proporzioni di quando era fresco. La saturazione con l’ ossigeno é fino a un certo limite tanto più forte quanto più lungo é lo sbattimento all’ aria libera, e nelle esperienze del 13 al 16 Luglio si osserva appunto che un sangue defibrinato, che appena estratto dai vasi conteneva 8,79 di ossigeno, ne possedeva 8,27 sbattuto di nuovo dopo 24 ore, lasciato a sé poi per un’ altra ora non ne aveva più che 7,37, era completamente ridotto due giorni dopo la defibrinazione, ma pure poteva riprendere nientemeno che 8,41 per cento di ossigeno, sbattuto a lungo all’ aperto, sebbene già in preda ad incipiente putrefazione. (1) Jolyet. Contributions & l’ étude de la physiologie comparée du sang des vertebrés ovi- pares. Gaz. Méd. de Paris, pag. 381-382. Jahresberichte iber die Fortschritte der Anat. und Phys, IU, pag. 194. (2) Hoppe Seyler. Weitere Mittheilungen liber die Eigenschaften des Blutfarbstoffs. Jahres- berichte liber die Fortschritte der Anat. und Phys., VI, pag. 253. Serie V. — Tomo IV. 80 — 634 — Un fatto analogo si ha nella esperienza del 24 Giugno 1893. I risultati da me ottenuti, e fra essi son molto istruttivi quelli dal 5 all’ 8 Luglio, provano che oltre la diminuita attitudine dell’ emoglobina a non combi- narsi con l’ ossigeno, diminuisce anche e rispettivamente sparisce la pro- prietà di trattenere l’ ossigeno in quella combinazione speciale relativa- mente labile, che è I’ ossiemoglobina, tanto che nella esperienza del 12 Agosto vediamo che del sangue defibrinato da 24 ore e sbattuto di fresco, che conteneva 15,63 di ossigeno, lasciato a sé, in soli 2 minuti ha per- duto 4,24 di ossigeno, cioé il 27,1 % dell’ ossigeno che aveva prima. L’ accentuarsi maggiore o minore del fenomeno è probabilmente in ragione della morte più o meno rapida del globulo prima, e successiva- mente in ragione della rapidità maggiore o minore con cui la putrefazione invade il sangue. Potendo fare le esperienze in recipienti accuratamente sterili, e defibrinando il sangue o con un apparecchio Hoppe Seyler sterilizzato, o meglio con un vaso contenente mercurio e meglio ancora, secondo me, contenente pallini di piombo lavati e sterilizzati, si potrebbe togliere, con mezzi opportuni, il sangue senza introdurre germi dall’ aria. Ma oltre che occorre che il sangue cui si vuol far riprendere ossigeno, vi si trovi a libero e abbondante contatto, bisogna anche che nelle prove: che si prendono non entri nessun fiocco di fibrina altrimenti il calcolo percentuale diviene tosto erroneo. Questi riguardi possono difficilmente conciliarsi con quelli della rigorosa sterilizzazione che sarebbe necessaria per un accurato studio del fenomeno. Comunque sia, il risultato delle nostre prove dice chiaramente che il sangue fuori dei vasi dopo un tempo più o meno lungo consuma il suo ossigeno mobile, ma può ripigliarne dell’ altro, dar luogo a nuova ossie- moglobina, che poi rapidamente si scompone e perdere di nuovo l’ ossigeno: riacquistato. Né può esservi dubbio che l’ ossigeno così ripreso sia semplicemente disciolto nel sangue, perché si vede allo spettroscopio riapparire lo spet- tro dell’ ossiemoglobina in posto di quello evidente dell’ emoglobina ri- dotta, oltre che sarebbe fisicamente incomprensibile che un liquido a 23°, come nell’ esperienza del ? Luglio, potesse impadronirsi per dissoluzione di 5,35 c.c. di ossigeno per 100, per perderli subito e dopo 40' non pre- sentarne che 1,51, riprendendone dopo altre 24 ore 5,52 per la solita manovra dello sbattimento all’ aria libera, e infine ridursi a non mostrare più nulla affatto alla stessa temperatura e scorsi altri 20'. Anche per questo riguardo mi rimane a risolvere la questione che mi sono limitato ad accennare, intendendo farne oggetto di qualche espe- rienza appropriata. — 635 — Tabella III Qualità del Sangue Data | Carotideo | Venoso |Defibrinato Animale 5 Giugno 1893 4,98 3, 05 4, 58 Cane vecchio, sano, di Kilogr. 14,500. 18 » » 4,98 3, 21 4,90 Cane febbricitante, di kilogr. 12, 500. DD » 12, 10 5,33. 8,80 Cane vecchio, sano. 5 Luglio » — 6, 52 10, 73 Cane vecchio, sano. 13 » » — 4,34 8, 79 Cane giovane, sano. 1° Agosto » 5,45 — 8, 80 Cane mops vecchio, sano, di kilogr. 12, 500. Mi resta a dire qualche cosa sopra alcuni dati raccolti nella Tabella III, come conferma anche dei risultati di Siegfried, e come saggio di ricerche fatte sul sangue carotideo e sul venoso preso direttamente dai rispettivi vasi, e il defibrinato. Ho raccolto il materiale confrontabile, che ho potuto riunire dal libro di Laboratorio, lasciando da parte tutte le esperienze che per essere fatte su vari animali non possono a rigore fra loro paragonarsi. Le determinazioni riguardano tutte dei cani, di cui quattro vecchi, ma sani; due giovani, di cui uno febbricitante ed uno sano. Il sangue defibrinato e sbattuto a lungo all’ aria deve rappresentare eminentemente l’ arterioso, quello cioé saturo di ossigeno e che relativa- mente contiene maggiore copia di ossiemoglobina. Nelle esperienze che riportiamo, questo fatto non si verifica che in un caso sopra quattro, in cui fu eseguita tanto la ricerca sul sangue della carotide, come quella del sangue defibrinato fresco. L’ unica spiegazione possibile, quando non si voglia invalidare la determinazione sperimentale, é quella che lo sbattimento del sangue sia stato insufficiente, come fu varie volte evidentemente in casi in cui si potè aumentare la quantità di ossigeno seguitando a sbattere il sangue più a lungo. Una prova palmare di ciò si ha nella Tabella II, nella quale, come facemmo già osservare, nella esperienza del 7 Luglio, si potè formare un contenuto di ossigeno a 0, 15 sbattendo il sangue per 2 o 3 minuti solamente e poi continuando a sbatterlo a lungo si poté portare il percento di ossigeno a 5, 35. Or dunque nelle esperienze del 5, 15, 22 Giugno é probabile che il contenuto in ossigeno che rispettivamente venne determinato di 4,98- 4,98-12, 1 per il sangue arterioso, e 4,58-4,90-8,80 per il defibrinato, — (636 — fosse in realtà più basso in quest’ ultimo in causa di uno sbattimento in- sufficiente, il quale non ha impedito che per la temperatura elevata, uguale a quella dell’ organismo, il sangue stesso consumasse parte di quell’ ossi- geno che era combinato all’ ossiemoglobina. Ciò invece è avvenuto nell’ esperimento del 1° Agosto, nel quale di contro ad un contenuto di 5,45 nel sangue carotideo osserviamo 8,80 come valore minimo (vedi Tabella I) ottenuto nella determinazione fatta sul sangue appena defibrinato. Ho creduto interessante il riferire questi risultati, nonostante 1’ appa- rente contrasto fra il sangue arterioso e il defibrinato, perché essi rap- presentavano osservazioni fatte nello stesso animale, nel medesimo istante ed erano anche, secondo il concetto già citato del Bert (Op. cit.), degni di speciale considerazione. In tutti i casi riferiti nella Tabella III, si osservano per il sangue ve- noso delle cifre assai basse, che confermano quelle ottenute anche dal Siegfried. Tutte sono naturalmente inferiori a quelle del sangue defi- brinato e del carotideo e nell’ esperienza del 22 Giugno, troviamo anzi un valore di 5,33 che non è neppure la metà di quello carotideo. Il Siegfried, operando su sangue di cani, cui aveva chiuso la tra- chea, esegui tre determinazioni ed osservò che innanzi al prodursi delle convulsioni il sangue conteneva 2,2 % di ossigeno, subito dopo il princi- pio delle convulsioni 0,7 e poco prima della morte era già completa- mente ridotto. Nelle mie determinazioni il sangue era estratto dal moncone periferico della giugulare esterna e mi diede come valore minimo 3,05 %, non era naturalmente sangue asfittico, ed il suo corrispondente sangue arterioso e defibrinato, toccava presso a poco i valori riscontrati dal Siegfried. Non dobbiamo dimenticare in ogni caso che il metodo di cui mi sono valso, e che raccomando, da valori che rispondono al momento preciso in cui si fa l’ esperienza, che possono cogliere quindi il sangue in condi- zioni assai disparate per riguardo al suo contenuto in ossigeno. Io credo che probabilmente con la pompa si troverebbero valori quasi sempre eguali anche quando il metodo Siegfried fa riscontrare differenze note- voli, e ciò pur avuto riguardo alle maggiori sorgenti d’ errore del metodo della pompa in confronto a quello dell’ idrosolfito. Questo concetto si fonda sul fatto che la pompa estrae l’ ossigeno dell’ ossî e della pseudoemoglobina, ed invece l’ idrosolfito non dimostra che il primo. Ora, appunto è essen- zialmente il primo che serve alle ossidazioni dell’ organismo, sia in seno alla corrente circolatoria, come vorrebbero le esperienze del Sieg fried, sia in mezzo ai tessuti, come si era voluto fin qui. E si comprende come basti talora la contenzione troppo lunga del- — 637 — l’ animale sul tavolo, per produrre una irregolare respirazione, uno scam- bio più o meno vivo e imperfetto di gas e però una formazione più o meno copiosa di ossiemoglobina nei capillari degli alveoli polmonari, se pure é là dentro propriamente che l’ emoglobina andando in contatto con l’ ossigeno gli si combini. Io qui ripeto, che ho voluto confermare la bontà di un metodo, mo- dificandone, secondo me, opportunamente la tecnica e dimostrandone i grandissimi vantaggi per la fisio-patologia del sangue. Settembre 1893. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Fig. 1 — Apparecchio originale Siegfried. » ® — Pipetta annessa all’ apparecchio Siegfried. » 3 — Prima modificazione. » 4 — Seconda modificazione. Apparecchio completo. » 5 — Sostegno dell’ apparecchio precedente. » 6 — Insieme schematico dell’ apparecchio per la titolazione dell’ idro- solfito di sodio. s È no. a gola Mem. Ser. 5° Tomo IV. ologna Lit Mazzoni e Rizzok-R, ad PRC) OR dg Ò OSSERVAZIONI MICROSCOPICHE CIRCA L'INTERNA FABBRICA DEGLI OCCHI DELLE SQUILLE SPECIALMENTE DELLA SQUILLA MANTIS DEL E avi CI CIO IMM DI: (Lette nella Sessione del 27 Maggio 1894). (CON TAVOLE) Le Squille, come leggesi scritto nei libri di Zoologia, sono Crostacei del Sottordine degli Stomapodi, e ve n’ é di tre maniere, l’ una è la Squilla Mantis L.; l’ altra la Squilla Desmarestii Risso; e 1’ altra la Squilla Ferus- sacil Roux; le quali tutte abitano e vivono nei mari che Italia bagnano. Ma di queste tre maniere di Squille la più comune e insiem la più grande è la Squilla Mantis, volgarmente chiamata in Viareggio Cicala di mare, e in altre parti d’Italia Sparnocchia o Canocchia. Ed è appunto in questa che io ho particolarmente investigato gli occhi col microscopio. Gli occhi delle Squille sono per natura di color glauco con un cotal lustro iridato, il quale vogliono alcuni che cresca nel tempo ch’ elleno vanno in frega; ed essi fanno, quanto alla figura, ch’ é tonda e lunghetta, non lontana similitudine col seme dell’ Eleagnus angustifolia o Ulivo di Boemia, e sono stabilmente situati in cima a due piccoli gambi, o appendici del primo anello cefalico, i quali son mobili per opera di alcuni muscoletti che vi s’ attaccano dentro. E sono questi occhi delle Squille della genera- zione di quelli che dalla universalità degli Scrittori di cose naturali son chiamati occhi composti o a faccette o a rete; ra di questi nomi quello che a me pare che meglio lor convenga é il nome di occhi a faccette, o più propriamente, occhi a cornea sfaccettata, perché egli non esprime altro che quello che si vede senza alcun concetto teorico circa all’ interna loro composizione; dove che l’altro di occhi composti inchiude l’idea di un aggregamento di piccoli occhietti chiamati con greca voce dal Ray Lan- kester ommatidi, operanti, sebbene nello stesso tempo, ciascuno di per sé. La qual cosa, come io opino, non è secondo verita. Perciocché gli occhi — 640 — composti non sono che un tutto armonico fatto si bene di parti distinte, ma che concorrono con l’ operar loro singulo a una operazione comune finale, qual’ è il vedere. A CAP. Delle parti onde son composti gli occhi delle Squille. Come in altri Artropodi, cosi nelle Squille gli occhi son composti di varie e diverse parti, le quali, quante elle siano, sì può apertamente ve- dere in alcuno degli occhi che sia insieme con buona parte del gambo tagliato per intero e di lungo sottilmente col microtomo o da mano esperta. (Tav. I fig. 1.*). E queste parti, a volerle ora nominatamente an- noverare, sono: 1) Il ganglio ottico insieme col nervo che ne nasce. 2) La retina. 8) I coni cristallini. 4) La materia colorata o pigmento. 5) La cornea con l’invoglio esterno dei due gambi che portano gli occhi. 6) I vasi e le piccole lacune sanguigne. Delle quali tutte parti noi diremo ordinatamente quel tanto che è neces- sario, e che ci é venuto fatto di conoscere per le nostre osservazioni. Cap. Il. Del ganglio ottico e del nervo che ne nasce. Il ganglio ottico delle Squille, siccome io avviso, sta in quel piccolo cumulo di celloline nervose, probabilmente bipolari, le quali, parte distese a guisa di linguette tra i fascetti di fibre del nervo ottico, sì osservano all’ estremo davanti del bulbo ottico (fig. 1.* 90). Col qual nome, per una certa analogia col bulbo olfattorio dei vertebrati, io chiamo ciò che il Bellonci (1) ha chiamato non dirittamente ganglio ottico; che, come si é detto, trovasi nell’ estremità anteriore di esso bulbo. Il quale (fig. 1.* 50), quando è tagliato convenientemente di lungo, appare come diviso e distinto in due porzioni, l’ una di dietro, e l’ altra davanti, differenti di grandezza e figura, e coperte in parte alla superficie di cellette nervose, e collegate per mezzo di fascetti di fibre nervee in un sol corpo, il quale per un cordoncino (1) G. Bellonci, Morfologia del sistema nervoso centrale della Squilla Mantis. Annali del Museo civico di Genova 1878. — 641 — o nastretto parimente nervoso si aggiunge col cervello, dentro la cui parte anteriore le fibre dell’ uno e l’ altro nastretto si scontrano e intersecano for- mandovi una specie di chiasma ottico interno. Ond’é che nelle Squille, a differenza di altri Artropodi con occhi sessili, il ganglio ottico dimora fuori del cervello, e poco distante dalla retina. E però ne viene che il nervo che nasce dal predetto ganglio, cioé il nervo ottico, ha di necessità ad essere poco lungo. Ed infatti negli occhi delle squille é ccrtissimo e spaso in guisa di ventaglio aperto (fig. 1*. no), con un’ orditura serrata di fascetti di fibre piatti che s’indirizzano in linea più o meno obliqua alla retina dove slargandosi vanno a formare quel suolo che delle fibre del nervo ‘ottico ha nome. CAPSENE Della retina. La retina delle Squille tiene tutto quello spazio ch’ è dal nervo ottico ai coni cristallini, dove sono allogati con succedevol ordine i diversi suoli ‘nd’ ella è composta : i quali, senza le due membrane che terminano e separano alcuni di essi suoli, sono al numero di quattro. E il primo di questi suoli, cominciando a nominarli dal di dietro all’ avanti, è il suolo delle fibre del nervo ottico. Il quale, nella retina tagliata sottilmente di lungo col microtomo, vedesi fatto di due parti, cioé di piccoli fasci tra- sversali di tessuto connettivo, e di fascettini di fibre del nervo ottico che passano diradati tra quelli (fig. 2.* sfo). A questo primo suolo segue l’ altro delle cellule nervose, le quali, dotate di un nucleo anzi che no grosso e tondo, si vedono quasi come incavernate in una particolare sostanza, o tessuto che sia, forse della medesima qualità di quello che intesse i pic- «coli fasci trasversali del precedente suolo (fig. 2.* sen). Ed é tale suolo delle cellule nervose terminato, a quel che pare in alcuni esemplari mi- «eroscopici, in -sul davanti da una sottile membranuzza tutta traforata (membrana terminativa posteriore della retina) per dare adito a quei fascetti ‘che vanno a costituire il seguente suolo, che io, in mancanza di nome più proprio, denomino suolo fascicolare. IL quale, come apertamente lo dice il nome, è fatto principalmente di piccoli fasci di fibre nervee che in- ‘sieme con dei canaletti sanguigni vengono fuori dal suolo delle cellule nervose. L'andamento dei fascetti che son dentro il suolo non è diritto, ma più e meno obliquo, e un pochetto ondato; e quando i fasceili son vicini alla membrana terminaliva anteriore (fig. 1.* mar), ciascun di loro «sì partisce in altri fascetti più piccoli, e sono essi quelli, che trapassata la detta membrana vanno a congiungersi coi bastoncelli visivi (fig. 1.* sf). E si avverta che delle membrane terminative degli occhi degli Artro- Serie V. — Tomo IV. 81 — 642 — podi questa, che io chiamo dal luogo che tiene membrana terminativa anteriore, è appunto quella ch’ é universalmente ammessa e chiamata leggiadramente col nome di membrana basale da coloro che hanno finora investigato e scritto dei predetti occhi. Ed ella, diversamente dalla mem- rana terminativa anteriore della retina degl’ insetti, ch’ é omogenea in vista, e verisimilmente di natura chitinica, e tutta traforata di minuti forel- lini, é negli occhi delle Squille evidentemente intessuta di una intreccia- tura svariata di fascetti di una particolar maniera di tessuto connettivo fibrillare, che lasciano un gran numero di piccole aperture a guisa di fessure, per le quali, come di sopra é detto, passano i fascettini ner- vosi più piccoli del suolo fascicolare, che hanno ad entrare in connes- sione coì bastoncelli visivi. I quali tutti insieme formano l’ ultimo e il più importante suolo della retina non che delle Squille, ma anche degli Artro- podì in genere. Anzi é a esso solo che quasi tutti i moderni osservatori hanno ristretto le loro osservazioni. Imperocché, al giudizio loro, ogni bastoncello, se si considera circondato com’èé naturalmente dalle proprie cellule pigmentarie, é una piccola retina; ma se per contra si considera insieme con il corrispondente cono cristallino e la corrispondente faccetta della cornea è un piccolo occhietto. Il color naturale dei bastoncelli, se si ha a dar fede al Leidig e a Mx Schultze, è rosso; e ciascun di loro, nudato ch’ é delle proprie cellule pigmentarie, appare configurato a pira- mide con la base alquanto ritonda, volta in avanti, e con l’ apice all’ in- dietro, che si assottiglia in un sottilissimo filamento (fig. 3.° e 4.* fb0), il quale probabilmente si congiunge con uno, o due di quei fascettini nervosi del suolo fascicolare che trapassano la membrana terminativa anteriore della retina. E tale piramide, ch’ é tutta intagliata all’ esterno di sottili intagli trasversali, vista in taglio perfettamente trasverso apparisce di figura quadrata, e divisa alle volte da due lineette che s’ incrociano nel mezzo in quattro parti uguali (fig. 6.* e 7.* 50). Donde è da inferire che il baston- cello visivo delle Squille è fatto di quattro piccoli pezzi quadrilunghi, e ciascuno di essi composto di lamelle sovrapposte e congiunte insieme per una particolare sostanza che, ove accade che si gonfi per l’ opera delle soluzioni lunghe di potassa caustica, discosta le lamelle l’ una dall’ altra (fig. 4.*) e sovente anche le disfigura. Alcuna altra volta poi al baston- cello visivo, discostate che gli si sono le proprie cellule pigmentarie, resta attaccata alla superficie una gran quantità di grani di color tanè più o meno scuro, i quali la dove sono radi, si vedono disposti parte in forma di striscette trasversali su le facce e parte in forma dei denti d’ una pic- cola sega ai canti, ed internati nella sostanza compositiva del baston- cello (fig. 5.* sgps, sgpd). Perché, e donde ciò, e che significhi, nol sa- prei dire. — 643 — Cap. IV. Dei coni cristallini. I coni cristallini delle Squille sono molto grandi rispetto alla grandezza degli occhi, che non é punto maggiore o di poco del seme dell’ Ulivo di Boemia, cui, come dissi nel principio di queste mie Osservazioni microsco- piche, somigliano nella figura. Ed essi sono situati in quello spazio ch’ é tra il suolo dei bastoncelli visivi e la cornea sfaccettata; ed ivi sono di- sposti per tal modo che ogni cono risponde con la sua base a una fac- cetta della cornea e col suo apice all’ estremità davanti di un bastoncello visivo (fig. 1.* er). La figura loro, come lo dichiara il nome imposto a essi dai moderni Naturalisti, é quella di un cono, il quale ha questo di nota- bile, che la sua base, in luogo di esser piana, com’ é d’ ordinario, si sol- leva in piccolo cono posto in mezzo tra due cellule figurate ancora esse a cono smussato (fig: 11% e 12*):MNe oltre atciò, “essa base'é coperta’ tutta intorno, salvo che in quella parte che s’ innalza a cono, di una sottile lamina di particolar sostanza, foggiata quasi a ghiera (fig. 12.* e 19.* /90dc), la quale si fa visibile e mostrabile in quei coni cristallini levati da occhi di Squilla che son dimorati per lungo tempo in soluzioni lunghissime di acido cromico, e poi ammezzati e messi per qualche giorno a discolorire e macerare in un mescolato di 20 parti di acido nitroso nitrico e di 100 di glicerina del Price, e poi che si sono lavati a più alcool, e lasciati colorare a una soluzione lunga di carminio del Beale, si osservano disgregati in glicerina col microscopio. Guardati i coni cristallini tagliati esattamente per trasverso, e abbastanza ingranditi dal microscopio, tutti appariscono senza eccezione composti di quattro pezzi, partiti e distinti da tre giunture lineari, le quali tutte insieme rendono similitudine all’ H romana (fig. 15.°). E di questi quattro pezzi i due del mezzo sono quadrangoli, e i due la- terali lunati. Quanto all’ interna tessitura, ciascun pezzo è composto di una tunica propria (fig. 16.* tp), non dissimile da quella che avvolge tutti ì quattro pezzi insieme, e di una particolar materia con dentrovi impian- tati minuti lapilletti che naturalmente hanno apparenza di grani (fig. 15.°). La quale materia, secondo il vario modo ch’ è condizionata, e secondo che viene osservata o poco o molto ingrandita dal microscopio, appare ora uniformemente granosa (fig. 15.*), e ora distintamente divisata in un intreccio o fitto reticolo di filuzzi tondi, pieno di apparenti grani nei nodi e dentro le maglie, e di una particolare sostanza che esse maglie riempie (fig. 14.* e 16.* rmc). E tale sostanza io l’ho osservata sensibil- mente diminuire o svanire quasi del tutto per opera dell’ alcool anidro e dell’ etere e dello xilolo, dove che il reticolo all’ incontro diviene più che — 644 — mai manifesto. In rispetto poi al filamento in cui s’ allunga 1’ apice del cono cristallino, esso senza dubbio risulta dall’ unione dei singoli fili che sì protendono dai quattro pezzi che quello compongono, e ognuno di essi ha la medesima tessitura interna del pezzo donde proviene (fig. 17°). La qual cosa viene provata con tutta evidenza per i tagli trasversi del fila- mento del cono, che allargasi, quando é vicino a connettersi con |’ estre- mita anteriore del bastoncello visivo (fig. 11.* e 18.* pafim). La quale con- nessione sì fa, com’io penso, non per immedesimazione di sostanza, ma. per attaccamento dei quattro fili all’ esterno del bastoncello visivo. E da ultimo, per non lasciar cosa alcuna che risguarda a’ predetti coni, bisogna ch’ io tocchi un poco di quei nuclei che gli scrittori moderni degli occhi dei crostacei, e specialmente il Parker (1), affermano trovarsi nell’ interno del cono cristallino. Quanto a me, quel che io possa dir di certo intorno la detta affermazione è, che di rado mi é avvenuto di veder nuclei dentro ai coni cristallini, si in quelli al postutto isolati e convenientemente colo- riti, come in quelli tagliati per lungo o di trasverso presso alla base. Ond’io sono indotto a credere che i nuclei si trovano solo in quei coni cristallini che non sono ancora pervenuti alla loro finale perfezione, e all’ incontro mancano in quelli che vi sono di già arrivati; o con altro dire, i nuclei, che sono il segno certo dell’ origine cellulare di ciascuno dei quattro pezzi, onde il cono cristallino é composto, si trovano in quei coni nei quali la trasformazione della cellula originaria ancora perdura, e mancano per contrario in quelli in cui la trasformazione è già finita. CAP. Vi Della materia colorata o pigmento. La materia colorata, o pigmento, come chiamasi comunemente oggidi dagli scrittori di cose naturali, negli occhi delle Squille trovasi principal- mente in due parti, cioé nel suolo dei bastoncelli visivi, dove abbonda, e in quella parte della retina che comprende il suolo delle fibre del nervo ottico, quello delle cellule nervose, e quello nervoso fascicolare; ma qui non é mai in tale quantità che gli possa essere applicato con ragione il nome di coroide, come ha fatto il Bellonci (2). E tale pigmento con- siste in cellule di color bruno o tané scuro, di diverse grandezze e figure, e più e meno ramose, e tra esse vogliono maggior considerazione, e me- {1) G. H. Parker, The compound Eyes in Crustaceans PI]. VIII. Bulletin of the Museum of Comparative Zoology. Vol. XXI. N.° 2. Cambridge, U. S. A. 1891. (2) G. Bellonci. Lav. cit. Tav. X. fig. 1.° e. — soda ritano di essere particolarmente descritte quelle che stanno altorno a cia- scun bastoncello visivo. Le quali cellule sono in numero di sette, ed hanno ciascuna l’ estremità loro di dietro foggiata a piede che posa sopra. la membrana terminativa anteriore (fig. 10.* e 21.* pcpb), e il nucleo situato presso all’ estremità davanti; e la cosa veramente singolare é che subito sopra il nucleo la sostanza della cellula si mostra visibilmente reticolata (fig. 4.° e 11.* prp) e si prolunga in su ramificandosi in parecchi rami nodosi e ricchi di pigmento nero, i quali insieme con quelli che vengono dalle cellule pigmentarie di tutti i bastoncelli visivi formano quella parti- colare zona nera che termina in avanti il suolo dei detti bastoncelli (fig. 1.° e 21.° spta). E si avverta che quando tutte le sette cellule sono tagliate di trasverso insieme col bastoncello in quella parte dove sta situato il loro nucleo, elleno in sezione appariscono ciascuna col proprio nucleo dentro, salvo che una, che è un poco più grande, e non l’ha (fig. 9.°). Ma oltre alle dette cellule che son proprie dei bastoncelli visivi, ve n’ é di molte altre che con le loro prolungazioni ramose corrono lo spazio che è tra bastoncello e bastoncello, e accompagnano quei vasellini san- guigni che ivi si distribuiscono. CAP. VI. Della cornea e dell’ invoglia o tunica esterna dei due gambi che portano gli occhi. Negli occhi delle Squille la cornea è arcuata e si ampia che gli cuopre in tutta la loro ampiezza fin dove la si vede continuare all’ esterna invo- glia dei due gambi sopra cui quelli stanno fermamente situati (fig. 1.* co). Ha un colore proprio, ch’ è un certo lustro iridato, che le viene per effetto di sbattimenti di luce dalla parte superficiale davanti, la quale, si- milmente che quella della cornea di alcune generazioni di tafani, è fatta di sottilissime laminette perpendicolari. È scompartita in faccette le quali sono esagone e congiunte tra loro per una particolare sostanza molliccia e finissimamente granosa che distingue l’ una faccetta dall’ altra. Ciascuna faccetta é alquanto curva dalla banda davanti e piana dall’ altra di dietro (fig. 13.°); sebbene nei tagli verticali della cornea accade non di rado vederne alcune curve o piane da ambedue le bande (fig. 21.*. Il che, al creder mio, proviene o dal luogo dove si fa il taglio o dal modo com’ egli sì fa. In ogni faccetta sono, quanto a struttura, da distinguere due parti, l’una esterna a guisa di sottile lamina, la quale, secondo come la cornea è stata condizionata dalle materie chimiche che si sono adoperate, mostrasi ora tingibile per i colori oggidi in uso, ed alcuna. volta anche disgiunta dalla parte interna, ed ora no; l’ altra interna, grossa e strettamente lami- — 646 — nosa, la quale sì lascia colorare agevolmente alle diverse materie coleranti, come il paracarminio e il carmallume del Mayer ecc. (fig. 13.* pefe,. pife). Dove finisce la cornea, là comincia l’ invoglia o tunica esterna del gambo che porta l’ occhio. E tale invoglia, medesimamente che la cornea, & fatta di due parti, le quali comeché pajano continuarsi immediatamente con le due parti corrispondenti della cornea, tuttavia la parte interna dell’ esterna invoglia del gambo, oltre all’ essere manifestamente laminosa, dà a vedere ciascuna lamina circondata spiralmente in tutta la sua lunghezza da un sottile filamento elastico (fig. 22.*). Di dentro poi questa invoglia & sop- pannata di un solo ordine di minute celloline cilindriche le quali sono come mezzo di attaccatura delle fibre di uno de’ capi di quei muscoletti che muovono il predetto gambo. Ma oltre a questa invoglia o tunica esterna ‘che è di natura chitinica, ve n° é un’ altra di tessuto connettivo che euopre «e Veste tutto ciò che è contenuto dentro il gambo, (fig. 1.*), e cireoscrive «con alcune delle sue lamine quelle piccole lacune sanguigne che: sì osser- vano tra le dette due invoglie. CAP UVII Dei vasi e delle piccole lacune sanguigne. I vasi sanguigni degli occhi delle Squille io mi scno fatto ad osser- varli nel loro corso e nelle loro diramazioni, dopo averli resi visibili per mezzo dell’ azzurro di Prussia solubile cacciato dentro il loro cuore mediante un piccolo schizzetto. Ed essi, com’è risaputo, son forniti dal- l'arteria ottalmica, la quale si addentra in ciascun occhio per la via del proprio gambo. E tra i rami in cui ella si risolve, i primi son quelli che si distribuiscono per lo nastro e bulbo ottico, e poi gli altri che vanno al nervo ottico e alla retina, nella quale se ne veggono non pochi distribuiti particolarmente al suolo delle cellule nervose, e donde passano insieme coi fascetti nervosi nel suolo fascicolare; e da questo, trapassando la membrana terminativa anteriore, al suolo dei bastoncelli visivi. Alla parte inferiore del quale se ne veggono parecchi tra grandi e piccoli cor- rere tra un bastoncello e l’ altro; e di essi quelli che, siccome io penso, meritano per la loro importanza più considerazione sono quei vasellini sanguigni che si indirizzano in su costeggiando i coni cristallini fin sotto alla cornea (fig. 11.* vs). Dove pervenuti che sono, formano delle maglie esagone alla base de’ coni cristallini (fig. 20.* vs, fco) e tra una faccetta della cornea e l’ altra, dalle quali si spiccano ramuscoli che s° intrecciano a rete subito sotto a ciascuna di esse faccette, (fig. 20.* rs) e in corri- spondenza alla base dei coni cristallini. Ma oltre ai vasi sanguigni dei — 647 — quali si é parlato, io negli occhi delle Squille ho ancora osservato delle. lacunette sanguigne lunghesso la retina e il bulbo ottico (fig. 1.* /s), le quali mostrano chiaramente come anche nei crostacei superiori il circolo del sangue non aggiunge mai a quel grado di perfezione che vedesi negli animali con vertebre. CAP. VIII. Conchiusione. Essendo oramai alla fine di queste mie Osservazioni microscopiche per- venuto, dico, conchiudendo, che intorno alla struttura interna degli occhi delle Squille, per quanto mi è venuto a notizia, pochi hanno scritto, e di questi pochi alcuni si son contentati di figurare l’ occhio tutto intero tagliato di lungo insieme con parte del suo gambo, e alcuni di toccarne una qualche particolarità di struttura, di più o meno importanza. E tra i primi sono da numerare il Bellonci (1) e l’Exner (2)i quali nelle loro figure altro non ci han dato che una povera abbozzatura dell’ occhio della Squilla Mantis: tra i secondi il Will (3) che osservò e scrisse le faccette della cornea della Squilla Mantis essere esagone; lo Steinlin (4) i coni cristallini essere composti di quattro segmenti; il Grenacher (5) il rab- doma (bastoncello visivo) visto in taglio trasverso apparire di figura qua- drata, e diviso in quattro parti uguali, e le cellule retiniche (cellule pigmen- tarie del bastoncello) esser sette, e in ciò con lui si accordano l'Hickson, il Carriere ed altri che non nomino. E qui non voglio lasciare senza menzione il Parker, il quale, se non erro, è il solo tra i moderni che sì sia occupato di proposito degli occhi dei Crostacei, investigandoli in ben due Ordini e sette sottordini, cioé Amfipodi, Fillopodi, Copepodi, Iso- podi, Leptostrachi, Cumacee, Schizopodi, Stomapodi, e Decapodi. E se egli; seguendo.le dottrine; del.Ray Lankester.e del Grenacher, non avesse ristretto a una parte dei loro occhi le sue osservazioni, certo ci avrebbe dato un lavoro molto migliore di quello che già vedesi pubblicato per le stampe. Quanto è a me, io mi sono studiosamente guardato nelle (1) G. Bellonci, Lav. cit. Tav. X. fig. I. (2) S. Exner, Die Phystologie der facettirten Augen von Krebsen und Insecten p. 128. Taf. III fig. 22. Leipzig 1891. (3) F. Will, Be:trdge zur Anatomie der zusammengesetzen Augen mit facettirter Hornhaut 32 pp, 1 Taf. Leipzig 1840. (4) W. Steinlin, Ueber Zapfen und Stibchen der Retina. Arch. f. mikr. anat. Bd. IV p. 10, Taf. II. 1868. (5) H. Grenacher, Untersuchungen ueber das Sehorgan der Arthropoden, insbesondere der Spinnen, Insecten, und Crustaceen, p. 123 Taf. XI. Gottingen 1879. — 648 — presenti mie Osservazioni microscopiche da cotali dottrine, che veggo con dolore seguitate dagli odierni Naturalisti, e mi é paruto bene di ordinare e disporre per capitoli la materia che era da trattare, quasi come feci nei miei tre Libri sopra la minuta fabbrica degli occhi dei Ditteri, i quali insieme colle dodici tavole illustrative vennero sommamente commendati e lodati da quel grande scienziato e dotto naturalista tedesco, ch’ è Fran- cesco Leydig, il quale mi ebbe a scrivere in proposito le due infra- scritte lettere, che io qui testualmente riporto: « Bonn 12 Decemb. 1884. « Hochgeehrter Herr Collega! « Ihr Werk ùber den feineren Bau des Auges der Dipteren, welches Sie mir gùtigst sandten habe ich richtig erhalten. « Indem ich mich beehre dies hiermit anzuzeigen, statte ich zugleich den verbindlichsten Dank ab. « In diese zwòlf Tafeln ist viel Arbeit niedergelegt; sie geben Zeugniss von scharfer Beobachtungsgabe, grossem technischem Geschick und Aus- dauer. Das Werk bleit bein interessanter Denkmal histologischer Forschung. « Gewuùnscht hatte ich nur, dass Sie den Text nicht auf die Tafelerklà- rung beschrànkt hàtten. « Man bleibt so uber manche Fragen in Zweifel, welche eigentlich Ihre Ansicht ist. Mége es Ihnen vielleicht gefallen noch nachtràiglich Ihre Auf- fassungen ùber gewisse Grundfragen irgendwo veròffentlichen zu wollen. « Zugleich mit gegenwàartigen Zeiten habe ich eine im vorigen Jahr erschienene Schrift an Ihre Adresse abgehen iassen und bitte um denen freundliche Entgegennahme. « In ausgezeichneter Hochachtung « ergebenst « F. LEYDIG. » — 649 — « Bonn 23 December 1885. « Hochverehrter Herr Collega! « Ein werthvolleres und erwiinschteres Weihnachtsgeschenk héitte mir nicht bescheert werden kònnen als das gestern erhaltene Werk, begleitet von den freundlichen Zeilen und der pràchtigen Photographie. « Empfangen Sie meinen verehrungsvollen und herzlichen Dank! « Die Photographie betrachte ich mit grossem Interesse, da sie das Bild eines Fachgenossen gibt welcher unùbertroffen in der Genauigkeit, Grund- lichkeit und Schàrfe seiner Forschungen dasteht und dessen Schriften in der Anordnung des Stoffes und im Stil ebensoviel Sinn fùr Schònheit wie fùr kritische Darlegung Kund geben. Sie sind eben, verehrter Herr Collega, ein echter Sohn des Landes, in welchem Kunst und Wissenschaft ein altes Erbtheil sind! « Ihre Schrift liber das Auge der Dipteren ist zum Mittelpunct und Muster fiir alle diejenigen geworden, welche sich von jetzt an mit dem Sehorgan der Arthropoden beschàftigen werden. « Die Ehre, welche Sie mir erweisen, indem Sie, dem Werke meinen Namen vorsetzen, muss ich hoch ausschlagen, indem ich mir wohl bewusst bin, dass der Antheil, welchen ich an der Ausbildung der Histologie viel- leicht habe, ein geringer ist und keinesfalls den Ruhmestitel verdient, den Sie mir beizulegen das Wohlwollen und die Héflichkeit haben. « Genehmigen Sie, verehrter Herr Collega, den Ausdruck gròsster Ho- chachtung und Dankbarkeit von « Ihrem ergebensten « F. LEYDIG. » Ma contuttociò (sia detto incidentemente) non trovarono quel favore che io mì sperava appresso quella oculata e dotta e competente Commis- sione dell’Accademia dei Lincei che avea ad aggiudicare il premio del re Umberto, massimamente perché uno di quei commissari, che passava di sapere gli altri, con l’ opera del Grenacher in mano, si sbracciò a mostrare come nei predetti miei tre libri. e nelle 174 figure delle 12 tavole Serie V. — Tomo IV. 82 — 650 — illustrative non eravi cosa che meritasse di esser presa da loro in consi- derazione, e che non si trovasse più o meno accennata o detta o figurata dal Grenacher. Il che mi muove di necessità a credere che né quel tale Commissario, né gli altri della Commissione si fossero data la pena di leggere almeno l’ introduzione della soprammentovata mia opera, dove io urbanamente impugno i pensamenti messi avanti dat Grenacher circa l’ interna composizione degli occhi degli Artropodi. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE La significazione delle lettere comuni a tutte le figure delle Tavole è come si bo bo cg0 co cpb Cr csbe fov fco Mick fn 90 9gpo Igbe dice di sotto: — Bulbo ottico. — Bastoncello o bastoncelli visivi. — Cellule cilindriche corte che soppannano al di dentro il gambo dell’ occhio. — Cornea. — Cellule pigmentarie del bastoncello visivo. — Cono o coni cristallini. — Cellule a cono smussato infra le quali giace quel piccolo cono in cui s’ innalza la base del cono cristallino. Tali cel- lule, che io credo essere di qualità pigmentaria, dal Par- ker sono denominate cellule dell’ ipoderma corneale, e da altri cellule del Semper. — Filamento in cui s’ assottiglia il bastoncello visivo all’ estremità sua di dietro. — Faccetta o faccette della cornea. — Filamento in cui si prolunga l’ apice del cono cristallino. — Fascetto o fascetti nervosi. — Ganglio ottico. — Gambo su cui sta fermo l’ occhio. — Laminetta di particolar sostanza che cuopre e veste a modo di ghiera il dintorno e parte della base del cono cristallino. s59ps te tp DS «pia — 651 — Lacunette sanguigne. Muscoletti che muovono il gambo dell’ occhio. Membrana terminativa anteriore della retina. Nervo ottico. Parte del filamento del cono cristallino che si allarga per adattarsi all’ estremità davanti del bastoncello visivo. Piede delle cellule pigmentarie del bastoncello visivo col quale si posano e attaccano alla membrana terminativa anteriore della retina. Parte esterna della faccetta corneale che apparisce come sot- tile lamina, e dalla cui particolar struttura viene quel lustro iridato che mostrano gli occhi delle Squille. Parte interna di essa faccetta la quale è serratamente laminosa. Parte reticolata delle cellule pigmentarie del bastoncello visivo. Retina. Reticolo della materia compositiva del cono cristallino. Reticolo sanguigno. Suolo dei bastoncelli visivi. Suolo delle cellule nervose. Suolo fascicolare. Suolo o parte esterna del gambo dell’ occhio. Suolo o parte interna del medesimo. Sostanza granosa che alcuna volta vedesi tramezza ai conì cristallini. | Sostanza granosa di pigmento che si vede adunata ai lati del bastoncello visivo, e probabilmente proviene da disfacimento delle sue cellule pigmentarie. Sostanza granosa di pigmento a guisa dei denti di una piccola sega che son situati ai canti del bastoncello visivo e si ad- dentrano nella sostanza compositiva di esso. Sostanza granosa di pigmento disposta in forma di striscioline sopra le facce del bastoncello visivo. Tunica comune del cono cristallino. Tunica propria di ciascuno dei quattro pezzi che compongono il cono cristallino. Vasi sanguigni. Zona fortemente pigmentata che termina al davanti il suolo dei bastoncelli visivi. ia = AVVERTIMENTO Tutte le figure che sono nelle Tavole furono ritratte con 1’ aiuto della grande camera chiara dell’ Abbe da esemplari microscopici di occhi di Squilla Mantis diversamente condizionati secondo il bisogno. Dei quali esemplari alcuni furono trattati con le soluzioni osmio-picriche e con l’ alcool; alcuni con la soluzione di acido cromico all’ 1 per 10,000 o col liquido del Flemming; alcuni secondo la maniera del Golgi, ovvero discoloriti e macerati nella mischianza di acido nitroso-nitrico e glicerina in ragione di 20 parti di quello e 100 di questa. E tutti vennero appresso apparecchiati in guisa da poter essere all’ uopo inclusi o nella soluzione ispessata di gomma arabica o nel mischiato di olio, cera, e burro di cacao, o nella parafina, e quindi tagliati a mano o col microtomo, e poi messi in serie sul vetro porta-oggetti e colorati coll’ uno o l’ altro dei vari colori dall’ anilina, o col paracarminio e il carmallume del Mayer, e da ultimo chiusi e servati nel balsamo del Canada. Fig. 1.* — Occhio tagliato di lungo con parte del suo gambo. Vi si vedono tutte le diverse parti ond’ egli è composto. Koristka i Canna del microscopio niente allungata X 25. Fig. 2.* — Una parte della retina dello stesso occhio, cioè il suolo delle fibre del nervo ottico e quello delle cellule nervose, visti a un ingrandi- mento molto maggiore. Zeiss — Canna del microscopio niente allungata X 460. Fig. 3.* — Tre bastoncelli visivi del tutto isolati, con l’ attaccatura del filamento del cono cristallino, (che in tal luogo è proporzionatamente allar- gato) all’ estremità loro dinanti; dei quali bastoncelli due son visti di lato e uno di canto. Hartnack S Canna del microscopio niente allungata X_ 230. Fig. 4.* — Altri due bastoncelli visivi, ciascuno con due cellule di — 653 — pigmento ai lati. In uno le laminette onde il bastoncello componesi, per essersi scostate l’ una dall’ altra, son divenute più manifeste. E oltre a ciò, le due cellule di pigmento mostrano che l’ estremità loro davanti si pro- lunga in su ramificandosi e avvolgendo l’ attaccatura del filamento allar- gato del cono cristallino col bastoncello visivo. Hartnack - Canna del microscopio niente allungata X 230. Fig. 5.* Buona parte di un bastoncello visivo, le cui cellule di pigmento si sono risolute in una massa di grani di color tané, i quali parte in forma di striscioline cuoprono le facce, e parte in forma dei denti di una piccola sega tengono i canti del bastoncello, internandosi nella sostanza sua composiliva. 3 Koristka Ha imm. omog. Canna del microscopio niente allungata X 660. 2 i Fig. 6.° — Quattro bastoncelli visivi insieme con le proprie cellule pigmentarie tagliati di trasverso. Hartnack - Canna del microscopio niente allungata X 230. Fig. 7.* — Altri quattro bastoncelli visivi tagliati per trasverso quasi a meta di lor lunghezza insieme con le sette cellule onde ciascun baston- cello è circondato. Il taglio trasverso di due bastoncelli apparisce partito per due linee divisorie che s’ intersecano nel mezzo in quattro parti uguali; l’altro degli altri due non mostra alcun segno di divisione. Di più le sette cellule pigmentarie di ciascun bastoncello appariscono soltanto colorate verso l’ esterno. Koristka - Canna del microscopio niente allungata X 310. Fig. 8.* — Altri quattro consimili bastoncelli visivi tagliati di trasverso nel sottile filamento in cui posteriormente si assottiglia ciascun di essi. Hartnak - Canna del microscopio niente allungata X_ 230. Fig. 9.* — Altri sei bastoncelli visivi insieme con le loro cellule di pigmento tagliati alquanto obliquamente di trasverso. E qui quello ch’ è da notare si é che dentro la sostanza compositiva del bastoncello si ve- dono certe minute particelle regolarmente disposte, le quali per proprietà ottiche si differiscono dal resto della sostanza; e oltre a questo, una delle — 654 — sette cellule pigmentarie di ciascun bastoncello apparisce più grande delle altre e senza nucleo. Hartnack z Canna del microscopio niente allungata X 230. Fig. 10.* — Taglio dell’ occhio rasente la membrana terminativa ante- riore della retina, per lo quale si vede il modo come sopra essa si fermano con l’ estremità loro di dietro foggiata a piede le cellule pigmentarie dei bastoncelli visivi. Hartnack = Canna del microscopio niente allungata X 130. Fig. 11.* — Bastoncello visivo insieme con sole due delle sette cellule pigmentarie che gli son proprie e con il corrispondente cono cristallino, che col suo filamento proporzionatamente allargato sì attacca all’ estremità davanti di esso bastoncello; vedesi ancora il vasellino sanguigno che ve- nuto fuori della membrana terminativa anteriore della retina si reca in su costeggiando il cono predetto. Koristka - Canna del microscopio niente allungata X_ 270. Fig. 12.* — Cono cristallino tutto isolato, il quale mostra la tunica sua comune insieme con la particolar lamina che quasi a modo di ghiera ne veste e cuopre la base. Hartnack - Canna del microscopio niente allungata X 250. Fig. 13.* — Altro cono cristallino visto in tutta la sua interezza con la corrispondente faccetta della cornea. Koristka - Canna del microscopio niente allungata X_ 270. Fig. 14.* — Parte di uno dei quattro pezzi che compongono il cono cristallino tagliato di lungo. Vi si scorge manifestissimo l’ intrecciamento delle numerose fibre che entrano nella composizione di esso. x 4°, : Ì è Zeiss Apocr. T5 imm. omog. Canna del microscopio convenientemente 2? allungata X 666. Lig. 15.* — Taglio trasverso di sei coni cristallini insieme con la ma- teria sottilmente granosa, che talvolta vi si vede tramezza ad essi, e coi piccoli vasi sanguigni che costeggiano essi coni. E vedesi, oltre a ciò, — 659 — come ciascun cono é fatto di quattro pezzi uniti insieme, e la forma di ognuno di essi, e come le loro giunture lineari tutte insieme fanno simili- tudine all’ )-( romana. Hartnack - Canna del microscopio niente allungata x 270. Fig. 16.* — Altro taglio trasverso di un altro cono cristallino, dov? è manifestissimo il reticolo di quella materia onde i coni cristallini sono composti. 3 Koristka n imm. omog. Canna del microscopio niente allungata X 660. 12 Fig. 17.* — Taglio trasverso del filamento di un cono cristallino per lo quale vedesi come esso é formato dall’ unione dei filamenti di ciascuno dei quattro pezzi onde il cono è composto, e come sopra esso filamento manca la tunica comune del cono. 3 Koristka 1 imm. omog. Canna del microscopio niente allungata X 660. 9 _ Fig. 18.* — Altro taglio trasverso di quella parte del filamento del cono, che ingrossa, quando è vicina a congiungersi con l’ estremità da- vanti del bastoncello visivo, e vedesi ancora come la detta parte é circon- data dalla porzione reticolata delle cellule pigmentarie del bastoncello VIsivo. Koristka - Canna del microscopio niente allungata X 400. Fig. 19.* — Base di un cono cristallino vista di faccia. Vi sì scorge in che modo sopra essa si dispone quella sottile lamina di particolar so- stanza che la cuopre, salvo che nella parte sua di mezzo, ch’èé appunto quella che si solleva in forma di piccolo cono, il cui apice tocca il mezzo della corrispondente faccetta della cornea. Hartnack z Canna del microscopio niente allungata X_ 270. Fig. 20.* — Due tagli trasversi della parte superficiale dell’ occhio, nell’ uno dei quali segnato con la lettera a si vede come la base dei coni cristallini é tutta all’ intorno circondata da vasellini sanguigni; nell’ altro poi segnato con la lettera 5 si vede come subito sotto alle faccette della cornea ci è un sottile reticolo del pari sanguigno, il quale probabilmente — 656 — proviene da ramuscoli che sì spiccano da quei vasellini che sono attorno alla base dei coni cristallini. Zeiss Apocr. = mm. Canna del microscopio convenientemente allun- ? gata X 202. Fig. 21.* — Tre ommatidi ovvero occhietti visti in tutta la loro in- tegrità. Hartnack i Canna del microscopio niente allungata X 80. Fig. 22.* — Sottile taglio verticale della cornea là appunto dove ella si continua all’ esterna tunica del gambo dell’ occhio. Hartnack > Canna del microscopio niente allungata X 310 c Mem.SerV. Tom. IV. Giaccio = Tav] Fig. 2. X460, Fig. 9. x.280. atta P Lit. 6.Wenk e Figli-Bologna. Pio.P? Gregori dis.dalvero ed in pietra ea î FINALI vitali Mem. Ser.V. Tom.IV. Giaccio — Tav IL. Fig.19. x 270. Fig. 12. x 280. Fig.16. x.650. Fig.15.x 230. foo.--- Mi ce dubai < Lit.G.Wenk e Figli- Bologna, Pio P®Gregori dis.dal vero ed in pietra. ig 99 SULLE ONDE ELETTROMAGNETICHE GENERATE DA DUR PICCOLE OSCILLAZIONI ELETTRICHE ORTOGONALI OPPURE PER MEZZO DI UNA ROTAZIONE UNIFORME INTE ENVIORES EEA DEL PROF. AUGUSTO RIGHI (Letta nella Sessione Ordinaria dell’ 11 Novembre 1894). I. È noto come Hertz sia giunto a stabilire una teoria approssimata del suo oscillatore, trovando una soluzione delle sue formole generali, la quale fa conoscere le onde elettromagnetiche generate da una piccola vibrazione elettrica rettilinea (1). Il metodo di cui egli ha fatto uso può essere esteso ed utilizzato per altre ricerche, e particolarmente può condurre alla rappre- sentazione analitica delle onde generate da più vibrazioni elettriche retti- linee, di periodi eguali o differenti. Siccome il caso di due piccole oscillazioni rettilinee ortogonali fra loro, di egual periodo, di egual ampiezza, e con differenza di fase di un quarto di periodo, mi ha sembrato presentare un certo interesse, cosi stabilirò in questo scritto le relative formole, e mostrerò le principali proprietà delle onde elettromagnetiche che sono generate dalle due vibrazioni. II. Prenderò le equazioni fondamentali di Hertz sotto la forma seguente: EVA dX_dM dN TICA CANE Ma e cioè supporrò e=1, u=1, per cui A sarà l’inversa della velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche. Basterebbe cambiare in queste due equazioni, e nelle altre quattro analoghe, ordinatamente X, Y, Z, (1) Die Krdfte elektrischer Schwingungen, behandelt nach der Maxwell’sehen Theorie. Wied. Ann. t. 36, p. 1, 1888. — Untersuchungen ueber die Ausbreitung der elektrisehen Kraft, p. 147. Serie V. — Tomo IV. 83 — 658 — L, M, N, A, in Xe, Ye, VAVA Ly u, MV/u, N/u, AV eV u, perché assumessero la forma ordinaria. Come è facile constatare, si soddisfa alle equazioni precedenti ponendo: IAA deal: Nragde® MR dg ? d°II d°TI L= Aggde M=- Agg N30 purché la funzione di «, y, #, #, indicata con II, soddisfi alla condizione : d°1I Se per II si prende la funzione seguente: = i senf2an(t — Ar)], la quale soddisfa, come è facile verificare, alla condizione precedente, ed in cui si è posto r=y/a°+ + #°, mentre E ed / sono due costanti, di cui si vedrà più oltre il significato, si trova, per le componenti delle forze elettrica e magnetica, che contrassegneremo coll’indice ,: > 207° (sen@— 2. così — = send)cs, {1] Li 3 (seno — È. così — s sen0)ye, SOEImI D+ yy 2 senò \ z="5-(- (e + Y) send + I (6050 + TA )), 2 Ie & (seno — sost y 3 mr 9 2 Le] | M=t5 (- song +5) a, MP \ N01 Per brevità si é in queste formole scritto 0 in posto di 2axn(f— Ar), ed m in luogo di 2anA4 (6). (a) Più generalmente, se 1I,, II,, II, sono tre funzioni di «, 7, #, #, tali che ciascuna soddisfi alla “ condizione ne EB pi lsvalorit= s(D- dn) P7(D — Te) L= Ata) e di? 3 TITTI da dy\ dy CITTA CI US, quelli analoghi di Y, Z, M, N, che si deducono da questi per mezzo di permutazioni circolari, sod- disfano alle equazioni fondamentali. (6) Come si vede n” ha qui un significato diverso da quello che ha la stessa lettera nella Me- moria di Hertz. Quanto ad m, questa quantità ha quì il segno contrario a quello che ha nella «detta Memoria. Mi sono permesso questi cambiamenti onde dare alla funzione trigonometrica la forma che generalmente gli si dà nell’ Ottica. — 659 — Hertz, nel lavoro citato, presenta le sei componenti sotto altra forma, facendo intervenire certe funzioni P, Q; ma per lo scopo attuale le equa- zioni [1] e [2] sono preferibili. Per indagare quale sia il fenomeno elettromagnetico che deve esistere nell’ origine O delle coordinate, onde abbia luogo la distribuzione di forze, nello spazio e nel tempo, definita dalle equazioni [1] e [2], Hertz esa-. mina quali valori hanno le sei componenti nella vicinanza del punto O, e trova che esse non sono altro che le componenti delle forze prodotte da una piccola oscillazione elettrica esistente in O e diretta secondo l’ asse delle #. Ecco come. Si supponga r piccolo di fronte a i-t cioè Anr trascurabile. Allora II si riduce a È son(2rn0), ossia a — send, ponendo 0,=2ant. Calcolando allora di nuovo le sei componenti, si giunge al risul- tato seguente, che del resto è quello che si ottiene tenendo conto solo dei termini che nelle [1] e [2] hanno al denominatore le più alte potenze di r:. Elm El Xx, = — 53% send, , L=-%G ycosì,, El bla = 78 ‘948 Sen 8, [4] Mi= —- ‘20050, , | z= Ee+y_-25)sené N,=0 \ 13 ro Lina er ) sen DO \ e 000 EI ; i Ponendo ora $@, = — BE sen0,, è facile verificare che si ha: ES dp, = dp, = dp, deg n gg A da Ma @, non è altro che il potenziale prodotto nel punto (292) da una ca- rica — Esen0, posta sull’asse delle # alla distanza - dall’origine, e da i l pa una carica +Esen0,, posta sullo stesso asse alla distanza ol purchè si supponga / piccolo di fronte ad r. Infatti quel potenziale ha per espressione: N Ve+g+e L: e diventa $, quando si suppone / piccolo di fronte ad r. Si vede così intanto che la forza elettrica in prossimità di O è quella» che può essere prodotta da due cariche oscillanti # E sen(27n?), costituenti: un doppio punto elettrico di momento E/sen(2rnf). Le due capacità estre-- me di un piccolo oscillatore rettilineo si comporteranno sensibilmente in: questa maniera. — 660 — D’altra parte le [4] rappresentano la forza magnetica dovuta alla cor- rente alternativa, che lungo la retta / accompagna le variazioni delle cariche del doppio punto elettrico. Infatti, supponendosi / assai pic- cola, la forza magnetica dovuta alla detta corrente, la cui intensità é ASES000) — Em cos0,, ha per espressione, secondo la legge di La- place: sm 009, 1 EenA. dicendo @ l’angolo di r con Oz. Di più essa è perpendicolare al piano passante per Oz e pel punto (xyz), e perciò fa coi rseno’ rseno’ le sue tre componenti si trovano precisamente i valori [4]. Dunque la corrente oscillante che percorre il conduttore rettilineo del pic- eolo oscillatore, produce appunto la forza magnetica di componenti L;, M, N Fu in tal modo messo in evidenza da Hertz, che le equazioni [1] e [2] definiscono l’effetto dovuto ad un piccolo oscillatore; o ad una piccola oscillazione elettrica, esistente in O, diretta secondo l’asse delle #, e di tre assi degli angoli i cui coseni sono: 0. Calcolando ; Ji periodo n III. Si prenda ora, analogamente, una funzione Il' tale, che si abbia aan e si ponga: x=- IT y= TH __ dl RARE CADE a da dp midg ® + gn va Taddei d°II' Il L= AT M=0, N= ATdi Si verificherà agevolmente che con questi valori le equazioni fondamentali ai DI) i sono soddisfatte. In particolare, si ponga II = così, e si avranno le seguenti componenti, che si distingueranno coll’indice 3: D Elm° 3 3 X,=G (cos0+ pe seno — ER così)ay, Elm° C-2Y+ così [5] | = 3 (- (e° + 2°) così — TSI TE (song — PO), Elm' 3 3 ea (così += sen@ — a così)ys : [ 2 \ L,=— ni (coso + a, 5 [6] ( ME05 Î N 257 (co 0 seno) — 661 — Con un ragionamento analogo a quello fatto da Hertz, e riferito nel ‘precedente paragrafo, si dimostrerebbe, che queste equazioni danno l’effetto «di una piccola oscillazione elettrica situata in O e diretta secondo l’asse delle y, con periodo ke La fase di questa oscillazione differisce di un quarto di periodo, dalla fase della oscillazione diretta secondo l’asse Oz, ‘e che produce le forze [1] e [2]. Siccome tanto le [1] e [2], quanto le [5] e [6], sono soluzioni partico- lari delle equazioni fondamentali, é chiaro che si otterrà una nuova so- luzione ponendo X=X,+X,,...L=L+L,..., e che il sistema di equa- zioni ottenuto in tal maniera darà l’effetto prodotto dalle due oscillazioni elettriche, ortogonali fra di loro, di egual periodo, di egual ampiezza, e di fase differente per un quarto di periodo, considerate separatamente dianzi. Ecco queste formole: MOLE Um 3, 3 PIT LAI IZ 3 ;sen0( a Ca) + così(y ®: mer mr mp II —- ra wet: [8] E. 0+S% 3, 2 gen c0s0)r, IV. Prima di mostrare le principali proprietà che in sé racchiudono queste equazioni, facciamo vedere come le equazioni [1] e [2], come pure le [5] € [6], e le [7] e [8], possono ricevere altre interpretazioni, qualora si ammetta che una carica elettrica in moto produca delle forze magnetiche nel dielettrico circostante, quali si deducono dalla teoria di Maxwell, € precisamente che una carica e che si muove colla velocità v, pro- duca in un punto del dielettrico posto alla distanza r una forza ma- — 662 — gnetica AE Sr (a), essendo @ l’ angolo compreso fra v ed r, diretta perpendicolarmente al piano formato da v con r (1). S’ immagini una carica — E posta sull’ asse delle # alla distanza 5 senò, da O, ed una carica + E posta sul medesimo asse ed alla distan- l . . . . . . i za — 5 Seno, dall’origine. Le due cariche, eguali e contrarie, oscilleranno dunque con moto pendolare ed in direzioni sempre contrarie. Il potenziale da esse prodotto nel punto (xy), posto ad una distanza r da O che si supporrà piccola di fronte ad An, potrà esprimersi con : 1 pai e Py Corre torso Vega Questa espressione diviene eguale a $, quando si suppone 4 piccolo. Dun- que le forze [3] possono considerarsi come dovute al doppio punto elet- trico vibrante meccanicamente. D'altra parte, la carica —E, che all’istante 7 dista È send, dall’origine, 2 i 3 3 j d/l ml % possiede in questo istante la velocità A send) =37 così, e perciò pro- duce nel punto (242) la forza magnetica FENDI POUPCOSt, PESI 3." ep dicendo r, la distanza fra la carica mobile ed il punto (242), edo, l’angolo di r, con Oz. Similmente, la carica E, che all’istante 7 trovasi alla distanza — j sen0, da O, possiede la velocità Ti cos0,, e produce in (242) la SI dicendo r, la retta che va dalla carica mobile al punto (242), ed o, l’angolo di 7, con Oz. Le due forze fi, S,» essendo entrambe perpendicolari al piano passante pel punto (ag) e per l’asse delle #, danno un’unica forza ff, +4, la quale fa coi tre assi degli angoli i cui coseni sono: TECA N 0Siccomenpoigs gna: 2 2 Vo +gy Vao+< 2 O) 2 C+ C+ Ri r divengono : forza magnetica = — , le tre componenti della forza fi +Sps 2 Vr così +3) RO EN (0) 2 c) (pa RO) 2 7a)» i (a) Si è introdotto il fattore A in conseguenza del sistema di unità quì adottato. (1) J. J. Thomson, Phél. Mag., April 1881, p. 236. — 663 — Se ora si suppone / piccolo di fronte ad 7, ‘queste tre componenti si trasformano nelle L,, M,, N, date dalle [4]. Possiamo dunque concludere che: « alla vibrazione elettrica, da cui si possono considerare provenienti le forze [1] e [2], e definita più sopra, si può sostituire l'oscillazione meccanica di ampiezza assai piccola / di due masse elettriche — E, + E, che vibrano intorno ad O lungo l’asse delle # con moto pendolare di periodo 3, in modo da occupare ad ogni istante due posizioni simmetriche rispetto ad O ». Per la simmetria che hanno le formole fondamentali, ad ogni teore- ma, che non implichi l’esistenza di correnti elettriche in conduttori, ne corrisponde uno reciproco, nel quale le quantità elettriche e quelle magne- tiche sono scambiate. Perciò si dirà che: « due poli magnetici eguali e contrari d’intensità + E, — E, che oscillano intorno ad O lungo l’asse delle 2, con moto pendolare d’ampiezza / e periodo SI in modo da tro- varsi sempre in posizioni simmetriche rispetto ad O, producono nel die- lettrico delle forze date dalle [1] e [2], in cui si cambino le X,, Y,, Z,, IE rispettivamente ne MEN RE ATZD. Si vede cosi come sia possibile costruire degli oscillatori ricorrendo ad oscillazioni di corpi elettrizzati o di poli magnetici, anziché a scariche oscillanti. Siccome si può, per esempio con elettrocalamite, mantenere indefinitamente un moto oscillatorio d’ ampiezza costante, così gli oscilla- tori di questa nuova specie possederebbero il pregio di non avere smor- zamento. Ma siccome d’altra parte non è possibile ottenere moti pendo- lari che con periodi relativamente grandi, la lunghezza d’onda delle ondu- lazioni cosi generate sarebbe grandissima, e non sarebbero possibili i fe- nomeni d’interferenza che tanto facilmente si osservano cogli oscillatori digFle,rtz. Sarebbe del pari difficile l’ottenere effetti di risonanza elettrica con periodi vibratori di tale grandezza. Ma si potrebbe ricorrere alla risonanza acustica per mettere in evidenza le forze generate da un oscillatore mec- canico. Se infatti s' immagina, per esempio, un corpo sonoro elettrizzato, che possa vibrare con periodo eguale a quello dell’oscillatore, la forza eletirica oscillante che su di esso agisce potrà, anche se debolissima, ecci- tarne le oscillazioni. È probabile che si riesca cosi a mettere in evidenza la forza magnetica prodotta da un doppio punto elettrico vibrante, o la forza elettrica prodotta da un doppio polo magnetico, vibrante esso pure. Siccome quanto si è detto in questo paragrafo per le formole [1] e [2], potrebbe ripetersi per le [5] e [6], cosi diremo che la distribuzione di forze [7] e [8], oltre che come dovuta alle due oscillazioni elettriche orto- gonali, può essere considerata ancora come dovuta a due oscillazioni mecca- — 664 — niche di coppie di punti elettrizzati, dirette secondo gli assi delle y e delle 4. Faremo vedere nel seguente paragrafo come le due oscillazioni mec— caniche si possano comporre in un moto di rotazione uniforme. V. S’ immagini tracciata pel punto O e nel piano yz una retta inclinata: sull’asse delle y dell’angolo 0,=?24nt, e quindi mobile uniformemente: intorno ad O, e su questa retta ed a distanze 5 e Do da O si suppon- gano collocate due masse elettriche —.E, + E. Troviamo le componenti della forza elettrica prodotta in un punto (242), (che è ad una distanza r dall’ origine, che si supporrà piccola rispetto ad An) dalle due cariche elet- triche, come pure le componenti della forza magnetica che producono nel: punto (242) le stesse cariche in virtù del loro movimento. Cominciando della forza elettrica, il potenziale nel punto (@42) dovuto: alle due cariche — E e + £ potrà scriversi: E - — 1 2 V re Iy così, + sen0,) )v ir + ((y cos@,+ sen@,) Se si suppone / piccolo di fronte ad r, questo potenziale, che diremo g@,. diventa : P= Ly cos0, + < send) . Le componenti della forza elettrica saranno: — 2 IO SR CONCIOCE pa 9 =— (303 send, + 3xy cos b,) 3 SI El 0 2 2 | [9] oi si O o (0° — 24 + #°) così, |, VA —p_@+ Y—- 22°) sen0, + 34 così, | s Passiamo al calcolo della forza magnetica. La carica — E, che all’istante» t trovasi nel punto di coordinate : 0, di così,, send, possiede la velocità. manl (giacchè fa n giri al secondo sulla circonferenza di diametro /), se-- condo una direzione che fa coi tre assi angoli, i cui coseni sono: 0,. — sené,, così,. Dicendo 7, la retta che va dalla carica mobile al punto (242) ed ©, l’angolo di r, colla velocità, la forza magnetica in (@4z) è. seno Elm seno f,=—AEalIn = en Siccome essa è perpendicolare al 1 Pr? 2 1 — 665 — piano formato da r, colla velocità posseduta da — E, così farà cogli assi ‘angoli, i cui coseni saranno : y così, + # sen@,— 5 — 2 così, — a senl, “ o) ear e) carica r, Seno, r, Seno, r, SNO, Perciò le componenti di f, saranno : Elm l Elm Elm 0 (4 così, + seng,— 5), 930 così, , pe sen0, . 1 1 1 Analogamente, le componenti della forza magnetica /, prodotta in (292) dalla carica mobile + saranno: El Elm Elm m l — 53 (400s0,+s5en0,+5), gp3 00088, ma USCHUA: 3 ri Oro Sommando queste alle precedenti componenti, e supponendo / piccolo di fronte ad r, le componenti totali L, M, N della forza magnetica pro- dotta dalla coppia di punti elettrizzati girante, saranno : ec ci sen0, +ycos0)), [10] M=+ ia così, , N=+ i, sen0, . Se ora si applicano le formole [7] e [8] al caso in cui r sia piccolo di fronte a 4, e cioé si calcolano di nuovo quelle formole partendo dalle I EI RO A; A funzioni H=- sen(eant), II = cos(gant), si arriva precisamente alle equazioni [9] e [10] (a). Potremo dunque dire che: « le formole [7] e [8] si possono considerare come quelle che danno la distribuzione delle forze nel dielettrico prodotta da un doppio punto elettrico, di cariche —£E e + E lontane / fra loro, posto col suo mezzo in O, ed animato da un moto uniforme di rotazione nel piano yz, in ragione di n giri al secondo ». Siccome fra le due masse elettriche si ha un campo elettrico girante di costante intensità, cosi si può dire che [7] e [8] fanno conoscere l’ ef- fetto prodotto da un piccolo campo elettrico girante. Inoltre, in virtù della reciprocità dovuta alla simmetria delle equazioni (a) Le formole [10] esprimono pure le componenti della forza magnetica prodotta da un ele- mento di corrente di lunghezza 7 col suo punto di mezzo in O, percorso da una corrente costante d’ intensità Em, e che giri uniformemente nel piano yz in ragione di n giri al secondo. Serie V. — Tomo IV, 84 — 666 — fondamentali, si può dire che: « le stesse formole, dopo avere cambiato ordinatamente X, Y)Z,L, MN, in LLM,N, —-X,—-Y,-Z, fanno co- noscere la distribuzione delle forze prodotta da un elemento magnetico girante in un piano perpendicolare al proprio asse, o da un piccolo campo magnetico girante ». Chiarito cosi quali sieno i fenomeni elettromagnetici che possono con- siderarsi come causa della distribuzione di forze data dalle [7] e [8], ve- diamo quali sieno le proprietà di questa distribuzione. VI. Calcoliamo le componenti della forza elettrica e della forza magnetica, rappresentate dalle equazioni [7] e [8], secondo una nuova terna di dire- zioni ortogonali. Una di queste direzioni sia quella della retta 7, che con- giunge il punto (x4z) coll’origine O delle coordinate, e diciamo A e G la componente della forza elettrica, e quella della forza magnetica seconda quella direzione. La seconda delle tre direzioni sia quella della perpendicolare alla retta r tracciata nel piano passante per r e per 0x, piano che potrà chiamarsi piano meridiano; sieno S ed H le componenti della forza elettrica e della magnetica secondo questa direzione. Infine, sieno 7° e KX le componenti delle due forze secondo la terza di- rezione perpendicolare alle due prime, e quindi perpendicolare al piano meridiano passante per (24). Siccome i coseni degli angoli che 7 fa coì tre assi coordinati sono or- dinatamente : = d, =) quelli degli angoli che cogli assi fa la perpendi- 34 P; = a colare ta l#prano*fàameridiano®sono0r 409, a frena ed infine quelli 2 2 2) 2 Y+® Vyp+e degli angoli formati coi tre assi dalla perpendicolare ad 7 nel piano me- YP+ GY 98 a ——-; così si potranno espri- DI. Lora. o: URTI PUY+ 8 PI YTS° PNT 2 mere le nuove componenti in funzione delle primitive colle formole se- guenti : ridiano sono: — al DO È UA pda a E +M4+ N P P — XY+)+Yaxy+ Zas pi L(f+ )+ May + Nas au rg Ye2Zy rea A VASTO” VS S= di= — 667 — Se ora si sostituiscono ad X... L... i loro valori [?] e [8] si otten- gono le seguenti equazioni : * mp SR DE NEO E; Ei y \\la S= aa sn di ra i + cos0(—y est do) Fi? 2 > == Li iseng(y—£ — 4) +coso(-:- 14 ) PV ajoo0, feci Made O P O 001 DISTRAE 5) gie se ps it 010 Brachidomo » CIO NOS MON SALE Po iL 011 Macroprisma vert. » M..= ia OREICCE coP I 110 Combinazioni osservate Fs, Combinazioni osservate Fs. d'a dA TRI RISI A ESTONE) Ali oreole 001.111.010. 011 9 dA dI dî 1A A 1 Pod: big 0017113. 11010 b'/a P PRO 3 bi Pe big 42 bb P Dipitaieate 6 bel 9° Pb 2 Db Pd Alla dl 21001: 5 bi e! Pd gl 18 h°% d'a P Dn 8 bb“ Pd e' g' Pr eStvtrita OA iO DA e 0 1 PI e' 9) db 3 x el P be Porre trg 3 be Pe 0010 Mb 110: TSO Ro iù Porre DA 6 P.eÈ PRETE be Pd e N. B. I simboli son disposti in ordine alla be Pel dA CSS MAI relativa estensione delle facce che rappresentano. Quando una o più facce sono predominanti, e be e 8% P j j - 7 inducono un abito speciale, figurano come prime, arc LA TA o 3 ed hanno carattere distinto, più nero, nelle ind be Pb cazioni del quadro precedente. - PoUA De — 749 — Le sole sette forme distinte, riscontrate nella intiera collezione cristal- lografica del solfo di Romagna, sono ben poche; e la povertà della loro serie apparisce quasi incredibile se si pensa ai piccoli e pochi cristallini trovati dal Prof. Busz come prodotti dall’ alterazione locale della Galena, a Mùsen, nel 1890, con fino a 19 forme di diverso simbolo in un individuo solo, di pochi millimetri; a quelli trovati dal Dana, a Rabbit Hill (Nevada),. con 14 forme diverse, due delle quali nuove (b° (24. 04. 2'5)); ed a quelli studiati dal Molengraaff, all’ isola Saba (piccole Antille), con 18 specie diverse di facce, e sempre in individui relativamente piccolissimi. Per buona sorte, qui non si tratta di graduazioni nell’ importanza o nel pregio dei cristalli, in ragione di una faccia in più od in meno. — Una faccia nuova ne’ cristalli di una data sostanza acquista grande interesse allorché rivela, o fa sospettare almeno, una nuova proprietà strutturale nel cristallo che la porta, una nuova o malnota causa di decrescimenti; tale é il caso delle faccie di plagiedria, di tetartoedria, di emimorfia, di corro- sione chimica; mentre un simbolo di più, fra quelli per es. della zona h'a'P dell’ Anglesite, o della zona 4'Mg' della Selenite o della Datolite, la- scia il tempo che trova. Nelle zone di tal genere le faccette accessorie sono il semplice ed eventuale portato di decrescimenti, alla loro volta for- tuiti, derivanti da eccezionali influenze dell’ ambiente, dal modo e dal grado del progressivo, inevitabile esaurirsi delle attività chimiche e delle particelle cristallogeniche rispettive, nelle fasi estreme di accrescimento di un cristallo. Più che dal numero delle facce, o delle diverse specie di queste, un cristallo riceve il grado del suo valore scientifico dalle particolarità fisiche e strutturali che in esso, sulle facce sue, concorrono ad illustrare i feno- meni molecolari, e le cause di molte singolarità e di molte anomalie; quindi il lavoro delle attività inerenti allo spazio in cui quel cristallo si andò formando. Ora, i cristalli di solfo nativo, considerati da questo punto di vista, ci si presentano sommamente istruttivi, e degnissimi di speciale at- tenzione e di descrizioni particolareggiate, per quanto grande ne sia la relativa semplicità. Dimensioni dei maggiori fra i cristalli noti di Solfo ecc. Prescindendo da qualche cristallo di eccezionale grossezza, dai solitari delle ampie cavità geodiche, e da quelli piccolissimi, quasi microscopici, che danno le crosticelle di rivestimento, può dirsi che la dimensione dei cristalli di solfo puro oscilla fra 2 e 4 cent. di asse, tanto negli ottaedri, quanto nelle forme con ampie pinacoidi basali. Taluni cristalli incompleti, non rotti, presentano faccie di 5 X 6 cent. piane, lucenti, di 5 X 5, di 4 X 5 ecc., come negli es. dei numeri 21986 e 22380. Un gruppo di grossi ottaedri compenetrati e iso-orientati in guisa da parere un solo ottaedro, ma incompleto, ha 15 cent. nell’ asse princi- pale (es. 22401). Un bel cristallo di solfo verde, con profondissime e lu- centi tremie, pure incompleto, bituminifero, ha 11 cent. c. s. (es. 22053); un allineamento un po’ tortuoso di ottaedri incastrati fra loro a pila, in di- rezione dell’ asse, come dirò a suo tempo, è lungo 7? cent. Nei gruppi con esatte iso-orientazioni sì può ravvisare o concepire la unicità teorica del cristallo; soltanto, il cristallo virtualmente unico appa- risce interrotto nel suo completamento. Ad ogni modo, é realmente unico il campo di attività cristallogenica, e di omogenea polarità orientatrice in cui si é formato. In tal guisa, può concepirsi assai più ricco il novero dei singoli cristalli voluminosi, e relativamente colossali. Dei cristalli minimi, microscopici, che si annidano per lo più nelle piccole cavità geodiche e nelle fissure dei calcari concrezionati solfiferi, sulle pellicole o veli incrostanti altri cristalli comuni, dirò più avanti. Aspetto d’ insieme — habitus — dei cristalli comuni, e loro fisiche proprietà. Nel massimo numero dei casi, i comuni e grossi cristalli di Solfo na- tivo di Romagna sì presentano isolati o in gruppi, con aspetto distintamente rombottaedrico ; le differenze più spiccate son dovute sopratutto alla man- canza delle pinacoidi terminali, e degli spuntamenti (6°), od allo sviluppo predominante di queste stesse faccie modificatrici. Le fig. 1, 2, 3 (Tav. I), danno l’idea dell’ - haditus - che più di sovente riscontrasi nelle cristallizza- zioni delle nostre solfare. Si può tuttavia osservare come sieno per lo più ottaedrici, e senza ampie modificazioni, senza facce basali, i cristalli di solfo puro, artificial- mente prodotti; come abbiamo ampie basi, e si facciano fadulari o appiat- titi quelli che rimasero incrostati, intonacati da strati di silice o di calcite. Sono più o meno basati, nella assoluta maggioranza, con o senza altre modificazioni, i cristalli limpidi, puri, di bel color giallo d’olio; ossia i più comuni e caratteristici. L’ottaedro 6% non manca che in casi estremamente rari ed eccezionali. Riporto le indicazioni, accettate universalmente, sulle costanti ottiche e termiche dei cristalli di solfo nativo puro, recentemente confermate da nuove e delicate ricerche : PROPRIETÀ OTTICHE: Colore normale, giallo d’olio puro, o giallo citrino, assai vivace, ma sempre più chiaro nella polvere quanto più essa é fina. — 751 — Con gradazioni al giallo arancio, al giallo miele cupo, al rossiccio, al ver- dastro, sia per tenui diffusioni di idrocarburi, sia per incipienti passaggi agli stati allotropici indotti nel solfo cristallino dall’ aumento di temperatura. Lucentezza vitreo-resinosa, traente alla adamantina sulle superficie di frattura recente. Trasparenza perfetta, e perfetta limpidità, in un grande numero di cristalli, anche se voluminosi ed in gruppi. Vi sì accompagnano non di raro i colori spettrali, per dispersione. i Rifrazione, doppia positiva, biasse. Piano degli assi ottici co g' (010). - Angolo degli assi ottici = 70° ... 75°. - Linea dell’angolo c. s. oo asse €. Indici principali di rifrazione, per lunghezze di onda corrispondenti alle linee B, D, E, H, Frauenhofer, rappresentati dallo Schrauf coni se- guenti valori: B. | DI ini Hi a | 1,93651 | 1,95047 | 1,96425 | 2,01704 2,02098 | 2,03832 | 2,05443 | 2,11721 2,22145 | 2,24052 | 2,25875 | 2,32967 PROPRIETÀ TERMICHE: Temp. di fusione = 111°,15'; di ebullizione 447°; di combustione all’aria = 250°. - Calorico spec. = 0,203. Coeffic. di dilatazione, nelle tre direzioni delle bisettrici degli angoli acuto e ottuso degli assi ottici (a, a'), e della normale al piano loro co- mune (a'), a temperature verso 25°: a = 0, 00002144 a' = 0, 00007138 a'' = 0, 00008604 Elettrizzabile negativamente per confricazione. — Cristalli fragili fino alla friabilità. - Dur. = 2, nei cristalli puri. - Peso spec. = 2,07 (Tsck). Il solfo nativo è solubilissimo, se puro, nel solfuro di carbonio, nella proporzione di 24 p. a 0°; di 41 p. a 18°; di circa 95 p. a 38°, e di 181 p. a 55°, temperatura cui bolle la soluzione satura. CAPITOLO III. Descrizione dei più interessanti esemplari di cristalli normali, compresi nelle citate serie di forme, a partire dai più semplici verso i più ricchi di facce di diverso simbolo. (NB. Alla collezione di questi cristalli fanno appendice 37 modelli in legno, dei tipi più impor- tanti, delle diverse combinazioni e dei rispettivi geminati). Serie 51,. (R. primitivo Haùy). Es. 21681 - (fig. 4). Da una ganga calcare, in parte bituminifera sorgono vicini, ma ben distinti, due nitidissimi e grossi cristalli traslucidi, esclusivamente e regolarmente rombottaedrici. Le loro facce hanno lucentezza sericea, sono traslucidi in massa. Es. 21682 .... 694 - Sono tredici grandi scaglie di ganga marnosa, compatta, coperte da patine nere, bituminoidi, sulle quali son profusi i brillanti cristalli di solfo (10 ... 15 mm. di asse), di color giallo citrino, puro, traslucidi, di abito ottaedrico (0), prevalentissimo; sono peraltro generalmente distorti, cuneiformi, e con lievi modificazioni. Parecchi of- frono, tuttavia, esclusiva la forma 6’, nitida, regolarissima. Le facce vi sono liscie e lucenti, con splendore sericeo, in seguito ad una finissima rigatura, parallela agli spigoli orizzontali. Coll’ es. N.° 21695 ha principio una splendida collezione di oltre 260 cospicui cristalli, quasi tutti isolati, e classificati, per la conoscenza geo- metrica delle rispettive forme e delle diverse modalità, modificazioni e del loro relativo sviluppo. A parte alquanti piccoli cristallini, ed altri di gros- sezza non comune, la dimensione media degli es. di questo gruppo è di 4... 5 cent. nella direzione dell’asse di simmetria. Tutti i cristalli donde questa collezione risulta possono dirsi bellissimi, e non di raro magnifici, nel senso, dirò, decorativo; a parte la loro im- portanza scientifica. L’ es. 21695, presenta una sola piramide completa, con tipo leggermente cuneiforme. Dalla parte opposta il cristallo è deficiente, per mancato svi- luppo, e porta un grumetto informe di solfo bruno e di minimi cristallini di calcite. - L’ es. 21696 è un gruppetto di cristalli, confusamente addossati sopra piccole scheggie di calcare annerito dal bitume, con silice bianca e quarzo, i più distinti de’ quali sono esclusivamente rombottaedrici, più o meno cuneiformi. L’es. 21697 é costituito da una moltitudine di brillanti cristalli, simili ai precedenti, taluni dominanti e limpidissimi, taluni piccolissimi, adunati in sistemi pure ottaedriformi, ma tutti iso-orientati pressoché esattamente. Sono tutti distintamente striati, a gradini, senza passaggi per decrescimento. — 753 — Vi si unisce una concrezione di silice, niviforme, con quarzo in mammel- loncini piccolissimi, irregolari. Piccoli, ma di rara regolarità, alcuni cristallini 6%, con altro maggiore, iridescente, nella geode dell’ es. 22274. Serie 5° (ottaedro ottuso). - con passaggi alla zona 6° M. Es. 21699 ... 702. - ll crisiallo, e la massa che con identica disposizione e struttura vi fu appendice, presentano una fitta e profonda solcatura, con rialzi lineari in direzione parallela agli spigoli orizzontali, e al piano degli assi y.2 (fig. 5 e 5'). Ne risulta evidente l’origine di questa forma per via di regolare decrescimento. Pochi e assai nitidi cristallini di solfo più chiaro e puro, di noiuzione 5% P e', aderiscono ad una depressione centrale di una parte del cristallo striato, e son di consecutiva formazione. L’es. 21700, tozzo e rozzo, di color verdas=iro, screpolatissimo, infil- trato di bitume, ma interessante per la serie, é dello stesso genere del precedente; se non che il decrescimento, ivi pure manifestato da grossi rilievi, solchi, e strie parallele al piano degli spigoli orizzontali, tende a generare una zona di abito prismatico, senza dubbio informe, tuttavia riconoscibile, fra le due opposte piramidi. Tanto che, se le strie fossero fini, e se nelle superficie cosi prodotte si realizzasse la pianità cui tendono, avrebbesi il primo prisma, (110), con 101°,50' in media; ed un tipo M 6’ (fig. 6), che nella collezione intera é rappresentato soltanto da un cristallino, nitido e regolare assai, ma quasi microscopico, portante il N.° 21960 di catalogo. Altrettanto può dirsi dell’ es. assai più grosso e multiplo N.° 21702, composto da un aggregato di cristalli tutti profondamente striati, taluni cuneiformi, o incomplevamente terminati; ma con una iso-orientazione generale, a parte qualche piccolo cristallo accessorio, conducente al con- cetto di.un solo individuo, costituitosi parzialmente e in gran parte mancato. Fra le facce delle piramidi otiuse 6% e quelle del prisma, avvi, quasi dappertutto, un graduato ma irregolare passaggio e in qualche caso con superficie curve, senza spigoli definiti. Serie 5°’: 6°: (Diottaedra H.). - Comprende i N 21703 ... 707, seb- bene nei tre ultimi e bellissimi, compariscano una o due faccette, molto subordinate, di simbolo e' e P. gli es. 21703 ... 704 sono del tipo iden- tico, a forti solchi e strie, dei precedenti; solo vi è più manifesta la pi- ramide 0’. Spetta alla serie 6% 5% il sopracitato es. geodiforme 22274, dove, in- sieme a piccoli, brillanti e regolari ottaedrini semplici, 6%, sta il cri- stallo regolare e limpido, con facce iridescenti, del tipo c. s.; salvo al- Serie V. — Tomo IV. 95 — 754 — cune fratture esterne e rilievi di adunamento con iso-orientazione. Vi spetta, altresi, l’ es. 22273, nel quale uno splendido e grande cristallo, quasi del tutto limpidissimo e puro, sta sull’ orlo di una cavità geodica, con cristalli di celestina. Ganga calcareo-marnoso, brecciforme. Nei sei citati es. (21699 ... ‘704) le masse interne vedonsi attraversate da fittissime fissure che, stando al modo di riflessione della luce, paiono quasi sempre parallele alle superficie esterne. Vi sono filtrazioni e trasu- damenti di bitume, colorazioni verdognole, e limpidità affatto insignificanti e localizzate. Serie 6% d' 5% (Triottaedra H.). - È rappresentata da un unico cristal- lino (tub. 21708), piccolissimo, con 3 mm. di lungh., ma nitido regolare, e presso che completo (fig. 7). Serie 5%: P. (Basata H.). - Es. N.° 21709 ... 710. Due gruppetti di cristalli di solfo color giallo-miele, con quarzo in minutissimi aggregati mammillonari della stessa tinta. - Ed un cristallo incompleto, colla pina- coide scabra, granellosa, ineguale. b'» P b°% (Var. Octodecimale H.). - Comprende i numeri «0 d% 0% PORQ1711 ... 21725 ‘e può ‘classarsi in quattroB@suopi Serie b°» b'£ Pin relazione all’ adito che v’ induce il relativo %» P ba sviluppo delle tre forme concorrenti. I più note- voli saggi son quelli nei quali è dominante la 5°; ciò essendo raro. In questa serie sì trovano cristalli voluminosi assai, e limpidi, con notevoli distorsioni (fig. 8, 9). Sulle facce 5°, e nei cristalli dove ‘esse sono più brillanti ed estese, si può rilevare una speciale frequenza di addossamenti di laminette piane, sottili, simulanti veli di sfaldatura. Queste laminette, di cui riparlerò più oltre, hanno qualcuno dei loro limiti marginali, paral- lelo, o circa, ai lati della rispettiva faccia; ma più spesso li hanno irre- golari, curvilinei, e a guisa di decrescimento indeterminabile (V. esemplari civil). L’es. 21714 (fig. 10), é degno di attenzione, non tanto per esser volu- minoso (mm. 35 e 45 lungh. e largh.), e di bella limpidità prevalente ; quanto per la singolarità di presentarsi superiormente interrotto da una vasta cavita, irregolare, ma di tremia, e distinto in due regioni, quasi in due cristalli iso-orientatij; di più, mentre all’ esterno dell’ insieme domina la faccia 0%, nell’ interno domina 5%; schematicamente si disegnerebbe come nella (fig. 11). Dei magnifici cristalli 21722 ... 724 di color d’olio, chiaro, limpidis- simo, danno idea le figure rispettive (12, 13). - Così del gruppo singola- — 7255 — rissimo N.° 21723, nel quale alla limpidità sorprendente, come di olio puro, si aggiunge una strana distorsione trasversale, con numerose ripetizioni della pinacoide P, brillante e prevalente nelle appendici iso-orientate del cristallo centrale ; infine, un rivestimento della piramide ottusa inferiore, mercé un fitto intreccio di cristalli multipli, striatissimi, un po’ torbidi e di color giallo-chiaro, tutti di formazione consecutiva, e con è" dominante, ma non esclusivo (fig. 14). Serie 5’ el. (Smussata H.). - Riducesi per ora a tre’ piccoli cristalli di color fulvo, incompleti, multipli, riuniti .sotto il N.° 21726. Serie 0° Pd’: (ottodecimale basato H.); anche questa é poverissima di es. - Riducesi a quelli dei N. 21727 ... 728 di catalogo, ambedue doppi con iso-orientazione. Serie 5%: Pel (Esagonale, ed E. basoide H.). - Comprende otto esem- plari (N.° 21729 ... 736), quasi tutti voluminosi, limpidissimi, di rieco co- lor giallo d’ olio, più o men distorti, o lasciati incompleti dalle superficie loro di contatto. I soliti e belli es. di iso-orientazione, in grande, o per parte di moltitudini di piccoli poliedrini nella cavità di contatto, e di ve- lature lievi di bitume. _ Serie 5% db” e. - Un solo rappresentante N.° 21737. - Con appendice a rilievi e in parte a bernoccoli tondeggianti (fig. 15). Serie 5’ 5% Pel; colle relative varietà, che derivano dalle frequenti dif- ferenze d’estensione delle facce o delle zone di facce. I più notevoli casi di tali varietà sono: 6» b°: Pel (Triemarginato H.). - Es. sei (21738 ... 743). Con cristalli belli, assai regolari alcuni, e completi. 1 b) 1 o Da pi, | (Triem. basoide H.). Es. novantasei (N.* 21744 ... 839). - È uno dei più ricchi e magnifici gruppi di cristalli di questa collezione. Per dare idea dell’ abito quivi dominante, pressoché caratteristico, e di alcune modalità di aggruppamento, aggiungo nella tav. I le fig. 16, 17, 18, copiate al naturale. bre Pb”. (Triem. acuto H.). Es. ventuno (21840 ... 860). Notevoli per lo sviluppo preponderante della faccia e' (fig. 19, 20 al nat.). - Grossi cri- stalli, assai regolari, con facce generalmente nitide, e masse pure ed illese. Pb» b'£e (Triem. tabulare H., se P è. prevalentiss.). Quattro esemplari N.° 21861 ... 864. - L’ es. 21861 è veramente istruttivo. per la modalità tabulare molto appiattita, e per le dimensioni (fig. 21). — 756 — Pb/e' b°» (Esagonale tabulare H., c. s.). Es. 21865, piccolo, di tipo emimorfo, essendo sviluppatissima una sola delle due pinacoidi. - Es. 21866 piccolo esso pure, ma interessante. - Ha forma di placca rombica (fig. 22), colle due superficie opposte incavate a tremia, e tutte occupate da innu- merevoli, nitidissimi rilievi consimili, cioé a forma di lamelle rombiche orlate dalle 6%. Le d° ed e' son ridotte a semplici traccie. Gli altri es. 21867 ... 871... 871'... 871" sono grossi e magnifici cristalli, e gruppi con tracce di g'. Serie Pd'ae g' (Due. es. N.° 21876 ... 877). - La faccia g' suol essere molto subordinata alle altre. Solo per eccezione presentasi tanto estesa da. competere colle e' nel dar carattere al cristallo su cui è prodotta. - I cri- stalli rappresentati dalle fig. 23, 24 ne danno giusta l’idea. Serie 0°: Pe'g' (tr. di 5°). - Due es. N.° 21878 ... 879, assai grossi, diafani ed incompleti. Serie 5”: e' Pb%g' (Sei es. N.° 21880 ... 885). - Magnifici cristalli, vo- luminosi, quasi regolari, con bellissime facce piane e nitide, salvo due alquanto scadenti, e con eccezionale sviluppo della el. Serie 0" el g) P. b°» (Sette es. N.° 21886 ... 892). - Qui è notevole 1’ e- stensione della g', pur mantenendosi di rara bellezza i cristalli sciolti e gli aggruppamenti che vi si comprendono. Tutti questi es. offrono istruttive ed eleganti iso-orientazioni dei cristalli rispettivi. Il 1.° es. 21886, è un gruppo di tre individui incompleti iso-orientati, a facce appannate, e di color verdastro in massa. Serie e' è‘: Pbrg' (Cinque es. N.° 21893 ... 897). - Risalta vieppiù la. faccia e' ; si mantiene il carattere sceltissimo degli es. sebbene sieno molto incompleti nelle superficie di adesione preesistente, o di distacco. Serie 5°: e' d'a Pg! (Due es. 21898 ... 899). - Grossi es., assai belli, ma incompletissimi. Serie de 6°» Pg' (Tre es. 21900 ... 902). - Il 1.° es. è un magnifico gruppo di tre grossi cristalli, quasi completi e di notevole regolarità. Serie 0: 6% Peg (N.° 21903). - Cristallo limpido assai regolare, con nitide modificazioni, non grande, cui ne aderiscono altri minori, intrisi di bitume. — 907 — Serie 8°: Pel b*:g° (Es. 21904 ... 941). Sono trentotto, mercé i quali par che si esalti il pregio e la bellezza della raccolta intiera. Grossi individui, di splendida purezza, con ampie e nitide modificazioni; gruppi stupendi di varie modalità, e copia di minori cristalli sciolti, ma di maggiore limpi- dità e purezza di massa, velati o no di bitume, sono classificati in questa serie, senza che, peraltro, sia stata riscontrata in essa veruna particolarità cristallografica, eccezionale. Serie 6% P bre con tracce o senza di g' (es. 21942 ... 946). Uno di que- sti cinque, non grande (mm. 20 di asse princ.), è completo, nitido, regolare, sebbene di abito leggermente emimorfo. (Porre bg | (Pbeg' b% | delle facce pinacoidi, o basali, P, nei diversi gruppi della serie. Serie Dieci es. (21947 ... 956), col ‘notevole predominio Serie 9g e' b'£ Pb°:. - Tre es. (21957 ... 959), nei quali le g' si presen- tano collo sviluppo, in estensione, maggiore che in qualunque altra. Es. per- ciò assai rari, oltre che distinti ed istruttivi. Serie M.b°. - Unico cristallino, (21960) quasi microscopico (appena mm. 1 di asse), nitido, brillante, colla forma rappresentata dalla fig. 25. In collezione sta in un tubetto di vetro, sostenuto da un peduncolo acu- minato di cera verniciata in nero, appoggiato ad una lastra pure annerita. Con questa sommaria indicazione delle facce presentate dal Solfo nativo di Romagna, e delle loro combinazioni osservate fin qui, non credo di aver illustrata che una piccolissima parte, e forse la meno interessante in ordine alla cristallografia geometrica del materiale che dalle celebri mi- niere di Perticara, di Formignano e di altre, pur sarebbe ricavabile, E lo sarebbe facilmente per poco che qualche persona, non del tutto profana alla storia esatta dei cristalli, buona osservatrice, e sopratutto nobilmente ispirata al gentile e benaugurato desiderio di favorire gli studi patrii, ed i patrii Istituti d’ insegnamento, si trovasse in grado di esaminar liberamente, in quelle stesse miniere, gli scavi, i cantieri e i pezzi di minerale che sono avviati a tonnellate verso i calcaroni e i forni. 705 = CAPITOLO IV. I decrescimenti distinti, macroscopici, producenti facce di simbolo determinato. Tutte le strie, se inerenti alla struttura delle facce, possono riguardarsi come dirette e sicure manifestazioni dei decrescimenti. Sieno esse appena visi- bili, come quando risultano prodotte dalla deficienza di minimi sistemi di file, in una modificazione cristallografica, o sieno invece appariscentissime per- ché composte da moltitudini di siffatti sistemi, sono sempre obbedienti ad una legge cristallogenica data. Tuttavia, nel senso più comunemente accettato, un decrescimento, signi ficando appunto una modificazione di angoli solidi (vertici o spigoli), signifi- cando, cioé, il costituirsi su di una forma data di nuove superficie che saranno facce di altre forme, non sarebbe esatto il dire che nei cristalli di Solfo nativo tutti i sistemi di strie sono altrettanti esempi di decresci- menti, o di passaggi da forme date ad altre più rieche di faccette e. di zone. Per non lasciare una lacuna nell’ enumerazione monografica che sto compilando, citerò un caso speciale, offerto dall’ es. 21961; e tornerò più avanti a dir delle strie, considerandole come semplici particolarità delle facce, e qualunque sia il processo dal quale dipendono. L’es. 21961 (fig. 26), è un gruppo pressoché completo di due grossi individui, del color giallo tipico, singolarmente multipli, con altro. mi- nore, incompletissimo, con profondi scavi di tremia e imbevuto di bitume. Ciascuno dei due principali cristalli risulta da un elegante e molto istrut- tivo adunamento di parecchi individui minori, iso-orientatij; di questi, al- cuni risaltano per notevole sviluppo; ma tutti i più piccoli si presen- tano come sporgenze faccettate e allineate, i cui elementi omologhi cor- rispondono, in parte alle facce 2%, in parte alle 5°, riducendosi a sole strie od a sporgenze pianeggianti, sopra altre facce dei gruppi rispettivi. È evidente che la particolarità dei gradini, solchi, ecc., per via di de- crescimenti, si connette non solo col fenomeno delle strie delle facce, ma bensi con quelli delle tremie e delle iso-orientazioni di cui fra poco terrò parola. Le distorsioni più Dog e appariscenti delle facce e dei cristalli rombottaedrici di Solfo. — (Es. 21962 ... 983). Si sa che i cristalli esenti da distorsione sono eccezionali, qualunque sia la specie minerale cui appartengono. In generale vedonsi diversamente estese quelle facce di una data e medesima specie che per la ideale sim- — 759 — metria delle forme geometriche dovrebbero essere identiche; ovvero, sono più o meno preponderanti alcune zone di facce, tramutandosi perciò 1’ a- spetto, il carattere, l’ haditus delle forme cristalline specifiche. In consguenza è di niun interesse nella storia naturale dei cristalli il tener conto delle infinite maniere delle distorsioni; ammenoché queste non si presentino con una notevole costanza di modo e di grado, nei cri- stalli di una data specie o di una data località, o di un dato modo di giacimento. Ecco perché rilevo soltanto, circa le pISTORSIONI di questi cristalli di soifo, che la estensione delle facce pinacoidi terminali può ridurre non di raro tabulari, a lastre più o meno sottili, gli ottaedri basati; sia che le facce stesse restino libere da sovrapposizioni, sia che vi si sollevino orli di tremia, con piccole piramidi sovrapposte, con rilievi allineati ecc. (figg. 29, 30); (es- 21963 ... 21964, e i già citati 21861... 866); che la prevalenza invece nel rombottaedro 5'£, di una zona (per es. 111 .Il1 .1II . 111), con- duce alla varietà detta cuneiforme, (es. N. 21962); mentre, nell’ altra zona 111 .111.Ill.1II conduce, ma più di raro, a tipi di abito prismatico, con apparenza sfalloide, simulante la simmetria monoclina, o la dissimetria triclina (es. 21965 ... 21974). E questo, vale la pena di rilevare, in vista dell’ esistenza di prismi veramente monoclini di solfo, in ragione del di- morfismo. Sussistono, poi, parecchie altre maniere di distorsioni, ma irregolari, insignificanti, e nel tempo stesso comunissime in tutte le varietà dei cri- stalli osservati (es. 21975 ... 978). Inoltre, sempre per distorsione, può aversi una specie di emimorfia, col predominio, in un senso, di una piramide ottusa 5°, e nel senso opposto di una acuta, 5%. — Se non che, connettendosi quest’ argomento con quello dell’emiedria, merita una meno concisa indicazione. Le apparenti emiedrie ed emimorfie, di taluni cristalli di solfo nativo. — (Es. 21984... 989). Nel sistema ortorombico possono dirsi pressoché del tutto mancanti i veri casi di emiedria geometrica e fisica delle forme, e di tetratoedria. L’ alter- nanza rigorosa nella soppressione o nel predominio delle facce omologhe — o dei sistemi omologhi di facce —, é criterio fondamentale ed assoluto. L’EMIEDRIA, importantissima prerogativa fisica e morfologica dei soli si- stemi di facce spettanti a singole forme semplici, e di quelle soltanto nelle quali la scelta di elementi omologhi alterni è possibile, perde la sua esplicita ed evidente manifestazione nel sistema ortorombico, dove la semplicità delle forme cristalline non ha che un tipo unico, il rombottaedro, e dove non è che — 760 — ideale un emiottaedro a facce triangolari scalene; mentre le distorsioni inte- ressano abitualmente le facce in zona, anziché le alterne. E nessuno vorrà maravigliarsene, purché si tenga presente che l’emiedria, dopo di essersi affermata splendidamente, per numero, varietà e bellezza di casi, nel primo sistema isometrico, con tetratoedrie istruttivissime, ecc., ri- ducesi gia, se non nel significato suo o nella sua indole, ma nella sua varietà e nel numero dei casi diversi, nei sistemi dimetrici uniassi, dominando tuttavia, anzi improntando la sua caratteristica, in tutti i cristalli delle più famose specie di tipo romboedrico. Nel sistema ortorombico si può riscon- trare piuttosto quella dissimmetria delle modificazioni che può corrispon- dere talvolta all’ emiedria geometrica e strutturale, ma che può esserne indipendente, e che nelle forme tricline può giudicarsi caratteristica. Ne segue, che i pochissimi cristalli di solfo nativo i quali furono ereduti emiedrici da qualche osservatore (Es. 21966), debbono ritenersi come sem- plicemente distorti (fig. 31); anche quando le facce di maggiore estensione alternino, nel rombottaedro, colle meno estese; ciò che del resto è caso estremamente raro, seppureesiste con sufficiente regolarità di sviluppo. E questo tanto più ragionevolmente, in quanto che nelle supposte forme emie- driche del solfo, nulla si modifica nella condizione intima, strutturale dei rispettivi cristalli. Dell’ EMiMoRFIA non potrei dare in modo assoluto un giudizio negativo. Per essa non si tratta più di alternanza nello sviluppo o nella scomparsa di elementi omologhi; bensi dell’ antitesì geometrica in siffatto sviluppo, quindi di una specie di polarità nelle modificazioni, alle due opposte estremità di ciascun cristallo. Ora, nella serie dei nostri cristalli, figurano cinque notevo- lissimi esemplari (es. 21985-989), ne’ quali, come apparisce dalle fig. 32, 33, 34, la piramide superiore più sviluppata e vistosa, è quella del rombottae- dro ottuso 5’: mentre la inferiore è quella del rombottaedro primitivo 24. Anche questi casi possono, dunque, ricondursi alle categorie delle distor- sioni. Io non ardisco di concludere in modo assoluto pro o contra all’ e- mimorfia strutturale dei rombottaedri di Solfo nativo; credo che la que- stione sia piuttosto di abito esterno che di assettamento; ma son contento, oggidi, di segnalar quei cristalli all’ attenzione dei mineralogisti acciò ne ricerchino, alla loro volta, altri esempi e riescano a verificare con essi se qualche differenza di potenziale fisico, se qualche polarità ivi sussi- stesse di attitudini, per dar conferma di un fenomeno di struttura molto raro fra i cristalli noti, e perciò viepiù importante a studiarsi. Esagerandosi, in qualche piccolo cristallino, la distorsione di una zona dell’ ottaedro, derivano lunghi prismetti, essi pure imitanti i prismi mono- clini che si ottengono dal solfo colla fusione (es. 21990). Ho segnalate le - LASTRE APPIATTITE - fra le modalità cristalline del — nali, — solfo nativo, soltanto per la presenza, in collezione, di cinque curiosi saggi | che rientrano in' tale indicazione (es. 21991 ... 995). Si tratta di aggregati di cristalli fortemente distorti nel senso di due facce 5‘, opposte e paral- lele, tanto da produrne una lastra sottile, più o meno pianeggiante, limi- tata all’ ingiro dalle zone residue di facce, bene sviluppate, nitide, e quasi spettanti, per esatta iso-orientazione, ad un solo od a pochi individui. Se non che, l’ estensione delle due massime facce parallele é fittamente in- terrotta da scavi, intaccature, solchi, piccole tremie ecc., che sebben pa- rallele ai margini, pur tendono ad una specie di concentricità curvilinea (fig. 35), ravvicinabile alla curvatura d’ insieme di altre lastre a forma te- golare. - Si tratta evidentemente di cristallizzazioni prodottesi fra le due opposte e vicine pareti di fissure, nelle ganghe marnoso-bituminoidi del giacimento ; sulle superficie intaccate e solcate luccicano sotto una data incidenza tutte le areole corrispondenti alle parti residue delle 4% domi- nanti, tanto da far vedere benissimo il piano comune della loro orientazione. Gli allineamenti a pile lunghe e contorte, di cristalli tabulari, ed a verghette prisma- tiche irregolari, a gradini e solchi trasversali, ed a fasci ricurvi di cristalli ottae- drici. — (Es. 21996 ... 017). Le sette figure, 36 ... 42, servono assai meglio di qualsiasi descrizione a dar idea delle PILE conTORTE d’elementi ottaedrici di solfo cristallizzato (Es. 21996... 997... 22000, 22007, 22012). - Tali elementi apparirebbero come lamine o lastrine ottaedriche largamente basate, di figura rombica, se fos- sero disgiunti, isolati; ma riuniti e saldati; unificati quasi per allineamento e iso-orientazione in sistemi prismatici, con ingrossamenti, strozzature e contorsioni derivanti dalle continue differenze di grandezza, di sviluppo e di adattamento reciproco, costituiscono una speciale disposizione a verghe, a fasci, generalmente arcuati o flessuosi, tutti solcati da strie orizzontali profonde, e terminati dalle facce 5% dell’ ottaedro ottuso. Disposizioni siffatte, sì sottraggono alla tipica regolarità dei cristalli; non sono esclusive del solfo, ma son frequenti negli esemplari romagnoli di questa sostanza. Si collegano ai cristalli normali, mercè graduati pas- saggi che cominciano con i rombottaedri fortemente striati (fig. 5), com- prendono le piccole verghette prismatiche, trasparenti o no, libere o saldate colle loro estremita sulle opposte pareti di fissure 0 di geodi; ed arrivano ai grossi fasci di sistemi fortemente striati e contorti, simili a pile di elementi inegualmente ampi e sottili, e generalmente curvilinei nei loro complessi. ‘ Serie V. — Tomo IV. 96 = eo Le particolarità delle facce dei cristalli separatamente considerate. Le striature, solcature, punteggiature e sagrinature, intaccature, ecc. nei cristalli, per visibilità di gradini di decrescimento. — (28 es. N. 22018 ... 033). Ho notato precedentemente che anche nel caso dei cristalli di Solfo nativo, come in ogni altro di altre sostanze minerali, le STRIATURE con- genite rappresentano nei cristalli i decrescimenti multipli, e perciò ma- croscopici; ma quasi sempre interrotti o turbati nell’ obbedienza rigorosa alla loro rispettiva legge. Nei cristalli di Solfo, le strie di decrescimento raggiungono bene spesso ‘un cosi grande sviluppo, per esser fitte, profonde e ineguali, da doversi chiamare piuttosto solchi,.gradini, insenature parallele, e via dicendo; e da impartire un aspetto non di raro singolare, istruttivissimo, ai cristalli che le presentano. Sulle facce e' ordinariamente liscie e lucide, le strie sono talvolta pa- rallele agli spigoli lunghi, e' 6%. (es. 22025); peraltro possono dipendere da tremie incipienti, o da una moltitudine di piccoli rialzi longitudinali, allungati, smussati e tutti paralleli agli spigoli c. s. (es. 21840...871...887...22031 ecc.). La striatura più caratteristica, abituale, nei cristalli della collezione è parallela agli spigoli brevi (orizzontali o laterali) del rombottaedro; ossia, corrisponde, come nel quarzo, alle tracce di piani perpendicolari all’ asse principale (asse della zona 4'M g'). Può segnalarsene la quasi eccessiva manifestazione nei già citati alli- neamenti di ottaedri, ridottisi, per cause esterne direttrici o perturbatrici, o per esaurimento locale della materia sulfurea, a forma di pile irregolari, strette, lunghe e contorte, come le vertebre di una spina dorsale; e può vedersene la più rudimentale, o abortita, o deformata modalità in quelle specie d’ incisioni a tratti imperfettamente paralleli, o d’ infacchi lanceolari molto acuminati, finamente striati, nascenti presso lo spigolo di una faccia, per esaurirsi verso il mezzo di essa. Per es., nel grosso cristallo 22031, in- vece di vere strie orizzontali di decrescimento, ossia di ripetizione continuata delle sporgenze degli spigoli laterali ottaedrici, si osservano delle intaccature, orizzontali bensi, ma come tratti di bulino, i quali, profondi dove principiano, sono sottilissimi, invece, all’ estremità dove finiscono. E queste intaccature si fanno più fitte e meno nitide e parallele, verso la posizione dove una superficie rugosa, grossolanamente scabra e sagrinata, sostituisce la faccia e' (fig. 44). Il cristallo é traslucido, con veli e masserelle di bitume, con interne iridescenze, e con gruppetti di minori cristalli sovrapposti ecc., o di seconda formazione. Nel cristallo 22023, una faccia 64: ed una 6° sono striate, incise, intaccate in modo da potersi quasi qualificare come dama- schinate, per l’aspetto loro di insieme, di cui tento dare l’idea colle fig. 50, 51. — 2603 — Ancor più singolari sono i solchi e le intaccature che si vedono sulla faccia 54, assai estesa, nel cristallo 22031; solchi che si continuano nella posizione che sullo spigolo contiguo piglierebbe un troncamento e. La fig. 53, riproduce il carattere dei detti solchi, e la condizione dello spigolo, che ne viene interessato. Queste particolarità, cui 1’ es. 22030 porta un documento istruttivo, ricordano benissimo le analoghe del quarzo detto cariato, sia per le deformazioni di massa, sia per le solcature a strie parallele, saltuarie, intermittenti, acuminate ecc., che vi si coordinano. Le intaccature sulle facce, sì possono considerare come casi o modalità speciali delle striature per decrescimenti. Negli es. 22027 ... 032 (fig. 43), si vedono assai istruttive e distinte, somigliano alle tacche che farebbero lievi e brevi colpi di bulino sopra un legno compatto. Il fenomeno delle SAGRINATURE 0 PUNTEGGIATURE, per lo più in incavo, sulle facce dei cristalli di Solfo nativo, pare assai più frequente sulle facce pinacoidi, basali, che non sulle altre ottaedriche. Vi si può distinguere la sagrinatura a onde flessuose qualche volta interferenti; a punteggiature in- cavate; a strie intrecciantisi con determinato angolo, in due dominanti si- stemi (es. 22018 ... 22023). In ogni caso, l’ aspetto delle facce sagrinate e punteggiate fa nascer l’idea di una mite azione dissolvente, sulle facce medesime, per opera di liquidi sufficentemente idonei ad esercitarla. Ne dà bellissimo esempio l’es. 22018, rappresentato al naturale dalla fig. 45; nel quale l’ ampia faccia pinacoide basale, é tutta bucherellata da incavi, generalmente pic- colissimi, ad orlicci tortuosi, reticolati, uniformi, ma con qualche incavo più profondo; segnatamente presso uno degli angoli piani; sempre a con- torno circolare ed a fondo concavo. Questo modo di punteggiatura, visto colla lente, fa ricordare quello dei ditalini per cucire. Le facce ottaedriche, e quelle del domo e', convergenti alla stessa pi- nacoide, sono poi così solcate e striate perpendicolarmente agli spigoli ter- minali che le limitano superiormente da confermare, senza dubbio pos- sibile, la spiegazione della loro modalità in ordine ad attività dissolventi consecutive. Le strie, le solcature furono prodotte evidentemente da rivo- letti liquidi erosivi, discendenti dalla faccia terminale sui loro declivi; e con tale uniformità e regolarità da far nascere il sospetto che questo cri- stallo, ricevuto direttamente con tanti e tanti altri, dall’ amministrazione delle miniere, sia stato artificialmente trattato con solfuro di carbonio, o non saprei con qual’ altro fra i liquidi capaci di attaccare il Solfo cristal- lizzato. A tranquillizzare in proposito credo valgano gli es. N. 22020, 22021 (fig. 46, 47), nei quali le facce pinacoidi sono assai più profondamente in- = Bel taccate, scavate ad alveoli, irregolari, con crosticelle e orlicci più rilevati e capricciosamente disposti, che non quella descritta dell’ es. 22018; mentre Je faccie ottaedriche convergenti vi sono perfettamente illese, per la mas- sima parte della loro superficie; anzi nel cristallo 22021 son corrose, ine- guali e scabre le superficie delle due opposte facec basali; e son liscie, assai nitide, le ottaedriche inferposte. Nel bel gruppo d’individui iso-orientati N. 22022 avvi pure una notevole modalità di sagrinatura; le facce ottae- driche dei cristalli più in vista, una diecina circa di poliedri più o meno isolati e sporgenti dalla massa, sono liscie, lucentissime; ma quasi tutte presentano una speciale poliedria (può darne idea la fig. 48); poliedria, che si presenta pure distintissima sulla e', assai estesa presso la pinacoide basale del cristallo più voluminoso (fig. 49). Di più le troncature prodotte dal domo e' dall’ ottaedro 6°, sono appannate, scabre, come se finite con lievi tratti di lima; e colla lente si scorge che parecchie di esse risultano di tre faccettine lunghe e sottili, le quali, se fosse possibile il misurarne le incidenze, forse potrebbero passare per tre forme ottaedriche ottuse, 0° compresa. Ciò premesso, osserviamo che la faccia basale superiore, del maggiore individuo del gruppo, é tutta improntata da piccole e uniformi areoline eir- colari, alcune quasi ellittiche, a giri concentrici degradanti, con finissime strie irraggianti dal fondo all’ orlo (fig. 50); ma tutte cosi tenui e di tanto minima concavità, da richiedere, per esser viste, la riflessione sulla faccia di una luce un po’ viva. Anche sulle pinacoidi basali dei cristalli minori si ripete il fatto; ma con alveoli in generale più scarsi e più pronunziati. Sulle facce ottaedriche, e indifferentemente sulle 2%, e 0°, vedonsi fre- quentissime quelle incisioni, intaccature, soicature, ecc. che contornano gli strati ultimi di accrescimento e di esaurimento cristallogenico, strati in- completi, a limiti dentellati, ineguali, trascurabili. Nel gruppo 22019, tutte le cinque facce basali più ampie, piane e di- stinte, sono sagrinate per finissima e uniforme punteggiatura. Impronte e depressioni lievissime, a concavità circolari, liscie, lucenti; ovvero, a gra- dini irregolarmente sinuosi, sulle facce. — (Es. 22039 ... 049). Tremìe per decresci- mento regolare. — (Es. 22050 ... 067). Giungiamo così alle DEPRESSIONI lievi, isolate, scarse, ma interessanti a studiarsi, come rivelatrici di speciali azioni, accompagnanti la formazione dei cristalli, sopratutto le ultime fasi del loro sviluppo definitivo. Sembrano impronte superficialissime, quali verrebbero prodotte da mi- nime placche piane, pesanti, su di una superficie molle, donde poi si sepa- rassero. Hanno contorno quasi circolare su qualche faccia; ma in generale — 765 — quadrilatero, più o men curvilineo, con fondo piano o concavo, lucen- ‘tissimo ; ed i cristalli 22033 ... 22038, (fig. 51, 52 e 53) ne sono esempi eccellenti. , Compariscono indifferentemente sulle faccie di diversa specie, ottaedri- che, pinacoidi, e di domi. Il loro diametro, supera raramente i due millimetri. Sono superficiali, ma ciò non esclude che ve ne sieno di interne, più o men vicine alla faccia attraverso la quale si scorgono ; ciò che prova la contemporaneità della causa efficiente e del processo cristallogenico attivo. L’es. 22035, presso la faccia basale di uno dei due maggiori cristalli, faccia sparsa di parecchi incavi, ne presenta uno distintissimo, sottostante, con areola circolare e vacuo quadrato centrale (fig. 54). Sul fondo concavo, o piano e lucido, degli incavi c. s., sì può osser- vare talora un sistema di onde concentriche, (fig. 55, 56), ovvero un altro incavo più piccolo — ciò che fa escludere sempre più, come causa, l’ urto di spruzzi liquidi. Talora invece vi sì scorge un poco di bitume. Ritengo queste depressioni, o cavità curvatamente poligone dipendenti da piccolissime goccioline di soluzione satura di salmarino, con idrocar- buri sospesi; le quali, lasciate da veli liquidi sulle facce dei cristalli di solfo, negli ultimi momenti della loro costituzione, e rimaste isolate per ragione di capillarità, essendo incapaci di bagnare la superficie del solfo cristallizzato, avrebbero momentaneamente impedita, nell’areola da esse coperta, la deposizione dei veli ultimi di accrescimento ; mentre un cristal- lino di sale si sarebbe. formato, in parecchi casì, rimanendo attorniato dalla soluzione, fino al completo prosciugamento. Non insisterò su talune disposizioni che presentano, quasi concentriche o corolliformi, le cristallizzazioni di solfo nativo, prodottesi entro fissure, o in una ristrettezza grande di spazio; può dirsi, per esse, che la sostanza cristallizzante si é adattata allo spazio più che ha potuto, sempre tendendo a produrre cristalli con simmetria regolare, monopoliedrica. Anche qui la fig, 57 risparmia benissimo lunghe e sterili descrizioni. Eccoci alle TREMIE. Questa particolar condizione delle facce, incomincia a manifestarsi ne’ cristalli di solfo, specialmente di Romagna, con tenuis- sime depressioni a margini irregolarmente disegnati, tortuosi, frangiati, e concentrici, di numero vario nei vari casi, per lo più ad insieme ellittico o dissimmetrico (fig. 58, 59, 60; es. 22046 ... 047... 048). Sono rudimenti di tremie ; sono brani, o residui di veli reticolari, fatti progressivamente incompleti da deficienza, da esaurimento di materia solfurea, cristallizzante; par che questi estremi veli superficiali, di massima esilità visibile, si sieno lacerati nelle aree centrali, sempre più largamente. Non di raro una ri- stretta cavità centrale le collega viemeglio alle vere tremie. Naturalmente qui non hanno che fare i vacui poliedrici che si adden- — 7660 — trano nei cristalli in seguito a preesistenti compenetrazioni di individui i quali dopo si distaccarono definitivamente. Due eccellenti esempi di queste vere tremie, rispondenti ambedue, seb- bene con diverso modo, al tipo astratto del decrescimento negativo, ovvero dell’ effetto di un preponderante aumento di reticoli presso gli spigoli delle facce, sono offerti dagli es. 22052 e 22053. Il. primo è assai piccolo, come rilevasi dalla fig. 61, che rappresenta quest’ ottaedrino al naturale; ed è tutto costruito da ottaedrini minori, più o meno in rilievo, allineati in file, con compenetrazioni continue, e con dipendenze laminose, iso-orien- tate. I singoli ottaedrini sono disposti come meglio si. discerne nella fi- gura 61 bis (ingrandita). Tutte le otto facce sono incavate da tremia siffatta; se non che le inferiori sono incomplete essendo il cristallo impiantato nella ganga. Questa é ricca di bitume, ed anche il cristallo ne é velato ed intriso. Il secondo es., invece è grande, e può dirsi colossale, stando alla media dei cristalli di queste vicine zolfare. La fig. 62 lo presenta impiccolito di circa la metà in rapporto all’ asse verticale. In esso grandi e vasti i gradini, ripetute all’ evidenza le facce 5% esclusive; profonde le cavità discendenti, . ed assai regolare, sebbene non completo, l’ insieme. L’ es. 22050, é un gruppetto di cristalli 6% P 6% e', sopra ganga inzup- pata di bitume, dei quali i quattro più grossi hanno tutte le loro facce scavate più o men fortemente da tipiche ed eleganti tremie. Uno di questi è disegnato nella fig. 63. Analogo l’ es. 22051, con cristalli c. s. su di una crosticella arcuata di solfo cristallino, diafano ma bitumizzato. L’es. 22068 porta un cristallo con tremia al vertice di un rombottaedro ottuso, dalla quale sorge un minore cristallo della stessa notazione (fig. 64). Parecchi altri casi sono concretati da esemplari scelti in collezione (N. 22055 ... 067), con incavi sulle pinacoidi, sulle ottaedriche, sulle e' ecc.; ma non reputo utile darne speciali notizie; essi sono d’ altronde, osten- sibili in permanenza. Evidentemente una correlazione esiste fra le tremie dei cristalli e le iso-orientazioni dei loro aggruppamenti. Peraltro, nelle tremie ben circoscritte e centrali nelle facce, si palesa nella sua pienezza di significato, come causa diretta, il graduato e finale esaurimento del processo di sovrapposizione dei veli reticolari, col predo- minio di attrazioni in corrispondenza degli spigoli. Increspamenti e rilievi lanceolari, Anche in questi cristalli di Solfo, 1’ apprezzamento giusto del fenomeno dei rilievi a guisa d’increspamento sulle facce, che in altre occasioni dissi — 767 — lanceolari, deriva dai confronti istituiti con altri simili casi, e dalle ana- logie che ne risultano. I magnifici rilievi lanceolari sulle facce di tanti e tanti cristalli di quarzo porrettano, o di Calcite prismatica e di Baritina del Cumberland, sui grossi individui lenticolari di Selenite del Bolognese ecc. (*) alutano a ravvisarne la ripetizione, più modesta e rara, ma sempre inte- ressantissima, anche sulle facce dei nostri preziosi cristalli. Il significato | ne è sempre lo stesso : rappresentano il portato di attrazioni, dello stesso ordine di quelle della capillarità, esercitantisi sugli ultimissimi veli reti- colari di particelle, e nell’ estrema fase di accrescimento, sulla superficie dei cristalli, per parte delle orlature in rilievo parallele agli spigoli; pa- rallele, cioé, ai margini rettilinei delle facce; quivi le particelle poliedriche dei veli reticolari, già attirate sulla faccia del cristallo dalle forze orienta- trici, sono pure attirate dai rilievi marginali, ed ivi sollevate, a guisa di menisco, come lo sono le particelle liquide dalle pareti di un recipiente che ne è dagnato. Quelle onde, o crespe solidificate; quei rilievi lanceolari sono veri menischi concavi, ma interrotti e frastagliati, fatti a strascichi, con gradinate concentriche di estrema tenuità, in ragione della costituzione cristallina, della fisica solidità inerente ; i solchi, gli strascichi, non diretti nel senso della attrazione attivatasi, rassomigliano talvolta alle figure ra- mificate dette di viscosità, facili ad ottenersi interponendo una sostanza pastosa, viscida, fra due piani - per es. due lastre di vetro - e poi separando questi piani senza che struscino uno sull’altro. La particolarità cui è parola può dirsi rara, anzi eccezionale fra i cri- stalli cospicui di solfo nativo. Tuttavia il grosso es. 22021 offre una fac- cia c. s., con forti increspature curvilinee, arcuate, quasi parallele, e con- centriche. CAPITOLO V. I geminati, nel Solfo nativo cristallizzato. —- (6 Es. 22073 ... 078). L’ evidente tendenza dei cristalli di solfo di Romagna, nei loro aggrup- pamenti regolari, verso la perfetta iso-orientazione costituisce un criterio a priori per prevedere scarsi i geminati, fra i cristalli medesimi. E tale pre- visione è anche giustificata dal fatto che nei cristalli di Solfo di ogni lo- calità o giacimento, che finora si studiarono, non si rinvennero che ra- rissimi casi di vera geminazione; quelli di Girgenti e di Lercara in Sicilia, scopertivi, rispettivamente, dallo Scacchi e dal Weser; ed uno in un (*) Bombicci — Sulle guglie conoidi nei cristalli di Quarzo ecc. Correlazioni loro con i rilievi lanceolari. Mem. Accad. Bologna 1892. — 7608 — calcare di Conil, pr. Cadice, osservato dal Von Rath e dal Busz. Que- st’ ultimo caso è offerto da un cristallino di circa 5 mm. di lunghezza, di abito prismatico per distorsione secondo una delle due zone del rombot- taedro; é geminato secondo la legge (101), piano di geminazione e di ac- crescimento del cristallo. Quattro soli esemplari vi si riferiscono in tutta la serie di cristalli di solfo nativo del Museo ; e solo in tre di questi posson dirsi accertate due leggi di geminazione propriamente dette. Peraltro, esse leggi di geminazione, sono confortate non solo dalle misure goniometriche, ma ben anche dalla loro intrinseca semplicità e naturalezza. In un caso la legge co 111, — nuova, pel Solfo — è la semplice unione di due cristalli pel combaciamento di due facce eguali ottaedriche (fig. 65); (es. 22073 4 mm. asse). È dunque un caso di vera emitropia, se il piano co 111 venga supposto secante un ottaedro, passando pel centro, e parallelo a due facce opposte di essa forma. In un secondo caso, i due cristalli si toccano simmetricamente con due spigoli omologhi culminanti, quelli del brachidomo 011 (e'). I rispettivi assi principali restano nel medesimo piano, con i due assi, o parametri secondari, i quali vengono a contatto colle loro inverse estremità. La legge è dunque co e' (0 011), e il geminato può riferirsi, come nel caso pre- cedente, all’ emitropia, cui sarebbe piano di unione la sezione co ad e, passante pel centro del rombottaedro (fig. 66, es. 22075). A questa legge si avvicinano, o almeno pare, le unioni fra i rombot- taedri, assai grandi (mm. 20 ... 25 di asse, circa), ma scabri, impuri e verdognoli, dell’ es. 22077. Se non che la appannatura delle facce, insieme alla mancanza di pianità, toglie la desiderabile certezza. Questi pochissimi cristalli geminati di Solfo nativo, della collezione romagnola sono poco nitidi, lunghi da 5 ....7 mm., di color giallo-citrino ed appena traslucidi. Le iso-orientazioni con paralellismo esatto dei loro elementi omologhi. — (45 Esem- plari 22079 ... 128, di grande e medio formato). Nell’ idea giusta, sebbene astratta, della fisica costituzione dei cristalli, ciascun cristallo sì compone di un numero grandissimo di particelle fisiche, tutte orientate identicamente fra loro e tutte fra loro equidistanti, nei casi più semplici e normali. E dovendo ammetterle poliedriche, in ragione di evidenti risultati di teoria e di esperimento cosi convien concepirle, neces- sariamente, tutte disposte in guisa da aver le facce omologhe parallele fra loro, qualunque sia la regione omogenea della massa cristallina che costituiscono. ME In ogni cristallo può intuirsi perciò un esempio di iso-orientazione. La ‘pianità tipica delle facce ne da la conferma, insieme a quelle loro parti- colarità superficiali che tanto spesso conducono un cristallo ad essere, visi: bilmente, un aggregato regolare di moltitudini di cristallini piccolissimi, compenetrantisi fra loro, e riuniti qua e là in poliedri più estesi e distinti. Oltre agli esempi d’ indole microscopica, altri ne sussistono fabbricatisi macroscopicamente e veramente classici per tale concetto. Il solfo nativo di Romagna ne offre spesso splendidi saggi. Tali sono indistintamente quelli della serie sopra citata, senza dubbio una delle più scelte e ricche finora radunate. Negli es. più istruttivi, l’ insieme dell’aggruppamento dei molti cristalli iso-orientati ricorda la forma del rombottaedro, con o senza modificazioni (fig. 27 e 27 bis) prese dagli es. 22081 ... 22120; salvo le interruzioni, vacui, spazi intermedi ecc., che facilmente si sopprimono coll’ immaginazione; ed é notissimo che disposizioni dello stesso genere, derivanti da cause identi- che, possono trovarsi prodotte dalla massima parte delle sostanze che cristallizzano, naturali o artificiali che sieno. CAPITOLO VI. Le sfaldature e le fratture nei cristalli omogenei e puri di Solfo nativo (18 es.). Laminette piane, esili, sovrapposte, parallele e in parte aderenti alle facce d/.. Dell’ottaedro primitivo (es. 22133 ... 158). Le fratture caratteristiche dei cristalli di Solfo nativo sono ineguali, confusamente e irregolarmente concave e convesse, ondulate, analoghe a quelle delle masse vetrose o di sostanze amorfe, indurite, colloidali. Pare che vi manchi la sfaldatura propriamente detta, quale suole prodursi ge- neralmente nei cristalli, con pressioni, tagli o urti meccanici artificiali. Tuttavia si citano tracce di. essa, parallelamente a g', dal Delafosse; dal Dana, e cod da Dufrenoy. In verun modo mi è stato possibile di produrre, nei cristalli di Roma- gna, la sfaldatura co M, indicata come relativamente facile dal Dufrenoy, ma non da altri autori. Non è difficile il poter distaccare dalle facce di certi cristalli lamine più o meno esili, a piani paralleli; come si distaccherebbero, dal rombottaedro primitivo, lastre parallele di vera sfaldatura, se questa vi sussistesse. Ov- vero, posson vedersi distese e in parte saldate, sulle facce 2‘, sottili la- minette piane dello stesso simbolo. Sono da considerarsi perciò, fino a prova in contrario, queste lamine sottili, quali sistemi di reticoli piani, paralleli alle facce 2 del rombot- Serie V. — Tomo IV. 97 — 770 — taedro primitivo, ma non aderenti, non saldati alle loro superficie; e perciò teoricamente corrispondenti a lamine di sfaldatura. Per dar giusto il concetto di questa particolarità di struttura cito l’es. 22133; nel quale si vedono distintissime le lamine piane e sottili, parzialmente divise dal piano parallelo alla faccia 5, su cui riposano aderendovi, e limitate su questo piano da faccettine 2% e 5%, ridotte sotti- lissime e presso che lineari. ! In quasi tutti i cristalli di color verdastro, più o meno bituminiferi, con aree limpide, interrotte da fissure, diffusioni, ecc., può notarsi una strut- tura ben distinta, a lamine vicine e parallele fra loro, di simbolo d'a. An+ che in tali casi (es. 22138 ... 140) é simulata la sfaldatura normale. Il cristallo 22134 offre altresi fratture concoidi, con aree recanti le stria- ture speciali di sovrapposizione. Considerando adesso le fratture per urto, che vorrei dire fraumatiche di questi cristalli, credo basti all’ uopo il brevissimo cenno descrittivo dei quindici individui raccolti in una serie apposita, (N.' 22141... 22158), e la facil deduzione che #uffe si mantengono indipendenti da qualsiasi piano di sfaldatura reticolare, sebbene spettino alle direzioni di tutte le coppie di facce similmente orientate. 1° Es. Magnifico cristallo, grosso, limpido, verdognolo, distorto (zona 6, 6: P), in parte costituito da tre individui isorientati, e in 'parte con superficie a gradini e orli di contatto. Ampia frattura concoide, nitida, lu- cida, a finissime onde concentriche, tutte comprese sulla faccia 8 do- minante. 2° Parte di grosso cristallo 6% 6% P, puro, limpido, con interne fissure iridescenti. Frattura nella direzione prevalente co P. Ondulata, in parte concoide; liscia, lucida; lucentezza grassa-adamantina. 3° Gruppo di cristalli iso-orientati, limpidi, distorti, con veli di bitume ecc. Frattura concavo-elicoide, sopra una faccia dA. 4° Es. con sfaldature presso che parallele 0%. 5°... 8° Frammento di grosso cristallo, con faccia e' assai estesa. Frat- tura distintamente concoîde, in direzione quasi parallela ad essa faccia. 9° Cristallo incompleto limpido, è" 6% e g', con ampia frattura imbuti- forme, nella direzione co g'. 10°... 11° Metà di grande cristallo, con ampia superficie di frattura ad onde, gradatamente curve, e in parte concoide, liscia, lucente ; diretta co hl. 12° Parte di cristallo, con vasta superficie c. s., ad onde larghe concen- triche, circolari; diretta essa pure co Al. 13° Grosso cristallo incompleto, limpido, con frattura ineguale, quasì parallela 5°. 14° Parte di bel cristallo con frattura c. s. — M1 — 15° Frammento con frattura quasi parallela M. 16° ... 18° Cristalli con superficie di spezzatura variatamente orien- tate, ma tutte inegualmente curve, a onde e disposizioni concoidali, senza tracce di sfaldature piane, di simbolo determinabile. Le sovrapposizioni ed i rivestimenti operati da straterelli cristallini di solfo nativo, sovra le facce di cristalli maggiori, pure di solfo, preesistenti. — (Es. 22119 ... 127). - Il fenomeno che qui considero è affine a quello delle iso-orientazioni. Ne differisce tuttavia in questo senso, che, nelle iso-orientazioni, dirò clas- siche, tutti gl’ individui concorrenti sono della stessa, identica formazione, della stessa identica fase. Sono tutti contemporanei nel largo significato cristallologico (mi sì conceda l’utile neologismo), dell’ espressione. Uno vale 1’ altro! Invece, negli esemplari della nuova serie ora in discorso, gl’ individui iso-orientati fra loro in un medesimo adunamento spettano a due distinte e consecutive fasi; a due tempi, cioé, di lavoro cristallogenico, fra loro più o meno distanti. L’ es. 22119, presenta un gruppo di cristalli tabulari, per la predomi- nanza delle pinacoidi P, ed iso-orientati, di spessore variante fra circa 2...3 mm. nei due più distinti e di assoluta, mirabile limpidezza; sopra queste due lastrine sorgono, specialmente da una parte, numerose pirami- dine, e piccole gradinate di decrescimento, sempre con iso-orientazione evidente, ma poco nitide e solo traslucide ; mentre altre piramidi e cristalli quasi completi stanno ai margini delle lastrine diafane, alla loro volta senza nitore e senza trasparenza. Questo es. ha il pregio di presentare traspa- rentissima una placca sottile di solfo 001, ciò che è molto raro, tanto più che le facce basali, pinacoidi, mancano poi quasi totalmente sulle piramidi ivi concomitanti, salvo le piccolissime a gradini, ed appena sollevate sui piani di comune sostegno (dimens. dell’ es. mm. 15 X 20 x 35). Se nell’ es. ora descritto la posteriorità di fase della genesi dei cristalli piramidati e traslucidi sulle lastrine limpide era dimostrata, sia dalla po- sizione relativa dei cristalli, sia dal diverso grado di trasparenza e colore, nell’ es. 22121, è dimostrata invece da differenza di colore, di abito, e in parte dalla disposizione indipendente. L’ es. è un gruppetto di lucenti cri- stalli di color giallo-miele carico, la cui limpidezza è nascosta da profonde strie e pellicole di accrescimento, adiacenti sulle 6%; cristalli distorti, mul- tipli, non esattamente orientati, cui aderiscono altri cristalli, o isolati, o distanti; i quali da una parte, per iso-orientazione e passaggi graduati, si immedesimano con i più grossi sopraindicati, mentre dalla parte opposta formano un confuso aggruppamento che, senza orientazione speciale, forma un cumulo sui cristalli di prima formazione. — 772 — Nei successivi esemplari, il solfo cristallizzato in grossi ma incompleti ed imperfetti cristalli, imbevuti di bitume, di color verdastro, con interni riflessi e iridescenze per estese screpolature, o per avvenuta disgiunzione nei piani di accrescimento, si vede ricoperto interrottamente da strati o da intonachi di minuti ed imperfetti cristallini, confusamente accumulati su talune facce. Anche il magnifico cristallo 21986 dà bell’ esempio di questa particolarità. Il grossissimo e limpido, ma incompleto cristallo (0% è°% Pe), sostiene cin- que piccoli cristallini, 6% Pe, traslucidi, assai regolari; dei quali due po- sati e iso-orientati sulla pinacoide P; gli altri tre, aggruppati irregolar- mente sopra una è, a poca distanza dai primi. I rivestimenti dei cristalli di solfo per opera di veli, o pellicole, o crosticelle, into- nachi ecc., di altre e diverse sostanze. — (Es. 22159... 175). Come nelle miniere di Sicilia, cosi in queste di Romagna accade non di rado di trovar coperti da esili crosticelle, da pellicole cristalline, unite, traslucide, i grossi cristalli e i gruppi di solfo nativo. Nel maggior numero dei casì, i minerali costituenti tali pellicole sono : CALCITE pura ; CELESTINA ; QUARZO. Alla luce viva, accade di vedere tali pellicole tutte lucenti come raso, o punteggiate da cristallini microscopici luccicanti, iso-orientati; ed è gene- ralmente facile il distaccarle dalle facce cui aderiscono, le quali sono, quasi sempre, molto nitide e specolari. Ne ho tenuta distinta una serie di 17 belli esemplari, de’ quali darò un cenno rapidissimo : Negli es. 22160 ... 172... 174, i cristalli di solfo sono intonacati da cro- sticelle o pellicole di calcite biancastra, che può parere gialliccia per tra- sparenza, sulle faccie gialle sottostanti. Gli es. 22172 e 22174, sono voluminosi assai, il primo con un folto adu- namento di cristalli, sulla convessità di un blocco di ganga calcarea; ed i cristalli sono completamente incrostati, tranne dove furono scoperti per il casuale distacco di una parte della pellicola avvolgente; il secondo, più voluminoso, è geodiforme ; i cristalli per la maggior parte incompleti, of- frono alcune facce coperte dalla pellicola di calcite ; e questa consiste, sia in un velo cristallino, sottile, traslucido, uniforme; sia in un aggregato di piccoli scalenoedrini, fusiformi, con i loro apici sporgenti e divergenti a mazzetto. Talune pellicole cristalline di calcite si vedono separate dai cri- stalli di solfo, pur attaccate alle sporgenze dell’ esemplare nelle vacuità fra i cristalli medesimi; come se si fossero staccate e spostate dalle facce rispettive prima che il lavoro di rivestimento fosse del tutto esaurito. L’ es. 22164 offre il rivestimento di calcite, sopra una parte di un cu- RIS rioso aggregato di gruppetti cilindroidi, contorti, irregolari, di solfo nativo. I gruppetti, più o meno allungati, isolati, e prevalentemente paralleli fra loro, si vedono per lo più saldati in masserelle appiattite, più che mai irregolari, dando all’ assieme una certa somiglianza colle configurazioni coralloidi o spongiformi. Probabilmente, dove si concretava con affrettata attività la cristallizzazione del solfo di quest’ es.; si svolgeva contempo-. raneamente del vapore acqueo, o della anidride carbonica. Il piccolo saggio 22165 da l’es. dei rivestimenti prodotti da intrecciamenti confusi di prismetti brillantissimi e limpidi di Celestina. Altri prismetti sca- turiscono qua e la dai cristalli di solfo; mentre, sulle facce, dalle quali si distaccarono le crosticelle di celestina, restano le impronte caratteristiche. ‘Gli es. 22166... 173, e quelli della serie 22971 ... 976 hanno il rivesti- mento di quarzo microcristallino, in sottili pellicole biancastre, o in cro- sticelle distintamente costituite di cristallini dodecaedrici, di cui le piramidi sporgono e brillano, insieme a piccoli cristalli limpidissimi di Celestina, dallo straterello incrostante. L’ es. 22171 offre un bel gruppo di grossi cri- stalli di solfo con abito appiattito, tabulare, notevolissimo, incrostati c. s., e con ulteriore sovrapposizione di cristallini di solfo, sulle pellicole quarzose. Gli es. invece 22969 e 22977 presentano due casi di abbondantissima inerostazione; il quarzo micro-cristallino all’ esterno e la silice jalitica e calcedoniosa, direttamente avvolgente i cristalli, mascherano quasi la forma di questi. Tuttavia, rimane abbastanza visibile che essi sono trimetrici ta- bulari, del tipo frequente nella Celestina. Quarzo e jalite si distendono sulla roccia calcareo-marnosa, ricca di solfo, in intonachi, rilievi globulari allineati, creste curvilinee, restandone la sostanza quasi incolora e traslucida. Anche gli es. 22168 .... 169, sono ad intonaco siliceo; ma questo, bianchiccio, tenue come patina data col pennello, è jalitico, opalino,* non quarzoso. Al microscopio si vede caratterizzato da una distesa di mam- melloncini amorfi, minutissimi, traslucidi, otticamente inerti. I cristalli in- tonacati sono limpidi, assai grossi, a tremie, in parte rotti e denudati. Il mediocrissimo es. 22166 stà nella serie soltanto per rappresentarvi il caso delle disposizioni siliceo-opaline, o bianco-farinacee, jalitifere, sui cri- stalli di solfo, delle quali, nella grande serie dal N.° 22958 al N.° 23020 si hanno i migliori e numerosi esemplari. Infine, presenta pur incrostati da pellicole quarzose, uniformi, traslucide e microcristalline, i suoi grossi e bei cristalli tabulari, il magnifico saggio portante il N.° 39391. Si può tener conto, anche in questo capitolo, della presenza, nelle geodi, e sulle pareti cristallifere della Perticara, di cristalli isolati di solfo, so- stenuti leggermente da esili crosticelle di Calcite micro-cristallina; facili a Ae staccarsi, ma non a conservarsi illese, essendo friabilissime. I cristalli di solfo sono assai regolari, in generale piccoli (2...5 mm. di asse), ma talvolta più voluminosi e multipli (V. Cap. VII). Iridescenze sulle facce. Colorazioni varie, intrusioni, filtrazioni, patine, inclusioni, ecc., nei cristalli di Solfo. Soli tre es. presentano una discreta IRIDESCENZA, a riflessi verdi preva- lenti sulle facce ottaedriche (N.° 22240 ... 2.42). Cristalli di color verdastro, traslucidi. - (Es. 22176 ... 206). - La tinta verdastra, somiglia perfettamente a quella che vedesi per fiuorescenza in certi petrolj di color rosso-aranciato cupo; ma le loro lamelle non presen- tano tracce di dicroismo alla lente dicroscopica, né diffusioni risolvibili al microscopio. Sogliono essere voluminosi, con assi principali da 3...8 centim., colle più frequenti combinazioni. 6% 6% P, e 8": 5°; talvolta con e'; general- mente con forti distorsioni e abito prismatico clinoedrico. Ho già ricordato, per la sua splendida limpidezza, e vivacità rifran- gente, il cristallino dell’ es. geodico 22367. - Cito, per la stessa ragione les. 22601 con un cristallino pure fulgidissimo, piccolo molto distorto sopra un blocco voluminoso con vacui geodiformi, di forma d'. Si hanno poi belle varietà e grandi es. di solfo in cristalli di color giallo-miele, giallo-aranciato, giallo-fulvo (Es. 22207 ...214), per lo più di seconda formazione, copiosamente ma confusamente distesi o aggrup- pati sulla marna grigio-cenerina, compatta. Sono altresi notevoli gli es. con due ben distinte colorazioni coesistenti, giallo-citrino-normale, rosso-aranciato-carico, inerenti a masse cristalline, o cristalli, di grande limpidità, di apparente omogeneità di struttura, e stret- tamente unite, quasi compenetrate fra loro, tuttavia cosi diversamente e distintamente colorate (22215 ... 239). Essi debbono queste colorazioni a lievi diffusioni di sostanza bitumi- noide. Può escludersi, come causa, una modificazione strutturale, prodotta da maggiori temperature essendo troppo intima e non rara, l’unione delle var. così colorate con altre di tinta chiara, normale. Inclusioni nei cristalli di solfo. - C’ é da dir poco su questo propo- sito. - Fin ora si rinvennero inclusioni grossolane, inquinatrici, e visibi- lissime ad occhio nudo, attraverso spessori di più millimetri, di materie argillose, di marna, e di bitume; ma non si presentarono fin qui altri esempi di inclusioni di liquidi con bollicine oscillanti che quello del pic- dad o) I colo cristallo appiattito del N.° 21976; mentre furono visti dal Prof. Sil- vestri, nei cristalli di Valguarnera, provincia di Catania, parecchi cri- stalli distintamente aeroidri. Tuttavia, questo risultato, pressoché negativo, non ha valore assoluto, e può esser contradetto da ulteriori ricerche. CAPITOLO VII. Solfo concrezionato, stallattitico; incrostazioni solfuree, cui aderiscono altri gruppi di cristalli. — (Es. 22243.... 246). Solfo in cristalli di consecutive formazioni, sulle marne frammentate, o brecciformi, screpolate e consolidate successivamente. — (Es. 22247 .... 271). Per le concrezioni e le stallattiti, si tratta di esemplari ordinari, medio- crissimi, senza altra ragione d’interesse che l’ aiuto che può derivarne per riconoscere la relativa età delle cristallizzazioni cui si accompagnano, e la natura dei fenomeni locali perduranti. | È sempre l’attività chimica, idrotermale, negli spazi del giacimento solfifero, 1’ elemento primo di tali modalità, e talvolta operante a tempe- rature bastevoli per volatilizzare il solfo, per liquefarlo, per produrre cro- ste, patine, stallattiti; alle quali temperature non sono estranee le com- bustioni lente, gl’ incendi durevoli del minerale, nelle gallerie o nei cantieri. Se si esaminano gli esemplari recanti i numeri qui sopra trascritti (marna grigia, cosparsa di cristalli di solfo) e raccolti in copia alla Par- ticara, a Formignano, ecc., e si confrontano con tutti gli altri, pur di ganga marnosa e solfifera, scorgesi subito questa differenza : i cristalli de’ primi sono quasi opachi, deformati, appannati, minutamente multipli, ma con divergenze. continue dalla iso-orientazione, disposti in sistemi appiattiti, 'o distesi sulle superficie di frattura della loro ganga; mentre gli altri, delle condizioni solite di giacitura, sogliono essere limpidi colle facce abitual- mente lucenti, a gruppi iso-orientati, e con una facies loro propria e carat- teristica. Tali differenze dipendono dall’essere i cristalli di cui si tratta - di se- conda, o di consecutiva formazione - rispetto a quella del deposito iniziale e normale del rispettivo terreno solfifero. Le cristallizzazioni speciali, ora accennate, derivano dalla. perduranza di attività idrotermali, di filtrazioni dissolventi copiosamente i cristalli di solfo che gia si erano formati, e riproducenti nuovi cristalli, colla materia dei gia distrutti. Questo lavoro ha la sua sede di esaurimento nelle fissure di rocce rimaneggiate, disgregate, e poco a poco riconsolidate. Fu aiutato sua dal concorso di solfuri alcalini solubili, e di sensibili movimenti del suolo, dimostrati in quel giacimento dai crepacci, dai distacchi, dagli spostamenti e dalle risaldature grossolane delle scaglie rocciose. Al solfo si accompa- gnano il calcare, con cristalli di calcite, la silice gl’ idrocarburi bituminoidi ; ed io credo che il solfo siasi precipitato assai rapidamente, allo stato a- morfo ; e che siasi successivamente fatto cristallino, con gruppetti di cri- stalli ben distinti ed anche voluminosi, in un lunghissimo periodo di tempo, mercé un lavoro estremamente lento delle attività molecolari. Una temperatura notevolmente elevata, e vicina - grado più, grado meno - a 100° c., può aver coadiuvato efficacemente la attitudini dissol- venti o dissocianti, e poi cristallogeniche dei vapori acquosi e solfurei, e delle soluzioni solfureo-calcaree e solfureo-alcaline, in quella fase di lo- calizzata idrotermalità mineralizzatrice. Debbono pur citarsi, in ordine a queste stesse considerazioni, i cristalli, che generalmente, piccoli in confronto ai più comuni e copiosi, tuttavia con 2.... 10 mm. di asse, assai regolari, di bel color giallo, in generale poco trasparenti, con lucentezza rasata sulle 6‘, e poveri di faccette secon- darie, si vedono aderenti sopra esili crosticelle di calcite finamente cristal- lina, imbevute di bitume e perciò di color bruno, cupo ed appena traslucide (Es. 22281... 22318... 340; ovvero sopra concrezioni brune, screpolate, alte- rate, terrose in parte, nelle quali i cristalli di solfo, talvolta grossi, più o men distorti, con tremie più frequenti sulle pinacoidi basali, poco trasparenti, pochissimo lucidi, stanno incastrati, quasi direbbesi incastonati, fra le ir- regolari sporgenze delle ganghe suddette. I circa 60 es. trascelti per la collezione sono più che sufficienti a dar idea di questa special condizione, essa pure derivante da un lavoro cri- stallogenico consecutivo, capace di riprodurre il carbonato di calce dal polisolfuro calcico in soluzione, di far cristallizzare lentamente il solfo, aiutando la separazione dei cristalli colla materia bituminosa di deposito contemporaneo. In tutti i cristalli di questa serie, le facce osservate sono: 5%, P, el, b°4. Delle altre possono esservi tracce; ma in ogni caso, in modo insignificante e trascurabile. CAPITOLO VIII. Es. geodiformi, in ganghe diverse, con rivestimenti di cristalli di Solfo, Calcite, Se- lenite ed inzuppamenti di bitume. — (Es. 22272.... 280... 22367). LI La modalità geodica é naturalmente frequentissima, abituale, nei giaci- menti solfiferi, dove le azioni chimiche corrodenti, le concrezioni accom- — N77 — pagnate da svolgimenti di vapori e di gas, le irregolarità di sviluppo e di andamento dei tramiti ascendenti, delle filtrazioni ed emanazioni verso la superficie, sono le principali e non sole cause di vacuità d’ogni fatta, e di spazi favorevolissimi per la costituzione di adunamenti cristalliferi, geo- diformi, appena le sostanze che gl’ invadono e li riempiono sieno in grado di depositare i prodotti definitivi del lavoro chimico che vi si sta compiendo. In generale sono i vacui, fra strato e strato, o fra letto e letto, che danno i migliori e più notevoli esempi di geodi a cristalli. - Le solfare romagnole ne offrono di splendide, sia con i cristalli predominanti o esclu- sivi di solfo nativo, (V. es. dei numeri più oltre citati), sia con altri di Celestina, di Aragonite o Calcite, di Selenite ecc. Peraltro la serie degli es. geodiformi, poco numerosa, ma ricca in com- penso di saggi molto istruttivi, abbelliti dalle cristallizzazioni eleganti di Calcite e di Celestina, ha per sola ragion di sussistere l’ opportunità tas- sonomica o didattica; imperocché radunando essa le cavità cristallifere che attestano l’ energia del lavoro idrotermale efficiente, facilita lo studio comparativo di questo lavoro, e la paragenesi dei singoli, diversi e rispet- tivi cristalli. Nella geode grande e bellissima del N.° 22602 (cent. 22 X 15 X 12), il rivestimento copioso di grossi cristalli, bianchi, jalini e distinti, devesi alla Celestina, le cui forme abituati, con qualche geminato, con rari ottaedri di solfo nativo, riposano sopra un precedente intonaco di calcite rom- boedrica. La geodina a calcite scalenoedrica del N.° 22367, presenta uno dei più fulgidi cristallini di solfo, della collezione. L’ abito suo è assai regolare, dominando 5°, in un colle Pd%. Vi si rifrange la luce con vivacissime tinte spettrali, e sta quasi isolato sui bianchi scalenoedrini del rivestimento, con cristalli di Celestina. Gli es. 22602 ... 612... 637... 642, la cui marna compatta, con: incavi e insenature, è tappezzata da cristalli bellissimi di Celestina, facevan parte di geodi magnifiche ma demolite pur troppo, per la necessità dello scavo. La elegante geode 22626 (cent. 6 X 10 X 15), offre pure interessantis- simi i cristalli di Celestina, con abito appiattito, quasi tabulare, dominando le g' sulle M, e‘, ecc. Invece, nell’ es. 40293, a ganga di calcare solfifero compatto, vedonsi grossi prismi della stessa Celestina che ricordano la prevalente modalità dei più copiosi e comuni di Sicilia. Nella geode, tipica, N.° 22274, un grosso, stupendo rombottaedro pri- mitivo di solfo limpido, sta incastrato in parte, nella cavità, con altri pic- colissimi di notazione esclusiva 0%. Finalmente il colossale es. 22368 é una distesa copiosissima e singo- Serie V. — Tomo IV. 98 BI a lare di gruppetti indeterminabili di cristalli multipli, distorti, irregolarmente intrecciati fra loro, striati, quasi opachi, e di un bel giallo-canario-chiaro, su di un grosso blocco geodico di marna compatta, solfifera. Oltre a questi pochi che designo, mercé i numeri rispettivi, moltis- simi altri potrebbero esser citati, spettanti a questa collezione bolognese. Ma sarebbe superfiuo. Merita speciale osservazione 1’ es. 22272 che è una stupenda geode, tutta di cristalli di solfo, collegati da bitume nero, vi- scoso, colante, con poca ganga calcarea incorporatavi, nella cui vacuità risplendono fulgidissimi cristalli di puro solfo, colla combinazione preva- lente - per quanto può scorgersi la dentro - 8" e' g! Pd%. L’ es. ha cent. 9 X 14 X 17 nelle sue tre dimensioni. CAPITOLO IX. La struttura sferoedrica dello Solfo nativo. — Es. 22369. Di questo bellissimo e prezioso es. (22369), diedi già la descrizione e la figura in una pubblicazione del 1891, sulle sferoedrie cristalline (*), e ne ho fatto menzione in qualche altra circostanza. - Riassumo perciò sempli- cemente le indicazioni caratteristiche, pur riproducendone qui la nuova fo- tografia (fig. 67). Consiste in un grosso e bel rombottaedro (cent. 6,5) quasi completo, al- quanto distorto; colla combinazione 5% 5° P (6% domin.). - Presso il piano degli spigoli laterali, aderisce ad uno spigolo del brachidomo, un globo di solfo puro (circa mm. 25 diam.) a struttura fibroso-raggiata, ti- picamente sferoedrica, ciò che si rileva da qualche lieve scheggiatura. Si trovano, adunque, riuniti, in uno stesso saggio, con dimensioni e regolarità eccezionali, la forma tipica più semplice, ottaedrica mono-polie- drica, e la più sintetica, o complessa, sferoidale-raggiata del solfo cristal- lizzato. L’ es. viene dalla miniera della Perticara. Canaletti attraversanti (22365 ... 366) 5 es. 22408 ... 22412. Capita qui a proposito di tener parola di una particolarità attinente alla genesi del Solfo nativo, e del processo suo di cristallizzazione. Trattasi di masse cristalline di Solfo le quali, costituendo irregolari ri- (*») Bombicci — Le gradazioni della sferoedria nei cristalli, ecc. Coesistenze nelle forme normalmente reticolari. Mem. Accad. 1891. - — 779 — vestimenti di alcuni pezzi di ganga marnosa e compatta, son tutte perfo- rate nel loro spessore da una infinità di canaletti, di pori e bucherelli tubulari, press’ a poco paralleli fra loro, e tanto fitti in diversi esemplari da rendere come spugnoso il solfo che attraversano, fibroso-fascicolari le masse che contengono quelli più larghi e periferici. La collezione possiede cinque belli es. di tal genere (22408...22412). Nel primo si ha una cavità geodica, nella marna imbevuta di Solfo, con filtrazioni e nidi di bitume, gruppetti di Calcite scalenoedrica, gru- metti silicei bianchi, e cristalli di Solfo verdognolo, poco sviluppati, im- perfetti. Questi cristalli son traforati nel loro spessore da canaletti, mol- tissimi dei quali hanno quadrilatera la sezione trasversale; negli altri es- sendo circolare o quasi. Pressoché tutti son diretti, parallelamente fra loro, verso la faccia terminale, pinacoide, sebbene con inclinazione indipendente dalla simmetria geometrica dei cristalli. Se si guarda la faccia pinacoide perforata, nella direzione dei canaletti a sezione quadrilatera, sì riconosce una regolarità di allineamenti paralleli e di alternanze negli allineamenti contigui, sufficiente a farci stabilire che la causa dei fori deve aver agito, essa pure, contemporaneamente alla precipitazione e cristallizzazione del Solfo nativo. Quale l’ indole di questa causa ? Tentiamo di desumeria, mercé il confronto di diversi esemplari. Il secondo pezzo (22409), presenta le condizioni generali del precedente; ma i forellini non sono più distintamente quadrilateri, né in assettamento regolare. Nel terzo es. (22410), tozzo di forma, e ricco di solfo bucherel- lato, il minerale si sovrappone a masse fascicolari, spugnose, con cana- letti per lo più a sezione circolare, i quali comunicano fra loro, mentre nei meno stretti apparisce la roccia nuda su cui giace il solfo. Per altro, nella superficie contigua, essa pure vestita da uno strato cristallino, ine- guale di solfo, si scorgono soltanto le fraccie delle perforazioni; e queste pochissime, sono dirette nello stesso senso di quelle che abbondantemente invadono lo strato di solfo della vicina superficie. Nel pezzo 22411, sopra il frammento di marna grigio-cupa, compatta, solfifera e bituminifera, sta un deposito bianco, incrostante, composto di minimi cristallini di quarzo in druse e globetti, di cristallini brillanti ma piccolissimi di Celestina, con altri di Calcite. È incrostato alla sua volta da uno strato continuo di Solfo che apparisce perforato dappertutto dai soliti forellini e canaletti, pochi dei quali hanno quadrilatero il contorno, ossia prismatica la loro interna configurazione. Tenuissime velature di Celestina contornano qua e là i forellini, e penetrano in essi. Finalmente l’ es. 22412 è una grossa scaglia rettangolare di marna solfifera, di cui una superficie è copiosamente incrostata da un accumu- = #0 — lamento microcristallino, bianco, quasi nivifofme, con fiocchetti, straterelli, pellicole ecc. di Celestina, cui sottostà uno strato di Solfo largamente at- traversato e interrotto dei canaletti e dalle cellette di cui è parola; strato che si stende, al di sotto dei pezzo, sopra una superficie piana a cir- coscritta. Anche in questo vedesi qualche velo cristallino di Celestina stendersi dattorno ai fori e penetrare in essi. E dicendo della spiegazione de] fenomeno — tenuto conto sopratutto del parallellismo prevalentissimo dei canaletti; della loro configurazione pri- smatica quadrilatera nei più tenui; circolare o cilindroide nei maggiori; della perpendicolarità abituale che essi mostrano sulle superficie incrostate dallo strato rispettivo di solfo; della presenza del carbonato di calce, nella materia dello strato, e della sua assenza quasi costante nelle posiztoni donde sorgono i canali più larghi — parmi di poter concludere che il feno- meno dipenda da /ento ma prolungato svolgimento di un gas, verosi- milmente anidride carbonica, dalle superficie su cui si andavane deposi- tando calcare, solfati, materie bituminoidi, silice e solfo nativo; e secondo me, tale svolgimento gassoso sarebbesi mantenuto finché deponevasi il solfo sui primi veli e straterelli calcarei, e si faceva cristallino in massa ; per esaurirsi, avanti la totale deposizione del quarzo e della celestina. CAPITOLO X. Esemplari colossali, e altri, degni di speciale menzione. In questo capitolo mi ero prefisso di registrare alquante notizie sui più ragguardevoli esemplari che si accompagnano alla serie delle forme cristal- line, e sulle loro particolarità fisiche e strutturali. Ma l’ inconveniente che ne nascerebbe della lunghezza esorbitante di questa pubblicazione, non sa- rebbe compensato dail’ efficacia delle descrizioni, utili soltanto a coloro che s’interessano specialmente del solfo nativo, e che, del resto, possono ad ogni momento visitare e studiare con maggiore profitto tutta quanta la collezione. Lo riassumerò quindi, con alcune indicazioni concise : Dall’ es. 22341 al 22362, la serie risulta di grandi e magnifici saggi, con cristalli puri, limpidi e rifrangenti, colla più frequente combinazione b/.P.b”:e, sparsi abbondantemente, e potrebbesi dire elegantemente, sopra grossi scaglioni di ganga solfurea, intrisa di bitume bruno o nero. Nei due es. 22363 ... 364, si ha pure il solfo su ganga calcare e di solfo, fatta superficialmente nera dal bitume; ma i cristalli sono ridotti — “S1 — a placche irregolari, di dieci lati nelle meno dissimmetriche, tutte sca- ‘vate ed interrotte, con rilievi informi; sono i risultati dell’ impedimento, direi dell’ aborto di alcuni grossi cristalli, derivante dalla strettezza della fessura dove si era iniziata la loro formazione (fig. 57). I due es. 22365 ... 366 si presentarono già alla rivista, per il fatto dei canaletti attraversanti lo strato di solfo cristallizzato ; 1’ es. 22367 fu citato. per il fulgore iridescente del piccolo cristallo annidato in una geodina a calcite; il gr. es. 22368, per la brillante cristallizzazione ma in confusi ag- gruppamenti di cristalli multipli e striatissimi che vi si distende; i 52 es., dal 22369, stupendo gruppetto di grossi, limpidi cristalli, riuniti da un pic- colo frammento di ganga bituminosa, al 22420, rappresentano ciò che di più appariscente, istruttivo e raro si è potuto raccogliere ed acquistare, oltre ai cristalli sciolti ed ai pezzi aventi significati speciali, quindi distri- buiti in tante serie separate, quanti sono i fenomeni che debbono esserne illustrati esattamente. Di questi 52 es., descritti sufficientemente nel ‘catalogo generale e uffi- ciale del Museo di mineralogia, degni dell’ attenzione degli studiosi, citerò soltanto quello portante il numero 22373 - splendido, stupendo cristallo lim- pidissimo, leggermente distorto (con 5% preval. 6° P, tr. e), voluminoso (mm. 38 e 46, profili orizz., e 54, diagon. maggiori), completamente isolato e sciolto, con qualche ammaccatura lievissima. CAPITOLO XI. Il Solfo amorfo, compatto, opaco, di apparenza cornea o saponacea, in arnioni e no- duli, ovvero associato a fusti e tronchi di legno carbonizzato, con gesso, silice ed altre sostanze. — (Es. 22538 ... 560) N.° 23. Solo per non trascurare la modalità più comune abbondante ed utile del solfo nelle nostre miniere nazionali, indicherò gli es. di marna litoide, copiosamente imbevuta o compenetrata di solfo più o meno amorfo, com- patto, massiccio, colle strutture che si dissero - saponacea, cornea, ecc., essi pur collocati nella collezione, ed appositamente classificati. Allo stato massiccio, la var. cristallina, solubile ecc., ma non in cristalli, intride, cementa, consolida più o men copiosamente i sedimenti marnosi stratificati. Produce il vero minerale di solfo, il più utilizzato, unitamente a quello che con più riconoscibile struttura cristallina, si associa ai calcari concrezionati, ai gessi. - Si hanno naturalmente minerali di diversa ric- chezza, nelle diverse categorie ; le differenze, possono aver grande signi- ficato nell’ industria estrattiva, e nel commercio ; non ne hanno alcuna, in ordine alla scienza delle specie minerali e dei cristalli. Del resto, una de- — 782 — scrizione a parole non servirebbe a niente. Chiudo perciò il capitolo notando che mentre i minerali ricchi si presentano in letti corrispondenti agli strati ed ai banchi di sedimentazione marnosa, di acque salmastre o di estuario, le var. compatte, di aspetto corneo o saponaceo, giallicce-chiare, sono piuttosto disseminate, in forma di cogoli, di arnioni, di amigdale, ed a preferenza nelle roccie, tufi, marne ecc. dei partimenti nella formazione solfifera. In istato amorfo, ma in minime particelle, o in diffusioni come nuvo- lette, cespugli, straterelli sottilissimi ramificati, sfumati, ecc., il solfo nativo, col color giallo suo caratteristico, e talvolta accompagnato da distinti cri- stallini ottaedrici, si vede incluso nelle grandi lastre limpidissime ed incolore di selenite, o nei grossi cristalli, non isfaldati, di questa stessa sostanza. Gli es. 22717... 720 della collezione sono molto interessanti ad osservarsi per tale riguardo, e sono bellissimi per la purezza assoluta della selenite, per la elegante disposizione, in essa, delle dendriti gialle di solfo. Nel- l’ es. 22730 scorgesi inoltre un brillante rombottaedro. Esternamente il solfo penetra pure nella selenite coni suoi aggregati cristallini, associandovisi il bitume, ma in modo affatto localizzato e superficiale. Dicendo delle infiltrazioni del solfo in altre sostanze, colle più attenuate sue modalità polverulente o micro-cristalline, riesce qui opportunissimo il cenno del solfo amorfo mineralizzante tronchi di lignite. Come nelle gessaie di Monte Donato presso Bologna la Selenite com- penetra siffattamente la sostanza legnosa, semi-carbonizzata o bitumizzata in parte, di fusti e tronchi che sembrano affini alle attuali cupulifere. Così troviamo ripetuta, con piena analogia, questa singolare maniera di petrificazione, in tronchi e fusti del medesimo genere, per opera del solfo nativo, amorfo. Gli stupendi esemplari di legno gessificato, colla loro apparenza di grosse o piccole scheggie legnose, fatte trasparenti e jaline, qua e là, dove più abbonda la Selenite pura, specialmente in senso parallelo ai fasci delle fibre, sono stati da me descritti in altra Memoria (*), e non importa rifarne qui la storia. Ma conveniva il ricordarli, imperocché rappresentano un processo di circolazione del gesso fra la materia del legno fossile, che deve essersi riprodotto identicamente, per mezzo di acque sulfuree e del solfo che si separava da esse. Se non che un lavoro molecolare lentissimo, che ritengo abbia durato per tutto il decorso dei tempi, dal miocene superficiale all’ attualità, il gesso si é costituito in grosse placche e in delicate laminette cristalline, (*) Bombicci — Sulla durata indefinita del lavoro molecolare cristallogenico perfezionante, nelle masse cristalline in posto. — Mem. Acc. delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, 1894. Ri MII e uniformi; tanto che queste, non soltanto vedonsi diafane, incolore; ma le scheggie di legno che ne sono sede, si rompono secondo lunghe direzioni oblique di vera sfaldatura; mentre il solfo vi è rimasto amorfo, compatto, o saponaceo, o resinoide e massiccio. I pezzi di legno (piligno), più diffusamente imbevuti di solfo, conser- vano il loro aspetto, e in gran parte la loro propria tinta bruna. Gli es. poi, più voluminosi lasciano ravvisare in qualche parte, un principio di silicatizzazione, in piena analogia di ciò che mirabilmente ci presentano i magnifici tronchi legnosi, da una parte carbonizzati e fatti lignite, dal- l’ altra silicizzati e fatti pietra dura, della miniera di Monte Massi in To- scana; e in discreta guisa, presso Rocca Corneta e Grecchia, qui nel Bo- lognese. Non sono rari i casi di legno silicizzato, diasprino, con intromissioni laminose di Selenite pura. Gli es. più considerevoli, in collezione, di legno su/furizzato, con copia ed evidenza di solfo nativo compatto ecc., portano i numeri 22556 ...559, ei 23374 ....377, CAPITOLO XII, { La silice cristallizzata, calcedoniosa, jalitica e concrezionata, geyseriana, nelle ganghe e nelle cristallizzazioni del Solfo. — Es. con Quarzo. Nella Memoria che pubblicai fin dal 1877, nel Tomo VIII, serie 3.* di quest’ Accademia, col titolo « Contribuzioni di Mineralogia italiana », e nel- l’ altra, del 1891 (Tomo I, serie V c. s.), intitolata « Nuove ricerche sulla Melanofiogite della miniera Giona, pr. Racalmuto », feci ripetutamente cenno dell’ esistenza del quarzo cristallizzato, e di altre modalità della si- lice, con i minerali di solfo della miniera di Marazzana, nel giacimento solfifero presso Cesena; dandone pure qualche breve descrizione (pag. 52, nella 1.* - pag. 19-20 della 2.* Mem.). Posso perciò limitarmi adesso a riassumere i fatti seguenti: . &. Si è per lungo tempo creduta estremamente rara la silice nelle sol- fare, tanto di Sicilia quanto di Romagna. In Sicilia può dirsi, anche oggidi, veramente eccezionale la presenza del quarzo o della jalite col solfo nativo ; a parte la scoperta della tanto discussa Melanofiogite, nella miniera Giona, di Racalmuto. b. Nella miniera di Marazzana la silice si è trovata relativamente diffusa, se non copiosa, e colle seguenti più notevoli varietà: Quarzo ialino, cristallizzato. - Si presenta in gruppetti di brillanti pi- Lie ramidi, diafane o lievemente grigiastre, ovvero in e rilievi attondati, o cilindroidi, irti pure di piramidi esagonali di piccoli cristallini, con tracce di bitume; ovvero, (es. 22965 ecc.), in gruppetti di cristalli dodecaedrici, nitidi e distinti, quasi incolori, sulla calcite, marna ecc. (22966 ... 967); ovvero in rivestimenti di vacui geodiformi, nel minerale di solfo (22968 ... 969); ovvero in tenui pellicole di minimi cristalli, in parte calcedoniose, traslu- cide, distese sulle facce di grossi rombottaedri di solfo, o rialzate in rilievi cilindroidi, coralloidi, in tubercoletti ecc.; talvolta con gruppetti mammil- lonari, sferoedrici (22970 ... 976); ovvero in crosticelle bianco-traslucide, che vestono completamente grossi cristalli geminati di Celestina, insieme al solfo nativo sul minerale marnoso (22977); ovvero in bianchi mammel- loncini, per lo più emisferici, colla superficie irta di piccole piramidi, sulla - marna solfifera brecciforme. Questa modalità si associa di soverite al cal- cedonio bianco o azzurrognolo (22978 ... 986). - Ovvero in globuli e mam- milloncini sferoedrici, bianchi, distintamente cristallini, frapposti a gruppi di cristalli scalenoedrici di Calcite, su ganga bruna, calcarea, lamellare (22987); ovvero in straterelli, in croste e veli cristallini, tesi a distanza dalla superficie della ganga e dei cristalli di solfo che essi attorniano, e rive- stono più o meno estesamente; ed in intrecciamenti confusi, distinti, di bianche pellicole, quasi niviformi (22988 ... 990); ovvero, in crosticelle, globuli, tubercoletti, ecc., profusi sulle ganghe solfifere, con altri cristalli di calcite e con associazione alla seguente varietà, idrata e farinosa; in qualche saggio lo strato cristallino del solfo vedesi attraversato dai cana- letti o tuboli paralleli, di cui gia diedi la descrizione (22994... 23010). Silice bianca, opaca, niviforme, disgregata o friabile, associata al quarzo. - Suole presentarsi essa pure in mammelloncini emisferici a strut- tura raggiata, quarziferi, ne’ quali può restare predominante il quarzo, ov- vero può farsi pressoché esclusiva questa silice idrata amorfa, di aspetto farinoso o polverulento, (es. 23004 ... 23020). Croste jalitico-calcedoniose, sottili, bianche od azzurrine, a mammel- loncini o variolitiche, sul minerale di solfo, sulla marna a vene calcaree, con bitume nero, ecc.; sempre della miniera Marazzana, presso il cosi detto cantiere de’ Fondi. Es. 22958... 964. soi CAPITOLO XIII. Ricordo delle cristallizzazioni di Celestina, di Epsomite, di Calcite e Aragonite, nelle solfare di Romagna. Avendone tenuto parola in altra pubblicazione (Mem. citata « Contribu- zioni di Mineralogia italiana, 1877 »), ricorderò di volo le seguenti parti- colarità : i Celestina. - (Es. 22601 ... 684). - I suoi più frequenti e cospicui esem- plari differiscono assai, per l’ abito loro, per la loro morfologia geometrica, da quelli notissimi e abbondantissimi, delle solfare siciliane. Mentre in questa domina l’ abito prismatico, senza eccessivi sviluppi di facce pina- coidi, o di zone di facce, i cristalli delle solfare di Romagna si presentano, salvo eccezioni, con aspetto tabulare, predominando le pinacoidi e talvolta riducendosi a placche sottili, contorte, anormali. Peraltro, anche nel loro complesso, i cristalli di questa Celestina hanno abito molto vario, deri- vante dal diverso sviluppo delle zone di facce rispettive. Vi sono assai frequenti le facce convesse, ondulate, contorte, con poliedrie numerose, simulatrici di faccettine in serie cristallografica e con spigoli conseguente- mente curvilinei. Di questi interessantissimi cristalli fece un esatto e completo studio il mio egregio amico e collega Prof. E. Artini, e la sua Nota « Contribu- zioni di Mineralogia italiana - Celestina di Romagna - Rendic. R. Istituto lombardo 1893 », mi dispensa da altre indicazioni, salvo il riportar qui le principali conclusioni cui 1’ A. pervenne. Forme semplici osservate : {001}, {110}, {450}*?, {230}*, {120}, {087}*?, {011}, {0.1.12}, {102}, {207} 1104}, {105}*, {111}, {115}, {122}, {124, {324}, 326). {562}*, {214}. Le segnate con asterisco sono nuove per la specie ; le {124} e {214} non si erano osservate prima in questo giacimento. Parametri fondamentali a: db: c=0,781282:1:1,283328. Angolo vero in assi ottici: 2 V. (luce di Li) = 49°, 34' (luce di Na) = 50°, 13' (luce verde) = 51°, 18' Le cristallizzazioni di Celestina si vedono disposte sia direttamente sul minerale di solfo, nelle geodi di solfo bruno, o sulla calcite bianca cristal Serie V. — Tomo IV. 99 — 786 — lizzata, inversa o scalenoedrica, sia sui cristalli di solfo puro, sui loro ag- gruppamenti, sulle ganghe imbevute di bitume. Per il curioso abito a lama di falce, di scalpello o trincetto ecc., di alcuni cristalli di Celestina bianca. V. fig. 68, 69, 70, prese da apposite fotografie. i Selenite (Es. 22701 ... 797), - Gli oltre cento es. della serie si possono dividere in tre categorie, in relazione alle loro condizioni strutturali : 1°, la categoria dei cristalli; 2*, delle masse largamente lamellari, distintamente cristalline; 3*, delle masse litoidi, che fanno passaggio alle rocce gessose della formazione complessiva. Epsomite (Es. 22692 ... 700). - Forma delle masse stalattitiche o con- crezionate, incrostanti, liscie, di color bianco-giallastro, traslucide, senza struttura cristallina distinta, la cui composizione risponde a quella del solfato idrato di magnesia, della specie EPSOMITE, di formula Mg,S 0, +7 Ag. — Tracce di solfato di ferro. Il più grosso es. concrezionato della collezione ha cent. 12 X 10 X 8; quello stalattitico oltre 28 cent. di lunghezza. Calcite (Es. 22811... 852). - Il fatto più notevole offerto dalla Calcite associata ai minerali di solfo, in Romagna, consiste nella prevalenza della forma e' ossia del romboedro primo acuto, (inverso Haùy), che allo stato isolato, in cristalli distinti e regolari è alquanto raro, astrazion fatta dalla sua classica manifestazione nel Grés di Fontainebleau. - Se non che i romboedri inversi della Calcite di cui è parola sono generalmente appan- nati sulle facce, torbidi nella massa, e con una quasi costante poliedria, che fa rigonfie o convesse le sei facce di ciascun cristallo. Quest’ ultima particolarità si coordina con una speciale geminazione, o meglio, compe- netrazione, di più elementi cristallini, per la quale, presso al centro di cia- scuna faccia convessa sporge fuori la punta triedra di un romboedrino minuscolo, in vario modo orientato, ma più spesso - diagonalmente - ri- spetto al cristallo cui sì unisce, (fig. 71). I cristalli di questa Calcite sono tanto più nitidi, brillanti e regolari quanto più son piccoli e riposanti sopra calcare bituminifero, concrezionato. Del resto é loro ganga variabile tanto il calcare bruno bituminifero, incrostante (es. 22816), quanto la marna compatta, quanto il cagrino. Anche il tipo scalenoedrico é frequente nella Calcite accompagnante il solfo nativo. Lo scalenoedro fondamentale, che più direttamente connettesi al romboedro primitivo, vedesi bene rappresentato negli es. 22833 ... 837; senonché é assai più comune la sua presentazione allo stato multiplo, fusi forme, generando fasci conoidi di singoli e imperfetti scalenoedri convergenti. = 7 — Aragonite (Es. 22853 ... 860). - Le più comuni e pregevoli cristallizza- zioni di questa specie, riproducono per adunamento poligemino o di mi- mesia, secondo un asse comune, parallelo agli assi principali di simmetria dei singoli cristalli, le stesse forme esagone, multiple, ad orli terminali frangiati, interrotti, e colle basi divise da tre o sei suture più o meno irregolari e capricciose nel loro disegno, che abitualmente ci presentano gli es. analoghi di Sicilia, cotanto spesso grandiosi e colossali. Sono tuttavia rari i grandi e magnifici gruppi di siffatti cristalli. Ne danno qualche idea, gli es. 22850... 851 .... 852. Più spesso i cristalli, di pochi millimetri nei diametri sulle facce basali, sono distesi, con fittissimo adunamento, o riuniti in aggregati stratiformi. Sono di color grigio celestino chiaro, e assai brillanti, nitidi, con limitata e parziale trasparenza. Es. 22845... 846 Idrocarburi bituminoidi (Es. 22798 ... 810). - Si riducono, oltre ai mi- scugli gassosi detonanti delle miniere, al bitume bruno, o nero in massa, che viscoso e colante d’ estate si fa duro d’ inverno, e che imbeve frequen- temente le marne solfifere ed i noduli di Baritina. Esso filtra nelle fissure dei calcari concrezionati, ne occupa le cavità, penetra con tenuissime dif- fusioni trasparenti ne’ piani di sfaldatura di cristalli di Selenite; avvolge, cementa, intride e nasconde i più puri e diafani cristalli di solfo nativo, e fa parer neri taluni di celestina; ed all’ impuro e fetido petrolio, che senza costituire, quivi, veruna vena liquida, veruna falda di aceumulamento e senza determinata composizione, imbeve le marne sterili, i ghioli e i partimenti della formazione solfifera. Può tuttavia citarsi, in proposito, sebbene cosa estranea al terreno sol- fifero propriamente detto, il magnifico nodulo di ambra fluorescente (es. 16528), che fu raccolto nel 1875 presso Mercato-Saraceno. Spetta dunque all’ area de’ giacimenti solfiferi del Cesenate; ma probabilmente rappre- senta ivi la zona ambrifera emiliana, del miocene inferiore, di cui si hanno, nel Bolognese, assai notevoli ubicazioni. CAPITOLO XIV. La serie dei prodotti di raffinazione del solfo greggio nella raccolta del Museo. Cam- pioni commerciali. — (Es. 33021... 067). Sebbene non abbiano veruna importanza per la mineralogia, né per la scienza in generale, pure formano un utile appendice della collezione, pel riguardo all’ insegnamento pratico, tecnico, degli allievi, cui giova il dar qualche notizia di carattere industriale e di statistica. - Del resto tutto = 98 “= consiste in una serie accessoria di 45 es., con piccoli e con grossi pani di fusione, sia della qualità greggia più ordinaria, comune di color grigio, sia della raffinata di color giallo, aventi il modello normale di commer- cio. I grossi pesano Kgr. 50; con altri minori parallellopidi; con diverse figure colate in solfo; con qualche campione di solfo puro in fiore, in iscaglie, in cannoli, con appendici di residui di calcaroni (genisîi sicil.), di distillazioni, di mattoni alterati dei forni di modelli di lampade da mina- tore, la fiasca. metallica da salvataggio onde consentir 1’ accesso, in caso di disgrazie per esplosioni o svolgimenti gassosi asfissianti, nelle gallerie, a coloro che vi occorrono per l’ opera pietosa di salvamento. Entra in questa serie l’ interessantissimo es. di solfo di fusione, nella cui superficie di spezzatura interna, vedesi costituito un grosso cristallo rombottaedrico. CAPITOLO XV. Rapporti di posizione e di età fra il Solfo cristallizzato e i minerali suoi concomi- tanti, essi pure cristallizzati. Ligniti compenetrate di Solfo nativo. L’indagine dei rapporti di posizione fra i cristalli di solfo nativo e quelli dei diversi minerali con i quali trovasi associato ci offre il miglior criterio per giudicare della relativa età 'dei minerali stessi, e della lun- ghezza relativa del tempo che deve aver presieduto alla loro definitiva, costituzione. Una siffatta ricerca non promette soltanto una luce propizia sulle fasi della formazione solfifera. Essa fa sperare ragionevolmente un insieme prezioso di deduzioni a favore della storia di altri giacimenti minerali, dovuti a fenomeni di idrotermalità, ed un contingente di ravvicinamenti e di confronti che può guidare il pensiero nostro nella via più sicura per accertare i fatti, e per giudicare le ipotesi, le teorie che ripetutamente si vennero proponendo. Si tratta, in definitiva, di rilevare l’ ordine delle sovrapposizioni fra i diversi minerali concomitanti al solfo nativo; minerali che cristallizzarono contemporaneamente a questo o nella medesima fase, e nelle sue ganghe, nelle sue geodi. Possono velarne, rivestirne, incrostarne e nasconderne i cristalli; ma possono, alla loro volta, esserne incrostati, coperti più o meno estesamente. I più notevoli li conosciamo già: la Calcite, la Silice, l’ Aragonite, la Celestina e il Gesso (Selenite). La loro reciproca situazione aiuta a risolvere le questioni sulla prece- 089. — denza di formazione dei cristalli intervenendo quasi sempre, qui, il cri- terio utile, sebbene non assoluto, che una sostanza avvolgente, 0 sovrapposta é decisamente posteriore a quella che é avvolta, o che vi sottostà. Ecco pertanto alquanti fatti sicuri, evidenti, facili a vedersi ed a con- trollarsi: I cristalli di solfo nativo si vedono addossati, o in parte incastrati, ma evidentemente per sovrapposizione : a, sulla MARNA SOLFIFERA normale, sulle marne calcaree, sui CALCARI MARNOSI più o meno compatti ecc., nel massimo numero degli esemplari. ), sul CALCARE CONCREZIONATO, nelle sue vacuità, porosità e geodi moltissimi esemplari c. s. ì c, sulla CELESTINA IN Massa. Es. 22685 ... 691. SUIRCRISTAREI DINCERESTINA. ESs.1226037.--620..-. 633... 65... 074%. (, sui CRISTALLI DI SELENITE, per sovrapposizione c. s. - Es. e, sui CRISTALLI DI CALCITE delle ganghe calcaree. - Es. 21694 ... 22830... 842. f, Sui CRISTALLI DI ARAGONITE in prismi mimetici, ecc. - Es. 22343 ... 849. g, sui cristalli di quarzo e sulle concrezioni quarzose, calcedoniose, Jalitiche ecc., delle vene solfifere. - Es. 22926 ... 943 - 23020 - 40316 ... 329, e tanti altri. h, sulle ganghe impregnate di bitume, in tutti i casi di roccie mar- nose, e sulfo-bituminifere. In tutti questi casi i cristalli di solfo nativo sono di formazione poste- riore a quella de’ materiali che li sostengono. Inversamente, i cristalli di solfo sono ricoperti o avviluppati dalle so- stanze seguenti, o ne sostengono i cristallini sulle loro facce : a. Cristalli (o gruppi di cristalli), di solfo puro - di consecutiva forma- zione - facilmente distinguibili per differenza di abito, di colorazione e di trasparenza; se pur non lo fossero, a prima vista, per il rapporto di gran- dezza, per la modalità della distribuzione e saldatura. L’ es. 22126 fa ve- dere un cristallo di rara limpidità (multiplo, distorto, preval. 6%), in gran parte vestito da una moltitudine di altri cristalli puri, ma appena traslu- cidi, striati, informi, confusamente aggregati fra loro. Cosi gli es. 21722... 723. Invece gli es. 22125, 22228 ...239, offrono cristalli di bel color rosso-aranciato carico che sostengono gruppi di cristalli puri c. s.; le var. di due colori, e di due fasi, si alternano nella serie di ventisette es. 22213 ... 239; mentre = 90 — gli es. 22031, 22129 ... 134 sono verdastri, pieni di fissure e di bitume, ed hanno talune facce incrostate da minuti strati di cristalli puri. b. Cristalli, gruppetti ecc, di cELESTINA limpida. - Es. 22682 ... 683. Cc. » C. Ss. di SELENITE. d. » c. Ss. di CALCITE cristallizzata, inversa, scalenoedrica ecc. - Es. 21962 - 22124 - 22607. es » G. S. di ARAGONITE (Es. 22892). f. Pellicole di Calcite o di Aragonite, in minutissimi cristalli aggregati. g. » C. S. (di QUARZO) JALINO. = Es. 22907 222923 Nene R2944 - 22973. h. Masserelle di bitume sul solfo, e sulle sue ganghe; velature ecc. Perciò, in questa seconda serie di casi, sono di formazione precedente, anteriore a quella dei minerali sostenuti, i cristalli di solfo. Bisogna tener conto adesso di questo : che parecchi stupendi saggi di selenite limpida contengono, fra i piani di sfaldatura facile ed anche in- dipendentemente da questi, bellissime diffusioni, dendritiche o nebulate, di solfo giallo, o in minime particelle, o in polviscolo di tenuità estrema; mentre i rottami di grossi cristalli stanno incastrati, pur restando in parte scoperti, nella selenite stessa. Es. 22717 e 22718. - Il bellissimo e già citato es 22730 è una. lastra di limpida selenite, includente un brillante rombot- taedrino di solfo bruno, di circa 1 cent. di asse. - Di più giova notare, che la selenite e il solfo, il solfo ed il quarzo, si vedono spesso come amalgamati, commisti con i loro cristalli; l’Aragonite, incrostata di silice calcedoniosa, riposa sul solfo, steso sulla marna (es. 22852); e questa silice inerosta analogamente, con Quarzo microcristallino, il solfo puro e la Celestina (es. 22977); infine, le più belle geodi contengono per lo più commisti, con variatissimi rapporti di posizione relativa, or gli uni, or gli altri, cumulativamente, i minerali fin ora considerati. Credo che nelle serie siciliane possano riscontrarsi fatti completamente analoghi e corrispondenti; e parmi che sieno più che bastevoli questi dati di fatto per provare all’ evidenza che i cinque minerali - SoLFo PURO, SE- LENITE, CELESTINA, CALCITE, ARAGONITE - senza escludere il bitume tanto spesso presente, si son costituiti durante una medesima fase di mineraliz- zazione idrotermale, cristallogenica; con attività intermittenti nei singoli luoghi del suo campo di azione. — ngi — CAPITOLO XVI. L’origine del Solfo nativo, nelle solfare romagnole. La promiscuità evidente, luminosamente provata da centinaia di esem- plari nelle collezioni, dei cristalli di solfo nativo con quelli di altri mine- rali, solfati, carbonati, silice ed idrocarburi costringendoci ad ammettere una contemporaneità relativa di formazione di tali minerali, quindi neces- sariamente un processo eguale per tutti nell’ indole sua, esclude la via secca e le temperature superiori a quella cui lo solfo si fonde. Un grado di calore oltre 111°, sarebbe ostile alla costituzione del solfo rombottaedrico, limpido, ovvero argillifero, ed a quella della Selenite, della Jalite ecc.; sa- rebbe pure incompatibile collo stato inalteratissimo di quei fanghi fattisi, per solo indurimento graduato, marne compatte, calcar] marnosi con forami- niferi, argille gessifere con letti e vene di sericolite. Le inclusioni reciproche di diversi cristalli non possono spiegarsi che ammettendo e supponendo lunghissima la perduranza di una singolare e mal nota mollezza iniziale dei cristalli, forse di uno stato transitorio fra la supersaturazione, o superfusione, delle sostanze che cristallizzano, ed il definitivo assettamento, rigido, delle particelle già poliedriche ; imperocché quella mollezza sarebbe favorevole a lentissimi ma attivissimi moti mole- colari; ed è giuocoforza supporre ciò ogniqualvolta vogliansi spiegare, nei limpidi e grandi cristalli di Quarzo alpino o brasiliano, le stupende diffu- sioni di lunghi aghi di Rutilo, estremamente fini, perfettamente diritti, orientati in ogni direzione, e tanto fitti in alcuni esemplari da offuscarne la inerente trasparenza; del pari, altri esempi innumerevoli di diffusioni e penetrazioni varie nei cristalli di ogni genere. — Queste conclusioni pertanto sottintendono l’ esclusione di alte tempe- rature durante la fase immensamente lunga del lavoro molecolare, per- fezionante e completante le specie minerali caratteristiche delle solfare. Sottintendono, altresi, una grande quiete nel campo del lavoro che stiamo investigando. Una quiete a lunghi intervalli, fra le periodiche ecci- tazioni delle attività endogene, idrotermali. Ecco un prospetto delle principali ipotesi e teorie proposte dal 1780 a oggi, sull’ origine del solfo nativo di Sicilia, che desumo, quasi total- mente, dal recente ed eccellente lavoro del mio illustre collega Prof. G. Spezia - Sull’origine del solfo nei giacimenti solfiferi della Sicilia - 1892. I contrassegni v, Rc, OA, dinanzi ai nomi degli Autori significano la prefe- renza rispettivamente data, sia alla teoria VULCANICA, ovvero a quella ANI- MALE, ovvero a quella della RIDUZIONE DEI GESSI. VIS ° . Vin — 792 — De Borch - Minéralogie Sicilienne (Ipotesi di fuochi vulcanici). . Mauricaud et Soret - Soc. d’ hist. natur. Généve. (Ipotesi di sublimazioni e concrez. parziali). . Daubeny - Americ. Journ. of Sc. and Art (Ipotesi di sublimazione). . Hoffmann F. - Geognost. Beob. in Sicilien . (Ipotesi di emanaz. di gas sulfoidrico). . Gemmellaro (€. - Atti Accademia Gioenia, Catania (Ipotesi di una produzione animale). . . Maravigna - Comptes rendus . (Ipotesi di decompos. idrog. solfor.* in acque con marne in sospensione). . Paillette - Comptes rendus (Ipotesi di decomposiz. ignea di gessi). . De Buch - Atti 6.* riun. Scienz. italiani (sublimaz. di solfo libero). . S. Claire Deville - Bull. Soc. géol. de France (Ipotesi di emanazioni antiche e recenti, in suolo siciliano). . Bischof - Sch. der chem. u. Phys. Geologie (Ipotesi di emanaz. sulfoidriche; gessi bituminosi, in acqua marina). " Schwarzenberg - Tecnol. prodotti chimici (sublimaz. solfo libero). . Stoppani - Trattato di Geologia . (Ipotesi di scomposiz. di a. sulfoidr.° in contatto di aria e vapor acqueo). Omboni - Come si è fatta l’ Italia (Ipotesi di sorgenti speciali, insieme ad altre ss, n . Lasaulx - Neues Jahrb. fur Miner. ecc. (Ipotesi di emanaz. secca del solfo. Sublimaz. Due periodi di attività). . Mottura - Sulla formazione ... solfifera... della Sicilia . (Ipotesi di riduz. di gessi più antichi della formaz. solfifera). . Dieulafait - Comptes rendus Acad. Sc. Parisiok ig da (Ipotesi di riduz. dei gessi mercè mat. organiche - Polisolfuri). . Baldacci - Descriz. geologica dell’isola di Sicilia". (Ipotesi di riduz. di gessi per opera di idrocarburi d’ orig. minerale profonda). . Travaglia - I giacimenti di Solfo in Sicilia (Padova) (Ipotesi di riduz. di gessi per opera di idrocarburi di orig. animale). Spezia - Origine del Solfo nei giac. solfiferi di Sicilia . (Ipotesi basata sui fenomeni della vulcanicità). . Rellini - Origine dei gessi ecc. (Tesi per laurea) (Ipot. di sedim.in mare di condiz. speciali, insieme ai gessi, per emanaz. endogene). 1883 1386 1889 1892 1893 — 793 — Vedesi a colpo d’occhio che l’idea della provenienza del solfo nativo dalle grandi profondità del suolo, sia per emanazione diretta, e per subli- mazione, sia per via di gas e di vapori solforosi (il gas sulfoidrico in prima linea), dominò nel pensiero dei geologi antichi, fra i quali taluni di altissimo valore; e che si coordinò talvolta colle idee prevalenti sulla vul- canicità; cosa naturalissima, per la contiguità topografica, in Sicilia, delle più imponenti e grandiose solfare colle più eccelse manifestazioni vulca- niche della stessa regione. Però che, nell’ultimo ventennio, prese il soprav- vento la nuova teoria della separazione del solfo dalla sua combinazione nel solfato idrato di calcio (gesso), mercé l’intervento di materie organiche, in certe speciali condizioni, e della deposizione sua. allo stato libero, o nativo. Ma l’ultima parola, sul difficile ed attraente soggetto, restò fin ora allo Spezia, il quale, proponendo e sostenendo con validi argomenti la tesi dell’ origine vulcanica del solfo, in Sicilia, combatte valorosamente e vit- toriosamente, a parer mio, i principali argomenti ;iche a favore del loro comune concetto addussero, con grande ingegno, erudizione ed abbondanza di osservazioni pratiche, il Mottura, il Travaglia, il Baldacci, fra i geologi italiani contemporanei. Qui sarebbe superfiuo un nuovo esame critico delle pubblicazioni su tale argomento, avendolo già compiuto lo Spezia nell’ opera citata, ed essendo facile il procurarsi questa a tutti coloro che hanno ragioni per interessarsene; perciò mi limito a riferir subito la più recente ipotesi dello Spezia, e la assumo come punto di partenza per ulteriori corsiderazioni mie, aventi carattere più generale e applicazione più illimitata. Il Prof. Spezia, sostenendo che « ... i depositi solfiferi debbono la loro esistenza a sorgenti di acque mineralizzate; che la celestina e la si- lice ... non debbono essere trascurate per la loro importanza, né essere ritenute indipendenti dalle cause stesse che originarono il deposito di solfo »; ammettendo possibile la provenienza del solfo, anche allo stato di vapore, dalle profondità; ed inoltre, lo sgorgo sottomarino di sorgenti sulfuree; anzi difendendo l’ idea di queste sorgenti dall’ obbiezione che le si mosse in ragione delle grandi pressioni che lor sarebbero state opposte dalle masse acquee sovraincombenti, e che esse avrebbero dovuto superare; rife- rendosi alle numerose litoclasi note, e ravvisando nelle concrezioni derivanti dalle sorgenti suddette un conseguente processo di riempimento e di cementa- zione; riconoscendo essenzialmente di natura chimica la deposizione del solfo, del gesso, della calcite, della celestina, della silice, in seno alle acque, specialmente nelle rocce listate, o soriate, mentre è del tutto mec- Serie V. — Tomo IV. 100 = Mod = canica la deposizione di materiali detritici, quella delle diatomee e di altri microrganismi, indica molte sue proprie esperienze in appoggio delle sue conclusioni; e criticate le conclusioni finali dei sostenitori dell’ origine del solfo dalla riduzione del solfato di calcio, insiste sulle correlazioni dei de- positi di solfo con quelli di materiali vulcanici, e di questi con i più vasti e potenti letti di tripoli, sottogiacenti alla formazione solfifera. Alla mia volta, ed in pieno accordo con ciò che ebbi a scrivere nelle due edizioni del mio - Corso di Mineralogia -, la prima del 1862, la se- conda (tre volumi), del 1874, adotto e sostengo la teoria delle attività en- dogene e profonde, produttrici dei depositi di solfo presso la superficie; ma con qualche riserva; specialmente a proposito della diretta provenienza dei gas sulfurei dalle grandi profondità. Comincio col propormi il seguente quesito, naturalissimo e fondamen- tale: Donde derivò primamente, e per qual processo iniziale, il solfo dei depositi stratificati (dove @ libero e nativo), e quello dei gessi e della celestina, nelle solfare sicule e romagnole? Riconosco difficile 1’ acquistare fatti positivi e dirette osservazioni per ri- spondervi adeguatamente; ma i documenti indiretti di una provenienza da regioni profondissime sono assai copiosi ed autorevoli ; e 1’ importanza del mio quesito risalta viepiù da questa considerazione; ancorché riuscisse trionfatrice la supposizione comune, nelle teorie dei valentissimi geologi poc’ anzi citati, Mottura, Baldacci e Travaglia, cioè, - che il solfo libero delle solfare sia quello precedentemente combinatosi col calcio, in amigdale ges- sose di ipotetica preesistenza, non risulterebbe sciolto il problema della pro- venienza del solfo; e la questione assumerebbe tutt’ al più, questa nuova forma: « quale fu l origine prima del solfo, che si suppone essersi preceden- temente combinato con ossigeno e calcio per comporre i gessi, e poi separa- tost da questi e ritornato libero? » Dunque, mentre pel semplice e limitato scopo di descrivere la forma- zione solfifera siciliana, e la definitiva, finale costituzione dei materiali donde essa risulta, segnatamente del solfo, può bastare la conoscenza del processo wltimo cui devesi lo stato libero, o nativo, del solfo, invece, per la geologia generale della formazione solfifera, per la storia delle sue corre- lazioni con quelli altri terreni che, in Italia, sono pur anco sedi di fenomeni geologici e di prodotti dello stesso ordine e della stessa eta, e per lo studio delle correlazioni, non meno attendibili, colle attività endogene e vulcani- che del sottosuolo; in una parola, per la storia fisica dell’ intiera regione italiana, la conoscenza di quel processo «limo deve essere convalidata e completata dalla conoscenza del processo primo ed iniziale, per quanto ri- sulti umanamente conseguibile. Ecco perché richiamo qui le mie già note idee sulla metza/llicità che ca- — 795 — ratterizza la massa planetaria al di sotto della sua crosta solida e pietrosa, e sulla solidità e litoidità derivanti da ossidazioni, sulfurazioni, idratazioni e salificazioni promiscue di radicali metallici; ed insieme, quelle sulle loro miscele o leghe, più ossidabili, sulfurabili ecc., e meno pesanti; quindi più superficiali nei periodi di dissociazione perdurante. Ed ecco perché richiamo, altresi, la mia supposizione di un avvenuto assorbimento, per parte di tale massa metallica, liquefatta, di volumi incalcolabili di gas, segnatamente d’ idrogeno (*), e per conseguenza di uno svolgimento inevitabile, conse- cutivo, di questo gas già occluso; in ragione del progressivo raffreddamento periferico, e della predisposizione progressiva alla solidificazione dello sferoide metallico occludente. 3 Il continuo svolgersi d’idrogeno libero, allo stato nascente, da una massa metallica centrale, in condizioni specialissime di temperatura e di tensione, può fornire la spiegazione di moltissimi fra i più ardui problemi di geodinamica, di fisica terrestre, di petrografia ecc.; sia in ordine ai mo- vimenti locali e regionali della crosta terrestre, sia in ordine al metamor- fismo delle sue rocce; ed a me sembra che fornisca pure ottimi elementi per concepir la derivazione del solfo, da regioni profonde e da combinazioni primitive. In primo rango fra queste, i solfuri metallici di ogni grado. Prescindendo adesso dalle probabili riduzioni di parecchi ossidi, nelle condizioni di temperatura, di pressione e di tempo in cui dovrebbe. tro- varsi l’ idrogeno nascente in contatto di quelli ossidi stessi; né potendo affrontar qui la questione elevatissima di un’ acqua endogena, vale a dire prodotta a grande profondità, e quivi dotata di eccezionali energie idra tanti e metamorfosanti mi limito ad indicare come sommamente probabile questo risultato : Nel campo del potere riduttore esercitato dall’ idrogeno nascente sui composti metalliferi, soggiacenti all’ involucro litoide terrestre colle loro massime quantità, il prodotto più copioso, immediato, capace di svolgersi allo stato gassoso, sta isolatamente, sia con altri gas o vapori, è il gas sulfoidrico. Diffatti, riferendomi alle spiegazioni della copia di solfo nativo nei terreni miocenici di Sicilia e di Romagna, non posso a meno di tener conto della duplice condizione di fratture, attraversanti con tanta estensione in lun- ghezza ed in profondita la serie delle formazioni peninsulari, appenniniche, e le insulari che vi corrispondono ; fratture, divenute tramiti stupendi di at- tività eruttive, idrotermali e mineralizzanti, con ubicazioni di eccezionale intensità di fenomeni e di prodotti. Non credo di dover insistere sulla storia (*) LL Bombicci — Sulla costituzione fisica del globo terrestre. Mem. Accad. delle Sc. di Bologna, 1887. — 796 — e sullo sviluppo probabile delle litoclasi del suolo italiano, da altri, in parte, già osservate e accennate, o sulle loro infinite misure, dalle regionali che si valutano a chilometri, alle cripto-clastiche che si scorgono col micro- scopio. Qui mi giova soltanto il distinguerle in due categorie speciali, in ordine al meccanismo della loro origine, ed al livello dei fenomeni geodi- namici che vi si produssero: 1° cAaTEGORIA: le fratture più profonde, più attinenti alla geodinamica, segnatamente alle dilatazioni e contrazioni di quelle rocce che son vicine o contigue alle masse metalliche centrali; ossia a tutte quelle cause di movimento, nelle masse solide profonde, per le quali può credersi non resti grandemente cambiata la ubicazione o situa- zione rispettiva di tali masse..2* caATEGORIA: le fratture per traslazione laterale, o di scorrimento, che si produssero attraverso pile di strati vici- nissimi alla superficie, situate cioé nelle più alte zone della crosta solida terrestre. Queste fratture sembrano talvolta verticali, con lunghissimo svi- luppo, in una prevalente direzione; quindi con un generale approssima- tivo parallelismo; e per lo più sono accompagnate dai rialzamenti - a tipo uniclinale -, delle lunghe zone o strisce di territorio, date dalle frat- ture istesse; e questi rialzamenti poi, sono dovuti in parte a quel moto di scorrimento laterale o trasversale che fu provocato da abbassamenti regionali ecc., ed arrestato da ostacoli, o da condizioni ulteriori di equi- librio che le dette striscie tendono a sorpassare, finché non siasi esau- rita la loro traslazione; ed in parte sono dovuti alla potente spinta, dal basso all’ alto, delle rocce soggiacenti alle pile di scorrimento, nella dire- zione delle fratture; e perciò tendenti a sollevarsi come intrusioni, come materiali laminati, compressi, spremuti quasi dagli orli superiori delle mas- sime litoclasi attraversanti. Evidentemente, la spinta sollevatrice non deriva, in tali casi, da energie proprie delle masse che penetrano nelle spaccature che le sottrassero, nelle stesse direzioni loro, alle già sopportate pressioni; bensi, al pari di quelle dei creeps delle miniere carbonifere, deriva da queste pressioni, divenute laterali e verticali, che si compongono con quelle nascenti dal moto stesso di scorrimento. Ciò posto, credo utile il rilevare, che tanto in Romagna, quanto in Si- cilia, si hanno, nelle zone solfifere, non solo le più convincenti manife- stazioni degli estesi moti di scorrimento laterale, per es., dalle regioni a- driatiche verso le tirreniche, nell’ Italia settentrionale e media; quindi l’esistenza di litoclasi regionali, nelle cui direzioni avvennero sollevamenti, intrusioni e trabocchi di rocce; ma che queste roccie si presentano di ben diversa natura ed indole, nelle varie litoclasi parallele, accennando a di- versi modi e gradi di lavoro endogeno nel sottosuolo, attraversato dalle frat- ture istesse, e probabilissimamente in intima relazione col grado delle pro- — 797 — fondità raggiunte. Si vedono scaturire difatti, da talune fratture, e contribuire al costituirsi di rialzi uniclinali, rocce di origine indubbiamente sedimen- taria; ma più o meno modificate dalle condizioni incontrate di movimento, di pressione e di calore, o di moti molecolari ecc., nel loro insorgere. Per es., se nella regione orografica emiliana guardiamo verso N. o N. E., vediamo l’ allineamento dei banchi e dei mammelloni gessosi, miocenici; se verso S. o S. O., le argille del cretaceo superiore, fattesi scagliose e traboc- canti, con i frantumi di strati ed i blocchi del calcare a fucoidi, laminati frequentemente; e successivamente vediamo affiorare le argilliti, fattesi mi- crocristalline per incipiente metamorfismo; i gabbri rossi compatti, o diaba- sici, annunzianti gli allineamenti classici delle diabasi, delle serpentine diallagiche e affini, delle eufotidi, iperiti ecc.; e poscia altre argilliti, divenute gia distintamente cristalline e micacifere, per metamorfismo più inoltrato e quasi completo, per es. la montecatinite e le selagiti, analoghe alle minette, alle fraidroniti; e così, fino a quelle sempre più verso occidente e mezzodi, decisamente” cristalline, idroplutoniche e vulcaniche propriamente dette, come i basalti e i melafiri, le trachiti e lipariti, le scorie e le lave della To- scana meridionale, del territorio romano, de’ campi Flegrei, delle Eolie ecc., fin’ oltre Sicilia, nella direzione di Pantelleria e della ex isola Giulia. Sotto questo punto di vista, le fratture del suolo italiano, specialmente le più recenti dell’ era terziaria, verrebbero a collegarsi fra loro, nel con- cetto sintetico della causa prima dei prodotti ascensionali, o eruttivi, che dovettero dipenderne; e la ragione massima delle loro differenze sostanziali potrebbe trovarsi naturaimente, praticamente, nelle differenze di profondità da esse (fratture), rispettivamente raggiunte. Dalle profondissime, derivanti da moti intimi di grandi masse, gia solide ossidate e salificate, i filoni metalliferi, i metalli nativi, compreso il ferro ed i solfuri nelle rocce cristalline; dalle non profondissime, le emanazioni idrogenate, i prodotti di riduzione per parte dell’ idrogeno nascente; le com- binazioni dello stesso idrogeno con i mineralizzatori massimi dei metalli, solfo, ossigeno, più raramente cloro e fiuorio; e con possibili combinazioni col carbonio, donde speciali idrocarburi; dalle meno profonde, i prodotti più caratteristici della idrotermalità; da tutte, un contingente naturale di minerali svariati, promiscui, sceveratisi poco a poco nelle ultime fasi di lavoro, mercé le loro affinità e le forze cristallogeniche. La stratigrafia aiuta chiaramente, nelle regioni solfifere, del pari che in tutte le altre della zona appenninica contenenti fenomeni di origine endogena con indole idro- termale, il concetto delle attività ascendenti; imperocché ci presenta pile euormi di strati, spezzate secondo direzioni pressoché parallele, in tratti lunghissimi; sollevate nelle loro singole striscie di spezzamento, ad unieli- nale, con forti rialzi, e bene spesso vicine alla verticalità, sopratutto nei casi = "Moe — dei maggiori scorrimenti, e verso le parti marginali di quella stessa zona. Ciò implica, per ogni singolo rialzo, che le testate inferiori di speszamento deb- bone essere come impiantate e immerse nelle masse soggiacenti, ossia nelle rocce di sedimento, suscettibili, per maggior cedevolezza, di subir gli effetti delle pressioni su di esse perduranti; capaci di sollevarsi, in conse- guenza, fra gli spazi fattisi aperti, e dove la pressione può ridursi minima, relativamente. In conclusione, ciò implica la sostituzione, ad un vasto e non interrotto sistema ricuoprente di strati, di un complesso di fissure e di strati frammentati e smossi; di spazi liberi e permeabili, frapposti ai banchi pietrosi e compatti; larghe disgiunzioni fra le singole pile che gli scorri- menti allontanarono le une dalle altre, e che le dislocazioni per faglia fecero vie maggiormente spostate e profonde. Ecco in qual senso adotto, senza esitazione, l’idea fondamentale de. Prof. Spezia, sul carattere vulcanico delle cause prime e prevalenti del- l’origine del solfo nativo, delle nostre solfare italiane. Il richiamo del fenomeno dello svolgimento ipogeico del gas idrogeno allo stato nascente, e in contatto di carburi o di carbonio libero, grafitoide, di solfuri e di ossidi, parmi non soltanto imposto dal carattere di queste considerazioni, ma ben anco dalla pratica utilità delle deduzioni che da esso vengono consentite. Intesa così la provenienza endogena del gas sulfoidrico, e chiamando vulcanici i fenomeni pei quali si predispongono e si attivano, in regioni assai meno profonde ed inerenti allo spessore della crosta pietrosa terrestre, le eruzioni di lave fatte di silicati e di vapor acqueo, non potremo asse- rire, con rigor di espressione, che il solfo é un speciale prodotto della vulcanicità. Dovremo dire, invece, che è uno dei vari prodotti delle attività sotterranee molto profonde, delle quali i fenomeni vulcanici rappresentano soltanto una modalità, compresa entro limiti definiti pel modo, per lo spazio e pel tempo (*). Le emanazioni di solfo nativo possono riscontrarsi associate ai prodotti effettivamente vulcanici, percorrenti uno stesso tramite di grandi litoclasi, come le polveri cosmiche possono trovarsi commiste colle sabbie e i pol- viscoli della terra, in una corrente atmosferica; come da uno stesso treno ferroviario possono esser portati alla stazione d’arrivo, oltre ai viaggiatori che vi hanno preso posto nella stazione di partenza, quelli che vi sono entrati nelle stazioni consecutive. Non insisto su quella distinzione; ho voluto peraltro indicarla, imperocchèé credo assai più profondo, lontano dalla superficie, il campo di lavoro produttivo del gas sulfoidrico e degli (*) La vulcanicità classica spetta all’ era terziaria; frattanto anche nei terreni triassici i fe- nomeni generatori di solfo e di solfati ebbero grandissimo sviluppo, per quantità e per estensione; ed in ambiente essenzialmente marino. — 799 — affini, che non quello delle attività eruttive dei veri vulcani; e ritengo quindi ben distinte, pel rispettivo livello, le sedi originarie delle emanazioni ascen- denti solfifere da quelle delle ascensioni laviche e idrotermali. Al di sotto della solidità litoide e metallifera della crosta terrestre, il lavoro dei gas in istato nascente, ed in condizioni di calore e di tensione affatto speciali; più in alto, e in mezzo alle rocce solide, ai componenti diretti della crosta pietrosa del globo, il lavoro dell’ acqua, delle forze molecolari, delle nuove reazioni, in condizioni ben diverse dalle precedenti. Correlazioni fra il Solfo nativo ed i solfati concomitanti. Indipendentemente dall’ ipotesi che il solfo libero derivi da gesso pree- sistente, non può a meno di rilevarsi una correlazione fra queste due so- stanze, tanto intimamente associate, ed in condizioni di evidente comu- nanza della loro cristallizzazione. Ciò sussistendo ancora fra il solfo nativo e la celestina. In questo proposito mi limito a due osservazioni: astrazion fatta dalla possibile preesistenza del gesso ad un minerale di solfo libero, sarebbe assurdo il negare che la materia prima, minerale, del solfo nativo deve aver preesistito, in istato libero o di composti binari (solfuri), a qualunque composto ossidato e salificato; segnatamente al solfato di calcio con acqua di cristallizzazione, e di origine bene spesso recente. Poi, che nessun fatto ci obbliga a tener conto del gesso per aver ragione della presenza del solfo nativo ; tanto meno, a far intervenire una potente reazione, dubbiosa, de- componitrice del gesso in immense quantità, e senza lasciarne residui. Dico - dubbiosa - quella reazione, imperocché, mancando esperienze decisive ed osservazioni esaurienti ai sostenitori della riduzione dei gessi, alcuni di essi la cercano fra i microrganismi del regno vegetale, altri fra quelli del regno animale, altri nelle chimiche attività inorganiche. Pel modo mio di vedere, il gesso delle solfare, e senza pregiudizio di quello derivante, in casi specialissimi, dalla gessificazione superficiale di calcari compatti, ci rappresenta, purché stratificato, in vaste lenti, o amig- dale concordanti con depositi sedimentari, il risultato della trasformazione del carbonato di calce in solfato idrato, nelle acque di bacini normalmente d’acqua marina, operata da adeguati svolgimenti di gas sulfoidrico. Il solfato di calcio può rimanere disciolto in un eccesso di solvente; ma la concentrazione e saturazione progressiva, in rapporto ai varî sali produ- centi la promiscua salinità del mare, lo fanno precipitare prima di ogni altro sale più solubile; e ciò vale tanto pel gesso (Selenite), quanto per l’ Anidrite; essa pure frequentemente associata al salgemma ed a sostanze bituminoidi. —#800t= Un fatto significantissimo in tale questione fu sagacemente addotto dal Sen. Scarabelli nella sua descrizione geologica del versante settentrionale dell’ Appennino ecc., in provincia di Forli. Riporto testualmente le parole dell’ illustre Amico, colla compiacenza di trovarle in pieno accordo colle mie successive conclusioni. Il Sen. Scarabelli scrive: « A provare poi finalmente che l’ origine del gesso così cristallizzato non dev’ essere attribuita ad un metamorfismo di strati calcari preesi- stenti, ma bensi avere reali deposizioni di solfato di calce, basterà per noi l accennare come ivi a poca distanza le melanopsis da noi menzionate, incluse nel gesso, offrono l° intero guscio di carbonato di calce (*) come quelli delle altre molte conchiglie delle marne plioceniche. Così dicasi il’ somigliante dei gusci delle altre conchiglie involute nella selce dei Crivellari, la quale si trova in lenti, entro gli strati del gesso, ed essa pure in sottili strati subordinati ». Nel territorio de’ soffioni boraciferi di Montecerboli, e tutt’ all’ intorno dello stabilimento e del paese di Larderello, sì trovano gessi concrezionati; avvertesi, nell’ aria, la presenza del gas sulfoidrico; e si può provocare lo svolgimento di questo gas col semplice smuovere le zolle o le croste di terriccio; mentre il terriccio sottostante, messo cosi allo scoperto, umido e caldo, si cuopre rapidamente di delicatissime cristallizzazioni dendritiche, filamentose, o quasi polverulente, di solfo nativo. Vi si trovano frequen- temente gessificati, e vorrei dir - briscaleggiati -, con grosse eroste epigeniche di selenite ben cristallizzata, i blocchi di calcare alberese spar- pagliati in questa plaga, frammezzo alle argille; e queste, invase dall’ im- ponente fenomeno dei vapori rumorosi e cocenti, ivi riproducono il carattere, la disposizione e forse le antiche qualità delle classiche ARGILLE SCAGLIOSE dell’ Emilia, colle loro sALSE, colle loro emanazioni vaporose e gassose, in direzioni quasi parallele all’ asse dell’ Appennino, ed alla direzione media dei depositi romagnoli di solfo. Anche i gessi concrezionati; gli arnioni di concentrazione gessosa, sac- caroide (alabastri di Pomarance, di Castellina marittima), i gessi a cavol- fiore, la Selenite in cristalli ecc., delle crete e dei mattaioni del Senese, sono in palese concomitanza colle emersioni ofiolitiche della medesima zona; ed ivi accennano ad una mite e quasi esausta idrotermalità, connessa ai sollevamenti delle rocce eruttive magnesiane. Tanto che parmi indubitato che tali sollevamenti non dipendano esclusivamente da insite espansioni nelle masse rispettive, o da impulsi plufonici, provenienti da sottostanti regioni; ma, piuttosto da pressioni verticali, esercitate dalle masse sedi- mentarie che vi gravitano sopra. (*) Mi son permesso di sottolineare le frasi più significative, dal mio punto di vista, in questo periodo. = 801 — Analogamente, i gessi quarziferi, sviluppatissimi nell’ alto Appennino di Garfagnana, presso i rilievi del Cimone, della Cusna, di Sassalbo, di Suc- ciso, ne’ contorni di Ligonchio, con facies eruttiva, struttura minutamente cristallina, saccaroide o niviforme, sono contigui a cupole di serpentine; e le litoclasi, a grandi lunghezze, con trabocchi di argille scagliose, sono stu- pendamente palesi nell’ area montana del Modenese e del Reggiano. Riguardo alla Celestina il Prof. Spezia, avendo gia confermata come ‘ sottostante alle rocce sedimentarie la mineralizzazione delle acque produt- trici delle formazioni solfifere più antiche (pag. 52, l. c.), osserva che il solfato di strontio, fra i minerali di questo metallo, è il più copioso e diffuso, e che le solfare sicule ne sono il più ricco giacimento. Io aggiungo che della presenza e della relativa copia della Celestina convien tener conto anche trattando della mineralogia delle solfare di Roma- gna. Di più, che il macigno del Rio-Maledetto (Val di Samoggia, nel Bolo- gnese), affiorante in un’ area investita da fenomeni idrotermali di più profonda origine che quelli della zona gessoso-solfifera, presentò alquanta BARITO- CELESTINA raggiata, a druse; infine, che le intromissioni ascendenti di ar- gille scagliose tipiche, contengono arnioni e geodi di Baritina; mentre gli stupendi, limpidissimi, grandi e celebri cristalli di questo stesso solfato si annidano nelle septarie geodiche di Monteveglio, della Vernasca nel Parmense, ecc.; come se il sistema di litoclasi, che nella regione emiliana e romagnola, e nella siciliana, scende alle profondità donde possono sor- gere le emanazioni sulfuree, attraversasse una concentrazione - ivi più ab- bondante - di sali solubili di strontio; e come se il sistema di litoclasi, più ampio e profondo, cui debbonsi le serpentine eruttive e le metallizzazioni filoniane, attraversasse una concentrazione consimile dei sali più pesanti - di bario. La grande differenza di peso specifico fra il bario (p. sp.= 137,00), e lo strontio, (p. sp. = 87,50), vale a spiegare la quasi indipendenza abituale dei rispettivi giacimenti, la loro separazione nei filoni e nelle solfare, nelle rocce amigdaloidi e in altre rocce cristalline, geodifere. Il supporre, col Dieulafait, che il solfato di strontio venga dai depo- siti gessosi dei terreni saliferi; che tutta la grande quantità di Celestina dei giacimenti solfiferi della Sicilia, provenga da altra Celestina preesistente nelle rocce sedimentarie, non condurrebbe, in ogni caso, che a spostare la questione, come pur rileva a proposito il mio egregio collega, Prof. Spezia; a spostarla dalla sua primaria fase, ad una fase consecutiva e transitoria; e perciò mi trovo viepiù confortato a ricercarne la prima origine nella copia di strontio e delle sue combinazioni binarie, solubili, in qualche parte della crosta terrestre; in qualche parte molto profonda, ma non inac- cessibile alle circolazioni acquee, mineralizzate, calde, capaci di trarre quei materiali solubili in un ambiente di ossidazioni e salificazioni preva- Serie V. —' Tomo IV. 101 — 802 — lenti (*), per farli contribuire all’ isolamento del solfo libero, ed alla facies mineralogica eccezionale, mirabile, delle solfare italiane. Questo concetto si accorda perfettamente col fatto delle limitazioni, a lunghe striscie di'affioramento, dei grandi depositi stronzianiferi; ossia delle lunghissime litoclasi regionali, caratterizzate da variate manifestazioni di idrotermalità e di dinamismo endogeno, quelle comprese della vulcani- cità tipica, assoluta (**). Può anzi prevedersi la totale mancanza o la quantità minima di sali di stronzio, in parecchi giacimenti gessiferi, di sedimento, con anidrite in masse, con idrocarburi ecc., dato che vi manchino litoclasi attraversanti grandi spessori del sottosuolo. Questo è confermato dal fatto. Finisco questo paragrafo con una breve, ma non inutile osservazione. SI é riscontrato più volte, nelle solfare di Sicilia, che dentro alle fissure oblique ed estesamente cristallifere, i cristalli di Celestina sono quasi sem- pre sovrapposti a quelle ineguaglianze delle pareti che sono od erano ri- volte all’ alto; a quelle, sporgenze che guardano in su. Questo fatto venne invocato dal Baldacci, dal Lasaulx, come dimostrativo di una prove- nienza dall’ esterno, del sale di stronzio, ossia dell’ affluenza, dalla superficie, delle acque che questo sale tenevano disciolto. Ma è facile il comprendere che data una forte inclinazione, se non la verticalità del tramite percorso dalle acque adducenti dal dasso, la stron- ziana, la spiegazione più semplice del fatto si presenta cosi: arrivato il momento in cui da quelle acque possono separarsi le particelle insolubili di Celestina, la gravità, in un colle polarità orientatrici, le obbliga a cadere, in ragione del loro peso, a scendere dall’alto al basso e fermarsi sopra le sporgenze che potevano incontrare come appoggi degli embrioni dei loro cristalli, sebbene il loro comune e liquido veicolo seguiti a muoversi dal basso all’ alto. Se sospingiamo in un largo tubo verticale una corrente ascen- dente di acqua, con sabbia sospesa; e se abbiam disposti in quel tubo qual- che diaframma perforato, é fuor di dubbio che, per una conveniente e moderata velocità della corrente vedremo la sabbia precipitarsi sempre al disopra, mai al disotto di ciascun diaframma incontrato. Correlazioni fra il Solfo nativo e la silice concomitante. Il Prof. Spezia non accetta l’asserzione del Lasaulx, cioè, che Quarzo, Calcedonio, Opale, Melanofiogite, in una parola la silice, quale (*) Mottura ritiene che ne’ laghi di deposito lo strontio sia arrivato in istato di solfuro solubile. (**) Secondo l’ Ing. Mottura nessuna area di gruppi di solfare supererebbe tre chil, di lar- ghezza, potendo superare invece dieci chil. nella lunghezza di litoclase. — 803 — vedesi nelle solfare, spetti sicuramente a formazioni più recenti. Credo di poter confermare l’ opinione del mio egregio collega; anzi di dovere spie- gare la presenza della silice, e delle silicizzazioni multiformi, nell’ ambiente delle solfare romagnole, e nei letti stessi solfiferi, come un fatto precedente al depositarsi del solfo nativo e dei minerali che lo accompagnano. È troppo evidentemente geyseriana l’ indole antica del processo donde derivarono le concrezioni cellulari a nuclei gessosi dell’ Imolese, e così quelle, con solfuro di nichel (Millerite), di Bombiana (Bolognese); quelle con Steatite e Bruni- spato, di Lizzo; quelle di tante miscele litologiche d’ oficalci ed ofisilici, in una lunga zona subappennina, ecc., per escludere l’esistenza e la potenza di attività idrotermali, silicifere, attraverso alti depositi sottomarini, e du- rante il periodo delle loro oscillazioni e dei loro sollevamenti, precursori delle depressioni consecutive e degli scorrimenti. E ciò guida il pensiero alle odierne manifestazioni di antiche attività vulcaniche, tutte di indole idroter- male e silicifera, quali ad es. le incrostazioni di Jalite nelle fissure delle trachiti e lipariti d’ Ischia, di S. Fiora e dei colli Euganei; senza citar mille consimili esempi di altre regioni straniere e lontane. Io dico, dunque, che Solfo, Celestina, Gesso e Calcite, mi si presentano come prodotti contemporanei di una stessa fase di mineralizzazione dei terreni terziari, delle nostre solfare sicule e romagnole; prodotti stretta- mente connessi fra loro; ma che le varietà di silice, compresa la sempre rara Melanofiogite di Racalmuto, dipendono da un lavoro idrotermale di grado più elevato di quelli inerenti alla mineralizzazione ora citata; lavoro assai più vasto, più prolungato, e proprio di tutta la zona orografica assile della penisola e della Sicilia; quindi, pressoché indipendente dall’ inter- vento del Solfo e della Celestina. Qui, nell’ Emilia, dappertutto selci piromache nelle marne, ne’ calcari marnosi e compatti; rilegature calcedoniose e jalitiche, ftanitizzazioni di calcari pieni zeppi di radiolarie e di altri microrganismi silicei, con tinte rosse, ferrigne, e variegature; qui, sideropali e stigmiti rosse, ricche di ferro, presso le emanazioni di idrocarburi gassosi; qui fossili a nucleo di se- miopale, e silicatizzazioni di tronchi legnosi; e nell’ Imolese, masse di silice geyseritica, tutte spugnose, con cellule occupate da cristalli di selenite ina/te- rati, e divenuti mobili per patita erosione dissolvente. Presso Porretta, alle falde del Granaglione ece., gli interstizi degli strati del macigno rivestiti dai celebri quarzi aeroidri, a tremie ed argilliferi, talvolta in gruppi gran- diosi, colossali. i Può credersi che a tali condizioni abbia contribuito la microfauna dif- fusissima nelle marne sottostanti al piano degli strati a congerie, o della formazione solfifera, col suo materiale siliceo-organogenico; ma possono anche spiegarsi, e meglio, le condizioni stesse, pensando che l’ abbondanza = li della silice addotta da sorgenti geyseriane sottomarine, abbia, da una parte, consentita la vasta silicatizzazione dei sedimenti attraversati, nei bacini marini di non grande o di decrescente profondità; ed abbia favorito, dal- l’altra, lo sviluppo dei radiolari e delle diatomee, dei microrganismi in- somma le cui spoglie, in accumulamenti immensi, danno in Sicilia ed altrove i banchi di tripoli, soggiacenti ai calcari solfiferi. Ad ogni modo credo possa dirsi, in più casì, che il solfo interviene in un ambiente gia per suo proprio conto ricco di silice; invece di !dire che il quarzo viene, in un col solfo, ad occupare con questo un comune e limitato giacimento. Questo secondo concetto può sostenersi, peraltro, in altri casi. Gli es. ri- portati dal Prof. Spezia, di filoni di solfo nelle rocce cristalline e nelle quarziti (giacim. di Quebra dell’Azufral, e di Ticsan), e di solfatare, presso abbondantissime sorgenti silicifere (Nuova Zelanda), sono senza dubbio significantissimi. La Geyserite che incrosta la sorgente detta - Steamboat Spring - con modalita agatoidi, calcedoniose ecc., e con solfo nativo in incrostazioni e cristalli; il bacino solfifero di Cove-Creek, (Utah), avente natura vulcanica, con sorgenti termali solforate fanno veder chiaramente possibile la comu- nanza di percorso, negli stessi tramiti, o almeno nelle stesse direzioni di litoclasi, e per i tratti più periferici, delle materie solfifere e silicifere ri- spettivamente. Consentendo, infine, nella riflessione già fatta dal Prof. Spezia, lad- dove dice che la presenza della silice, e quella pure della Celestina, resta inesplicabile colla ipotesi della riduzione dei gessi, osservo che mercé l'ipotesi delle sorgenti silicifere geyseriane (tanto meglio se con qualche idrocarburo bituminoide), si spiegano benissimo le copiose diffusioni, nei gessi cristallini, candidi come neve, ed aventi facies eruttiva, di magnifici cristalli, completi, di quarzo, neri come carbone (*). Non meno importante, nella tesi della concomitanza del solfo nativo colla silice di origine idrotermale, é la relazione dei Sigg. W. H. Wead e Pirrson (Zeits. Groth. Vol. 22, 1894), sul solfo nativo che sì va produ- cendo presso i Geysers del Yellowston-National-Park (St. U. Am.), segna- tamente nel Crater-Hill, per emanazione e reazione di vapori, e con de- posizioni in fasci raggiati. Ivi si sprigionano vapori caldi che rimangono chiusi e compressi, ogni qualvolta il deposito stesso di solfo ostruisce le fissure di sfogo. Possono salire perciò a temperature vicine a 90° centigr., ed anche oltrepassarle. LS (*) Es. 41143... 145; 41557 ...565; e 40412 di collezione, in parte da me raccolti in posto, presso Ligonchio, nel Settembre 1894, e in parte regalati dal Dott. V. Simonelli, raccolti pr. Pietrineri d’ Orcia (Prov. Senese). —-805 — Il ferro presentasi molto subordinato, in alcune rocce delle solfare ; può provenire allo stato di solfato dall’ ossidazione di solfuri profondi, e ridivenire ossido e solfuro, in contatto dell’ aria o dei polisolfuri alcalini, o del gas sulfoidrico, o del solfo nativo. Può altresi derivare dalla disso- luzione e sopratutto dalla gessificazione di calcari, come nel caso delle così dette TERRE ROSSE. Qui può sorgere una obbiezione; e lo stesso Prof. Spezia la prevede, e se la propone spontaneamente : « Valgano le ordinarie emanazioni vulcaniche a render conto delle enormi quantità di solfo delle solfare sicule, e della vastità delle loro distese sedi- mentarie? » E, colle stesse parole dello Spezia: « la quantità di solfo che attual- mente producesi nei campi di attività vulcanica contemporanea èé parago- nabile, o no, alla quantità di solfo che si ha in Sicilia? » I° egregio A. risponde in modo che sembrami esauriente, riferendosi alla lunga durata del periodo solfifero, già calcolata di almeno mille secoli; e citando casì di singoli vulcani, la cui produzione solfifera in tal durata di tempo, porterebbe alla superficie quantità corrispondenti, press’ a poco, a quella delle solfare sicule, supposta superiore ai 50 milioni di tonnellate. Per mio conto, poi, faccio osservare che se confinasi, come ho già dichiarato di fare, il senso della voce - vulcanismo - al lavoro essenzial- mente idrico che - nello spessore della crosta terrestre - presiede alla espansione delle masse laviche sotterranee, ed all’ apparato complessivo di attività intermittenti, attraverso i canali, i coni e i crateri dei vulcani propriamente detti, 1’ obbiezione di cui é parola può dileguarsi da se; alla voce vulcanicità basta sostituire la espressione - attività endo-dinamica terrestre - per concepire l’ intervento di un lavoro chimico e fisico, addut- tore di solfo e di solfuri verso la superficie, con ben altra e maggiore mi- sura che non quello circoscritto ai focolari vulcanici e subordinato a quelle linee di fratture che non discendono alle massime profondita dell’ involucro solido e litoide del globo; involucro, che ben sappiamo essere quasi total- mente fatto di silicati. Correlazioni del solfo con gl’ idrocarburi che vi si associano abitualmente. Per poco che si accolga, od almen si discuta, l’ idea della metallicità pro- pria del pianeta, e si rifletta al suo farsi litoide o pietroso soltanto in un tenue strato corticale per azioni chimiche salificanti, e in un periodo di enorme aumento della sua temperatura superficiale; e per poco che a quell’ idea si coordini l’ altra di un avvenuto assorbimento di gas, prevalentemente idro- = ed geno, e di un necessario svolgimento successivo di quel medesimo gas, si fa naturale e seducente questa dimanda: perché non potrebbe l’idrogeno, allo stato nascente, incontrarsi con qualche modalità del carbonio, e in pe- culiari condizioni di temperatura, di tempo, di costituzione fisica, di inter- vento di altre reazioni e dissociazioni, combinarsi col carbonio stesso € generare qualche idrocarburo ? i i Il ferro nativo delle meteoriti contiene carbonio; e può contenerne quello delle più periferiche zone metalliche del sottosuolo ; nel ferro meteorico di Canon-Diablo si trovò carbonio cristallizzato; in quello di Lenarto, in quello del Capo di B. Speranza, e nel meteorite di Alfianello si trovò idrogeno puro; il carbonio minerale, di iniziale costituzione inorganica, dové pure preesi- stere agli idrocarburi delle cellule, del protoplasma; e può restare libero un qualche residuo di quella quantità incalcolabile che si andò via via conden- sando nell’anidride carbonica, nei carbonati, ed immagazzinando nei tessuti organizzati, viventi. Non ho potuto a meno, perciò, di riflettere su tale possibilità già da me preannunciata (*); ed ora sono lieto di veder propendere lo stesso Prof. Spezia per una origine minerale, endogena di idrocarburi, e di ri- levar le giuste considerazioni sue su tal delicato argomento. Debbo quindi trovare un poco troppo assoluta la proposizione del- l'Ing. Travaglia, negante l’origine endogena degli idrocarburi; e rife- rendomi io pure agli studi dell’ Abich, (1879), di cui lo Spezia adotta le conclusioni, credo poter dire che non soltanto l’ acqua che scende in profon- dissime parti del sottosuolo - dove sono metalli -, vale a dar luogo ad idrocarburi; ma benanche, e con predominio di azione, l’ idrogeno nascente da quelli stessi metalli, da quello stesso ferro dove trovasi copiosamente chiuso e diffuso, e dal quale lo scaccieranno quei progressivi cambiamenti molecolari che nei metalli sono i predisponenti alla solidificazione cristallina. All’ Ing. Baldacci pare probabile un’ origine endogena dei composti d’ idrogeno e carbonio; ma ne tien conto per favorire la ipotesi dell’ iso- lamento del solfo mercé la riduzione dei gessi. Qui capita molto bene il ricordo della scoperta che fece il Silvestri, studiando la dolerite della Salinella di Paternò. L’illustre e compianto mio amico vi trovò una nafta paraffinata, chiusa in una quantità di piccoli vacui, uno dei quali peraltro era abbastanza ampio per contenerne circa cinque centimetri cubici. Anzi, giovami il rilevare che tutti i caratteri della nafta paraffinata di Paternò, descritti dal Silvestri, corrispondono a quelli della Nafta ad (*) Bombicci — Sulla costituzione fisica del .globo terrestre ecc. ecc Mem. Accad. delle Sc. di Bologna, 1887. — 807 — Hatchettina (paraffina naturale, pura), del Monte dei Falò, pr. Savigno (Bolognese). L’ Hatchettina di Savigno, descritta dal Prof. Casali e da me, bianca, limpida, cristallina, birifrangente e biasse, trovasi diffusa, con gesso, calcite, frantumi di calcare alberese e zolle terrose in una intromis- sione ascendente di argille scagliose, attraverso una delle tante litoclasi della zona montana dell’ Emilia. La ELATERITE dei filoni metalliferi di Castletown (Derbyshire), associata alla Blenda, alla Galena, alla Fluorite ecc. può essere ricordata, essa pure, in queste considerazioni. Paragenesi dei giacimenti solfiferi nelle litoclasi e dei filoni metalliferi. Ma la dipendenza diretta di alcuni de’ minerali caratteristici delle sol- fare con i filoni metalliferi, ossia colle manifestazioni di pit profonda sor- gente, delle attività chimiche interne del globo, riesce anche più istruttiva da parte dello stesso solfo; fatta astrazione, s’ intende, da quello che per semplice ossidazione dei solfuri di piombo, di antimonio, e di pochi altri, può restar libero come prodotto epigenico, nei tratti più vicini alla super- ficie, delle litoclasi filoniane. Nella provincia di Siena, i grossi filoni o diche quarzoso-metallifere dei giacimenti antimoniferi di Pereta e di Selvena, sono ricchi di solfo nativo. Si coltivarono anche per tal condizione, e se ne poterono ricavare, dice il D'Achiardi (Miner. della Toscana, 1872), fino a 20,000 tonn. in sette mesi di scavo. Questo esempio ha un grandissimo valore, per la tesi dell’ origine prima del solfo nativo; non solo per esser compresi i giacimenti metalliferi to- scani nella stessa grande zona di litoclasi della penisola, zona compren- dente oltre ai vulcani spenti ed attivi, le salse dell’ Emilia, le emanazioni di gas ardenti, i soffioni boraciferi del Volterrano, ecc., ma, altresi per un altro fatto, di suprema importanza, e che credo di segnalare pel primo ; almeno, sotto il punto di vista paragenetico dei giacimenti solfiferi e me- talliferi del suolo d’Italia; questo : Le principali direzioni dei giacimenti metalliferi, di Toscana, Sardegna e Sicilia (quivi in prov. di Messina a Fiumedinisi ecc.); quelle delle salse dell’ Emilia; quelle degli allineamenti de’ soffioni boraciferi del Volterrano; quelle dei depositi gessosi del versante Adriatico, e dei gessoso-solfiferi di Romagna; quelle dei depositi gessoso-solfiferi di Sicilia, SONO FRA LORO RI- SPETTIVAMENTE PARALLELE -. Vale a dire si corrispondono per reciproci pa- — 803 — rallelismi, nelle due direzioni predominanti, e nelle due che sono perpendi- colari rispetto ad esse. Difatti: ( MINIERA plumbifera del Bottino (Versilia) . . . | 2 5 CE » di MontesPonlkX{Ie]lesias) ee SR) di Fiumedinisi (Messina). . . . Salse (vulcanetti fangosi) dell'Emilia (sei esempi). z'# $ Emanazioni gassose brucianti (quattro es.) £ Soffioni boraciferi di Larderello (Toscana). &.£ é Rilievi gessosi allineati, nel versante Adriatico . Ellissoidiidellatvulcanierà Ne stnta See Tutte in direzione Banchi gessoso solfiferi del Forlivese . . . ir: SOEFRARE div Eercarag Se ene » digValle@Nerdurafe iiMasazzo lo RM S » AIAFICONA O O c » di Mandravecchia » di Favara TOTO » di (Caltanissetta de o e n, DiiRICraporzia e aa, MINIERE plumbifere di Montevecchio (Sardegna). D 2a » del Sarrabus Se » di Malacalzetta RIOT È » d'el'Massetano fin iWoscana Bf Ge AmunO a vi SOLFARE di Casteltermini e di S. Biagio . . ° normale alla precedente » DI CONI E O E° 0 5 » CI LRATI PINCO RI a dominante 9 » CINSIMIDTRROA » di Villarosa » di Alimena. . == | MINIERE metallifere del Sarrabus od) 23 | » di Perd’ Arba . ; I Direzione N-S © SOLFARE di Valguarnera SISI Le IIOICIa SONE II Ia RTS DI ) normale alla precedente E . : Mi . e = » CINE SICU TIA NNE - 9S0 » altre. dI {Fa cona eee. — 809 — CONCLUSIONI 1.* Confermo la completa analogia dei giacimenti solfiferi terziari, del miocene superiore (strati a congerie ecc.), della regione romagnola, con quelli della regione sicula; sia pel tempo durante il quale si costituirono, per le rocce dei rispettivi terreni, per il processo di genesi del solfo na- tivo, e dei minerali suoi concomitanti; sia pel generale parallellismo delle direzioni complessive delle litoclasi regionali, divenute sedi, in rapporto alle loro rispettive profondità, sia di fenomeni filoniani, metalliferi; sia di in- tromissioni di silicati magnesiani, di rocce feldispatiche, cristalline; sia di emanazioni sulfuree; sia di attività vulcaniche propriamente dette; sia di variati ma pur fra loro affini fenomeni di idrotermalità, dei quali taluni tuttodi perduranti. 2.* Credo essenzialmente marina la formazione dei depositi gessoso- solfiferi. Suppongo, tuttavia, assai variabile nel mare miocenico sommer- gente la profondità, specialmente per effetto di oscillazioni con prevalente sollevamento. Non escludo perciò i casi di emersioni localizzate, di dispo- sizioni a basso fondo e ad estuario, derivabili da sovrapposizioni di sedi- mento, o da rialzi di strati con crescente obliquità, in zone parallele; e for- s’anco da aumenti di volume nelle masse gessose in via di cristallizzare. E queste emersioni basterebbero a spiegare altresi quei depositi di acqua dolce o salmastra, colle fiore e faune rispettive, che si riconobbero in date aree di quel vasto bacino, le cui acque salate. e profonde accolsero i primi strati gessoso-solfiferi, nelle loro massime profondità. Quindi, l’esistenza di laghetti, stagni, estuari ecc., non che di linee littorali, ora dirupate ed a picco, ora a spiaggia con dolce declivio. 3.* Dato che in taluni casi fosse evidente una differenza nel modo di rivestimento di tratti successivi, o alternanti, sulle pareti di fenditura, per esservi diversi i minerali rispettivi che vi si sovrapposero, e in corrispondenza di rocce diverse, delle pareti, credo che prima di attribuire il fatto alla natura chimica e mineralogica di tali rocce; prima di supporre aflussi laterali mine- ralizzatori, sgorganti dalle pareti di essi tratti, debbasi pensare che durante una prima fase di filtrazioni, attraverso litoclasi percorse da acque mineraliz- zate promiscuamente, possono, le rocce attraversate, aver assorbito alcuni degli elementi di quelle filtrazioni, in proporzione della loro specifica permea- bilità, della loro natura chimica, del loro grado di alterazione possi- Serie V. — Tomo IV. 102 — 810 — bile, ecc. Perciò, in condizioni che da un tratto all’altro possono essere differentissime ; e ciò indipendentemente dalla eventualità di dislocazioni verticali per faglia, donde la prospicienza reciproca di rocce diverse ad uno stesso livello. Nella fase successiva, di riordinamento e assettamento molecolare, cristallogenico, perfezionante, le rocce di parete possono resti- tutre in parte, per via di azioni concentratrici, gli elementi assorbiti; anzi, favorendo speciali combinazioni, o tipi speciali di aggregazioni cristalline, possono contribuire alla differenza complessiva e saltuaria fra i tratti con- secutivi della litoclasi comune. 4.* Date le litoclasi per iscorrimento laterale, quindi le disgiunzioni dî varia ampiezza fra le singole parti, allontanate fra loro, e rialzate con vie crescente tendenza alla verticalità, verso il limite di spostamento e discesa, riesce facilissimo il comprendere tanto il ripetersi, con alternanze e paral- lelismi palesi, delle forme litologiche stesse in diversi luoghi topografica- mente lontani (es. del macigno appenninico, in affioramenti nelle vallate del Venola, del Rio maledetto ecc., lontani dal Porrettano e dalla zona caratterizzata da quella roccia), quanto il ripetersi di identiche intromis- sioni successive di derivazione profonda, parallele agli strati di ogni singola pila. Di queste, posson dare esempio, oltre a quelli massimi e classici delle argille scagliose, dei gessi a facies eruttiva, dei letti di scisti argil- losi fra gli strati del macigno, i così detti - partimenti-, di cui la co- stituzione litologica, la posizione fra i banchi solfiferi, la modalità strut- turale e l’ impregnazione petroleifera, ma sopratutto la loro analogia con talune SALSE 0 MACCALUBE, sono altrettanti elementi per giudicarli rocce di posteriore iniezione ascendente, per opera di pressioni laterali, dall’ alto al basso, in rispondenza a litoclasi preesistenti. Le salse della regione emiliana altro non sono, a parer mio, che luoghi delle massime fratture o litoclasi regionali entro ai quali esaltasi il feno- meno della ascensione delle argille del cretaceo superiore ; e tale esalta- zione potrebbe ivi derivare da locali intensità di circolazione idrotermale, per la maggiore ampiezza o profondità dei tramiti discendenti; ovvero, per la natura salifera o petroleifera delle masse rocciose sottogiacenti e attraversate. 5.° Le maccalube di Sicilia, le piccole salse nei partimenti, sarebbero semplicemente luoghi di maggiore violenza di trabocco o di spremitura terminale di materie argilloidi, plastiche o pastose, laminabili e lisciabili in parte, per pressioni oblique di schiacciamento. Starebbero ai partimenti delle solfare, come le salse stanno alle argille scagliose di più intensa espansione eruttiva, nelle lunghe ellissoidi subappennine. Nelle salse, idrocarburi, pochi solfati, cloruro sodico prevalente; nelle solfare, idrocarburi; copia di solfati, e solfo nativo prevalente. 6.* Credo utile il distinguere nel periodo di genesi della complessiva for- ‘mazione solfifera, due fasi cronologiche e morfogeniche ad un tempo; la fase prima, delle deposizioni chimiche, e meccaniche in parte, dei materiali costi- tuenti (solfo, gesso, celestina, calcare, materie bituminoidi, detriti argilloidi, spoglie organiche ecc.), sul fondo del mare; la fase seconda, di lenta ma continuata trasformazione dei materiali suddetti, originariamente amorfi e_ commisti, in minerali benissimo cristallizzati (salvo i non cristallizzabili), e perfettamente distinti, nei loro sviluppi complessivi sia nelle soriate, sia nelle masse lenticolari. Una relativa mobilità strutturale; una lunghezza enorme di tempi, tol- gono ogni ragione di meraviglia e di dubbio, sull’ indole di tale graduata trasformazione, e di localizzazioni definitive. Viene cosi a considerarsi possibile la cristallizzazione perfezionante del solfo e dei contigui solfati, anche dopo avvenuti i rialzi dei loro depositi stratificati; ossia, dopo che erasi già determinata l’ obliquità delle singole pile, con non rari avvicinamenti alla posizione verticale. Ciò aiuta ad intendere la bellezza meravigliosa e la copia delle cristal- lizzazioni suddette, in ragione delle facilitate vie di filtrazioni ascendenti. Si potrebbe ripeter questo concetto per la copia e bellezza dei quarzi por- rettani, fra i banchi inclinatissimi, quasi verticali, del macigno che li contiene. A determinar la prima fase, potevano prodursi, attraverso complicati sistemi di screpolature profonde ed iniziali, le emanazioni metalliche, sul- furee, fino alle dejezioni sottomarine avvelenatrici dell’ ambiente acqueo circostante, mercé solfuri alcalini, e gas sulfoidrico; mentre la fase se- conda era caratterizzata dai grandi distacchi per gli scorrimenti laterali ; dai rialzi a tipo uniclinale; dalle intromissioni per pressioni laterali; da ampliamenti ed espansioni del lavoro idrotermale perdurante ; fino ai sol- levamenti più eccelsi delle nostre serpentine, ed ai parossismi - prei- storici - della classica vulcanicità, nel mezzogiorno d'’ Italia. — 812 — APPENDICE! Paic'ord'o bibione on Possono tornare utili, a chi s’ interessa alla storia del solfo nativo, le indicazioni di alquanti lavori, relativamente interessanti, pubblicati dal 1887 in poi, e per lo più descrittivi di cristalli e di geminati di quella sostanza. Nell’ anno citato adesso il Prof. A. Sechrauf pubblicò un cospicuo lavoro negli Zeitschrift fur Rryst ‘ecc. del Prof, Groth (Vol XI 425) Mae landolo : « Die thermischen constanten des Schwefels »'nel quale l’ A. descrive estesamente tutte le considerazioni, le sperienze, le con- clusioni ecc., sulle costanti termiche del solfo; sulla determinazione di- retta dei volumi; sulle misure goniometriche delle variazioni angolari che derivano dai cambiamenti termici, dando le medie dei tre coefficienti di dilatazione per temperature = 21°... 25° cent.; e sulle discordanze di mi- sure, ecc., nei cristalli artificiali, di solfo ottaedrico. Cita, lo Schrauf i lavori affini di Knopp, Russner, Rossetti, Scacchi, Brezanog Zepharowich ecc. nei quali pur si precisano dati fisici dello solfo cri- stallizzato, sia allo stato nativo, sia come prodotto di laboratorio. Devesi al Bar. di Foullon di Vienna (Gr. Zeits Vol. XII e XVIII, 1887), uno studio particolareggiato sulle cristallizzazioni di solfo nativo della ab- bandonata miniera plumbifera di Truskawiec (Galizia) dove si raccolsero cristalli di 2... 15 mm. di lunghezza, riferiti dall’ A. a tre consecutive ge- nerazioni, discernibili coll’ aiuto ancora delle diverse rispettive colorazioni, bruna, gialla, nerastra. L’ A. accenna ai minerali ivi presenti, insieme al solfo. Il Prof. Brezina calcolò le incidenze di essi cristalli. Sempre nel 1887, il Prof. Dana illustrò un es. delle collezioni Brush, derivante dalla miniera Rabbit-Hill (Nevada), interessante per ricchezza di facce, multiplo, con iso-orientazioni, e con parecchie forme di diverso sim- bolo (Zeits. Groth. Vol. XII, pag. 460). Nel 1888, con una lunga memoria (Groth. Zeits. Vol. XIV), il Prof. Mo- lengraaff da notizie sui cristallini di solfo, di origine vulcanica, dell’ isola di Saba (piccole Antille), i quali con soli 3 mm. di lunghezza, presenta- rono le facce di forme cristalline diverse, delle quali quattro giudicate nuove. L’ A. dà, nel suo lavoro, una tabella di tutte quante le forme di- — 813 — stinte del solfo nativo, fin ora conosciute, con i nomi di coloro che primi ‘le osservarono e illustrarono. Il Sella, nel 1888, annovera il solfo nativo fra i minerali cristallizzati sparsi nell’Anidrite presso il ghiacciaio del Gerboulaz, dove era già stata scoperta dallo Strùver la sempre rarissima Sellaite. Nel 1890 (Groth. Zeits. Vol. XVII), si descrissero dal Muthmann quattro modificazioni della struttura cristallina del solfo, artificialmente ottenuto, in un con quelle corrispondenti del Selenio. Il Prof K. Busz di Marburg dà nel 1889 (Zeits. Groth. Vol. XVI) una descrizione delle 19 forme osservate nei cristallini nati dalla decomposi- zione della Galena nella miniera di Musen (Siegen); unisce una tavola d’ incidenze, ed il rapporto degli assi (V. pag. 694 precedente). Sulla var. di solfo cristallizzato di Bassick (St. U. Am.), lo stesso Prof. Busz aggiunge (Zeits. Gr. Vol. XVII, XX, 1892), le misure ottenute da altri cristalli, indicando due nuove forme di simbolo (553), e (551), ossia b°/x0, ERDRA Con altra sua pubblicazione del 1892 (Zeits. Gr. Vol. XX), il Prof. Busz fece pure conoscere il solfo cristallizzato cementante la sabbia di una arenaria di Roisdorf, pr. Bonn, già stato indicato dal Becks; e descrisse i cristallini inerenti, piccoli in guisa da non superare un mm. col loro maggiore diametro, avendovi .riscontrate 23 forme distinte, ripartite su diversi individui, e subordinate alla piramide della forma primitiva. Di più, nello stesso Vol. XX c. s., illustrò i cristalli di solfo di una trachite silicifera dell’ isola di Milo, cristalli assai grossi, con 1,5 cent. di asse, e tanto ricchi di forme, secondo il Busz, da aversene rispettivamente 18 e 19 in due cristalli! - Infine, fece conoscere, contemporaneamente un nuovo geminato, offerto da un piccolo cristallino» di una geode, nel calcare solfifero. Già fino dal 1872, nella Sua opera - Mineralogia della Toscana - il D’Achiardi aveva descritti i caratteri ed accennati i diversi modi di gia- cimento del solfo nativo, in Toscana, procedendo dalle piccole quantità di questo minerale che derivano dalla scomposizione delle Piriti (Min. di ferro dell’ Elba, ligniti del Grossetano), alle varietà generate dai gas sulfurei .sprigionantisi fra le marne argillose, gessifere della zona fatta celebre, nel territorio di Volterra, nel Senese, ecc., dai soffioni boraciferi. Ivi le pufizze, le emanazioni di gas sulfoidrico col caratteristico odore nell’ aria di quella località, e le rapide ed eleganti produzioni di piccoli, brillanti e puri rom- bottaedrini di solfo, a tremie, riuniti in cespuglietti, in ramificazioni fila- mentose, in tenui e fragili crosticelle. Il D’ Achiardi tien parola del solfo come derivato dall’ ossidazione parziale epigenica della Stibina, sulle cri- stallizzazioni bacillari di questo minerale, delle miniere di Pereta, di Mic- — 814 — ciano ecc. (Senese); di quello delle gessaie di Sassalbo; delle panchine di Antignano ; delle sorgenti minerali di Rapolano e di S. Filippo, e di quello, anche più notevole, delle geodi a cristalli del marno saccaroide di Carrara. I gentili donatori di esemplari delle miniere solfifere al Museo di Bologna. Ed ora mi è grato e doveroso l’ aggiungere a questa lunga e pur non completa notizia della collezione degli es. delle nostre solfare, l’ elenco dei nomi di quelle egregie e cortesi persone che vollero con offerte, regali e notizie, contribuire allo studio e alla descrizione fisica e mineralogica dei terreni terziari racchiudenti i depositi di solfo, ed allo sviluppo via via conseguito dalle rispettive collezioni. i Primissimi per tale riguardo, e per ordine cronologico, i nomi dei Sigg. Ing. G. B. Monti (dono di cristalli sciolti, nel 1863 e 1865); del Prof. Comm. A. Bordoni (1863), Comm. Ing. A. Pancaldi; del Prof. Cav. G. Gardini (1865), del Cav. Ing. E. Niccoli (1892); ed in più volte, dal 1863 al 1892, con nobile, premuroso pensiero, con somma larghezza e vera ge- nerosità, l’Amministrazione della Società Anonima delle miniere solfuree di Romagna. Ringrazio di nuovo, pubblicamente, queste esimie persone, non senza dirmi pronto ad accettare qualche altra bella cristallizzazione che per for- tuna avessero ancor disponibile. 16 19 23 27 28 29 30 31 32 33 34 — 815 — INIDRCERDETREERE RU RE Rombottaedro tipico, semplice (0) del solfo nativo. Id. con modificazioni 0%/.P.e!.g!, c. s. Id. fabulare, per il prevalente sviluppo delle pinacoidi P. Id. semplice; gruppo di bei, cristalli su ganga bituminifera. i Rombottaedro ottuso (0*/), con strie profonde (gruppo di cristalli). Cristallo prismatico, bipiramidato (JM. 5/,), isolato, striato. » bipiramidato (0!/, 05/2). » ottaedro ottuso (05) dominante; con P, g°. » ottaedro ottuso dominante, multiplo, con iso-orientazioni. Es. a coppia di cristalli distorti, allungati, iso-orientati, (con sezione sehema- tica, trasversale). Cristallo distorto (0% domin.), multiplo, nitidissimo (21724). Gruppo con abito emimorfo, preval. 03/ super. 5'/ infer. e contorno elegante di confusa cristallizzazione (21723). Gruppo c. s., con disposizione consimile a quella della fig. 12. Cristallo 5'/: 6%/ el, con appendice bernoccoluta. 5 1 ) tipo dasoide. Cristallo A | Varii aggruppamenti. È ? } (Serie 21744... 889.) n DYs e Pd Triemarginato, acuto. È AB alfa cla) Le viè assai sviluppata e nitida. (Serie 21840. 860.) Pb?/, b3/- e ; tipo tabulare, P, prevalentissime (21861). P be! 6/,; tipo esagonale, c. s. (21866). Pio: ICH iti po CIS 218760080401)) M.b8/ ; tipo prismatico, piramidato (21960). Gruppo di due cristalli multipli, con adunamenti di piccoli individui, iso- orientati. Es. di decrescimento. Es. di distorsioni di abito sfalloide o clinoedrico). Es. con lamine sottili, limpide, co P accompagnate da piramidi multiple, sui loro margini, con disposizioni a tremìe. Cristallo distorto, con abito emimorfo (22403). | Cristalli con distorsione notevole ed abito emimorfo che ne deriva (21985 ... 987). —. &160} — Lastra appiattita, con solchi e gradini concentrici, per impedito accrescimento, normale. Es. di allineamenti o pile, di individui accorciati o tabulari, addossatisi con comune parallelismo degli assi rispettivi, nella direzione prevalente del- l’asse principale. Con deviazioni producenti abito curvilineo, o a zig-zag, irregolare, nei singoli complessi prismatici che ne risultano. (Serie 21996 ... 22012.) Es. di iso-orientazione, con individui costituiti analogamente ai casi preceden- temente rappresentati (22000). Es. di facce con intaccature (22032). Es. di intaccature e strie sulle facce ecc. (22031). Es. di sagrinature sulle facce pinacoidi (22018). Es. di intacchi, solchi, sagrinature irregolari sulle pinacoidi, essendo rimaste illese le facce ottaedriche contigue (22026 ... 027). Gruppi di cristalli con distinti rilievi di poliedria suile facce ottaedriche d| (22022). Incavi lievissimi, a contorno circolare, fra loro strettamente contigui sulla pinacoide 0'/ (22028). Ingrandimenti delle impronte e degli incavi notati sulle facce di alquanti cristalli. Es. di incavi, e di piccole impronte, a contorni poligoni o circolari, che si no- tano sopra le facce di alquanti grossi cristalli, e ingrandimenti di talune istruttive modalità. (Serie 22033 ... 038.) Disposizioni tabulari con gradini o solchi concentrici, abito quasi corolliforme, per essere stato impedito il normale accrescimento. Depressioni lievissime, ma estese, sulle facce, con tenuissimi gradini a limiti ondulati, irregolarmente concentrici. Modalità iniziali delle tremìe. Ottaedro con tremìe su tutte le facce. Ingrandimento di una parte di tremia. Grande ottaedro, incompleto, con profondi incavi, a gradini, per tremia. Ricostruzione di un cristallo, con tremìe, di cui esiste una parte, nell’es. 22050. Es. con tremìa sulla pinacoide P, dalla quale sorge un minore cristallo iso- orientato. Geminato cc d!/, (0111); es. 22073. Geminato cce! (c0011); es. 22075. Solfo sferoedrico, associato ad un cristallo regolarmente rombottaedrico. Cristalli di celestina, laminari e contorti, a guisa di lame di trincetto ecc. (Es. 22646 ... 678, 679, copiati dal vero.) Romboedro inverso, della calcite, con facce convesse, e sporgenze centrali di piccoli romboedrini, diagonalmente disposti. » Mem SeEV Tom Mi Bombicci _ Solfo di Romagna _ Tav. I. L. fombicci dis dal vero E Contoltine. Lit. Mazzoni e Pizzoli-Bologna . Mem.Ser V_ Tom. IV. Bombicci _ Solfo di Romagna_ Tav. IL La VAI 22031 bis Jo. Pombic ci dis dal vero E Contokine. Lit Mazzoni e Rizzoli-Bologna Ibi ei dai ui VA (Hi Mem.Ser V Tom. IV. Bombicci_ Solfo di Romagna__Tav. III. Jo. Fombicci dis dal vero E.Contoltine. . Lit. Mazzoni e Rizzok-Bologna are INDICHI Membri della R. Accademia delle Scienze per l’anno 1893-94 . . ..... .Pag. 3 F. Delpino — Eterocarpia ed eteromericarpia nelle Angiosperme. . .... » 27 G. Tizzoni ed E. Centanni — Siero antirabico ad alto potere immunizzante CEIICODUE UP IM E N ERO I RO DE) C. Taruffi — Intorno ad un feto umano privo degli organi generativi e del- IBUIROCCAR (CAI CHNOSOMODII CONDIVISO A. Righi — Di un nuovo elettrometro idiostatico assai sensibile . . .... » 99 C. Emery, G. Gribodo e G. Kriechbawmer — Rassegna degl Imenotteri rac- colti nel Mozambico dal Cav. Fornasini, esistenti nel Museo Zoologico COCHES CCRBOOGRARITA AA E 4 I G. F. Novaro — Metodo razionale dell’ isterectomia addominale totale per fi- MromionikdelZutero; congquattroutavole te e en 157 G, Ciamician e P. Silber — Sulla costituzione della Cotoina . . ..... » 169 A. Saporetti — Metodo razionale differente dagli antichi e dai moderni stessî di approssimazione intorno alle epoche d’ eguaglianza del tempo solare al (empomedioRerdelletmassimezonos4eaeRaR E 198 C. Fornasini — Quinto contributo alla conoscenza della Microfauna Terziaria MOUAROEECOVATCAINO LI TI RI a RO F. P. Ruffini — Delle linee piane algebriche le pedali delle quali possono essere curve che hanno potenza in ogni punto del loro piano; II.* Memoria. . . » 235 Serie V. — Tomo IV. 103 — 813 — F. Verardini — Ricordi storico-critici intorno il parto forzato ed immediato per le vie naturali nelle morte incinte in sostituzione del taglio cesareo e SUC NUOVE CVARIE-APPUCOZIONIE ANI RIO RI SII G. Ciamician e P. Silber — Sopra un nuovo principio della vera corteccia di Coto . | L. Calori — Sulla composizione dei condili occipitali nelle varie classi di ver- tebrati e sull’omologia del terzo condilo occipitale dell’ uomo con il condilo ‘ occipitale unico degli uccelli e deî rettili; con una tavola . S. Pincherle — Contributo alla generalizzazione delle frazioni continue . F. De Filippì — Ricerche sul ricambio materiale di cani privati dello stomaco e di lunghi tratti di intestino tenue G. Capellini — Rinoceronti fossili del Museo di Bologna ; con due tavole . G. Ciamician e P. Silber — Sulla Maclurina e Floretina G. Cocconi — Ricerche sullo sviluppo evolutivo di due specie nuove di funghi Lagenidium papillosum ed Exoascus flavo-aureus e sul parassitismo della Phoma uncinula sull’Uncinula adunca Lév.; con una tavola. C. Arzelà — Sulle serie doppie trigonometriche . C. Fabri — I moti vorticosi di ordine superiore al primo in relazione alle equa- zioni pel movimento dei fluidi viscosi. S. Trinchese — Protovo e globuli polari dell’ Amphorina coerulea. G. Ciamician e P. Silber — Ricerche sugli alcaloidi del Melagrano: Sui de- rivali della Granatonina ; II Memoria . F. Brazzola — Sulle localizzazioni anatomo-patologiche e sulla patogenesi della tabe . A. Gotti — Alcune ricerche sulla emiplegia della laringe negli animali do- mestici $ L. Donati — Ulteriori osservazioni intorno al teorema del Menabrea . V. Colucci — Di un rene soprannumerario in una bovina; con una tavola. A. Righi — Sulle oscillazioni elettriche a piccola lunghezza d’ onda e sul loro impiego nella produzione di fenomeni analoghi ai principali fenomeni del- l ottica » » » » » 249 269 283 297 321 337 301 361 373 383 393 401 417 487 — 819 — C. Emery — Osservazioni sui pori cutanei dei coccodrilli; con tavola. . . I. Novi — Il metodo Schiitsenberger-Siegfried per la determinazione dell’ ossi- geno mobile del sangue. Prove sperimentali eseguite con un nuovo appa- LRECCIOECONRIIAMANO] VANI N gna G. V. Ciaccio — Osservazioni microscopiche circa l interna fabbrica degli oc- chi delle squille e specialmente della Squilla Mantis; con due tavole A. Righi — Sulle onde elettromagnetiche generate da due piccole oscillazioni elettriche ortogonali oppure per messo di una rotazione uniforme . ‘G. D’Ajutolo — Di una enorme ipertrofia del lobo dello spigelio; con tavola . HF. Morini — Contributo all’Anatomia del Caule e delta Foglia delle Casuari- MCCEECONECIMqUertavoless sr io Lone Mai n SR O VT L. Bombicci — Descrizione degli esemplari di solfo nativo cristallizzato delle solfare di Romagna raccolti e classificati dall'autore nel Museo Mineralo- orcordellaRERUn0cEs tati RiBol0 gni CON navoe tt ee dh Pa o D* » » » » » » 635 137 SI SoS) Y a # PREMIO ALDINI SUL GALVANISMO Una Medaglia d’ oro del valore di italiane L. 1000 sarà conferita secondo la volontà espressa dal benemerito Testatore all’ Autore di quella Memoria sul Galvanismo (Elettricità animale) che sarà giudicata la più meri- tevole per l’ intrinseco valore sperimentale e scientifico. CONDIZIONI DI CONCORSO Il Concorso è aperto per tutti i lavori che giovino ad estendere le nostre conoscenze scientifiche in una qualche parte relativa al Galvanismo e che saranno inviati all’ Accademia con esplicita dichiarazione di Concorso, entro il biennio compreso dal 6 Giugno 1895 al 5 Giugno 1897, e scritti in lingua italiana, latina o francese. Questi lavori potranno essere sì manoscritti che stampati, ma se non sono inediti, dovranno essere stati pubblicati entro il suddetto biennio. Non sono escluse dal Concorso le Memorie stampate in altre lingue nel detto biennio, purchè siano accompagnate da una traduzione italiana, latina o frangese chiaramente manoscritta e firmata dall’ Autore. Le Memorie anonime stampate o manoscritte dovranno essere accompagnate da una scheda suggellata contenente il nome dell’ Autore con uua stessa epigrafe ‘o motto tanto sulla scheda quanto nella Memoria, e non sarà aperta la scheda annessa, se non di quella di tali Memorie che venisse premiata, le altre saranno abbruciate senza essere dissuggellate. Il Presidente dell’ Accademia farà pubblicare senza ritardo il nome dell’ Au- tore e il titolo della Memoria premiata e ne darà partecipazione diretta all’ Autore stesso. Il premio sarà inviato subito all’ Autore, se il lavoro premiato sia già pubblicato, in caso diverso gli sarà rimesso appena avvenuta la pubblicazione. Le Memorie portanti la dichiarazione esplicita di concorrere al detto Premio dovranno pervenire a Bologna entro il 5 Giugno 1897, con questo preciso indi- rizzo: Al Segretario della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Bologna, 6 Giugno 1895. JE PRESIDENTE GIOVANNI CAPELLINI JE SEGRETARIO ALFREDO CAVAZZI Tip. Gamberini-Parmeggiani. “n CERO: AVAEA iz DS MEMORIE H. ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA —-_+@+—=- Serie V. Tomo IV. UE RE ee to | CEDAM i I MAO "it È EMUESUN IRON) 4 (I n \ | 4 | AE UTET Pa CAI a SMITHSONIAN INSTITUTION LIBRARIES AMATI 3 9088 01305 0703