r, è r. » * - DI * T - è PA | CI | i AI of the Museum Fat i: 3 n” i. COMPARATIVE ZOOLOGY, he: da i AT TARVARD COLLEGE, CANIRIDGE, MASS, i; Founded bp pribate subscription, im 1861. Te ; n ga (E | The gift of LOUIS AGASSIZ. 3 (a 1: | i No. i 3 @. * MEMORIE DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DIRIAOCEERIENTO MEMORIE REALE ACCADEMIA PETE SSCIENZIE DI TORINO SERIE SECONDA Tomo XXIV. TORINO DALLA STAMPERIA REALE SV * MDCCCLXVIN. ini nc ea ro: eva () ds ORLO Witt, trani " saio ROERO ta snai va su pati CARIETtA i CAL Mb ui ATENEA ty A ; Ni ST Le te, ta 0.) VARA AMATA HUgei panonna muta VESTI I AAA iu DARI Patt » perni ui Sio di... pr «Mena a une: Vi Jr MO en ENO n: nr fat ioni Vate) È ohi: MER SSA VAT e i 14 i, 4 Ti VA Mi A C] fl ENDICE Ban degli Accademici Nazionali e Stranieri . . . . pag. MurazionI accadute nel Corpo Accademico dopo la pubblicazione dElEprecedente Volta E MA ARA O RE A O) CLASSE DI SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE RecHERcHES dans l’état actuel de l’industrie métallurgique, de. la plus puissante artillerie et du plus formidable navire cuirassé, d’après les lois de la mécanique et les résultats de l’expérience; Memoire suivi de remarques sur la fortification permanente avec les gros canons cuirassés; par Jean CAVALLI » . . » Mémoire sur les formules du mouvement circulaire et du mouve- ment elliptique, Zibre, autour d’un point excentrique par l'action d’une force centrale; par Jean PramA. . . . . » Intorno AD ALCUNI FossiLi del Piemonte e della Toscana; breve Nota del Cav. Bartolomeo GasraLpI, Professore di Mineralogia » Stupi EMBRIOLOGICI sul pulcino; Memoria di Jac. MorescHoTT » SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA, e principalmente sopra una recen- temente scoperta a Verezzi presso Finale, del Prof. Giovanni Ramorino; accompagnate da una Memoria sulle conchiglie delle breccie e caverne ossifere della Liguria occidentale; pel Dot- TOrecASISSER: "0 iti CR RO RR OB N ALCUNE PROPOSIZIONI sulla superficie conoide avente per direttrici duetrette; (delBroft Giuseppe) BRUNOMNK Wa CN XVI 29/2] 317 VI Nora sulla superficie conoide, la direttrice curvilinea della quale è una linea piana di 2.° grado, ed interseca la direttrice retti- linea del conoide stesso; del Prof. Giuseppe Bruno . . pag. Nuove OoSssERVAZIONI GEOLOGICHE sulle rocce antracitifere delle Alpi; del Comm. Angelo Sismonpa. . . - . . . . . » Miémorre sur les éclatements remarquables des canons en Belgique de 1857 à 1858, et ailleurs, à cause des poudres brisantes; sur les chargements défectueux et sur les chargements d’égal effort dans les canons lisses et dans ceux rayés; de leur effet balistique important, et déduction de l’expérience, des tensions successives et maxima des poudres brisantes, des poudres pilons et de celles inoffensives, et de leur réception plus rationnelle. — Dissertation sur les principes des théories émises et ma- nière rationnelle de calculer la résistance vive des bouches à feu, de leurs proportions, et des épreuves de réception du tir et meécaniques les plus concluantes, et conclusion sur le choix du meilleur métal à canon, avec résumé final; par Jean Cavarti » 327 335) 357 ELENCO DEGLI ACCADEMICI RESIDENTI, NAZIONALI NON RESIDENTI, E STRANIERI AL I° DI LUGLIO MDCCCLXVIII ACCADEMICI NAZIONALI PRESIDENTE S. E. Scropis pr SareRANo, Conte Federigo, Senatore del Regno, -Ministro di Stato, Primo Presidente onorario di Corte d'Appello, Presidente della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Socio non resi- dente della Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli, Membro onorario del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Socio corrispondente dell'Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Scienze morali e politiche) e del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, C. O. S. SS. N., Gr. Cord. #, Cav. e Cons. onorario &#, Cav. Gr. Cr. della Concez. di Port., Gr. Uffiz. dell'O. di Guadal. del Mess., Cav. della L. d'O. di F. Vice- PRESIDENTE Moris, Dottore Giuseppe Giacinto, Senatore del Regno, Professore di Botanica nella Regia Università, Direttore del Regio Orto Botanico, Socio della Reale Accademia di Medicina di Torino, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Gr. Uffiz. &, Cav. e Cons. &, Comm. dell'O. della Cor. d’Italia. WIN TESORIERE Peyron, Abate Amedeo, Teologo Collegiato, Professore emerito di Lingue Orientali, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Socio Straniero dell'Istituto Imperiale di Francia (Acca- demia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Accademico corrispondente della Crusca, ecc., Gr. Cord. &, Cav. e Cons. &, Cav. dell'O. del Merito di Pr., Cav. Gr. Cr. dell'O. di Guadal. del Mess., Cav. della L. d’O. di F. Tesoriere AGGIUNTO Sisuonna, Angelo, Senatore del Regno, Professore di Mineralogia e Direttore del Museo Mineralogico della Regia Università, Membro della Società Geologica di Londra, e dell’Imp. Società Mineralogica di Pietroborgo, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze resi- dente in Modena, Gr. Ufliz. &, #, Comm. dell’O. della Cor. d’It., Cav. dell'O. Ott. del Mejidié di 2.° cl., Comm. di 1. cl. dell’G. di Dannebrog di Dan., Comm. dell’O. della St. pol. di Sv., e dell'O. di Guadal. del Mess., Uffiz. dell'O. di S. Giac. del Mer. Scient. Lett. ed Art. di Port., Cav. della L. d’O. di F. CLASSE DI SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE —T eri» Direttore Sismonpa, Angelo, predetto. Segretario Perpetuo. Sisvonpa, Eugenio, Dottore in Medicina, Professore Sostituito di Mineralogia nella R. Università, Professore di Storia Naturale nel Liceo Cavour, Socio della Reale Accademia di Medicina di Torino, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. *, &. Segretario aggiunto. Sosrero, Ascanio, Dottore in Medicina ed in Chirurgia, Professore di Chimica docimastica nella Scuola di applicazione per gli Ingegneri, Membro del Collegio di Scienze fisiche e matematiche, Comm. +. ACCADEMICI RESIDENTI Moris, Giuseppe Giacinto , predetto. Cantu', Gian Lorenzo, Senatore del Regno, Dottore Galczioli in Medicina, Medico in 1° della R. Persona e Fo do , Professore emerito di Chimica generale nella Regia Università, Ispettore presso il Consiglio superiore militare di Sanità, Socio della Reale Accademia di Medicina di Torino, Gr. Uffiz. £. Sisvonpa , Angelo , predetto. SisuonpA, Dottore Eugenio , predetto. SosreRo, Dottore Ascanio, predetto. Cavani; Giovanni, Luogotenente Generale, Comandante Generale della R. Militare Accademia, Membro dell’Accademia delle Scienze militari di Stoccolma, Gr. Uffiz. &, £, Comm. @, Comm. dell'O. della Serie II. Tom. XXIV. 2 x Cor. d’It., Gr. Cord. degli Ord. di S. St. e di S. Anna di R., Uffiz. della L. d’O. di F., dell'O. Mil. Portogh. di Torre e Spada, e dell’O. di Leop. del B., Cav. degli O. della Sp. di Sv., dell'A. R. di 3.° cl. di Pr., del Mejidié di 3.° cl., di S. WI. di 4° cl. di R. Berruti, Secondo Giovanni, Professore emerito di Fisiologia speri- mentale nella R. Università, Socio della Reale Accademia di Medicina di Torino, Membro onorario della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. &. RicneLmyx, Prospero, Professore di Meccanica applicata e Direttore della Scuola di applicazione per gli Ingegneri, Comm. #, Ufliz. dell’O. della Cor. d'Italia. SeLLA, Quintino, Membro del Consiglio delle Miniere, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Membro dell’ Imp. Società Mineralogica di Pietroborgo, Gr. Cord. #, Gr. Cord. degli Ordini di S. Anna di R., della Concez. di Port., e di S. Marino. DeLponte, Giambattista, Dottore in Medicina e in Chirurgia, Professore Sostituito di Botanica nella Regia Università, Socio della Reale Accademia di Medicina di Torino, Uffiz. &. Genoccni, Angelo, Professore di Calcolo differenziale ed integrale nella R. Università di Torino, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Uffiz. &. Govi, Gilberto, Professore di Fisica nella R. Università, Uffiz. &. Morescnort, Jacopo, Professore di Fisiologia nella R. Università, Socio della R. Accademia di Medicina di Torino, Comm. «. GastaLpi, Bartolomeo , Dottore in ambe leggi, Professore di Mine- ralogia nella Scuola di applicazione per gli Ingegneri, Uffiz. &. BarranA pr S. Rosert, Conte Paolo. S. E. PaLeocapa; Cav. Pietro , Senatore del Regno, Ministro di Stato, Ispettore nel R. Corpo del Genio civile, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, ecc., G. O. S. SS. N., Gr. Cord. #, Gav. e Cons. s, Gr. Cr. dell’O. della Cor. d’It., Gr. Uffiz. della L. d’O. di Fr., Cav. di 2.° classe di S. Anna di R. Copazza, Dott. Giovanni, Vice Direttore del R. Museo Industriale, Socio del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, &. Lessona, Michele, Dottore in Medicina e Chirurgia, Professore di Zoologia e Direttore del Museo Zoologico della R. Università, Socio della R. Accademia di Medicina di Torino, Uffiz. &. XI ACCADEMICI NAZIONALI NON RESIDENTI BerroLoni, Antonio, Dottore in Medicina, Professore emerito di Bota- nica nella Regia Università di Bologna, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, &, Uffiz. dell'O. della Cor. d'Italia. De Noraris, Giuseppe, Dottore in Medicina, Professore di Botanica nella Regia Università di Genova, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. *, &, Uffiz. dell'O. della Cor. d° Italia. Cerise, Lorenzo, Dottore in Medicina, #, Cav. della L. d'O. di F., a Parigi. Savi, Paolo, Senatore del Regno, Professore di Anatomia comparata e Zoologia nella Regia Università di Pisa, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. &; £#, Comm. dell'O. della Cor4fdiltz4aMPisa, Brioscni, Francesco, Senatore del Regno, Professore di Meccanica razionale e sperimentale presso la R. Scuola di applicazione degli Inge- gneri in Milano e Direttore della Scuola medesima, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. &, e degli Ordini della Cor. d’It. e di C. di Port. Cannizzaro , Stanislao, Professore di Chimica nella R. Università di Palermo, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. &, Ufiiz. dell'O. della Cor. d'It. Berti, Enrico, Professore di Analisi superiore e Fisica matematica nella R. Università di Pisa, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. &. S. E. MenareA, Conte Luigi Federigo, Senatore del Regno, Presi- dente del Consiglio dei Ministri, Ministro degli Affari esteri, Luogo- tenente Generale, Presidente del Comitato del Genio Militare, Primo Aiutante di Campo di S. M., Professore emerito di Costruzioni nella Regia Università, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze re- sidente in Modena, Membro onorario! del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, C. O. S. SS. N., Gr. Cord. &, &, Gr. Cr. @, e dell'O. della Cor. d'It., dec. della Med. d’oro al Valor Militare, Gr. Cr. degli Ord. di Leop. del Belg., di Leop. d'A. e di Dannebrog di Dan., Comm. degli Ordini della L. d’O. di F., di Carlo II di Sp., del M. Civ. di Sass.. e di C. di Port. XII ScaccÒi, Arcangelo, Senatore del Regno, Professore di Mineralogia nella R. Università di Napoli, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Comm. ®, Uffiz. dell'O. della Cor. d’Italia. ACCADEMICI STRANIERI. Ecie pr Briumont, Giambattista Armando Lodovico Leonzio, Sena- tore dell'Impero Francese, Ispettore generale delle Miniere, Membro del Consiglio Imperiale dell'Istruzione pubblica, Professore di Storia na- turale dei corpi inorganici nel Collegio di Francia, Segretario Perpetuo dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto Imperiale, Comm. &, Gr. Uffiz. della L. d’O. di F., a Parigi. Herscne, Giovanni Federico Guglielmo, Membro della Società Reale di Londra, Socio Straniero dell'Istituto Imperiale di Francia. Liesie, Barone Giusto, Professore di Chimica nella R. Università e Presidente della R. Accademia delle Scienze di Monaco (Baviera), Socio Straniero dell'Istituto Imperiale di Francia, #, Uffiz. della L. d’O. di F., a Monaco. Dumas, Giovanni Battista, Senatore dell’ Impero Francese, Vice- Presidente del Consiglio Imperiale dell’ Isiruzione pubblica, Segretario Perpetuo dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto Imperiale di Francia, Gr. Cr. della L. d'O. di F., a Parigi. BiLLiet, S. Em. Alessio, Cardinale, Arcivescovo di Ciamberì, Presi- dente Perpetuo onorario dell’Accademia Imperiale di Savoia, Gr. Cord. &; già Accademico nazionale non residente. De Bair, Carlo Ernesto, Professore nell'Accademia Medico-chirurgica di S. Pietroborgo, Socio corrispondente dell’Istituto Imperiale di Francia. Acassiz, Luigi, Direttore del Museo di Storia naturale di Cam- bridge (America), Socio corrispondente dell’Istituto Imperiale di Francia. Maxer, Giulio Roberto, Dottore in Medicina, ad Heilbronn (Wur- temberg ). XISI CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE dI —_ Direttore Sauri p’ IcLiano, Conte Lodovico, Senatore del Regno, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Accademico di Onore dell’Accademia Reale di Belle Arti, Gr. Uffiz. g, Cav. e Cons. &, Comm. dell’O. della Cor. d’Italia. Segretario Perpetuo Gorresio, Gaspare, Prefeito della Regia Biblioteca della Università, Socio corrispondente dell'Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), della R. Accademia della Crusca e di altre Accademîe nazionali e siraniere, Comm. &, &, Comm. dell'O. della Cor. d’It. e dell'O. di Guadal. del Mess., Uffiz. della L. d’O. di F. ACCADEMICI RESIDENTI Pexron, Amedeo , predetto. Sauri D’IcLiano, Conte Lodovico, predetto. S. E. ScLopis pi SaLerAno, Conte Federigo, predetto. Baupi pi Vesue, Conte Carlo, Senatore del Regno, Segretario della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Comm. &, &. Promis, Domenico Casimiro, Bibliotecario di S. M., Vice-Presidente della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Comm. «. Ricorri, Ercole, Senatore del Regno, Maggiore nel R. Esercito, Professore di Storia moderna e d’arte critica nella R. Università, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Comm. &, &, @. Bon-Compacni, Cavaliere e Presidente Carlo, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria e del Collegio di Belle Lettere e Filosofia della R. Università, Gr. Cord. &, &, Gr. Cr. dell'O. della Cor. d’Italia. Promis, Carlo, Professore di Architettura nella Scuola di applicazione per gli Ingegneri, Regio Archeologo, Ispettore dei Monumenti d’Antichità, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Ac- cademico d’onore dell’Accademia Reale di Belle Arti. GorrEsIO, Gaspare, predetto. XIV Barucc®i, Avvocato Francesco , Professore emerito di Storia antica nella R. Università, Ufiz. £. Berti, Giovanni Maria, Professore di Storia della Filosofia antica nella Regia Università, Uffiz. =. Fasrerti, Ariodante, Professore di Archeologia greco-latina nella Regia Università, Assistente al Museo di Antichità ed Egizio, Uffiz. ®, =. GmancreLLo, Giuseppe, Dottore in Teologia, Professore di Sacra Scrittura nella Regia Università, Uffiz. «. Perrox, Bernardino, Professore di Lettere, Vice-Bibliotecario della R. Biblioteca della Università, &. Rerxoxp, Gian Giacomo, Professore di Economia politica nella Regia Università, &. Ricci, marchese Matteo. Vartauri, Tommaso, Professore di Letteratura latina nella Regia Università, Comm. «. ACCADEMICI NAZIONALI NON RESIDENTI S. E. Crsrario, Conte Giovanni Antonio Luigi, Senatore del Regno, Ministro di Stato, Primo Presidente di Corte d'Appello, Primo Segretario di S. M. pel Gran Magistero dell'Ordine de'Ss. Maurizio e Lazzaro, Vice- Presidente della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia pairia, Membro della Giunta di Antichità e Belle Arti, Socio corrispondente del- l’Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Scienze morali e politiche), Presidente onorario della Società dei Sauveteurs di Francia, Gr. Cord. &, Cav. e Cons. =, Gr. Cr. degli Ord. della Cor. d'It., di Leop. del B., della Concez. di Port., di Carlo HI di Sp., del Leone dei P. B., di W. di Sy., Cav. dell'O. Ott. del Mejid. di 1.* cl., Gr. Ufiiz. della L. d'O. di F., Comm. dell’O. di Cr. di Port., Cav. di Croce in oro del Salv. di Gr., Cav. degli Ord. di S. Stan. di 2.* cl. di Russia e dell’Ag. rossa di 3.° cl. di Pr., freg. della Gr. Med. d’oro di R. pel merito scientifico e letterario. Maxzosi, Nob. Alessandro, Senatore del Regno, Accademico cor- rispondente della Crusca, Gr. Cr. dell'O. della Cor. d'It., a Milano. Corpi, Abate Antonio, Socio della Pontificia Accademia di Archeo- logia, *, =, a Roma. S. E. Csarvaz, Monsignor Andrea, Arcivescovo di Genova, C. O. S. SS. N., Gr. Cord. ®, Gr. Cr. degli Ord. della Cor. d'It. e di Cr. di Port. Spaxo, Giovanni, Dottore in Teologia, Professore emerito di Sacra Scrit- tura e Lingue Orientali nella R. Università di Cagliari, Comm. «. XV CaruTTI pi CantoGno, Domenico, Inviato Straordinario e Ministro Plenipotenziario presso la Corte dei Paesi Bassi, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Gr. Uffiz. &, &, Gr. Cord. degli Ord. d’ Is. la Catt. di Sp. e di S. Mar., Gr. Ufliz. dell'O. di Leop. del B., Gr. Comm. dell'O. del Salv. di Gr., Comm. dell'O. del Leone neerlandese. Tora, Pasquale, Consigliere nella Corte d'Appello di Genova, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Comm. &. Amari, Michele, Senatore del Regno, Professore onorario di Storia e Letteratura araba nel R. Istituto superiore di perfezionamento di Firenze, Socio corrispondente dell’ Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Gr. Uffiz. &, #=, Comm. dell’O. della Cor. d’It. Minervini, Cav. Giulio, Bibliotecario della Regia Università di Napoli, Socio corrispondente dell'Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), Cav. degli Ord. della Cor. d’Italia e della Ji dd Er ACCADEMICI STRANIERI. Tuiers, Luigi Adolfo, Membro dell'Istituto Imperiale di Francia, (Accademia Francese ed Accademia delle Scienze morali e politiche), Gr. Uffiz. della L. d’ O., a Parigi. Grore, Giorgio, Membro della Società Reale di Londra, Socio Straniero dell'Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Scienze morali e politiche ), a Londra. Mowmwsen, Teodoro, Professore di Archeologia, Membro della Reale Accademia delle Scienze di Berlino, Socio corrispondente dell’ Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), a Berlino. MurLer, Massimiliano, Professore di Letteratura straniera nell’Uni- versità di Oxford, Socio corrispondente dell’Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere). Rirscar, Federico, Socio straniero dell'Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), ecc., in Lipsia. Miener, Francesco Augusto Alessio, Membro dell'Istituto Imperiale di Francia (Accademia Francese e Segretario Perpetuo dell’Accademia delle Scienze morali e politiche), Comm. della L. d’O. di Fr. XVI MUTAZIONI accadute nel Corpo Accademico dopo la pubblicazione del precedente Volume MORTI 20 Novembre 1866. BruciérE DI BarantE, Barone Amabile Guglielmo Prospero, Membro dell'Istituto Imperiale di Francia, Gr. Cr. della L. d’' O. di F., Gr. Cord. di S. Aless. Newski di R., a Parigi. 15 Gennaio 1867. Cousin, Vittorio, Professore onorario di Filosofia della Facoltà di Lettere di Parigi, Membro dell’ Istituto Imperiale di Francia, Comm. della L. d’O. di Fr. 9 Febbraio 1867. De Fiuirri, Dottore Filippo, Senatore del Regno, Professore di Zoologia e Direttore del Museo Zoologico della Regia Università , Uno - dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Socio della Reale Accademia di Medicina di Torino, Comm. &. 17 Aprile 4867. Panizza, Bartolomeo, Senatore del Regno, Professore di Anatomia nella R. Università di Pavia, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze residente in Modena, Socio corrispondente dell’Tstituto Imperiale di Francia, Comm. *, &. 13 Luglio 1867. Mosca, Carlo Bernardo, Senatore del Regno, Primo Architetto di S. M., Primo Ingegnere Architetto dell’Ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro, Ispet- tore di Prima Classe nel Corpo Reale del Genio Civile, Socio della XVII Reale Accademia delle Belle Arti di Torino , dell’ Accademia Pontificia di San Luca di Roma e della R. Accademia delle Belle Arti di Milano, Gr. Ufliz. #, Cav. e Cons. &, Uffiz. della L. d’O. di F. 3 Agosto 1867. BorckH , Augusto, Professore nella Regia Università e Segretario Perpetuo della Reale Accademia delle Scienze di Berlino, Socio Straniero dell’ Istituto Imperiale di Francia, Cav. della L. d’O. di F. 24 Agosto 1867. FarapAy, Michele, Membro della. Società Reale di Londra, Socio Straniero dell’Istituto Imperiale di Francia, Comm. della L. d’O. di F., a Londra. i 22 Dicembre 1867. PoxceLet, Giovanni Vittorio, Generale del Genio, Membro dell’ Isti- tuto Imperiale di Francia, Gr. Uffiz. della L. d’ O. di F., a Parigi. 25 Gennaio 1868. S. E. Manwo, Barone Giuseppe, Senatore del Regno, Ministro di Stato, Primo Presidente onorario della Corte di Cassazione, Membro della Regia Deputazione sovra gli studi di Storia patria, e della Giunta d’Anti- chità e Belle Arti, Accademico corrispondente della Crusca, G. Cord. &, Cav. e Cons. onor. &. 10 Febbraio 1868. Brewster, Davide, Preside dell’ Università di Edimborgo, Socio Straniero dell’ Istituto Imperiale di Francia, Uffiz. della L. d’O. di F., a Edimborgo. 25 Giugno 1868. Martevcci, Carlo, Senatore del Regno, Direttore del R. Museo di Fisica e Storia naturale di Firenze, Presidente della Società italiana delle Scienze residente in Modena, Socio corrispondente dell'Istituto Imperiale di Francia (Accademia delle Scienze), Gr. Cord. &, &, Gr. Uffiz. dell'O. della Cor. d’It., Comm. della L. d’ O. di F. Serie II Tom. XXIV. 3 XVIII NOMINE VarLauri, Comm. Tommaso, Professore di Letteratura Latina nella Regia Università, nominato il giorno 6 gennaio 1867 ad Accademico residente nella Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. S. E. PaLeocara, Cav. Pietro, Senatore del Regno, Ministro di Stato, Ispettore nel Real Corpo del Genio Civile, ecc., nominato il giorno 13 gennaio 1867 ad Accademico residente nella Classe di Scienze fisiche e matematiche. Mixervini, Cav. Giulio, Bibliotecario della Regia Università di Napoli, nominato il giorno 20 gennaio 1867 ad Accademico nazionale non re- sidente nella Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Copazza, Cav. Giovanni, Vice-Direttore del R. Museo Industriale , nominato il giorno 1.° dicembre 1867 ad Accademico residente nella Classe di Scienze fisiche e matematiche. Lessona, Cav. Michele, Professore di Zoologia, Direttore del Museo Zoologico della R. Università, nominato il giorno 1.° dicembre 1867 ad Accademico residente nella Classe di Scienze fisiche e matematiche. Mayer, Giulio Roberto, Dottore in Medicina ad Heilbronn; nominato il giorno 1.° dicembre 1867 ad Accademico straniero nella Classe di Scienze fisiche e matamatiche. Micnet, Francesco Augusto Alessio, Membro dell’ Istituto Imperiale di Francia, nominato il giorno 19 gennaio 1868 ad Accademico stra- niero nella Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. ELEZIONI. DI UFFIZIALI Moris, Comm. Giuseppe, confermato il giorno 24 novembre 1867 nella carica triennale di Vice-Presidente dell’Accademia Siswonpa, Comm. Angelo, confermato il 17 novembre 1867 nella carica triennale di Direttore della Classe di Scienze fisiche e matematiche. Sauri, Conte Lodovico, confermato il giorno 24 novembre 1867 nella carica triennale di Direttore della Classe di Scienze movali, storiche e filologiche. SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE "i pool in ito MO DTA OT DES Menti (0) È Auror (NI cia pos hI 1g pale pri non a pira vr Adi toe pro ra RA das rat 4914 TA be Di N MATA i È Mb Mic Li 4 gi er, Ù, iano to i Maino! dalia ar a SAI, Y d vali pra ua ut PN fi ae cl tO RETE CAO a REN la STE A oe RECHERCHE, dans l’état actuel de l’industrie metallurgique, de la plus puissante artillerie et du plus formidable navire cuirassé, d’après les lois de la mécanique et les résultats de l’expérience ; MEMOIRE SUIVI DE REMARQUES SUR LA FORTIFICATION PERMANENTE AVEC LES GROS CANONS CUIRASSES, PAR JEAN CAVALLI Lu dans la seance du 29 janvier 1865. Introduction sur l’état de la question. Poco mieux nous éclairer sur les nombreuses questions élevées partout à propos de la recherche de la plus puissante artillerie et des meilleurs navires cuirassés, rien n’est plus opportun que de reproduire ici les pas- sages les plus saillants du rapport de M. DaLucreN, chef du service de l’artillerie aux Etats-Unis, adressé, au mois de décembre 1863, au dé- partement de la marine à Washington, et qui a été annexé au compte- rendu annuel fait au Congrès par le President des Etats-Unis (voir T. 8, page 625 de la Revue maritime et coloniale). Il y est dit que « les na- » vires cuiraissés en fer actuels et l’artillerie navale n’ont pas avance » dans la voie du progrès depuis leur création; que ces deux problèmes » importants n’ont pas été resolus d'une manière concluante, et que les » deux questions sont si étroitement liées, qu'il est impossible de les » traiter séparément. Serie II. Tom. XXIV. A RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » L’ancienne pratique bien connue de tirer à boulets pleins avec des canons de 32 livres (14%,5) et quelquefois avec des canons de 42 livres (19%) contre de grands bàtiments en bois, a fait sa der- nière apparition è la bataille de Navarin; c’était, comme on disait , le système en vogue au temps de Nelson et de nos capitaines de 1812. » A cette époque la défense avait l’avantage sur l’attaque, car les bordées des navires, mème continuées pendant plusieurs heures, étaient rarement capables de produire des avaries sérieuses. Les projectiles causaient des pertes d’'hommes, mettaient quelques canons hors de service, ou désemparaient la mature des bàtiments. Zes exemples de vaisseaux de ligne coules ou compromis gravement par le seul effet des boulets pendant le combat sont très-rares. » L’introduction des obus changea complétement les rapports exis- tants sur mer ainsi que sur terre entre l’attaque et la défense. Déjà avant ParxHAns on s'était quelquefois servi d’obus; mais ce n’était qu’accidentellement ou à titre d'essai. C'est à cet officier que revient l’honneur de l’application systématique de leur force. Cependant l’em- ploi de ces nouveaux projectiles se propageait si lentement, que le promoteur a vécu juste assez de temps pour apprendre les résultats gclatants obtenus par les obus dans le combat de Sinope, combat qui eut lieu plus de 30 ans aprés l’exposition compléète de ses vues sur cette question. .. .. » L’avantage de ces canons, d’une plus grande puissance et d’une plus grande portée que ceux connus sous le nom de canons Paixhans, est maintenant constaté par le fait que nos canens du calibre de 9 pouces (0",228), et de 11 pouces (0", 279), ont été d’un emploi efficace dans une certaine mesure contre les revètements métalliques. La résistance de ces bouches à feu est assez grande pour lancer sans inconvénients des boulets pleins avec des charges moitié et mème une fois plus fortes que les charges prescrites pour leur calibre. » (Remar- quons que ces bouches à feu sont en fonte, mais leur coulée est plus soignée et leur réception plus rationnelle que l'on n'a l’usage de faire chez toutes les autres puissances). » » « Nous pouvons donc étudier à notre aise la création d’un type de canon. (C’est le canon de: 50 tonnes et plus). » Pag. 673. A Kinburn (octobre 1855) les Francais engageaient l'action avec trois navires, auxquels il convient de donner simplement 92 PAR J. CAVALLI, to) le nom de batteries flottantes. La force de leurs appareils moteurs était peu considérable , mais ils étaient pourvus d’un blindage en fer et leur armement se composait de bouches à feu d’une grande puissance. Les projectiles des Russes ne pénétraient pas la cuirasse, mais quelques boulets entraient par les sabords et occasionnaient de légères avaries. Peu de temps après la paix fut conclue. La question des navires cui- rassés parut ne plus occuper l’attention publique pendant deux ou trois ans, quand tout à coup les Frangais créèrent la première frégate de cette espèce capable de tenir la mer; nous avons nommé la Gloire. Grande fut la sensation produite en Angleterre par cet événement. . ... On commenca de suite la construction d’une frégate cuirassée , le Warrior, qui devait surpasser la G/oire. Bientòt d’autres navires du méme genre furent construits en France et en Angleterre. L’opinion generale decretait que les navires cuirasses devaient constituer , pour le moment au moins, la force principale de toutes les marines de QUCLIERISAAO) Suivons l’érudit écrivain à la page 675 où il dit: « Malgré les études sérieuses et les investigations continuelles qu’ont fait faire les trois gou- vernements (France, Angleterre, Etats-Unis) si intéressés à la question, on ne connaît encore que d’une manière trés-incomplète l’effet de l’artillerie sur la résistance des plaques de fer de différentes formes. C'est au point que les hommes les plus capables et les plus expéri- mentés en ceite matière ne peuvent tomber d'accord ni sur l’épaisseur du revétement metallique nécessaire pour opposer la resistance la plus efficace, ni sur la puissance du canon à employer pour vainere cette resistance. » Dans les deux cas ci-dessus il y a des conditions qui fixent: des limites, soit au poids des canons, soit au poids de la cuirasse. » Pag. 676..... La cuirasse doit-elle étre composee de plaques solides d'une seule épaisseur?...... ou de plusieurs plaques de moindre épaisseur superposées pour remplacer une plaque solide?..... Enfin, ce qui est le plus difficile, comment fixer ces plaques, d'une manière solide, à la muraille du navire?..... Car on a:reconnu et prouvé que ceci était le point le plus faible de la défense. Aucun remède n'a été inventé jusqu'è ce jour pour prévenir la rupture des boulons et des écrous, mème lorsque le fer de la plaque elle-méme n'est pas endom- magé. Pour éviter cet inconvénient on a eu recours à une construction 4 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » toute entière en fer; mais d’après les faits recueillis jusqu'’à présent, » il paraît pour cette raison qu'on préfère le système qui consiste à » appliquer la cuirasse en fer sur un matelas en bois..... (C'est la cause de la rupture des liaisons qu'il faut òter, c’est-à-dire l’excès de vitesse que la partie frappée du cuirassement peut prendre, lorsque la masse est insuffisante. Nous verrons qu’on peut faire concourir la cuirasse dans la construction de la coque pour mieux utiliser la masse totale et la rendre plus efficace à soutenir la percussion des projectiles et les chocs de la mer orageuse). Pag. 677. « Une grande vitesse est indispensable aux navires cui- » rassés, et cette obligation de vitesse ajoute ainsi une difficulté sérieuse » à celle que rencontre déjà le constructeur embarrassé ........... » L'’expérience a prouvé: que la cuirasse du //arrior était très-vulnérable » non-seulement aux boulets, mais aussi aux obus. Pag. 680. « On aurait tort cependant d’en conclure l’infériorité du » système actuel,..... car un navire cuirassé, bien qu’exposé aux coups » de pareils canons, peut résister encore longtemps avant d’étre mis hors » de combat pour pouvoir se servir avec utilité de son artillerie. » L'affaire du Merrimac et du Monitor en a fourni une preuve con- » vaincante. Le Monitor portait à peine sur sa cuirasse les marques des » projectiles lancés par ces mèmes canons, qui, le jour précédent, avaient, » dans quatre fois moins de temps, agi d’une manière si destructive et » si formidable sur les coques et les équipages de deux belles frégates » en bois... .... Ces bouches à feu (malgré ce qu’en dit le duc de » Sommerset dans sa relation au Parlement anglais) ont produit un certain » effet sur les plaques de fer échantillons de la cuirasse du Warrior, » contre lesquelles elles ont été essayées ici. ..... Quant à leur vitesse » initiale , elle n'est pas non plus aussi minime que le prétend le duc » de Sommerset. Il constate seulement goo pieds (274,32). Or les » canons du Monitor ayant 9 pouces de diamètre, étaient surtout destinés » à lancer des obus avec la vitesse de 1250 pieds (381 mètres) initiale » à 1300 pieds (390”, 25) au moins. » Pendant l’action on envoya des boulets avec une’ vitesse initiale » de 1120 pieds (341”,37) Mais depuis cette époque on a constaté que » des canons de mème force et de méme calibre sont capables de lancer » des boulets pleins de 169 livres (76%,62) avec une charge de 30 livres » (135 62) donnant une vitesse initiale de 1400 pieds (426", 72). PAR J. CAVALLI. 5 » Les canons de 9 pouces (0",2286) du Merrimac étaient princi palement destinés à lancer des obus de 72 livres (32% 64) avec une charge de ro livres (4%,5), et donnaient ainsi une vitesse initiale de 1400 pieds (426", 72). Mais on peut se servir de ces mèmes canons en toute sécurité avec des boulets pleins et une charge de 13 livres de poudre (6%, 12), ce qui produit alors une vitesse initiale de 1290 pieds (393,12). Un de ces canons a été tiré 750 fois en lancant des obus, et ensuite 500 fois avec des boulets, et toujours à la plus grande charge. Aprés avoir tiré un nombre aussi considérable de coups, ce canon ne montrait cependant aucune trace de fatigue ou de détérioration. » Le boulet en fonte lancé par le Monitor pesait en moyenne environ 169 livres, (76% 62), charge 15 livres (6%, 8), vitesse initiale 1220 pieds (371°, 81). Ceux de fer 186 à 187 (84%, 33 à 84,79); si, comme on l’admet généralement, l’effet du choc est proportionnel au carré de la vitesse, ct seulement au poids du projectile. » On affirmait aussi en Angleterre que, d’après les résultats obtenus, les plaques solides étaient supérieures. Quant à cela le capitaine Ecrisson n’avait mème pas pu choisir ses plaques, puisqu’on fut obligé, faute de mieux, d’employer des plaques d’un pouce d’épaisseur (0, 0254) pour former l’épaisseur totale de la cuirasse au moyen de ces plaques superposées. A. cette époque il n'y avait pas de choix à faire dans les plaques. Mais il est certain, et la pratique la bien prouve jusqu'ici, que plusieurs plaques, qui n'en forment quune seule, sont bien preé- ferables, sous plusieurs rapports, à une seule plaque solide réunissant la méme epaisseur. Les plaques superposées seraient en tous points préférables è une seule, si ce m'était le nombre plus considérable de boulons qui sont nécessaires, et qui constituent une faiblesse dans le revétement. En second lieu, la critique s'est rejetée sur la tenacité de la fonte qui est inférieure è celle du fer; pour cette raison on l’accusait d’amoindrir Veffet du boulet fondu comparativement è l’effet du boulet forgé. » Mais ici il faut dire que la ihéorie est en désaccord complet avec la pratique. . ... Le boulet en fonte casse, celui en fer forgé n'est qu'gcrasé. Le boulet en fonte traverse d’abord la plaque complétement, et de plus, une grande partie de la garniture en bois qui a une épaisseur de 20 pouces. En outre il fait un trou considérable , et endommage grandement la plaque de fer en la fendant de divers còtés. Le boulet » » RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE. ARTILLERIE, ETC. forgé ne fait, au contraire, que se loger dans la plaque, et perce un trou moins considérable. Pag. 685. « Tant que la pesante cuirasse d'un navire sera simple- ment attachée à ses flancs, et ne sera pas placee de manière à con- tribuer par elle-méme à la solidité, mais au contraire fera fatiguer elle-méme ce navire, il doit arriver que le navire lui-méme possedera un grave element de constante deterioration dans le revétement metal- ligue. Cet élément diminuera peu à peu l’aptitude générale qu'offre le navire pour la résistance, et finira par le rendre impropre au combat. Ces observations ne peuvent cependant pas étre appliquées aux navires à tours mobiles, ou à coupoles, car ils sont probablement susceptibles d'une résistance au feu plus grande et plus sire que les navires blindés ordinaires. « Pour le moment, les bàtiments à tours mobiles semblent avoir trouve dans les eaux peu agitées des ports et des rivières la sphère ou le théàtre d’action qui convient le mieux à leur puissance spéciale. Néan- moins, quand on aura plus longtemps éprouvé l’action de ces navires sur les rivières, i se peut qu'on leur ouyre un champ plus waste d’action et d'utilité. » Armement des navires cutrasses. « De méme qu'on est encore très-indécis sur le meilleur moyen à em- ployer pour cuirasser les navires, de mème aussi il existe une grande divergence d'opinions et de moyens pratiques, relativement è l’artillerie que l'on doit employer pour obtenir les meilleurs résultats contre les revètements meétalliques. » On réduirait ces divergences d’opinions et de moyens à leur plus pon expression, sî on pouvait statuer avec intelligence sur les qualités particulières des canons à dme lisse, comme sur celles des canons rayes. » ...+.. Depuis longtemps les études et les travaux des hommes les plus experimentés se sont exerces sans succès sur la valeur réelle de ces canons. > i Pag. 686. « En jetant un coup d’eil sur les différentes formes (des canons rayés) que prit cette arme dans les différents pays où l'on s’en sert, on voit combien de solutions variées sont contenues dans ce problème. » PAR J. CAVALLI. 9. grande entre le type Armstrong, le canon Witworth, et le canon rayé francais. “Ar - Pag. 687. « On remarque, par exemple, une difference bien Ces pièces diffèrent totalement, soit par la matière qui compose le canon et le projectile, soit par la construction de ces deux parties et celle de la fusée de l’obus. E quoiqu'aucune puissance maritime ne soit entiòrement satisfaite de l’arme qui lui est propre, cependant chacune d’elles croit ne pouvoir rien trouver de mieux dans les armes des autres. Si en combattant contre un navire cuirassé on envisage seule- ment comme but principal la profondeur où peut pénétrer le projectile, tandis que les autres résultats ne paraissent que secondaires et acces- soires , il faut alors le canon rayé. Mais si l’on préfère ébranler le navire lui-mème, endommager la cuirasse, et briser le matelas qu'elle couvre, quelle que soit la profondeur où pénétre le projectile, alors, dans ce cas-là , le boulet lourd et rond, dont l’effet est si prompt, conviendra mieux pour obtenir ces résultats. Tant qu'on emploiera le système actuel de cuirasses, il est presque hors de doute, qu’un navire ainsi cuirassé sera attaqué d’une manière plus efficace par les boulets ronds, qui casseront et tordront le fer, qui de plus feront sauter les boulons, déchireront la cuirasse, et enlèveront de grandes portions de la coque intérieure en bois. « Comme la rapidité du tir est une condition essentielle pour cons- tituer la force générale d'une batterie, le. nouveau système de canons de forts calibres présente donc un désavantage (1 minute par coup avec le 11.°,3' avec le 15.°) qui ne peut ètre compensé d'une manière sérieuse qu’en concentrant une plus grande somme d’effets dans chaque projectile pris isolément. Pag. 689. « Deux nouveaux types de canons existent encore; l’un d’eux, celui de 15 pouces (0,381) est à présent ‘en usage à bord de nos navires blindés. Le canon de 9° et celui de 11° sont capables de continuer, pour ainsi dire, indéfiniment leur tir avec des boulets pleins et des charges de poudre plus fortes que celles qu'ils étaient destines à recevoir en principe (moitié de plus que celui de 9g.° et le double de celui de 11° , celle de 30 livres). » Un de ces canons de 11°a tiré 155 fois avec un boulet de 165 livres (74%, 81) à 169 livres (76%, 32), 22 fois avec 20 livres de poudre (9%, 068), 101 fois avec 25 livres (11%, 325) et:32 fois avec 30 livres (13%, 602). 8 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » Dans une autre circonstance, un canon de 11 pouces à été tiré 5oo fois; sur ce nombre 170 fois par jour pendant deux jours. Pag. 692. « Za resistance de ces canons fondus supporte done la » comparaison avec les meilleurs canons forges en Angleterre. Pag. 694. « Quels que soient les materiaua employees pour la cons- » #ruction interieure des forts, il faut toujours que l’extérieur soit pourvu » d'un revétement en fer. Des lignes de travaux de fortification en terre » seront également utiles comme complétant la position du fort prin- » cipal; mais dans aucun cas, la maconnerie à decouvert ne devra ètre » exposée au feu des canons rayés. » Un nombre suffisant de navires blindés doit ètre prét à appuyer » le feu des forts, et à défendre les intervalles laissés entre eux. » En méme temps que les forts et les navires cuirassés, on devra » faire agir aussi les béliers les plus puissants que l’on pourra con- » struire. » A l’exposé de l’état actuel de l’artillerie et des navires cuirassés, tiré d’un rapport officiel américain, il est bien d’ajouter l’extrait suivant d’une lettre d'un Anglais datée de Richmond, 14 novembre 1863, pu- bliée par le Times, dans l’unique but d’éclairer toujours mieux l’état des questions qui nous occupent. « Il n’est pas du tout flatteur pour » l'amour propre d’un Anglais d’entendre dire que l’artillerie de son » pays est en arrière des exigences de notre époque, et qu’en deux ans » et demi d’une guerre acharnée l’Amérique a dépassé l'Europe en tout » ce qui touche le calibre, la puissance. et l’efficacité de son artillerie... » Jai eu l’occasion d’entendre exprimer cette opinion pendant ces deux » dernières années dans les Etats du Nord comme dans ceux du Sud, » et ceux qui parlaient ainsi étaient les plus compétents de ce pays » dans la spécialité..... » On voit donc combien de problèmes restent encore à reésoudre et combien de questions importantes qui attendent une solution. En résu- mant il est dit, que les navires cuirassés et l’artillerie navale sont deux questions si étroitement liées ensemble qu'il est impossible de les traiter séparément; qu'on ne connaît encore que d’une manière très-incomplète l'effet de l’artillerie sur les plaques en fer, et la résistance de ces der- nières, quoiqu’on admette généralement que l’effet du choc soit pro- portionnel au carré de la vitesse, et à la masse du projectile: qu'on ne peut tomber d’accord ni sur l’épaisseur du revètement métallique PAR J. CAVALLI. 9 nécessaire, mì sur la puissance du canon à employer, tandis qu'il y a des limites soit au poids des canons, soit au poids de la cuirasse. La cuirasse doit-elle ètre composée de plaques solides d’une seule gpaisseur , ou de plusieurs plaques de moindre épaisseur superposées ? Comment fixer ces plaques d’une manière à augmenter la solidité du navire, au lieu de l’accabler en les attachant simplement à ses bords, ce qui peut le rendre très-vite impropre au combat? Le Monitor, type de navire bélier, ayant sa cuirasse presque entié- rement submergée hormis la tour erigée sur son milieu, est-il un navire exempt de reproches? A ce propos Sona Ropcers, Commodore U. S. N., dans sa lettre de Washington 7 avril 1864 (pag. 41 du Journal des Sciences militaires, mai 1864) dit: « Il existe deux catégories principales » de bàtiments cuirassés en service; ces deux catégories reposent sur » deux principes différents, et elles ont chacune leurs défauts et leurs » avantages particuliers; je veux parler de la catégorie des navires ordi- » naires blindés, et de celle du Monitor. » » Le type Monitor est, si je ne me trompe, un type nouveau, établi » dans le but de réduire l’accastillage au minimum et de ne conserver » au-dessus de l'eau que la partie strictement nécessaire pour faire » flotter le navire et pour recevoir l’artillerie; les pièces sont disposéges » dans une ou plusieurs tourelles tournantes placées au centre du navire » et prenant leur point d’appui sur la quille ei sur des carlingues.. Tels sont les plans auxquels M. Ecrisson a appliqué cette idée mére qui lui appartient. i » Comparés aux autres types, les Monitors exigent done le minimum » de tonnage pour faire flotter une armure d’une épaisseur donnée; dés » lors pour un tonnage donné, ils présentent le maximum d'’épaisseur » de cuirasse, et conséquemment le maximum d’impénétrabilité. C'est » ainsi qu'un Monitor de 844 tonneaux possède aciuellement un revé- » tement plus épais que ies navires blindés de 3480 tonneaux et que » le /arrior de 6000 tonneaux; et cependant ces derniers iypes n'ont » de cuirasse que dans la maîtresse partie de leur coupe. » L’artillerie des Monitors, placée au centre du navire, prend son » point d’appui sur la quille et sur les carlingues ; elle est soutenue » par toute la poussée du fluide et supporiée par toute la force de la » coque; il est dès lors possible d’employer è bord de ces bàtiments » des canons plus lourds que ceux qui peuvent ètre mis en batterie Serie II. Tom. XXIV. B RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. sur les flanes des navires ordinaires. Dans leur construction on a visé principalement à la concentration des canons et de la cuirasse; leur armure présente peu d’étendue, surtout en hauteur, tandis que dans les navires ordinaires blindés cette étendue est considérable; les canons relativement. nombreux , distribués sur les ponts des bàtiments cui- rassés du type ordinaire, sont transformés dans les Monitors en un petit nombre de pièces plus puissantes, disposées dans des tou- relles .....; les canons de 15 pouces sont les plus puissants. que nous ayons ‘essayés jusqu'ici, et les Monitors peuvent seuls en faire usage. Si l’on peut s'en rapporter aux expériences de cible, un boulet lancé par un canon de 15 pouces enfoncerait les flancs de tous les specimens de navires cuirassés d'Europe et d'’Amérique. Un seul coup bien dirigé coulerait le /7arrior , la Gloire , la Magenta, le Minotaure ou la BeWérophon: le Dictator (Monitor) de 3000 tonneaux possède, seul peut-ètre, une armure suffisamment épaisse pour résister à son action. » Les prineipales objections qu'on élève contre le type Monitor sont tirées du petit nombre de canons, de la hauteur du tir, de l’insuffi- sance des logements résultant de l’absence du pont ou des ponts su- péricurs, de l’insalubrité provenant de l’humidité et de la réclusion de l’équipage dans les parties basses du navire, méme pour un temps maniable , enfin de l’absence de clarté et de l’obligation de faire usage de ventilateurs mus à la vapeur. » Les Monitors ne fournissent pas, des vitesses en rapport avec la puissance de leurs machines; le recul de leurs hélices est excessif. J'attribue ces inconvénients à la forme en surplomb que présentent les hauts de ces bàtiments, forme qui est une source de force dans l'action par suite de son emploi comme bélier et de la protection qu'elle donne au propulseur et au gouvernail; mais qui devient à la mer une source de faiblesse et une cause de résistance; elle assujettit, il est vrai, le navire contre les mouvements que la mer tend à lui imprimer; les saillies placges sur les flancs s'opposent aux rovlis, et l’immense surface plane des extrémités contrarie les tangages, mais en définitive, puisque ce type de navire est plus lent que les autres types de mème tonnage et de méme force de machine, on doit pré- sumer que la différence de forme occasionne la différence de vitesse; or la forme en surplomb constitue toute cette diff&rence. 1, PAR J. CAVALLI. © iI » Si les navires ordinaires peuvent supporter les mouvements de » plongement et de tangage, on peut dire que les Monitors peuvent » les supporter aussi; ils peuvent avoir également leurs béliers sous » l’eau, et il n’est.nullement nécessaire pour établir l’égalité que leur » gouvernail ainsi que leur propulseur soient plus protégés que ceux » de leurs compeétiteurs. Ce type roule très-peu, et ses mouvements è » la mer sont trés-doux. . .... » En résumé, je pense que ces deux catégories de navires coustituent » deux armes différentes, ayant chacune leurs avantages spéciaux . . ... ; » mais si le type Monitor doit essayer sa force contre le type ordinaire » blindé, toutes dimensions égales, je crois que le premier doit écraser » le second, et qu'un Morizor capturera bien des navires cuirassés de sa » taille et de sa vitesse; enfin, puisque ces bàtiments trouvent leurs anta- » gonistes naturels dans les ouvrages de fortifications, il faut considérer » en somme que le principe Moritor renferme les plus heureux éléments » ‘d’appropriation des bàtimenis cwirassés aux entreprises de guerre. » A l’état actuel contre ces bàtiments è tourelles on objecte qu'ils sont seulement appropriés aux eaux peu agitées des ports et des rivières ; néanmoins on dit qu'il se peut qu'on leur ouvre un champ plus vaste d’action et d'utilite. De ces types Monitors à une seule, ou à plusieurs tourelles, armés d'une seule énorme bouche è feu, ou de deux bouches à feu de moindre grandeur, quel sera le plus formidable? Le tir concourant de tous les canons d’un bord sur le méme point du navire adversaire n’estail pas d’un effet très-supérieur à celui de ces mèmes tirs éparpillés? N'estal pas évident alors qu'il faut chercher à remplacer les tirs de toute une bordée faite avec plusieurs canons, par le tir d'un seul canon lancant à la fois un projectile du méme poids de fer, qui peut alors ètre tiré dans toutes les directions du haut d’une tour? De cette manière, outre qu'on écarte la grande difficulté d’exécution du tir concourant , on acquiert l’avantage d’y substituer un tir beaucoup plus puissant, et de réduire autant que possible la surface cuirassée d’un navire. Mais avec ces énormes bouches à feu, comment pourra-t-on au besoin faire un feu rapide, condition essentielle aussi è remplir? On dit quil faut 3 minutes par coup aux gros canons de 15 pouces de calibre , tandis qu’une seule minute suffit avec celui de 11 pouces. IN 2. rv A vr D Le On dit que ce désavantage ne peut ètre compensé (jusqu'à présent, 12 RECHERCHE DE LÀ PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. ajoutons-nous) qu’en concentrant une plus grande somme d’effets dans chaque projectile pris séparément. Mais les opposants de ce système nous disent en outre, que les hommes entassés dans les tourelles ne peuvent supporter l’ébranlement causé par le choc des projectiles ennemis; que le moindre dérangement de la tour réduit à l’impuissance l’artillerie du navire, et que la réclusion de l’équipage dans les parties basses du navire sans lumière est insupportable , etc. Quant aux questions qui ont rapport plus spécialement à l’artillerie, il est dit dans ce premier exposé, que les hommes les plus expérimentés n’ont obtenu aucun succès de leurs longues études sur la valeur réelle des canons lisses et des canons rayés. Que de solutions variées dans les divers pays où l’on fait usage des canons rayés! Ces pièces diffèrent totalement soit par la matière qui compose le canon et le projectile , soit par la construction de ces deux parties et de celle de la fusée de l’obus! Dans le cas où l'on envisage seulement comme but principal en combattant la profondeur où peut pénétrer le projectile, il faut alors sans doute le canon rayé; mais si l’on préfère ébranler le navire lui- méme, endommager sa cuirasse et briser le matelas qu'elle couvre, quelle que soit la profondeur où pénètre le projectile , alors le boulet lourd et rond, dont l’effet est si prompt, conviendra mieux pour obtenir ce résultat. Enfin les boulets et les canons en fonte sont meilleurs que ceux en fer, et la resistance des canons en fonte supporte la compa- raison avec celle des meilleurs canons forgés d’Angleterre. A lexposé précité sur l’état actuel de Yartillerie et de la marine militaire, fait par une très-compétente autorité américaine, ajoutons en- core ia conclusion è laquelle est parvenu le savant Contre-Amiral Paris membre du jury international, émise à la fin de la préface (page it) de son remarquable rapport, L'art naval à l’exposition de Londres, 1862: « En peu de mois et sans études préalables, ni expérience du passé, » chaque nation a produit une nouvelle force maritime, sans avoir le » temps d’analyser ce qu'elle faisait, ni peut-ètre de calculer ce qu'elle » dépenserait..... Encore si ce qui a été fait avait des bases certaines! » Mais il n’en est pas ainsi; car tandis que d’un coté on fait plier les » vaisseaux sous leur cuirasse, de l’autre on invente des canons qui » percent ces plaques de plus en plus épaisses, et. qui rendront le na- » vire cuirassé de mer presque impossible, s'ils réussissent en pratique » comme dans leurs courtes expériences. PAR J. CAVALLI. 9 Si la réussite en Europe des plus grands canons en acier est encore douteuse, celle des canons en fonte américains du plus fort calibre est, on peut le dire, assurée par les grands progrès déjà accomplis par ia metallurgie: car ils sont simplement coulés en bonne fonte plus tenace et plus dure que le bronze, et il suffit pour leur résistance de leur donner des proportions rationnelles , sans la nécessité de leur donner plus de poids qu'il n'est indispensable pour leur stabilité dans le tir, quel que soit le metal. On ne peut pas en dire autant des cuirasses, la théorie et l’expérience étant d’accord pour prouver l’insuffisance de la resistance du metal exposé au choc direct des projectiles d'un métal plus dur, la penetration ayant alors lieu quelle que soit l’épaisseur; mais en dispo- sant ces cuirasses de manière è éviter le plus qu'il sera possible le choc direct, et en leur donnant des épaisseurs suffisantes, nous verrons qu'on est parvenu à faire des navires cuirassés assez résistants. SOMMAIRE DU MÉMOIRE. Avant-propos. Avant tout il fallait traiter la grande question du meilleur choix des conditions balistiques du canon le plus puissant et maniable, et du cuirassement qu'on peut convenablement lui opposer; à cet effet la seule expérience n'a pu jusquici résoudre la question, malgré que VAmérique soit encore dans ce moment, comme nous dit M. Panis, sans infirmer ni confirmer tous ces jugements, « un champ » d’étude remarquable, en ce qu'on y est dans la réalité, au lieu des » expériences et de leurs procès-verbaux. » Le principe que l’effet du choc soit proportionnel à la masse et au carré de la vitesse du projectile a été démenti par l’expérience; pourtani la théorie, qui a été, et sera toujours le plus puissant moyen d’aider l’intelligence humaine, en marchant dans un mutuel accord avec Vex- périence, la théorie seule pourra plus vite et plus siirement nous guider au but; et à cet effet nous avons dirigé nos études è faire un essai de cette théorie. Mais en définitive on ne peut résoudre que partiellement tous ces problèmes si compliqués sur les effets de l’artillerie: ainsi, quels que soient les canons en usage, pour la comparaison de leur puissance on les suppose tous aussi bien proportionnés et partagés en diverses séries 14 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. d’un poids croissant par série; mais toutes ces bouches à feu de la méme série sont retenues d’un poids égal, quoique de calibres diff&rents, pour le tir contre les cuirassements de fer des projectiles sphériques où cylin- driques, de poids divers et de matière diverse, avec des charges telles qu’elles leur causent la mème impulsion dans le tir, au moins pour les bouches à feu de chaque série; impulsion que doit soutenir leur affiùt, retenu le mème pour tous ces canons de mème poids. Dans ces hypo- thèses il y a lieu à calculer pour chaque série l’effet du tir avec des séries de projectiles d'un poids croissant, lancés avec des charges décrois- santes, de manière que ces bouches à feu recoivent la mème impulsion dans le recul. Alors on verra, d’après les résultats, quel est le poids de la charge en rapport avec le poids du projectile et de la bouche à feu, qui produit le plus grand effet. Sur le plus grand effet il y a lieu aussi à discuter de quelle manière on doit l’entendre et calculer, selon le but qu'on se propose de rejoindre. Contre des plaques de cuirassement ce but sera évidemment de calculer l’épaisseur qu'il leur faudra donner pour soutenir le choc des divers projectiles à la limite de stabilité, ou au moins de rupture; et non pas quelle peut ètre leur pénétration dans un milieu indéfini. A cet égard il fallait d’abord trouver de nouvelles relations plus rationnelles entre les projectiles et les cuirassements entièrement en fer, ou en fer et bois, qui représentent mieux les effets du choc; c’est-à-dire une traduction de ce phénoméne dans le langage de la meécanique appliquée , plus vraisemblable que ne peut ètre le cas de la formule connue, donnant les pénétrations des projectiles dans un milieu indéfini dans tous les sens. Car ici, si l’on peut retenir le milieu résistant ou le cuirassement indéfini en étendue, il est au contraire très-limité en épaisseur, condition qui change entièrement le problème (ce qui nous oblige à revenir sur l'article 47 concernant les applications aux chocs des projectiles; voir notre Memoire sur la théorie de la resistance statique et dynamique des solides, 1862). PAR J. CAVALLI: 15 SOMMAIRE DU CHAPITRE I. Du choc normal des projectiles cylindriques contre le cuirassement de fer. Cette première question du choc est traitée dans le chapitre I, De choc normal des projectiles cylindriques contre les cuirassements de fer, dans lequel on a déduit les expressions des quantités de mouvement que peut épuiser la résistance d'une plaque indéfinie en extension , et d'une épaisseur limitée. Ensuite on donne l’expression du rayon de la partie circulaire de la plaque, entamée par le choc d’un projectile cylin- drique, frappant avec son axe perpendiculairement è la plaque. Enfin, par l'équation de la quantité du mouvement possédé par le projectile au moment du choc, avec celle que peut supporter la plaque, on a établi les relations cherchées entre les éléments du problème. Il en résulte que l’épaisseur de la plaque est proportionnelle au dia- métre du projectile et à la racine carrée des quantités suivantes , du rapport de la vitesse restant au projectile au moment du choc avec la vitesse d'impulsion à la compression du métal du projectile, et du rapport de la résistance à la compression du métal méme du projectile avec la résistance à l’extension du meétal.de la plaque, et d'un coefficient numé- rique, fonction du rapport de la résistance à la compression du métal de la plaque avec la résistance à l'extension du mème metal. En outre le volume de la partie entamée de la plaque est proportionnel à la quantité de mouvement possédée par le projectile. Si le cuirassement était composé de plusieurs plaques superposées égales, pouvant glisser entre elles sans frottement, alors son épaisseur totale serait en outre proportionnelle à la racine carrée de leur nombre: et par contre dle rayon du cercle enfoncé serait en cutre en raison inverse de la mème racine carrée. Mais en réalité, les cuirassements composés de plusieurs plaques boulonnées entre elles renirent dans le méème cas des cuiras- sements d’une seule plaque, et leur résistance doit ètre la mèéme toutes les fois que ces piaques seront percées de trous en nombre et grandeur égale ou équivalente. Seulement au moment d’étre enfoncé , le cuiras- . sement composé de plusieurs plaques superposées pourra donner lieu au glissement de ces parties, et présenter ainsi une plus grande résistance. 16 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Il lui reste en outre l’avantage de mieux se préèter à la construction mème de la coque, cu au moins à étre plus facilement lié ensemble, et è concourir ainsi à donner une plus grande solidité au navire. En outre les plaques minces pourront se faire plus grandes et d’une qualité meilleure. Ces avantages des cuirassements composés de plusieurs plaques minces disparaissent en grande partie lorsqu’on boulonne simplement ces plaques sur la muraille du navire, ou sur un matelas de bois qui y est attaché. Aussi la seule expérience n'a pu mettre d’accord les opinions contraires des constructeurs américains et des européens. SOMMAIRE DU CHAPITRE Il De la resistance vive du cuirassement compose de fer et bois: du choix du métal et du mode de reception des plaques. Au chapitre II on donne l’expression de la résistance du cuirassement composé de fer superposé au bois, l’expression des rayons des parties respectives entamées, et la relation entre le cuirassement tout en fer, et celui en fer et bois. Les conséquences principales qui en découlent, sont que le carré de l’épaisseur du cuirassement composé est égal à la différence du carré de l’épaisseur du cuirassement tout en fer avec le carré de l’épaisseur de la partie en bois, réduite par un coefficient complexe. Ce coefficient complexe est- en raison directe du rapport des vitesses des impulsions longitudinales è l’extension du fer et du bois, et inverse du rapport des résistances à l’extension de ces mèéme matiéres, dépendant aussi d'une fonction des rapports des résistances à la com- pression avec la résistance à l’extension de ces mémes matériaux; et enfin il dépend d’une constante è déterminer par l’expérience, pour réduire cette resistance de la partie en bois du cuirassement composé, de tout autant qu'on aura implicitement attribué en plus à la partie en fer retenant les plaques unies, tandis que leur liaison est faite par la partie en bois. On a trouvé encore que le carré des rayons des parties entamées du cuirassement, soit en bois, soit en fer, est proportionnel à la longueur du projectile et à l’épaisseur des parties respectives du cuirassement, et qu'il est en outre dépendant des coefficients mécaniques des matières respectives de la cuirasse et du projectile. Enfin on discute les qualités mécaniques du métal des plaques et le mode de leur réception. PAR J. CAVALLI. 17 SOMMAIRE DU CHAPITRE HI. Comparaison du choc direct et oblique des projectiles spheriques et cylindriques. Le chapitre IMI traite de la comparaison du choc direct et oblique des projectiles sphériques avec les projectiles cylindriques contre les mèmes cuirassements , et on trouve d’abord que l’effet du choc d’un projectile sphérique se réduit à celui d'un projectile cylindrique équi- valent, c’est-à-dire de mème poids, ayant cependant un diamétre moindre que le projectile sphérique et une hauteur conséquente. Suit l’examen du choc oblique des projectiles cylindriques, la détermination de l’angle d’inclinaison sous lequel pendant le choc le projectile cylindrique est stable, quand il s'abat et quand il culbute; et suit encore leur compa- raison quant à l’obliquité du choc avec les projectiles sphériques. Il en résulte que, lorsque dans le choc oblique le projectile cylimdrique est stable, à poids égal et vitesse restante égale avec les. projectiles sphé- riques, les quantités de mouvement épuisées contre la plaque sont dans les deux cas égales; que lorsque l’angle d’inclinaison sous lequel a lieu le choc sera moindre que celui de stabilité, les projectiles cylindriques s'abattront ,, et leur effet contre la plaque sera inférieur à celui des projectiles sphériques; et que, lorsque ledit angle sera plus grand, le contraire aura lieu, parce que les projectiles cylindriques culbuteront, et, en agissant ainsi plus longtemps contre le cuirassement, produiront plus d’effet que les projectiles sphériques. Le frottement du projectile contre la plaque pendant le choc joue ici un grand role, parce que la tangente de l’angle de stabilité est une fonction simple seulement de ce coefficient et du nombre des fois. que le poids du projectile sphérique, de mème diamétre que le projectile cylindrique, est contenu dans le poids de celui-ci. Il en résulte que si le frottement est nul, l’angle de stabilité est de 45° pour ce rapport K du poids du cylindre avec celui de la sphère de méème diamétre égale à 1,5; et il augmente de ce point avec l’aceroissement de ce rapport K. Si le coefficient du frottement rejoint l'unité, langle de stabilité devient nul pour le rapport K égal è 1,5, et ensuite il augmente encore avec ce rapport; et si le coefficient du frottement égale le rapport de Serie II. Tom. XXIV. e 18 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. 3 avec 2 fois K susdit ou lui est supérieur, alors, à partir mème des angles d’inclinaison les plus petits, les projectiles cylindriques culbuteront toujours, et conséquemment leur composante de la quantité de mou- vement normal sera plus grande que celle des projectiles sphériques d'un poids égal et d’une vitesse restante au moment où ils frappent la plaque sous le méme angle d’inclinaison. SOMMAIRE DU CHAPITRE IV. Influence des différentes matières des projectiles et des plaques. Au chapitre IV on examine l’influence dans le choc due à la différente matière des projectiles et des plaques, et l’on trouve que, pour des plaques qu'on peut pratiquement considérer comme indéfinies en extension, de différentes matières, frappées par les méèmes projectiles, leur épaisseur est simplement en raison inverse de la racine carrée des tenacités, en retenant que la résistance à la compression est respecti- vement égale à la résistance à l’extension; et les surfaces respectives des parties entamées sont en raison inverse de ces épaisseurs et des produits des densités par les vitesses d’impulsion que les matières respectives des plaques peuvent supporter; tandis que les volumes de ces parties enta- mées sont seulement en raison inverse de ces derniers produits. Si les effets du choc restent en decà de la limite de rupture, il devient évident que les plaques d’acier plus tenaces et moins malléables que les plaques de fer présenteront beaucoup plus de résistance à la percussion: des projectiles; mais si cette limite est dépassée, comme c'est le cas des pro- jectiles lancés avec des canons, alors il est aussi évident que les. plaques d'une matière plus malléable se fendront moins, ou ne se fendront pas du tout, parce que les projectiles, en les pénétrant, y épuiseront leur force vive. i Dans la comparaison des effets du choc des projectiles cylindriques différents de poids, de matière et de proportion, ainsi que de vitesses restantes, contre des plaques d’égale matière, l’on trouve que leurs épais- seurs doivent étre directement proportionnelles aux rayons des projectiles, à la racine carrée de leurs vitesses restantes et des coeflicients des résistances de la matière respective des projectiles à la compression, et en raison inverse des racines carrées des vitesses d’impulsion à la PAR J. CAVALLI. 19 compression de la matière mème des projectiles: que les surfaces des parties entamées des plaques sont en raison directe des poids des projec- tiles et inverse de leur diamétre, et en raison directe des racines carrées des vitesses restantes aux projectiles et des vitesses d’impulsion à la compression que leur matière peut soutenir, et en raison inverse des résistances respectives à la compression de leur matière méme; tandis que les volumes et les poids des parties entamées des plaques sont simplement proportionnels aux quantités respectives du mouvement des projectiles respectivement possédé au moment du choc. On peut ajouter que les cubes des diamétres de ces projectiles sont en raison directe du rapport de leur poids et en raison inverse des rapports de leurs densités et de leurs poids, exprimés en autant de fois le boulet sphérique d’égal diamétre; que dans la comparaison des projectiles cylindriques de diffé- rentes matières, mais d’un poids et d’un diamétre égal, exigeant la méme épaisseur des plaques d’une matière égale, le rapport de leurs vitesses restantes devra égaler le rapport des surfaces des parties des plaques entamées, et ètre en raison directe des vitesses d’impulsion à la com- pression que leurs matières respectives peuvent supporter, et en raison inverse des résistances è la compression de ces mèmes matières. Si la comparaison se fait entre des projectiles de différente matière, mais d’un poids et d’un diamétre égal, et qui possèdent la mème vitesse au moment du choc, les épaisseurs des plaques de mème matière seront en raison directe des racines carrées des résistances à la compression des matières respectives des projectiles, et en raison inverse des racines carrées des vitesses d’impulsion à la compression de leurs matières mèmes. Enfin en comparant le choc des projectiles sphériques avec le choc des projectiles cylindriques, on rencontre les mèmes résultats qui ont été trouvés dans la comparaison des différents projectiles cylindriques entre eux. Il faudra pourtant observer que le diamétre du cylindre équivalant à la sphére est plus petit, devant ètre multiplié par un coefficient de réduction à déterminer par l’expérience. 20 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. SOMMAIRE DU CHAPITRE V. Des coefficients mecaniques, des applications et déductions concernant les cuirasses , les effets des projectiles spheriques et cylindriques, et du concours de la cuirasse dans la construction des navires. Dans le chap. V on fait des applications de la théorie précédente aux résultats de l’expérience, pour lesquelles il aurait fallu connaître exacte- ment les coefficients mécaniques des matériaux employés; en attendant on a assigné à ces coefficients des valeurs les plus vraisemblables d’après la connaissance de quelques-uns de ces coefficients. Les essais que nous avons pu faire, d’après la nouvelle théorie exposée dans notre Mémoire sur la théorie de la résistance des matériaux, sont trop limités; et les coefficients mécaniques qu'on trouve dans les auteurs et les aide-mémoire, sont pareillement déduits d’après la théorie préexistante, qui admet l’égalité de la résistance à la compression et à l’extension des barreaux fléchis, ainsi que la limite d’élasticité. Si ces coefficients sont assez satisfaisants en pratique jusqu'à la limite soi-disant d'’élasticité, on ne peut en déduire avec sùreté ceux pour la limite de stabilité et de rupture ; limite qui nous intéresse davantage dans ces questions du choc des projectiles, et dans celles de la résistance vive des bouches à feu, que nous nous proposons de. traiter dans un autre Mémoire. Dans chacun. de ces cas, et en général pour tous ceux où l’on a affaire aux forces vives, il n'est pas le plus souvent possible de se tenir dans la limite de stabilité, limite qu'on peut du reste franchir sans inconvénient à cause de la très-courte durée des forces vives, pourvu qu'on reste encore assez. loin de la limite de rupture. D’après des expériences faites en Italie en 1863 avec le canon de 165 "il rayé et cerclé , qui tira des projectiles cylindriques d’acier du poids de 5o kil. contre un but cuirassé de 12 centiméètres de fer, et 70 de chéne, on a trouvé 16 centiméètres pour l’épaisseur de la cuirasse entiè- rement en fer d’égale resistance: ensuite on a déduit le coefficient 0,537 de réduction de l’expression de la résistance de la partie en bois dépendant du manque de liaison propre des plaques en fer, liaison qui leur est fournie par la muraille de bois. Dans le mème but, ayant été tiré aussi un projectile sphérique pareillement d’acier, qui perca également la plaque, PAR J. CAVALLI. i 2i et resta logé dans la muraille de bois, on a pu déduire le coefficient fractionnaire 0, 0c644 du rayon de la sphère, hauteur des faîtes des calottes, limites entre lesquelles il faut prendre l’intégrale des compressions des couches élémentaires de la sphère, sans quoi l’analyse nous don- nerait une vitesse d’impulsion nulle pour celle que peut supporter la sphère, le cone et tout autre corps terminant par un point, si on n’en retranche un petit segment pratiquement insignifiant. Conséquemment, en appliquant ces valeurs dans la comparaison des effets du choc des projectiles sphériques avec les projectiles cylindriques d'un poids, d’une matière et d'une vitesse égale au moment du choc, on trouve d’abord le coefficient 0, 8015 de réduction du diamétre de la sphère pour avoir celui du cylindre équivalent par ses effets dans le choc direct: on trouve ensuite que ces mémes effets des projectiles sphériques sont égaux à ceux des projectiles cylindriques d’un poids, d'une matière, et d’une vitesse restante égale, lorsque en outre ce poids est de 1,9418 fois le poids du boulet sphgrique du mème diamétre, c’est-à-dire qu'ils enfonceraient les plaques d’une égale épaisseur avec le mème rayon de la partie en- tamée; on trouve encore que les projectiles cylindriques, pesant moins de 1,9418 que le boulet sphérique de leur propre diamétre , exigent plus d’épaisseur de plaque que les projectiles sphériques; mais les sur- faces entamées de ces derniers sont moins grandes, tandis que le contraire a lieu lorsque les projectiles cylindriques sont plus lourds de 1,9418 fois le poids des boulets d’un diamétre égal. Ainsi la supériorité des effets du choc des projectiles sphériques ne devient considérable que sur les projectiles cylindriques beauccup trop allongés. Dans ladite expérience on a vu que les mèmes projectiles cylindriques de 50 kil., tirés avec les deux charges de 6, 5 et 8 kil. de poudre, restent encore par la première charge en partie dans le fer, ei une fois seulement la pénétration dans le bois a été de 41 centimètres; tandis que toute l’épaisseur du bois de 70 centimétres était traversée par la seconde charge. On a donc pu retenir le rapport de l’épaisseur du bois de 4 fois celle du fer, comme le plus rationnel, correspondant au juste but du cuirassement, celui d’arréter les projectiles. En retenant ce rapport, on trouve quà égale résistance la cuirasse toute en fer pèserait un cinquième de moins que la cuirasse composée, très-grand résultat qui, ajouté è celui de l’égalité de résistance des plaques minces superposdes sur une seule plaque égale en épaisseur è la somme des autres, doit fi 74 22 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. apporter une grande amelioration dans la construction des navires cui- rassés, celle de pouvoir supprimer le bois, et d’employer de longues plaques de fer pour construire ensemble la cuirasse et la coque du navire, en utilisant ainsi mieux cette grande masse de la cuirasse. On démontre la grande différence de hauteur à laquelle les navires cuirassés peuvent ètre sans danger soulevés par les vagues respectivement aux deux limites de stabilité ou de rupture, pour les deux manières de construction sans ou avec le concours de leur cuirasse, qui est de 4, 63 à 11, 12 métres dans le premier des deux cas, ou de 18, 67 à 44, 47 dans le second cas. SOMMAIRE DU CHAPITRE VI. Bases de comparaison. - Serie des vitesses initiales des projectiles quelconques; degré de stabilite, ou vitesse d'impulsion des bouches à feu dans le tir. — Série normale des poids des bouches à feu. Après avoir déduit dans les chapitres précédents les théories. con: cernant la percussion des projectiles tirés par l’artillerie, dans les cha- pitres suivants on poursuit la recherche de la meilleure bouche à feu, et on détermine, dans chaque cas géneral, quelle est l’épaisseur de la cuirasse capable de soutenir le choc de ces projectiles. Cette solution ne peut s'obtenir que d'une manière absolument géné- rale, à cause de la multitude des éléments et de la complication des formules de la mécanique appliquée auxquelles on parviendrait; mais on peut obtenir des solutions numériques en forme de tables contenant toutes les données et tous les résultats nécessaires pour comparer la puis- sance relative, soit d'une série de bouches à feu d’un mème poids avec les résultats du tir d'une série de différents projectiles croissants en poids, lancés avec des charges décroissantes, qui donnent à toutes ces bouches à feu la méme impulsion; soit en calculant plusieurs de ces séries pour des poids croissants jusqu'aux plus lourdes bouches à feu qu’on vient de fabri- quer, et en faisant de ces mémes tables pour le tir à différentes distances. Au chapitre VI on commence par établir une série de vitesses ini- tiales correspondantes à une série de charges de */ à '/, du poids des projectiles quelconques. Ces fractions ayant l’unité pour numérateur. et la série des nombres naturels au. dénominateur, il s’ensuit que ces nombres expriment les poids des.projectiles en autant de fois la charge PAR J. CAVALLI. 23 de poudre. Puis avec la formule du Genéral Prosert (1), on a déduit les séries des poids des projectiles divers tirés avec les charges de la série susdite, étant donnés les poids des bouches à feu et les vitesses d’impulsion que ces bouches à feu doivent toutes également recevoir dans le tir, telles è leur donner une stabilité suffisante, celle qui est déduite de la plus longue pratique, stabilité qui n’est pas moins nécessaire pour assurer en général la résistance vive de la bouche à feu méme et de son affùt, puisque la résistance vive que les solides peuvent supporter est proportionnelle à leur masse, lorsqu’elle est toute utilement employée, comme l’on doit et l’on peut faire dans les bouches à feu d'’artillerie; ce qui formera l’objet d'un autre Mémoire. Cette vitesse d’impulsion, de laquelle dépend la stabilité de la bouche à feu sur son affàt dans le tir, d’après la pratique la plus ancienne et la pratique récente, ne doit guère dépasser trois mètres et demi par seconde, limite admise aussi pour les grandes bouches à feu américaines les plus récentes, de 15 et 20 pouces de calibre. Pour les canons à ame lisse du calibre de 30 francais, qui étaient le plus en usage chez toutes les marines de guerre, cette vitesse fut poussée jusqu'è 3", 72, lorsqu'ils tirent le boulet sphérique de 15 kil. avec la charge de 5. En admettant cette vitesse d’impulsion la plus petite pour de grandes bouches à feu, en commencant par la susdite de 3125 kil. environ, et en multipliant ce poids successivement par 2, 4; 8 et 16, on parvient à une série normale des poids des bouches à feu croissants. réguliè- rement de 3125, 6250, 12500, 25000, 50000 kil.: à chacune desquelles on assigna des vitesses. d'impulsion pareillement croissantes, qu’on peut retenir comme des limites supérieures à peine praticables, de 3,72 - 4,04 - 4,36 - 4,68 - 5 mètres par seconde. C'est d’après lesdites séries qu'ont été calculées les tables des données et des résultats comparatifs ; mais si l’on veut, pour toutes les bouches à feu de cette série, main- tenir la mème vitesse d’impulsion de 3”, 72, et que la puissance de leur tir reste pourtant la mème que celle qui est. portée dans les tables susdites, la série de leurs poids deviendrait alors la suivante au lieu de la série précédente, 3125, 6778, 15727; 31452, 67204 kilogrammes. (1) Formule qu’il a mise à la suite des Formules relatives auz effets du tir par le grand géomèetre PoIsson. 24 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Chacun des poids de cette série normale des bouches à feu, avec la vitesse d’impulsion respectivement assignée , a donné lieu au calcul des effets du tir dans les principales circonstances à autant d’autres séries de bouches à feu de ce méme poids, recevant toutes cette mème vitesse d’impulsion, mais percées à des calibres diff&rents pour tirer chacune un projectile de mème poids sphérique ou cylindrique de 2 ou 3 fois le poids du boulet sphérique de son propre diamètre, chaque série avec la mème charge; de sorte que, pour chaque poids et forme des projectiles, il a fallu calculer les effets du tir des autres séries de bouches à feu composées d’autant de termes qu'on en a pris dans la série des vitesses initiales établies au chapitre VI qui précède. Les circonstances du tir, dont dans cette comparaison il a fallu au moins tenir compte, concernent la distance et l’espèce du but è battre. On a choisi pour but la muraille en briques des bastions de Metz, pour laquelle l’aide-mémoire francais nous fournit les coefficients de la for- mule connue pour le calcul des pénétrations, qu'on y dit conforme à l’expérience. Pour l’autre but on a pris la cuirasse toute en fer sup- posée indéfinie en extension et non en épaisseur, disposée de maniére, soit à étre frappée perpendiculairement, soit en position horizontale, ou élevée à 30 degrés sur l’horizon au vertical. Pour ces positions on a calculé les épaisseurs nécessaires à soutenir le choc des différents pro- jectiles è la limite de rupture, et de près aussi à la limite de stabilité. Chaque distance a exigé le calcul d’une table spéciale ; on a fait celles de près et celles à 1000 métres; et seulement pour quelques cas plus impor- tants, aux distances de 3000 et 6000 métres, en considérant la première de ces distances comme celle où le combat avec la grosse artillerie commence à devenir décisif; et en retenant les deux autres. distances environ comme la limite utile de la puissance respective des canons lisses et rayés, leurs portées maximum étant bien supérieures, surtout pour les canons rayés. SOMMAIRE DU CHAPITRE VII. Calcul et examen des tables des donnees, et des resultats du tir. Après avoir déterminé la marche à suivre dans le calcul des effets du tir des diverses bouches à feu composant les séries susdites, au cha- pitre VII on expose d’abord la formation des tables des données et des PAR J. CAVALLI. DI résultats du tir, soit de près, soit à 1000 métres de distance, pour les deux termes extrèmes de la série normale des poids des bouches è feu, suffisantes pour parvenir au choix de la meilleure artillerie; car on a pu de ceux-ci déduire les résultats du tir des bouches à feu intermé- diaires, et il a suffi de calculer ces effets aux autres distances de 3000 et 6000 métres pour quelques cas seulement. Contre la muraille de briques on s'est limité à calculer les pénétrations du tir normal suivant la trajectoire plutòt pour avoir des résultats comparatifs , que dans la confiance qu'ils puissent s'accorder avec l’expérience; tandis que contre les cuirassements entièérement en fer, on a calculé les quantités de mou- vement des projectiles au moment du choc, et les épaisseurs de ces cuirassements nécessaires pour leur résister dans les principales po- sitions de ces mèmes cuirassements; puisqu'on a vu que les volumes des parties entamées de ces cuirassements étaient proportionnels aux- dites quantités de mouvement, et que l’on a trouvé ces résultats assez d’accord avec l’expérience. A défaut de connaissance d’une balistique spéciale aux tirs des canons rayés, on a pris l’équation finie d'un are de la trajectoire donnée è la page 69 à 57 du Zraité de balistigue de G. Dipront, et d’après les tables des résultats du tir du canon de 30 de la marine francaise, de 5 en 5 degrés d’élévation jusqu'à 40, et jusqu'à la portée de 6580 métres, on a pu déduire le nouveau coefficient de la résistance de l’air que rencontre le projectile en parcourant la trajectoire qu'on a trouvée pour toutes ces élévations à peu près la méme; ce qui était suffisant è notre objet. De l’examen des résultats consignés dans les tables on a découvert des lois singulières. Les quantités de mouvement possédées par le pro- jectile à l’instant du choc, quelle que soit leur forme, vont en croissant avec l’accroissement de leur masse, malgré la diminution de vitesse, en tirant soit de près, soit de loin, avec la seule exception pour le tir à 1000 métres contre la cuirasse verticale, où il y a alors un maximum de cette quantité de mouvement répondant à la charge de '/;s. Par contre dans les diverses séries des épaisseurs des cuirasses entièrement en fer, on rencontre plusieurs termes maximums. Pour les tirs plus ou moins direcis ces maximums sont compris entre les charges de */5 à */;; avec très-peu de différence de ces épaisseurs entre ces limites des charges; de sorte que l’effet total maximum, mesuré par le produit Serie II. Tom. XXIV. D 26 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. de ces épaisseurs par les quantités de mouvement auxquelles sont pro- portionnels les volumes entamés des cuirassements, tombe toujours sur la charge de '/,; environ jusqu'àè 1000 mètres de distance du but. Pour le tir courbe, comme on l’emploie lorsqu’on veut frapper des cuirasses disposées horizontalement ou è peu près, on voit que les épaisseurs des cuirasses, comme les composantes normales des quantités de mouvement, croissent rapidement avec l’accroissement de la masse des projectiles, malsré la. diminution de. vitesse; de sorte que l’effet total maximum répond aux plus lourds projectiles, et conséquemment à la plus petite charge, qui soit pourtant suffisante à lancer le projectile è la distance voulue. Ces deux manières de tir sont depuis longtemps exécutées avec deux sortes de bouches è feu lisses, le canon et le mortier, et l’on voit quil faut encore employer ces deux manières de tir avec les bouches à feu rayées: si ce n'est que, comme l’on peut dans le méme canon rayé tirer des projectiles plus ou moins lourds, il en résulte qu'on peut aussi utilement exécuter ces deux manières de tir avec deux bouches à feu spéciales, qu’avec une seule, pourvu toutefois que le mème pas de rayure puisse convenir assez bien à ces deux sortes de tir, ce qui semble possible, en vue de la grande largeur de ces limites encore satisfaisantes. Les quatre tables des données et des résultats du tir sont calculées soit pour le tir de près, soit pour la distance de 1000 métres, et soit pour les plus légères, soit pour les plus lourdes bouches à feu de la serie normale. Quoique cette distance de 1000 métres sur mer puisse paraître la seule importante, on a cru cependant utile aussi de calculer les effets du tir è de plus grandes distances, afin de pouvoir bien établir dans tous les. cas le choix de la meilleure artillerie; et l’on a pris les distances de 3000 et 6000 métres comme les limites de l’effet utile respectif des bouches à feu lisses et rayées. Avec les charges de '/.; et '/,., nécessaires pour arriver respecti- vement à ces distances, on a trouvé que l’effet total du tir, déduit comme ci-devant contre des cuirassements verticaux pour les ‘trois distances susdites de 1000, 3000 et 6000 métres, est comme 1 à 0,323 à 0,522 pour les canons dont le poids est de 3''/;, etcomme 1 à 0,965 à 0, 903 pour les canons dont le poids est de 50' à 67 tonnes , tandis que contre des cuirassements horizontaux l’effet total à ces mémes distances est comme I à 1, 447 à 1, 272 pourles canons dont le poids est de 3 '/; tonnes: PAR J. CAVALLI. 27 et è peu près le mème pour les plus lourds canons de 50 tonnes, pourvu que l’on tire à la mème élévation de 35 degrés un projectile plus lourd avec une charge plus petite encore que +. D’après ces résultats on peut donc. conclure avec assurance , que pour tirer Jusqu'à la distance de 6000 métres et plus contre des cui- rassements verticaux, le choix de la meilleure bouche à feu doit tomber sur celles que l’on tire avec la charge de '/,; à '/,,, et tout au plus à 4; tandis que pour tirer sur un cuirassement horizontal, le maximum d'’effet total ayant lieu environ à la distance de 3000 métres avec le tir à 35 degrés d’élévation, distance qui, par rapport à la justesse, est déjà con- sidérable pour un tir courbe, le choix de la meilleure bouche à feu doit alors tomber sur celles que l’on tire au plus avec la charge de '/,;, ou avec une charge moindre encore pour les plus lourdes bouches à feu, soit que l’on adopte une seule bouche à feu, soit qu'on en prenne deux pour l’exécution de ces deux importantes sortes de tir. Dans ce dernier cas on aura à lancer deux projectiles d'un diaméètre égal, de poids différent, qui correspondent aux deux dites charges de '/,, et de '/,;. En prenant pour les plus légers de ces projectiles le rapport 2 ou 1,5 entre son poids et celui du boulet sphérique de diamétre égal ( parce qu'il résulte que ces rapports sont les limites pratiquables qui donnent le plus grand effet total comparativement aussi aux projectiles sphériques d'un poids égal), d’aprèés la condition qu'avec la charge la plus petite la vitesse d’impulsion causée dans le tir è la bouche à feu commune soit la mème que celle causée par la charge de '/,,, on a trouvé que les poids du plus lourd des deux projectiles susdits seront alors respectivement de 3,244, ou 2, 433 fois le poids du boulet sphérique du méme diamètre. Enfin si l’on fait aussi pour ce cas le calcul des quantités de mouvement et des épaisseurs du cuirassement et de leurs produiîts, il en résulte: 1.° Que l’effet total du tir courbe à la distance de 3000 métres contre des cuirasses horizontales avec la charge de '/,; est de 4,320 à 4,685 fois plus grand, respectivement aux deux bouches à feu du poids extrèéme de la série normale, que l’effet total des tirs faits è cette mème distance avec les bouches à feu et les projectiles correspondants à la charge de '/,,, nécessaire pour avoir la portée de 6000 métres. 2.° Que le susdit effet total n’est plus que 1,12 à 1, 24 fois plus grand, toujours relativement aux deux bouches à feu ayant les poids extrèmes de la série normale, que l’effet total des projectiles plus 23 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. lourds tirés avec la méme bouche à feu, qu'on a déjà trouvée la meit leure pour tirer les projectiles plus légers avec la charge de '/,, jusqu'à 6000 métres, lorsque ces projectiles plus légers pèsent deux fois le boulet sphérique de mème diamètre; tandis que ces facteurs deviennent 1,012 et 1,149 fois encore plus près de l’unité, lorsque ces mémes projectiles plus légers ne pèsent qu’une fois et demie le boulet sphé- rique de leur mème diamétre. On voit donc que l’on peut, sans perte sensible d’effet total, au lieu de deux bouches à feu, n’en avoir qu’une seule d’un poids donné pour tirer convenablement contre les cuirasses soit verticales, soit horizontales, en employant alors deux charges maximum et deux projectiles de poids différent, mais d'un mème diamétre; pourvu, disons-le encore, que le pas des rayures soit convenable pour ces deux espèces de tirs différents, ce qui semble possible, eu égard à la grande largeur de ces limites encore satisfaisantes. En comparant les effets du tir direct des canons lisses avec ceux des canons rayés, d’après les résultats contenus dans les tables, on trouve que dans le tir de près la supériorité , quoique de bien peu, reste toujours aux projectiles sphériques; tandis qu’ 1000 métres de distance elle passe déjà à ceux allongés qui pèsent deux fois le boulet sphérique d’un diaméètre égal, et non è ceux qui pèsent trois fois et plus. On voit que les projectiles allongés font alors moins d’effet que les projectiles sphériques d’un poids égal tirés avec les mèmes charges, de facon qu'il n'est pas convenable de faire des projectiles trop allongés. Une exception peut étre admise lorsqu’on se propose surtout d’obtenir la plus grande pénétration possible, comme en tirant contre les murs des magasins à poudre, et partout où l’on veut incendier l’intérieur des édifices è battre; pourvu toutefois que la loi de ces pénétrations suive toujours dans la pratique la formule en usage, avec laquelle ont été calculées les pénétrations inscrites dans les tables; mais il paraît que cette loi des pénétrations ne fut bien constatée que par l’artillerie fran- caise dans les murailles en briques des bastions de Metz, tandis que les pénétrations dans les murailles en pierres ne sont pas du tout pro- portionnelles aux carrés des vitesses, et sont bien loin d'augmenter dans une proportion plus forte que ce carré, comme elles le devraient d’après ladite formule. Il y a de plus lieu è croire, d’après des essais récents faits par l’artillerie italienne, que contre des murailles en pierre beaucoup PAR J. CAVALLI. 29 plus dures que celles en briques, les effets du choc suivent plutòt les lois susdites du choc contre les cuirasses en fer. Jusqu'ici on a rapporté les résultats des calculs des effets du tir de deux bouches à feu ayant les poids extrèmes de la série normale établie supérieurement; ensuite on a déduit les résultats principaux pour toute la série pour la première sorte de bouches à feu rayées plus propre aux tirs directs contre des cuirasses verticales avec la charge de */,,, suffisante pour rejoindre la distance de 6ooo méètres et plus encore. Pour la deuxième sorte de bouches À feu, plus propre aux tirs courbes, on a eu è calculer l’effet de celles rayées et lisses jusqu'à la distance de 3000 métres, distance pour laquelle on a trouvé que les canons rayés doivent ètre tirés avec la charge de '/;, et les lisses avec celle de ’/,, au moins. On a vu, d’après les résultats des tables I et II, jusqu'è quel point la préférence accordée en Amérique aux projectiles sphériques sur les projectiles allongés est fondée, c’est-à-dire qu'elle est fondée dans le tir de près, et de loin, lorsqu’on tire des projectiles trop allongés. Mème, quand’il s’'agit de battre les cuirasses horizontales, la supé- riorité des effets reste aux gros projectiles tirés avec des charges modérées, moins offensives pour les bouches à feu; et cette supériorité reste aux canons rayés, soit pour les quantités de mouvement restant aux pro- Jectiles, soit pour les épaisseurs qu'il faut donner aux cuirasses pour résister è leur choc. Désormais l’opinion que l’effet du choc des projectiles soit comme la masse multipliée par le carré de la vitesse, qui jusqu'àè ce jour a dérouté les progrès de l’artillerie, ne peut plus se soutenir après les démentis renouvelés de l’expérience confirmée par la théorie qu'on a exposée. i Les Américains, par l’impérieuse nécessité de la guerre, furent obligés de faire des cuirasses de plus en plus épaisses, à fur età mesure qu'ils augmentaient la puissance de l’artillerie, et surmontaient les difficultés de manceeuvrer de si lourdes bouches è feu. Ce progrès, fatal en appa- rence, si l'on veut, vers la grosse artillerie, a été poussé par les Américains jusqu'è couler des canons de l’énorme poids de 53 tonnes, dans le but de tirer avec la charge de ‘/, des projectiles sphériques pleins de 1000 livres (45355) de poids. Les cuirassements des tours de leurs Monitors, comme celles du Dictator et du Puritain, qui ont 4o cent. d’épaisseur, pourraient seules résister à la percussion de ces projectiles 30 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. si lourds, dont la puissance à 1000 métres de distance se maintient presque la mème que de près, et ne serait réduite que de très-peu, mème à 6000 mètres, si on allongeait leur forme, et si on les tirait dans des canons rayés de mème poids. En transformant d’après les mèmes principes en canons rayés les deux canons de 22 tonnes environ, que les Américains mettent dans les tours de leurs Monitors, la puissance de leur tir pourrait ètre accrue de moitié environ; et si, au lieu de ces deux bouches à feu, ils n’en placaient qu’une seule de 50 tonnes au moins, ils auraient des tirs d’une puissance presque trois fois plus forte que celle de chacun des deux canons susdits (1). Il s'ensuit donc quil faut armer les navires cuirassés du plus petit nombre de bouches à feu d’un seul modéle, et mème d'un seul gros canon rayé du plus fort calibre, soit pour tirer des boulets sphériques, soit surtout pour tirer l’un et l’autre des deux projectiles allongés de différent poids, selon la distance et la position du but è frapper. Ainsi les canons lisses seraient exclus, à cause que l’effet de leurs tirs est presque dans toutes les circonstances inférieur à celui des canons rayés bien conditionnés. SOMMAIRE DU CHAPITRE VIII. L'ensemble plus fort est l’emploi du plus grand canon sur le plus petit navire cuirasse. Quoique dans les temps passés l'art de l’ingénieur constructeur des navires ait pu rester étranger aux ingénieurs artilleurs, ainsi que l’artil- lerie aux ingénieurs constructeurs, désormais l’étude et la conciliation des exigences réciproques ne pourra ètre faite que tout à la fois, et non séparément, si étroite est la liaison qui relie les bonnes conditions de l'ensemble des constructions à l’installation et à la manceuvre de ces gigantesques bouches à feu, avec lesquelles on est parvenu à armer les plus formidables navires cuirassés. Ainsi, après avoir déduit dans les chapitres précédents les principes qui doivent servir de guide à la (1) Dans le Resumé des experiences qui ont été faites en Angleterre sur la résistance des plaques en fer par le Capitaine InGLISH, jusqu'à la fin de 1862, on lit: « qu’un coup du canon de 68 livres » fait autant de dommage que cinq coups du canon de 32 livres. » PAR J. CAVALLI. dI recherche de la plus puissante artillerie, et du plus formidable navire cuirassé, dans le VIII et avant-dernier chapitre on résume le tout, et on commence par les tràits caractéristiques du type des grands Monitors américains, comme celui qui, par suite des expériences de la guerre, a acquis aux Etats-Unis la préférence sur la multitude des autres types de navires cuirassés. En Angleterre aussi on construit des Monitors, et en Russie, sur 16 navires cuirassés stationnés à Cronstad, 12 sont des Monitors (voir tom. X, pag. 201 de la Revue maritime). On rapporte ensuite les critiques faites à ce type de navires cuirassés à tourelles ou à coupoles, résumées par l’Amiral Paris, ce qui, avec les citations rapportées dans l'introduction de ce Mémoire, forme un ensemble de raisons. pour et contre, parmi lesquelles il nous a paru pouvoir recueillir les quatre groupes principaux suivants de ces questions si importantes. Dans le premier de ces groupes on a résumé toutes les raisons concernant l’artillerie; dans le second celles qui concernent la tour érigée sur le milieu des Monitors; dans le troisième groupe on a recueilli ce qu'il y a à dire sur l’équipage de ces navires spéciaux; et dans le quatrièéme groupe on discute et on compare les deux principaux types de navires cuirassés, le Monitor avec le type ordinaire, eu égard aux qualités nautiques et au but principal à reJoindre, en bornant toutefois les recherches à l’étude de leurs conditions générales, et sans toucher aux projets relatifs. Quant è l’artillerie, la théorie et l’expérience s’accordent à démontrer que « les canons énormes sont seuls capables d’entamer les cuirasses, » et c'est sur ce principe que sont évaluges les forces relatives des » navires. » Ce sont les mots mémes de l’Amiral Paris. Le tir con- courant de toute la décharge d’une bordée dirigée sur le méme point du navire ennemi a été d’abord un grand progrès, qui cependant a ajouté de grandes difficultés à celles qui existaient déjà dans l’exécution du tir è bord des navires; difficultés qui réduisent notablement l’effi- cacité de ce tir concourant, non seulement à cause des coups qui s'écartent plus ou moins du but, mais parce que lors méme qu'ils frap- peraient tous dans le mème endroit l’un sur l’autre, leur effet serait encore inférieur à celui de tous ces projectiles d’une bordée, s’ils pou- vaient frapper le mème point dans le mème temps. On ne peut remplir cette condition que par le tir, dans un seul canon, d’un seul projectile, égal au poids de tous les autres de la bordée, l’effet duquel pourrait 32 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. étre encore plus que doublé, en égalant ce seul projectile au poids de tous ceux des deux bordées. C'est ainsi qu'on est arrivé graduellement aux plus gigantesques bouches à feu, que les Américains construisent et placent aujourd'hui sur leurs Monitors; navires cuirassés les plus for- midables justement parce qu'on les arme de la plus puissante artillerie. Entre l’effet du tir d'un canon de 5o tonnes et celui de deux canons de 25. tonnes chacun, tirant des projectiles, le premier d’un poids double de celui des deux autres, le reste dans les mèmes conditions, on remarque que les épaisseurs des cuirassements qu’ils peuvent respectivement entamer sont de 413 et 318 millimétres. On doit donc donner toujours la préférence au canon de 50 tonnes sur les deux de 25, surtout si l'on réfléchit qu’un seul coup du premier pourrait couler à fond le navire qui porte les deux autres, ce qui ne pourrait pas arriver pour les deux canons tirant sur le premier, mème après plusieurs coups. L'objection que ce seul canon puisse ètre mis hors de service, est un accident moins probable que tant d'autres qui pourraient mettre hors de service le navire mème. Ainsi il conviendra d’avoir, s'il le faut, pour rechange totale un second navire armé d’un autre de ces mèmes canons, plutòt qu'un seul navire armé de 4 moins gros canons à deux tours, 2 canons dans chaque tour; en réfléchissant surtout, qu'au lieu de ce seul grand navire, il convient beaucoup mieux d’en avoir deux, chacun de moitié deplacement. Il est évident que la manceuvre à vapeur, quoi- qu'elle puisse accélérer beaucoup le tir des lourds canons en épargnant les hommes, et en réduisant beaucoup leur nombre, s’effectuera d’une maniere plus simple et plus praticable en n’ayant qu’'un seul canon au lieu de deux dans une mème tour, et ayant une seule tour au lieu de plusieurs sur le méme navire. Sans doute, dans ces conditions plus simples, la plus gigantesque artillerie pourra se charger, pointer et tirer à l’aide de la vapeur, comme le chasseur manie son fusil, tout en ne laissant exposée aux coups directs de l’ennemi que la bouche du canon pendant le pointement et le tir, si l’on juge nécessaire de la mettre à couvert. Tel est le das. Si l'on persistait à faire les canons de métal mou, comme le fer et l’acier malléable, il faudrait les cuirasser aussi; tandis qu’en faisant les canons de bonne fonte, dure et tenace, et seulement tant soit peu ductile, ils pourront alors rester à découvert au bout de la iour, étant eux-mémes la meilleure masse couvrante, la plus résistante; ce que l’expérience a PAR J. CAVALLI. 3ò prouvé, et que la théorie confirme, lorsque la bouche à feu est d’une masse suffisante, et par sa forme et sa disposition ne peut étre frappée perpendiculairement. Au siége de Sébastopol, d’un tiers à la moitié des canons de bronze furent mis hors de service par les coups de l’ennemi, et un canon d’acier de KrouP, après avoir soutenu toutes les épreuves du tir, fut également mis hors de service, comme s'il eùt été de bronze, par les coups qu'on lui tira dessus, dans un essai fait expressément par l’artillerie francaise. On ne fait pas un tel reproche aux canons de fonte, et le Général Frépérix rapporte, qu’au dernier siége d’Anvers, les canons de fonte qui en gar- nissaient les remparts, quoique frappés par plusieurs coups de l’artillerie francaise, purent continuer leurs tirs. Les grands canons en fonte de fer sont encore aujourd’hui les plus convenables sous les deux rapports de la résistance et du prix, qui n'est environ qu’un dixiéme de celui des canons faits en fer et en acier. Ils ont assez de resistance et de durde , surtout en s’en tenant aux charges d’'/, è‘); qui sont celles du plus grand effet, tandis que la fabrication des gros canons en fer et en acier est encore. d'une réussite incertaine pour les grandes bouches à feu. Avec la coulée en fonte perfectionnée par Ropman, les Américains sont arrivés à faire des canons de 53 tonnes, que ne pourront songer à fabriquer couramment ni ArmwsrRoNnG, ni Krovp, tant qu'ils auront besoin de forger leurs pièces. Avec la méthode Bessmer, en n'employant pourtant que de bonnes fontes, alors qu'on sera parvenu à en perfectionner les produits au point de pouvoir supprimer l’opération du forgeron sur les pièces coulées, alors seulement il sera, croyons-nous, possible de faire des canons d’une fabrication uniforme, méme en acier, et à bon marché. En attendant il suffit de mieux soigner la fabrication et surtout la réception des canons en fonte de fer, puisqu'on sait les faire au)ourd’hui d’une ténacité supérieure à celle du bronze, d'une dureté très-supérieure et d’une ductilité suffisante, en un mot d’une résistance vive, convenable, et qu'on sait très-facilement mesurer, sur la fonte méme coupée de chaque canon (voir notre Meémoire), leur résistance vive. Car il n°est pas suffisant de faire la mesure de la ténacité, que l’artillerie des Etats-Unis a introduite dans la réception de ces bouches à feu, qui en a élevé dernièrement le taux minimum à 26 kilogrammes par millimètre superficie, ayant aussi obtenu des essais jusqu’à 32, ténacités qu'on a pareillement obtenues en Europe; mais c'est la vitesse d’impulsion qui Serie II. Tom. XXIV. E 34 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. résume tous les autres coefficients mécaniques, et qui donne la seule mesure rationnelle de la resistance vive des solides, ei en général des canons; et consequemment il faut reconnaître si elle est dans les limites de réception pour chaque pièce coulée. Les objets que l’artillerie doit battre sont en général de deux sortes, ou très-solides ou très-faibles, comme les hommes et les chevaux, et leurs habitations; ou les défenses, ordinairement de peu de consistance, de la fortification campale qu'on érige entre les forts des camps retranchés ; objets qui occupent une grande étendue. Alors nous croyons évidemment préférable l’emploi des plus légères bouches à feu, et des projectiles tels qu’'en emploie l’artillerie de campagne qui tire des projectiles allongés explosifs de 3, 4, 5, 9g et 12 kilogrammes au plus; car l’effet qu'on veut produire s'obtient alors bien plus facilement par la quantité des pro- jectiles, que par la puissance de chacun d’eux. Mais parmi la variété de ces faibles défenses on peut avoir à battre des édifices casematés, des batteries ou des navires cuirassés, que l’on cuirassera dorénavant de la manière la plus solide pour soutenir le tir de la plus formidable artillerie. Ainsi avec des bouches à feu et des projectiles les plus légers et nombreux, il faudra avoir un nombre bien moins considérable de bouches à feu les plus grosses, puissantes par la masse de leurs projectiles, et telles qu'on puisse à peine les transporter, et les tirer sur place. Comme au moyen des chemins de fer, meme quand ils sont faits à la hdte, on peut faci- lement transporter des poids de 20 à 60 tonnes, on voit qu'on arrivera bieniòt è traîner, méme dans les pares de siége, s’il le faut, quelques- uns de ces colosses d’artillerie (Des canons de 22 lisses furent employés au siége de Charlestown, mais, à ce qu'il paraît, sans grand succès, è cause seulement des trop grandes distances où on les tirait de la place). Ainsi les bouches à feu d’une puissance intermédiaire n’ayant plus d’emploi spécial, devront étre abandonnées, et il ne restera que les plus petites et mobiles, et les plus grandes, quoique très-peu mobiles, en quantité inver- sement proportionnelle à leur mobilité. Malgré le peu de difference d’effet dans le tir de près entre les pro- jectiles massifs des grosses bouches à feu lisses et rayées, les canons rayés l’emporteront dans toutes les circonstances, parce que la méme bouche à feu rayée peut tirer trois projectiles de divers poids: l’ancien boulet sphérique massif et les deux cylindriques ogivaux explosifs, l'un d’une fois et demie le poids dudit boulet, et l’autre de deux fois et demie, PAR J. CAVALLI. 35 avec des charges causant la méme impulsion à la bouche è feu, et cette bouche pourra ainsi exécuter soit les tirs directs, soit les tirs courbes de la plus grande efficacité, tant de près que de loin, contre toute sorte d’objets les plus résistants. Quant au second desdits groupes de raisons, concernant les tours fixes ou mobiles autour de leur axe, on partage l’avis de l’Amiral Paris pour les tours fixes découvertes, non-seulement à cause de leur plus grande simplicité et solidité, selon PARIS, mais parce que, quand on sera armé d’un seul mais plus grand canon, manoceuvré à la vapeur, on arrivera à le charger, à le pointer et à le tirer aussi vite qu’on voudra, sans la nécessité d’exposer les hommes à la sommité de la tour; con- ditions nécessaires pour rendre ce système pratique. Quant à l’équipage, on dit qu'il ne peut étre nombreux sur ces navires cuirassés du type Monitor, comme le voudrait le Contre-Amiral Paris. Tout en admettant en outre qu'il s'y trouverait très-mal logé au-dessous du niveau de l’eau, ne prenant d’air, dans le mauvais temps, que par la sommité de la tour, il faut admettre que ces défants ont dî étre en partie corriges dans les grands Monitors américains, et surtout qu’on les òtera entièérement, en leur donnant encore toutes les. meil- leures qualités nautiques des autres navires. Mais il vaudrait toujours mieux transporter les nombreux équipages, s’ils sont nécessaires, sur un navire de transport et sur les autres navires de guerre, s’il le faut, marchant de conserve avec un Monitor pour les protéger, et non pour en avoir du secours, puisqu’un très-petit équipage suffit aux Monitors; équipage qu'il ne conviendrait ordinairement pas d'employer pour faire des descentes à terre. Sur les qualités nautiques, objet du dernier groupe des raisons sus- dites, nous redirons qu'on peut donner au type Monitor toutes les meilleures qualités des autres navires, et qu'on peut faire aussi des Monitors aptes à la longue navigation; car rien n’empéche que l’on rehausse leurs flancs, et qu'on fasse au-dessus un second pont en une construction très-légère; on aura alors le local pour y loger méme un fort équipage, si le besoin l’exige; mais cette addition qui augmente le volume de la partie surnageante du navire, servira bien plus à le rendre capable à tenir la grosse mer, en l’empèchant d’embarquer de l'eau. Cette addition ne dénaiurera qu’en apparence le type Monitor, puisque les parties cuirassées et leur forme ne changeraient pas ses caractères principaux, 36 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. et sa stabilité n’en serait pas notablement réduite, tandis que l’additior des tours sur les navires cuirassés ordinaires, moyennant lesquels on voudrait avoir encore de l’artillerie capable de faire feu lorsque la mer houleuse obligerait de fermer les sabords des batteries inférieures, en augmenterait toujours plus leur défaut de stabilité, de solidité et celui du trop grand deplacement; le tout étant toujours d’une résistance incapable, comme dit M. Paris, méme de tenir dix minutes contre le tir des canons de 600 anglais, on de 15 pouces, avec lesquels les Américains purent armer leurs Monitors. Enfin en résumant la grande question du choix de la plus puissante artillerie ei du plus formidable navire cuirassé, ont peut conclure: 1.° Qu'il faut le plus grand canon, monté sur le plus petit navire du type Monitor modifié, le plus fortement cuirassé, doué de la plus. grande force de belier, lui servant de véritable affùt, nageant avec la plus grande vitesse possible , ayant le moindre tirant d’eau, et deux hélices, afin qu'il puisse voltiger partout. 2.° Que les Américains, qui sont parvenus à fabriquer des canons de plus de 50 tonnes en bonne fonte de fer, pourront mettre, s'ils ne l’ont pas déjà mis, à bord de leurs grands Monitors, un de ces plus gros canons au lieu de deux de 22 à 25 tonnes, puisqu’on dit qu’ils ont déjà réussi à manoeuvrer ces gigantesques bouches à feu à laide de la vapeur et au moyen d’un seul homme; ce qui peut bien se faire d’une manière meme plus simple que celle par laquelle Naysmr réussit à faire manoeuvrer par un seul homme des marteaux pilons, méme plus lourds que ces canons, avec la plus grande célérite et la plus parfaite souplesse; ce qui forcera toutes les autres puissances militaires à avoir partout de ces canons. 3.° On a trouvé qu'au lieu de trois types de navires cuirassés dans le système ordinaire, que le Contre- Amiral Paris rapporle à la page 108 de son Art naval, ayant les dépla- cements calculés par M. Horr Russet de 15000, 10000 et 7500 tonnes, on peut n’avoir dans le système des Monitors modifiés, comme on a dit ci-devant, que les trois cinquièmes seulement de ces déplacements, c’est- a-dire des grands Monitors de 9000, 6000 et 4500 tonnes, ayant une cpaisseur de cuirassement capable de soutenir le choc des plus Iourds projectiles. 4.° A ces types de Monitors se réduiront les navires fortement cuirassés, les plus propres au combat, ayant tous la plus grande vitesse et la plus grande force de bélier , armés de préférence d’un seul mais plus grand canon, pouvant du haut de leur tour faire feu en toutes les PAR J. CAVALLI. i 37 directions, et en tout temps. 5.° Il faudra, bien entendu, que la cuirasse et la coque ne fassent qu'un seul ensemble concourant à donner la plus grande force de flexion vive au navire, de manière à n’avoir plus è eraindre, dans le cas où ils seraient surpris par une grande tempéte, d’étre lances par les plus fortes vagues aux plus grandes hauteurs aux- quelles les batiments cuirassés ordinaires se fendraient infailliblement. 6.° On pourra bien toutefois avoir de ces navires d’un moindre deépla- cement, moins fortement cuirassées, quoique armés du plus puissant canon, comme aussi il ne sera pas nécessaire que tous les navires de la marine soient conslruits sur ces types; il suffira de construire ainsi cenx qu'on veut rendre plus invulnérables, et il vaudra mieux ne point cuirasser du tout les autres. 7.° Par la mise à exécution de ces principes on aura une marine dont le matériel ne cottera pas plus que l’ancien, et le personnel en sera beaucoup moins dispendieunx à cause de la réduction possible du nombre de l’équipage qui est remplacé par la vapeur. SOMMAIRE DU CHAPITRE IX. La fortification permanente avec les très-gros canons cuirasses. Enfin au IX et dernier chapitre on discute sur la fortification per- manente armée de très-gros canons cuirassés. C'est l’expérience de la guerre qui certainement amena M. DanLcren dans son rapport, reproduit par extrait dans l’introduction, à dire « qu’au- » jourd’hui, quels que soient les matériaux employés pour la construction » intérieure des forts, il faut toujours que l’extérieur soit pourwu d’un » revétement en fer. » Aussi chez les Anglais, chez les Russes, en Bel- gique pour Anvers, en Autriche, on mit en pratique les cuirassements pour protéger les batteries sur des forts et sur des tours. M. BriALMoNT, dans son très-intéressant ouvrage (T. II, pag. 70), après avoir passé en revue les divers essais et propositions faites depuis le Geénéral ParxHans, rapporte à la pag. 124 que: « Jusqu'ici le gouvernement anglais n'est » pas fixé sur les combinaisons de fer qu'il adoptera pour les boucliers » des batteries de place et des batteries de còtes. Il hésite entre le » système des plaques avec ou sans doublage en bois, le système des » plaques en fer recroisées, et le système des barres THorweyROFT ». Parmi les divers moyens de cuirasser les batteries que l’érudit autenr 38 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. précité passe en revue, ou propose lui-méme, on remarque celui qui est figuré à la pl. XXX, fig. 2, pag. 142, T. II, et qui, dit-il: « représente » une batterie où nous avons cherché à réduire au minimum les dimensions » du cuirassement, afin de donner à celui-ci une très-grande résistance » sans atteindre un chiffre de dépense trop élevé. Nous y sommes par- » venu..... » Mais tant qu’on voudra cuirasser des canons sur affùt et sous-affàts, la cuirasse proposée de couches de plaques croisées de 30 cent. d’épaisseur totale pour garantir ces canons, doit s’étendre pour tout le devant comme è la batterie pl. V, fig. 1; sans cela, cette batterie serait detruite, méme par le canon de 30 ordinaire. Afin d’augmenter les 30 degrés de champ de tir pour des batteries de còtes, il ajoute qu'on substituerait à l’affit ordinaire de casemate l’affiit CAVALLI, ou tout autre affit de peu de longueur; mais il aurait dù ajouter sans recul, et sans aucune crainte d’exposer les bouches à feu en bonne fonte aux coups ennemis, plutòt que de compliquer encore davantage le système avec la transposition des tourillons à la bouche du canon: car, pour les batteries de còtes surtout, il est nécessaire qu’un seul homme puisse à la fois avec l’oeil sur la mire de la bouche à feu (ou méme ailleurs, d’une manière equivalente) donner dans le méme temps l’élévation, la direction, et tirer immeédiatement après avoir pointé. Mais dès qu'on a dù augmenter d’autant les épaisseurs des cuirasses à fur et è mesure qu'on a augmenté la puissance des canons, et que ceux-ci par leur agrandissement peuvent remplacer très-avantageusement méme le tir concourant d’un grand nombre de canons de moindre calibre, et comme on a deémontré, pour les navires, l’immense avantage en puis- sance, résistance et simplicité, en installant méme un seul des plus grands canons tournant à la sommité d’une tour, et tirant en barbette dans toutes les directions; ce système a toutes les raisons d’étre, de méme que sur les navires cuirassés du type Monitor, le type essentiel de la fortification permanente; avec la seule difference, que sur terre on n'est plus astreint par la limitation da poids aux cuirassements en fer, lesquels pourront plus avautageusement étre en grande partie remplacés par ceux en fonte. Ainsi l’on voit, que quoique M. BriaLmonT s'occupe beaucoup encore des systèmes plus ou moins compliqués des ecoles pour faire de la for- tification permanente, en s’efforcant de lui conserver une force propre, indépendante de l’artillerie ; cependant, pour mieux garantir l’artillerie, dans ses projets, il fait amplement usage des cuirassements et des tours PAR. J. CAVALLI. 39 cuirassées en fer, cherchant à marier les vieux principes avec les nouveaux, au lieu de substituer résolument ceux-ci aux autres. Il épargnerait de cette maniere de bien plus lourdes depenses qu’en cherchant à rétrécir les cuirassements pour en augmenter l’épaisseur (1). On peut prévoir qu’après beaucoup de temps perdu en traînements dangereux et impuissantis pour fondre ensemble les vieux principes avec les nouveaux, l’homme de génie, puissant par sa position sociale , viendra, par ses réformes, retrancher du present un passé moins heureux. C'est de cette manitre seulement que chaque époque de grands progrès peut se fixer, et c'est ainsi que la réussite des énormes bouches à feu, constatée dans les chapitres précédents, apportera une grande simplification dans les combats de la marine militaire, et ne manquera pas de simplifier tout aussi hereusement la fortification permanente. CHAPITRE L. Du choc normal des projectiles cylindriques contre les cuirassements entièrement en fer. $ 1. Les paroles suivantes du rapport de l’Amiral DancereN sont irop à propos relativement à ce chapitre pour ne pas les répéter: « Malgré » les études sérieuses et les investigations continuelles qu'ont fait faire » les trois gouvernements ( France, Angleterre et Etats-Unis) sì intéressés » à la question, on ne connaît encore que d'une manière très-incomplète » l’effet de V’artillerie sur la résistance des plaques de fer de différentes » formes. C'est un point où les hommes les plus capables et les plus » expérimentés en cette matière ne peuvent tomber d’accord ni sur » l'épaisseur du revétement metallique nécessaire pour opposer la rési- » stance la plus efficace, ni sur la puissance du canon à employer pour » vaincre cette résistance. » L’expérience sans la théorie a été encore ici insuffisante; car la théorie est pour l’intelligence humaine un instrument plus puissant que la lunette et que le télescope, avec lesquels l'homme (1) Mes critiques n’òtent rien au mérite et à la reputation de M. BRIALMONT, que ses ouvrages lui ont si jusiement acquise; elles tendent seulement à faire que la verité rejaillisse du choc des opinions. 3 jo RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. est parvenu à sonder la profondeur des cieux, et à dévoiler les secrets de la nature dans les plus petites choses. Donc, de la juste expression analytique de l’effet du choc des projectiles contre des épaulements solides, ou des murailles en bois des vaisseaux cuirassées, on peut seulement espérer en definitive de reconnaître quelle est l'épaisseur de la cuirasse, le projectile et la charge la plus convenable à employer avec un canon d’un poids donné. Quant au principe que cite le méme Amiral DanLGREN « si, comme on l’admet généralement, l’effet du choc est proportionnel » au carré de la vitesse, et seulement an poids du projectile , » nous l’avons aussi mal appliqué au n.° 46 de notre Meémoire sur la résistance statique et dynamique des solides de l’année 1863 (1). Si l’on peut retenir ces cuirasses d’une extension indefinie, leur épaisseur est limitée et non pas indefinie, comme le veut l’hypothèse admise pour la déduction dudit principe, et de la formule des traités de balistique, qui donneni des penetrations encore plus fortes qu’en raison du carré de la vitesse. Dans le cas des cuirasses d'une épaisseur limitée, ce n’est pas la pénetration des projectiles qu'il y a lieu de chercher, mais bien plutòt l’épaisseur qu'il faut leur donner, nécessaire pour supporter le choc de ces projectiles, sans se bomber au-delà de la limite de stabilité cu de rupture. Supposons d’abord la cuirasse entièrement en fer, d'une plaque indé- finie, d'une seule pièce comme lorsqu'elle a une masse assez grande autour du point frappé par rapport à celle du projectile, de manière qu'elle ne puisse recevoir dans le choc une vitesse assez considérable pour la remuer de sa place, telle qu'une plaque de vitre dans son chassis. Si l’on frappe cette vitre avec une pierre, elle est fendillée en étoile suivant des rayons d'une certaine extension; supposons préciséement le cas où la pierre soit arrétée en produisant cet effet; cela veut dire qu’alors la quantité de mouvement du projeciile au moment du choc, a été épuisée à produire (1) Ti est bien d’ajouter à ce Mémoire les deux périodes suivantes. A la pag. 27, avant le deuxième alinéa: « Au delà de ce point limité de la stabilité, dès que le barreau continue à céder » sensiblement après avoir regu la charge entière, il ne faut pas comprendre dans les valeurs d’y » les parties dues uniquement au temps pendant lequel le barreau est resté entièrement charge : » car le temps auquel à la rigueur il faudrait avoir égard n’est que celui de la durée des impulsions, » temps toujours comparativement très-petit, et qu'on peut en conséquence negliger à ce propos ». - A la page 43, avant le n.° 36: « Sil était pratiquement possible de mesurer le temps #, de la » durée des oscillations du barreau, comme on mesure }’espace parcouru x, on auraît alors de TIA » suite la valeur de 7 ou de Ucci ». ‘ PAR J. CAVALLI. 4I deux effets; la flexion de toutes ces parties fendillées autour du point frappe, centre du cercle entamé de la vitre, et l’extension dans le sens de la circonférence moyenne de ces mémes parties, comme sì ces parties formaient un prisme avec l’axe droit au lieu d’étre circulaire. On pourra retenir la plaque indefinie en extension, de quelquè ma- tiere qu'elle soit, comme si elle se fendillait au point frappé, de méme que la vitre, en un grand nombre de parties égales de forme prismatique à base triangulaire isocèle , restant attachées à la circonférence de la partie entamée; car l’extension qui aura lieu suivant la circonférence ne peut contrarier la flexion desdites parties. Ces simples hypothèses sont assez naturelles pour étre admises, et auront l’'avantage de conduire è des formules moins compliquées, et conséquemment plus pratiques, ce qu'on doit surtout préférer. S 2. En nous rapportani aux n. 32 et 33 de notre Mémoire sur la Zheorie de la resistance statique et drnamique des solides, et en retenant la méme signification des lettres pour les solides susdits, qui sont d’egale resistance, nous aurons M=iM, v=u'-35,a En faisant le còté 5 où le prisme reste attaché égal à «£, on aura D ; E a hè A=eaLh, M=-—-eL°h,, YI, PESI MT SIT ad 3 28 ( JE et pour la flexion totale x, étant y=0, on a a) 1 t+Vo RL fa u=|/3”, giano Ki M designe la masse d'une de ces parties prismatiques; F est la résistance è la flexion; x la flexion; v la vitesse, avec laquelle le prisme fléchit à l’instant de la flexion x; Y la vitesse d’impulsion que peut supporter la matière du prisme suivant sa longueur; U la vitesse d’impulsion que peut supporter le prisme dans le sens de la flexion normale; 5 la largeur du prisme où il est attaché; Serie II. Tom. XXIV. F 42 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. h la hauteur du prisme, ou l’épaisseur de la plaque; Z la longueur du prisme suivant le rayon de la partie entamée; D le poids de l’unité cubique de la matière du prisme; g la gravité; P la résistance sur l’unité superficielle à l’extension de la matière du prisme ; Q la résistance sur l’unité superficielle à la compression de la matière du prisme; R équivaudra à P? ou à Q, selon que la rupture du prisme en flé- chissant aura lieu par extension ou par écrasement; E désigne le module d’élasticité de la matière du prisme. Il faut encore trouver le rayon Z du cercle qui comprend la partie entamée ou fléchie de la plaque. A cet objet il faut établir une autre relation, celle entre le projectile et la partie fléchie de la plaque par l’équation des temps que les prismes de la partie entamée. de la plaque mettent à se fléchir, avec celui que met le projectile à iransmettre toute sa quantité de mouvement, ou à se comprimer; car il est évident que la flexion de la plaque commencera et s'achèvera dans le méme temps que le projectile, dès qu'il a rencontré la résistance de la plaque, mettra à perdre son mouvement de translation en se raccourcissant. Soit le cas du choc avec un des projectiles cylindriques massifs, tels qu'on les trouve plus convenables pour le tir dans les canons rayés, et lorsqu'ils frappent la cuirasse perpendiculairement. 1, soit la hauteur du projectile et D, le poids de l’unité cubique de la matière qui le compose, E, son module d’élasticité , p son poids, y le rayon de sa base, K le poids du projectile méme en autant de fois le boulet sphérique d’égal diaméètre, et enfin u la vitesse du projectile au moment du choc. D’après le n. 35 du Mémoire cité on aurait, pour l’expression générale du temps susdit, pa Traves où pour le cylindre et pour les prismes fléchis est respectivement s_ 6g Eh DI? — (1+Yp) DL* PAR J. CAVALLI. 43 De l’equation de ces temps écoulés pendant le choc on tire ainsi l’expression cherchée : _V66 (ED, ni n ue Wai p DE, $ 3. Orona pour l’expression de la quantité de mouvement épuisée ar la flexion de tous ces prismes d’égale résistance en nombre de P P 5 ank O et al a al L’extension circulaire de la partie fléchie de la plaque du rayon Z, ayant lieu comme si cette partie était un prisme d’égal volume susdit ayant pour base ZA et pour hauteur i-rZ, Y étant la vitesse d’impulsion qu'il peut soutenir, on a pour l’expression de la quantité de mouvement épuisée par cette extension aL°hD 28 “VU où l’on voit, que ces deux quantités de mouvement sont exprimées par le produit de la masse de la partie entamée de la plaque, par une fraction de la vitesse d’impulsion , qu’'un prisme de méme metal peut soutenir longitudinalement à l’extension. En égalant la somme de ces deux parties de quantité de mouvement, nécessaire à produire les deux effets susdits, à celle qui est possédée par le projectile, on en déduit la relation pu=( (V2+:) -nL°hDV ; c'est-à-dire que, pour que la ai ne soit pas enfoncée, il faut que la vitesse qui reste aux projectiles au moment du choc égale la vitesse d'impulsion longitudinale à l’extension que peut soutenir le métal de la plaque multiplié par un coefficient numérique, et par le rapport du poids de la partie de la plaque fléchie avec le poids du projectile. En éliminant de l’équation précédente Z?, et en observant qu’on a TGR p stitx9 Z, Vi+i=07 2 = EDI 2 L= 4 TA on obtient 14 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. PO ALA ne eli Og 9 i —I+Yp QDV pepe o, 7722V6p° TAR) > d’où l’on voit, que l’épaisseur de la plaque susdite entièrement en fer est proportionnelle au diamétre du projectile, et à la racine carrége, 1.° du rapport de la vitesse qui reste au projectile à l’instant du choe, avec la vitesse d’impulsion que. peut soutenir à la compression le métal du projectile ; 2.° du rapport de la resistance à la compression du métal méme du proJectile, avec la résistance à l’extension du metal de la plaque; 3.° d’un facteur fonetion du rapport p. Si l’épaisseur de la cuirasse, au lieu d’étre d’une seule plaque, était partagée en plusieurs parties égales, en deésignant par n ce nombre de plaques égales alors superposées, la quantité de mouvement du. projectile devra égaler la somme des quantités de mouvemeni soutenu par chaque plaque; en designant avec 24 l’épaisseur totale, son expression resterait multipliée par Yu: et par contre expression du rayon Z en serait divisée par Va; mais pour qu'on puisse égaler la quantité de mouvement du projectile à la somme susdite , il faut que chaque plaque puisse glisser et fléechir independamment des autres, comme font les feuilles d’un ressort de voiture, en négligeant encore le frottement qui a inévitablement lieu, Ainsi ce n'est pas le cas de cuirasses en fer composées de plusieurs plaques, parce qu'’elles sont boulonnées, ou ne peuvent glisser les unes sur les autres; et ce cas rentre alors théoriquement dans celui d’une seule plaque d’une épaisseur égale à leur somme. CHAPITRE Il. De la résistance, du cuirassement composé de fer sur bois, du choix du metal et de la réception des plaques. $ 4. Lorsque les plaques ont une masse suflisante, et sont attachées à la muraille en bois d’un vaisseau d'une manière assez solide pour pouvoir retenir cet ensemble comme d’un seul corps indéfini en étendue et non en épaisseur, il y a lieu à évaluer aussi la quantité de mouvement absorbé par la résistance de ladite muraille. Cette muraille étant ordinairement composée de deux couches egales de poutres croisées, auxquelles la quantité de mouvement du choc est transmise par l’intermediaire de la plaque, nous pourrons considérer ces PAR J. CAVALLI. 45 poutres comme unies, et n’en faisant qu'une pour chacune des deux couches, en retenant que ces deux couches puissent glisser lune sur l’autre, leurs liaisons n’étant pas assez intimes pour empécher ce glis- sement à cause de sa petitesse. En conséquence la flexion de ces deux poutres superposges , obligées à fléchir ensemble sous l’action du choc, sera la méme; et il suffira de doubler la quantité de mouvement absorbée par une de ces couches, pour avoir celle qui est épuisée par leur ensemble, en remarquant que la largeur de l’une est égale à la longueur de Pautre. C'est ici le cas des prismes encastrés par les deux extrémités, cas pour lequel la charge supportée est double , et la flèche quatre fois moins grande que dans le cas où le prisme est simplement appuyé à ces extré- mités; c'est pourquoi en retenant la signification des lettres de ce méme cas du n.° 33 du Memoire déjà cite, on aura a EI RO __384Elg. F=1929.77® K EN = ou PAN ZU Di i RL hand. eh epd = Rien eddie En designant ici par a l’épaisseur, ei par Z,, la longueur et la largeur 4 de chacune des deux couches de bois, en outre par P,, la tenacité, et par Z,,, E,, D, et p, la vitesse d’impulsion, le module d’élasticité , la densité et le piani de la resistance à la compression avec celle à l’extension pour le bois, on aura (EV LT De SVe, PB, ba» = 128.0), Ea DÌ ( I + Ve.) L, (14+-Yp,) D, Lu ou (1+Vo,) DITE I+Vo, Le ela Va a= a; soi po, i = ZAIVI 64, E,baî 3 24Ve, E,a dati $ 5. Or on aura pour la quantité de mouvement épuisée dans la flexion de deux couches de bois superposées, en considérant que 5=£, et gM=aL?,D M aL’,D 2--U= pers 15241| Lr 2 E 46 RECHERCHE DE LÀ PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Mais cette quantité de mouvement ne peut étre supporiée par le bois, et rien ne l’empécherait d'étre percé de part en part. En outre l’armure de fer qui le couvre, n’ayant pas une extension indefinie, et au contraire tant composée de plusieurs parties, la liaison desquelles est fournie entiè- rement par le bois, à compte de cette liaison qu'on a supposée que les plaques ont entre elles, il faut retrancher en compensation une partie de cette quantité de mouvement absorbée par le bois, en la multipliani par un coefficient de réduction à déduire par l’expérience. En désignani par €, le coefficient multiplicateur de cette nouvelle quantité de mou- vement ; il fandra l’ajouter à celle ci-devani déduite, ei en égalanti la somme à la quantité de mouvemeni du projectile, on obtiendra une nouvelle équation où LZ, remplace Z du cas précédent: = CEDAS DE 4 1° dl pu=(|/2+:)=2,5D r+l Tandis que les quantités £ et Z,, relatives aux parties en fer et en bois de cette cuirasse composée ne peuvent étre égales, il est évident que les flerions de ces denx parties sous l’impulsion du projectile pendant toute la durée du choc seront forcément égales, car chacune de ces parties devra opposer toute sa résistance: et du moment que le projectile outre- passerait la partie en fer, la limite de rupture serait franchie; alors on ne serait plus dans le cas qu'l nous importe d’étudier. La liaison. de plusieurs plaques au lieu d'une seule plaque indéfinie, maintenue par la muraille de bois, n'empéchera pas à la flezion de cette pariie en bois de s'étendre; ainsi on sera mieux dans la condition réelle en posant que la resistance an mouvement de flexion pendant le choc soit opposée sépa- rément par les denx parties en fer et en bois, et que l’effet du choc dans chaque partie puisse s'étendre indépendamment dans lume et dans l’autre desdites parties, en fiéchissant cependant ensemble; c'est ainsi qu'on aura, en égalant les deux expressions de la flexion, l’équation = 1+)5 PL, +, Pila - 3 ev «pi d'où en éliminant on tire PAR J. CAVALLI. 47 xi —AVSn VD, A I+Y, Le, D, Q, Or 4 désignant l’épaisseur et Z le rayon de la partie entamée de la 2a - cuirasse entièrement en fer d’une resistance égale à celle de la cuirasse quì est composée de fer et de bois, où ces mémes quantités sont designées respectivement par 5 et Z, on parvieni è la relation cherchée 4” 9,7722.3.Ve(1+Ve,.)V,P° c'est-à-dire que la relation entre ces épaisseurs est celle d'un triangle b=h—c,c,(2a) ; c rectangle où l'hypothénuse est l’épaisseur de la cuirasse entièrement en fer d’une resistance égale è la résistance de la cuirasse composée de fer et de bois, et l’un des còtes est l’épaisseur de la partie en fer, et l'auire est l’épaisseur de la partie en bois, réduite par deux coefficients Ye, dis à la liaison qu'il fournit, et Ye, est fonction des coefficients mécaniques des matières respectives. $ 6. Dès qu'on admet la condition que la cuirasse doit arréter les projectiles, il faut d’abord voir s'il y a des métaux pour faire les plaques capables de supporter le choc de ces projeciiles sans se laisser pénétrer. Selon les données admises au $ 12, à défaut d’autres données plus exactes, l’acier dur pourrait soutenir un choc quelconque è la limite de rupture avec la vitesse de 250 mètres par seconde, à peu près celle qui est portée dans la table B du Mémoire déjà cité plusieurs fois; tandis que celle du bronze n'est que de 49 mètres par seconde. On peut retenir que les vitesses d'impulsion auxdites limites que peuvent supporter le fer et la fonte, soient comprises entre ces exirémes. Or les vitesses initiales possédées par les projectiles tirés avec les charges en poids du projectile depuis */; è ‘"/5 è "o; varie de 500” à 255” à 105”, 5; et à mille métres de distance ces vitesses se réduisent respectivement à 275, à 179, à 92 pour les canons de 3 */ tonnes, et è 376, à 221, è 99 pour les canons de 50 à 67 tonnes. On voit que pour les tirs avec les charges le plus en usage, ces vitesses depassent méme celles d'impulsion que peut soutenir l’acier; ainsi nous ne devons pas étre surpris si les plaques d’acier volent en éclats au choc des projectiles, surtout si leur épaisseur était insuffisante. Quelle que soit l’épaisseur de la plaque au point choqué, si elle est d’un métal très-dur, malgré la plus grande tenacité, à cause de son peu de ductilité, 45 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. elle se fendra ; tandis que, si elle est d'un metal moins dur et tenace , mais assez ductile, celui-ci en cédant sans se crevasser, épuisera succes- sivement la vitesse du projectile à mesure qu'il pénétrera, sans la percer entièrement, sì l’épaisseur est suffisante, ei surtout si la cuirasse se compose de plusieurs couches de fer, qui décroissent en ductilité, mais qui croissent en tenacite. La formule du $ 4 suppose que la plaque n’ait pas le défaut qu'on vient d’examiner, deéfaut qui entraînerait alors la rupture quelle que fùt l’épaisseur, comme l’expérience l’a bien démontré en France dans le tir normal contre des blocs d’une fonte de fer trop dure, ou qui m'était pas assez ductile. Ainsi pour que cette épaisseur des plaques soit un minimum suffisant pour arréter le projectile avant qu'il arrive à les percer, il faut quelles soient faites d’un fer assez ductile, et en méme temps de la plus grande tenacité: puisque son épaissenr est en raison inverse de la racine carrée de ce seul coefficienti mécanique du fer de la plaque, et que le rapport de la résistance à la compression avec celle è l’extension n’entre que dans le facteur numérique où il est par la nature de cette fonction d’une bien moindre influence. La plus grande influence sur l’épaisseur requise des plaques étant due au diamétre du projectile auquel elle est proportionnelle, il ne faut pas se formaliser, si des plaques d’une épaissenr fort inférieure à ce diamètre, ne le retiennent pas; car on voit, d’après l’exemple du $ 13, que cette épaisseur est è très-peu de chose près égale au diamétre du projectile lorsque sa vitesse n’est que de 320 métres par seconde; ainsi que l’expérience le prouve pour le diamétre des poincons, qui ne doit pas étre inféricur è l’épaisseur de la tòle de fer à percer par percussion ou par une force mouvante. Si la cuirasse est faite de plaques qu'on ne peut supposer d’une extension indéfinie , il faut encore que le poids des plaques soit d’un nombre de fois celui du boulet, suffisant è réduire la vitesse qu’elles prendraient dans le choc, dans les limites au moins de celle que le métal de la plaque peut soutenir à la flexion, qui est de 19 mètres environ (d’après le n.° 33 du Mémoire déjà cité), de Le de celle è l’extension 3 longitudinale du fer, qu'on a pris de 4o métres au $ 12; vitesse, qu'il faut ici au moins réduire de la limite de rupture à celle de la stabilité, en en prenant le quart; alors on aura pour le poids Z de chaque plaque = I GESTI: 5 PAR J. CAVALLI. È 49 Comme la plaque de 12 cent. d’épaisseur soutient assez bien le choc du boulet sphérique de 15 kil. avec la vitesse meme de 500 mètres, d’après cette règle on aurait 2=1500 kil., poids que ces plaques ont à peu-près. Pour maintenir aux cuirassements dans tous: les cas une pareille stabilité , il faudra donc faire les plaques qui ont à soutenir le choc des projectiles possédant une plus grande quantité de mouvement, proportionnellement plus lourdes. Mais au lieu d’en augmenter ainsi le poids, on cherche è en accroître la stabilité par l’augmentation du nombre et de la force des boulons ou des vis; mais ces moyens sont d’une réus- sile toujours: plus ou moins imparfaite. La réception de ces plaques à coups de canons faite sur une par lot de la livraison, outre qu'elle est très-coùteuse, ne garantit pas assez les bonnes qualités des autres plaques du méme lot. Si la plaque choisie n'est pas fermement assujettie à une muraille inébranlable comme celle d’un vaisseau , l’éepreuve du choc pourra donner des résultats très-variables indépendamment de la variété du métal de la plaque; et les qualités du metal de la plaque varieront aussi par suite des coups recus, de leur distance, et du plus ou moins de solidité qui reste au cuirassement après les coups, c'est-à-dire à la muraille qui soutient la plaque et à leur liaison. Il est done nécessaire de réduire autant que possible ces causes qui peuvent modifier les résultats de l’épreuve du tir, et en rendre fautif le jugement qu'on en tire, en réduisant le nombre de coups à tirer sur une plaque, et en les partageant uniformément, au lieu de les rapprocher sur une méme place de la plaque. Une fois que les plaques les plus résistantes auront été reconnues par les essais du tir, il serait plus rationnel de reconnaître la qualité du fer de cette plaque par les essais meécaniques gée avant et après le tir. D’après les vitesses d’impulsion que ces essais réve- sur des barreaux coupés de la partie de la plaque la moins endomma leraient, élastiques et ductiles, aux limites de stabilité et de rupture, on pourrait ainsi reconnaître sur des barreaux coupés de toutes les plaques des lots, la force vive de chaque plaque. Les plaques qui résulteraient d'après ces essais d’une resistance vive inférieure pourraient encore. étre soumises à l’épreuve de la flexion, jusqu'è la limite de stabilité; epreuve qui ne gàterait pas la plaque, et ferait reconnaître les plaques à rebuter, si les vitesses d’impulsion obtenues sont inférieures è celles quì sont reconnues encore suffisantes pour cette limite. Une presse hydraulique de la force de 200 tonnes suffirait pour fléchir, méme à la limite de Serie II. Tom. XXIV. G 50 | RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. rupture, une plaque arrétée par un bout, pour laquelle on aurait: k m m 2 0000000° . 0 6. (0°, 15 pr insosono’ DA nOi Le ta SO 007 CHAPITRE III. Comparaison du choc direct et oblique des projectiles sphériques et cylindriques. S 7. Après avoir étudié le choc des projectiles cylindriques, on pro- cède ici è l’étude du choc des projectiles sphériques massifs, auxquels on peut assimiler aussi les projectiles sphériques ayant un petit creux, sauf è en tenir compte en prenant leur densité. En désignant par x le raccourcissement que la hauteur ou le diamètre normal du boulet sphérique subirait pendant le choc avant la rupture, et en designant par y et z les ordonnées avec l'origine où commence le choc è l’extrémité dudit diamètre 27 suivant l’axe des z, on aura, pour l’expression différentielle d’x, ARE mid Lats ba E. ny? PU ) ou, en intégrant, cdi Ai AI Z a =—_—log ——+c . yi 2rlog.e 9 ar—z so SCE r En prenant la valeur entre les limites de date” et z=r, et en doublant le resultat, on aura l’expressiou totale du raccourcissement de Li x . . A I la sphère, moins les deux minces calottes extrémes avant ( ii) de fleche, sans la déduction desquelles on aurait un raccourcissement infini: car ces points extrémes de la sphère, comme le sommet du còne, sont ihéoriquement et pratiquement aussi sans résistance (voir à la page 39 de notre Mémoire sur Za théorie de la resistance statique et dynamique, etc. l'expression de la vitesse d’impulsion du còne tronqué, où, si l’on fait une de ses bases nulle, cette vitesse est nulle). On verra ensuite la maniere de déterminer la valeur de v par l’expérience. PAR J. CAVALLI. 5I ho Flo ATI — nrlog.e E S7=1 Pr enti Sti Pat I; z=-——_8—____6 Lg i Ma 4 rDilo ALI Sa—1 log.e 3. log. e Sn=i 4 où étant gM=;7r°D,, on deduit comme ci-devant de l’équation des 3 ») temps _V6p (LI. | atene (ila: nraeya' lazione ‘a—1° la méme expression que pour le choc des cylindres, où l’on aurait seu- L= Tg to. LA Klog.e San=1 lement > = a=-—_——_'______; SIIT O Rai Ù 7) LORA Rica (5) = ogitt) (5 log. e Sa=1 c’est-à-dire que le choc du projectile sphérique est équivalent à celui d’un projectile cylindrique de méme poids, ayant un diaméètre moindre que le projectile sphérique , et une hauteur conséquente dans une pro- portion constante pour une méme valeur de n, de K fois le poids du boulet sphérique d'un méme diamétre que ce cylindre équivalent: 9 3 SAINT I+n\î k=(3) (be I e) S 8. Jusqu'ici on a traité le cas où le choc “des projectiles a lieu suivant la normale à la surface des plaques; maintenant cherchons à déterminer la partie de la quantité de mouvement du projectile qui sera utilisée dans le choc oblique. Le projectile cylindrique dans le choc oblique se irouve dans les mémes conditions du choc qui a lien dans le tir de la bouche è feu sur son affiit, de sa crosse contre le sol, traité par le celèbre Porsson; ici encore il faudra rechercher le cas où le pro- jectile ne tourne pas autour de son point d’appui, avec lequel il a d’abord touché la plaque, et distinguer le cas où il tourne pour s’abattre ou pour 32 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. culbuter; car il se trouve dans les mémes conditions de la théorie pré- citée, où les roues des affiits sont ou ne sont pas soulevées dans le tir. Considerons le cas le plus général, c’est-à-dire qu'il reste au projectile, après le choc, une vitesse angulaire de rotation qui tend è le faire cul- buter. Le projectile étant cylindrique et doué d’une vitesse de rotation suffisante pour que son axe ne s’éloigne pas de la direction de sa marche, touchera d’abord dans le choc par la partie la plus basse de son aréte anterieure. En retenant la méme signification des lettres qu'au n.° 4o de notre Mémoire déjà cité, où l’on traite justement ce cas du tir du canon sur son affit, on désignera ici l’angle que l’axe du projectile fait avec le plan de la Plaque, pl. I, fig. 2; son rayon v est naturellement la distance de cet axe au point d’appui, 4 est la hauteur de son centre de gravite et de figure sur le plan de la plaque , et a la distance du pied de la perpendiculaire (mesure de ladite distance) au point d’appui du projectile; sa quantité de mouvement p sera ici égale è Lu, o designant son poids 8 au lieu de X, et x sa vitesse restante, g la gravité, f le coefficient du frottement, et % le rayon de gyration du projectile tournant autour de son point d’appui avec la vitesse initiale angulaire 9, après avoir dépense dans le choc oblique la quantité de mouvement y contre la plaque, l'x étant la quantité de mouvement restant au projectile, ou à ses debris, après le choc, suivant la direction parallèéle à la plaque. D’après la figure on déduit les expressions d’a et X en fonction de langle 9,, et des dimensions du projectile I / TA a=-l,cos.0,—=vsin.8,, ; h=vcos.0,,+-/,sin. 0, 5 2 2 Pour l’expression analogue du rayon de gyration X du projectile , lorsqu'il tourne autour d’un axe normal au sien, passant par son centre de gravité, on trouve (1) (1) On peut supposer le cylindre du projectile partagé par des plans parallèles è son axe, et normaux a l’axe de gyration; alors le moment d’inertie d’un de ces segments parallélepipèdes rectangles aura pour expression 3M(a? +62) , M étant la masse, et a et è la longueur de ses còtés, quantites qui ont ici les expressions a=a2.Vy?—z2,; AZUNE midi; PAR J. CAVALLI. 53 En introduisant ces données dans les trois équations déduites du Mé- moire de Poisson, rapportées audit n.° 4o, elles deviennent, en y rem- Z = 3 ì placant + par 4x qu'il ne faut pas confondre avec le & susdit, qui du (0) 3 reste disparaît, 1-(cos.6-fsin. ) È (cos.9+3hsin. ) TIA e E AIIRI A rn O GRA ri at le te eg dr ar o 2 i o & : 2, . 2 Dani ‘+ (3K00s.0-sin.9) -S(3kc0s.0-sin.0)- (cos.0+3ksin.0) Yr=P2isin.9 ,3(3kc0s.0,-sin DE ; 8 3 7) X= Pe cos 0,2fsin. 2,-(cos. 0 -fsin. 0,+3 -K[sin.6,, fe0s.9,)) - ni . Il faut remarquer que les composantes X et Y ne sont fonctions que de la quantité de mouvement du projectile, de l’angle sous lequel a lieu le choc, du coefficient du frottement et du rapport % du poids du projectile avec le poids du boulet d’un mème diamètre. Le projectile ne commencera à tourner que du point où la vitesse angulaire est nulle; ainsi en égalant à zéro le numérateur de l’expres- sion de ©, on trouve pour l’expression de cet angle 0, , $ 9. Si des expressions de 4 et 4 on tire celle de leur rapport, ei qu'on élimine l’angle 6,, on trouve pour cet angle d’inclinaison CSjlt = étant la distance du segment à l’axe du prisme, de sorte que l’on aura pour le moment d’inertie totale de ce cylindre deux fois l’intégral de z=r à z=0 s=+r 3 fate di (vr 23147? 13) +03, {d2. = Pour effectuer l’intégration on a fera VFZZ+1 rare (sen—3) ; = TRECCIA z4dz I ——_- vi Z 23./3—=23.d2= Tag VA) + 2 are seni). Vya — 23 Vy3= 2378 % Î4 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Ainsi langle @ d’inclinaison, pour lequel 4=0, ne peut égaler celui 6, de la stabilité du projectile, si dans le méme temps le frottement n'est nul: au contraire cet angle sera toujours plus petit à mesure que le frottement augmente. Si 4 devient négatif, ou si l’angle d’inclinaison s lui lequel 2: surpasse celut pour lequel a=o0, ayant pour tangente 30p angle 0 en augmentant, augmentera la composante Y aux dépens de celle X, comme il est evident. La vitesse angulaire © étant nulle pour cette inclinaison 6, du choc, les composantes de la percussion deviendront rat sin. 0, ; x,=P2.(cos.6,—fsin.9,) . le] Ce sont les mémes expressions que pour le choc des projectiles sphé- riques, quelle que soit l’inclinaison. Ainsì sous cette inclinaison , que nous nommerons dorénavant de stabilité pour les projectiles cylindriques, leurs composantes du choc sont égales à celles des projectiles sphériques d’un poids égal. Lorsque l’angle d’inclinaison du choc sur le plan frappé sera moindre que celui de sta- bilité, la vitesse angulaire 9 des projectiles cylindriques étant négative, ils s'abattront, et la composante normale de la percussion des projectiles cylindriques sera alors moindre que celle des projectiles spheriques d’un poids égal et d’une vitesse restante égale; et dans le cas contraire, la vitesse angulaire 9 étant positive, les projectiles cylindriques culbuteront au lieu de glisser comme les projectiles sphériques, et leur percussion normale sera plus forte que celle de ces derniers. Au contraire la com- posante parallèle au plan frappé s’agrandira sous les angles d’inclinaisons plus fortes. Pour que l’angle 0, de stabilité ait une valeur positive supérieure è zéro, il faut que le numerateur de l'expression de sa tangente soit une quantité positive, ou soit f= ; on aura pour bk? lr= 150200 I Nino 7 »” 53 DIS»: . 2 Pour f=0 on aurait tang. 9=3k, en retenant ce cas et les cas précedents. PAR J. CAVALLI. 55 Pourk= 1,5 Deera » 2,65 » 3 on aura 95, » 53° 8'» 60° 29' » 63° 26' étantf= o 9,= 18° 26’ » 26° 34' » 33° 55» 36°52' » = o= 13°52' » 2316" » 3o°5g' » 33°56' » f=39=0,566 3 ele LO e ye 8= 0 D VELE ID aero dele ay CHAPITRE IV. De l’influence des differentes matières des projectiles et des plaques. S 10. Les qualités mécaniques de la matière des plaques et des projectiles a une grande influence sur les effets produits dans le choc; lexpérience deémontre que les plaques d’acier n’ont pas présenté une résistance suffisante, et que par contre les projectiles d’acier percent plus facilement le fer des cuirassements que les projectiles de fer ou de fonte ordinaire , tandis que ceux de la fonte la plus dure et tenace semblent pouvoir produire des effets comparables à ceux de l’acier (1). La cause est placée dans la différence des coefficients mécaniques des matières respectives, ou de leur résistance vive à l’écrasement quant aux projectiles. Pour des plaques indefinies en extension, de matière différente, soient h et h, les épaisseurs, et Z et Z, les rayons des parties entamées; en retenant la méme distinction entre les coefficients meécaniques respectifs et le méme projectile et sa vitesse restante dans le choc, on trouve I h _l +Ve Va DE LARE DI VESTA ls MERIDEVE h, \x+Va Ve PI” Si l’on suppose égaux à l’unité les rapports des résistances à la com- pression avec la résistance à l’extension, les épaisseurs de deux plaques ‘ (1) On lit è ce propos a la pag. 409, T. 12 de la Revue maritime et coloniale ce qui suit: « Une circonstance accidentelle est venue donner un exemple de l’immense supéeriorité de ce metal refroidi artificiellement sur la fonte coulée dans les sables ordinaires ...... Que le projectile fùt en acier ou en fonte refroidie subitement d’après le système du capitaine PALLIER, dans chaque cas les projectiles traversèrent les plaques de 12 et de 15 centimètres. » 56 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC, de différente matière résultent simplement en raison inverse de la racine carrée des tenacités respectives; tandis que le carré des rayons des parties entamées sont en raison inverse de ces épaisseurs et des produits des densités par les vitesses des impulsions longitudinales que les matières respectives des plaques peuvent supporter; et les volumes entamés sont seulement en raison inverse de ces produits. Maintenant soit le cas des plaques de méme matière frappées par des projectiles cylindriques différents de matière, poids, proportions et vitesse restante; on trouve, pour les rapports analogues au cas précedent, p=(1 9, 400): 1 h, U,, Q,V, Tu (or Q, vu) luP, , : Liz (is); aL; h, I IIZA L u,Q, \ Tip Vu k,pyD, Ehi pw, D'où l’on voit, que les volumes ou les poids des parties de la plaque les ra pports sulvants: entamée par le choc des deux projectiles cylindriques différant en poids, matière et diamètre, sont toujours proportionnels aux quantités de mou- vement possedées respectivement par les deux projectiles au moment du choc. Les rapports des épaisseurs et des surfaces des parties des plaques entamées varient seuls, et ces rapporis sont directement proportionnels aux rayons et à la racine carrée des rapports des vitesses possédées par les projectiles; ce rapport des épaisseurs des plaques est independant des poids des projectiles, et le rapport des surfaces entamées cn est directement proportionnel; en outre le rapport des épaisseurs des plaques est direc- tement proportionnel au rayon des proJectiles et à la racine carrée des rapports directs des resistances de la matière des projectiles à la com- pression, et à la racine carrée des rapports inverses des vitesses d’im- pulsion de compression que cette méme matière peut soutenir; tandis que pour le rapport des surfaces entamées, tout le contraire a lieu pour ces deux derniers rapports des coefficients meécaniques de la matière des projectiles. Si l’on fait la comparaison des deux proJectiles de differente matière, mais égaux en poids et diamètre, et exigeant la méme épaisseur des plaques, on trouve le méme resultat pour le rapport de leur vitesse au moment du choc, et pour le rapport des surfaces entamces: PAR J. CAVALLI. to) 4 Si la comparaison est entre des projectiles de différente matière mais d'égal poids et diamètre, possédant la méme vitesse au moment du choc, les rapports susdits deviennent i LI eri liste V, Q, Lp Q, Me, Si les effets du choc restent en decà de la limite de rupture, il est evident que les plaques d’acier présenteront plus de résistance que celles en fer; mais sì cette limite est dépassée , il est aussi évident que les plaques de matières plus malléables se fendront moins, ou ne se fendront pas du tout; mais alors elles se laisseront facilement percer, ou pénétrer plus ou moins profondément lorsqu’elles auront de grandes épaissenrs, dépassant les diamétres des projectiles, cas qui n’appartient plus à cette théorie. On peut de deux manières arréter un projectile lancé contre un but; en cherchant è arréter le projectile tout è coup, en faisant ce but aussi impénetrable qu'il est possible, ou en cherchant à l’arréter successivement par un but pénétrable, mais assez épais pour que le projectile s°y arréte dedans. Il est evidenti que c'est è la première manière qu'il faut s’en tenir, et conséquemment qu'il faut mettre la plaque de fer devant le bois des cuirasses composéges de ces deux matières, quoiqu’on ait aussi essayé des cuirassements où le bois était devant le fer. C'est la pénétration du projectile qu'il faut empécher, en donnant à la plaque de fer assez de force pour l’empécher de passer outre son épaisseur; autre raison pour laquelle il faut préférer les cuirasses entièrement en fer, car les cuirasses composées pourront très-bien arréter aussi le projectile, mais après qu'il aura profondément pénétré derrière le fer, où, en éclatant, s'ils sont explosifs, ils feront un plus grand dégat, ou, s'ils sont rougis, causeront l’incendie. Alors il vaut beaucoup mieux que le projectile passe outre les deux bords mémes du navire, ce qui veut dire de ne pas cuirasser du tout. On est donc conduit à la conclusion, qu'il faut faire les cuirasses aussi résistantes que possible à la péneétration des plus puissants projectiles, ou qu'il faut ne pas cuirasser du tout les navires. S 11. Si nous voulons comparer les effets du choc des projectiles sphériques avec ceux des projectiles cylindriques contre les mémes Serie IL Tom. XXIV. w 58 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. cuirasses entièrement en fer, il faut nous rappeler que nous avons trouvé au $ 10 que les effets des projectiles sphériques sont égaux aux effets des projectiles cylindriques équivalents; ainsi on a 3 log. e brit do _(4\{_"—|\. AA y==@P ; o=(3). log 211 5 ici En retenant les lettres sans virgule pour les projectiles spheriques , et celles avec virgule pour les projectiles cylindriques, on a r DDA. = k, ’ r p.D I Dl L'A AR ONE A LAP dele roi Ici encore les volumes ou les poids des parties entamées des plaques sont proportionnels aux quantités de mouvemeni possédées par les deux differents projectiles au moment du choc; et les rapports des épaisseurs et des surfaces entamées des plaques sont directement proportionnels è la racine carrée des vitesses possedées par les projectiles respectifs; et en outre les épaisseurs des plaques sont directement proportionnelles aux rayons respectifs des projectiles, celui de la sphère étant réduit par le coefficient constant pour une méme valeur de n etc.; et les surfaces entamées sont en outre directement proportionnelles aux poids des pro- jectiles, et inversement proportionnelles à leurs rayons, celui de la sphère se trouvant pareillement réduit par le coefficient «. On voit en outre que dans le cas d’égalité de matière, poids et vitesse des projectiles sphériques et cylindriques au moment du choc, il faut pour les projectiles sphériques que les rapports susdits deviennent inver- sement égaux , et qu'ils dépendent de la valeur absolue des coefficients o et k, PAR J. CAVALLI. 59 CHAPITRE V. Des coefficients mécaniques, des applications et déductions concernant les cuirasses, des effets du choc des projectiles sphériques et cylindriques, et du concours de la cuirasse méme dans la construction du navire. S 12. Pour contròler la théorie avec les résultats de l’expérience, il faudrait connaître exactement les coefficients mécaniques des matériaux employés. Dans le cas présent, faute de ces données plus précises, on a assigné à ces coeflficients les valeurs les plus vraisemblables d’après la connais- sance, à vrai dire très-restreinte, de ces coefficients pour les matériaux les plus en usage: car les coefficients mécaniques qu’on trouve dans les auteurs et les aide-mémoire, sont encore déduits d’après l’ancienne théorie qui admet l’égalité des résistances à la compression, et è l’extension è la limite d’élasticité, et si pour cette limite ils sont jusqu’à un certain point assez satisfaisants, on ne peut en déduire ceux pour la limite de rupture qui est la limite la plus intéressante dans ces questions du choc des projectiles, ainsi que pour le calcul de la résistance vive des bouches è feu; parce qu'on pousse en pratique les efforts jusqu'à ce qu'on touche de bien près cette limite de rupture. En attendant que l’expérience nous fournisse des données bien assurées, d’après quelques-unes de celles qui ont déjà été acquises, on a pu poser les suivantes pour quelques métaux les plus en usage, et pour la com- pression à la limite de rupture. Métaux — @;,Leurrésistanceàla compression — 7, Vitesse d’impulsion — D, Poids du m. cube 1° Acier durci..........— 114600000 kilogrammes — 250 mètres par 1”— 7818 kilogrammes 2° Fonte de fer durcie....— 90000000 » — 216 » — 7350 » 3° Fonte de fer è canon... — 66000000 » — 165 » — 7250 » 4° Fonte de fer ordinare.. — ‘40000000 » — 113 » — 6940 » 5° Bronze des canons .. .— 17000000 » — 55 » — 8564. » De méme on a pris pour les matériaux des blindages è la limite de rupture par extension pour le 6° Fer des plaques ......P =4o0000000 kilogram. — V =4o mètres — D =7783hilog.p =1 A E 2 7° Chéne des cuirasses ....P,= 6000000» —V,=18 » —D,= 857 » p,=+ 3 En faisant ci-devant p,=,,; Y,=7,; 2,=5,, 0u, au lieu de cette dernière équation, %,=%,, pour comparer le premier desdits métaux avec les autres, on trouve pour 60 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. le fer metal avec le 2e ; avec le 38€; avec le 4e ; et avec le 5* u n in e n - TO 3 Ri —=p:= 0,9080 ; 0, 8709 ; 0, 7700 ; o, 6727 U, Il b TEC en MEDIO) ONE INO7IO. I, 1390; 1, 2192 il Di $ 13. Dans des experiences faites en Italie en 1863 avec des canons rayés du calibre de 165 millimètres, tirant des projectiles cylindriques d’acier avec deux charges diverses, avec la plus petite de ces charges le fer de la cuirasse a cependant été entièrement percé, le projectile s'étant arrété en partie encore dans le fer, et le reste dans le bois. Onitava 9 — 9021207 SN ORION N00 SIONE UV — SIOE — LOCI ON DOL I — TONO L= 0",4837 des formules du $ 4 pour la cuirasse toute en fer; puis avec les formules du $ 6 appliquées è la cuirasse composée de ce cas, on trouve consequemment la valeur du coefficient constant c,= 0, 2885 CHIC — 1021097 CELanbIc), — 0/03 99NeLIVi n — 0,00 et eroi — 00040 puis Z=0%, 4172; Z,=1",670- Si l’on prenait re=4, on avrait B_OSMITIZAONIIO RI OIAO = REATIIPISSeuns que e projectile n’aurait pu percer. Avec le méme canon rayé on a tiré aussi dans la méme cuirasse de près, à 15” de distance, un projectile sphérique aussi d’acier, d’un dia- métre égal à celui du projectile cylindrique; pour lequel, retenant la méme lensité, on trouve son poids p= 17%, 4. Ce boulet tiré avec la charge le 7%, 5 s'étant également enfoncé dans la cuirasse jusqu'au commencement de la partie en bois, la pénétration de 0”, 27 étant comprise entre celles de o", 21 et o", 41 desdits projectiles cylindriques, on peut retenir qu'il exigerait la méme valeur ci-devant trouvée pour A4= 0”, 16133; et retenant la vitesse du boulet x =506 mèétres par seconde, celle qui justement lui convient, répondant non au rapport 5 I CRI I I LEE mais è ne pù 194) 2 Saw so 18250 à cause des fuites des gaz de la charge ‘par les six rayures du canon, on a pu tirer la valeur dudit coefficient 7 = 1, 00644 de l’expression de ò en fonction d’r par la formule RI RE TAI EE sea =105 du ; A peut donc retenir. le rapport n= = de l’épaisseur du bois qui n'a pas été percé avec celui du fer, comme une limite supérieure, qu'il est inutile de dépasser, le projectile devant étre arrété par la plaque de fer sans pénétrer dans le bois. Ainsi l’on voit qu'à égale résistance la cuirasse toute en fer, qui dans ledit cas aurait 0”, 2025 d’épaisseur, peut étre considérée comme aussì légere que la cuirasse composée de plaques de fer attachées à une muraille de bois; car le poids de la partie en bois serait en réalité augmente par les boulons qui la traversent, et par l’humidité qu'elle absorbe : elle serait plus légère toutes les fois que le rapport des épaisseurs du bois avec le fer ne dépasse pas 2,18; mais cette trop mince épaisseur du bois ne suffirait plus pour fournir la Haison de l’ensemble de la cuirasse com- posée. C'est seulement au delà de la valeur de ce rapport n=4 que l’avantage de la légèreté du bois deviendrait sensible, si l’on pouvait -empécher le percement des plaques, alors trop faibles respectivement à la résistance du bois, parce que ces plaques, relativement minces, seraient percées de part en part avec un grand degàt de la muraille de bois, dégàt qui se serait limité è un simple trou, si au lieu d’une plaque insuf- fisante, la muraille n’en eùt eu aucune. Si ladite cuirasse toute en fer de 0,2222 d’épaisseur eùt été dans l'expérience susdite disposée è 30 degrés d'inclinaison sur l’horizon, en retenant que le coefficient du frottement était f= 0,66, et le coefficient de reduction de la vitesse initiale qui, dans ce cas, est celle restant au projectile an moment du choc sous ladite inclinaison de 0, 4863, on trouve que ladite épaisseur serait reduite à 0”, 155 moins que la moitié. $ 15. On vient de trouver qu’une cuirasse toute en fer serait à égale résistance vive plus légère qu’une cuiîrasse composée de bois recouvert de plaques boulonnées, et dans laquelle la liaison de ces plaques est fournie par le bois. Mais c'est un grand inconvénient dans la construction des navires cuirassés, que ce poids très-lourd du fer de la cuirasse, qu'on est forcé d’augmenter avec l’accroissement de la puissance de l’artillerie, soit attaché simplement à la coque du navire sans contribuer à la renforcer, et qu'au contraire il la surcharge énormément et contribue fortement è fléchir la quille. Ce grave défaut pourrait méme causer la rupture du navire à son milieu, si par une mer très-orageuse il était soulevé par les houles au delà d'une certaine limite, qu'il est très-intéressant de PAR J. CAVALLI. 65 connaître. On a aussi démontré au n.° 3, qu@une cuirasse est plus forte lorsqu'elle est composée de plusieurs couches, au lien d’avoir une seule épaisseur de fer, lorsque ces couches peuvent glisser sous la flexion : tandis que dans le cas contraire la résistance vive de la cmirasse reste la méme, soit qu'elle se trouve composée de plusieurs couches, soit qu'elle n’en ait qu'une seule. A ce propos on lit è la page 268, t. 10 de la Revxe maritime: « On eroit généralement en Europe que des plaques » d'un seul morceau et d'une épaisseur uniforme de 4 à 5 pouces sont » plus fortes que 4 ou 5 tòles d’un pouce d’épaisseur superposées. Tout » au contraire Stevens de New-York pense que le système des plaques » de tòles est beaucoup plus résistant et è bien meilleur marché que » celui des blindages d’une seule pièce. » Comme on ne peut è Îétat actuel de la metallurgie faire une cuirasse d’une seule pièce, la question importante devient celle des liaisons des différentes parties. Sous ce rapport la cuirasse toute en fer composée de plusieurs couches, outre qu'elle a l'avantage de peser moins, n’a pas besoin d’emprunter ailleurs sa liaison; elle est plus simple, plus solide , et s’identifie plus facilement avec la coque du navire. C'est d’après ce principe de construction qu’on va d’abord calculer le moment de rupture de la maîtresse coupe d’un navire, pour en calculer ensuite la résistance vive du navire méme, ou jusqu'à quelle hauteur, sans ou avec danger, il pourrait étre soulevé dans une tempéte par les vagues. En retenant la méme signification des lettres qu’au $ ITT de notre dit Meémoire de 1863, et la méme meéthode , c’est-à-dire , en égalant les moments de la partie etendue avec le moment de la partie comprimée de la maîtresse coupe, pl. I, fig. 1, supposée partagée par la ligne horizontale 42 des fibres invariables, on aura Iyx Liz (8; iypde=Qfirsdx; et en observant qu'il faut prendre les intégrales des différentes parties de la maîtresse coupe entre ces limites peli ys,=T(hTN) etx=4a Î yi=Niey ==) —0h en observant qu'on a I 7 AL vali a STESA = et Sia (M=N i NM & on parvient aux expressions suivantes de la distance /V du pont du navire à la ligne des fibres invariables, et du moment / d’inertie de la maî- resse coupe. Serie II Tom. XXIV. I 66 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. On a pris cette figure rectangulaire de la maîtresse coupe d'un navire de fer cuirassé, comme la plus simple, et comme un exemple suffisant pour eclairer la question qui nous occupe: et pour le méme objet il suffira encore de supposer ici constantes les sections du navire réduit en longueur jusqu'è avoir le mème poids, en retenant alors celui-ci par métre courant constant pour la longueur réduite: INE= m+Ym—n? 3 (ea) (—1)-(6—5) Q Lorsqu'on aurait S=p= 1, l’expression en N deviendrait du premier P degré, et serait _10°b+ka+hb—b,(h,+c) N _ 2cb+ka+hb—b,(h,+c) N? È È I=l b+a + N :_IN_p_t|N—o) ++] Soit Z la longueur de la poutre creuse représentant ici le navire , Ton aura A=hbT—-h,b,+ak la surface résistante de la maîtresse coupe. Il va sans dire que dans chaque cas il faut déduire /V et 7 d’après les formes et la maniére de construction du navire. Un navire pouvant étre soulevé par son milieu au bout d'une lame, ayant alors ses parties extrémes hors de l'eau, se trouve dans la méme condition qu’une poutre appuyée à ses extrémités, et recevant l’impulsion à son milieu. Ainsi on aura, d’après le $ IV, n.° 32 dudit Mémoire, en désignant ici avec p la charge morte par métre courant, pour toute la longueur Z, étant du reste M,=1M; gM=A4LD+pL=oA4LD; o=ir+475; 5 Hjech i: 2’ : ia v=aa: tandis que, si la poutre était coupée selon les solides d’une égale résistance, tel que devrait étre fait un navire sous ce rapport, cette valeur d'U devrait alors étre multipliée par Y2: et on aura ainsi les deux valeurs extrémes, entre lesquelles sera ordinairement contenue celle de chaque cas. PAR J. CAVALLI. 67 Or soit 4 la hauteur è laquelle la lame a souleve le navire avec une vitesse initiale égale à celle qu'il acquiert en tombant de la méme hauteur, x en égalant cette vitesse à celle que le navire peut supporter ci-devant deduite, on tire la simple formule $ 16. Lorsqu'’on pourra considérer le navire comme un prisme coupé selon les solides d’une égale résistance, non-seulement il faudra multiplier cette expression par Yz, mais on devra encore au moins mettre dans l’expression de © (le rapport Da) au lieu de pZ le poids absolu de la charge que porte le navire, y compris méme celle de sa coque qui ne concourt pas à le renforcer, et selon qu'on y mettra pour la vitesse V d’impulsion que peut soutenir le fer, sa valeur à la limite de stabilité ou de rupture, comme aussi celles du rapport f, on aura pour 77 les limites entre lesquelles le navire pourra soutenir l’impulsion des houles plus ou moins hautes. o o è . I Pour un navire ordinaire on pourra avoira=o0 etk=oetc=-(f—h,), 5 comme c'est le cas des poutres en tòle de fer et encore p=1; alors on aura A=bh—b,h,; I 1 bh—-b,h} za SIRO OI TIRED OA 3 e SN A Se TASTI ATE i eee an 2 È È b, i Outre cela, si nous avions zz on aurait 05 siae +75) H=? pe an pe 2nengi a) orga sg DI où l'on voit, que la valeur de la hauteur 7 ne dépend plus d’aucune 5 " 3 È (ORO : dimension absolue du navire, si ce n’est du rapport ( ") du plein avec vie LP 7 TAD du poids de toute la charge morte avec le poids de toute la partie vive, dans le sens lon- le creux de la maitresse coupe, et du rapport gitudinal du navire. 68 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Soit par exemple (i la 16. 8 desio day Lp pu (x) 3505 Spiobimana99 ve EA DR et /=20 mètres à la limite de stabilité, et Y=40 mètres par seconde à la limite de rupture, on a pour la hauteur 77, à laquelle peut étre soulevé le navire par la puissance des vagues respectivement auxdites limites, métres 4,5 et 18,04. Sì le navire était construit en lamières d’un acier assez ductile, pour lequel les valeurs auxdites limites de la vitesse d’impulsion seraient au moins de la moitié plus fortes, on aurait lesdites hauteurs 2,25 fois plus fortes; ou l’on pourrait y réduire à la moitié les épaisseurs des tòles de la coque: et alors lesdites hauteurs seraient encore un peu plus fortes, c’est-à-dire de 1,125 fois (1). S 17. Pour mieux se rendre compte de la différence de solidité d’un navire blindé, lorsque le blindage concourt ou ne concourt pas è ren- 1) On trouve dans le Guide du Marin, Resume des connaissances, ete., T. 2, Paris 1863, qu’une observation de la hauteur, à laquelle peut ètre soulevé un navire par les vagues, fut faite pendant une tempéte par des matelots placés sur les màts à la hauteur des lames, tandis que le navire se trouvait dans le creux, et qu'elle a éié trouvée de huit mètres; mais cette hauteur est de beaucoup plus grande dans une mer très-orageuse. En effet; dans les Nouvelles Annales de la Marine, avril 1864, pag. 187, Navigation du Cap Horn, on lit dans les Corsiderations sur l’Océan Atlantique da Capitaine de vaisseau FLEURIOT DE LANGLE, que nous empruntons au Magasin de Taitî du 1 aoùt 1863: « La hauteur des James a été souvent l’objet de discussions très-vives; on peut se rappeler » encore avec quelle passion DUMONT D’URVILLE et ARAGO soutinrent chacun leur opinion sur ce >» sujet. Suivant M. FLEURIOT DE LANGLE, les lames atteindraient souvent, dans les lalitudes polaires, » plus de 100 pieds d’elevation entre le creux et le sommet de la lame, observation qui, on le » voit, donnerait raison à Dumont D’URvILLE, C'est aux environs du Cap Horn, et pendant une » tempéète, que M. FLEURIOT DE LANGLE a pu observer une étonnante hauteur de la lame. Tous » les marins savent que la mer dans ces parages, et pendant les ouragans, devient énorme. Le » vent est si violent, que le navire monté par M. DE LANGLE, la Poursuivante, atteignit jusqu’à 13 » neuds, ce qui donne une vitesse de 6,66 mètres par seconde. Ce fait n’a rien d’extraordinaire. » Dans de pareils ouragans le vent a certainement une vélocité quatre fois plus grande que celle » qu'il imprime au navire. Aussi M. DE LANGLE estime-t-il que le jour dont il parle, la vitesse » du vent devait ètre de 27 mètres par seconde, ce qui est effectivement la vitesse pendant les » ouragans les plus impétueux..... . Il conseille, par une mer longue et regulière, de conserver » une vilesse égale, ou un peu supérieure à la vitesse de la lame...... Mais, ajoute-t-il, si l’on » a une mer assez courte pour que l’avant et l’arrière soient plongés à la fois dans l’eau, cu que » le navire puisse ètre au sommet de la lame sans avoir les exlrémités appuyées, il sera préfe- » rable de diminuer de voiles. Une plus grande surface de voiles ne ferait alors qu’ajouter au » danger du navire en y accumulant une force plus grande; et augmenterait la violence de ses » mouvemenls sans accroître sa vitesse, qui serait plutòt relative à cause de l’amplitude des im- mersions de ses extrémités; et le navire, animé de cet excès de force, offrirait à la lame une sv resistance plus grande, et ne pourrait manquer de recevoir des chocs terribles. » PAR J. CAVALLI. 69 forcer sa coque, soit dans les deux cas l’épaisseur du fer utilement employée de la coque la méme, de 5 centimétres, p=1, D= 783%, b= 16%", 10, A=8%, 10, 0,= 16": et soit dans le premier cas >] [IR QI OSIO — 0 et dans le seeond cas nous aurons hr — 820 a=0, e'— ooo —'0ì En retenant dans les deux cas la méme longueur réduite du navire L= 75 métres, et dans le premier cas le tirant d’eau de 77,5, on aura pour le deplacement ou le poids total du navire l’expression Lp=|b(h—0,6)+a(k—0,6){75-1, en tonnes, et on trouve Ip 9 EA — 2068 NCI A 4597; IA 759% et H=31%,44 è la limite de rupture, et H=7",86 à la limite de stabilite. Dans le second cas on aurait pL=6(hA— 0,6)75. 1=9056 tonnes, mais il fant naturellement en retrancher la différence des poids utiles des coques 2668 — 1407= 1261, et alors on obtiendrait p L= 7799'; du reste tout étant comme dans le cas le plus simple qui précède, ou A— ora N=-h=W", 05, o=5, 469, ona 7H=13", 09, ou H=3", 27 pour les deux limites respectives de rupture et de stabilite. En supposant les extrémités affilées selon la forme des solides d’une égale résistance, les hauteurs déjà trouvées devant étre multipliées par Y2, on aurait ces autres hauteurs suivantes, auxquelles peut étre soulevé le navire par les vagues A la limite de ruplure. Ala limite de stabilité. lorsque la cuirasse renforce la coque, mètres 44,47 mètres Ir, 12 lorsque la cuirasse ne la renforce pas masque ellelancharsesto. asspli sone she » 18,67 » 4, 63 D'où l’on a la mesure de l’avantage de faire concourir le fer de la cui- rasse è renforcer la coque, pour que le navire puisse tenir la grosse mer, et que sa quille ne prenne pas de courbure. 70 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC, CHAPITRE VI. Détermination d'une série normale des poids des grosses bouches à feu, et de leurs vitesses d’impulsion dans le tir. $ 18. Après avoir dans les paragraphes précédents exposé la théorie du choc des divers projectiles contre les cuirasses, pour avancer dans la solution du grand problème, savoir, quelle est la meilleure bouche è feu à choisir dans chaque cas, et le plus formidable navire , et sa cuirasse capable de le garantir contre les tirs ennemis aussi puissants que les siens, il est nécessaire d’etablir les bases de départ pour la comparaison des bouches à feu et de leur plus grand effet. En définitive on ne pourra résoudre ce grande problème que numé- riquement, c'est-à-dire par une série d’applications, vu que cette question est extrémement compliquée par la multiplicité des éléments et des for- mules de la mécanique appliquée, auxquelles il faut avoir recours, et vu la grande difficulté des conditions qu'il faut remplir; conditions qu'on ne sait pas encore traduire en analyse, ou par lesquelles, tout en par- venant à les traduire, on rendrait la resolution trop laborieuse et inextricable. Il était surtout necessaire d’avoir, de la manière la plus indépendante, les vitesses initiales que recoivent les projectiles de la détente des gaz de la charge de poudre embrasée dans les canons. Quoique l’on ne connaisse pas la loi qui lie ces vitesses des projectiles avec leur poids et celui de la charge, l’expérience les a fournies entre les limites des charges en usage de la manière la plus étendue, surtout pour les pro- jectiles sphériques. Ces vitesses, d’après l'ensemble des experiences connues, semblent résulter è peu près les mémes, quel que soit le poids des projectiles , lorsqu'ils sont tirés avec des charges de poudre exprimées par une méme fraction de leur poids; bien entendu que les divers projec- tiles soient tirés dans des conditions identiques, comme longueur suffisante de l’ame de canon, pour que la poudre puisse bràler dedans également, vent autour des projectiles dans l’àme des canons uniforme, méme rapport entre le volume occupé par la charge avec l’espace vide laissé derrière le projectile etc. On a pu ainsi déduire la série des vitesses communes, répondant à la série de nombres naturels, exprimant les poids des projectiles en autant de fois la charge: c’est-à-dire, qu’en mettant ces PAR J. CAVALLI. 71 mombres au dénominateur, avec l’unité pour numerateur, on a la série des fractions indiquant les poids des charges en projectiles. La connaissance des effets des projectiles divers tirés par une série de bouches à feu d’un poids égal, paraît le seul moyen de juger de leur puissance relative, et de parvenir è faire le choix le plus heureux, rem- plissant mieux le but auquel on veut parvenir. Ainsi d’après les tables connues des tirs des diverses bouches à feu prises dans l’aide-mémoire de l’artillerie francaise, qui ne different pas sensiblement depuis les plus petits calibres jusqu’aux plus grands, lorsque les tirs sont faits dans les mémes circonstances, on a pu construire la courbe pl. I, fig. 3, cù l'on a pris la série naturelle des nombres exprimant les poids des projectiles en auiant de fois le poids des charges de poudre, pour les apsisses et les vitesses initiales correspondantes pour les ordonnées. L'origine étant è zéro, la charge correspondante serait infinie ; mais il n'est pas méme nécessaire en pratique d’arriver à la charge de la moitié, au delà de laquelle l’expérience prouve, que les vitesses n’augmentent plus sensiblement, tandis qu’au contraire, au delà d’une augmentation encore majeure de la charge, la vitesse du projectile diminue. Quoique les vitesses initiales les plus connues soient celles des projec- tiles sphériques avec vent réduii, elles peuvent éire reienues les mémes, quelle que soit la forme des projectiles, pourvu qu'ils soient d’un méme poids et d’un méme vent. Du reste, pour la comparaison qui nous occupe, il suffit d’abord de prendre pour point de dépari les mémes vitesses, et comme les différences sont plus essentiellement dues aux différences du vent laissé entre les parois du canon et du projectile, il suffira dans les cas particuliers d’augmenter ou de diminuer les charges de la série Jusqu'àè rejoindre les vitesses de la série normale: ce qui du reste n’aura pas une influence sensible sur la vitesse d’impulsion que recoit la bouche à feu dans le tir; impulsion qu'il faut retenir la méme pour la juste comparaison de toutes les bouches à feu d’un poids égal. $ 19. En admettant pour toutes sortes de projectiles cette méme série des vitesses initiales, on pourra calculer avec la formule du G.! ProserT, qu'il a mise à la fin du mémoire du grand géomètre Poissox, intitulé Formules relatives aux effets du tir, d'abord les vitesses d’impulsion des diverses bouches à feu les plus connues pour leur bon usage, et ensuite les poids de la série des projectiles pour des bouches è feu données de poids, avec la vitesse d’impulsion qu’elles ont à soutenir. 72 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. La vitesse d’impulsion des bouches à feu ne peut excéder certaines li- mites pour chaque espèce d’artillerie; de sorte que leur poids a été réglé d’après la plus ancienne pratique, de facon è ne pas avoir des reculs trop violents, tels à ne pas compromettre le service et la durée des affilts, tout en donnant à ces affùts la moindre partie possible du poids total. Cependant le besoin de la légèreté, surtout pour l’artillerie de cam- pagne, fit qu'en étudiant le système de l’an IX, on réduisit en France le poids du canon de 12 de 880 kil. à 750 kil.; réduction de laquelle on revint aussitòt, tandis qu'on l’adoptait dans d’autres Etats. La grosse artillerie, pesant environ 250 fois le poids du boulet de fonte sphérique, fut aussi allégée, et plus qu’aucune autre pièce, le canon de 30, jusqu'à 200 fois le poids du boulet, tiré avec la charge d’un tiers de ce poids. On a allégé de plus encore, proportionnellement aux charges, les canons de ce méme calibre tirant avec des charges plus petites. Pour bien juger de la stabilité relative de ces bouches à feu, on a calculé la vitesse d’impulsion qu'elles recoivent du tir, moyennant la formule susdite, où est V cette vitesse d’impulsion que recoit la bouche è feu, v la vitesse initiale du projectile , p le poids du projectile, q le poids de la charge de poudre mise dans le canon, B le poids de la bouche è feu, d, Je diamétre de lime, dle diamètre du projectile , DARIO zo V=v B (+4 7 7 )l Comme il existe très-peu de régularité entre les rapports x des diverses dl bouches à feu jadis en usage, pour en déduire les vitesses d’impulsion de ces bouches è feu, on a pris la valeur moyenne des vents réduits (7)= 1,038 pour les suivantes bouches à feu francaises, dengraz TI IVA 30° 3655 a LODI B= 750 880 2760 3000 2450 2140 1860 3520" 470% = 6% 6% Tio i) 15 ro) neh 18% DOE == Di 2% 6% DE 3%, 75 3° Matò 6% 8 = Soo® 500% 547% Sco” 464" 433%" 403" 500” 495" 2m VEE O 05, 0007 SR TO 0A MI 00 TOO: PAR J. CAVALLI. #0) Pour l’artillerie de campagne on voit que. cette vitesse d’impulsion est comprise entre 5 à 6 métres, vitesse qu'on peut retenir comme limite extréme. Pour la plus petite bouche à feu de la grosse artillerie, celle de 3", 7 du canon de 30, qui est le plus répandu, pourra étre prise comme la moyenne inférieure donnant toute la légèreté possible , compatible avec une stabilité suffisante, pour ce calibre qui est le plus petit parmi les grands calibres d’aujourd’hui. $ 20. Maintenant il est bien d’examiner aussi quelle est cette vitesse d’impulsion que regoivent les bouches è feu de plus récente construction, soit lisses, soit rayces; telles que les premiers gros canons rayés du calibre de 30 et de 60 CavaLti, se chargeant par la bouche ainsi que par la culasse , le canon de ce calibre rayé et fretté, introduit par la ma- rine francaise , le canon de 300 livres et de Goo anglaises du système Armsrronc Skunr faisant le tir plus puissant, et les deux canons lisses américains de 15 et de 20 pouces DAHLGREN, del 30 60° So 004491 000% eo EZIO EU oa MILITA e VIII DADI = 190 COMMISSARIO ORIO 272% 137" 493%, 5 = 6% IONI ICAZION 2 2 CONIATO DEMI 318" 330" 438” 358", 6 443 Son VESTONO MO O RO MOIO 7 REMOTO EMO RIONE Les vitesses initiales des canons anglais et américains sont les plus fortes è cause surtout de la poudre à gros grains. Par ces exemples on voit qu'ArmsrRoNne a poussé demesurément la légèreté relative, ce qui est une des causes du peu de siùreté qu’ont les bouches à feu de son système, surtout à mesure qu'il augmente de calibre. Cette légèreté n'est du reste en grande partie qu’apparente, dès qu'il faut appesantir consi- dérablement les affiìts pour leur donner une résistance qui souvent est insuffisante. A la pag. 527 de l’aide-mémoire de l’artillerie navale francaise, par Laray, il est dit: « que la vitesse initiale du recul devient génante « lorsquelle depasse notablement 3 métres par seconde; du moins dans les « bouches è feu d'un bon service il est convenu qu'il ne dépasse guère « 3 métres. » Ici c'est la vitesse de l’ensemble, bouche à feu et affùit, quil faut multiplier par 7 au moins pour avoir la vitesse d’impulsion que 6 recoit du tir la seule bouche è feu. Ainsi on voit que celle de 3",72 Serie II. Tom. XXIV. K n4 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. ci-devant trouvée peut étre.prise pour la limite inférieure donnant une legèreté et stabilité suffisante pour tous les canons du plus fort calibre. Mais la tendance aux plus grandes bouches à feu a fait tellement augmenter leur poids absolu, qu'on chercha à les alléger relativement comme celles de l’artillerie de campagne; et dès lors il a fallu augmenter le poids des affiùts, ainsi qu'au bout des comptes on y gagne très-peu, ou méme rien sur le poids total, en perdant beaucoup dans la stabilité de la bouche è feu sur son affùt. A cette grave considération on doit ajouter la suivante, qu'il y a des limites naturelles de cette vitesse d’impulsion, que pour les métanx à canon aussi on ne peut franchir sans passer de la stabilite à la rupture plus ou moins prochaine. Ainsi la vitesse d’im- pulsion élastique que le bronze des canons de campagne peut soutenir à la limite de stabilité étant de 5”, 44, elle serait dépassée dans le tir des canons de 12 susdit allégés en l’an XI, tandis que pour la bonne fonte à canon cette vitesse d’impulsion, è cette méme limite, est plus grande que celle qu’elles recoivent dans le tir (voir è la pag. 30 de notre Mé- moire sur la Zheorie de la resistance statique et dynamique des solides). C'est seulement è la limite de rupture, que la vitesse d’impulsion ou la resistance vive du bronze l’emporte un peu sur celle de la bonne fonte, et de beaucoup sur la fonte ordinaire (Note IV). $ 21. On doit done attacher la plus grande importance à la déter- mination de la vitesse d’impulsion d’une bouche à feu; conséquemment il y a lieu de conclure qu'on devrait adopter celle de 3”, 72 pour donner à toutes les bouches è feu sur leurs affiits une stabilité suffisante , celle qui est deduite de la plus longue pratique: mais comme la plus grande légèreté relative pour les plus grandes bouches à feu peut étre une con- dition impérieuse, il ne faudra cependant pas dépasser celle de 5 métres pour les plus grandes des susdites bouches è fen, de quelque metal qu'elles soient faites; car en dépassant cette limite, outre l’instabilité trop grande qu’aura la bouche è feu sur son affùt, la resistance vive générale pourrait devenir insuffisante, sì ce n’est aux premiers coups, après un nombre trop limité. Les limites extrémes des vitesses d’impulsion se trouvant ainsi fixées, on peut prendre le poids et la puissance du canon de 30 susdit pour le premier terme d’une série croissante, jusqu’à la bouche à feu plus lourde de 20 pouces de calibre, que les Américains sont récemment parvenus à faire, et en posant que ces bouches à feu auraient è tirer PAR J. CAVALLI. 79 des boulets sphériques en fonte de 2, 4, 8 et 16 fois 15 kil., poids du boulet dudit canon de 30, tirés avec la charge d'un tiers. du poids respectif de chacun; en assignant conséquemment à toutes ces bouches à feu un poids de 208,21 le poids du boulet respectif, comme pour ledit canon de 30, on aura la série suivante qu'on a prise pour normale pour arriver au but de la susdite comparaison : Poids des bouches à fen 3125, 6250, 12500, 25000, 50000 kilogr. Leurs vitesses d’impulsion 3,72, 4,04, 4,36, 4,68, 5 mètres par seconde. Cependant, si l’on pouvait maintenir pour toute la série de ces bouches à feu la méme vitesse d’impulsion, celle inférieure de 3", 72, tout en leur laissant la méme puissance de tir, leurs poids deviendraient ceux-ci: Poids des bouches à feu 3125, 6788, 15727, 31452, 67204 kilogr. \ CHAPITRE VII. Calcul et examen des tables des données, et résultat du tir comparatif des différentes séries des bouches è feu. $ 22. Les series partielles des poids des projectiles quelconques sont communes pour chaque terme de deux séries normales des poids des bouches à feu ci-devant établies, et sont aussi implicitement déterminées, soit que l’on retienne les vitesses d’impulsion respectivement assignées croissantes de la plus légère à la plus lourde de ces bouches à feu, soit dans l’hypothèse qu'elles recoivent dans le tir la méme vitesse d’impulsion. Ainsi il restait è calculer les effets du tir pour toutes ces bouches à feu, au moins pour celles dépendantes des termes extrémes de la série nor- male de leurs poids, dans les principales circonstances. On a donc calculé pour les bouches à fen ayant le poids de 3 ?/ et de 50, ou de 67,2 tonnes, deux tables chacune des résultats du tir de près et à 1000” de distance. On s’est d’abord limité à la distance de 1000”, comme celle de laquelle les combats commencent en général à devenir decisifs. Ensuite on a cherché les résultats du tir pour quelque cas spécial aux distances de 3000" et 6000”, distances qu'on peut retenir comme la limite utile respective des canons lisses et rayés. Ces résultats sont consignés en autant de colonnes verticales qu'il y a de projectiles de poids divers, chacune de ces colonnes‘ayant en téte un 76 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. terme de la série établie des charges exprimées par une fraction du poids du projectile correspondant. Dans les tables 1 et II du tir de près, après lesdites fractions, suivent les vitesses initiales correspondantes, prises de la pl. I, fig. 3; puis les carrés du rapport du diamétre de l’ime des bouches à feu avec le diamétre des projectiles; ensuite les poids des pro- jectiles quelconques, et enfin leurs quantités de mouvement. De près et à la distance de 1000”, pour toute la série des poids des projectiles quelconques, on a calculé les effets du tir de deux sortes par la forme de ces projectiles, massifs, sphériques et cylindriques; et de trois pro- portions diverses pour les cylindriques, c’est-à-dire de 2, 3 et 4 fois le poids du boulet sphérique de meme diamétre que le leur, avec la seule différence pour les tables de la distance de 1000”, qu'on a laissé cette dernière forme des projectiles cylindriques de 4 fois le poids du boulet de méme diamétre. On s'est arrété aux deux dites formes géometriques des projectiles massifs d’acier comme les plus puissants de ceux qui sont en usage, ce qui est suffisant pour la comparaison que l’on a à faire, puisque les rap- ports que l’on cherche ne pourraient du reste changer, pour les projectiles ogivaux, explosifs, et d’une matière plus où moins résistante. Aux distances de près on peut retenir que les tirs sont en direction normale à la surface du but vertical, et le frappent ayant à peu près la vitesse initiale; tandis que pour les grandes distances il faut connaître l’angle de départ du tir, l’angle sous lequel le projectile frappe le but et sa vitesse restante. Le but, on le suppose pour les tirs de près vertical ou incliné de 30 degrés, et pour la distance de 100e méires on le suppose en position normale au tir, horizontal, incliné de 30 degrés, ou vertical. Dans chacune de ces circonstances on a calculé l’épaissenr que doit avoir le but, fait d’une plaque de fer indéfinie en étendue à la limite de la rupture; et dans les tables pour le tir de près on a retenu ces épaisseurs à la limite de stabilité de la moitié de celle de rupture, en retenant la résistance du fer pour cette limite d’un quart de la tenacité. Pour les tirs è distances on à ajouté les composantes des cquantités de mouvement normales restantes aux projectiles è l’instant du choc, puisque les volumes de ces parties entamées des plaques leur sont pro- portionnels. On a aussi calculé, avec la formule connue, les pénétrations dans les murailles des bastions construits par Vausan è Metz, dans le seul cas de la percussion normale. PAR J. CAVALLI. yloi Ce ne sont pas ces pénétrations, comme on le dira ensuite , mais plutòt les épaisseurs des plaques dans les diverses circonstances de tir susdites, qui nous paraissent suflisantes pour faire reconnaître quelle est dans chaque cas la bouche à feu la plus convenable entre toutes celles de méme poids, tirant des projectiles différents. S 25. Maintenant soit 9 l’angle que la tangente à la trajectoire fait au point de chute avec le plan horizontal; on aura les angles $ 8 0,=180 —@ inscrits aux tables, avec le sizzzs desquels on a àè multiplier les vitesses restantes pour avoir la composante normale à ce plan. Lorsque le plan du cuirassement est incliné à 30 degrés sur l’horizontale contenue dans le plan du tir, on aura 0,=(180°—0)+30° = 210° —90, sin.0,=1! (3 sin. @—cos.0)=1 }(V3 sin.(180 —0)+-cos.(180 —@) Ò Avec ce sinus il faudra multiplier la vitesse % restante au projectile à l’instant du choc, pour avoir la composante normale au plan de la cuirasse inclinée de 30° sur l’horizontale. Pour le plan vertical de la cuirasse on aura 8,=270°—8, sin.9,= — cos.8= cos.(180°— 0) . Or comme l’angle @ est toujours de plus de go degrés, son cossinus étant négatif, le sins sera positif. Les séries des poids des projectiles sont calculées avec la méme formule 3 : - ; d susdite de Prosert; les vitesses. V d’impulsion , et les rapports 1 et ca P tri étant alors donnés, on a, en désignant par 2 le poids de la bouche à feu, ei Pil leda da 400 gra c=()+1:(14+42) ? où l'on voit qu'on peut changer le rappori de B à V sans que les valeurs de p, poids des projectiles, changent. d 2 Les valeurs de 1) ont été choisies de manière à avoir. un vent Il progressif, mais sans étre aussi croissant que les calibres, de manière à rester dans les limites généralement pratiquées aujourd’hui, moins grandes qu’autrefois. Pour le calcul du poids, ou diamètre des projectiles, on a encore n 6 p=k-3-djD, a=\75 3 78 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. + Le vent sy trouve compris entre 2 et 6 millimètres environ, de '/., pour les plus petits calibres à ‘/,, pour les plus grands. Les données suivantes ont servi à déduire les séries des rapports inscrits dans les tables Pour les bonches à feude 3125 ou 6250 on 12500 cu 25000 eu 50000 kilogrammes I Ponr la charge de gal, 0293 1, 0271 1, 0248 1, 0226 1, 0203 20 I » — » 1,0268 1, 0246 1, 0224 1, 0203 1, 0182 (£ ) » I, 0240 1, 0220 I, 0200 1, 0180 1, 0160 I 4o = » 1, 0223 1, 0203 1, 0183 1, 0164 1, 0145 . I I ” . (gut ” Soient — et 7 deux des fractions des charges ci-dessus désignées, a et - la fraction de la charge pour laquelle on veut la valeur corres- d, )=> c(b—a) \d,} Ta(b—e) $ 24. Pour le calcul de l’angle de projection g, de l’angle de chite 0 et de la vitesse restant au projectile et de la vitesse initiale, en défaut de connaissances balistiques spéciales, on a pris l’équation finie d’un arc de la trajectoire n.° 57, page 69 du Zraite de balistique par G. Dipion; mais il fallait trouver quel était le coefficient de la resistance de l’air approprié au tir des projectiles allongés; on en a déduit la valeur d’après des résultats du tir du canon de 30 rayé, rapportés à la page 194 du tome II de l’excellent traité pratique d’artillerie navale par M. L. Lewar. Connaissant donc la vitesse initiale v, l’angle de projection ©, la distance x, l’angle de chùte 9 et le temps #, on a d’abord déduit la valeur de l’expression générale du coefficient p de la resistance de l’air, en retenant la signification des lettres du traité de balistique susdit. Étant è la page 54, n.° 57 pondante ( e=drR (1 +) ? =0, 0023, ona fait Sdha étant pour les projectiles spheriques A=0,027 et Le Mr Tula sa A gn i, a #6; =45 (Dm) PAR J. CAVALLI. 79 où, suivant la signification de nos lettres, X est le rapport du poids du projectile cylindrique au poids du projectile spherique d’égal diametre, et D le poids de l’unité cubique de leur metal, expression alors com- mune pour les projectiles sphériques et cylindriques; où pour les pro- jectiles sphériques est g.4=0, 265, tandis qu'il nous faut déduire sa valeur pour les projectiles cylindriques. A cet effet de l’équation precitée de la trajectoire on tire d’abord, étant y=0, retenant les lettres de l’auteur et les données 9 et x V sin. 2 go Sez 9_ (140). r()a(1 i+). (2)4+(D) 5 8x r c r r 2C r faisant y Ta" ; “ls 0 =z 5 etant Ea) = 1+3+ = ; F( \=i++% substituant =(1+5):(1+3+5)_-26.( (1+-d)- (1+5 FG 3)+07: I b4-2 = (Vi+a (a—1)- Di —4) Pow V=327".5etp= 5° TON NINO ANNI OCT 2 O OARNIU SOAIANNI ONIATTA ICONE CEGROS puo sad anice cx= 1707 2993 4o4r 4893 5568 6073 6410 6580nìtres prenant ......... a=1,0013 1,0090 1,0247 1,0490 1,0850 1,1283 1,1873 0,2623 on frouve ...... gA=0,0769 0,0821 0,0862 0,0863 0,0841 0,0811 0,0778 0,0746 . Si outre la portée x et l’angle de départ 9 on se sert de la vitesse restante et de l’angle de chute, donné à la page 1g1 avec v=325, alors on a Vos. p | ch) = av, = . E v sin. 0 Vceos. 9 in. 0 où en faisant =a, et retenant la valeur précédente de d, on a: 198: (a-+ 5) —log. (1 +5) 2 Fia log. e 80 RECHERCHE DE IA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Pont (00.1. g= 5° 10° IO 20° AO) 30° 3 4o® degres cambi 6=5°,42'3 129,13" 190,1" 250,48" 32°20' 389,36" 449,27! 49°,54 il Pops 6 v= 2866 2339 212,2 1964 1843 1749 167,2 160,8 mètrs 2 IONE A x= 1592 2823. 3817. 4622. .5254 5720 6028 6158 id on a ....9A= 0,1083 0,1173 0,1068 0,1096 0,1143 0,1209 0,1293 0,1114 La valeur de g 4 varie entre 0,08114 et o, 11464, moyennes de deux assortiments des résultats susdits; ainsi l’on peut prendre la valeur de g 4 ronde de 0,1 pour les projectiles cylindriques au lieu de 0, 265 des pro- jectiles sphériques, dans les calculs balistiques qui suivent. Etant D= 7, 100* pour les projectiles de fonte sphériques et cylin- driques, on aura respectivement __0, 000327 = î 2 ki - pì I 0, 0008673 AA z 1 2C p et si D=7818* pour les projectiles d’acier sphériques et cylindriques, on aura alors respectivement I 0,0008133 1 0,0003069 2C pì È 2C ki. pî $ 25. Le calcul des pénétrations dans la muraille de briques, telles que celles des bastions de Metz, construits par Vauvsan, est fait avec la formule déduite de celle qu'on trouve à la page 235, n.° 165 du 7raite de balistigue susdit, où l’on suppose la muraille indéfinie aussi en épais- seur. En deésignant avec È cette pénétration, et retenant la signification de nos autres lettres, il serait a mani ; I d'où l'on a éliminé d: et en substituant les valeurs de f= 83 825 ) > li ? x 128 on aura cette autre expression, en prenant D=7818 pour le bon acier +(£3) | ; LI bj Z—=o, 4576 Ri pi log. où pour les projeciiles sphériques nous aurions &= 1. Pour la fonte en retenant D= 7100, le coeflicient numérique deviendra 0,4278 au lieu de 0, 4576. S 26. De l’eramen des résultats consignés dans les tables on voit PAR J. CAVALLI. di d'abord, que les quantités de mouvement total possédées à la fin de la course tant de près que de loin par les divers projectiles, tirés avec les vitesses initiales de la série établie, telles à causer la méme réaction sur la bouche à feu, vont en croissant avec la masse des projectiles mémes, quoique les charges aillent en decroissant, tant relativement qu’absolu- ment, sans autre limite que celle de pouvoir lancer ces projectiles divers à la distance voulue. Cette loi na plus lieu pour toutes les composantes de cette quantité de mouvement total; car pour celles normales è un but vertical, à la distance de 1000 mètres, il y a un maximum répondant à la charge de ‘/;;, soit qu'on tire les projectiles sphériques, soit que l’on tire ceux cylindriques plus ou moins allongés. Les séries des épaisseurs des cuirasses présentent plusieurs maximums. Dans le tir de près, tant pour celles de ces cuirasses qui sont disposées verticalement, que pour celles inclinées de 30° sur l’horizon, il y a une épaisseur maximum répondant è la charge de '/; por toutes les formes et proportions des projectiles. A la distance de 1000 métres, soit qu'on frappe le but normalement, soit qu'on le frappe étant disposé verticale- ment, avec les projectiles sphériques le maximum de ces épaisseurs a lien pour les tirs faits aux charges de '/,; à '/, respectivement avec les bouches à feu de ces poids extrémes de la série normale. Pour les pro- Jectiles cylindriques ce maximum a lieu aux charges de '/5 à ‘/ respec- tivement auxdites bouches à feu et à la position du cuirassement. On remarque que les séries des enfoncements des projectiles suivant leur axe, dans une muraille en briques, telle que les revétements des bastions de Metz, supposés d'une épaisseur infinie par égard à ces enfoncements, décroissent dans une proportion plus forte que le carré des vitesses restantes aux projectiles au moment du choc, et sont con- siderablement plus forts pour ceux des projectiles très-allongés, en comparaison des enfoncements des projectiles moins allongés, et surtout de ceux sphériques. Ces grandes differences des pénétrations, calculées avec la formule connue , sont loin de se vérifier dans le tir contre des murailles en pierres (1), beaucoup plus dures que les murailles en briques ; mais alors (1) Des expériences récentes furent faites, en 1864, sur le Lac Majeur par l’artillerie italienne, sur le tir en brèche contre un fort demi-circulaire revétu de petits blocs de granit au dehors, de 30 centimètres environ d’épaisseur, et en dedans en muraille de moéllons. On a tiré, entre autres Serie II. Tom. XXIV. pi 82 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. la différence des effets paraît beaucoup plus dans l’étendue des disjonctions des parties, environnant le point frappé; de sorte qu'il semble que les ré- sultats de l’expérience s'accordent beaucoup plus avec les formules ci-devant déduites pour la percussion des cuirasses, qu’avec la formule en usage donnant seulement les pénétrations. Cependant, lorsqu’on cherchera à pénétrer le plus profondément possible à travers un obstacle pour l’outrepasser, comme pour incendier ou faire sauter des magasins à poudre, il se peut que les grandes charges et les projectiles très-allongés, lorsqu’ils pénètrent en ligne droite, aient l’avantage : hormis ce cas douteux, il y a toujours lieu à évaluer bouches à feu, avec deux couples de canons rayés de 30 et de 12, chaque couple avec Ie mème obus allongé, le premier de 30 kil., et le second de 12; mais avec des charges differentes, de 6 kil. pour le canon de 30 fretté, et de 3,2 pour celui ordinaire; et de 3 kil. et demi pour le 12 long en fonte de siége, et de 3 kil. et 1/5 pour le 12 court en bronze de campagne, pour lequel la grande difference de longueur équivaut à une difference bien plus forte entre les charges indiquées. Dans le tir de près, autant qu’à la distance de 3475 milles, les differences des penélrations des projecliles tirés avec les grandes charges sur celles dues aux petites charges susdites, sont bien loin d’ètre proporlionnelles aux carrés des vitesses respeclives restantes aux projecliles au moment du choc. Les pénélrations des obus de 30 kil. dans le granit furent respectivement 35 et 32 cent. pour les deux charges dans le tir de près, et de 20 et 18 dans le tir de loin; et les pénétrations dans la muraille de moéllons dans le tir de près furent de 75 ct 70 cent., et è la dislance susdite de 60 cent. environ pour les deux charges. Avec les canons de 12, qu’on a tirés de près seulement, les penetralions des obus ont été dans le granit respectivement auxdiles charges de 15 et 13 cent., et dans les murailles de moéllons de 50 el 46 cent. Dans le tir comparatif des canons du plus petit calibre on a eu lieu de reconnaitre la très-grande supériorité de la resistance des murailles en moéllons sur celles en briques du mème fort. Pour chaque mètre cube de bréche faite avec les canons de 30 dans le tir de près, celui cerclé à 35 mètres de distance, et l’autre à 70, contre une muraille de 4,2 mètres d’épaisseur que chaque canon a enlièrement percée pour la hauteur de 8,6 mètres, le premier après 79 coups, et le second après 111: sur 1 de poudre brùlée par le cerclé, l’autre ordinaire n’en brùla que 0,84, et pour f de fonte lancé par le premier, le second en lanca 1, 28. Ainsi il n’y a pas eu d’avantage pour le canon freilé tirant à grande charge de 1/5 sur le canon ordinaire tirant à la charge de 1/9 dans le tir de près, et moins encore dans le tir de loin. Mais tandis que le canon ordinaire après 567 coups était en bon état, le canon frelté après 380 coups était hors de service; l’agrandissement intérieur à l’endroit de la charge était triple de celui de l’autre. Lajustesse du tir s’est aussi conservée la mème, à la fin du tir du canon frellé, qu’au commencement, malgré la disparilion presque com- plète des rayures dans ce dernier sur le derrière de la place du projectile; ce qui prouve l’inutilité du rétrécissement au fond de ce syslème de rayure. Quant à la justesse de tir elle a élé egale pour les deux canons tirant de 3475 mètres contre une étendue du fort de 32 mètres de front sur 14 de hauteur, en ne pointant qu’avec la hausse ordinaire; mais presque la totalité des coups tombèrent dans un carré de 100 de front sur 200 mètres de profondeur. On a pu en déduire qu’avec les 760 coups tirés de loin contre le fort, sì l’on eùt pointé avee un instrument d’une plus grande précision que la hausse ordinaire, tous auraient frappé dedans, et le fort aurait été complétement detruit. PAR J. CAVALLI. 83 non-seulement l’enfoncement dans les murailles, mais aussi l’étendue ebranlée ; de méme qu’outre les épaisseurs des cuirasses à battre, on cherche encore le rayon de la partie entamée. S 27. Le volume de la partie de la cuirasse entamée étant toujours proportionnel à la quantité de mouvement possédée par le projectile à l’instant du choc, il s'ensuit que, pour faire la comparaison totale des effets, il faudrait multiplier ensemble les quantités de mouvement par les épaisseurs trouvées des cuirasses; car la théorie et l’expérience démon- trèrent que le but qu’on doit se proposer d’atteindre dans le choix de la meilleure artillerie, ce n'est pas tant de percer, comme de deémolir les cuirasses ennemies; ainsi le meilleur choix des bouches à feun doit tomber sur le calibre qui par son tir entame en méme temps la plus grande partie du but autour du point frappé, et exige la plus forte épaisseur pour lui résister, suivant la position qu'aura le plus communément le but méme à battre. Or, si l’on fait les produits de ces deux quantités, on trouve que leur plus grande valeur répond généralement è la charge de '/,. Dans le cas des cuirasses verticales et inclinées de 30°, frappées de près, la charge de ‘/; est bien celle qui répond aux plus fortes épaisseurs; mais la diminution de cette épaisseur pour arriver à celle répondant à la charge de ‘/,;, étant inférieure à 0,05 de l’épaisseur maximum pour les canons pesant 3125*, diminution qui est moindre encore pour les canons plus lourds pesant outre 50000%, il devient évident que l’augmen- tation de la quantité de mouvement qui a lieu avec l’accroissement de la masse des projectiles, malgré la diminution des charges, puisse faire que le maximum d’effet total soit produit par les charges susdites de '/,;. De méme, à la distance de 1000” contre des cuirassements verticaux, comme lorsqu’ils sont frappés perpendiculairement, c'est encore à la charge de '/,; que répond le maximum d’épaisseur pour le tir des boulets sphériques avec les canons du poids de 3125*: tandis que pour le tir des projectiles cylindriques cette charge répondant à l’épaisseur maximum, serait de ’/, Avec les canons pesant 30000", ce maximum répond à la charge de '/, pour les projectiles sphériques, et à '/; pour ceux cylindriques; mais ici encore la diminution de ces épaisseurs maximum jusqu'à celles répondant à la charge de ‘/,;, n’arrive pas à 0,035 de cette méme épaisseur, et cela aussi lorsque la position du cuirassement est inclinée de 30 degrés; de sorte que l’effet total maximum tombe encore sur ladite charge de ‘/,; environ, et plutòt sur des charges encore plus petites que plus grandes. 4 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ÉTC. qa Lorsque le but cuirassé est disposé horizontalement, on voit que les gpaisseurs des cuirasses, comme les composantes verticales des quantités de mouvement, croissent rapidement avec l’accroissement de la masse des projectiles, malgré la diminution des vitesses, jusqu’à la moindre des charges de la série nécessaires pour avoir la portée de 1000". Pour arriver aux autres distances susdites de 3000 et 6000”, on voit, d’après les résultats de la table V, qu'il faut employer respectivement les charges de '/,; et ‘/,.; avec lesquelles on a calculé l’effet total du tir des projectiles allongés, pesant deux fois le boulet sphérique de méme diamètre, en prenant pour cet effet total le produit des quantités de mouvement exprimées en tonnes, et les épaisseurs du cuirassement en métres pour chaque poids extréme des bouches à feu de 3 '/; à 50 tonnes. De l’examen de ces produits il résulte, que l’effet total du tir contre des cuirasses verticales décroît avec l’aceroissement des distances de 1000 a 3090 et à 6000 métres, comme 1 à 0,823 à 0,522 pour les tirs des canons de 3 '/; tonnes, et seulement comme 1 à 0,965 à 0,903 pour les tirs de ceux de 50 tonnes; tandis que, contre des cuirasses horizontales, l’effet total à ces mémes distances est comme 1 à 1,447 è 1,272 pour les canons 3 '/; tonnes, et comme i à 1,278 à 0,79 pour les canons de 50 tonnes; c’est-à-dire Veffet total du tir croît environ jusqu'àè la distance de 3000", et puis il décroît et beaucoup plus rapidement avec les plus lourdes bouches à feu; mais on retrouve la méme progression en tirant à la méme élévation un projectile plus lourd avec une charge encore plus petite que ‘/,;. On est donc fondé è conclure, que pour tirer jusqu’à la distance le Gooo"” et plus contre des cuirasses verticales, le choix de la meilleure bouche à feu doit tomber sur celle tirant avec la charge de '/,, à ‘/,o au plus; mais que, pour tirer contre des cuirasses horizontales, le ma- ximum d'effet ayant lieu environ à la distance de 3000”, distance qui est dejà considérable pour un tir courbe, eu égard è la justesse, il peut ainsi convenir d’avoir une autre bouche è feu, celle tirant avec la charge de */.;, ou à une charge plus petite encore pour les bouches à feu plus lourdes que 3 '/s de tonne, tiranti aux élévations donnant de plus grandes portées; car l’effet total des tirs de la meilleure bouche à feu ci-devant choisie pour tirer à la distance de 6000" contre une cuirasse verticale, se réduirait de trop (voir la table V) pour les deux poids extrémes des bouches à feu mémes, respectivement de 1,447 et 1, 278 è 0,333 et o, 22. PAR J. CAVALLI. 95 S 28. Il paraît done que deux bouches è feu diverses sont nécessaires pour frapper plus efficacement avec lune les cuirasses verticales ou inclinées environ jusqu'è 30° sur l’horizon, et avec l’autre les cuirasses horizontales ou assez près d’avoir une telle position. Ce résultat est du reste conforme à la pratique depuis longiemps apprise, d’employer le canon et le mortier selon les cas; mais ici on est parvenu à trouver les bornes de leur meilleur emploi. Cependant, avec les canons rayés, on peui éviter cette nécessité d’avoir deux sortes de bouches è feu pour tirer à petite ei grande élevation, en tirant de deux manières, avec la méme bouche è feu, deux projectiles d’égal diamètre de différente longueur, et d’un poids différent, bien entendu avec des charges donnant toujours la méme impulsion aux bouches è feu. Les poids de ces deux projectles sont ceux mémes attribués dans la table V aux distances de 3000 et 6000" de 54%, 72 et 33%, 64 ou de 1186 et 733%, 03 respectivement aux deux poids extrémes des bouches à feu de la serie normale. Dans la table VI on trouve les résultats des tirs à la distance de 3000”, de ces deux couples de projectiles, dans les deux cas suivants: que de chaque couple le plus court et léger pese 2 ou 1,5 fois le boulet sphérique d’égal diamétre; tandis que les plus longs et lourds péseraient respectivement 3, 244 ou 2, 433 le boulei sphérique de leur propre diamétre. Ces chiffres découlent de la condition que la bouche à feu ait à supporter dans le tir la méme vitesse d’impulsion qu’auparavant. On a pris les deux rapports 2 et 1,5 entre les poids des projectiles allonges, et le poids du boulet sphérique d’égal diaméètre, parce qu'il résulte au $ 12 que ces rapports sont dans les limites extrémes praticables qui donnent le plus grand effet total des tirs, non-seulement parmi les projectiles allongés, mais aussi en comparaison des pat sphériques d’un poids égal, et d’une égale vitesse restante. Enfin, è l’objet de reconnaître le degré respectif de convenance des tirs divers faits de 3000" contre une cuirasse horizontale, on a déduit les rapports suivants (table VII): 1° des épaisseurs des cuirasses de 104 et 284 mill. respectivement déduites pour les deux poids extrémes de la série normale des bouches à feu inscrits dans la table V, pour le tir à 3000" à la charge de '/,; contre les cuirasses horizontales, avec les épaisseurs des cuirasses correspondant au tir avec la charge de ’/. de la méme distance, et avec ces autres épaisseurs des cuirasses dédnites à la table VI pour le tir à la charge de */.; des deux projectiles plus lourds 86 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. _ et plus ou moins allongés; 2° des quantités de mouvement des projectiles correspondant aux épaisseurs mémes susdites; ét 3° on a fait les produits desdits rapports. On compare le tir contre des cuirasses horizontales, fait de 3000" de distance, avec les canons de la deuxième sorte tirés à la charge de ‘/,;, qui plus haut a été trouvée appropriée à ces cas: premièrement avec ce tir fait avec les canons de la première sorte susdite à cette meme distance, en réduisant les élévations; secondement on compare le méme tir avec les deux tirs faits avec la méme charge de ‘'/; dans la méme bouche è feu de deux projectiles égaux en poids et non en longueur, soit sous les rapports des épaisseurs des cuirasses, soit sous les rapports des quantités de mouvement restant aux projectiles, ainsi qu’entre les produits de ces quantités ; le tout pour les deux poids extrémes sudits des bouches à feu. D’après ces résultats on voit qu’en definitive 1° l’effet total déduit des tables du tir à 3000" contre le cuirassement horizontal avec la charge de '/,; est de 4,320 et 4,635 fois plus grand respectivement pour les deux poids extrémes des bouches à feu, que l’effet total des tirs à 3000” des projectiles avec la charge de '/,,, trouvée nécessaire pour rejoindre la distance de 6000", en réduisant convenablement les élévations du tir; . 2° l’effet total des mémes tirs à la charge de '/,; n'est, relativement aux deux poids extrémes des canons plus que 1,12 à 1,24 fois plus grand que le tir du second projectile plus lourd tiré dans la méme bouche è feu, trouvée la meilleure pour tirer les projectiles plus légers, jusqu'à 6000" avec la charge de '/,,, lorsque ces projectiles plus légers pèsent deux fois le boulet sphérique de méme diamétre; tandis que, lorsque ces mémes projectiles plus légers ne péèsent qu’une fois et demie le boulet sphérique d’égal diamétre , ces rapports deviennent 1,012 et 1,149 encore plus près de l’unité. On voit done qu'on peut sans perte sensible d'’effet total n’avoir qu’une seule et non deux bouches à feu rayées, d’un poids donné, pour tirer convenablement contre les cuirassements soit verlicaux, soit horizontaux; en employant alors deux charges maximum, celle de '/,, et celle de ‘/,; respectivement avec deux projectiles cylindriques ou allongés de poids divers, le lourd égalant 1,62 fois le projectile léger. Cette conclusion étant déduite pour le tir plus ou moins direct du projectile léger jusqu'à 6000", et pour le tir courbe du projectile lourd jusqu'à 3000", il va sans dire que, lorsqu’on se fixerait d’autres limites des distances, on pourrait en PAR J. CAVALLI. 37 déduire par un procédé analogue les calibres des deux bouches à feu d’un égal poids donné, ou les deux projectiles divers en poids, et leurs charges respectives pour faire les deux sortes de tir avec une seule bouche à feu. A ces deux projectiles cylindriques on peut toujours ajouter le projectile sphérique, qu'on pourra tirer avec la charge de '/;,5 environ, charge qui conservera la méme impulsion que les autres tirs à la bouche à feu. Ainsi une méme bouche à feu de poids donné, avec ces trois projectiles, pesant p 1,5p et 2,438p tires avec les charges respectives de ‘/,5, ‘/. et ‘/.5, pourra en toutes les circonstances exécuter les tirs les plus efficaces. S 29. En comparant les résultats des tables entre les tirs des pro- jectiles allongés et ceux des projectiles sphériques, la supériorité des effets resulte dans le tir de près en faveur de ces derniers, quoique de peu, sur ceux allongés de deux fois le poids du boulet sphérique de méme diaméètre. Dans le tir à la distance de 1000 mètres, la supériorité passe auxdits projectiles allongés; mais non pour ceux pesant trois fois et plus le boulet sphérique de leur méme diamétre. On voit done que les projectiles trop allongés font moins d’effet que les projectiles sphé- riques d’égal poids et de matière égale; et qu'il ne convient pas d’allonger les projectiles beaucoup plus que ceux de deux fois le poids du boulet. sphérique de leur propre diamètre. Il y a une exception qu'il peut étre convenable de faire lorsqu’on se propose surtout d’obtenir les plus grandes pénétrations dans un milieu qu’on peut considérer d’une épaisseur indéfinie, tel que les murailles très-épaisses des magasins à poudre, et partout où l’on veut causer l’explosion de l’édifice à battre. Cette exception n’aurait pourtant lien que toutes les fois que les lois de ces pénétrations suivent en pratique la formule en usage, avec laquelle ont été calculées les penetrations inscrites dans les tables: mais il paraît que cette formule donne des pénétrations exagérées, excepté dans la maconnerie de briques de Metz. Au lieu d’étre en raison plus forte que le carré des vitesses restantes, dans les murailles en pierres beaucoup plus dures que les briques, d’après une récente expérience, les pénétrations résultèrent à peu près comme les racines carrées de ces vitesses du projectile; tandis que l’extension de l’ebranlement paraît étre en raison de la masse. Il y a ainsi lieu de croire que les lois déduites pour le choc contre des cuirasses sont dans ce cas aussi bien plus conformes à l’expérience. Les résultats qui précèdent, et ceux qui suivent, étant déduits à la limite de rupture, il conviendra de choisir des bouches à feu d’une 88 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. puissance un peu supcrieure à celle trouvée pour cette limite, afin de produire plus promptement la démolition des cuirasses qu'on se propose de battre. De méme il faudrait aussi adopter des épaisseurs de cuirasses supérieures à celles ainsi calculées, afin qu'elles opposassent une resistance toujours un peu supérieure à celle des cuirasses, que les plus forts canons ennemis peuvent enfoncer. $ 50. Maintenant on peut déduire pour toute la série normale établie ci-devant, $ 16, des poids des bouches è feu, les résultats principaux du plus grand effet à la limite de rupture, qu'on a déjà obtenu pour les bouches à feu ayant les poids extrémes de cette série. Comme on est parvenu à deux sortes de bouches à feu, la première sorte plus appropriée aux tirs directs contre des cuirassements verticaux, pouvant tirer jusqu'à 6000" de distance avec la charge de */,,; et la deuxième sorte plus appropriée aux tirs courbes, jusqu' 3000" au moins de distance, tirant à la charge de '/;, sur des cuirassements horizontaux; on a déduit pour ces deux sortes de bouches è feu et de manières de tir les tables suivantes. \ 3125 6788 15727 31452 67204 kilogr. avee V= 3%,72 constant Polds (des bonehesna] (ente: struction avec l’installation et la manoeuvre de ces gigantesques bouches à feu, il faudra bien qu'on étudie ensemble, dans tous les moindres détails, les moyens de concilier les exigences réciproques, afin d’obtenir les résultats les plus satisfaisants. Il nous faudra donc passer en revue les reproches qu'on fait au type Monitor en comparaison du type ordinaire prévalant en Europe, et tàcher de faire une comparaison des différentes exigences, puisqu'il nous semble que la tiche de Vingénieur artilleur est prédominante sur celle de l’ingénieur naval, en nous bornant ici à l'étude des conditions générales sans aborder celle des projets relatifs. S sò. Il faut d’abord bien préciser l’état des questions relatives à cet important problème, et c’est dans ce but qu'on rapporte ici les passages les plus importants des auteurs classiques dans la matière. Le savant Amiral Paris, à la page 140 de la Regue maritime, t. VIII, dit que les défauts du type Monitor « peuvent se résumer comme il » suit: délicatesse de mécanisme de la tourelle tournante susceptible » d’entraîner aisément un dérangement et, par suite, la paralysie du » navire; installation défavorable au support mutuel des divers moyens » d’action; insuflisance d’équipage pour les cas extrémes. Supposons » les deux premières objections levées, la troisiéme reste dans toute » sa force, et suffirait è faire proscrire les tours des bitiments naviguant » isolément. Nous ferons cependant une réserve en faveur du cas par- » ticulier de deux navires à tours, de grande vitesse, naviguant de » conserve. Un pareil groupe serait, à n’en pas douter, une force re- » doutable, méme pour un grand navire blindé. Mais c'est là une » exceplion qui n'òte rien à la valeur de Pobjection que nous avons » soulevée ». « En résumé, sans prétendre qu’une fois perfectionné le type Mo- » nitor ne doive pas trouver son utilisation dans quelque cas particulier, » pa RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. nous croyons fermement que son développement sur une grande échelle n'a eu d’autre raison d’étre chez les Américains que la pression des circonstances, et que les types adoptés par la France et par l’Angle- terre pour leurs bitiments de combat, répondent mieux aux besoins de leur action navale ». Cette conclusion, cela va sans dire, n'est s celle des Américains; elle est tout-à-fait contraire è leur opinion. On lit à la page 390 du t. X de ladite Revue, à propos du Dictator lancé à New-York dans les derniers jours de décembre 1863: « Ce navire » )) » » est considéré par les autorités des États-Unis comme la plus puissante machine de guerre maritime qui existe jusqu'à ce jour. Quoique rangé dans la classe des Monitors, il diffère essentiellement des navires de cet ordre précédemment construits ». Le méme auteur, à la page 21 du méme t. X ajoute: « Le principal avantage attribué aux tourelles est, ») ») » comme on l’a déjà dit, l’emploi des canons énormes, qui seuls sont capables d’entamer les cuirasses, tandis que tous ceux usités jadis ne lancent que des chevrotins et du plomb de chasse, et c'est sur ce principe que sont évaluées les forces relatives des navires. Mais estal prouvé qu'il soit plus facile de manoeuvrer à la mer un gros canon, dans une tourelle tournante pesant au moins 100 tonnes à elle seule, que sur une plate-forme ou sur un affiltt à coulisse, comme on en a maintenant dans les batteries des frégates blindées anglaises? Le manque d’espace dans une tourelle n’'est-il pas un obstacle è ce que les hommes puissent déployer leur force et s’entr’aider d’une pièce à l’autre? Ne sont-ce point là les causes principales de la lenteur du feu en Amérique? De plus, il faut remarquer que maintenant que le canon seul est exposé, il y a lieu de craindre que celui-ci ne soit réduit à l’inaction par les boulets recus directement plutòt que son affùt par la fatigue; et si on se sert de navires ayant si peu de canons, on sentira probablement la nécessité d’avoir des canons de rechange; mais alors comment les mettre en place dans une coupole? Ce problème a probablement été résolu sans qu'on en ait dit la ma- nière. Toutefois, que les gros canons soient plus facilement employés sur les coupoles qu’en batteries ordinaires, ce n’est que sur cette supériorité incontestable du calibre que sont basés tous les calculs des forces relatives (telles que dans les tableaux suivants publiés il ya un an; voir pag. 22 et 23). » Le Royal Sovereign, converti en navire è coupoles, ayant le tO) » » PAR J. CAVALLI. 99 tonnage de 3963, lance une bordée de 680 kil. de fer plus et au moins autant que tous les autres navires d’un tonnage de 6621 presque double ». L’érudit gcrivain à la page 3o du t. X., après avoir déerit le court combat entre le Monitor Z7echavokee et ll’ Alabama et la perte du vain- P queur avenue peu de temps après, poursuit: « Ainsi est-ce uniquement ») » sur ce point de vue incertain que nous hasardons quelques idées, lancées plutòot pour éveiller l’attention, que pour chercher à fixer l’opinion. Il paraît donc qu'il y a lieu de convenir que jusqu'à pré- sent le problème des tourelles n'est pas tout-à-fait resolu, et qu'à force de vouloir protéger les hommes, on est venu en Amérique du moins à une armure trop lourde et compliquée ». Pag. 31: « Pour toute sorte de lutte il faut surtout une grande facilité d’action et que l'arme employée ait le moins de chance possible d’ètre arrètée ». Dans un supplément à l'Art naval le Contre-Amiral Paris, à la page 27 dit: « Déès l’apparition des coupoles ou des tourelles, cet ordre d'idées )) » nous avait porté à nous demander si les tours fixes ne seraient pas préférables, en ce qu’elles n’auraient pas à courir plus de chances que le reste du navire, et s’il ne fallait pas se borner ainsi à des mécaniques intérieures, aussi simples que les affiits à coulisses ordi- naires. Il est vrai que de la sorte il faudrait peut-ètre se résigner a tirer en barbette; ce qui n’exposerait pas plus la pièce elle-méme, mais seulement les servants, surtout avec du roulis. C'est ce qui nous a récemment porté à proposer, pour les grands navires blindés de mer, l’addition d'une tour fixe portant deux pièces au-dessus des bastin- gages, c’est-à-dire à une hauteur telle qu'on en ferait encore usage alors que tous les sabords des batteries seraient forcément fermés à cause de leur peu d'’élévation au-dessus du niveau de la mer. Des tours decouvertes ne conviendraient du reste qu'à la mer et à des positions un peu élevées; sur les navires situés prés de terre elles se- raient exposées à des feux plongeants, dont la suppression très-probable des hunes, ou tout au moins des hommes qu’on y placerait dans un combat, préserve le navire destiné à naviguer au large. Des tourelles découvertes ne peuvent donc convenir qu'aux bateaux d’Amérique, assortis aux conditions de la guerre de rivière. Mais si on abandonne la mobilité de la tour, il est ‘évident qu'on renonce à ce qui con- stitue le type Coles ou Monitor: et comme alors la forme devient 96 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. ») ») presque indifférente, on en vient à tirer par des embrasures, c’est- à-dire qu'on se rapproche des navires de M. Reed...» A la page 38 encore, t. X de la Revwe Maritime: « Si, après ce long exposé, il est permis de discuter...., nous dirons d’abord que l’invention des tou- relles ou coupoles est certes une des plus remarquables, et des plus ingénieuses de notre époque de changements; qu'elle est basée sur des idées générales justes, surtout depuis qu'on emploie des cuirasses, et qu'il faut des canons énormes pour les combattre. Les coupoles nous paraissent, quant à présent, la protection la plus parfaite des hommes contre les projectiles, mais elles ne changent en rien la re- sistance des flancs du navire qui les portent; et si celui-ci n'est pas relativement aussi protégé, c'est-à-dire, si Zes plaques ne sont pas aussi épaisses que celles de la tour, le but n'est pas atteint; car risquer davantage de couler est plus défavorable que de risquer d’avoir quelques hommes tués. Za sécurité du navire entier est la plus im- portante. C'est ce qui n’a pu étre observé en Amérique, sans doute, a cause de la difficulté de cuirasser toute la surface du navire à l’égal de la tourelle, sans trop enfoncer dans l’eau pour naviguer dans Ies fleuves ». Pag. 40: « Si c’était seulement par les coupoles qu'il fut possible d’employer les canons monstrueux devenus indispensables, il y aurait pour ce système qui nous occupe un avantage considérable sur tous les autres; car si on a dit quil fallait peu de coups de pièces puissantes, la lenteur, qui ajoute encore au petit nombre, trouverait son palliatif dans une force de destruction, au-dessous de laquelle il y a impuissance ». Mais l’auteur après avoir rappelé les difficultés pratiques, conclut: « On est donc encore forcé d’attendre » » une expérience plus prolongée pour arréter les idées sur ce point important .... A la question qui vient d’étre examinée on en ajoute une plus grave encore, si l’on persiste à considérer les bdtiments à tourelles comme propres à naviguer à l’égal des autres navires, c'est celle des qualités nautiques. Sous ce point de vue important, /es défauts sont inhérents à l’espèce du navire et ne peuvent probable- ment pas étre corriges par des modifications ingénieuses dans les détails, comme par le tir des canons ....... sont ils capables de s'éloigner des rades ?....... puisquon ne peut les élever davan- tage sur l’eau sans les dénaturer completement eb qu'en tous cas il leur serait impossible d’acquérir la hauteur des mavires blindés PAR J. CAVALLI. 97 ordinaires, laquelle est cependant insuffisante, comme des faits récents l’ont encore prouvé ». Pag. 41 ..... .« «Que deviendra donc cette masse si basse lorsqu’il ventera de manière è forcer de fermer les sabords des secondes batteries du vaisseau? On se claquemurera, ditton, on n'aura d'air que par le sommet des coupoles, mais comment vivrat-on à l'interieur avec ces fournaises brùlantes et ces 100000 kilogr. d'eau chaude ? Il y a encore bien de l’inconnu dans les moyens de donner un peu de sécurité pratique à ces navires. Le Monitor a péri par une mer qui venait de terre et elle. était grosse pour lui; il m'avait, il est vrai, son pont qu'à o”, 60 à 0”, 80 au- dessus de l’eau; mais aussi son poids n'était guère que le huitième de celui du Royal Sovereign. Ose-t-on penser que celui-ci sera préservé parce qu'il est élevé de 3",50, lorsqu'à ce chiffre plus que suffisant, il est vrai, pour une chasse-marége, on ajoutera que le navire à coupoles pèse 40 fois autant que le caboteur? Aller en pleine mer avec de tels navires, serait pousser la hardiesse jusqu'àè l’imprudence, et si on a exprimé avec raison des doutes sur les qualités nautiques des navires cuirassés ordinaires; si l'on pense encore qu'à l’abri des mauvais temps habituels de l’hiver, ils seraitent compromis pendant un coup de vent exceptionnel, il n'est pas permis de croire que les gros Mo- nitors, dont il est question, puissent s'aventurer au large sans s’exposer à la première lecon pratique que nous ont donnée les petits de la meme espèce. Il nous forceraient ainsi è nous rappeler de nouveau quil y a un rapport entre le volume exterieur du navire et son poids , en dedans duquel il y a danger d'ètre envahi par les vagues.....» Pag. 42: «Nous pensons donc que les navires à coupoles ne convien- ») » » nent qu'à des défenses locales, comme les batteries flottantes, que rande navigation leur est interdite sous pein anger imminent. la grande gation l t interdite sous peine de dang minent Des lors, pourquoi augmenter leur poids et leur dépense en les char- geant de machines capables de leur faire filer 12 noeuds, puisqu’une pareille vitesse /es fera passer sous de petites vagues , ei pourquoi leur donner une mature que le grand cabotage è vapeur a lui-méme RE e) 5 abandonnée ? Quoique des journaux en aient parlé comme propres à la grande navigation, ce serait manquer aux opinions que la pratique de la mer nous a inspirées , que d’admettre que ces navires permettent 2 de dépasser de courtes traversées pendant la belle saison, et il est 2 très-douteux que, malgré leur marche rapide, ils se comportent mieux Serie II. Tom. XXIV. N 93 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » que nos batteries flottantes, qui pour leur poids avaient beaucoup » plus de volume hors d’eau ». D’après cet exposé d’un auteur si compétent, on s'apercoit néanmoins que son jugement n'est pas encore mir sur le choix du meilleur navire: cuirassé. Quoiqu'il se declare pour le type d’abord suivi en France et en Angleterre, il propose l’addition d’une tour sur les navires cuirassés de ce méme type, après s’étre démélé entre les types Corrs et ReEp. Une telle addition augmenterait immensément la puissance de ces navires cuirassés, si, sans exiger des déplacements et des constructions gigan- tesques, l’on pouvait donner à la cuirasse de la tour et à celle des flanes du navire les épaisseurs nécessaires pour soutenir le choc des plus gros canons, comme le dit ailleurs l’auteur lui-méme. On aurait à ajouter ici la lettre avec laquelle M. J. Ecrisson, l’auteur du type Monitor, répond aux reproches élevés en Amérique, si l’on n’avait pas reproduit dans le sommaire celle du commodore John Ropcers. S 34. Parmi tant de raisons pour et contre le type Monitor, les cuirasses épaisses et les gros canons qu’on vient de rapporter, nous croyons déméler quatre groupes principaux de ces importantes et com- plexes questions. Dans le premier groupe nous résumerons toutes celles concernant l’artillerie; dans le second les questions concernant la tour; dans le troisièéme l’équipage, et dans le quatrième les qualités nautiques des diff&rentes sortes de navires en vue du but principal à remplir. La grosse artillerie étant la cause motrice des grands changements survenus dans l'art de la guerre maritime , il devenait nécessaire de résumer avant tout ce premier groupe des questions qui la concernent. Reépétons: Zes canons enormes sont seuls capables d’entamer les cui- rasses, et c'est sur ce principe que sont evaluées les forces relatives des navires; c'est la pratique qui parle par la bouche de l’amiral Paris; vérité que la théorie aussi a confirmée. Car on a trouvé que les épaisseurs de ces cuirasses doivent étre proportionnelles aux diamétres des pro- jectiles, et conséquemment entre deux projectiles pesant l’un le double de l’autre, tous étant du reste dans les mèmes conditions, ces épaisseurs sont comme les racines cubiques de leur poids, comme 1 à 0,775. Cela fait une différence d’un peu moins d’un quart dans l’épaisseur des cui- rasses qu’exigeraient les deux projectiles l’un du poids double de l’autre, qu'ils faudraient tirer dans des bouches à feu pesant aussi l’une le double PAR J. CAVALLI. 99 de l’autre. Tel est le cas des canons de 50 et 25 tonnes à peu près, des plus grandes bouches à feu que les Américains sont parvenus les premiers a faire. Done la bordée de ces bouches à feu de 25 tonnes, quoiqu’elle pos- sède une quantité de mouvement totale de ces deux projectiles de peu inférieure à celle d'un seul coup, la différence d’un quart reste à peu près dans l’épaisseur des cuirasses nécessaire àè la résistance respective; de sorte que le plus lourd de ces canons entamera la cuirasse de 413 mill. d’épaisseur, et les autres seulement celle de 318 (voir ces épaisseurs aux tables $ 19), épaisseurs très-peu différentes de celle cor- respondant aux tirs de près de 418 pour le plus gros canon. Pour ètre rationnel dans le choix du canon le plus puissant , on voit qu'en comparant mème un tir contre deux, et pour se tenir au plus simple, une seule grosse bouche à feu est préférable à deux qui l’égalent en poids. A cet avantage on oppose l’autre, que, si un des deux canons est mis hors de service , il en reste encore un; tandis qu'on resterait sans aucun, si le seul qu'on a venait à se gàter. Cette objection n'est peut-ètre sérieuse que sur un navire isolé , comme un Monitor à une seule tour avec un seul canon; mais dans ce cas méme le choix ne peut ètre douteux entre ce Monitor armé d’un seul canon, et l’autre armé de deux bouches à feu, toutes deux impuissantes contre le plus fort navire cuirassé. Du reste, ce n’est pas seulement l’artillerie qui peut ètre mise hors de service par un accident, mais le navire mème: ainsi il conviendra avoir de préférence des navires entiers de rechange marchant de conserve, comme règle générale, et non exceptionnellement; justement parce qu’alors, comme dit l’amiral Paris, ce groupe serait, à n’en pas douter, une force redoutable; surtout si l’on adoptait cet autre principe de faire les navires, quoique le plus fortement cuirassés , du moindre déplacement possible, en les armant mème d’une seule, mais de la plus puissante bouche è feu; plutòt que d’avoir un seul grand navire d’un déplacement égal à l'ensemble de plusieurs autres, afin de pouvoir l’armer d'un grand nombre de canons. On reproche aux canons monstrueux la difficulté de les manceuvrer, et la lenteur du feu, surtout lors qu’on en réduirait le nombre; mais outre qu’on trouve son palliatif dans une force de destruction au-dessus de laquelle il y a impuissance, il est du reste certain qu'on parviendra è manoeuvrer ces bouches à feu à l’aide de la vapeur, avec beaucoup plus de facilité, de sîireté et de simplicité qu'on 100 RECHERCHE DE LÀ PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. n'en peut obtenir des hommes et des affùts è coulisses sur un bàtiment ordinaire. Un gros canon par tour, quoique alors très-restreinte, pourra étre encore mieux chargé, pointé et tiré avec la plus grande vitesse par très-peu d'hommes, et mème d’en bas, sans nécessité de les exposer constamment en haut de la tour. Une telle manceuvre à la vapeur ne dépend que des éléments mécaniques, qui ne peuvent faire défaut, lors- quils sont sous le couvert de la plus forte cuirasse; ainsi sa réussite est assurée, autant que l'a été celle de la manoceuvre à vapeur des vaisseaux de guerre. Après une telle solution du problème de la manoeuvre des plus lourds canons, il reste encore à répondre à l’objection que, « maintenant que » le canon seul est exposé, il y a lieu de craindre que celui-ci ne soit » réduit à l’inaction par les boulets recus directement. » Il est évident que si cette crainte était fondée , il faudrait bien cuirasser aussi le canon. En effet cette crainte est fondée, lorsque ce gros canon serait de bronze ou de fer et méme de l’espèce d’acier qu'on fait actuellement, presque aussi ductile que le bronze, sans étre plus invulnérable. Mais si l’on emploie des canons de la meilleure fonte qu'on sait faire aujourd’hui, plus tenace que le bronze et beaucoup plus dure, et seulement très-peu ductile, ces canons supporteront la percussion des projectiles ennemis sans ètre mis hors d’état de faire feu, comme il arriverait aux canons faits avec tous les autres métaux. Le choix du métal à canon sous ce rapport est une question d'une importance bien majeure que celle qu'on y attache géné- ralement. Il suffira de rappeler parmi les divers résultats de la sorte, quan siége de Sebastopol un tiers des canons de bronze de 24 francais et sept douzièmes de ceux de 16, furent mis hors de service (voir à la page 467 de la 2° édition 1859 du Zraite d'artillerie de G. Prosert) par le choc des projectiles ennemis: et qu’après des essais faits en France, sur des canons d’acier de Krur, on a vu quils ne résistent pas mieux que ceux de bronze è la percussion du tir sur leur extérieur; tandis qu'on ne fait pas de tels reproches aux canons de bonne fonte. Au dernier siége d’Anvers, les canons de fonte de la place, quoique frappés par plusieurs coups, purent continuer leur tir; et dernièrement, au siége de Charlestown, un gros canon de 15 pouces eut la volée cassée, et malgré cela on put continuer à s'en servir. Dans des essais faits exprès on n'a pu casser les canons de fonte en y tirant dessus, que lorsque les coups les frappaient perpendiculairement (ce qui n’est guère possible PAR J. GAVALLI. IOÌ à la guerre), et conséquemment que des bosses se produisent à l'inté- rieur (1). Il suffit de comparer les résistances vives de ces métaux à la compression, en faisant les carrés des vitesses d’impulsion, que ces mèémes métaux peuvent soutenir, pour reconnaître aussi sous ce rapport la supériorité et la convenance de couler les gros canons en fonte de fer. Ces plus grands canons d’aujourd'hui, pesant de 5o à 67 tonnes, que Ropman a coulés en fonte de fer aux Etats-Unis d’Amérique (2), peuvent se faire partout en bonne fonte de fer dure, assez ductile et plus tenace que le bronze; plus résistant et d'une bien plus longue durge que s’ils étaient de bronze; toutes les fois qu'on en limite les charges de poudre è ‘/; pour le tir du boulet sphérique massif de 500 kilogr., la 134° partie du poids du canon; et qu'on limitera, pour le tir des projectiles allongés du poids de 1,5 et 2,4 ce boulet, et pesant 700 ou 1200 kilogrammes, aux charges respectives de */, ou de '/,;. Ces charges et ces projectiles produisent tous à peu près le plus grand effet total respectivement contre les différentes positions du but, et, avant tous le mème diamètre, peuvent ètre tirés dans le mèéme canon percé au calibre de 501 milliméètre, le vent étant de 4,8 millimètres , si les projectiles sont en acier de la densité de 7,818; ou au calibre de 717,4 millimètres, le vent étant de 5 millimétres, si les projectiles sont en fonte de fer de la densité de 7,100. Les projectiles allongés de 1,5 fois le poids du boulet sphérique massif seront des cylindres equilatéraux , mais ceux-ci comme les autres de 2,423 fois le boulet sphérique massif, pourront èire coulés en fonte ou en acier creux pour contenir une charge de poudre de '/, de leur poids, afin de les rendre explosifs sans perte sensible de leur force de percussion et de pénétration. (1) On lit è la page 671, T. 12, décembre 1864, de la Reoue maritime et coloniale: « Vous pouvez voir dans l'Arsenal, à Woolwich, plusieurs canons qui ont excessivement souffert » a Sébastopol, pour avoir été frappés à la bouche et sur la volée. On les a cependant tirés bien » des fois après les coups qu’ils avaient recus, et ils sont encore propres au service, quoique ce » ne soient que des pièces en fonte. Tandis que les canons de fer forsé ARMSTRONG, frappés mème » sous l’inclinaison de 15 degrés......... l’effet de ce seul coup avait suffi pour consumer Ja » destruction de la pièce à rubans. » » Cette épreuve déemontrait sans replique que chacun des coups aurait à lui seul suffi pour « meltre les canons ARMsTRONG hors de combat. » (2) Le Courrier des Etats-Unis du mois de novembre 1864 a annoncé que le plus grand canon du monde, le Ropman, du calibre de 20 pouces, a soulenu d’une mapitre la plus complete et satis- faisante l’epreuve du tir du boulet sphérique de 1000 livres, avec la charge de 100 livres. 102 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Lorsqu'on voudra, en tirant de près, percer de part en part les flancs des navires ennemis, on tirera les boulets sphériques, lesquels pénétreront autant que ceux cylindriques d’égal diamètre, méme à égale vitesse d’après la théorie, et méme, à ce quil paraît, d’après l’expérience. Tandis que pour produire le plus grand effet total, la plus grande brèche dans les flancs verticaux des navires ennemis jusqu'aux plus grandes distances, on devra tirer ces projectiles explosifs d’une fois et demi le poids du boulet sphérique. Pour le tir contre des cuirassements horizontaux on tirera les projectiles explosifs de 2,4 fois le boulet sphérique, tir qu'on pourra encore faire très-utilement de près aussi contre les buts ver- ticaux; on se conformerait ainsi à la pratique ancienne de saigner les gargousses pour faire craquer le bois, ou de tirer deux boulets avec des charges reduites. Ainsi avec ces trois projectiles divers, mais de méme diamètre et avec la mème bouche è feu rayée, on utilise toujours toute sa puissance, et on a la faculté de faire toutes les sortes de tir que la balistique nous montre comme les plus utiles dans les diverses circonstances. Nous ne nous entretiendrons pas davantage sur la construction et les diffé- rentes manières de rayer les canons et de faconner les projectiles; pourtant nous insisterons sur ce point, qu'on doit s’en tenir au système le plus simple; que si deux rayures ne suffisent pas, qu'on s’arréte à trois avant de les accroître encore, comme a fait l'artillerie de la ma- rine francaise; quil faut préférer les projectiles avec les ailettes en fonte, tout au plus garnies avec un peu de métal mou pour prolonger la durée des bouches à feu tant qu'on emploie des poudres encore trop vives; qu'il suffit de centrer le projectile sur trois points au moins de chaque extrémité pour réduire l’inclinaison que peut prendre l’axe du projectile sur celui de l’ème du canon; qu'en réduisant en outre le vent à ses six points; on obtiendrait ainsi une justesse de tir peu différente de celle qu'on a obtenue avec le tir forcé ou sans vent initial; qu’enfin la justesse de tir dépend beaucoup plus du pointeur, et quil faut conséquemment apporter le plus grand soin dans le choix des instru- ments de pointement: car tout en s’en tenant aux plus simples, pour pointer bien et vite, il faut avoir des instruments de plus de précision que la hausse horizontale et verticale, et les points de mire ordinaires. Lorsqu'on doit tirer à de grandes distances, il est bien de recueillir les rayons visuels de l’ceil du pointeur dans un canon de fusil d’acier PAR J. CAVALLI. 103 bien dressé et vitré au bout de devant, avec deux traits en croix, ayant de l’autre bout un petit trou, où l’on poste l'oeil. On dit que la vue de l’observateur ainsi recueillie apergoit mieux les objets, méème les Etoiles en plein jour. Le pointement de ces canons peut étre fait aussi d’en bas dc manière aussi simple que celle déjà en usage à bord; lorsque surtout on exécute le tir concourant de tous les canons de la batterie dirigé sur le mème point, où l’officier pointeur est posté avec l’ceil à une lunette convenablement placée, d’où au moment venu il donne le com- mandement du feu. S 35. Quant au second desdits groupes de raisons, il y a lieu de se prononcer entre les tours mobiles et les tours fixes, couvertes ou découvertes, faites pour tirer en barbette ou à embrasure, pour y placer un ou deux ou plusieurs canons dans une seule ou dans plusieurs de ces tours à ériger sur le méème navire cuirassé, et enfin qu'il faut leur donner la hauteur suffisante sur le niveau de l’eau. Sans doute les tours fixes sont plus sùres, d'une construction plus grands cercles 5 de fer superposés, soit dans le sens de l’épaisseur soit dans celui de simple et solide; on peut les composer uniquement de la hauteur, avec les jointes d'une couche répondant au milieu des cercles de l’autre couche, pour ne pas avoir à les affaiblir par des bou- lons ou des rivures, et sans avoir besoin d’'employer des grosseurs de fer enormes, plus que celles qu'on sait fabriquer, en leur conservant les bonnes qualités nécessaires. La cuirasse de la tour, qui est la plus exposée, pourrait ainsi se composer de fer ou d’acier malléable des meilleures qualités, en couches superposées de métal assez ductile en dehors et plus dure et tenace en dedans, afin de la rendre résistante autant que possible, sans l’affaiblir avec les trous des rivures ou des boulons. La composition en couches des cuirasses serait alors, sans aucun doute, préférable è la cuirasse faite de plaques d’une seule épaisseur , aftaiblie par les trous nécessaires à l’assemblage; quoique ihéorique- ment, abstraction faite des moyens d’assemblage, leur résistance soit la mème (voir $ 4). Ces tours n’ont besoin d’étre couvertes , que lorsqu’on y place des hommes ou des canons, qui peuvent ètre mis hors d'état de tirer, par la bosse que le choc d’un seul projectile peut faire surgir dans l’àme de la bouche à feu, lorsqu’elle est en fer ou en acier, à peu près également ductile que le bronze à canon. Mais si l’armement 104 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. des tours, comme on l'a déjà dit ci-devant, consiste d’une seule bouche à feu en bonne fonte, ayant un poids répondant à la meilleure sta- bilité que nous avons indiquée au $ 10, alors il devient ordinairement inutile de les couvrir, mème lorsque les navires auraient a s’approcher de la terre, surtout si ces tours seront assez élevées sur la mer. Quant è l’installation des canons en barbette ou à embrasure, il va sans dire qu'il convient de les installer ainsi lorsqu'il est nécessaire de couvrir la tour, et lors méme qu'on la couvrirait, on pourrait encore tirer dans toutes les directions par les embrasures, en faisant tourner le toit avec la bouche à feu. Sur la grande question s'il faut armer les tours d'une ou de deux, et mème d’un plus grand nombre de bouches à feu, faisant en tout le méme poids d’une seule, nous avons déjà démontré, que le tir d’un seul canon est plus puissant que celui de deux canons, et plus encore que la bordée d'un plus grand nombre de canons; que la tour et le navire cuirassé assez fortement pour soutenir le choc du tir de ce canon unique, lors méme qu'il ne le soutiendrait quà la limite de rupture, n’aurait plus è craindre du tir des autres bouches à feu. Con- séquemment soit sous le rapport de la puissance de la bordée, soit sous celui de la simplicité de l’installation et de la manceuvre, il faut en général r'installer qu'une seule grosse bouche à feu dans une tour, et n’en ériger qu'une seule sur le mème navire; ce qui permettra de faire la tour assez haute, et de réduire le déplacemeni du navire au minimum. L'installation d’une grosse bouche à feu, suivant plus ou moins les 5 systèmes usités jusqu'ici, ne paraît et ne peut étre assez satisfaisante. Le rapporteur du budget aux Chambres anglaises, lord CLarence PAGET, disait à ce propos en 1862: « J'ignore ce qu'on obtiendra par la suite; » mais quant à present, les praticiens sont arrivés à cette conclusion, » qu'il est impossible de manceuvrer à la mer un canon pesant de 6 à » 6 tonnes et demie ». Mais d’après le compte rendu de l’expérience qui pete eté faite par Le Passaie en 1864, à laquelle on attache dans le monde naval américain une grande importance, on serait parvenu à installer et manceuvrer dans la tour des Monitors deux canons de 15 pouces en fonte, pesant 22 tonnes chacun. Plus, on a coulé un canon de 52 tonnes, quils comptent pouvoir manceeuvrer sur un affùt semblable à celui des canons de 15, et pouvoir le manceuvrer avec 16 hommes. Mais il est PAR J. CAVALLI. 105 évident, que pour maneeuvrer de si lourdes bouches à feu, il fallait recourir à la vapeur; comme en effet la Revue maritime nous l’a an- noncé en parlant du Puritain, Monitor semblable au Dictator, où un seul homme, dit-on, suffit , avec l’aide de la vapeur, pour la manceuvre de cette pièce (V. pag. 803, t. X). Dans son supplément à l’art naval le Contre-amiral Paris, référant sur la manoeuvre mécanique des canons par le Capitaine CunnincHAM, nous dit, à la page 69, que «l’industrie moderne inspire de la confiance » pour la solution de ce problèéme.....Pour les canons, le Capitaine » Cunnincuam emploie, sous l’eau et à l’abri des boulets, des arbres » moteurs aussi longs que les batteries du vaisseau. Pour les canons » il faut un affàit è coulisse, dans l’axe creux duquel passent les garants » des palans, etc. » C'est remplacer les hommes par la vapeur pour manceuvrer avec les mèmes systèmes; et à la page 70: « Quant à ce » qui regarde l’application d'une puissance mécanique à la manceuvre » des pièces situées dans une tourelle, le capitaine CunnincHAM applique » directement la force de la vapeur dans les coulisses, ou entre elles il » place un cylindre avec un piston muni de tiges et de tirois pour » obtenir les renversements des mouvements ; l’affùit est uni è la tige » du piston par une bielle, et le tuyau àè vapeur arrive par l’axe creux » de la tourelle ». Quoique tous ces moyens puissent réussir en pratique, on voit une complication inutile, puisqu’on maintient le recul avec les affilts à cou- lisse, ce qui peut ètre supprimé dans l'installation d’une seule grande bouche è feu dans une tour, où, par la stabilité immense due è la conjonction de ces deux masses, l’impulsion du tir sera anéantie très- aisément, sans besoin de recul. Il faut seulement songer à faire tourner, incliner et charger la bouche à feu de l’intérieur de la tour, directe- ment avec la force de la vapeur; ce qui peut se faire très-simplement de différentes manières, suivant les diverses exigences, à l’aide d’un petit nombre d’hommes restant méme hors de la tour, en bas au-dessous du pont, d'où cependant ils pourront charger, pointer et tirer, en ma- neeuvrant aussi la plus grosse bouche à feu è la vapeur avec non moins d’agilité, de stireté et de promptitude, que le forgeron ne manie les plus lourds marteaux à vapeur de Navmr. S 36. Venant au troisiéme groupe des raisons susdites, celles con- cernant l’équipage, l’estimable auteur, chez lequel nous avons puisé tant Serie II. Tom. XXIV. Q <, 106 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. d’érudition, semble attacher une importance suprème à ce qu’un navire, naviguant isolément, soit fourni d'un nombreux équipage, pour lequel il n°y aurait pas de place dans les Monitors américains; ou du moins on y serait enfermé au niveau de l’eau, comme dans un caveau, ne prenant d’air dans les mauvais temps que par la sommité de la tour. A la vérité on ne pourrait, sans de graves inconvénients, enfermer dans le fond de cale un nombreux équipage; mais quels sont les cas où ce nombreux équipage peut rendre de grands services à bord d’un vaisseau combattant? ce n’est qu’en cas d’abordage, ou d’une expédition è terre. Or on a vu par l’expérience de la guerre, que les Monitors n’ont rien à craindre d’un abordage, et qu'il n’est pas nécessaire d’aller à l’abordage pour contraindre leurs adversaires à se rendre, plutòt que d’ètre coulés bas; et alors la perte d'un navire portant un nombreux équipage serait bien plus à plaindre. Il ne reste que le cas d’une descente sur terre ; si tel est l’objet prévu, il vaudra beaucoup mieux envoyer un navire armé à l’ordinaire, et non cuirassé; et s'il le faut, de conserve avec un Mo- nitor; car la dépense d'un nombreux équipage, laquelle est la plus forte, pourrait ètre ainsi très-souvent épargnée, et du reste il vaut mieux avoir deux moyens navires de guerre qu’un seul d’un double tonnage. Mais, au besoin, les navires du type Monitor, faits pour la grande navigation, pourront aussi recevoir un fort équipage, parce qu'il est plus facile d’adjoindre ce qu'il faut pour donner à ce type Monitor toutes les con- ditions nautiques nécessaires, que d’adjoindre au type des vaisseaux ordinaires cuirassés une tour, avec le tout assez fortement cuirassé pour soutenir le choc des plus monstrueux canons que les Américains viennent de faire. S 37. Enfin dans le quatrième groupe desdites raisons on s'est pro- posé d'analyser d’une manière générale les conditions nautiques, ou de voir plutòt comment l’on pourrait fournir de ces conditions les grands Mo- grande e) importance; et d’examiner ceux qu'il conviendrait le plus rationnelle- nitors, ainsi que les moins grands, selon leur plus ou moins ment d’adopter, sous le rapport du moindre déplacement et du moindre tirant d'eau possible, qu'on peut leur donner avec une cuirasse capable de braver les coups des plus puissants canons, tout en leur donnant la plus grande force de bélier, et assez de qualités nautiques pour tenir la mer, et porter une suffisante charge de charbon pour les courses les plus longues qu'ils auront à faire. Ces dernières conditions nautiques sont PAR J. CAVALLI. 107 celles que l’amiral Paris trouve manquer absolument au type des grands Monitors amégricains, à cause de l’insuffisance de volume de leur partie surnageante, défaut, dit-il, qui est inhérent à cette espèce de navire, et ne peut probablement pas étre corrigé......... on ne peut les élever davantage sur l’eau sans les dénaturer complétement ....... et enfin il ya un rapport entre le volume extérieur d'un navire et son poids ou le volume de déplacement, en dedans duquel il y a danger d’ètre envahi par les vagues. La gravité de ces reproches est-incontestable; mais peut-ètre pour les grands Monitors, que les Amégricains construisirent, ils awront déjà trouvé les moyens de les amoindrir, puisqu’ils continuent à en con- struire. En effet, dans le rapport officiel de M. DanLerEN, est exprimée l’opinion, qu'il se peut qu'on leur ouvre (les Monitors) un champ plus vaste d’action et d'’utilité, que celui des eaux peu agitées des ports et des rivières: et dans le T. X de la Revue maritime et coloniale, è la page 190, il est dit du Dictator: « Ce navire est considéré par les auto- » rités des Etats-Unis comme la plus puissante machine de guerre ma- » ritime qui existe jusqu'àè ces jours. » La possibilité de pouvoir corriger les défauts du type Monitor est admise mème par l’amiral Paris, puisque en definitive il dit qwils ne peuvent probablement pas ètre corrigés et non absolument (1). En effet il est démontré, que sous le moindre déplacement, un peu plus de 3000 tonnes, ce type Monitor porte la plus puissante artillerie , et la plus forte cuirasse, celle de la tour toute en fer de 4o cent. d’épaisseur, et celle de ses flanes de fer et bois, équivalant à 35 cent. entièremenit en fer, ayant la partie surnageante solidement appuyée à l’épaisseur du pont aussi cuirassé, et l’autre partie immergde se trouvant ainsi très-bien compensée du peu de sa moindre épaisseur susdite. Donc il reste démontré de mème pour ce type Monitor qu'il ne lui manque qu'un plus grand volume (1) Il est ici è propos d’ajouter ce qu'il dit à la page 5 du Supplement à l'Art naval: « Ce qui » précède amène à penser qne pour les navires cuirassés de mer le beau et le creux sont des » dimensions qu'il faut augmenter autant que possible sans accroître la longueur. Ce sera de la » sorte qu’on arrivera à des hauteurs de balteries suffisantes, tout en possedant des navires très- » maniables et bons à la mer, pourvu qu’on les couvre de toits comme les paquebols; ce qui don- » nerait aux équipages des sortes de galeries ou varangues, sous lesquelles on vivrait comme dans » les habitations des planteurs. Un tel accastillage conviendrait à tous ces navires complétement » blindes, et leur permettrait de surmonter l’obstacle des vagues en utilisant leur puissance, comme » les paquebols rapides ont été forces de le faire malgre leur légèrete. » 108 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. extérieur; autant qu'il en faut pour oter tout danger d’ètre envahi par les vagues de la mer haute. Puisque l’expérience de la grande navigation a été satisfaisante pour la GZoire , la hauteur des flanes de laquelle sur l’eau est de 3" 40; et puisqu’on peut élever la tour à une plus grande hauteur, et méme à 5 mètres; ainsi il suffira d’élever encore la tour et les flanes de ce type Monitor auxdites hauteurs avec l’addition aussi d'un autre pont ou toit non cuirassé, le tout au contraire d'une construction trés-légère; et on aura alors un type Monitor capable de tenir la haute mer, et de faire une assez longue navigation. Les grands Monitors d'un déplacement pareil à celui des anciens navires de guerre, de 3500 à 4500 tonnes, suffiront pour la moins longue navigation, et ceux du double de ce déplacement environ pour la grande navigation , lesquels, outre la petite artilterie , pourront avoir sur le haut de la tour au moins un canon de la plus grande puissance , que l'homme soit jusqu'ici parvenu à fabriquer. Il ne conviendra done plus de faire encore des navires cuirassés, si ce n'est de ceux de ce type, capables de soutenir la percussion des coups de ces mèmes canons, et le choc de la mer orageuse (voir $ 16). Car on ne peut faire des navires aussi fortement cuirassés et solides du type ordinaire, lors mème qu'on n’aurait pas égard à la dépense, si ce n'est avec un déplacemeni presque double de ceux dudit type Monitor. Mais il ne convient pas de faire des navires cuirassés d’un déplacement si extraordinaire, nécessaire pour porter une si lourde cuirasse de l’épaisseur susdite; puisque attaqué par plusieurs autres navires cuirassés moins grands, qui l’égalent au plus par l'ensemble de leur déplacement, et chacun par la force des coups de canon, il succomberait plus vite encore que le gigantesque Merrimac, que le Z'en- nessee attaqué par l’amiral FerrAGUT avec plusieurs petits navires à vapeur dans le port de Mobile, comme nous l’avons préconisé en général à la pag. 63 du Mémoire de l'année 1863 plusieurs fois cité. Ce n'est donc pas la grandeur colossale d’un navire, quoique cuirassé, qui le rend un des plus formidables; au contraire chacun de ceux du moindre déplacement possible l’égalant par la somme de leur déplacement, par l’épaisseur de la cuirasse, par la force du bélier, armés chacun mème d'un seul canon de la plus grande puissance, pourra lutter de pair, et deux de conserve avec avantage, et quoique d’un moindre déplacement, suffiront pour l’emporter. Répétons-le , ce n'est plus par le nombre des canons quil faut évaluer PAR J. CAVALLI. 109 la force d'un navire de guerre, mais bien plutot par le plus grand poids de fer qu'il peut tirer d’un coup par un seul canon, pour lequel le navire devient alors un véritable affiùt flottant, sur lequel, comme sur les autres aflùts, il ne convient pas de monter plus d’un canon, parce qu'il convient bien mieux de composer la batterie navale de plusieurs navires les plus petits possibles, armés d’un seul mais des plus grands canons, que d’en mettre plusieurs sur un seul gigantesque navire. On a vu, que des Monitors de 3000 à gooo tonnes de: depla- cement au plus, suffiront, selon la durée de la navigation, et en tout cas, suivant les conseils de l’amiral Parts, il conviendra de leur donner le moindre tirant d’eau, et conséquemment de les faire è section ellip- soide, sans quille, à deux hélices, pouvant ainsi tourner sur place et voltiger promptement. S 58. En abrégé, la resolution de la grande question du choix du plus puissant canon et du plus formidable navire a été poussée, par les nécessités de la guerre civile des États-Unis d'Amérique, presque au bout. Dès que cet État est parvenu è faire des canons de plus de 50 tonnes et à s’en servir, les autres puissances militaires seront forcées d’en faire autant, et d’avoir de ces canons partout , sur tous les navires le plus fortement cuirassés et blindés, sous peine de rester avec une marine impuissante , et d’avoir leurs navires coulés bas par des adversaires plus prévoyants. Puisque sous le mème poids et la méme impulsion du recul des bouches à feu, le tir d'une seule est presque trois fois plus puissant que les tirs de deux bouches à feu, chacune de moitié poids, et que cet avantage va toujours en augmentant pour une contre un plus grand nombre de bouches à feu moins puissantes; puisque plusieurs navires armés méme d’un seul des plus forts canons, l’emportent contre un seul navire d'un déplacement égal è la somme des deplacements des autres; il s'ensuit quil ne faut donc pas craindre les accidents pour ce seul canon, plus que les accidents qui peuvent mettre hors de combat méme un de ces navires; lesquels du reste étant assez fortement cuirassés pourront supporter les chocs des coups de ce mème canon plus puissant; et quoiqu'il puisse extraordinairement arriver au canon d’un de ces navires d’ètre mis hors de service, il pourra, avec sa grande vitesse et force de belier, soutenir encore le combat, surtout de conserve avec d’autres. Du reste, il est assez difficile, que ce canon, en bonne fonte de fer, au bout IIO RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. d'une tour de fer assez épaisse, puisse ètre frappé par les coups ad- versaires, et, s'il en était frappé, qu'il fàt mis hors de service, comme il arriverait à ceux de fer et acier ductile qu’on fait aujourd’'hui; ou que son tir puisse ètre autrement interrompu, sa manceuvre à la vapeur étant simplement organisée et exécutée de l’intérieur à couvert des coups ennemis. Ces canons en bonne fonte de fer, qu'on ne saurait faire autrement encore aujourd’hui d’une aussi grande masse, coulés en Amérique pour tirer à la charge maximum de '/,, au plus du poids de leurs projectiles et ceux-ci de '/,,; du poids du canon, sont non-seulement dans les meil- leures proportions pour assurer la résistance du canon, mais ces pro- portions sont aussi celles qui donneni aux tirs le maximum d'’effet comme canons lisses. Cependant on aura des tirs bien plus efficaces surtout de loin, en faisant ces gros canons rayés, aussi en fonte, du méme poids, pour tirer les trois projectiles susdits: le boulet sphérique de '/,3; à '/,g5 du poids du canon, selon qu'on veut 3,72 ou è métres de vitesse d'impulsion du canon dans le tir; ou bien les deux autres projectiles cylindriques massifs ou ogiveaux explosifs, l'un du poids de 1,5, l’autre de 2,433, le boulet susdit; aux charges respectives en poids desdits trois pro- jectiles de */;;; ‘/1n et (5, appropriés aux diverses circonstances de la guerre. Selon l’étendue des services auxquels les navires les plus fortement blindés et cuirassés sont destinés ils auront plus ou moins besoin des qualités nautiques de deplacement et de tirant d’eau. Ainsi, en laissant de còté les petits Monitors, destinés spécialement à la navigation inté- rieure jusque dans les plus bas-fonds, lesquels pourraient cependant ètre armés aussi avec les plus grandes bouches à feu, quoique alors il ne serait plus possible de les cwirasser et de les blinder aussi forte- ment, les grands Monitors, à partir du Dictator et du Puritain, pourront avoir leurs flanes rehaussés, et recevoir un second pont ou toit en consiruction très-légère hors de la tour, de manière à leur donner toutes les qualités nautiques nécessaires, en conciliant les con- ditions de stabilité avec celles de la plus grande vitesse possible, en faisant concourir la cuirasse à la solidité de la construction de la coque, en réduisant le plus possible les poids morts, à l’avantage de sa résistance vive à la flexion. En retenant le déplacement desdits Monitors ainsi modifié de 3500 à 4500 tonnes, il suffira de doubler ce dernier pour avoir le déplacement PAR J. CAVALLI. III - de goco tonnes du plus grand Monitor, nécessaire à la plus longue navigation, déplacement pareil à celui de l’exemple du $ 13, puisque, en retranchant le poids de la partie vive de la coque et de la cuirasse, et en faisant un seul corps de construction de 2668 tonnes, il restera encore au moins les deux tiers dudit déplacement total, 6000 tonnes , pour tout le reste; poids tout-à-fait suffisant soit pour le fournir des plus puissantes machines motrices et du charbon nécessaire, soit pour en accroître suffisamment le volume extérieur. On aurait ainsi pour les trois catégories de vaisseaux cuirassés du type ordinaire, évalués par M. Scorr Russe, du déplacement de 15000, 10000 et 7500 tonnes, que l’amiral Paris rapporte dans son Art naval à l’exposition universelle de Londres de 1862, à la pag. 109, on aurait, disons-nous, seulement les */; au plus de ces déplacements, c’est-à-dire 9000, 6000 et 4500 tonnes pour le type Monitor modifié, alors bien plus formidable par sa plus puissante artillerie la plus haut placée , sur le niveau de la mer, pouvant faire feu dans tous les temps, et dans toutes les directions, et bien plus invulnérable que les navires cuirassés ordinaires par la plus grande force de sa cuirasse, de sa coque et de sa force de bélier, réunissant toutes les qualités nautiques désirables pour braver la mer la plus orageuse. Tels seront les types des navires cuirassés les plus formidables, qu'on construira, il nous semble, plus propres au combat de la guerre mari time: et malgré cela, il ne sera pas nécessaire de construire ainsi tous les navires des marines militaires. Il n’est pas, non plus, convenable que tous les navires soient plus ou moins fortement cuirassés; car on a vu quil faut que la cuirasse soit assez forte pour arrèter court les projectiles les plus. puissants, sans quoi il est mieux que le projectile passe outre les bords le plus facilement possible. Les cuirasses insuffisantes , pouvant étre entamées, laisseront déchirer les flancs du navire sur de plus grandes étendues, justement parce que leur résistance n’est ni assez forte, ni assez faible, et deviendraient ainsi plus nuisibles, qu'utiles (1). Conséquemment (1) Tel a été le résultat final auquel parvinrent les deux Commissions speciales anglaises chargées depuis quatre ans, l’une de perfectionner les canons, et l’autre les cuirasses (voir pag. 408, T. 12, livraison d’octobre 1862 de la Revue maritime et coloniale. « Les vaisseaux en bois sont relativement plus foris contre le canon de 68, que ne le sont les » vaisseaux cuirassés (en Europe jusqu’à 15 centimètres de fer) contre les canons rayés de 150 et de x 200 d’ArmsTRONG, se chargeant par la bouche (il est dit an devant)...... Voici en realité le 1i2 RECHERCHE DE LÀ PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. il ne faut pas, en général, n’avoir que des navires cuirassés de ladite sorte, et les autres non cuirassés. L'application de ces principes non-seulement rendra la plus grande force à la marine militaire, mais en outre réduira les énormes dépenses qu'elle impose à lEtat. La dépense des navires cuirassés, évaluée de 1000 à 1250 francs la tonne de déplacement ou du poids total tout compris, serait tout d’abord réduite, comme la réduction susdite des déplacements, aux ‘/;, Puis il faut ajouter la moindre dépense des équipages, qui est de toutes la plus considérable, due è la grande réduction qu'on peut faire dans leur nombre sur les navires cuirassés du type Monitor modifié et armé comme il a été dit; où la presque totalité des servants est remplacée par les machines à vapeur. Ainsi, sans exagération on peut affirmer , que la dépense totale pourrait se réduire au moins de la moitié de ce x que coùte à l’Etat la marine cuirassée du type ordinaire, très-vulnérable en comparaison avec l’autre, qui à son égard est invulnérable. Les Puissances maritimes, qui ne sont pas de premier ordre, qui » résultat anuquel toutes les experiences de Sheeburyness ont à la fin abouti. Pen importe quelle est » la cible ou le système de cuirassement, qu’il soit du type Chalmers, ou du modèle francais, qu’il » ait des plaques de 15 centimètres, que ce soit un vaisseau è coupole, ou bien l’un des Warriors » ou des Minotaures, les canons que nous donne maintenant sir WILLIAM ArRMsTRONG les percent » tout aussi bien les uns que les autres ...... Nous avons atleint tout-à-fait, si mème l’expérience » ne vient pas nous démontrer que nous l’ayons dépassée, la limite du poids de la cuirasse, que » les vaisseaux du genre du Lorp WARDEN et du BELLÉROPHON, peuvent porter avec sécurité dans » une mer un peu grosse. Cependant, ces deux vaisseaux qui, on le sait, sont avec le vaisseau » americain, le Dictator, les plus forls qui existent (si ce n’est que la cuirasse de celui-ci est » beaucoup plus épaisse), et sont revètus de plaques les plus 6paisses, ont élé reconnus à She- » buryness aussi vulnérables aux gros canons, que le bois l'est àè ceux de 68. » Pag. 409.....« Les expériences..... avec tous les canons...... leurs projectiles ont percé » net (la cible francaise) en causant plus ou moins de ruines et de dévasfalions. Ce n’est pas » une affaire de difference que le projectile fùt de 160 ou de 220, qu’il fùt en acier ow en fonte » refroidie subitement d’après Îe système du capitaine PALLIER, que l’on tiràt à charge entière, » comme dans un combat rapproché , ou à charges reduites pour simuler les effets è la distance » de 1500 yards (1372 mètres). Dans chaque cas les projectiles traversèrent les plaques de 12 et » 15 centimètres, faisant craquer et cintrer les plaques de la cible ScorT-RussEL, qui était par » derrière, et ils n’ont laissé du massif de chène et de teck de la cible frangaise qu’une ruipe. » Pag. 410à411..... « Quoique, sans aucun doute, les vis aient plus de tenue que nos boulons » dans le bois, cependant, d’un autre còté, le bois lui-mème cède au passage du projectile en » produisant des éclats sì effroyables, qu’ils porteraient des effets destructeurs énormes sur l’équipage » d’un vaisseau. Les experiences sur cette cible francaise, de mème que celle sur la muraille du » type du Lorp WARDEN, il y a déjà quelques mois, ont prouvé d’une facon incontestable le peu » de valeur des vaisseaux en bois, recouverts d’une cuirasse de plaques, comparativement aux vaisseaux dans la construction desquels il n’entre absolument que du fer. » PAR J. CAVALLI. 113 n'ont essentiellement è défendre que leurs còtes, et pas de colonies loin- taines, pourraient n’avoir de navires cuirassés que ceux de ce type Mo- nitor de 3500 à 4500 tonnes de déplacement, en assez grand nombre pour étre fortes partout près de leurs còtes. Je ne m'étendrai pas davantage sur ces questions difficiles, qui inté- ressent autant les finances que la puissance nationale, n’étant pas marin pour m’en occuper plus particulièrement. CHAPITRE IX. Sur la fortification permanente et les très-qros canons cuirasses. S 58. Les tours à coupole tournante, que nous avons aussi proposées dans notre Mémoire de 1862, avec un armement composé de plusieurs bouches è feu, nous pensons aujourd’hui qu’elles seront très-avantageuse- ment remplacées aussi, dans la fortification permanente, par des tours sans coupole plus simplement cuirassées et armées mème d’une seule des plus puissantes bouches à feu tournant et tirant en barbette, d’une des manières désignées par les croquis (fig. 4, 5, 6, pl. II). Sil est moins possible de détruire un épaulement en terre, et si l'on peut plus facilement le réparer avec des sacs à terre et mieux encore avec ceux remplis de sable, ces sacs remplis ont de graves inconvénients lors- quils sont placés sur des murailles. Il paraît qu’en faisant ces épaulements en bonne maconnerie de moéllons, ou de bétons solides, plutòt que de briques (voir la note du $ 26), tout en leur conservant le méme profil en étendue, iis auraient alors les mèmes avantages que les épaulements de ierre ; ils seraient encore moins facilement destructibles, et la dépense ne saurait ètre de considération, en disposant les batteries , ainsi cui- rassées, sur des tours ou des casernes fortes placées en dessous; batteries auxquelies nous proposons de réduire la partie permanente de toutes les fortifications. Dans tous les cas la créte intérieure de cet épau- lement, fait mème de bonne maconnerie, ne soutiendrait pas les tirs des canons rayés. C'est la seule partie qu'il importe de faire en métal dans Îes batteries armées de pièces tirant en barbette, manière dont il nous semble qu'on doit exclusivement faire usage partout dans la for- tification permanente, en admettant l’emploi exclusif des gros canons en fonte, comme les seuls capables de soutenir la percussion des coups Serie II. Tom. XXIV. P 114 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE,; ETC. ennemis.. Pour cette raison il est: évident, qu'il faut garnir la eréte interieure dudit épaulement en gros demi-troncs coniques, creux de fonte, disposés perpendiculairement à la crète mème, d'un poids chacun au moins de ro à 20 tonnes, ou pareil aux poids des canons, dont on peut supposer que l’ennemi se servira dans l’attaque. Ces troncs ainsi disposés à plat sur un solide épaulement en maconnerie, au moins pour une épaisseur de 3 mètres égale à leur longueur , ne pourront ètre endommages par les tirs plus que ne peuvent l’ètre les canons mèmes, lesquels, ainsi que l’expérience l’a prouvé, ne sont que difficilement mis hors de service, et ces troncs le seront d’autant moins, étant par leur disposition simplement posés à plat presque horizontalement. Lorsqu'on voudrait avoir un canon tout prét de rechange, il pourrait ètre place au lieu d'un de ces troncs du coòté de la tour le moins exposé, d’où il serait facile d’exgcuter l’échange. Sur terre, où le poids ne fait pas défaut, ce cuirassement en bonne fonte de fer est evidemment préférable sous tous les rapports, sauf dans les cas qu'on aurait à faire des cuirassements à la hàte; il serait alors, à notre avis, toujours préférable d’employer de grosses planches en fer forgé, comme pour cuirasser les batteries dans l’attaque. Cet épaulement en fonte serait utile de mème, si on voulait couvrir la batterie ou une tour avec un bouclier tournant, de mème que ia bouche à feu; chose indispensable si cette bouche à feu est en fer forgé, bronze ou acier aussi ductile, telles qu'on en fait aujourd'hui. Mais dès que l’expérience et la théorie ont démontré qu'il n'est pas nécessaire d’employer les grandes charges pour obtenir les plus grands effets des tirs, il n'est plus nécessaire de fretter, ni d’avoir les canons en acier, puisque leur réussite est encore incertaine et leur prix si excessivement haut; et il est encore moins nécessaire de les substituer aux canons en bonne fonte de fer, si on ne réussit pas à les faire d’acier assez résistant à la percussion des projectiles ennemis. S 59. Quant à la manceuvre et à la celérité du tir des plus énormes bouches è feu installées dans les tours, comme on l'a dit pour celles sur les navires cuirassés, répétons-le, la mécanique ne fera pas défaut pour l’effeciuer d’en bas, soit seulement avec peu d’hommes, soit, et mieux encore, avec l’aide de la vapeur, le tout étant hors d’atteinte des projectiles ennemis d’une manière plus simple et solide, que pour tonte autre manière de cuirassement connue, PAR J. CAVALLI. 115 Quant à la manière balistique du tir, c’est-à-dire s'il doit ètre plus vu moins rasant ou plongeant, il résulte d’abord la presque égalité des effets du tir contre une cible verticale, soit calculés, soit fournis. par l’expérience surtout du tir des canons rayés, à partir du tir le moins plongeant, fait avec la charge de */; du poids du projectile, fusqu'à celui fait avec la charge de ‘'/ beaucoup plus plongeant; tandis qu'en tirant sur une cible horizontale, ce sont les charges de */,; è */» pour les plus lourdes bouches à feu, répondantes à l’élévation du tir de 35. degrés ou plus, qui donnent le plus grand_ effet. i Ainsi ce plus grand effet ne s'obtient plus exclusivement avec le iir rasant, c'est-à-dire presque en ligne droite ou parallèéle au sol, ce qui ne peut en tout cas avoir lieu. que pour des distances limitées; tir auquel on attachait autrefois une grande importance, quoique fe tir roulant fùt plus souvent pratiqué, à cause de l’inégalité générale du sol. Avec l’introduction des canons rayés, on a de fait laissé de coòté les pretendus. avantages de ce tir rasant, et l’avantage réel de la plus longue portée et justesse du tir moins rasant, ou plutòt plongeant, l'a emporté. Car les trajectoires parcourues par les projectiles d’artillerie s’élèvent trop sur le sol qui ne peut ètre égal sur une grande étendue, et feur parallélisme n'est plus suffisant pour que le tir soit efficace, outre tes portées limitées à celles des armes portatives , pour lesquelles seulement on pourrait et devrait tàcher d’obtenir un tir le plus rasant possibie. Mais actuellement il devient plus que jamais absurde de vouloir le tir rasant avec des canons rayés sur une étendue beaucoup plus grande que la portée encore utile du fusil, maintenant qu'on tire des projectiles presque tous explosifs , qui doivent éclater sur l’endroit de leur première chuùte, sur le but mème; condition qu'on ne peut remplir gu'avec un tir assez plongeant, soit sur terre soit sur mer, pour que le projectiile n’aille pas éclater plus loin inutilement. Déjà avec le tir à boulet des canons lisses, l’endroit du plus grand danger n’était pas à la première ligne, où ils ne font que passer; mais « Bien plus, sil et voulu (disait Napoléon I), fuir le poste du danger, » il se serait mis à trois cents toises plutòt qu'à huit cents. A la pre- » miére distance les boulets passent souvent sur la tète; à la seconde » il faut que tous tombent quelque part (Las Cases, tom. IV, page 39 du Memorial de Sainte-Helène). Sur mer c’esi encore le tir plongeant gue les marins craignent le plus, parce que les projectiles, surtout des 116 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE , ETC. canons rayés, peuvent percer les ponts et la coque du navire jusqu’au- dessous de la ligne d'eau. Des lors il est essentiel, comme on l'a dit au $ 34, de pouvoir pointer les canons rayés pour exécuter le tir plongeant aux grandes distances, avec plus de précision qu'on ne peut obtenir par le pointe- ment avec la hausse ordinaire. Pour pointer directement le canon, il faut pouvoir donner préala- blement è l’instrument, composé d’un dioptre tournant verticalement et horizontalement sur sa base, les degrés d’élévation et ceux de dérivation, avec lesquels la bouche à feu doit ètre è un seul temps pointée, afin de n’avoir quà y poser dessus cet instrument, et pouvoir alors de suite pointer le canon avec beaucoup de promptitude et de précision. Lorsqu'on voudra pointer le canon d’en bas, il suffira d’avoir une graduation sur la paroi de la tour en dessous de la plate-forme tournante avec le canon qu'elle porte, afin de pouvoir l’arrèéter dans la direction indiquée par le pointeur, posté à un dioptre fixe dans un lieu convenable. L'’élevation serait donnée dans le mèéme temps, aussi d'en bas, au moyen d’un qua- drant vertical d’un grand rayon annexé au système, qui tourne horizon- talement, l’index duquel tournerait avec le mouvement vertical imprimé directement au canon mème. Nous croyons pouvoir affirmer qu'en pointant de ces manières on épargnera pour les grandes distances la moitié des coups, et plus de la moitié du temps nécessaire à produire le mème effet, en ne pointant qu'avec la-hausse ordinaire. Le croquis (pl. I, fig. 4) donne une idée d’un tel instrument, qu'on pourrait nommer dioptre de pointemeni, pour le distinguer d'un autre servant à mesurer les distances des còtes aux navires. Le dioptre de pointement pourrait étre composé d’une lunette , ou simplement d’un long tuyau aa' (fig. 4), mobile autour du pivot a', fixé à la base dd', afin de pouvoir donner les degrés cc' de dérivation. Au-dessous de cette base, au bout extérieur, l’arc 5 s'adapterait sur une coulisse de tourilion, ou sur toui autre point, autour duquel l’instru- ment doit pouvoir tourner. En dessous de l’auire bout de la base est attaché un arc ee, qui porte un courseur ff, qu'on peut arréter aussi à l'avance sur le degré d’élévation voulu, de mème qu'on arréte d'avance le dioptre à l’angle de dérivation correspondant. L'instrument ainsi pré- paré pourra ètre simplement posé sur la bouche à feu, et sy trouver arrété dans sa juste position, avec l’arc intérieur dans la coulisse du PAR J. CAVALLI. II tourillon, et la longue dent du courseur dans une rainure convenablement rapportée à l’extrémité de la culasse du canon. De cette manière on pourra aussi promptement enlever l’instrument dès qu'on a pointé, et faire partir le coup de suite. Il ne suffit pas d’avoir un instrument semblable pour pointer Ii: canons vite et juste, il faut encore connaître exactement les distances. Il est facile de bien établir les distances dans le rayon du commande- ment du canon des forts d’un camp retranché, et pour toute autre for- tification sur terre; mais pour les batteries des còtes sur mer il faut avoir d’autres moyens, aussi sùrs que prompts, de juger la distance à laquelle un navire ennemi se trouve. A cet effet il faut avoir mesuré de l’endroit de la batterie une assez longue base, qu'on supposera (pl. I, fis. 5) a 4 de 10000 mètres, distance à laquelle on apergoit encore assez bien les signaux, si l’on n’a pas à sa disposition le télégraphe électrique pour signaler à la batterie l’angle que la visuelle de l’observateur dé cette extrémité dirigée sur le navire, fait avec la base mème. A l’autre extremité de la base établie près de la batterie, un autre observateur se trouve posté avec l’eeil au dioptre mr, et tandis quil pointe le navire mème, il dispose la règle 44 suivant l’angle signalé, et voit de suite sur l’échelle 4e la distance cherchée, et lit les degrés d'’élévation et de dérivation qu'il faut donner au canon, en tenant compte de l'espace que le navire pourra encore parcourir dans le temps nécessaire è pointer. Rien n’'empéche que le quadrant yy.y ait une convenable grandeur, gtant irrémoviblement établi. Avec les còtes de 1",40, la division peut se tracer sur un arc de 1”, 20 de rayon en degrés et dixièmes de degrés, ceux-ci par un nonius en sixièmes, répondant alors aux minutes premières, qui, par leur grandeur très-près de sept dixièmes de milliméètre, pour- raient ètre lus aussi sans usage de nonius. La base 40, du triangie abc, sembiable à celui réel a AC, étant de 1", et de 1", 20 le rayon de l’arc gradué, sur l’échelle ae des distances faite dans le mème rapport des bases, on y lira ces distances au moins jusqu'è 10000 métres dans toutes les positions moins éloignées où se trouve le navire; puisque du niveau de la mer on voit surgir les bords d’un navire ayant 6 métres de hauteur, étant justement è la distance de 10000 métres. A laide d’un nonius on pourra lire aussi les dixièmes du millimètre correspondant è un méètre de distance réelle. $ 40. Le progrès vers la grosse artillerie nous affermit toujours-plus 116 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. dans les idées émises sur la partie permanente des fortifications , malgré les critiques que nous fait M. BriaLwonr dans son ouvrage, Etudes sur la défense des états et sur la fortification; critique que, parce qu'elle paraît porter sur des principes fondamentaux, il est dans l’iniérét genéral d’éclaircir. Ce remarquable ouvrage par son importance marque l’époque de transition au plus grand progrès de cette partie de l’art militaire ; en effei, quoique, comme officier de génie, il se soit montré plus progres- siste que tant d’autres de cette arme, il semble qu'il ne Vest pas encore assez, qu'il n°a pu abandonner entièrement la routine des diverses écoles, qui se sont succédées, et qu'il a été trop prolixe pour étre strictement concluant. Dans la suite de son introduction, page Lxnt, il avance ia maxime que « l’ingénieur aujourd’hui doit ètre avant tout artilleur et tactitien » , afin, pensons-nous, d’atteindre le plus grand progrès que Napoléon I laissa entrevoir dans ses mémoires de S'-Hélène , que nous avons cités et commentés, et que nous remercions M. BriaLmont d’avoir reproduits avec sa critique à la pag. 116 et suivantes, tom. I. Il reconnaît d’abord la nécessité de porter au loin du noyau la ligne des forts détachés seulement à 4000 métres dans son projet, pag. 103, tom. I: tandis quà la page 93, il admet que « pour ce cas spécial, et dans les conditions » particulières où se trouvent les ports anglais, on a pu admettre sans » inconvénient grave cette limite de 8000 métres, puisque au)ourd'hui » on peut à l’aide des canons rayés lancer de gros projectiles explosifs » à cette distance » (et à une distance bien plus forte encore). Puis il ajoute, « que cette limite conduirait à une impossibilité , s'il s'agissait » de fortifier et de mettre à l’abri du bombardement une grande capi- » tale. En effet, dans ce cas, les forts devraient se trouver en moyenne » à Gooo métres de l’enceinte, et la position acquerrait ainsi un déve- » loppement disproportionné avec les ressources en hommes et en » argent, que possèdent la plupart des États ». Cette dernière assertion n'est pas admissible, puisqu'il faut absolument se soustraire aux effets désastreax du bombardement par un assez grand développement des lignes des forts détachés; mais pour ne pas prodiguer les ressources des Eiats en hommes et en argent, ce sont ces forts qu'il faut réduire à leur plus simple expression, celle d'y. pouvoir placer quelques gros canons rayés, en ne les, érigeant qu’ de grandes distances entre eux , PAR J. CAVALLI. 119 îtelles que ia grande portée et la justesse de leur tir permettent encore de croiser efficacement leurs feux. 1 Tant pour rester dans les limites de la moindre dépense possible, que parce que la ville pourrait enfin ètre contrainte par le bombardement è se rendre, malgré l’enceinte en fortification permanente, nous n’avons pas propose d’en faire autour de Turin. Mais si l’enceinte de l’octroi, composée d'une muraille crénelée et d’un petit fossé avec contrescarpe, Glait jugée trop faible contre une surprise, on pourrait toujours, en temps opportun, la renforcer suffisamment dans ce but avec des ouvrages de fortification de campagne. Si les circonstances stratégiques exigeaient que Turin fùt capable d’une plus puissante et longue résistance, supposé que l’on en eùt les moyens, nous avons proposé de doubler la ligne de petits forts extérieurs, et J'ajouterai mèéme d’y joindre une troisième ligne, de manière qu'’entre ces trois lignes de forts, le corps d’armée chargé de la défense ne puisse ètre chassé que successivement d'un bout à l’autre; opposant ainsi une bien plus longue résistance que sil se fùt enfermé dans une ville populeuse fortifiée, où il serait bien vite obligé de se retirer è cause du bombardement et de la contrainte des habitants. Du reste la solution complete d'une telie question ne peut se faire que dans chaque cas, avec l’étude particularisée du projet sur le ter- rain, pour y distribuer les forts dans le but susdit, en supposant que le défenseur puisse trouver de tout coté les meilleures conditions, tout en occupant la plus grande étendue autour de la place, pour ne la céder quien la disputant successivement d'un bout à l’autre. S #f. M. BriaLwont, à la page 144, tom I, ne désigne que les trois manières d’attaque, de vive force , par blocus et l’attaque régulière , et il semble ainsi exclure celle, selon nous, la plus efficace et expéditive , du bombardement; car on y admet la possibilité de l’attaque par esca- lade, malgré le feu de l’artillerie défensive, sans bombardement préalable pour l’éteindre et en éloigner les défenseurs. Mais M. BriaLmont mème dit à la page 163, tom I: « Sébastopol n'eit » jamais succombé si les Russes avaient pu amener plus facilement des » munitions à cette extrémité de l’empire, et si, dans les derniers temps, » les pertes occasionnées par le bombardement ne s’étaient élevées à » plus de 3000 hommes par jour. ...; la position fut plutòt abandonnée » que conquise; et si le général Périssier avait différé son attaque de » 4 ou d jours, il serait entré dans l’ouvrage de Malakoff sans coup férir ». 120 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. La première de ces causes étant sans fondement, puisque l’auteur méme, dans la suite et dans ses notes, prouve que la place était pourvue de beaucoup plus de canons et de munitions, et en tira au moins autant que les assiégeants, le bombardement reste la seule cause qui forca les Russes à la retraite, qui aurait eu lieu plus tòt si les alliés avaient, ainsi qu'ils le pouvaient, des canons rayés CavaLLi se chargeani par la culasse ou par la bouche, comme è Gaète. Dès qu'il faut donc absolument, plus que jamais, se ‘mettre è l’abri du bien plus puissant bombardement des canons rayés, aujourd’'hui que le bombardement peut s’effectuer mèéme à plus de 3000 métres de distance, ce n'est pas trop, selon nous, de placer la première ligne des petits forts détachés à cette distance de 8000 métres; ainsi la seconde ligne des forts étant à 6000, et la troisiéme à 4000, le centre de la place reste garanti par un résau de petits forts, au milieu duquel l’armée défensive pourra se maintenir et empécher les assaillants de pénétrer, avant d’avoir pris au moins une demi douzaine de ces forts; ou du reste il n’aura aucun avantage de sy établir, jusqu'àè ce qu'il ne se soit rendu maître de la majeure partie de ce résau de petits forts. Des trois susdits modes d’attaque M. BriaLmonT, à la pag. 154, conclut que: « l’attaque de vive force est le seul qui offre des chances de » succés » quoique à la page 15o il dise: « l’attaque du 18 juin au siége » de Sébastopol échoua parce que l’artillerie des Russes était encore » vigoureuse à cette époque, et que les colonnes d’attaque eurent è » franchir de grands espaces découverts de 250 à 700 métres....... » Cet exemple prouve clairement, que l’action de la mitraille et de la » mousquetterie rend les plus faibles retranchements imprenables de » vive force, tout aussi bien que de larges fossés, de hautes escarpes » et de formidables batteries flanquantes. » Mais ajoutons, si Von edit fat précéder l’attaque par le bombardement, méme par la seule artil- lerie de campagne, il aurait probablement wéussi. C'est donc surtout contre le bombardement qu'il faut aussi mettre à l’abri les forts qui entourent up camp retranché, et dès lors on ne peut baser la défense sur le feu de la mousquetterie, qui du reste serait partout dans la fortification permanente très-avantageusement remplacé par le tir è mitraille et à grenades d'un grand nombre de petites bouches à fen, et de quelque pièce du plus grand calibre possible, dominant toute la campagne A l’entour. Dès lors on devra éviter les espaces PAR J. CAVALLI. 12I intérieurs, parce que les projectiles des ennemis viendraient s'y entasser en les rendant inhabitables, et il conviendra plutòt bàtir ces forts de manière à les rendre imprenables par l’assaut, comme les vaissaux du type Monitor sont imprenables è l’abordage. Déès lors, comme l’affirme ci- devant M. BriaLmont méme, les formidables batteries flanquantes, sur lesquelles il insiste tant partout ailleurs dans son ouvrage, ne seront plus nécessaires, et le flanquement de loin des forts collatéraux sera le seul formidable; justement parce que ces forts, très-éloignés entre eux, ne pourront ètre attaqués sérieusement à la fois, et l’égoisme pour leur propre défense n’empèchera pas, dans ce cas, que les soldats de ces forts ne protégent leurs voisins attaqués, le jour comme la nuit, déès que, par le télégraphe, leur assistance sera réclamée. Dès lors tombent les réflexions que l’érudit auteur (pag. 121) applique aussi au système préconisé par nous des camps retranchés « sans » noyau fortifié solidement, et de ceux dont la ligne de défense se » compose de petits ouvrages sans flanquement propre , et sans espace » intérieur. » S 42. L'hypothèse du mème auteur n'est pas mieux fondée, quand il assimile notre système aux tours de Lintz « avec suppression de la » deéefense mutuelle des tours, parce que, dit-il, nous considérons en » effet, malgré la portée considérable des canons rayés, le flanquement » mutuel de deux tours espacées de 3000 métres, comme tout à fait illu- » soire. » Mais lauteur nous dit lui-méme à la page 94 que « à 2000 » métres les projectiles explosifs à fusée percutante des canons rayés » (systèmes anglais et prussien) ont une justesse de tir, et produisent une » gerbe de mitrailie qui les rendent très-redoutables; » et à la page 99, après avoir établi que les ouvrages permanents d’un camp retranché doivent ètre à une distance telle, que le terrain en avant de chacun d’eux soit battu par les feux croisés des ouvrages collatéraux, il ajoute que « il convient de soumetire ces intervalles au tir à mitraille, le seul » qui soit efficace ‘contre les troupes; et par mitraille (dit-il ) nous » n’entendons pas seulement les boîtes à balles, mais aussi les shrapnelis » et les obus. (Déjà avec l’ancien canon lisse de campagne on obtenait » un excellent tir à shrapnells è 1200 métres, et avec le canon obusier » de 24 à 1800 mètres). Une expérience faite en 1835 au polygone de » Brosschaet, avec Pobusier long de 15, a prouvé qu'à 1200 pas l’obus » frappe deux fois plus de coups sur les cibles, que les bottes à balles Serie II. Tom. XXIV. Q P22 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » à 4oo pas. Les deux projectiles étant tirés à 800 pas, l’e/fez de l’obies » est quadruple de celui de la boîte à balles. Le tir à shrapnells et le » tir à obus des canons rayés donnent des résultats pius remarquables » encore. Dans les terrains découverts ils sont dangereux jusqu'à 2000, » et mème à 2500 métres. » Et à la page 113: « Si les 23000 hommes » et les 1380 bouches à feu, qu'exige la défense de ces 46 fortins (du » général Meyer), étaient répartis en 12 forts espacés de 2900 mètres » (d’axe en axe), ou entre 17 forts espacés de 2000 métres , le camp » relranché aurait, selon nous, plus de valeur.» On voit ici que l'auteur n'est pas loin d’admettre les 3000 métres de distance, vu qu'à la page 320, T. IN, il ajoute: « Aujourd’hui l’artillerie tire avec autant de précision, » et produit plus d’effet à 2000 mètres, qu’autrefois à 300.. » Nous pouvons ajouter en outre, que dans lexpérience faite par l’artillerie ita- lienne sur le Lac Majeur, tirant d'un bord à Vautre du Lac contre un des forts construits. en granit par les Autrichiens, à la distance de 3475 métres, presque tous les obus du canon rayé de 30 ordinare, portaient dans un espace de 100 métres de front sur 200 de profondeur, et que si l’on eùt pointé avec des instruments d’une plus grande précision que la hausse ordinaire, on aurait frappé tous les coups dans la tour de 34 métres d’etendue et 14 de hauteur, et on aurait acquis la certitude qu'en peu d'heures les plus petits des gros canons rayés pourraient la détruire (1). | On peut done retenir que le feu des foris éloignés, méme de beaucoup plus que 3000 métres, pourront croiser leurs feux avec la plus grande efficacité sur un terrain connu, quoique de nuit, puisque par le moyen du télégraphe les avis sont instantanément transmis. $ 45. Si toutefois nous avons violé les principes de la fortification, comme nous le reproche M. BrraLmonT, ce n’en sont que les vieux prin- cipes, qu’avec les réformes qu'il propose il a lui-mème violés en partie; mais il n'est pas ici question de violation, mais de changement de principes. Ainsi quant au principe de CormonTAIGNE, et plus ou moins (1) Avec les projectiles en fonte des premiers canons CAVALLI, se chargeant par la culasse aussi bien que par la bouche, on aurait tiré beaucoup plus juste encore, et tout aussi juste qu’avec les canons ARMSTRONG, puisque à cette distance la déviation moyenne n'est que de trois mètres (voir la table III du Mémoire sur divers perfectionnements militaires, de l’année 1856); et avec un de ces canons de 60, quì tiraient des projectiles d’un poids double de ceux de 30 susdits, on aurait certai- nement plus que double les effets obtenus. PAR J. CAVALLI. 125 de Fourcrors, de p'Angon, de RisolssiERE, ete., qu'une défense toute de mousquetterie est toujours préférable à celle du canon, M. BriaLMoNr, qui le cite à la page 2, T. II, le réfute en disant: « On a eu tort de » soutenir que l’artillerie joue un role secondaire dans la défense des » places. » Il aurait pu déclarer franchement le principe contraire, que l’artil- lerie est aujourd'hui l’arme principale, presque exclusive de la fortification permanente , puisque implicitement il l’avoue, tom. III à la page 191, là où il dit: « Les forts d’un camp retranché ne sont, à proprement parler, » que de grandes batteries inattaquables de vive force, occupant le front » d'une armée retranchée »; et à la page 305, où il déduit des pratiques de Vausan, de « ne jamais entreprendre un travail important, que Îar- » tillerie de la place, qui peut s’'opposer è ce travail, ne soit éteinte » ou à peu près »; et à la page 338, à propos des batteries de l’assiégeant, où il dit: « A cette distance (de la 2° paralléle) l’efficacité du tir est » telle, qu'il ne sera pas nécessaire d’établir des batteries plus rap- » prochées pour éteindre le feu des remparts. Aussi le but principal » de la fortification sera désormais d’empécher l’accès du rempart ca- » pital, au moyen de pièces casematées, que l’ennemi ne puisse ni’ » braver par une attaque brusque, ni réduire au silence par des bat » teries éloignées ». Mais, disons-le encore, l'expérience a prouvé partout quien peu de temps on peut complétement détruire les forts, mème à 3000 métres et plus de distance, et mème avec le tir à obus du canon rayé de 30 ordinaire avec la charge d’'/,,. Conséquemment M. BriaLmonr à la page 165, tom. II, où il dit que « les forts doivent ètre constitués » de facon è offrir le maximum de resistance aux attaques de vive force » , aurait mieux dit, croyons-nous, au bombardement des plus puissants canons rayés, que l’attaquant peut amener avec. son parc de siége, qui powront ètre très-supérieurs aux canons susdits de 30; leur transport pouvant se faire sur les. chemins de fer jusqu'à. la batterie. Dés lors il n'est plus le cas que ces aitaques soient préparées par un feu redou- table d'artillerie, puisque par le canon rayé tout sera réduit en rune, et la garnison chassée bien plus vite encore qu'il n'a eu lieu à Séba- stopol par le bombardement des canons lisses.. L’auteur, préoccupé de Veffet écrasant de l’artillerie rayée, fait la proposition « de retirer » les hommes et les canons mobiles :sous des abris,. au moment où 124 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » lennemi ouvrira le feu de ses batteries. Cetie proposition, dit-il, doit » à première vue sembler fort étrange. Cependant, après y avoir bien » réfléchi, nous sommes persuadés, qu'il serait imprudent de la rejeter, » pour adopter un mode de défense plus conforme aux usages établis » et plus chevaleresques ». Après avoir appuyé cette proposition par de très-bonnes raisons, il fait une conclusion inadmissible. Il dit: « Laissons » l’artillerie ennemie épuiser ses projectiles et sa poudre contre des » remparts silencieux et déserts, auxquels elle ne fera aucun mal, puis » mettons rapidement nos pièces en batterie quand son feu se ralentira, » ou quand l’ennemi, s'imaginant avoir produit de l’effet avec sa can- » nonade, lancera ses colonnes à l’assaut. Voilà, selon nous, le ròle qui » convient le mieux aux défenseurs d'un fort. » La garnison serait bien è plaindre si on voulait la réduire à ce ròle contre tout attaquant, qu'on ne peut supposer tellement imprévoyant qu'il veuille épuiser les munitions de son artillerie avant l’attaque, mème lorsqu'il y aurait une plus grande nécessité d’attaquer. Pour que la garnison d’un fort puisse jouer un tel ròle, on suppose d’abord que l'artillerie ennemie ait épuisé ses projectiles et sa poudre, et que, malgré cela, elle n’ait fait aucun mal, et qu'elle laissera sortir l’assiégé paisiblement de ce refuge inoffensif pour remettre en batterie ses pièces mobiles. Toutes ces hypothèses sont inadmissibles, tandis qu'on sait par expérience que l’artillerie rayée peut mème de très-loin réduire les forts en un monceau de ruines, et les rendre ainsi inoffensifs, sans qu'il soit nécessaire d’y lancer les troupes è l’assaut. Que si ces forts sont d'une grande extension , et contiennent dans leurs abris une forte garnison, la justesse du tir des canons rayés permettra à l’assiégeant de maintenir toujours au devant de ces colonnes montant è l’assaut un feu vif croisé de telle manière , que lassiégé puisse ètre surpris dans ses abris mèmes. Il faut absolument renoncer à exposer ainsi de braves troupes, dans ces grands forts et dans ces caponnières, à étre sacrifiges inutilement; tandis qu’en dehors, en campagne ouverte, suivies de leur artillerie mobile, et appuyées par l’artillerie la plus formidabile, et diffi- cilement expugnable des petits forts, elles auraient deployé une défense bien plus énergique et efficace. Il est bien sir que tel serait l’avis de tout commandant intelligent, si on lui laissait le choix de prendre position en dehors, ou de se renfermer dans les forts d’un camp retranché. A Yheure du combat nous ne voulons, PAR J. CAVALLI. 125 dans les petits forts, que la troupe purement nécessaire au service de l’artillerie et è la garde des portes; quoique ses forts soient construits aussi pour loger les troupes du camp sur le pied de cantonnement. S$ 44. C'est justement parce qu'il s'agit du salut ou de l’honneur d’une nation, comme nous dit M. BrraLmont è la page 122, T. I, en achevant sa critique, que nous aussi avons mis tant d'insistance dans nos répliques. M. BriALmonT y admet que « son système cortera plus cher, sans doute, » mais qu'il permettra de résister plus longtemps. » Mais tout en con- testant cette assertion, on voit que la comparaison sous ce rapport doit étre faite sur la base d'une dépense égale. Conséquemment nous croyons devoir encore démontrer , qu'en dépensant, selon le système préconisé par nous, la somme d’argent que couterait le système proposé par M. BrraLmont, il aquerrait une résistance bien plus longue que le sien. A cet effet, avec M. BriaLmonT è la page 102, « nous supposons que l’armée dé- » fensive sera de 100000 hommes, que l’enceinte aura 16000 métres d’é- » tendue (ou 2500 métres de rayon), que les foris seront à 4000 métres de » l’enceinte, et que le camp retranché aura, par conséquent, 40840 mètres » de développement. Ce périmetre sera occupé par 20 forts , espacés » d’environ 2000 métres (2042 exactement, page 193, T. III), cortant » de 2 à 3 millions de francs, » chacun avec un tiers en plus pour l'armement, on aura pour les 20 forts une dépense de 66 è 67 millions, à laquelle ce ne sera pas trop ajouter 40 millions pour l’enceinte centrale, et son armement reienu de 26 forts de 1000 métres chacun, ce qui porte la dépense totale è 106 millions. Une telle dépense, pensons-nous, serait mieux employée, si au lieu de l'enceinte permanente, et d’une seule ligne de grands foris détachés à 4000 métres de distance, on mettait deux autres lignes de forîs de 2000 en 2000 métres plus loin, en égal nombre. La distance entre ceux de Ia seconde ligne résultera de 2686 mètres, et de 3299 métres celle des forts de la troisième ligne, qui se trouvera justement è 8000 mètres de l’enceinte è ériger en temps opportun, s'il en faut une, en fortification de campagne, comme tous les autres ouvrages en terre intermédiaires è ce grand résau de fortins. On aura ainsi 66 fortins permanents, qui éiant méme tous faits comme l’indique l’esquisse pl. Il, fig. 1,2, ne cotteront pas, y compris Yarmement , tout è fait autant que les 106 millions susdits , quoique l'espace embrassé soit de 2 à 3 fois autant que dans le projet précédent. IS) RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. D’après l’esquisse de ces fortins ,, on comprend quils sont projetés d'aprés les principes que nous avons exposés. Ils consistent d'une nou- velle caserne forte, sans cour intérieure , à deux étages surmontés par une batterie. Dans la contrescarpe du fossé sont établis aussi deux étages, tant pour la défense, que pour le logement des troupes; la circulation de l’air y est maintenue par les puits postérieurs ; ainsi les canonniers pour la défense du fossé, et les autres troupes qu'on peut y loger, s'y trouveront au moins aussi bien que les équipages dans un vaisseau. Le matériel de l’artillerie toujours en batterie y est tout aussi bien que dans les hangars devenus inutiles, et les canonniers logés à coté de leurs pièces sont toujours préts au combat sans se fatiguer, sans nécessité de les changer, non plus que les marins à bord, tandis que les autres troupes avec leur artillerie mobile pourront se rendre aux postes en dehors deésignés à l’avance pour leur rassemblement, en cas d’alarme . plus vite que si elles étaient logées dans l'enceinte centrale. Chacune des ces batteries casernes fortes peut loger 3000 hommes sur pied de cantonnement; de sorte que la moitié seulement de ces 66 susdites suffirait è y loger les 100000 hommes composant la. garnison prise pour point de départ. Lors méme qu'on ne se servirait pas des chemins de fer de circulation, dans une demi-heure les troupes de chaque groupe de 5 à 6 forts pourraient se réunir en corps de 15 à 18000 hommes. Le feu de ces batteries sur casernes fortes, avec la petite artillerie de l’interieur, suffit pour leur défense, sans besoin d’y ajouter le feu de V’in- fanterie. Leur armement serait composé d'un petit nombre des plus grandes bouches à feu, comme le conseille aussi M. BriaLmont à la page 46, T. Il: « On devrait placer deux ou trois de ces bouches à feu de gros » calibre sur chaque fort, » et d’un grand nombre d’obusiers courts de 12, montés sur une colonne fixe (pl. II, fig. 3), sans recul, quun seul homme peut servir et tirer è mitraille ou à obus par les embra- sures de la caserne sur le glacis, et à la défense du fossé par ies em- brasures de ia caserne de contrescarpe, outre les pièces mobiles que la troupe peut poster au dehors avec elle. S 45. Le feu de 100 pièces assignées par M. BriaLmont pour Var mement de chacun de ces forts pourrait ètre dans les nòtres plus effi- cacement remplacé et concentré sur quelque point qu'on voudra des environs jusqu'à 6000 métres, par deux seules des plus grosses bouches PAR Je. CAVALLI. 127 à feu, placees dans les tours des extrémités de la batterie. En outre on pourrait en placer d’autres au milieu de la mème manière, ou tirant aussi en barbette de la manière ordinaire, blindées si l'on veut. Si nous supposons les 100 pièces susdites du calibre de 6, 12 et 24 en pro- portions égales, elles pourraient lancer dans une salve 1400 kilogrammes de fonte, que lanceraient aussi quatre de ces gros canons de 25 tonnes, ou seulement deux de 50 à 60 tonnes, tirant à la charge d’ '/,, au pius des obus oblongs de la capacité respective de 25 ou 50 kilogrammes de poudre, ou des obus oblongs shrapnells; l’éclatement de ces projectiles détruirait, aux plus grandes distances comme de près, des batteries entières ou les colonnes d’attaque de l’assiégeant. Si l’'ennemi, par surprise ou après bien des efforts, parvient à s'ap- procher de ces petits forts, il pourra ètre accablé par une gréle d’obus des petits obusiers, et étre surpris lui-mème par l’explosion des mines, 2 qui serait ici d’une très-grande efficacité , pouvant ètre multipliée autour de l'espace très-limité, occupé par ces batteries casernes fortes , seule- ment au moyen des puits, sans la nécessité des voies souterraines com- promettantes. M. BriacmonT appuie l’usage des mines sur l’opinion des hommes ies plus compétents, parmi lesquels Manpar: « C'est en effet celui de tous » les moyens qui, avec le moins de frais, sous tous les rapports, se » fait respecter le plus.....»;àla page 8, t. III, Frépéric Le Granp disait: « C'est dans les mines que consiste à présent la véritable force » des places ....»; nous dirons des forts concurremment è leur puis- sante artillerie, méème lorsque ces fortins se réduiraient chacun à une seule tour. Il n'est pas nécessaire que tous les 66. fortins du projet, le plus ample qu’on puisse songer de faire, soient de ce dernier type. On pour- rait bien en avoir composé d’une simple tour armée d’un cu de deux des gros canons tournants. Les trois lignes de forts ne sont pas indis- pensables; nous pensons que mème une seule ligne pourrait. encore suffire, lorsque le camp retranché doit ètre occupé par une forte garnison; et méme en cas d’une petite garnison, lorsque l’importance stratégigue de la position ne l’exige pas. Une fortification permanente, composée méme de simples tours, armées d'une ou de deux des plus grosses bouches à feu, tournantes à leur sommet cuirassé en gros blocs en fonte, également environnée d'un fossé x 128 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. avec un glacis miné, serait capable d’opposer aussi une très-longue ré- sistance. Alors la dépense pourrait proportionnellement se réduire è des limites minimes. S 46. Ce système, preéconisé par nous, est aussi applicable tant à la défense des còtes, que lorsqu’on aurait à ériger de petites places fortes , à l’intérieur desquelles il n°y aurait rien en prise au bombar- dement ; surtout si l’on pouvait supposer que l’attaquant n’aurait que des canons de campagne, ou mème de ceux de siége d’une puissance ordinaire, incapables de faire du mal à ces gros canons installés dans les tours susdites. M. BriALmonT paraît aussi de cet avis, quoique ailleurs il dise autre- ment, d’après ce qu'on lit à la page 134, t. I: « Bientòt on pourra » construire, sans dépense excessive, de petites places, devant lesquelles » échoueraient tous les moyens d’attaque pratiqués jusqu'à ce jour, et » dont il serait également fort difficile d’avoir raison par un blocus, » puisqu'il suffirait d'un petit nombre d’hommes pour en assurer la » deéfense »; et à la page 135: « Il est aisé de voir, que cette combinaison » d’ouvrages à défense indépendante (tours indépendantes et ouvrages » en terre en dehors) donnerait è la position une force de résistance » exltraordinaire .....». » Or les difficultés qu'exigerait la prise d'une seule iour sont si » grandes, que la position pourrait étre considérée comme imprenable, » si elle était abondamment pourvue de vivres et de munitions ». M. BriaLmont verra que dans l’ébauche de la batterie cuirassée sur caserne forte, pl. II, nous avons retréci le fossé, et augmenté la hauteur du glacis, suivant ses conseils; cependant, sans toute la confiance quil met lui-méme dans ses moyens de soustraire l’escarpe au feu plongeant des canons rayés, à l’effet destructeur desquels aucun de ses profils mémes n'est à l’abri. Pour s'opposer à la prompte destruction de l’escarpe, il ne suffit pas d’en augmenter l’épaisseur, surtout lorsque ce revéte- ment doit soutenir la poussée des votes, comme dans l’exemple qual nous a opposé. L’objet essentiel étant d’empècher la chute des terres ou de la muraille de l’épaulement de la batterie, on obtiendra mieux ce résultat, en donnant à cet épaulement une grande profondeur, aussi bien qu'à la caserne qui est en dessous. Dès lors les votites Etant pasées sur les pieds droits en direction normale à l’escarpe, celle-ci n'aurait plus besoin d’étre aussi épaisse que dans les tours maximiliennes ; où PAR J. CAVALLI. 129 les voùtes étant posées sur le mur de l’escarpe, s'écrouleraient ensemble. Ces défauts très-graves, qui s’ajoutent à celui du peu de profondeur, nous les avons écartés, en acquérant l’avantage que, en dedans, on pourra toujours réparer avec des sacs à terre les brèches faites à la contrescarpe. Dans l’ébauche de cette batterie caserne forte, nous sup- posons l’épaulement en terre et mieux en sable, mais il nous semble qu'il serait encore plus résistant en maconnerie de moéllons ou en bétons en chaux hydraulique pour le convertir en roche de poudingue. Alors il ne serait plus nécessaire de-lui donner autant d’épaisseur, et on pourrait rehausser un peu plus la caserne qu'il couvre; et en main- tenant la méme épaisseur de ces épaulements, on ne perdra pas l’avantage qu’ont ceux en terres ainsi disposés, de ne point tomber dans le fossé, méme avant de la destruction des voùtes de soutien, comme il arriverait aux épaulements verticaux en maconnerie battus en brèche. Nous avons pensé devoir exclure toute sorte d'embrasure avec toute sorte de cuirassement en fer pour les plus grandes bouches à feu de l’armement des forts, puisqu’on peut, et qu'il est plus simple et convenable, de placer les canons en barbette, et de les faire en fonte de fer, et qu'elles sont les seules presque invulnérables aux coups ennemis. Ainsi c'est la créte intérieure de l’épaulement, devenue la genouil- lère qu'il est seulement nécessaire de rendre invulnérable aux coups de l’ennemi. Alors on peut la composer de grosses pièces en fonte, du poids de 10 à 20 tonnes chacune, comme il a été dit, de la forme d’un demi- tronc conique creux, d'un métre environ de diamétre et de trois de lon- gueur, disposé perpendiculairement à la créte méme. Par cette disposition ces troncs ne peuvent étre frappés perpendiculairement ni endommagés pas plus que ne le sont les canons en batterie, et lors méme qu’ils seraient cassés, ils ne pourraient étre remués de leur place, étant posés à plat sur une muraille presque horizontalement. Dès lors un tel cuiras- sement en fonte opposera une résistance supérieure et durable, qu’on ne peut espérer d’obtenir de tous les cuirassements en plaques de fer, beaucoup plus coùteux et difficiles à préserver des ravages de la rouille. M. BriaLMonT rapporte ce qui suit: « Quelques résultats de tir obtenus » dès 1809 avaient donné au Général ParxHans la conviction, qu’avec » la fonte on pourrait atteindre le but aussi bien et mèéme mieux qu’avec » le fer forgé », page 69, t. II. Lorsqu'on voudrait simplement des abris è l’intérieur de la batterie, on pourrait composer des blindages Serie II. Tom. XXIV. R 130 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. simplement de madriers en fer, posés d'un bout sur la créte en fonte, étant soutenus de l’autre bout en position horizontale, position qui est la moins endommageable. Ces madriers en fer, d'un poids proportionné aux projectiles. qui peuvent les frapper (voir $ 4), auraient, malgré cela, l’avantage de pouvoir ètre plus facilement transportés ei employés partout, mème pour blinder quelques batteries dans les siéges, comme à Gaète. Tous les cuirassements essayés, composés de différentes manières, sont plus codteux et endommageables, ainsi que l’expérience l’a prouvé; de difficile réparation et conservation, pour les employer dans la for- tification permanente; au reste l’emploi de la fonte de la maniére qu'on a indiquée est bien préférable, car elle est alors exempte du défaut qu'on lui reproche de se briser facilement sous la percussion directe des gros projectiles. PAR J. CAVALLI. I3I NOTE I. ìl est bien de rectifier les principes, selon nous erronés, justement parce qu'ls sont très-répandus, et qu’on les trouve reproduits d’une manière très-explicite dans la Revue de Technologie militaire par le Major d’artillerie belge E. TerssEN. A la page 229 du Tom. IV, 1864, on lit: « Pour une quantite de travail donnée, l’effet général » augmente avec la masse du mobile, et l’effet local avec sa vitesse. Delà deux ma- » nières d’altaquer les cuirasses; 1° avec des projectiles très-lourds animés d’une » vilesse moyenne; 2° avec des projectiles d’un poids moyen animé d'une grande » Vitesse ». î Au lieu de l’expression irrationnelle « Pour une quantité de travail donnée » il faudrait d'abord dire « Pour une quantité de mouvement donnée; puis « le travail général produit augmente avec la masse du mobile »; el au lieu de dire que « l’effet local croît avec la vilesse » il faudrait dire « eroît avec la pénétration » ou mieux, « avec l’épaisseur de la plaque nécessaire pour sa résistance » ; puisqu’il n’augmente pas avec la vitesse, puisque, à partir d’une épaisseur maximum correspondant à une cerlaine vitesse du mobile au moment du choc, cette épaisseur décroît, tant avec les plus fortes, qu’avec les plus faibles vitesses. Ce maximum d’épaisseur de la cuirasse résulte nécessaire à peu près avec les charges de ‘/, à ‘/,,, et moins encore avec l’accroissement de la masse absolue du mobile. Mais on dit: « Il ne suffit pas d’ébranler les cuirasses, ni de les déformer ou disloquer; il faut avant lout les percer ». Cette asserlion n’est pas conforme à l’expérience, quoiqu'elle ait été soutenue d’abord, plus qu’aujourd’hui, par suite de l’expérience acquise dans la guerre d’Amérique. Aux résultats de la pratique, si bien exposés par l’Amiral DanLGREN, nous avons ajouté les résultats de la théorie. Avec des canons de méme poids et recul dans le tir, nous avons trouvé qu’on enfonce la cuirasse d’une plus grande épaisseur, lorsqu’on les tire avec des charges de poudre généralement comprises entre */, et */,, du poids respectif du mobile. On peut bien, avec des charges plus fortes et des mobiles d’une masse moindre très-ramassés, traverser et outrepasser une cuirasse, comme la balle lancée par un pistolet traverse une glace sans la casser; mais n’est-il pas évident que ce but n’est pas celui qu'il faut atteindre? mais plutòt celui de faire tomber toute la glace en pièces, effet qui a justement lieu lorsque Ia balle est lancée avec une vitesse modérée? Il faut donc abandonner la seconde et non la première des deux manières indiquées par l’auteur cité, d’attaquer les cuirasses, et non pas s’en rapporlter è des résultats d’expériences incomparables à cause de l’inégale puissance des bouches à feu employées, toutes les fois que leur poids et l’impulsion de recul qu'ils recoivent dans le tir ne sont pas les mémes. 132 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. NOTE II. Citations concernant le peu de durée des gros canons tirés à grandes charges, soît en fonte de fer frettés, soit de ioute autre construction plus compliquée que ceua sim- plement coulés en bonne fonte de fer. Le frettage des canons en fonte de fer, d’abord introduit par l’artillerie francaise pour transformer leurs canons lisses en canons rayés, se chargeant par la culasse, a- été aussi introduit, et de suite rejeté en Angleterre, après les épreuves faites aussi sur des canons du modèle en usage en France; tandis qu'aux Etats-Unis d’Amérique on fait également usage de canons lisses du plus grand calibre, simplement coulés en fonte de fer, suivant le procédé Ropman, ainsi que de canons rayés du système Parrot, également coulés en fonte de fer, mais renforcés avec un seul manchon en fer forgé, posé autour de l’endroit de la charge. Dans la séance du 18 mars 1863 de la Commission d’enquéte, è l’audition de sir Wicruiam ArmstROMG (voir la Revue maritime et coloniale, 50° livraison, 1865, page 311) il est dit: « Le frettage extérieur est impuissant à empécher la rupture du corps du » canon en fonte. Il est maintenant reconnu que la cause de l’insuccès de la fonte » de fer est complétement indépendante de la force des cercles. J'ai vu moi-méme un » canon en fonte de fer, cerclé, éclater sous les frettes; celles-ci étaient tellement » fortes, qu’elles maintenaient efficacement ensemble les morceaux de la pièce rompue, » les gaz se frayant passage à travers les fentes de métal. Il est évident, par con- » séquent, que vous pouvez placer une montagne de cercles sur l’extérieur d'un canon » en fonte de fer, et que, malgré cela, il ne sera pas capable de résister è l’action » de la poudre, à cause de ce fait; que la nature de la fonte est telle, que ce metal » se fracture par la concussion. Les fissures au commencement ont des proportions » presque microscopiques; on en constate l’existence en prenant des empreintes très- » délicates. A Woolwich, où naturellement ces fissures sont parfaitement connues, elles » fournissent toujours le moyen de prédire la durée probable du canon. Dès que ces » fissures commencent à se manifester, elles vont en croissant è chaque décharge » jusqu'àè ce qu'àè la longue elles cèdent sous la pression des gaz. Si l’on maintient » la charge trés-faible, ces effets n'ont pas lieu, et l’on peut faire servir le canon pendant » un temps très-long ». Tout en admettant l’inutilité au moins du frettage, et l’insuccès des canons en fonte freltés pour tirer è grande charge, résultats confirmés partout, on ne peut égale- ment admettre, avec M. ArmsrRoNe, que la cause soit dans la nature de la fonte de fer parce que ce métal se fracture par la concussion, ni que l’emploi de la fonte de fer ne puisse èlre mainlenu pour les bouches è feu rayées, comme il le dit à la page 308. PAR J. CAVALLI. 133 L'expérience faile è la guerre des Etals-Unis avec les canons rayés PARROTT, malgré l'accroissement d’effort causé par le tir de leurs projectiles è expansion, prouve l’in- validité d'une telle assertion. En effet on lit dans Ie rapport à M. le Commodore Wise, chef du bureau de l’artillerie, du 18 janvier, è propos aussi d’une enquéte sur les canons rayés Parrot, ordonnée par le Ministère de la guerre le 4 du méme mois 1865 (voir à la page 635 du journal susdit, 52° livraison): « Nous avons reconnu qu'il a été » délivré dans le service de la marine '703 canons ParrotT de tous les calibres (comme » onle voit dans le tableau A), et que de ce nombre il y en a 23 qui ont éclaté, ou » qui ont été avariés d’autre manière dans le tir. Plusieurs des dégradations se sont » offertes sous la forme de fractures ou de déchirements nécessitant qu’on retiràt les » canons du service àè temps pour éviter des malheurs. La plupart d’entre elles ont » eu lieu dans la volée, ou a la tranche de la bouche, et non, comme c'est l’ordinaîre » avec d'autres canons, è la culasse. Cette circonstance nous fournit une preuve que » ces accidenis proviennent de l’explosion prématurée des obus dans l’intérieur des » bouches à feu » (fait que j'eus à soutenir aussi pour mes premiers canons rayés gclatés au siége d’Ancone et de Gaèle contre les opinions contraires, ce qui s'est depuis confirmé itérativement dans plusieurs expériences); « c’est, du reste, un fait constaté « par la déposition de plusieurs officiers de service sur le moment .....» Et on lit ensuite è la page 640: « ...... Ce qui semble peu douteux (mais ce ne sont que » des cas exceptionnels) c'est que les canons ont dans quelques occasions élé détériorés » par d’autres causes que des explosions prémalurées d’obus, telles que l’emploi de » poudre comprimée, de projectiles déclarés par M. ParRoTT impropres........ Mais » comme depuis il a été reconnu que l’emploî de cette poudre est dangereux pour les » piéces, on a renoncé à Sen servir. » L’explosion prémalurée des obus est capable de faire éclater les canons rayés » en fer forgé (des canons ArmsTRONG) aussi bien que ceux en fonte de fer.....» Et à la page 641. « Quant aux bouches à feu en fer forgé, tous les renseignements » officiels qui nous ont été communiqués montrent que, pour les gros canons, les » résultats n’ont pas été favorables àè leur durée, et qu’en beaucoup de cas ils ont » montré moins de résistance que les canons en fonte. Plusieurs canons en fer forgé de » la manufacture Horatio Ames ont été soumis à l’épreuve; l'un, du calibre de 50, » a supporté 1600 coups, et quoique montrant de profondes fissures au fond de l’àme, » il aurait pu cependant supporter encore un certain nombre de coups; les expériences » ont été suspendues par suite de l’excessif agrandissement de la lumière ». A la page 642. « Un canon en fonte de fer du méme modèle a enduré 2000 coups. » Ces calibres ont une durée suffisante avec les pièces en fonte, ou avec les canons » cerclés de M. Parrort. Les canons en semi-acier de M. Norman Viarp, du calibre » de 50, ont également été essayés; mais la durée très-limitée et très-inégale de ces » pièces (lune a éclaté après 9 coups) a été cause qu'on a abandonné toute expé- » rience dans cette direclion. » Les rapporis officiels, ou semi-officiels relatifs à la durée des bouches è few élrangères » de gros calibre rayées, n’ont pas jusqu'ici été tellement satisfaisants que nous soyons 154 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » portés @ recommander l’entière adoplion du fer forgé, ou de tout autre système, d l'ex- » ception de la fonte de fer cerclée ». Il est également intéressant de rapporter aussi quelques réponses de M. ParroTT aux questions qui lui furent faites par la Commission d’enquéte. A la page 646, 2° question, on lit: « N'arrive-t-il pas en réalité, dans la pralique, qu'àè la fonderie » le bandage ail été serré trop énergiquement? » Réponse: « Non. Dans les premiers » canons de 30, après la mise en place du bandage, on a constaté que le calibre de » l’ème se trouvait réduit d’environ 0”, 25. On a trouvé de mème un résultat analogue » pour un canon de 100. C'est pourquoi je préfère achever l’alésage final de l’àme » el son rayage après la pose du bandage ». 3° question: « Si cette circonslance se presenlait dans votre opinion, ne serait-elle » pas suffisante pour rendre comple des cas de projection de la culasse si frequents » avec vos canons? » Réponse: « Sì la compression exercée était par trop forte, elle » pourrait nuire au canon; mais je ne pense pas qu’avec l’épaisseur que nous lui » donnons, et de la manière que nous le posons, un bandage ait une force suffisante » pour produire un pareil résultat. Je pense que s'il existe quelque excès dans le ser- » rage, le bandage prétera et s’ajustera de lui-méme. Il est toujours mis en place è » une certaine chaleur uniforme, que l’on appelle le rouge sombre ». Autre réponse: « Je n'ai aucun résultat expérimental pour déterminer le serrage » en dehors de ma pratique journalière dans la fabrication des canons. Ils sont tous » préparés avec une différence de 5" par mètre. Cette différence est absorbée en » partie par l’extension de la bande et en partie par la compression de la fonte de » fer. Le bandage ne serait d’aucun service, si son effet ne se faisait pas ressentir » jusqu'à l'àme ». Ces réponses de M. Parrot è la question de savoir si le serrage a été trop éner- gique, disent seulement que, selon lui, il faut le faire ressentir jusqu'è l’àme, sans qu'il sache rien ajouter pour appuyer son opinion. En passant sur les éloges exagérés des canons de ce système que leur prodigue le Geénéral Girwore, dans son rapport sur les opéralions contre Charlestown et sur son bombardement du 21 aodt 1863, il dit ensuite (à la page 665 de la Revue susdite): « On n’a fait usage que de canons et de projectiles Parrot pour bombarder Char- » lestown »; et à la page 669: « Les gros canons rayés de ParrotT ont de graves » défauts. Le plus sérieux de ceux-ci, selon nous, c'est leur durée inégale et incertaine » ; à la page 670: « Précaulions prises dans le chargement. - Tous les obus ont été » essuyés et graissés. Le canon était neltoyé après chaque décharge, d’abord avec » un écouvillon sec, et ensuite avec un écouvillon huilé; on lavait antérieurement » avec de l'eau, et on laissait refroidir la pièce après chaque série de 10 coups..... » et on prenait tout le soin voulu pour que les parois de l’àme fussent nettes de sable et de boue è l’instant‘du tir ». Tous ces soins minutieux, plus ou moins indispensables aussi pour les autres systèmes de canons rayés que l’on a mis en usage, n'étaient pas nécessaires avec nos canons et projectiles simplement en fonte, dont aucune cause inévitable n’a pu justifier > PAR J. CAVALLI. 135 l'abandon, et auxquels cependant peu è peu nous pensons qu'on reviendra, comme on s’en est déjà rapproché de beaucoup dans les canons rayés de la marine francaise, justement pour les projectiles et la rayure hors le pas progressif, qui, à notre avis, n'est pas nécessaire, et on rejoindra plus efficacement le but de prolonger la durée des rayures et des canons par l’emploi d’un chargement et de poudres qu'on peut faire bien moins nuisibles aux bouches è feu, que toutes celles acluelles. Après l’étude des ruplures des canons de Parrot de 8 pouces et de 100 livres, et la recherche des causes de l’inégale durée de ces canons de gros calibre, malgré toutes les précaulions susdites , difficiles à faire observer, le Général Gilmore croit devoir terminer son rapport en faisant des propositions pour y remédier. Il dit à la page 674 dudit journal: « Mon opinion propre, basée principalement sur mes observations per- » sonnelles, est que, sans augmenter nolablement le poids du bandage, il faudrait » l’allonger de deux calibres dans sa parlie intérieure, et le lerminer de ce còté suivant » un profil d'épaisseur graduellement décroissant. On parviendrait sans nul doute è » augmenter très-nolablement la résistance de ces grosses bouches à feu rayées en » recourant aux moyens suivanls: « Prolonger le bandage ....... lui faire affecter une forme conique légèrement » effilée vers la culasse à l’inclinaison de ‘|;;, par exemple, de manière à former éerou » sur la pièce, ....... de sorte qu'il soit capable d’opposer positivement un peu » de résistance à l’effort longitudinal, ....... et encore que le canon en fonte soit » coulé à noyau creux, et que la rayure soit à inclinaison constante...... ». Les deux conclusions, auxquelles le Général GiLmorE parvient dans son rapport (voir è la page 94 de la 33° livraison du méme journal), sont que: « Dans ces 30 » dernières années il y a eu des tentatives sans nombre, et dont aucune n’a réussi, » pour fabriquer en fer forgé de bons canons de gros calibre ....... » Puis è la page 96 il est dit que: « L’expérience de cette dernière guerre, aussi bien que les » essais récenls, tant en Amérique qu’en Europe, a conslalé que jusqu'ici il n'a encore » été produit, nì mis en service aucun canon de gros calibre possédant des qualités suffisuntes » de durée pour subir avec certitude 800, ou méme seulement 500 coups tirés à la » charge réglementaire du '/, du poids du boulet sphérique, le projectile oblong cor- » respondant étant de 9 à 10 fois le poids de cette charge. Ce quil faut pour le D iServicers tl. 1000 coups.....». Leur prix (des canons de M. Ames en fer forgé) » revient de 10 franes environ pour kilogramme (1860), et devrait étre. considéré » comme une objection insurmontable è son adoption générale dans l’armée ». Il faut bien que la production des différentes manières des canons et des métaux employés, soit dans cet état, puisque, par exemple, la Russie, après de considérables dépenses dans toules sortes de canons de fer et d’acier, vient aussi de faire couler simplement en fonte par la méthode Ropwan un canon de 15 pouces, qui, dans un premier essai a bien soutenu Je tir de 500 coups è la charge de '/,,,; du poids du projectile sphérique pesant 200 kilogrammes (voir è la page 375 du journal susdit, méme livraison 53°), charge suffisanie, comme nous avons démontré, pour produire le maximum d'effet. 136 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. x Cependant dans la réplique de M. ParrotT è cet extrait de notes et propositions du Général Girwore on lit è la page 675: « 1° Je crois que, si nous prenons en » considération les précaulions dont l’expérience a démontré l’opportunité dans le » service des bouches à feu rayées, l’effet de l’explosion prématurée des obus, et » l’exposition des canons à des sables soufflées par le vent, il ne restera que des » objections de peu de poids contre la preuve si généralement acquise en faveur de » la sécurité des canons eux-mèmes ». 11 résulte de l'ensemble de ces citations, que parmi les causes du peu de durée, ou dela rupture des canons, on a pu écarter celle due à l’explosion des projectiles dans l'àme; celle provenant de l’emploi des charges de poudre solidifiée, improprement dite comprimée, qu’on a abandonnées. On pourrait également écarter celles dues aux grandes charges de poudre relativement aux poids du projeclile, ainsi que celle, qu'on n'a pas généralement assez d’égard pour laisser un espace suffisant derrière le projectile dans l’ime du canon pour la charge de poudre, surtout lorsqu’on supprime toute sorte de bouchons ou valet; puisque alors les conséquences deviennent toujours plus fàcheuses avec l’accroissement des charges et du calibre. Il ne faut pas que la tension des gaz de la poudre embrasée s'élève trop, outre l’élévation qui a lieu lorsque cet espace est au moins égal au double du volume de Ja gargousse contenant la poudre qu'il faut réduire en diamètre, en lui laissant une longueur égale audit espace. La tension maximum du gaz est alors encore suffisante, par son impulsion croissante, et puis par celle décroissante due à sa detente, à faire acquérir la vilesse voulue au projectile parvenu à la bouche du canon. Outre ces causes du peu de durée ou de la rupture des canons, il y en a une autre qui peut devenir très-puissante, particulièrement dans les canons rayés. C'est lorsque la course du projectile dans l’ùme n'est pas assez libre àè cause du forcement au commencement de son départ, ou des forcements survenant dans la suite, quoiqu'ils ne soient pas toujours suffisants pour coincer le projectile. Gar ces causes font élever énormément la tension des gaz au delà du maximum qui aurait lieu lorsque aucun empéchement ne retarde son départ et son mouvement dans l’àme. Ces excès de ten- sion sont comparables à ceux provenant des poudres trop vives, dites brisantes; nous avons pu déduire d’une manière positive et directement des vitesses trouvées expé- rimentalement en Belgique en 1854-55, et en Piémont en 1856-57 du projectile à différentes distances du fond de l’àme, que la tension maximum des gaz, en tirant des boulets sphériques de 12 è la charge du tiers, est de 3734 almosphères pour la poudre è canon fabriquée au pilon de la manière ordinaire, employée alors en Piémont; tandis que pour celle employée en Belgique, faite avec le nouveau procédé de la fabrique de Vatterau, cette tension résulte de 24022 atmosphères; ce qui fut la cause, d’ailleurs constatée par des expériences directes et comparatives, des écla- tements surprenants survenus à leurs bouches à feu depuis l’introduction dans le service de cette poudre, qui ne donne point plus de vitesse au projeclile è sa sorlie du canon. Or ces différences de tensions maximum et de celles plus fortes encore, peuvent ètre causées par un forcement artificiel ou fortuit, capable cependant de ne coincer PAR J. CAVALLI. 197 qu'instantanément le projectile. Ces cas arrivent lorsque c’est par la forme des rayures qu'on cherche à centrer le projectile, comme dans la rayure de l’arlillerie de terre en France; ou lorsque c'est avec l’espansion d’anneaux ou de sabols d'un métal assez ductile annexé au projectiles qu'on obtient leur centrage le plus parfait, mais aux dépens de la durée et au risque de faire crever la bouche à feu, comme il arrive à celles du système PaRROTT. Le forcement è l’objet de centrer le projectile, peut bien étre employé, lorsque, par la nature du syslème choisi, il peut étre sùrement limité ou contenu dans des limites d’efforts encore inoffensifs pour la bouche è feu, tels que ceux qui ont lieu dans la rayure shaut des canons ArmsTRONG, se chargeant par la bouche. Mais comme nous l’avons toujours soutenu, le forcement du projectile soit directement, soit indi- rectement, n’est pas nécessaire. On peut rejoindre également la plus grande justesse de tir qui soit possible è la guerre, en réduisant le vent au minimum sur trois ou quatre points de chaque extrémité du projectile, en les éloignant le plus possible du centre de gravité, en poussant surtout ceux du devant jusque sur la partie ogivale du projectile. Alors on pourra réduire aussi le nombre des ailettes et les faire d'un seul jet avec le projectile, et raboter les còtés directeurs, et, sil est nécessaire, les recouvrir d’une mince couche d’un métal plus mou, de sorte que tout en pourvoyant à la con- servation des còtés directeurs des rayures, il ne soit pas nécessaire d’augmenter les soins usuels qu’on a pour les autres projectiles sphériques. La complication de toutes ces questions est telle, que, malgré l’expérience sécu- laire, les artilleurs sont loin de s'accorder sur de bien anciennes questions, et moins encore sur les nouvelles survenues avec les canons rayés. Les conditions de résistance des bouches à feu et leur frettage sont des questions qu’on ne peut espérer de résoudre qu’avec le concours d’une théorie mathématique aussi simple que rationnelle. Quoique je me propose de publier un essai de cette théorie dans un prochain Mémoire, je crois pouvoir poser ici la question théorique de la résistance vive des bouches à feu d’artillerie, comme il suit. L'explosion de la charge dans la partie cylindrique d’un canon aura pour effet l'expansion des parois internes, c’est-à-dire, la compression dans le sens du rayon du dedans au dehors, l’allongement suivant la circonférence, ainsi que suivant l’axe du cylindre. Pendant la durée de la percussion des gaz de la poudre embrasge contre les parois cylindriques internes, la propagation du mouvement, dans l’épaisseur de ces parois du canon, aura lieu d'une manière décroissante de l’intérieur à V’extérieur, en produisant la compression et l’extension susdite de ces parois. Or il faut d’abord distinguer le cas, où l’extension de la première couche de la paroi intérieure sera poussée jusqu'à la limite de stabilité ou de rupture, tandis que la propagation du mouvement d’agran- dissement, et non-seulement vibratoire, parviendra tout juste à la surface extérieure du canon, où ce mouvement d’agrandissement s'éteindrait. La théorie dans ce cas nous fournit l’expression explicite de la valeur du rapport du diamètre extérieur au diamètre intérieur du cylindre creux, pour chaque sorte de métal du canon, en fonction des coefficients mécaniques de chaque métal; car. ce Serie II. Tom. XXIV. S 138 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. rapport esì simplement égal à la base des logarithmes supérieurs élevée è une puis- sance égale au rapport de l’allongement au raccourcissement d’un cylindre de ce méta} aux limites susdites, augmenté de '/, pour */, à cause de l’extension cubique du métal comprimé à l’intérieur du canon, et Pautre ‘/, pour tenir compte de sa ductilité. Dans le cas précité, si le temps écoulé depuis le commencement de l’embrasement de la charge de poudre jusqu'à l’instant du maximum de tension des gaz, est moindre que le temps nécessaire è la propagalion dudit mouvement d’agrandissement intérieur jusqu'è la surface exlérieure, la paroi inlérieure serait entamée ou brisée suivant que l'on considère la limile de stabilité ou celle de rupture; et c'est pour cette dernière limite de rupture que la poudre est alors appelée brisante. Une épaisseur de métal excédant la susdite limite où parviendrait le mouvement d'agrandissement, causé par l’explosion de la charge, sans endommager le canon, lors- qu'elle serait nécessaire pour contenir la force expansive des gaz, n’augmenterait pas dans ce sens du rayon la résistance de la bouche è feu avant le commencement de l’altération ou de la rupture è l’intérieur; mais après elle en retarderait l’éclatement. Lorsque l’épaisseur du métal du canon autour de la charge serait égale ou moindre que celle où pourrait parvenir la propagation du mouvement dans les conditions susdites, et cependant serait suffisante pour contenir l’effort de la poudre embrasée, la théorie nous fournit l’équation de relation entre les diverses quantités du problème, ou en fonction des coefficients mécaniques du métal et de la vitesse que le projectile aura acquise, lorsque les gaz enflammés seroni parvenus à leur masimum de tension; de ladite équation on déduit la valeur numérique de celte épaisseur, ou de celle du diamètre exlérieur, étant donné le diamètre iplérieur du cylindre creux contenant la charge. En decà de celle autre limite de l’épaisseur, l’altération de la stabilité où la rupiure s'ensuivrait d’abord è la surface extérieure, et successivement jusqu'à célle intérieure, toutes les fois que cette épaisseur ne serait pas suffisante pour retenir l’expansion de la charge de poudre embrasée, et que le temps nécessaire aux gaz pour parvenir è leur maximum de tension, sera supérieur à celui que mettrait la propagation du mouvement à traverser cette méme épaisseur. Outre les deux cas précédents, il y a celui où la rupture commencerait dans le mème temps pour toute l’épaisseur. L’épaisseur du canon pourrait ètre composée de deux parlies de différent métal, lune superposée è l’autre, comme si ces deux parties n'en faisaient qu'une d’une seule pièce. Alors ces parties suivront les mèmes lois susdites, avec la seule variante, qu'il faudrait tenir compte des coefficients mécaniques propres des métaux de chaque partie de l’épaisseur totale. Si un canon frelté avait déjà avant le freltage une épaisseur égale, ou excédant l’épaisseur à laquelle peut parvenir le mouvement d’agrandissement dans les conditions susdites, celte addition du frettage n’ajoutera aucune nouvelle force au canon avant le commencement de la rupture à l'intérieur, et ne pourra en retarder que de peu l’éclatement; son unique bon effet se réduisant alors è contenir les débris. Mais, il PAR J. CAVALLI. 139 est bien évidemment préférable de faire les canons et de les tirer dans des conditions où ils ne soient pas sujets è éclater, pas mème è l’intérieur, que de les fretter pour en empécher les effets meurtriers; ainsi dans les. circonstances susdites. d’épaisseur, le frellage est au moins surperflu. Si au contraire les canons qu’on voudra fretter, ont des épaisseurs inférieures è la limite jusqu’è laquelle peut parvenir le mouvement d’agrandissement instantané dans les conditions susdites, dans ce seul cas le frettage pourra ajouter de la résistance è ces canons, en leur accroissant l’épaisseur totale jusqu’au moins à ladite limite. Lorsque le frettage est placé è chaud, pour qu'àè la suite du refroidissement il serre la partie centrale méme jusqu'è réduire le diamètre du creux intérieur, en lais- sant en tension le freltage, état qui ne pourra en tout cas se conserver, l’épaisseur totale restera comprimée, et la partie de la force vive qui aurait élé épuisée è produire cette compression ira en déduction de celle que l’épaisseur totale pourrait opposer à la force vive de la poudre embrasée, si elle n’avait pas été préalablement comprimée. De méme, les frettes en tension ne pourront plus opposer, dans le sens de la circonférence, que la partie restante de leur force vive, et celle que peut opposer dans ce sens la partie centrale du canon, ne concourra qu’après que la force rétré- cissante pour tout le temps qu'elle subsisle, aura été rejointe. Ce n’est done que pour les canons d’une épaisseur Irès-mince, que par le freltage on pourra en augmenter la résistance, en limitant l’allongement des parois selon la circonférence; mais seule- ment autant que pourra se conserver l’énergie dans le bandage et la réaction expansive du métal centrale; car la fatigue et les allernatives dues aux changements continuels de la température, et la différence de dilatation des métaux des deux parties, ce sont des causes inévitables qui épuisent successivement tcus les ressorts des solides qui ne sont pas maintenus dans un état de repos naturel. Maintenant, si dans ce cas d'une grande réduction de l’épaisseur de la partie en fonte d’un canon fretté en acier, sa rupture l’intérieur longitudinale peut étre retardée, au contraire; par cette grande réduction, on accélérerait la rupture transversale. Si pour ne pas compromettre cette résistance transversale on ne réduit pas considéra- blement l’épaisseur en fonte, c'est la résistance longitudinale qu'on n’augmente pas assez avec le frettage. C'est une alternative fàcheuse qui a pu tromper dans divers temps et lieux les arlilleurs, par ce moyen séduisant de faire des bouches è feu d’une plus grande résistance que celles failes simplement d’un seul jet en fonte. Du reste, puisque les charges relativement petiles par rapport aux projecliles sont suffisantes pour obtenir les plus grands effets du tir; puisqu’on peut par la qualité de la poudre, et surtout en laissant assez d’espace è la charge derrière le projectile, réduire considérablement la tension maximum des gaz enflammés, sans réduire la vitesse initiale du projectile au sorlir du canon; avec l’application de ces deux plus efficaces et plus simples moyens, je ne répéterai jamais assez que la bonne fonte de fer est encore aujourd’hui le meilleur et le plus convenable métal è canon, surtout qu'elle est la seule faconnée en canons capable de soultenir la percussion toujours oblique des projectiles ennemis. 140 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. Puisque enfin l’expérience a prouvé que dans les canons de bonne fonte de fer, l'agrandissement méme élastique, causé par la force expansive des gaz de la poudre embrasée, ne parvient pas du dedans jusqu'à la surface exlérieure, il était évident que le frettage ne pouvait accroître la résistance de ces canons, ni empécher que l’alté- ration et la rupture commencassent è l'intérieur; car ils ne commencent de l’extérieur que pour les canons de bronze, comme le prouvent d’accord la théorie et l’expérience. Ainsi l’unique avantage qu'on oblient du frettage des canons en fonte de fer se réduit à diminuer les effets meurtriers de l’éclatement, objet. assurément de la plus haute importance; mais justement pour cela il vaut bien mieux rejoindre ce but plus am- plement en adoptant des bouches à feu capables de produire le maximum d’effet par les moyens susdils, en éloignant alors toute crainte d’éclatement, surlout si l’on suivra pour les gros canons le système de coulage RoDmAN. Parmi les canons composés de deux différents métaux, outre ceux en fonte de fer frettés è l’exlérieur, on a essayé de renforcer aussi ceux en fonte de fer par l’ad- dition intérieure d’un tuyau frelté en fer forgé ou en acier, ou en fer homogène (fonte de fer très-raffinée) comme dans les canons Parsons, où ce tuyau est lui mème cerelé (1). D'après la discussion qu'on vient de faire, où l’on a vu que l’analyse et l’expérience prouvent que la rupture des canons en fonte de fer commence è l’intérieur, il est évident que par cet autre moyen de les renforcer è l’intérieur, plus rationnel que celui du freltage extérieur, on prolongerait effectivement la durée de ces canons en fonte existanis en les transformant en canons rayés. Car, ayant substitué à la fonte de fer des parois de l’àme, un métal beaucoup plus extensible, quoique plus com- pressible, la résistance vive, surlout à l’intérieur où commencerait la rupture de ces canons, pourrait augmenter plus encore que ne le comporte l’aceroissement du rapport de l’extension è Ja compression du métal de ce tuyau; pour lequel la valeur de ce rapport, déjà plus grand que celui de la fonte de fer, doit encore étre acerue en raison (1) A Ja page 627 de la Revue maritime et coloniale, 54° livraison, 1865, on lit dans le Zizes du 6 juin: « Nous apprenons qu’un canon PARSONS, récemment essayé à Gavre, a donné des preuves » extraordinaires de resistance et de durée ...... » Dans le Zimes du 13 juin: « On disait lundi » à Woolwich que le système de M. PAaRSONS pour renforcer les anciens canons en fonte de fer, » par l’insertion d’un tube en metal homogène, a recu la sanction du gouvernement, et qu'on est » dispose à remettre entre les mains de l’inventeur quelques-uns des canons de nos énormes appro- » visionnements pour les renforcer, Le système de PARSONS est quelque peu semblable à celui du » Major PALLIZER qui a été essayé, il y a déjà quelque temps, en partie avec succès à Woolwich. » La meéthode de M. Parsons, qui vient d’ètre essayée avec le succès le plus complet, ainsi que » nous l’avons rapporté dans le 7imes du 6 courant, consiste à forer la culasse de la pièce, à y » introduire et y ajouter un tube qui est fixé en place par le bouchon de la culasse. Dans le canon » de 68 en fonte de fer, le tube intérieur est frelté par des cercles de fer posés à chaud, et exercant » un serrage par le relrait, ou vissés, puis tournés aux dimensions convenables. Le tube lui-mème » est un bouchon de culasse particulier qui a pour objet d’empècher les gaz de l’explosion de » passer oulre l’extrémité du tube et la vis de la culasse. Le prix de transformation des anciens » canons, d’après cette mélhode, est, dit-on, très-peu élevé, et l’économie qui en résulte pour le » pays est immense ». PAR J. CAVALLI. I/I de ce que la plus grande partie extérieure de l'épaisseur du canon reste en fonte; ce qui empéchera un trop grand agrandissement de l’àme, auquel la plus grande com- pressibilité du métal du tuyau pourrait donner lieu, comme l’expérience le prouve dans les canons Parsons. Ainsi c'est par le renforcement intérieur des canons en fonte de fer, qu'on aurait obtenu, comme les heureux essais des canons Parsons semblent le prouver, des canons rayés assez durables dans les tirs è grande charge; mais comme les grandes charges ne sont pas nécessaires pour produire le plus grand effet, la préférence devrait rester encore aux canons simplement coulés en bonne fonte de fer, quoiqu'elle leur soit refusée pour des causes qu'on attribue erronément àè un défaut de ce metal, peut-ètre aussi parce qu'il est de tous les métaux le moins cher et le moins apprécie. Pour prouver qu'on est en Europe hors de voie dans les recherches entreprises à grands frais des plus puissants canons, on rapporte les passages suivantis. Sur cette mème question pour l’artillerie navale M. Baite concluait ainsi devant la Chambre anglaise des Communes de 1865: « Je crois avoir démontré que, pendant les cinq » dernières années, le service de l’artillerie, disposant des grands établissements na- » tionaux, a été incapable de produire des canons ayant les qualités requises » (voir à la page 264 de la 58° livraison de la Revue maritime et coloniale, 1865). Età la page 266 le méme orateur disait: « Je viens de démontrer que nous n’avons pas actuellement » sur notre flolte un canon capable de percer des plaques......» A la page 267: « Arrivons-en à la marine francaise. Comme toutes les autres marines européennes » elle est, je erois, inférieure à celle des américains pour les canons....... » A la page 268: « Passons maintenant è la marine russe....... Aussitòt que le gouver- » nemenl russe eut décidé la construction d’une flotte cuirassée, le service de l’artillerie » à St-Pétersbourg a présenté è l’empereur un rapport où il est dit que: l’emploi » des bàtiments cuirassés en Amérique a démontré l’absolue nécessité d’avoir des canons » de très-gros calibre, et que leur succès contre les vaisseaux cuirassés dépend de » l'emploi de très-forles charges » (les charges pour les canons rayés en Amérique ne sont que de ‘/, à ‘/,,, et non de ‘/, comme en Europe, et nous avons démontré qu'on peut les réduire jusqu'à '/,, sans diminuer le plus grand effet). Sir John Hay, président de la commission, disait en outre à la page 269: « On a » donc limité les fabricants, sous le rapport du poids, pendant qu’on avait en vue des » résultats impossibles è obtenir avec des canons légers. Ropins, notre ancienne autorité » en malière d’artillerie, avait établi comme règle, qu'il ne faut pas que le poids » de la pièce soit moindre que 150 fois celui de son projectile ....». À la page 270 il poursuivait en disant, que «l’Amirauté demandait donc un canon avec projectile » de masse limitée, de facon è ce qu'on puùt le servir avec facilité comme canon » de bordée », et contre cette opinion routinière il répliquait: « Il me semble quil » faut aujourd’hui mettre de còté le principe des canons de bordée. Si nous entendons » lutter è la mer avec les autres puissances, il faut renoncer è toutes les règles qui » auraient pour résultat de nous faire présenter en combat avec des bouches è feu » manquant de l’inertie nécessaire pour répondre è l’objet que nous nous proposons. » Jai eu l’honneur d’étre président de la Commission des plaques; je prendrai la liberté 142 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » de vous lire le résultat de nos recherches sur ce sujet. La Commission ne saurait » terminer son rapport sans rappeler une question d'une importance urgente, et sur » laquelle, en plus d’une occasion, elle a appelé l’attention de Leurs Seigneuries. C’est » la nécessilé de nous procurer, sans nouveau délai, des canons à grande puissance, » qui soient capables d’endommager efficacement les vaisseaux cuirassés de fer, el, » en ontre, d’approvisionner ces pièces d’une grande proportion de projectiles massifs » en acier et en obus. Pour ce qui est de la puissance dont doivent étre doués les » canons à fabriquer, il a été reconnu, d’après des expériences nombreuses el con- » cluantes contre des massifs revètus de plaques en fer, qu'il ne faut rien moins » qu’une bouche è feu du poids de 12 tonnes, et capable de résister àè une charge » de 45 livres (20%, 4), pour altaquer avec succès une construction cuirassée, telle » que le Warrior. Un approvisionnement suffisant de canons, possédant au moins cette » puissance, est donc impérieusement nécessaire ..... Le rapport de la Commission » des plaques en fer a donc démontré, que des canons du poids de 12 tonnes sont » les moins gros qu'il faille pour l’armement de nos vaisseaux de guerre .....» A ces cilations il est juste d’ajouter celle opposée dans la mème séance par le marquis de HarLINGTON, sous-secrétaire de la guerre, qui concourt è bien établir l’état de la présente question des canons nouveaux. Il est dit è la page 277: « Je sais, » que les officiers de la marine francaise sont encore moins satisfaits de leur artillerie | » que nos officiers ne le sont de nos canons........ On sait que deux des canons » Krupp ont éclaté ..... L’acier peut étre une matière d’une rare excellence, par- » faitement propre, à tous égards, è la fabricalion des canons; mais il faut en mème » temps ne pas oublier qu'en ce qui est des chances d’explosion, c'est un métal » très-perfide ». Nous ajouterons, tant qu'il est nécessaire de le forger en grandes masses, dont en France, aujourd’hui, on essaie déjà celles de 16 tonnes, et en Angleterre de 22 tonnes. i NOTE III Sur les Monitors Américains. Le Contre-Amiral PortER, dans un rapport envoyé de Willminghstown le 15 janvier 1865, disait (v. la page 579 de la Revue maritime et coloniale, 8A° livraison): «Ma récente » expérience des bàtiments de la classe des Monitors naviguant par un gros temps, » ou soumis au feu, me justifiera, je l’espère, de vous: adresser un rapport spécial » sur la matière. Je sens combien il imporle au gouvernement d’ètre exaclement » renseigné au sujet des bàtiments de cette classe, sur lesquels tant d’opinions diffé- » renles ont été émises, et dont nous avons fort grand nombre en construction. Mon » expérience est faite sur le Manaduck (armé de 4 canons, ayant 1554 tonnes de » déplacement), le Sangus, le Malapack et le Canoniens (armé de 2 canons, ayant » {034 tonnes de déplacement) ..... Je reconnus qu'ils supportaient mieux le temps » et marchaient plus aisément qu’'aucun des autres bàtiments de la flotte. ... Quant PAR J. CAVALLI. 143 » au Manaduck, il pourrait supporter une tempéte sur les aneres dans l’Océan AUan- DEU QUE Rene ». A la page 582: «il est capable de traverser seul l’Océan (pourvu » que ses compas soient réglés comme il faut), il pourrait détruire tout bàliment » existant de la marine anglaise ou francaise, mettre à contribution les ports de ces » pays, et revenir chez nous (pourvu qu'il eùt renouvelé son approvisionnement de » charbon) sans crainte d’ètre suivi. Certainement il pourrait débarrasser tout port » de notre còte des bàtiments de blocus dans le cas où nous serions en guerre avec » une puissance élrangère. Forls et épais comme sont les flancs de ce bàtiment, ils » n’ont conservé sur leurs cuirasses de fer l’impression que d’un seul boulet du fort » Fisher; toutefois il n’a fait aucun mal appréciable....... Les bàtiments se sont » tenus pendant 5 jours sous le feu du fort Fisher, mouillés à moins de 800 yards, » (722 mèlres) de distance, et quoîqu’ils aient été exposés è un feu terrible, ils n’ont » été que rarement atteints, et n’ont recu aucun mal, sauf que leurs embarcations » et les matières légères sur les ponts ont été entièrement réduites en pièces ..... » Je ne sais pas encore quelle est, ou quelle serait Ja durée réelle de ces bàliments » en présence d’un feù conlinu dirigé contre leurs tourelles. Des boulets massifs de » onze pouces (28 cent.), ou ces projectiles oblongs des canons rayés de 200, sont » capables de les rompre quelquefois lorsqu'’ils les frappent, et, pour ma satisfaction » personnelle, j’aimerais beaucoup mieux étre derrière des remparts en bois, et prendre » ce qui arriverait, que d’ètre renfermé dans une tourelle en fer, ne sachant pas si elle » est d'une construction convenable. Ceci néanmoins n'est qu'un préjugé de marin, » et ne saurait avoir d’autre poids. Les commandants des Monitors semblent se trouver » tout à fait chez soi à bord, et avoir toute sécurité; ils n’appréhendent pas plus de » danger è la mer que sur toute autre espèce de bàtiments. Tout bàtiment cuirassé » devrait étre un bélier complet, » dit-il, et puis il ajoute è la page 578: « Le Warrior » lui-méme, bien que ce soit un navire de grande dimension et d’une force énorme, » serait écrasé par un coup de belier du Dictator, comme s'il n’était autre chose qu’un » ceuf immense. Il\pourrait méme étre brisé jusqu'à destruction par le choc d’un » navire dont le mouvement serait de beaucoup inférieur à celui du Dictator . .... » Ces déductions pratiques sont parfaitement d’accord avec celles que j'ai tirées de la théorie (voir le n° 48 de notre Mémoire sur la Théorie de la resistance statique et dynamique des solides). Le Contre-amiral précité, poursuivant l’exposition des résultats de son expérience acquise è la guerre, dit à la page 601: « Je regarde la tour comme décidément pré- férable ...... » è l’exception, dit-il è la page 604, « pour les petits béliers destinés » simplement è la défense des ports; il serait préférable qu'ils n’eussent point de » canons. Ils doivent ètre eux-mémes leurs propres projectiles, et la vapeur doit ètre » la poudre ». On lit à la page 613 l’opinion de l’Amiral DanLGREN sur les Monitors: « Les conséquences du feu prolongé et du service pénible et continu,: auxquels les » Monitors ont été soumis pendant deux mois, ont élé naturellement très-considérables, » et d’autant plus grandes, que toutes les réparations dont on pouvait se dispenser, » furent ajournées jusqu’à la fin des opéralions. Le nombre des coups recus a été 144 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » sans précédents. Le Montouk a été touché 214 fois; le Wechawken 187 fois, et » presque toujours par des boulets de 10 pouces (25%, 4). Quels navires ont jamais » élé exposés à de semblables épreuves? » Enfin tout récemment aussi en Angleterre on commence à estimer è leur juste valeur les navires à tourelles, d’abord proposés par le Capitaine CoLes, qui, comme les Monitors, en se perfeclionnant, vont se rapprochant d’un méme type, puisque le secrétaire de l’Amirauté, Lord CrareNcE PaceT, dans la séance du 6 mars de la Chambre des Communes disait (voir è la page 698): « Enfin il est heureux de pouvoir dire que » le navire transformé, le Royal Sovereign, pour faire plutòt l’essai du syslème, sous le » rapport des tourelles, eut un grand succès, et c'est pour cela que l’Amirauté veut » maintenant avoir un navire è tourelles pour la grande navigation ». Et à la page 702: « M. SrranreLp dit qu'il faut que le navire soit l’affùt flottant le mieux dessiné, le plus » capable de tenir la mer qu'il soit possible pour un ou plusieurs canons de 22 /'/; » tonnes ». La méme Revue, à la page 628 de la 55° livraison, sur les expériences du Royal Sovereign rapporte (du Times): « qu'on a essayé les canons è projectiles massifs, è » obus et è mitraille, à charges complètes et à charges réduites, et 290 coups ont » pu étre tirés sans aucun accident personnel ni matériel ...... Sans entrer dans la » grande question des navires à tourelles et de ceux à bordées, nous nous conten- » terons de dire que, d’après les essais fails par le Capitaine Key sur le Royal So- » vereign, les résultats sont très-favorables, et qu’il y a toute raison de présumer , » qu'on ne rencontrera nulle difficulté pour la maneuvre des pièces du poids de 40 » ou de 50 tonnes sur plate-forme tournant dans une tourelle, et qu'on l’effectuera » avec autant de certitude el de sécurité que celle des canons de 12 tonnes dès à présent. » Quoi qu'il arrive, d’ailleurs, il est certain que quel que soit le poids du canon qui » soit capable de porter la bordée d’un vaisseau, on peut tripler ce poids dans une » tourelle. Mais qu'un vaisseau construit pour eroiser dans l’Océan doive porter son » armement uniquement dans des tourelles, ou partie dans des tourelles et partie » dans les flanes, ou sur les flancs seulement; c'est Zà un sujet toujours owvert à la » discussion ». Cependant, de notre part, nous maintenons les conclusions prises. En France encore on en vient aux Monitors; tout récemment le 4 juin a été tancé le bélier cuirassé le Taureau. Il est dit è la page 837 de la livraison du journal susdit: « Le Taureau » est destiné è agir plutòt par le choc de son éperon contre la carène d’un navire » ennemi, que par l’effet de son artillerie; cependant il doit porter aussi dans une » tour cuirassée une puissante pièce de canon du plus fort calibre, que l’expérience » et les études en cours indiqueront comme possible ». pi (©, PAR J. CAVALLI. Li Addition a la Note INI Les extraits suivants démontreront à quel état est parvenue la grande question entre les navires à tourelles, les monitors américains et les autres navires cuirassés. On lit à la page 422 de la Revue maritime et coloniale, 62° livraison: « Les essais » qui. vont avoir lieu è bord du Minotaw» (frégate anglaise en fer de 6621 tonneaux » de la force de 1250 chevaux) sont de la plus haute importance. Si nos bàtiments » cuirassés peuvent, à l’aide des dispositions mécaniques d’affùts perfectionnés, porter » des canons de 12 tonnes comme artillerie de bordée, ils feront non-seulement ce » que les navires d’aucune autre puissance navale n’ont encore tenté de faire, mais » encore ce que les officiers les plus distingués de la marine américaine viennent, » comme résultat de leur récente expérience, de déclarer complétement impraticable. « Notre propre opinion sur ce sujet a été très-bien exprimée par le capitaine Key » dans son rapport officiel è l’Amirauté, lors des essais exécutés par lui dans les » eaux tranquilles, à bord du Royal-Sovereign, dont les tourelles étaient armées de » canons de 12 tonnes: » ce rapport est daté du 14 juin 1865. Le capitaine Key dit -à la page 3 de son rapport: « Il n’exisle aucune raison pratique pour laquelle un » lourd canon ne pourrait étre manoeuvré comme canon de bordée, avec la méme » sécurité que dans une tourelle, et je suis convaincu qu'il ne saurait y avoir aucune » difference è cet égard. »..... L’amiral américain, sans doute, entend « qu'il faut que le canon soit en état de » combattre dans les conditions les plus extrémes de gros temps et de roulis du » navire. A moins que le Minotaur ne soit soumis è ces conditions pendant ses essais » de nouveaux affiits en fer, sa croisière deviendrait inutile; et l’opinion américaine, » au fond, devrait èlre reconnue exacte ». On peut bien ajouler d’avance qu'au fond les bouches è feu, étant toujours plus élevées sur l’eau dans les tourelles que dans les batteries de bord, les premières pourront encore faire feu quand Ja grosse mer obligera è fermer les sabords des autres. Tel est aussi l’avis qu'on trouve dans la 60° livraison 1868 du méme journal, dans les conclusions du rapport d’une commission spéciale, page 862, t. XV. Mais c’est surtout contre les Monitors que l’on-dira: è quoi bon que leurs énormes canons puissent tirer du haut de la tourelle, si ces navires ne peuvent tenir la grosse mer sans risquer à tous moments de sombrer! Contre cette opinion, outre les raisons développées dans le texte, nous rencontrons fort à propos l’appui de l'expérience recente rapportée à la page 427 de la mème 62° livraison du journal susdit, où on lit que l’Army and Navy Journal de New-York a recu d’un officier, qui fait partie de l’état-major du monitor Monadrock, une lettre à laquelle nous empruntons les passages suivanis: « Nous sommes arrivés àè Saint-Thomas le 11 novembre..... Notre vovage depuis » la baie d’Hampton a fourni une nouvelle preuve des qualités nautiques du monitor. Serie II. Tom. XXIV. T 146 RECHERCHE DE LA PLUS PUISSANTE ARTILLERIE, ETC. » Il a démontré qu’un bàtiment élevé seulement de quelques pouces au-dessus de » l'eau, sans baslingages, mais dont toutes les ouvertures, sur le pont, sont bien » fermées, est de tous les navires celui qui peut le mieux supporter une grosse mer sans avaries. ....A 41 heure du matin, le 5, un accident étant survenu (à la suite » d’un fort coup de vent) è notre gouvernail, nous mîmes en panne pour le réparer. » Celle circonstance nous donna une occasion excellente pour prouver de nouveau » les bonnes qualités nauliques du navire. Je peux vraiment le dire, il n’existe pas » de meilleur navire de mer. Tout le temps que nous restàmes en panne, les roulis » étaient si doux, qu'on les ressentait è peine en bas. Pendant ce temps, la belle » corvelte Tuscarora roulait tellement qu'elle embarqua des paquets de mer qui étei- » gnirent ses feux. Ce navire nous quitta et nous ne le revimes plus qu'àè Saint-Thomas. » Les autres bàliments de la division crurent que nous avions sombré, mais le Mo- » nadnock soutint la tourmente mieux qu’aucun d’eux. Cette épreuve a été des plus » complètes. Le navire se comporle admirablement bien, ne fatigue nullement, et » l’eau s'écoule facilement de ses ponts. Avec une pression de 20 livres de vapeur, » nous faisons en moyenne 60 tours de machine et 9 milles à l’heure. Avec une forte » mer, nous n’avons jamais fait moins de 3 milles avec 40 tours de machine seule- » ment. Nous sommes tous persuadés que nous accomplirons notre voyage sains et » saufs..... Nous partons d’ici le 20 novembre pour Cayenne », où ils ont relàché du 27 au 30 novembre. NOTE IV. On a vu que la ténacilé de la fonte de fer a surpassé celle du bronze donnée par les auteurs de 23 kilogr., à l’exception de celle de la Table A de notre Mémoire de 1863, où elle est résultée de 42 kilogr. par millimètre carré. La cause de cette grande différence est dans la nature de ce métal mou et très-ductile, aussi bien que dans la manière de l’essai des barreaux è la flexion, moyennant la machine qu'on a employée où les conséquences de ces qualités ont été dévoilées. Des qu'on a constaté l’existence de la limite de stabilité au lieu de celle soi-disant d’élasticité , Ja conséquence naturelle qui s'en suivait était que, dès que cette limite de stabilité serait franchie, la rupture aurait également lieu avec le temps pour toutes les charges successives, sous lesquelles le barreau en essai fléchissait pendant des temps égaux de courte durée, après lesquels on l’arrétait. Si l'on avait voulu avoir les temps nécessaires. pour arriver chaque fois à la rupture, il aurait fallu opérer pour chaque charge sur un nouveau barreau, et il aurait fallu des temps d’abord infiniment longs, se raccourcissant ensuite de plus en plus avec l’accroissement des charges; recherche qui n’inléressait pas la question de la résistance aux impulsions de courte durée. Le bronze est un métal qui fléchit de plus en plus, et toujours plus rapidement avec l’accroissement des charges; mais qui ne se casse pas tout à coup comme les mélaux durs; conséquemment il donne lieu à une certaine latitude dans la détermination PAR J. CAVALLI. 1/7 de sa limite de rupture. Si au lieu de prendre la charge de 874 lilogr. du barreau (voir ladile Table A) pour celle de rupture, on avait pris celle de 556 kilogr., on aurait trouvé justement la ténacité généralement admise des 23 kilogr. susdits; charge qui est déjà bien supérieure è 305 kilogr., celle trouvée pour la limite de stabilite. Done cette ténacité du bronze de 23 kilogr. obtenue par l’essai direct longitudinal, qui ne donne pas lieu è autant de latitude que ledit essai è la flexion, est bien la ténacité à laquelle il faut s'en tenir en général. Mais lorsque l’impulsion qu'aura è soutenir le bronze est de courte durée, comparativement aux temps qu'il lui faut pour Mechir, la ténacité du bronze pourra étre prise bien supérieure è 23 kilogr., puisque les canons de ce métal soutiennent des efforts bien supérieurs à ceux qui ne com- porteraient pas la ténacité limitée è ces 23 kilogr. Done, si dans Ja comparaison de la résistance vive des canons en fonte de fer ‘avec ceux de bronze, on s’en tient à cet état de ruplure, pour laquelle les canons de bronze ne sont pas encore usés et sujets è se déformer considérablement de plus que ceux en fonte de fer, il faut alors retenir leur ténacité de 23 kilogr., et si l’on veut comparer la résistance vive des canons de ces deux métaux, justement à la limite de ruplure, lorsque les crevasses apparaissent è l’extérieur des canons de bronze, indice qu'ils sont près d’éclater aussi, c'est la ténacité de 42 et les autres coefficients relatifs à cette ténacité qu'il faudra prendre pour le bronze è canon. | Sous la charge du barreau d’essai de bronze précitée, de 856 kilogr. correspondant a la ténacité de 23 kilogr., la flexion était de 1,034 au lieu de 1,626 millimètres donnés dans la Table A; et aux ‘ vitesses d'impulsion de 18,327 et 80,361 mètres correspondraient celles de 11,638 et 19,301; et au lieu des valeurs moyennes de ces velocités 18,00 et 29,50 on aurait ces autres: 14,13 et 19,00. Dans les deux Tables A et 1 les valeurs des modules d’élasticité sont erronées, el il faut les remplacer, dans la Table A, celles : d’E par 10,750,000,000 et d’E, par 6,051,000,000. 3,138,000,000 6,596,000,000 5,962,000,000 1,026,000,000 1,218,000,000 Dans la Table B, celles d'E par "840,000,000 1,097,000,000 1,031,000,000 228,800,000 171,600,000 288,000,000 3,011,000,000. 5,550,000,000. 5,146,000,000. 9,887,000,000. 8,648,000,000. et d'E, par 1,093,400,000. 1,003,000,000. 1,0414,000,000. 318,000,000. 487,000,000. 406,200,000. INERODUCDIONESURGISETAMADENTANOUESTIONMITO RAI SOMMARE DU OMEMOIRE REI ATA TTT ART Cuap. I. Du choc normal des projectiles cylindriques contre les cuirassements, ORIETOMENE (CERN I AI VARA ea E NO E Cnap. II. De la resistance, du cuirassement composé de fer sur bois, du choix du metal et de la réception des plaques...............-..... CHap. II. Comparaison du choc direct et oblique des projectiles sphériques et CULMOTIQUESERRO ELIA BRR O Na di Cuap. IV. De l’influence des differentes matières des projectiles et des plaques . Caap. V. Des coefficients mécaniquesi des applications et déductions concernani' les cuirasses, des effets du choc des projectiles sphériques et cylindriques, et du concours de la cuirasse meme dans la construction du navire Cnap. VI. Détermination d'une série normale des poids des grosses bouches feu, et de leurs vitesses d'impulsion dans le tir .............. Caar. VII. Calcul et eramen des tables des données, et résultat du tir comparatif des differentes series des bouches à few ..................... Cnap. VIII. Les deux types de navires cuirasses ordinaires et Monitors; raisons pour et contre concernani l’artillerie, la tourelle, l’équipage et les conditions nautiques. Comment on peut avoir toutes ces conditions dans les navires du type Monitor modifié, le plus fortement cuirasse, -armé méme d'un seul des plus grands canons sous le moindre dé- DICOM EA MEO III SIA Caap. IX. Sur la fortification permanente et les trés-gros canons cuirassés . . .. Nore I. Aw chapitre WE II MODE ene Note «IlAnsichapitro MIVIRISS SRI IIIRRIA i pe Norte IM. Sur les Monitors américains, au chapitre VIII, $$ 33, 37....... Nona ING
  • n 200 È È DA 5) SZ0UUODLO SI) vd S207UISILSAL MOST IP_YPP27 2 SALIU UI SPZIUI SOSSOJIA, SI Mie Et Dayenz Faria sob: =. gere a = 7: eee ATER Ae e RAR TANO FIT PERI RARA RE I aa RA an EIA e oe a ai == +-+ -----------t--10ttm1-1011m10171 gg Isl IO 28 20 2% FE SL 4 LI 450 IH IC D44 Pig A. Lehelle le 44 è ea e FIDI ar o MA sa SE ETÀ 60 E E IVA gir ae e ce CZA 66 zo 68 sz 0 58 s6 9 82 80 Pr BATTERIE A CUIRASSER SUR UN FORTIN CASERNE VAR VA Echelle de aio Vir i LO Ide È VEZZALI ZAN ZZZÀ ez È SÌ È i 7 i la S AT ULLIZZAZA 3 o god. | > 4%, o Echelle de SOA p i dà n . “0 mw_— E @I A V7, . Ò Echell TET= N JS 7 A 777 A i Vv & ‘chelle II 7 pa< ki y ZE © 74 n Di È ag È S Vi » < 7 7] Plate - forme A DI 7, < ], ( VA AV, < x // Sa, Gra i, TIE UNA MAG, < ; è f i ara gra i O) 7 2) (o G n 7 _ G i i. 2 7, 7, 7 7 dl Lit. Fi Dyer. Forino 149 MEMOIRE Sur les formules du mouvement circulaire et du mouvement elliptique, libre, autour d’un point excentrique par l'action d'une. force centrale PAR JEAN PLANA « Tantum series juncturaque pollet ». Lu dans la Seance du 3 janvier 1864 (*). ll est impossible d’écrire aujourd’hui des verités qui soient, pour le fond, nouvelles sur un tel argument. Mais la manière de présenter les résultats connus peut néanmoins avoir quelque nouveauté. Je concois que cela ne peut avoir aucune utilité pour les Savans qui ont approfondi les théories de Newron, de Lacrance et de Gauss. Mais cette prémisse serait gra- tuite, si on voulait l’admettre sans exception pour tous les Savans qui ont lus les Ouvrages de ces hommes doués d'une étonnante pénetration. En considérant que les lois preromenales du mouvement elliptique des planètes, trouvées par KerLER, sans contredit le véritable restaurateur de l’Astronomie moderne , n’ont pas été appréciées avec justesse , à l’égard (®) L’impression de ce Memorie n’était pas encore achevée, lorsque la mort enleva aux sciences l'illustre Auteur. Elle fut achevée ensuite, à l’aide des conseils de monsieur le Général Comte MENABREA et par les soins de monsieur le Professeur ERBA, conformément aux épreuves typographiques, qui avaient ete faites du vivant de l’Auteur, et qu'il avait mème déjà revues en partie. A ces épreuves on n’a fait aucune addition ni aucun changement, sauf la correction de quelques inadvertances evidentes par elles-mèmes ou par la comparaison avec les manuscrits. Il y a lieu de croire, que l’Auteur n’a plus eu le temps de compléter le dernier paragraphe, comme il se proposait de le faire. Si le savant Géomètre elit encore vécu, peut-étre aurait-il donné des developpemens ultérieurs à l’important argument de son ouvrage. 150 —MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. de leur origine, par quelques Savans qui, méme à une époque fori appre- chante de la moitié du 19.°"° siècle, les regardent comme ayant influé d’une manière absolument efficace sur la découverte de la loi de la pesanteur universelle ; j'ai réuni les rapprochemens consignés dans ce Mémoire, afin de metire en plus grande évidence que Newron n’a nullement puisé sa découverte dans la connaissance des trois lois de KEPLER , ni (encore moins) dans ses calculs pour les faire ressortir de l'ensemble des observations an- ciennes et de celles de Tyco. Newton a devoilé le secret de la grande loi qui régit le mouvement des planètes, par une combinaison du principe d’Huycens pour mesurer la force centrifuge avec celui de la transfor- mation du rayon de courbure de toute courbe plane, opérée à l’aide de son Calcul des fluxions. Cette combinaison jointe à celle du principe des momens de Varignon, pour écrire algebriquement que la direction de la force émane à chaque instant d’un point fixe, ne pouvait étre faite que par une intel- ligence capable (entre les années 1650 et 1687) d’embrasser et d’avoir sans cesse presentes à son esprit les lois tout-à-fait primordiales de la Dynamique découvertes par GariLée, et les lois tout-à-fait primordiales du calcul differentiel et integral. Et, pendant la seconde moitié du 17."° siècle, Newron est le seul mortel qui ait laissé à la postérité les preuves qu'il possédait ces principes avec la vigueur requise pour faire ressortir la loi de la gravitation des planètes vers le Soleil du principe publié en 1673 par Huycens, après l’avoir trouvé par sa théorie des. developpees des courbes, sans le concours des découvertes de KepLER. Les idées de Newron dirigées suivant le principe de Wartis publié en 1669 et 1671, relatif à la mesure de la force par le produit de la masse par la vitesse,. lui ‘ont fait voir, que la resultante des masses sphériques, douées dans toutes leurs molécules d’une force attractive, donnait l’explication du coefficienti constant qui régit le mouvement des planètes en vertu de la seule action de la force attractive émanée du globe du Soleil. En presence de ces faits, et de l’état de la science au temps de KepLER ( né en 1571 et mort en 1631), on concoit que le principe genéral de la deformation de la surface infiniment petite d’un double secteur curviligne; en celle d’une autre surface equivalente, ayant la forme d’un rectangle infiniment petit, devait étre tout-à-fait inconnu, entre 1571 et 1631, pendant toute la vie de Keprer. Et il n'est pas surprenanti , si cet homme, doué d’une admirable perséverance et d’une ardente imagination, tout en voyant, que par les coordonnées orthogo- nales x, y d’une courbe l’on a toujours x°*+y°=r°, et PAR J. PLANA 1DI dA tangente de l’anomalie v= ,; x il ne voyait pas que l’on a aussi en general : r°.d.(tang.v) AG (2) == in I+4a X (O) r.dv= 2 rd ce qui rend le double du secteur égal à la différence des deux 2 rectangles infiniment petits xdy ydx. De sorte que, pour deux courbes dont les ordonnées seraient y pour la première, et. Xy pour la seconde , relativement à la méme abscisse x, la somme PI 2 r.dv&r' di'+r" .dv'+etc. , etant 4 pour la première, devait étre : 2 2 k.r.dv+k.r! .dod'+k.r' .dv'4etc.=kA pour la seconde; le coefficient X étant un nombre constant absolu. Voici à quoi tient néanmoins le paralogisme de KepLER, qui par la destruction mutuelle de deux erreurs l’a conduit à une vérité incontestabile. KePLER voyait par les principes de la Geéometrie Elémentaire , que, dans l’orbite circulaire d’Hrpparque, la somme 2 2 ROC COMA TAI -- —_ —————@"" Di + etc. 2 PIENI; a a i 4 7 no était egale à la surface — du secteur circulaire diminuée de la surface 2 af. sin. 0 È ‘pio dESSd du triangle ayant pour base l’excentricité {, et pour hauteur a.sin.9; ce qui lui fournissait l’équation 2 2 . r.dv+r' .dv4&+r' .dv'+etce.=a 0—af.sin.9 . Ensuite il voyait, que d# étant l’intervalle de temps commun pour la 2 2 CRA MAIA ’ , TT, etc., ils étaient 2 2 tous proportionnels à d£; ce qui revient à dire, qu’en faisant 7°. dy=c.dt, description des différens secteurs Von avait aussi r'.do'=ce.dt; r'’.dv'=c.dt; etc. De sorte que leur somme devait étre proportionnelle au temps total #, employé pour la description d’un secteur fini, compris entre ses deux rayons vecteurs extrémes. D’après cela, il écrivait: ì a d—-afB.sin0=ct, 152 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. au lieu de l’équation precedente, où @ désigne l’anomalie excentrique d’Hipparque. Cette propriété, ainsi gtablie, étant conforme au résultat des observations, KepLER en concluait avec raison, que l’hypothèse de l’anomalie excentrique 9, proportionnelle au temps #, était dementie par les observations. Enfin il a fini par saisir (toujours en presence des ob- servations ) que les distances r, 7', r", etc. de Mars au Soleil étaient telles dans son orbite, que l’on avait la loi exprimée par les équations r=za—f.cos.9; r'=a—f.cos.0'; r'=a—f.cos.08"; etc. En outre, par les observations il a reconnu, qu’en divisant le cercle 2 r.dv rv .dv' , ——t, ete. 2 du rayon a en parties égales à @.49, les surfaces qui se succedaient dans l’orbite ovale, et non circulaire, étaient égales à PORGO a'— 3° a'— [3° Pe E) I AO ; 2 2 2 r.dv Gf E i e E 5 2 etc. Alors il en concluait que la somme a 13 3 r.dv&r do 4-r".do'4- ete. étant égale à ; Va—-L°. (d0).(r+r'+r"+r"+etc.) , devait étre proportionnelle à la somme r+r'+r"+etc. des distances r, r', r", etc. de la planète au Soleil. Et, en présence des mémes ob- servations , il verifiait la triple égalité 2 Va—B.d9.(r+r'+r'+ete.)=Va—f.(10—g. sin.9)=c.}/ ni. Li Mais, en designant par 7° le temps total de la révolution dans l’ovale, sa surface totale devait étre ciEe, tandis que dans l’orbite . circulaire décrite dans le méme temps 7’ elle était exprimée par = He: Sur cela KepLeR a établi les deux équations r=a—f.cos.0 ; c.t=a°8—aft.sin.0 , lesquelles , en faisant 6=27, donnent c.7= 272°; et par conséquent: PAR J. PLANA 153 r=a—f. cos.9=a.(1—£. cos.9 ) ; ana (COREA TO pt=d9—af.sin9; 27 Bis 7030-77 sin.0 ° La seconde est commune au cercle et à l’ovale. Les distances r=a—f}. cos..0, qui ont lieu dans l’ovale, ne sont pas égales aux distances r=Va+f"—20f.c0s.0 , qui ont lieu dans l’orbite circulaire d’Hipparque; mais cela n’empéche pas, suivant la conception fausse de KePLER, que la somme des distances d$.(r+r+r"+etc.), qui couvre la surface du secteur circulaire, ne soit egale à la somme d0. Na+ 206. cos.0+-Ya'+f'—2a.cos.9'+etc.! , qui couvre la méme surface. Dans notre langage algébrique, nous voyons que cette conception de KepLER revient à dire que: aeone fa0. Ve E= 208 005 9=(d0.(2—f. 008.9) : ce qui n’est nullement admissible. Mais comme cette double manière de voir la question n’était pas saisie par KePLER, il ne trouvait aucune objection sérieuse contre ses formules (k), confirmées par le résultat des observations. Et, avec une orbite où fila 093, la fausseté de l’équa- a tion (k') n’était pas assez grande pour voir cette équation deémentie par les observations. C'est un fait remarquable celui de voir que KepLER ne considérait pas, que la surface de son secteur elliptique éiant égale è celle a°0 a’. sin.0.cos.8 2 2 a du segment circulaire multipliée par VE , et augmentée de la Serie II. Tom. XXIV. U 154 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. N] surface Via sin. 9. (a. cos.9—f) du triangle ayant pour base a.cos.98—f et pour hauteur ViE asino, on a l’egalité si 1°. dv=1. (a 98—a°. sin.9 cos.0).|/1-É +1 | E usino. (ancona E (6-É. sine) ; 2 a 2 a a Mais cette transformation du secteur elliptique, quoiqu’accessible avec le seul secours de la Géométrie des anciens, a échappé complétement à Keprer. Telle est la cause qui l’a empéché de saisir que le rayon vecteur r=) x°+y? de son ovale devant étre égal à V(a. cos.0-f})'+(a°—f*).sin.°9, il avait a priori V'équation r=)(a—fi.cos.0)=a—f.cos.0 ; ce qui était conforme au résultat des observations, et mettait en évidence la nécessité absolue de la dissection de l’excentricité d’HrppArQue. L’intel- ligence qui ne voyait pas ici la réduction générale de la somme de deux carrés en un seul carré, devait étre poussée par sa ténacité et son ardeur dans les calculs prolixes qu'il a exposés au Caput XY7 de son Ouvrage par une méthode détournée , en avertissant que « Si difficilis captu est » methodus, multo difficilior investigatu res est sine methodo ». Newron voyait sans doute tout ce paralogisme heureux avec le sen- iiment d’une admiration associée à un sentiment indeéfinissable, en lisant ‘ l'Ouvrage De Motibus Stellae Martis; mais il a gardé le silence, et n'a pas voulu mettre en évidence cette meéprise énorme de KepLER (mathée- matiquement parlant ) , persuadé qu'elle serait dévoilée par d’autres avec le temps, à l’aide de ses propres découvertes faites (proprio Marte ) « Sua » Mathesi facem preferente ». Cette réflexion m’est suggérée en observant que le nom de KepLer n'est pas méme cité à la proposition XIII du 3.*m° Livre des Principia congue en ces termes: « Planetae moventur » in ellipsibus umbilicum habentibus in centro Solis, et radiis ad centrum » illud ductis areas describunt temporibus proportionales ». Afin d’atténuer cette réticence, je dois ajouter ici, que Newron dans son Opuscule De Motu, publié pour la première fois par M." Ricaup en 1838, a un Scholie qui termine la Propositio ZIY ainsi concu : PAR J. PLANA 155 Gyrant ergo planetae majores in ellipsibus habentibus umbilicum in » centro Solis; et radiis ad Solem ductis, describunt areas temporibus » proportionales, omnino ut supposuit KerLeRUs ». Ce mot supposuit dé- clare assez que NewroNn n’accordait pas son adhésion à ses démonstrations. Pour saisir clairement en quoi consiste toute l’erreur commise par la conception de KepLER, et redressée, dà sor insu, remarquons qu'il croyait évaluer exactement la somme |{7r°.dy des secteurs elliptiques dont il est ici question, en posant r=a—f}.cos.ì; ads=ad0.||1-É-sine9 5 et supposant que la valeur de 2. Vi où 0 P=fads.(a—f.cos.0) X serait celle de 2 I r.dv=a’.(9—f.sin0). V: —_ Z mathématiquement. Or, nous ‘avons par le Calcul Integral, en posant pour un moment v] . Na È »- Sin. lo) È a È d Pza. st. X.Vixs rl. a ; fu VE sine - sin.°0 ; d’où l’on tire P=. si (Lana). fa di -|.É . sin. 1È sinco( È - sin.@— arc. [sin=£. sin. o pEraci.il: a En developpant ces. fonctions de l’anomalie excentrique 9, suivant les a : — —. sin. 8. 2 puissances de 23; n obtient (en retenant les seuls premiers termes ) : 156 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. P—a°. d-È. sin.0)—F- È). |0—sîn.9.cos.6]+% (E). seo; a 4 6 \a } a c’est-à-dire une expression dont la première partie, seulement, est celle que l’on doit retenir pour avoir pdo=d.(6-L.sino). E - a a KePLER qui ne pouvait pas absolument saisir la véritable difference entre 8 V) fad9.(a—f.cos.9) et fads.(a—f.cos.0) 5 (0) (0) trouvait par son raisonnement antimathématique qu'il expose au N.° XIV de son Caput LIX , que si pro horum arcuum distantiis ab N. (c’est-à- dire comptés de l’aphélie en posant {} négatif) usurparetur area elliptica, tunc errori commisso medecina afferetur et compensatio perfectissima. La médecine consiste donc dans la suppression des termes qui suivent le premier; termes dont l’existence était tout-à-fait invisible pour KEPLER. C'est ici le cas de répéter avec CLarrAUT « qu'il n°y a rien de si difficile » que de mettre l’erreur à la place de la verité ». Au N. XV, qui termine le Caput LIX, KePLER conservait quelques doutes sur la démonstration de son résultat e. :-E(0-E.sin)= TAA0RE a a conforme à l’observation, et il le termine par cette originale réflexion : « Si quis putat, obscuritatem huius disputationis ex mei ingenii per- » plexitate oriri , ci ego culpam hanc hactenus fatebor , quod haec intacta » relinquere noluerim, quantumvis obscurissima, nec valde necessaria » ad astrologiae exercitium , quem unicum finem plerique statuunt huius » philosophiae coelestis. Ceterum quod materiam attinet, rogo huiusmodi » aliquem, ut Apolloni Conica legat. Videbit esse quasdam materias, » quae nulla ingenii felicitate ita tradi possint , ut cursoria lectione com- » prehendantur, Meditatione opus est, et creberrima ruminatione dictorum» . Il faut admirer et plaindre l’intelligence qui trouve ‘ainsi une grande véerité à travers le conflit de deux erreurs qui se détruisent: et d’autant plus qu'il la trouve après avoir introduit un perfectionnement tout-à-fait capital ( méconnu par Gatrcée ) dans la célébre hypothèse de CoprernIC PAR J. PLANA 157 par la destruction de la double erreur de. ses épicycles et de ses mou- vemens absolument uniformes, et par l’évanouissement d'un mouvement imaginaire qu'il avait attribué à l’axe de la Terre pour maintenir son parallélisme. KePLER a exprime le premier l’idée que toutes les intersections des orbites des planètes passent par le centre du Soleil. Penetré de la justesse de ces réflexions, je me suis formé depuis longtemps une opinion contraire à celle émise par Bror en 1847, que: « Si KepLeR n’eùt pas été jeté d’abord dans la théorie de Mars, les loîs » du mouvement elliptique et la gravitation universelle seraient, peut-étre, » encore ignorées aujourd’hui » (page 43r du Tome IV de son Traité d’Astronomie). L’accent du doute que ce passage renferme perd toute la force qu'on voudrait lui attribuer , en rapprochant les argumens de Newron de ceux de KepLeR. L'est ici le cas de répéter l’ancienne maxime « Juvat integros accedere fontes ». Dès l’année 1814, lors de la publi- cation de sa Biographie de Descartes, Bror avait exprimé une opinion à-peu-près pareille à celle de 1847, en donnant à entendre que Newrox avait fait sa découverte « er partant des lois observées par KepLer dans » les mouvemens celestes, et leur appliquant les lois des forces centrales » decouvertes par Huycens ». Quelques années après , en 1819, Bror, dans son article biographique de LerniTz, a reproduit son idée, que « Newron, en 1687, avait » etabli la véritable théorie des mouvemens célestes sur Zes Zois de KEPLER » ( page 635 du Tome 23 de la Biographie); au lieu de dire, avec plus de Justesse historique, que Newrown avait deduit, a priori, de sa théorie les lois de KePLER; ce qui a un sens fort différent. On verra par l’analyse suivante ce qui distingue-la découverte de Huycens de celle de Newron. Après 1673, et dans l’intervalle de 1673 à 1687, l’obstacle è franchir laissé par Huycens (mort en 1695) était encore assez imposant pour étre insurmontable par Huycens, HaLLey, Wrex et Hoox. Les deux lois écrites par les équations (k) ont été publiées par KePLER 3 PRA T6 de toutes les planètes lui était inconnu. Il pouvait le trouver en 1608 en 1609. Alors le fait que le rapport était constant pour les orbites . . , , È comme en 1618, si l’idée de comparer les carrés 7°, 7°" , etc. avec les 3 RARO , , “ cubes a’, a' ,, etc. s'était préesentée à son esprit. Avec la Table de CorernIC c'était un calcul facile. Mais ee mode de découvrir une si admirable loi, 158 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. n’aurait pas offert un plus grand secours pour découvrir la source du principe unique pour la deduction de ces lois, par les élémens de la Dynamique. Il est de fait, que depuis 1618 jusqu’en 1673-1687, on avait la certitude de la justesse des lois de KePLER, sans pouvoir dé- couvrir leur origine. La question consistait dans l’invention des méthodes analytiques propres à surmonter la double difficulté d’écrire les équations différentielles du mouvement et à les intégrer. Et à cet égard, ni les calculs, nîì les raisonnemens de KepLER, ni ses fausses conceptions phy- siques, tirées de l’Ouvrage de GiLseRT sur l’aimant, ne pouvaient offrir à un grand Géomètre , tel que Newrox, aucune ouverture; capable, à moins d’en faire lui-méme la découverte de toute autre manière, de faire envisager les effets généraux des forces centrales, pour soulever et déchirer le voile qui couvrait le grand principe du système du Monde. Toutefois , à notre époque, on ne doit pas passer sous silence que l’obstacle, dont il est ici question, tenait au défaut du principe dans la science de la Dynamique, propre è la réduction des mouvemens curvi lignes à des mouvemens rectilignes rectangulaires, rapportés à des axes fixes dans l’espace. Ce grand principe, ignoré par Newrow lui-méme , mais remplace par celui , plus sensible, des forces tangentielles et normales a la succession des points des courbes decrites , n'a été établi, employé et mis dans son grand jour qu'en 1742 par MacLiurIN dans son Traité des Fluxions. A notre époque, un Géoméètre philosophe, qui réfléchit que la découverte de Newrow est la plus simple déduction des deux équations différentielles L dee, Pronario d° x x d°y MIA) r où r=) x°+y°, et R (fonction de r°) déesigne la force centrale, demeure étonné par le contraste entre la grandeur universelle et physique de la decouverte , et la facilité excessive de la faire, dès que la nature de la courbe décrite est connue ; ce qui dépend de la contemplation des valeurs numériques des coordonnées x,y, obtenues par l’observation. Ce pas très-important fait par KePLER vers l'année 1609 n’offre néanmoins aucune ouverture pour etablir les deux équations de MacraurIN, relatives aux deux mouvemens rectilignes suivant les coordonnées rectangulaires x et y. Mais celles-ci étant connues, il est manifeste qu’elles donnent im- mediatement : PAR J. PLANA I d°y das dle ( dy ja (G,) No) Correva: |L- —y. =0 (er SEE Er enne ; «Hd 2 Dry _ constante = € ; CUS he VANI CGI CANE LI GELA det de vagliare | ); et par conséquent (N) R=% (GE EAU £) i vie MASS — » RT III e \ di dt° di de Ù ce qui constitue la formule qui renferme explicitement la grande découverte de Newron, dès que l’équation de la courbe est connue. C'est par elle qu'on peut résoudre le problème defini par la Proposition XI du premier Livre des Principia « Revolvatur corpus in ellipsi : requiritur lex vis » centripetae tendentis ad umbilicum ellipseos ». C'est par les deux équa- tions qui la fournissent, qu'on peut résoudre avec quelques lignes de calcul le problème defini dans la Proposition XLII du mème Livre par les mots: « Data lege vis centripetae (c’est-à-dire la fonction R de 7), » requiritur motus corporis de loco dato, data cum velocitate, secundum » datam rectam egressi ». Le Geomètre philosophe reconnaît, dans l’ordre dispositif des XLII Propositions- da premier Livre des Principia, que le grand principe de la réduction immédiate des mouvemens curvi- lignes à des mouvemens rectilignes rectangulaires n’était pas encore découvert par Newrox en 1687, ni méme, après sa mort, par EucLer en 1736, lors de la publication de sa Mécanique Analytique. Ge fait est desolant en ce sens qu'il met à découvert la faiblesse de l’intelligence humaine, méme pour des hommes doués d’une perspicacité étonnante. A notre époque, après la naissance d’un Evrer et d’un Lagrange , il nous est difficile (en présence de la contemplation de leurs Ouvrages) d’avouer sincèrement la justesse du vers de Lucrkce : « Qui genus humanum ingenio superavit . ..... » (*), (*) Toutefois on pourrait opposer au doute, que je hasarde ici, l’opinion méme de LAGRANGE, qui, è la page 162 du Volume de l’Academie de Berlin pour l’année 1786, qualifie l'Ouvrage des Principes de Newton: « Comme la plus grande production de Vesprit humain ». C'est un noble aveu de la part de LAGRANGE; mais lui-mèéme, par l’ensemble de ses Quvrages, a trop contribué au progrès de la Science pour faire croire, sans restriction, qu'il sera confirmé par les siècles futurs. Note, de V' Auteur. 160 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. appliqué en 1755 sur le piédestal de la statue en marbre de Newrox, érigée dans l’avant-chapelle du Collége de la Trinité. Il était plus juste d’inscrire sur ce piédestal les trois mots celèbres: « ZZypotheses non fingo ».. Huycens (mort en 1695), après avoir lu l'Ouvrage des Principia publié en 1687, et avoir parlé avec Newron en 1689, en Angleterre , où il s'était transporté exprès pour faire sa connaissance personnelle , refusait de croire à la solidité des démonstrations de Newron pour établir la loi de la gravitation universelle. Égaré par sa propre découverte de la force centrifuge, en y cherchant envain la cause de la pesanteur des corps terrestres, il ne pouvait concevoir clairement par le calcul diffé- rentiel et intégral, dévoilé depuis 1684 par LerNITZ, en quoi consiste la résultante de l’attraction des masses sphériques. Et toujours préoccupé de la recherche de la cause plutòt que des effets de cette force, il ne pouvait saisir clairement les conséquences déduites de l’expression de la force tangentielle et de la force normale à la courbe deécrite par les pla- nétes autour du Soleil, en vertu de la force attractive émanée de sa masse avec une intensité décroissante en raison inverse du carré de la distance entre le centre du Soleil et celui de la planète. Il faut l’avouer, la grande infériorité d’Huycens, par rapport à Newron, sur le Calcul Intégral est la cause secrète qui lui a empéché de redresser la fausse direction qu'il avait donné à son esprit sur la manière de soumettre au calcul les consequences des hypothèses physiques, afin de voir sì elles étalent conformes ou contraires aux faits observés. Dans une de ces lettres à Fario Duruers datée du 11 juillet 1687, qui lui avait annoncé la prochaine publication des Principia de Newron, il lui mande: « Je » souhaite de voir. le livre de Newton. Je veux bien qu'il ne soit pas » Cartésien, pourvu. qu'il ne nous fasse pas des suppositions comme » celles-ci de. l’attraction ». Et le 29 décembre de l'année 1692 (ces dates sont importantes ) il écrivait à M." De L'Hoprrar : « Un savant Anglois vient de me dire que » la seconde Edition des Principes de M." Newron, de laquelle M." Farto » devait avoir soin, ne se fera pas encore de si tòt. Il y a une infinité de » fautes à ‘corriger et quelques-unes, qui sont de l’auteur, comme il » reconnoît lui-méme. J'estime beaucoup son savoir et sa subtilité ; mais » il y en a bien de mal employé, à mon avis, dans une grande partie » de cet ouvrage, lorsque l’auteur recherche des choses peu utiles, ou » qu'il bàtit sur le principe peu vraisemblable de l’attraction ». ( Quel PAR J. PLANA 161 aveuglement!) [page 247 du 1° Volume publié en 1833 à la Haye par le Professeur UyLENBROEK |. Et s'il fallait prouver que la découverte de Newron n’a pas méme été comprise par LersniTz en septembre de 1694 , il suffirait de rapporter le passage suivant d'une de ses lettres à Huycens: « Votre explication » de la pesanteur paraît jusqu'ici la plus plausible. Il serait seulement à » desirer qu’on pùt rendre raison pourquoi celle qui paraît dans les astres » est en raison doublée réciproque des distances. Comme je vous disois un » jour è Paris qu'on avait de la peine à connaître le véritable sujet du » mouvement, vous me répondites que cela se pouvait par le moien du » mouvement circulaire, cela m'’arresta; et je m’en souvins en lisant » à-peu-près la méme chose dans le livre de M" Newron; mais ce fut » lorsque je croyois déjà voir que le mouvement circulaire n'a point de » privilège en cela. Et je vois que vous étes dans le méme sentiment. » Je tiens donc que toutes les hypothèses sont équivalentes, et lorsque » J'assigne certains mouvemens à certains corps, je n’en ai, ni puis » avoir d’autre raison que la simplicité de l’hypothèse, croyant qu’on » peut tenir la plus simple (tout considéré ) pour la véritable. Ainsi n’en » ayant point d’autre marque, je crois que la différence entre nous » n'est que dans la manière de parler, que je tache d’accomoder à lusage » commun autant que je puis, salva verztate ». Il est impossible de live une preuve plus frappante de l’énorme aveuglement de Lersnitz sur la loi de Newrox, méme en 1692, trois années après avoir lui-méme publié son Mémoire (vers le commencement de 1689) « Tentamen de motuum » coelestium causis ». Ainsi la véritable essence et géneralité de la découverte de Newron n'était pas saisie vers la fin du 17°"° siècle par l’intelligence qui avait su penétrer l’existence des nouveaux calculs qui devaient changer la face des applications de l’analyse, et donner la plus puissante direction aux recherches comprises dans la sphère de la Philosophie Naturelle. Il y a plus: une année avant sa mort LersniTz écrivait (le 15 dé- cembre 1715) à Jean BernourLI: « Newronus minime per sua experimenta » demonstrat materiam ubique esse gravem, seu quamvis partem a quavis » attrahi, aut vacuum dari ut ipse quidem jactat ». Huycens, en 1690, dans l’Addition à son Discours « Sur la cause » de la Pesanteur », après avoir vu Newron en Angleterre en 1689, et après avoir lu son Ouvrage des Principia, a laissé è la postérité, Serie II. Tom. XXIV. v 162 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. dans ce Discours publié à Leyde, une preuve incontestable qu'il n’avait jamais saisi le véritable esprit des calculs de Newrox, fondés sur le principe de l’attraction par lequel « actiones rerum corporearum conse- » quuntur etiamsi causa nondum esset cognita ». Il y déclare que l’apla- tissement de la Terre trouvé par Newron est fort different du sien, mais qu'il n’était pas tout-à-fait persuadé du principe « que toutes les petites » parties qu'on peut imaginer dans deux ou plusieurs corps différents » s’attirent ou s'approchent mutuellement ». Et le 12 juin de l'année 1689, étant assis à la Société Royale è còte de Newron, il annonca la prochaine publication de ce malheureux Discours. Transportons nous, en idée, à cette meémorable séance, et jugeons ce que pouvait penser Newron silencieux en écoutant l’annonce d’un ouvrage qui, pour lui, était equivalent à un aveu fait par la bouche d’un homme d'un aussi grand génie qu'il n’avait pas encore su pénétrer la philosophie de l’Ouvrage des Principia, qu'il avait entre ses mains depuis plus d’une année, ni l’essence de la première démonstration ; que la 3°"° loi de KePLER était expliquée par le mode méme de son existence, qui tenait à ce que le coeflicient de la loi de l’action du Soleil était commun à toutes les planètes. De sorte que (je l’avoue à regret) Newron, peut-étre, dans ce memorable moment, rangeait le s2172722s HuceNIUS au nombre de ceux dont il parlait en général dans sa courte préface au zroisième Livre des Prin- cipia en disant: « Quibus principia posita satis intellecta non fuerunt, » lì vim consequentiarum minime percipient, neque praeiudicia depo- » nent, quibus a multis retro annis insueverunt ». Mais l'homme de génie n'a pas manqué de s’y montrer, en annoncant le méme jour la prochaine publication de son Truité de la Lumière qui renferme une grande découverte , celle de la loi de la réfraction extra- ordinaire éprouvée par la lumière qui traverse le cristal d’Islande. Cette loi, associée à la Théorie des Ondes, est la cause pour laquelle elle n'a pas été appréciée par NewToN. Newron développe les expériences et ses opinions sur cette découverte d'Huycens dans les Questions 17-21 de son Traité d’Optique (voyez les pages 299-319 de l’edition latine de 1706 publiée par CLARKE, dix années après la mort d’Huycens). Quoiqu'il ait voulu substituer à la loi d’Huycens d’autres règles qui ne se sont pas trouvées confirmées par les faits, c'est là qu'il se montre PAR J. PLANA 163 le précurseur de la découverte de la polarisation de la lumière (par réflexion ) faite un siècle après par Marus (en 1808); en annoncant que la lumière émergente d’un cristal d’Islande n’est pas dans un état iden- tique à celui qu'elle avait avant de traverser le méme cristal. A la page 303 il y a ce passage remarquable: « Quare refractio » Znusitata pendet ex congenita quadam radiorum proprietate. Idque adhuc » inquirendum restat, an non etiamnum aliae sint aliquae proprietates » congenitae radiorum quas humana nondum observavit perspicacia ». A la page 308 et suivante on y lit: « Suspicatus est Hucenius, Etheris » pulsus, inter transeundum per primam crystallum , acquirere sibi posse » novas quasdam modificationes ..... .. At quales istae modificationes » essent, explicare non potuit, nec quicquam omnino comminisci quod » sibi posset facere satis ....... Mihi sane haec res nullos omnino » videtur habere posse explicatus , si lumen nihil aliud esset quam pressus » quidam vel motus per Atherem propagatus ». Le noeud de cette difficulté a été tranché un siècle après la mort de Newron par la découverte du principe des /nzerferences, faite par le celèbre Physicien Thomas Younc , qui établit l’existence des ondulations d’une matière ethéree , dont les oscillations des molécules s’exécutent perpendiculairement aux rayons et au plan de polarisation. Ce principe a été arraché à Newron méme par une ultérieure con- templation des couleurs très-vives que présentent les bulles d’eau savon- neuse. Le passage de leur teinte à une autre fort différente tient à leur épaisseur. Le passage du rouge au vert, par exemple , n’est pas la millième partie d’un cheven. Heureusement (méme pour la gloire de Young), FresweL s'est emparé de sa découverte, et l’a développée avec une éton- nante sagacité. : L’indifféerence avec laquelle les lois de KepPLER ont été recues par GauiLée est un fait moral qui prouve seulement qu’elles n’étaient pas établies par ses argumens avec une clarté suffisante pour en faire sentir, l’importance et la généralité à l’auteur des Dialogues, publies en 1632 après la mort de KepLER. Si Newron à la Proposition XIII du 3°"° Livre des Principia n'a pas cité KePLER, ainsi que je l’ai déjà fait remarquer, on ne doit pas reprocher à GaLiLé£ un silence qui, de son vivant, était sans doute innocent. Sa grand’àme était supérieure aux petitesses de la jalousie. A l’égard de la modification faite au système de Copernic et meconnu par le fondateur 164 MÉEMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC, de la Dynamique , il faut considerer que cela a eu lieu antérieurement à 1638, époque de la publication de son Ouvrage immortel « Discorsi » e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze » dignement apprécié par Lacrance. En supposant complétement ignorées les lois de KepLER; par l'ensemble de ces réflexions il est permis de croire que, vers la fin du 17°"° siècle, la maturité de la science était assez avancée pour les faire trouver ra- tionnellement par Newron, en vertu de l’inséparable combinaison de ses idées sur la science du mouvement et celle de son Calcul des Fluxions. Dans un écrit original de Newron appartenant à la bibliothèque du Comte MaccLesrieLD il a déclaré lui-méme les dates suivantes : « Newronus principales de motu planetarum propositiones anno 1683 » Londinum misit cum Philosophis communicandas. Anno 1686 (le 28 » avril) Principia Mathematica ad Regiam Societatem misit ut in lucem » emitterentur ». — « Anno 1634 Newronus propositiones principales » earum quae in Philosophiae Principiis Mathematicis habentur, cum » Societate Regia communicare coepit, annoque 1686 liber ille MS. ad » Societatem Regiam missus est ». Newroxn seul pouvait alors établir déemonstrativement les quatre Pro- positions VI, XI, XLII, LXXI du premier Livre des Principia. Mais il n’a pas voulu exposer le langage algébrique par lequel il avait ainsi trouvé le fil secret qui conduit aux trois: lois de KepLER. Et ce fil secret il l’avait trouvé depuis 1682, ou, plus exactement, depuis 1685, et non par ses premières recherches de l'année 1666 , ien- dantes è verifier le décroissement de la gravité de la Terre depuis sa surface jusqu'à la région de la Lune. C'est de quoi on a l’assurance en lisant une mémorable lettre de Newron à HacLey datée du 20 juin r686. Cela achève de démontrer que la loi de la pesanteur universelle est une découverte due à Newron exclusivement. La difficulté d’exprimer (en langage differentiel ) la force centripète par la force centrifuge, divisée par le cosinus de l’angle formé par le rayon vecteur et le rayon du cercle osculateur, dans les mouvemens quì ne sont pas circulaires, était insurmontable par Huxcens, HarLey et Wren, et surtout par Hoox. Le ihéoréme INI (qui répond à la Pro- positio VI du 1 Livre des Principia), trouvé par Newroy dans son premier Opuscule De Motu, et communiqué à Harcey au mois d'aoit de l'année 1684 est la decouverte qui a enfin devoilé le grand secret du PAR J. PLANA 165 système du Monde « quem Nox atra tegebat » (voyez la page 4 de l’appendix de l’Ouvrage de M" Rricaup publié en 1838). « Jam filum » repertum fuit (pour composer la Propositio XL du 3°"° Livre qui ne se » trouve pas dans l’Opuscule De Mot), quo ducente labyrinthum motuum » cometarum antea inaccessum ingrediì licuit ». Dans une lettre de Newron à Harcey, datée du 20 juin 1686, il lui mande: « Dans le 3°° livre, il mangue la théorie des Comètes : » J'ai perdu l’aziomne dernier deux mois entiers à des calculs inutiles » sur cet objet, faute d’une bonne méthode; ce qui me fit ensuite revenir » au premier livre et y joindre plusieurs propositions nouvelles que javais » trouvées l’hiver dernier, tant sur les Comètes que sur d’autres objets ». Parmi ces Propositions nouvelles on doit signaler la Propositio XIII. et la Propositio XVI, trouvées, conformément à cette déclaration, entre 1685 et le mois de juin de l'année 1686. Toutefois je ne puis passer sous silence, que l’apercu de KePLER, enoncé dans la Préface à son Ouvrage De motibus Stellae Martis par les mots: « Per conjecturam physicam colligitur, fontem motus planetarum » quinque in ipso sole esse », peut avoir fixé l’attention de Newron au plus haut degré. Pour Zi cet apercu était suffisant pour en tirer la loi des aires et les deux autres lois du mouvement elliptique. A ce titre , il me paraît que Newrow ne rend pas à KepLER la justice qui lui est due en l’associant à Descartes, là où il dit que: « Recentiores Philosophi uti KepLERUS et CaARTESIUS » ont attribué les mouvemens circulaires dans l'espace libre, à des tourbillions (vortices esse volunt). La vérité histo- rique sur ce point à été redressée par Laprace à la page 294 du cin- quième Volume de la Mecanique Celeste (livre XV ). L’analyse que j'ai exposée aw dernier paragraphe de ce Mémoire peint d’une manière frappante la grande supériorité de Newron sur la péné- tration mentale de ses contemporains par la philosophie de ses conceptions conduites (en secret) par son Calcul des Fluxions dans le 3°° Livre des Principia. Tandis que Huycens et LeiBniTZ ne comprenaient pas le grand fait de l’attraction universelle developpé dans son Ouvrage,. qu’ils avaient sous leurs yeux; Lui, avait la conviction qu'il avait expliqué et donné la mesure du mouvement rétrograde et progressif des noeuds de l’orbite de la Lune; et que par un vol hardi de son génie, il avait pu tirer de la méme source l’explication du grand phénoméène de la Precession des Equinoxes. 166 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. SL D’après la théorie des forces centrales, la loi de la fonction R (censée fonction du rayon vecteur 7), pour que le point mobile puisse décrire une courbe donnée entre les coordonnées polaires r et y, est telle, que l'on a, en général, RIONE SCA NILO Rdr=H-S :—L-( ) ; r 2 \r°.dv TNAOIICIE divieto (1) ii dr \° è (F)=ansa R.dr 5 °=2H—2.|R.dr c et H étant deux constantes arbitraires; £ le temps et w la vitesse Zineaire. Soit (e ine (+B)+y°=a', l’équation du cercle deécrit par le point, dont 4 est le rayon, ei { l’excen- iricité, ou distance du centre du cercle au point pris pour origine des coordonnées, autour duquel tourne le rayon vecteur r. En faisant È ci RACOSSOME Di SIn0e e= , a l’on aura: r'+2fr.cosv=a'—fÈ ; (A "=Vi—@. sing pira Te. Sin. V—e. COS.0 . En désignant par @ l’anomalie excentrique, c’est-à-dire langle au centre du cercle forme par le rayon a qui coupe le rayon vecteur 7 et l’axe des x, il est clair que l’on a: x=a.c05.0—f ; bi = disini0% (Paiteri Besi Wh Leigh; I-pPe —2e.c0s.0 . a a Le triangle formé par les trois còtés a, ff, r donne l’équation v=0+%y, PAR J. PLANA 167 OE a ’ , e, À ’ o BRANDO È en designant par $ l’angle opposé au còté {; et l'on a fi. sin @=r. sing; d’où l’on tire : 6. sin. 0 e. sin. 0 r°- BB. sinid 1-=€.cos.0 Maintenant, pour avoir l’arc d en fonction de 0, il faut remplacer sin. 0, cos.8, tang.g, par leurs expressions imaginaires , ce qui fournit l’équation ie. e) ———_--- 3 re.) 17: 24.VZi=Log ( ) designant , pour un moment, la base des Logarithmes Neépériens. Cela posé, par le développement de ce Logarithme, on obtient la série (6)... V=esin0+i.e°sin.20+i.e'sin30+}.e‘sin49+etc. De sorte que l'arc v=0+% sera exprimé par o=0+esin.9+;.e'sin20+i.e'sin39+etc. ; r.cos.$=a(1—ecos.0)=a—f}.cos.0 ; GEE r.dv=x.dy—y.da=a°.d0(1—ecos.0) ; | lea (9—e.sin.0)=ct. En faisant @=27, et nommant 7 le temps d’une révolution entière , l'on a c7=2ra°, et par conséquent t , (Re 2n:pnt=0—e.sin.0 s Telle est l’équation qui doit nécessairement avoir lieu, dans le mouvement q q , circulaire libre, entre les deux variables 9 et £. En résolvant cette équation par la série de Lagrange, si l’on fait nt=z, l’on a: ; e° d.sin.z @ °° «Fas (Ie ie arena da 203) ogg ip noel En exécutant les opérations indiquées jusqu'aux termes de l’ordre e? in- clusivement, cette série donne : 3 e 3 , : (Lo) o=nt+(e—S).sinni+ie sin. 2nt+j.e' sin 3nt+etc. La méme équation (8) donne: 168 MEMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. 2 3 ; 3 AA eì d.(sin.°z.cos.z) e. sin. 9 =e.sin. z +—-sIn. 2a? = red niaa o 5 2 Z - a 3 3 È Bio e 3 : erSinNoN— ersingz +7 Sin 25+—-(—sîn°2+cos.z. sin. 22)+-etc. ; e°.sin. 20 =e°.sin.2z2-+ 2. sin. 3. cos.2z-+ etc. ; d’où l’on tire 2 3 : £ CSR CADA ; Ca) e.sin. 9 =e. sin. mit + ;sinant—-(sinne—3sin.3nt)+etc.; II 2 e°.sin.20=e°.sin' ant —eì.(sin.nt—sin.3nt)+etec. En substituant ces valeurs dans la première des équations (7), l'on aura: DIE 7 Rio e ina (12)... c=nt+ adr ii . sin. 2f+—-e°. sin 2nt+ —=-e’.sin3nt+ etc. 2 2 12 En developpant le radical, la seconde des équations (4) donne: r sali Mati (AI) oe 73° (1-0008.0)+ ;.e°.sin. G+-:.e?.sin. 6.cos.9+ etc. D'après l’équation (8) nous avons : DIR eì d.(sin.’nt) e.cos.9=e.cos.nt—e.sin'nt—-—--.—-__ — etc. ; e? e.cos.9=e.cos.nt——-(1—c0s.272%)—;.e'cos.nt.(1—cos.2nt) ; 2 2 2 e (14). e.cos = —l +(e— 3 .e')cos.nt+—. cos. 2nt+ ;.e'cos.$nt+etc. o r 3 Donc l’expression de — devient a 2 2 r e e (15)... -=1+—-—(e—-; «e')cosni——-cos.ant— j.e' cos. nt—etc. a 2 = 3 cana Ca + — sin. @-+—-sin. @-cos.0 + etc. 2 2 Par une raison que Von dira ci-après il convient de la laisser ainsi écrite. Il est évident que, en changeant le signe de e, l’on a: r! (O) doo d'igio 0 = : e’ e Vite'+2e.cos.ì=1 + +(e—30’)cos.ni—-cos.ant+ je’ cos.nttetc. 2 Cas CREO +— sin. @——.sin. @.cos.?+etc. 2 2 PAR J. PLANA 169 Considerons maintenant le mouvement circulaire autour d’un point situé du còté opposé au centre à la méme distance f. Soit r' le rayon vecteur tiré de ce point au point mobile. Nous avons ici, en désignant par e' langle opposé an rayon a, r—9+9v+d'=n; partant: È ; : a s=9—y', et siny= È. sin 0=e. sin. 9.4 5 r = —=i+e+2e.c0s.8 ; a L'ORA ‘ 3 (17 È e. sin. d tang.ù = —_—_——_—riî 1-+ e. cos. 0 Cette equation étant traitée comme l’équation (5), on en tire: p=e.sin.9—1!.e° sin20+j.e' sin 39— etc. L'on a done: (15) ESSE o =9—esin9+1.e° sin 20—i.e' sin 39+etc. Il suit de là et de la première des équations (7), que (19) ... 0 —9=—2esin.9—3.esin30—?.e’ sin 59 — etc. Done, par les équations (11) et (12) on aura facilement I È SUI IRE v=nt+(20— ‘lm 2e+3.e!) sinne+(î.e—-e).sinane 4 + d9 ddt sin. 3rt+-etc. ; SIN 3 È c'est-à-dire : ; DG Ferd * DEI (20) BE vz=nt—=. 0° sin. nt + 7-e sin ant4- pe) sinSnt+ eto. is n ba c. En faisant nt=-, les équations (12) et (20) donnent: T Se 3). SSIS RR II ASS ALDO 0553 v=3+t(2e-3e°); ve Cai v—v=2e—ìe. En general Von a: ; i I { (21)... e=0'+(2e—;é). sinnt+e. sinant+ 2. e'sin.32t+4-ete. 12 KepLER ignorait l’existence de ces formules en fonctions explicites du temps f. Mais il voyait que, si le mouvement est absolument circulaire, on devait avoir les équations Serie II. Tom. XXIV. x 170 MEMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. nt=9—e.sin.0 ; ' Ip z r z -=VIi+e°—2e.cos.8 ; gif I+P-e°4+-2e. cos.0 ; a e. sin. 0 o=0+4 ; tang. 4 = in) e. sin. 0 Qt 39 tan 2 limi e ‘ WE 8-4 I+e. cos. 0 7 sans pouvoir décider, a priori, s'il fallait comparer les observations de Tyco avec les valeurs de g', ou avec celles de v. Après un énorme travail, par des calculs arithmétiques et trigonometriques , il a fini par se persuader que la courbe deécrite par la planète Mars ne pouvait pas absolument étre un cercle. Les valeurs des coordonnées x,y, exprimées par les équations (4), donnent : da =—a.sin.0.d0 ; dy=a.cos.0.d0 ; d'’x=—a.cos.0.d0°—a.sin.0.d°0 ; d°y=—a.sin.0.d08°+a. cos.0.d°0 ; CERTI CE? do I IT I è.(7) Il suit de là, et de la formule (N), établie dans la préface à ce Mémoire, que la force centrale R, requise pour que le mouvement soit mathéma- tiquement circulaire , est [en ayant égard è l’équation (8)]: a (d6\} c' r naert.(T) sli) È 5) a ole >, 3 2\-3 (22) pato ing E. (2). (1041) Sal : 2) r \a a e A o) a en posant c' t. a' (23) lord voto dono ra Ter Lp PAR J. PLANA TUZNE D'après les formules (1) nous avons done : catino frarzane te. cu $ (= Pour determiner la constante arbitraire 2/7, nous supposerons que la Vitesse linéaire vw, correspondante à r=2a, est égale à 77; alors l’on a: Cela posé , il est clair que l’on a: I I (24) eSeualelialiolo TE IRR AAT ata ° a (2—e?) a rage Mi (Cini a Il est impossible que cette loi de la force soit produite par la force attractive du Soleil, sa masse étant composée de couches sphériques de méme densité. Car, on sait que toutes les lois d’attraction dans lesquelles une sphère agit sur un point extérieur placé à la distance r de son centre, comme si toute sa masse était réunie à ce centre, sont comprises dans la formule générale 4 r+È (Mecanique Celeste, Tom. 1°", page 143). Le mouvement circulaire imaginé par HypPArque est donc inadmissible. Pour donner à l’expression de A la forme sous laquelle elle est pre- sentée dans la Proposition VII du premier Livre des Principia, remarquons que, dans le cercle, le produit (a°—f*°)=(a+£).(a—f) des deux segmens 4+, a—f du diamétre 24 est égal au produit 77 des deux segmens de la corde formée par le prolongement du rayon vecteur r. Donc, en remplacant a°—f° par r7', l’on aura i o- p'+rarr+rar.(r+r)=rC; en designant par C la corde r+r'; et alors l’on a: Bu.a' R— Spiral — Beigua Ca 7° G3 La force È est donc « reciproce ut quadratum distantiae r et cubus » chordae conjunctim », conformément à la conclusion de Newron. C'est ainsi qu'il a déguisé le résultat qu'il aura trouvé d’abord par l’analyse. Mais l’expression primitive, avec la seule variable r, est beaucoup plus 172 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. simple ; car elle fait voir immédiatement, que l’intensité de la force R varie par des termes multipliés par les puissances successives de l’excen- tricité e, puisque l’on a: V(4+e—2e.c08.0) _ pi n= = (120.008. 0+etc.) ; a (r—e. cos.0)î où le coefficient p est censé constant. On voit par là, que dans les mou- vemens circulaires imaginés par HypPa®que, le décroissement de la force qui maintient le mouvement curviligne, serait différent du décroissement simplement réciproque au carré des distances moyennes a qui a lieu en nature. Mais cette différence était impossible è saisir, méme par KepLER. La Dynamique a commencé en 1633 par les découvertes de GaLmée. La proximité des anomalies vraies ve=ent+2e.sinnt+i.e sin 2nt-+etc. dans le cercle, et vaent+2e.sinnt+ È .e' sin.ant+ etc. dans le mouvement e/liptigue, devait rendre la distinction d’autant plus difficile, que les excentricités e étaient petites. La difficulté d’observer Mercure, dont l’excentricité de l’orbitè e= 0, 20, devait faire considérer l’orbite de Mars, pour laquelle e=0,093, comme la plus propre à devoiler l’erreur inhérente à l’hypothèse d’Hypparque. Et la phrase de KEPLER « ex cuiIUs motibus omnino necesse est nos în cognitionem » astronomiae arcanorum venire aut ea perpetuo nescire » (Caput VII), est une de celle qui attestent la profondeur de ses apercus, à une époque où la distinction entre les lois des mouvemens circulaires et elliptiques, observés dans le firmament, était inconnue. C'est ici le cas de répéter avec Lucrèce « ita res accendent lumina rebus ». Les distances r=a.)1+e—2e.c0s.6 ; r=a.)V1+e°4+2e.cos.9 , ne pouvaient pas s'accorder avec ces formules: les observations lui ap- prenaient qu'on se rapprocherait davantage de la réalité, en posant r È 3 alte cos.9. Alors la figure de la courbe serait ovale, conformément aut résultats des observations. L’idée de la comparer è l’ellipse a fini par révaloir dans son imagination très-active et jamais dominée par l’impatience. 5 ] P PAR J. PLANA 193 SI D’après cet apercu, l’équation de l’orbite étant 2 (LOST i: (c+B)+ L=d, il est clair qu'elle est satisfaite , en posant: (At \e=a.cos.0—f ; y=Va-B. sin. 0| ; De sorte que l’on a: r.dv=x.dy—y.da=\7=#.a'.d0(1—e.cos.0)=ViT#.ard® ; r=ax°+y°=a'+"*—2af.cos.0=(a—P.cos.0) ; et par conséquent (en supposant #=0 lorsque 6= 0): (27)... ce=(r.de=a.Viza.fr.d0= a. Vime.(9—e.sin.0) . En designant par 7 le temps de la révolution entière, cette équation donne : 27 (23) cT=a.Vi=a.\r.d0z2ra°.Vi—e ; [0] donc en supprimant le facteur commun a°.Vi—#, il est manifeste que l’on a: an.t A (Coeenene: T =0?—e.sin.? ; È ce qui revient à dire, que cette équation est commune au mouvement elliptique et au mouvement circulaire. Cette formule de KePLER est pré- cisement celle qu'il n'a pas démontrée par des argumens tout-à-fait solides, ainsi que Jen ai donné l’explication dans la préface à ce Mémoire. SARI } ; 3 Comme nous avons ici -=1—e.cos.0, ‘il est clair que, en supprimant a la série qui est fonction de @ dans le second membre de l’équation (15), l’on a, en fonction de l’anomalie moyenne : r e 5 e dh (30)... -=I1+——({eT—3-e'|.cosnt——-cos.ant—3-e'cos.Int —ete. a 2 8 2 8 D'un autre còté Ton a: 174 MEMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC 2 Ie î E+- cos.y — a aan cooî@=-—_ ; I-P- €. C0S.0 I-+ €. COS.w r a d’où l’on tire l’équation I I i tang. 5 v=tang. 5 0. V IT e I—- e > laquelle étant résolue par la série connue, donne: L'OCNAR Sgt LO PU (31)... vaent+(2e—-e Sgr ga sin. ant+— e sin. 3nt-+ete. 4 Les équations (26), étant différentiées par rapport à 9, donnent: dx=-—a.sin.0.d0 ; d°’x=—a.cos.0.d0°*—a.sin.0.d°0 ; dy= aVi=e.cos.0.d9; d°y= aVi—e.(—sin.0.d9°+-cos.0.d°8); dx.d*y=—a°.V:—e.d0.(—sin.° 0.d0*+ sin.0.cos.9.d*0) ; dy.d'x=—a°.V:—e.d9.( cos.'9.d0°+sin.9.cos.9.d° 6) ; d’où l’on tire : dx.d°y-dy.d'a=a°.Vi—e.(d09) . Il suit de là, et de la formule (N) établie dans la préface du Mémoire, que la force centrale R, requise pour que le mouvement soit elliptique, est Tai d0\} R=l ay. (7) ° Mais l’équation (27) donne: cdi=a°./i:—e.d0(1—e.cos.0)=a.Vi—e.r.d9 ; partant 3 2 Fa) Res dre E IRASZA | (82) cre (ra.Vi—e) a.(r—-e'°) r L’équation (28) donne : > E - I SERASGNNAI cs où le coefficient de — est une quantité indépendante de l’excentricité e. r PAR J. PLANA I 75 En intéegrant cette fonction de R, le carré de la vitesse linéaire x sera exprimé par i 2 OT w=2H—2.{Rdr=>H+®f=p°-224%2, r a r sì l'on désigne par 7” la valeur de w correspondante à r=a. Donc, en prenant 77 pa , Von aura: a Pour démontrer directement que dans toutes les orbites elliptiques dé- 23 A Se o 5 = Musa pl crites par les différentes planètes autour du Soleil , la quantité 4 7? doit étre une quantité constante, remarquons que l’équation =Ve. Vi: } où ds designe l’arc décrit pendant l’instant 4d£, donne: s= ya. fa. -: 7 Mais l’équation (29) donne i ca) ga) 27 2 Ta partant sile (a Vi ELE Aa (a VEC) 2-2) ; i e e Ti e oe asl d9. VO ecos.9).(1-+-ecos.0) ali d0.Vi—e' cos. 8. Cela posé, puisque =} dx 4+dy° ; x=a(cos.0—e) ; y=a.Vi=e.sin.0 ; lima = (3 Vi—e'cos."9. Done, l’équation précédente revient à (0) TVu 4n af 2ra.)a” in Se I mune à toutes les orbites elliptiques. Ainsi la troisièéme loi de KEPLER dire que 1= =p doit étre une quantité com- 176 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. est, a priori, une conséquence inhérente à la loi 2 de la gravitation 3 AP ) S S des planètes due è l’action du Soleil. 2 La force centrifuge étant exprimée par " en un point quelconque de l’orbite elliptique, où deésigne le rayon de courbure et u la vitesse linéaire, nous avons SI a(1—e?) muri: 208001 ji En designant par 7 la valeur de la vitesse x correspondante à r=a, nous avons v=|/t . Done les vitesses linéaires moyennes 77 sont ré- a ciproques aux racines carrées de leurs distances moyennes 4. D’après le principe de la force centrifuge dans les mouvemens circulaires uniformes 2A T 2 l’on a 75550 ) Donc le temps 7’ requis pour décrire le périmètre entier du cercle est égal au temps ° requis pour decrire les differens périmétres des ellipses ayant 2a pour grand axe, et des excen- P p y P SÌ ? tricités comprises entre o et 1. De sorte que le périmètre 1+1-(1—-e').{Log. =! a +5-jG-0).[os (7) I sal 4a. d'une ellipse ayant une excentricité e fort approchante de l’unité, serait décrit avec une vitesse variable dans le méme temps que le périmètre 274 du cercle décrit avec une vitesse uniforme. Newron a démontré cette Proposition dans son Opuscule De Motu, que j'ai déjà cité. Lisez le Théorème IV (pages 8, 9, 10 de l’Mistorical Essay, publié en 1838 par M* Ric4un), où il donne wn procédé graphigue pour déterminer les orbites des planètes d’après plusieurs observations. C'est le problème qui a été dignement résolu par Gauss en 1809, deux siècles après l’Ouvrage de KepLer, De Motibus Stellae Martis. PAR J. PLANA 177 8 II Pour avoir des idées précises sur la véritable cause qui a empéché Huycens de trouver la loi de la force qui maintient le mouvement cur- viligne des planètes, après sa théorie des developpées et l’expression de la force centrifuge dans les mouvemens circulaires , remarquons que designant le rayon du cercle osculateur, ds Pélément d’une courbe quel- 2 La 5 DO 9 $ ’ - conque décrit dans l’instant df, l’on a gp Po l’expression de la p- force centrifuge dirigée suivant la normale à la courbe. La composante de cette force dirigée suivant le rayon vecteur 7, que Newron nomme ds’ l’angle formé par les deux lignes r et p. Admettons que HuxcEns voyait que cette composante devait étre egale et opposee à la force émanée du centre du Soleil pour maintenir Zibrement le mouvement curviligne; c’est- a-dire l’équation la force centripète , est exprimée par , en désignant par © ds CO R= force centripète = “= VITA di Or, l'on a —, L; ds? ds PO le cosinus des angles formés, respec- tivement, par les lignes 7 et p avec les axes des x, y; et par conséquent coso=t.|| 1-9-®. ped 3,48 x dy. r ds r USES rds’ be e A 1 Te ARI RI, Bent ds? NZ IISANO CAL cei Cela posé, si l’on admet que Huycens savait établir cette équation ainsi écrite en langage differentiel, en prenant le temps £ pour la variable indépendante, il n’est pas facile d’accorder que les coordonnées x, y étant considérées comme des fonctions de la variable £, il voyait aussi l’égalité 3 (CO) RE D=da.d'y_dy.d'x i Serie II. Tom. XXIV. x 178 MEMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. si l’on réfléchit à l’état des connaissances de Huycens sur le Calcul Différentiel: état maintenant bien connu par la publication de ses lettres en 1833. Mais Newton a pénetré le secret enveloppé dans l’équation (37) après l’avoir écrite ainsi ; savoir: Pi de c' (39) Di oo no ig 3 ce qui, à l’aide de l’équation (38), lui donnait LA dx "i dy A I B=l(77- "raggs a Pia EA (40) i ororot 000 R E (AD DI Maintenant , si l'on fait x =r.cos.v, y=r.sin.v, la nouvelle variable indépendante étant v, Von aura: DIO IR RA Ter i r+a.(F) r.(73) ‘rido ci 2 dr 7 d°r 5 ORA R=ù, 4a (P)ar Li È Mais ya => dra pi (TE (4) ci partant Godi a.(£) (42); scarta ; R=3; = dv Telle est la transformation par laquelle Newron faisait la transition _ de la formule (39), qu'on voit dans son Opuscule De Motu (page 4) 7 I-+- e C05.0 ——_-, il obtenait a(r—e'°) ” ; Ja i I à cette dernière, par laquelle, en y faisant — = r immédiatement et comme PAR J. PLANA 179 ar i r.de=cT=2ra°.Viza , o Newron avait la formule n'a 1 4 pila a TIE ri pi (NO R= C'est par la succession des douze égalités qu'on voit ici par les équa- tions (36).....(43), et supprimées par Newton dans son Opuscule De Mot, qu'il est parvenu à la découverte de la loi exprimée par la formule (N'). Dans son esprit il voyait tout l’avantage de ces transformations écrites algebriquement, mais il deguisait la puissance de ce langage a/gebrique en le remplacant par des lignes, ou surfaces, ou volumes, présentées par des figures. Au lieu de i’éléement dé du temps, par exemple, il écrivait ri. dy , C’est-à-dire une quantité proportionnelle au secteur infiniment petit-r°. dv. Par cette analyse on concoit, que la découverte de la for- mule (N') était impossible de la part de Huycens, méme en supposant qu'il ait senti l’existence de l’équation (36) dans un mouvement curviligne et non circulaire, Zbrement parcouru par un point en vertu d’une force centrale. En conséquence, il faut modifier l’opinion émise par Bror è la page 296 du Journal des Savans (mai 1834), là où il dit que Huycens ne fit pas l’immortelle decouverte de la pesanteur universelle, « quoiqgu’i » posséeddt bien avant Newton les lois des forces centrales, et que. les » lois de KepLeR lui fussent connues ». La variété de ces formules (connue et cachée par Newron) est propre à simplifier la loi de la force f, suivant les cas que l’on veut considérer. Par exemple, dans le cas où le pòle de la force centrale serait situé au 2 2 Di centre méme de l’ellipse, il conviendrait de prendre +54 =1 pour 7 a b È son équation, et x pour la variable indépendante. Alors l'on a d?x=0, et par les formules (37) et (38) on obtient facilement (voyez la Propo- positio II de l’Opuscule De Motu): 180 MEÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. Quelle que soit la finesse de cette déduction, echappée à Huycens et à Lemwirz, il est auourd’hui manifeste qu'elle pouvait étre faite par un calcul fort simple, dès que l'imagination voyait et savait soumettre au calcul le mouvement /ibre des corps sphériques, comme produits par l’action d’une force centrale variable dans son intensité. Mais de la décou- verte de la pesanteur universelle, démontrée par Newron, à celle des inégalités seculaires des élémens elliptiques des planètes, à celle de la veritable expression de la preécession des Equinoxes , et de la Zibration de la Lune, il y avait plusieurs abîmes è franchir. En réfléchissant sur ces grandes difficultés vaincues, après avoir admiré l’étonnant génie qui avait fourni le principe physique par lequel les molécules des corps pa- raissent agir et réagir à des énormes distances dans le firmament, comme une émanation direcie et inAerente à la matière, il faudra convenir: « Que » si la Nature en douant Newron d'un profond génie, prit encore soin » de le placer dans les circonstances les plus favorables », la Providence, d’accord avec la Nature, ne fut pas moins libérale en lui donnant pour successeurs immediats, pendant la première moitié du 18°"° siècle: EuLER (né en 1707), CLarrAuT (né en 1713), D’AremBERT (né en 1717); LacranceE (né en 1736), LaApLace (né en 1749). C'est par leurs travaux immortels que ledifice, dont Newron avait posé les bases inébranlables , a été elevé à une hauteur digne d’étre admirée (peut-étre avec étonnement) par Newron lui-méme. Il y verrait résolus compléetement les problémes dont son Ouvrage renfermait les germes, et plusieurs questions relatives à la Philosophie Naturelle , impossibles à résoudre avec les seuls secours de son siècle et de son génie. Les rapprochements historiques exposés par LapLace aux Livres XIV, XV et XVI de sa Mécanique Celeste sont éminemment propres pour imprimer à cette assertion le caractère d’une veriteé absolue. 8 IV. Sur cette. découverte il y a d’autres réflexions à faire fort importantes en se transportant vers les idées concues par Newron des l’année 1666. Alors il voulait démontrer, par un calcul incontestable (conforme è celui qu'il a depuis exposé à la Proposition IV du 3°"° Livre des Principia), que la gravité de la Terre décroissait en raison inverse du carré de la PAR J. PLANA 18ì distance à son centre, depuis sa surface jusqu'à la region de la Lune. Et pour cela, son calcul revient à celui-ci : Soit G l’arc que le centre de la Lune décrit uniformément dans son orbite (censée circulaire ) pendant une seconde de temps moyen. En nommant Z la force centrifuge , due à l’action de la gravité de la Terre, et prenant pour unité de longueur la distance des centres de la Lune et de la Terre, l'on a !=2(1—cos.G)=G°. Mais cette unité étant égale à 60, 67 rayons terrestres, la force centrifuge / deviendra {= G*(60; 67), exprimée en prenant pour unité de longueur le rayon de la Terre. Cette force à la distance 1, c’est-à-dire à la surface de la Terre, doit étre G* (60,67). (59, 67)°= G' , si le décroissement a lieu conformément à l’hypothèse. Donc, en prenant 6364500" pour le rayon de la Terre, l’on aura, en métres: G'= G°(60,67).(59,67)°.(6364500") . Mais 13°. 10-99" 0, 2299714 24(60) © 24(60) Ca 266171 @= (en parties du rayon) ; i C-—® 070847 . i 2 2 0, 53041 G* (60, 67). (59, 69)= 7 - Gi— 92702902 Donc nous avons: Ce résultat fort approchant de 9g", 80 démontre d’une manière pe- remptoire que la gravité de la Terre décroît, depuis sa surface, en raison inverse du carré de la distance à son centre. C'est le résultat obtenu par Newron en 1682 après avoir rectifié ses premiers calculs faits entre les années 1665 et 1666. Dès-lors il avait trouvé par lui-méme le théo- rème de Huycens sur la mesure de la force centrifuge dans les mou- vemens à la fois circulaires et uniformes. C'est de quoi il en fait l’aveu lui-méme dans sa lettre a Harrey du 20 juin 1686 (que j'ai déjà citée dans la préface), là où il lui mande qu'il n’ignorait pas la loi du carré des distances. « Dans un écrit (dit-il) que je composai je ne sais plus » au juste en quelle année, mais certainement avant que j'eusse aucune » correspondance avec M" OLpensourc, c’est-à-dire il y a plus de quinze 182 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. » ans, les tendances des planètes vers le Soleil se trouvent calculées réci- » proquement aux carrés de leurs distances à cet astre ; et la proportion » de la gravité terrestre à la distance de la Lune pour s’éloigner du » centre de la Terre, y est également déterminée, quoique ron pas assez » exactement ». Ces derniers mots, et les remarques de Newron qu'on lit après, là où il dit: « Il y a une od/jection si forte contre l’exactitude de cette » proportion que, sans mes démonstrations, qui sont encore inconnues » à M° Hoox, aucun physicien judicieux ne voudrait la reconnaître pour » exacte », se rapportent tacitement au Corollaire 2 de la Proposition XLV du premier Livre des Principes; ils exigent une explication fort longue, pour en deviner la source. On peut la lire dans le troîsième Volume de ma Zheorie de la Lune aux pages 48-66, au $ 5 avec le titre: « Digression » sur la Proposition XXXVI du troisième Livre des Principes de Newron, » où il se propose de trouver la force du Soleil pour mouvoir les eaux » de la mer », et aussi dans une Note que j'ai publiée en 1823 dans le Tome g de la Correspondance du Baron de Zacxk avec ce titre: /ote sur la Proposition XLVY du premier Livre des Principes de Newrox, où il cherche le mouvement des apsides dans des orbes qui approchent beaucoup des orbes circulaires. D’après cette explication on concoit qu'il faut l’appliquer aussi au passage de cette méme lettre, peu éloigné de son commencement, là où il detruit les injustes prétentions de Hook: « La première est que je » n’ai jamais étendu la loi du carré des distances au-dessous de la surface » de la Terre; et avant une certaine démonstration que j'ai trouvée l'année » dernière (1685), yavais soupconné qu'elle ne s’étendait pas méme exac- > >» tement jusque-là etc. ». De tels sentimens écrits par Newron le 20 juin 1686, peu de jours après la présentation (faite le 28 avril) de son Ouvrage à la Societe Royale pour étre imprime, doivent nous faire présumer que c'est par pure déférence envers son excellent et digne ami HaLcey, qu'il a consenti à nommer Hook dans le Scholiwm qui termine la Propositio IV du 1° Livre des Principia. Car, le 20 juin, l’indignation de Newron était telle que, dans le Post-Scriptum, il lui explique les idées fausses de Hoox, et lui dit: « Que c'est ainsi qu'il fallait considérer les mouvemens » célestes, et qu'il l’avait fait de cette manière (lui Hook) précisement » comme S'l eùt tout découvert et calculé minutieusement; et sur cette PAR J. PLANA 183 » belle instruction qu'il me donnait, il me faudrait confesser aupourd’hui » par l’impression que je tiens tout de lui, et que je n'ai fait que » m’exercer à calculer, démontrer et écrire sur les invention de ce grand » homme ». SUINI Le passage de cette lettre, qui commence par les mots: « Lorsque » Huycens publia son Traité etc. » et continue en disant: « ainsi que » pour résoudre une question relative à la constance d’aspect de la Lune, » et assigner une limite à la parallaxe solaire », doit étre interprété en se rapportant à une lettre posterieure de Newron, datée du 27 juillet 1686 (voyez la page 42 de l’Appendice publiée en 1838 par M" Ricaup). Dans cette lettre il dit à Harrey: que la parallaxe du Soleil ne doit pas étre moindre que la fraction 7 de la parallaxe de la Lune. Mais à cet egàrd , il faut remarquer que M et M' étant la masse de la Terre et la masse du Soleil, « et 4’ les distances moyennes de la Lune à la Terre et au Soleil, respectivement, l’on a: 2 MENTITE IO iam p=(m)=33556 365)? ; pour le rapport des forces du Soleil et de la Terre pour faire mouvoir le globe de la Lune autour de son centre de gravite (voyez les pages 305 et 372 du second Volume de la Mecanique Celeste). De sorte que l’action du Soleil est fort petite comparativement à celle de la Terre sur le phé- noméène de la Zibration non optique de la Lune. Cette équation donne: a I È I _R_R ; a' TR dia lu AREZZO et par consequent 1 Rei 157.60) — —- d/ pi 1 TEO 65 = 8 -6 pour la parallaxe du Soleil. Di On voit par cette lettre, que Newron avait abandonne l’idee d’une Libration réelle avant 1685, et qu'il l’avait remplacée par celle d’une 184 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. Libration optique (dont il fait mention è la Proposition XVII du troisième Livre des Principia), telle qu'il en a communiqué l'explication a MercaTOR avant 1676, puisque Mercator l’a publiée comme la tenant de Newton en 1676, dans son Ouvrage in-8°, Nicolai MercatoRrIs /nstitutionum Astronomicarum Libri duo (Londini 1676). A la page 221 de l’édition de 1685, faite à Padoue, de ce méme Ouvrage, on y lit ces mots: « Harum tam variarum atque implicatarum Librationum causas, Hypothesi » elegantissima explicavit Nobis Vir Cl. Isaac Newron, cujus humanitati » hoc et aliis nominibus plurimum debere me lubens profiteor. Hanc » igitur hypothesim, Lectori gratificaturus, exponam verbis, ut potero etc. » La Digression publiée dans le 3°" Volume de ma Théorie de la Lune que j'ai citée, donne une explication de ce passage de la lettre de Newron, qui ne doit pas étre assimilée à celle donnée par Bror dans la Note qu'on lit à la page 178 du 1° Volume de ses MeZanges Scientifiques et Litteraires (publié en 1858), ou à la page 159 du Volume 3r de la Biographie Universelle. 8 VI Transition subsequente du mouvement elliptique de la Lune aux équations differentielles de son mouvement troublé , en fonction des trois composantes de la force per- turbatrice du Soleil, employées dans le troisime Livre des Principia. Newton, après avoir fait la découverte des Propositions exposées dans son premier Opuscule De Motu, que j'ai déjà cité, voyait clairement que le mouvement elliptique de la Lune, en vertu de la seule action de la Terre, devait étre troublé par l’action simultanée, emanée du centre du Soleil. En conséquence il a compose (après l'année 1684) la Propo- sition LXVI qu'on lit au premier Livre des Principia, citée vers la fin de sa Préface; livre qui a été presente le 28 avril de l'année 1686 è la Société Royale pour étre imprime. Cette Proposition, abstraction faite des 22 Corollaires qui la suivent, doit étre remplacée, dans notre langage algébrique, par l’analyse que je vais exposer : Soient VM, M', M" les trois masses respectives de la Terre, du Soleil et de la Lune; «x, y, 2; x', y', 2' les coordonnées rectangulaires du centre de la Lune et du Soleil: Vorigine étant placée au centre de la Terre. Et soit PAR J. PLANA 185 rale +y+? ; raeVla'+y +3; A=V(x—-xY+(y-y)V+(2'—z) . Cela posé , si l’on. fait : ; M' M'(ax'+yy+22). ea o=__— ————_—__ ; r en designant par 4 l’éléement du temps, les trois composantes rectangulaires (E CA —— , 4, —- de la force accelératrice qui fait mouvoir le centre de UA DE AEARZIE 1 ravité de la Lune, seront exprimées par o to) d°x (M+M")x dQ. dé rs dx’ } Ci) (M+M")y_ dQ. (2) cd Gio, L0 00 dipio og grz RE o: 9 d'z (M+M")z_ dQ dg na ao Nous prendrons pour plan fixre des xy celui de lecliptique à une époque deéterminée. En faisant: seggi regno) agraza Ta TA I AG nes 7 = +y, ro=l% +y ; s=tangd, s=tangg, nous avons: ax'=r',yc05.9' ; SET S10I0%,; ZIA (ISAG; X=T() 005.9 ; FT) SIN: ; als où y, g' désignent, respectivement, la longitude du centre de la Lune et du Soleil; &, 4' leur latitude. Les équations (2) donnent: d'iy_ d'x __ dQ 40 __.4.( dy da), en posant Serie II. Tom. XXIV., Z 186 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. p Q SE dQ Oa — cos.gy.-— — Sin. g: — - (2) AREE dy Ta En integrant par rapport à £ l’on a donc: 2 dy ge ORIO Poqat +fdurP:; 3 ri . . h designant une constante arbitraire. gola O) Mais, en multipliant par 27 calore dela do] SRI OJDICIOIE -|7 o 77 = 2" M£.dV ; donc, en intégrant par rapport à 9, il est clair que nous avons: dv === (CILITCTINIE Lr Jim Vr+ 2. dv.riyP; h° étant une constante arbitraire. Telle est l’expression variable ( et non dy dt Pour avoir la variation du rayon vecteur de la Lune, due à l'action constante), en vertu de la force perturbatrice du Soleil, du rapport 7°: du Soleil, remarquons que la projection sur le plan des xy de la courbe à double courbure, décrite dans l’espace par le centre de la Lune, peut étre considerée comme une courbe plane qui serait Zibrement parcourue par un point. Donc, en désignant par d$S l'élément ds=/da'+dy=V(dryY+ (fwd) de cette courbe, par A son rayon de courbure, et par 77 la vitesse diSalo : È ; 9 sir 7 ET, il doit arriver, que la force centrifuge R Sera précisement égale à la somme des composantes des forces de la Terre et du Soleil, dé- composées chacune dans le sens normal à la courbe. Donc, en remplacant R par son expression analytique, correspondante au temps # pris pour va- riable indépendante, nous avons l’équation : POTITO E gi I Ti laquelle, en vertu des équations (2)', revient à dire que PAR J. PLANA : 187 Uè _—(M+M") dv dt (F did; Te R_raVnes 458° dS Et comme _— | —T— — ——. — o ali rale also CC Lat Ip AN dI CREAM IE MICA di — di . TS 7 9 dispe F * SIN.VA=7,) COS-6 UE 5) il est clair que, en posant A dQ : dQ (Bn e a ; l'on a Ho Vè dS (M+M") dry (4) Goa ne Usai ge +rnQ c Actuellement, il faut observer que la formule générale i dx.d°y—-dy.d°x RT Vada+wdf) ’ en y substituant pour d°x, d°y les valeurs formées en posant d'v=0 (et non d*£#=0) donne: IA di ZIE -a (FF du regia 3 (ee | ea) dn) (ra? AG do? ì 3 I ARR De sorte que, si l’on fait 4 =; l’équation (4)' devient (1) = u Hire =“ = 0 > = . dy na M di (r+s*)8 ui: Tea (FE ) (e Di (M-+M") P du_Q Les composantes P et Q, déterminées par les équations (1)', (2), (£), sont celles qui tiennent lieu des forces perturbatrices dont parle Newrox dans sa Proposition XXV du troisième Livre. Pour déterminer les variations de la latitude de la Lune, causées par la force perturbatrice du Soleil, faisons (0) j y==tang.) 3 A=—q.sin.9 ; B=.cos.8| ; ) et considérons l’équation 188 MÉMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. U — . pr (ero Lode z=4x+By , comme celle d’un plan qui passe par le centre de la Terre, et par deux points consécutifs de l’orbite de la Lune, dont x, y,z2; x+dx, r+dy, z+dz sont les coordonnées. La tangente de l’inclinaison de ce plan sur celui des xy sera Y, et 6 sera la longitude de son noeud ascendant. Il est clair que y et @ doivent étre des quantités variables avec le temps , afin que l'équation (7) soit applicable à un élément quelconque de l’orbite parcouru par le centre de la Lune. Mais ces fonctions du temps, par leur nature , doivent étre telles, que la variation xd 4+ydB soit nulle , puisque le point mobile demeure dans le méme plan pendant l’instant 4. Donc, en différentiant l’équation (7)' par rapport au temps #, on aura à la fois: dz da d a di i ITS TRA]I, di rage ela Fra En différentiant de nouveau, pour passer au point conséeutif aux deux premiers , lequel a pour coordonnées x +2dx+d°x, y+2dy+d°y, z+2dz+d°z, Non aura: cli -00a da SINO dx di dy dB vaga a op a) Cette équation, étant combinge avec les équations (2)' et (7)', donne: do NEO dA IR == eee pa e A. Inganni e Me d B Donc, en éliminant — vr; à l’aide de la seconde équation (8)', et posant = —_-- —, PAR J. PLANA 189 Mais en différentiant les valeurs de 4 et B déterminées par les équa- tions (6)', l'on a: dATA dytgt dé 3 ge rg e a I; (aio tane d B dy, Sig AGI anto DES A PARE È = cos.0 CI, 5 E i at se ner (12) —_ CO ACI AZ dara I TE AUZAZIA: c'est-à-dire, en ayani égard aux équations (6)', (9)', (10)’, (2) et (6): di /(dv\' I asse rT( Te 3 Ta) dy (dv\ Il K F(T) 9) ; ve Il =, Peos.(y—9)—y-Quin.(v—-0) ; (OS FRS do M'(2'—-z) M'3 dz DE (RE H est facile de remplacer les deux équations («) par une seule équation relative directement à la latitude s. En effet, l'on a: è d d s=y.sin.(0—0) ; F=p.cos.(p—-9). 7 ; d Go) = y.cos.(p—0)=B.cossy—4.sin.y ; d°s ; dB di. T:=— B-simy—A.cos.v+cos.o- 77 — sino: o ; partant, en ayant égard aux équations (11)': CASIRI fix ; dB dt dA dt WTA ‘di dv GPS o N : 7 i+s=—1(-27) (2008047 sin.) ; 190 MEMOIRE SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. d°s Ir? FERRE, FIRE ng De rado) d°s dv (F+)-(e (ME 2A) =—- Ir) Done, en observant que les équations (e) et (13)' donnent dQ ds 20 RE AT lee REIT) rn (e') cioe oriana U=7; P dov Qs ? l'on aura : NR7 d°s 32 dv MS 3 dQ ds (LL (F+)-( op) E wanna Les trois équations (&'), («"), («'") répondent à celles designées par (K)} à la page 151 du premier Volume de la Mecanique Celeste. Elles avaient été publiées en 1766 à la page 321 du Tome 3 des Miscellanea Tau- rinensia (N.° LXIX). Ce Mémoire de Lacrance fait époque dans l’histoire des progrès de la Mécanique Celeste. Et, à ce titre, il est intéressant de savoir, que ce travail est immeédiatement posterieur à celui de sa Pièce « Sur les inégalités des satellites de Jupiter », couronnée en 1766. C'est de quoi on a la preuve non-seulement d’après l’identité des méthodes employées, mais aussi par une déclaration explicite publiée plusieurs années après par Lacrance lui-méme, à la page 226 du Volume de l’Académie de Berlin pour l’année 1783; où il dit: « Lorsque je tra- » vaillais en 1765 à la théorie des satellites de Jupiter ......... jen » fis ensuite l’application à Jupiter et à Saturne ». o) Pour compléter les équations (@’), («"), (a), (x), il faut avoir l’expression des forces P, Q, —II. Pour cela, nous tirons d’abord de la fonction Q, en différentiant l’équation (1): a a n dQ _M'(2'—-z) M'3'. da AB PRE où l’on a: I I I I e Vi Sn en posant PAR.J. PLANA IQI ZA Ti SARI (14)... rt+w=1—- +! cos.(v—-9)+ neo we sO). Dn) l'a) 1 Mais les equations (@), (8), (e') donnent P=T_ M'. (3 x) rsin(e—o) ; ; M'.r O Ul (FT) cole cai 3 Mirri (smi) dissi nn. _. : partant l'on a: M'.r' I ; DEE —___\ sin.(0—-0) AO) las i ( 1 M'.rw I I —__D.) __—_—_—_—__ —_—= cos.(v—9') È Pa) Fresco: V(i+- 5?) ’ (o) MATO) L lo VO+w II M'.r'Ms I fl I Di ri V(1+w)} (1+-s°)5 CARS Lie Da al gr pe (O) (1+w)° dv Soit 7 le moyen mouvement de la Lune, et r' le moyen mouvement de la Terre autour du Soleil. Par la théorie du mouvement elliptique , l’on a: n=(M+M").a-; n''=(M'+M).a-; a et a' étant les distances moyennes de la Lune et du Soleil à la Terre. E pi Donc, en faisant m=—, nous avons: n Il suit de là que, si l’on prend pour unité de masse la somme M+M" des masses de la Terre et de la Lune, l’on a: 192 MEMORIE .SUR LES FORMULES DU MOUVEMENT CIRCULAIRE ETC. NI EE TT +M" M' et comme les rapports vi comparaison de l’unité, nous avons : M+M" ni i M' > xi sont des fractions très- —petites en En introduisant cette valeur de 1M' dans le second membre des équa- AP rat a (17)... |m'= > pa m'=n.(£ tions (15)/, l’on aura: P=temÈ. PO i Tea > o V(i4W) (*) sito OE a r'5 (1) VG+w) w) ? ds licia I\3 | SE EL \ a Et l’équation (« vi 2g dy (& ) pio \Gidioto DETTA 2 7 . Lai La question est donc réduite à l’intégration des equations (a''), : l.sin.(0—v) 2 ViG+s)| cos.(9—v') vasi miao cost TETI agi osi ') peut étre écrite ainsi, savoir : Pdv|{-: 3 u (e"), (2), (x), en ysubstituant pour P, Q, —Il les fonctions de v et de y' déterminées par les formules (a). 193 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA” BREVE NOTA DI B. GASTALDE PROFESSORE DI MINERALOGIA —<>— Letta ed approvata nell'adunanza del giorno 26 novembre 4865. ——_—<@e&e—> Se nella scienza tiene il primo posto quella parte della geologia che ha per ispeciale oggetto lo studio della distribuzione delle roccie e delle vicende cui andarono soggette, degli spostamenti cioè, dei filoni che le attraversarono e di altri consimili fatti, ciò devesi particolarmente attri- buire alle dirette conseguenze che da tale studio si possono trarre, ed alla applicazione loro alla industria mineraria ed alla esecuzione di im- portanti lavori di costruzione. Nella conoscenza cronologica della terra occupa però un posto culminante la Paleontologia, come quella che, sottoponendo alla osser- vazione nostra le faune e le flore successivamente sviluppatesi sulla superficie del globo, ci pone in caso di determinare, senza quasi altro sussidio, la relativa età dei vari strati, e per mezzo di essa quella delle roccie non stratificate. Talchè si può dire che la geologia di un paese non è ben conosciuta se non quando sono ben noti i fossili racchiusi negli strati costituenti il suolo di esso. Egli è perciò che, dedicando il tempo di cui dispongo a raccogliere e pubblicare nuove osservazioni su quella parte della geologia cui mi sono particolarmente dedicato, non trascuro di portare, di tempo in 2 Serie II. Fom. XXIV. A 194 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA tempo, a conoscenza del pubblico i fossili nostrali che mi capitano fra mani e dei quali conosco per bene il luogo di provenienza e le con- dizioni di giacitura. Su quelli, di cui verrò discorrendo in questa breve nota, non ho potuto fare un lavoro corrispondente ai progressi della Paleontologia, sia perchè non ho le molteplici ed estese cognizioni che a tal uopo ci vorrebbero, sia anche perchè i Musei italiani non pos- seggono ancora quella dovizia di esemplari e di libri indispensabili alla classificazione e allo scientifico esame di un essere organico fossile © nuovo o poco noto. Mi limiterò perciò a dare sui fossili, ai quali è dedicato questo scritto, quelle nozioni che varranno a farli sufficientemente se non compiuta- mente conoscere. Su alcuni però ho potuto avere da ben noti naturalisti miei amici osservazioni nuove ed interessanti le quali, inserite in questo mio lavoro, gli daranno un grado di importanza che altrimenti non potrebbe avere. Ossa umane e di cervo scoperte negli scavi eseguiti per la fondazione delle pile del ponte sul Po a Mezzana Corti. In altri miei lavori io già mi dichiarai poco proclive ad ammettere la esistenza dell’uomo fossile, epperciò, conseguente a me stesso, non volentieri mi decideva a discorrere, in questa nota, destinata a descri- vere fossili, dei resti umani scoperti nei lavori di costruzione del ponte di Mezzana Corti. Molti converranno con me nella opinione, che, al giorno d’oggi, sia molto difficile definire ciò che intendiamo esprimere colla parola fossile. Vuolsi considerare come tale lo scheletro, i resti, l'impronta di un animale, la cui specie è ora estinta ? In questo caso dovremo porre fra i fossili anche l’Alca impennis, e per altra parte non potremo dire che esiste l’uomo fossile, se non quando avremo prima dimostrato che i resti umani reputati fossili hanno appartenuto ad una specie di uomo diversa dalla vivente. E poi la parola fossile non avrebbe più alcun significato di tempo, non avrebbe più alcuna importanza in geologia. Vuolsi definire il fossile — i resti di un animale sepolti nel seno della terra da cause naturali ed anteriormente ad ogni traccia di storia o di tradizione ? Allora i resti umani delle palafitte dell’epoca della pietra e del bronzo, delle terremare ecc. saranno anche fossili. DI B. GASTALDI. 195 Vuolsi coll’appellativo di fossile indicare i resti di un essere orga- nico che visse in un'epoca geologica trascorsa? Io mi trovo’ allora in grande epoca geologica, che lasciò di sè ampie, colossali reliquie su gran parte dritto di negare la esistenza dell’uomo fossile. Ed infatti l’ultima di suolo dei due emisferi, è quella cui si dà il nome di erratico-dilu- viale. Ora non mi pare ancora per niente provato che avanzi dell’uomo sieno stati trovati in quelle reliquie, in quei depositi cioè torrenziali cui si diede il nome di di/uyium, depositi che si estendono al disotto delle antiche morene, e che coprono interamente il fondo delle valli aperte ai piedi di tutte indistintamente le catene di montagne notevoli per estensione e per elevazione. Egli è molto probabile che l'EZephas primigenius, VUrsus spelaeus, certe specie di Rinoceronti, di grandi Gatti, di Iene ecc. abbiano vissuto ed abbiano abitato l'Europa posteriormente all’epoca erratico- diluviale; egli è molto probabile che l’uomo abbia esistito contempora- neamente a quelle specie di animali. Ora, se si ritengono per fossili i resti di quelli animali, egli è evidente che conviene come tali consi- derare anche certi resti umani. Ma, in ogni caso, questi fossili non rimonterebbero al di là dell’epoca erratico-diluviale, anzi non sarebbe ancora provato che rimontino sino a tal epoca. Talchè le denomina- zioni di uomo antidiluviano , di uomo fossile, sono per lo meno molto arrischiate. I fatti sui quali poggiano le prove dell’ esistenza dell’uomo fossile, furono in gran parte osservati nelle caverne. Le caverne, è noto, 5 sono state aperte, scavate dall’acqua filtrante, scorrente entro le fen- diture da cui, in ogni senso, in ogni direzione; sono tagliate le grandi masse calcari. La formazione della maggior parte delle caverne ha dovuto aver luogo durante l’epoca erratico-diluviale, giacchè tutti ammet- tono che,, in quell'epoca la quantità d’acqua corrente sulla superficie di buona parte del globo era maggiore. Ciò essendo, i resti organici trovati, i fatti osservati nella maggior parte delle caverne, devono essere posteriori alla già ridetta epoca erratico-diluviale. In questo argomento poi dell’uomo fossile il nostro ragionare si aggira sempre attorno al significato, alla importanza che si vuol dare alla parola specie; e chi sa poi quale importanza, quale significato abbia questa parola. La stessa epoca erratico-diluviale è una questione di distribuzione di temperatura, di clima, e tutti sappiamo quanto lenti 196 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA sieno i cangiamenti di tal genere che hanno luogo sulla superficie del globo, talchè possiamo affermare che sfuggirebbero alla osservazione nostra, se poi non fossimo colpiti dai loro effetti. Ed invero, non vediamo ora sottoposte a regime glaciale certe regioni, lo Spitzberg, p. e., il cui suolo racchiude combustibili fossili dell’epoca carbonifera? (1) In ogni caso su questa questione dell’uomo fossile non si è ancora pronunciato l’ultima parola. Chi sa che un giorno non troviamo resti dell’uomo associati a quelli dei Mastodonti pliocenici, dei Dinoterii ecc. Se ciò accadesse, tutti, ua voce, dichiareremmo che l’uomo fossile esiste, ed ogni contestazione in proposito cesserebbe sull’istante. Considerando però l'ampiezza del significato che oggidi si dà alla parola fossile, l'interesse che ora destano le scoperte di resti umani sepolti negli strati superficiali e l’importanza reale che hanno i resti animali trovati nelle alluvioni del Po a Mezzana Corti, associati, quasi, a porzioni di scheletro umano, mi credo in dovere di qui parlare sì degli uni che degli altri. L'apertura del tronco di strada ferrata che deve congiungere Voghera a Pavia rendeva necessaria la costruzione di un ponte sul Po presso il luogo di Mezzana Corti. Negli scavi che a quest'uopo si fecero col sistema ad aria compressa, ed alla profondità di 7", 50 circa, si trovò un cranio umano (che vedesi raffigurato nelle tav. II (2) e III), e quindi, alla profondità di 10",80, epperciò a 3",30 circa più basso, si rin- vennero due enormi corna (tav. I), porzione di altro corno, di una scapola, ed una vertebra cervicale di cervo. Il signor HamsseLin, direttore dei lavori di costruzione del ponte, seppe apprezzare il valore di questi oggetti, ed ordinò che , quantunque rotti e monchi, venissero diligentemente conservati. Volle quindi farne dono al mio collega sig. ingegnere Marchesi, professore di costruzioni nella scuola di applicazione per gli ingegneri, il quale a sua volta si compiacque rimettermeli, onde figurino nel gabinetto mineralogico di detta scuola. Nell’inviargli quei resti, il signor HarnsseLIN indirizzava al signor Marchesi la seguente lettera: (1) V. MaRTINS, Du Spitzberg au Sahara, pag. 82. (2) Nella tav. II il cranio visto lateralmente ha lunghezza minore della reale. DI B. GASTALDI. 197 «Je fais remettre au chemin de fer, aujourd'hui, à votre adresse, une caisse contenant les divers objets trouvés dans les fouilles des piles du pont sur le Po. Les pièces les plus importantes sont les débris de deux énormes cornes trouvées à la culée de gauche, à une profondeur de 9 à 10 mètres sows l’etiage. Une autre corne d’un animal plus petit a été trouvée à la mème Sable fin un peu profondeur à la pile n° 3. Quelques autres vst ossements proviennent du mème niveau et des fouilles d’autres piles. Sable fin pur. « Le eràne humain, dont vous trouverez aussi les fragments, a été rencontré à une profondeur moins grande, vers 6 métres Sable pur, rognons DIAO nai, d’argile. SOUS l'etiage. Tous ces ossements ont été "Crane humain. | rencontrés dans des sables ou des graviers reposant directement sur la couche de 3 Salo ut tourbe qui a, comme vous le savez, une rognons d’argile. | assez grande régularité. Les alluvions plus anciennes situées sous la tourbe ont fourni | Corne de daim. des bois en assez grande quantité mais S pas d’ossements. Nous avons joint à ces fossiles des agglomérations de galets qui I Argile compacte = Eta, et tourbe. nous ont paru presenter un certain imte- rét. Le ciment est de la pyrite de fer provenant de la réduction d’eaux ferru- Sable argileuz fin. | gineuses sous l’action de matières organi- ques. Ces agglomérations ne se sont en effet rencontrées qu'à la surface de trones d’arbres qu’ elles englobaient compléte- ment, et auxquelles elles donnaient un diaméètre extraordinaire. Nous avons vu certains arbres revétus d’une couche de o", 25 de sables ou graviers ayant l’ap- Sable fin. parence de grés. Ce phénomène est tout à fait ordinaire dans le lit des fleuves, et Jai rencontré sur d’autres travaux des échantillons où la pyrite s'était substituée Sable pur et fin. Sable et gravier. Sondage du terrain, en correspondance de lu culée gauche du pont sur le Po près de Mezzana-Corti Sable et gravier. 198 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA au bois en en conservant la forme jusqu’aux moindres détails. La ma- tiére organique avait complétement disparu, mais était si bien remplacée par la pyrite qu'on pouvait reconnaître l’essence du bois et distinguer les neeuds ainsi que les trous des vers qui l’avaient attaqué. « Je regrette que les ossements fossiles aient été sortis des caissons en aussi mauvais état par les ouvriers qui les ont brisés; j'ai fait des recherches inutiles pour arriver d les completer ». Cranio umano. To son troppo profano in fatto di craniologia per per- mettermi di descriverlo. Fortuna volle però che l'illustre antropologo C. Vor, reduce da un viaggio nell'Italia meridionale, sia passato per Torino onde restituirsi a Ginevra, e che abbia potuto soffermarvisi tanto da poterlo studiare. Con cortesia poi pari alla molta sua dottrina si compiaceva indirizzarmi la lettera che qui trascrivo, persuaso di fare cosa gratissima a tutti coloro che, nel nostro paese, si occupano di craniologia. « Cher ami, « Vous m’avez demandé, lors de mon dernier passage à Turin, quelques renseignements sur un cràne incomplet découvert, -il n'y a pas longtemps, dans les alluvions du Po, près de Mezzana-Corti, è 7",30 de profondeur et à 3 métres environ au-dessus d’une téte ma- gnifique de Megaceros, dont vous m’avez fait admirer la palmure dans votre Musée. Vous croyez que l'homme et le cerf appartiennent è la méme couche, ce qui prouverait une grande ancienneté du premier. Mais c'est un point que je n’aborderai pas ici, cù je veux me borner exclusivement aux caractères du cràne. Permettez-moi de parlerà cette occasion de, quelques autres crines plus ou moins anciens, que j'ai pu étudier en Italie, gràce à la complaisance de mes amis, que je prie d’agréer mes remercimens sincères. Ces études sont très-limitées, il est vrai. Malheureusement les circonstances ne m’ont pas permis de profiter de l’offre gracieux de M. le Sénateur FroreLLi à Naples, qui avait mis à ma disposition la collection des, crànes déterrés par lui à Pompe], ce qui m’aurait permis, peut-ètre, d’élucider la question encore trés- controversée du cràne romain proprement dit. « Les crànes que j'ai pu examiner, dessiner et mesurer en détail sont les suivants: r. Un cràne très-ancien réduit à la calotte seulement, trouvé dans DI B. GASTALDI. 199 l’argile plastique d’une vallée latérale de l'Arno en compagnie d'Eléphans et d’autres espèces éteintes, sur lequel M. Coccni prépare actuellement un Mémoire; ° Un cràne assez mutilé, trouvé dans un tombeau de l’époque romaine; « 3° Un cràne sans base, trouvé dans un tombeau etrusque à Chiusi et donné au Musée de Florence par le marquis STROZZI; « 4° Un cràne complet trouvé dans un tombeau étrusque à Volterra, et donné au Musée par M. le professeur PARLATORE. < Ces quatre crànes m'ont été communiqués par MM. CoccHi et byte à Florence; « 5°: M. Repnatl Foresti à Florence a mis à ma disposition trois crànes trouvés à l’île d'’Elbe dans les couches superficielles recélant des instrumens en pierre et en bronze; « 6° A Bologne M. le comte Gozzapini m’a obligé en me confiant les crànes qu'il a tirés des nécropoles étrusques placées, soit dans le voisi- nage de Bologne, soit près de Marzabotto, village situé dans la vallée du Reno entre Bologne et Florence, sur le trajet du chemin de fer; 7° Enfin vous m'avez de nouveau confié, outre le cràne de Mezzana Corti, ceux déjà décrits par NicoLucci provenant des environs de Modène. « En tout 14 crines, dont plusieurs complets, sur lesquels jai pu prendre des mesures et des dessins. Je .Jaisse de coté les crànes trop mutilés ou trop défigurés pour pouvoir donner des figures exactes. Je ne parlerai pas non plus, pour le moment, ni du cràne ancien du Musée de Florence qui n’a point d’analogue parmi les autres, ni du cràne romain du méme Musée, ce dernier cortredisant entièrement l’opinion fondée sur l’examen de quelques crànes romains, suivant laquelle le type romain devrait étre très-dolichocéphale, allongé et étroit (type de Honserc, de MM. His et Rurimeyer — Crania Helvetica). Le romain de Florence est manifestement brachycéphale et n'a aucune analogie, méme éloignée, avec le type de Homserc dit romain. L’examen des crànes de Pompe] servirà, sans doute, à éclaircir ce point douteux. « Parmi les douze autres crànes je reconnais deux types distincts, que je veux appeler type etrusque et type lisurien, en adoptant les termes choisis par M. NicoLvcci. « Au type eétrusque appartiennent les crànes de Volterra, Chiusi, Bologne et le cràne n° : de l'île d’Elbe. 200 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA « Les autres, savoir: Torre della Maina et Maranello, environs de Modène (Musée du Valentino à Turin), n° 1, 2 et 3, Elbe n° 1, 2, Mezzana Corti et Marzabotto n° 1 et 2 appartiennent au %ype Ligurien. « Parlons d’abord du type etrusque. « Ce type a été rappelé dans la littérature moderne par C. E. von Baer (Sur la structure des crdnes des Romanes de la Rhetie: Melanges biologiques du Bulletin de l'Académie de Saint-Petersbourg, Vol. 3, pag. 243 et 273) et par MM. His et Ririmever (Crania Helvetica, pag. 31). Ces derniers auteurs ont publié les mensurations de deux crànes étrusques donnés par le Roi Louis I de Bavière à Blumenbach et conservés dans la collection de Gottingue. Ils ont figuré en outre, sur deux planches, ces deux crànes suivant la méthode de Luca, méthode excellente qui permet une comparaison rigoureuse des contours. Les deétails fournis par MM. His et RirimeverR sont ceux sur lesquels jappuie le plus. M. von Barr ne donne que quelques mesures exprimées en pouces et lignes anglaises dont je ne connais pas exactement la valeur. M. Baer mentionne en outre un travail de M. Macciorani dans les Actes de l’Académie des Nuovi Lincei, anno XI, que je mai pas pu consulter. « Je vous donne d’abord ici le tableau comparatif de deux crànes de Volterra et de Chiusi, et de deux crànes conservés à Goòttingue que je con- sidère comme typiques. Le cràne de Bologne ne permet pas une mensu- ration complète. Le cràne n° 3 de l’ìle d’Elbe appartenant à M. Foresi montrant quelques particularités, je le mets à la suite des quatre autres ». Table des mensurations en millimètres (*). È “Ea to| 3 | 5 ri I = 3 9 Ora DÉSIGNATION & 5 || Circonférence |S8/5 |, s - cli—=— stes PARISI È: 8 Srl ea = ka des E È 5|È o | 22|S|z9]| 8 S E au |S|ala|a|e® || 8 |go0|58|855| = s ; pira |Je ela aaa ae ° crànes Go) be | Salo 434 | 89] |a fo S (S| = = D fd = (S] BD 2 tri A Sutzi n A S & = Ei s |a = E ° |eg®|s Za 2 SÈ 2 = (= 0) => I (2 n (©) E 2_|< ° (SÌ Volterra ! 185 160 128 [130 |435 Chiusi 150 4132 |125 {. Gotlingue 483 B. | 185 |446 4 135 {135 |M15 Id. LXIX. (186 |dA5I xe 134 |130 |130 Moyenne des 4 erànes typiques 483,25) 451,75 132,3 134,8/426 Elbe. 3 140 130 [430 [430 (*) Les mesures exprimées dans les tables sont les mèmes que celles employées par MM. His el KRurimEveR dans les Craria helvetica. DI B. GASTALDI. 20I « On trouverait difficilement, je crois, une concordance aussi com- plète dans les mesures sur des crànes provenant de localités différentes. Le cràne de Bologne ne permet guère des mensurations rigoureuses, mais tous ses caractères sont identiques avec ceux des quatre crànes typiques. Seul, le cràne n° 3 de l’île d’Elbe diffère, et méme d’une manière un peu notable. Il est plus long et beaucoup plus étroit que tous. les autres crànes, et en méme temps moins élevé. Mais je ne crois pas qu’on puisse le séparer des crànes étrusques; on sait que les grandes tétes sont en général plus dolichocéphales et moins hautes que les tètes moyennes. Quelques autres caractères dont je parlerai tout à l’heure, pourraient peut-étre indiquer, pour ce cràne, un mélange avec une autre race; mais ce doute ne pourra ètre éclairci que par des obser- vations plus nombreuses. « Vous savez que la méthode de LucAr permet de comparer immé- diatement les contours des crànes en superposant les calques faits sur du papier végétal. Or, en suivant ce procédé, le profil du cràne de Chiusi couvre presque exactement celui du cràne de Gottingue 183, B, mais son front est plus plat et le sommet du vertex rejeté un peu plus en arrière que dans le cràne de Gottingue. Le cràne de Volterra, au contraire, se rapproche très-bien du cràne LXIX de Gòttingue; seulement le trou de l’oreille se trouve rejeté presque d’un centimétre en arrièére de sa position sur tous les autres crànes. Le front est le mieux développé dans le cràne de Bologne et le plus plat dans ceux de Chiusi et de Gottingue 183, B. L’autre cràne de Gottingue et celui de Volterra se placent, sous ce rapport, entre les deux extrèmes. L'antagonisme qui existe souvent entre le développement du front et de l’occiput se montre aussi ici; le cràne de Bologne a, en effet, l’occipital assez raccourci, tandis que celui de Chiusi l’a plus proémi- nent que tous les autres. La tendance au prognathisme est très-marquée ; les crànes de Chiusi, de Bologne et l'un de ceux de Gottingue la montrent, autant dans la direction oblique des dents incisives que dans l’allongement du palais, et comme cette tendance est developpée dans trois crànes sur cinq ou six, elle rentre presque dans la catégorie des caractères normaux, « La téte étrusque est donc une tète assez grande et sous-brachy- céphale, suivant la désignation de Broca, l’indice céphalique étant, en moyenne, de 82. Elle se caractérise surtout par l’arrondissement général Seme IL Tom. XXIV. 2B 202 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA des contours et des angles, par le front bas, mais large, et par l’empla- cement du sommet du vertex et du plus grand diamétre transversal, qui tous les deux sont rejetés considérablement en arrière, ainsi que par le faible développement de l'occiput. Les arétes musculaires sont peu marquées, malgré la grandeur assez notable de toute la capsule cérébrale; les fosses temporales peu profondes, les arcs zygomatiques très-peu arqués, de manière qu'on les voit à peine dans la vue verticale. Le front passe insensiblement en vote surbaissée au sommet de la tète; les bosses frontales sont à peine marquées, les arcs sourciliers point proéminents , l’occipital arrondi; les bosses pariétales placées en arrière, mais peu marquées. La figure est pleine; les orbites grandes, le nez assez large et formant un angle avec la ligne de profil du front; la machoire supérieure forte, longue, souvent un peu prognathe. Vues d'en haut ces tètes paraissent plus allongées qu’elles ne le sont réelle- ment à cause de l’arrondissement des angles et du rejettement de la plus grande largeur en arrière. i « Je suis parfaitement d’accord avec MM. His et RirImeyER quant à la ressemblance entre les tetes étrusques et certaines formes meélan- gées qui se trouvent en Suisse et qu’ils ont désignées sous le nom de metis de Sion-Disentis, mais je suis fàché de me trouver en désaccord avec M. von Baer. En effet si ce dernier dit que la téte étrusque est dolichocéphale et moyennement large, les mesures que j'ai rapportées disent bien le contraire, et quant aux rapports que M. von BaeR veut trouver entre la téte étrusque et la téte des Grisons (type de Disentis H. et R.) je ne puis que répéter avec MM. His et RòrImeveR, qu'il me paraît impossible de trouver des relations entre ces deux formes. « La tète étrusque est bien sui generis. « J'arrive au second type que M. Nicorucci, si je ne me trompe, a ap- pelé type ligurien et qui est surtout représenté par les crànes trouvés dans les serramares. J'y rapporte aussi, comme je l’ai déjà dit, deux crànes de ‘île d’Elbe, ainsi que les crànes des sépulcres étrusques de Marzabotto. Jy rapporte également les crànes décrits par M. CAanEsTRINI, et conservés dans le Musée de Modéène, tout en faisant remarquer que deux de ces crànes paraissent avoir des dimensions exceptionnellement petites. « Je regarde comme typiques les deux crànes des zerramares de Torre della Maina et celui de Maranello (environs de Modéène) que vous possédez à Turin, et celui de Cadelbosco décrit et figuré par DI B. GASTALDI. 203 Nicorucci. J'ajouterai, au tableau des mesures, le cràne de Mezzana-Corti que vous avez également à Turin, les deux crànes de l’île d’Elbe et ceux de Marzabotto, dont l’un est certainement déformé, et cela, peut-étre, par pression artificielle dans l’enfance. Table des mensurations en millimètres. n = ® (>) - (3) Zo n Desa ORI BI E GlLcE Se sla INE I) = = Unni Bel CA DESIGNATION = È SS |a |8% la] = Di Ei SISMA Size eli iaia des PI 5 SS ba; Si PI - | 3 |2®]Observations 3 S EU 5 o | |S8|® |fSo È 2 È crames E 8 o |a Co [Ck EulicenSe Pane so i i èD co AS En] = s SA NEanlezt ape saldo Sisal Ss d E | < see en Torre della Maina] 175 82,8/136 |101 Prognathe Torre della Maina 170 {146 | 85,9/131 | 97 Cadelbosco ..... 174 | 140 | 80,4|152 | » Mesuré par Nicolucci Moyenne des quatre a crànes typiques .. | 174,5] 143,7} 81,3|139,7| 99 Mezzana-Corti...|176 |142,2|80,4?| » |100 E lbegNE SME 179 |148 | 8277} » | 95 maso 178 » » » 95 3 a (=) (©) Marzabotto N.° 1 |177 |143 | 80,8 » 2179 |136 76 » » Déformé » « La concordance des mesures principales rapportées dans ce tableau est, je crois, très-satisfaisante. Le cràne n° 2 de Marzabotto montre seul des exceptions, mais il est évidemment déformé, et c’est à cette déformation artificielle ou engendrée par maladie qu'il faut rapporter le peu de largeur, la hauteur excessive et l’avancement du sommet du vertex qui se trouve perpendiculairement au-dessus du trou de l’oreille. La base du cràne n’étant pas conservée, je n’ai pas pu exprimer cette hauteur par la mesure des points choisis pour cet effet par M. von Baer, savoir: le sommet du cràne et le plan horizontal du grand trou occi- pital; mais si l’on mesure la hauteur depuis le trou auditif au sommet du cràne, on trouve qu'elle dépasse celle des autres crànes typiques de deux centimètres, quantité énorme qui équivaut è un cinquième de la hauteur totale. 204 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA « Un seul de ces crànes, le n° 1 de Torre della Maina, est pro- gnathe, tous les autres sont orthognathes. La prognathie du n° 1 est accompagnée des caractères ordinaires, résultant. d’un développement plus considérable des muscles des machoires; accentuation des crètes, profondeur des fosses temporales, arquement des os zygomatiques. « La téte ligurienne est une tète relativement petite (longueur variant entre 170 et 180 millimètres), sous-brachycéphale, à front large, mais peu développé en longueur. Comparé è la téte étrusque, ce type montre presque toutes les dimensions rapetissées, le diamètre transversal et le sommet du vertex ramenés plus en avant, l’occipital peu développé, coupé presque verticalement et non arrondi, mais en revanche le front relativement plus large et coupé carrément. Les arétes musculaires sont proportionnellement plus fortes sur les tètes liguriennes que sur les tétes étrusques, les arcs zygomatiques plus proéminents, les fosses temporales plus profondes, les os malaires plus saillants; les orbites sont plus petites, mais le nez plus large et la figure moins haute et plus large. Mais ce qui me semble caractériser le plus ce type c’est la courbure de l’os frontal, visible surtout dans la vue de profil. Le front s’élève en ligne verticale depuis les arcs sourciliers jusqu’aux bosses frontales, lesquelles souvent sont proéminentes et saillantes comme chez des enfants, de manière qu’une impression transversale de la largeur d’un doigt règne, sur le milieu de ce front bas, entre les arcs sourciliers et les bosses frontales. Des bosses: frontales la courbe de l’os se rejette brusquement en arrière, de manière à faire paraître la partie supérieure du frontal presque plate, et ce plan à peine voùté se rejoint souvent au pariétal par un léger enfoncement qui règne le long de la suture coronale. Vous voyez ce double caractère de l’impression transversale du front et de l’enfoncement du sommet le long de la suture coronale très-bien exprimé dans les petites figures des deux crànes de Torre della Maina données par NicoLucci dans son Mémoire. « Je remarque ces mémes caractères de la courbure du front dans le cràne romain qui m'a été communiqué par M. CoccÒi et dans le cràne de l’île d’Elbe n° 3 appartenant à M. Foresi, lequel, pour les autres caractères, semble devoir èétre compté parmi le type étrusque. Je les vois également dans les photographies des crànes de Modéène, que je dois à l'obligeance de M. CaxestRINI. « Les élémens de comparaison nécéssaires me font defaut pour DI B. GASTALDI. 205 pouvoir juger si ce type ligurien se continue dans le cràne des Italiens actuels, mais à en juger par la vue de quelques vivants, je n’en doute pas. M. Wetrcker donne, du reste, dans son ouvrage — sur la croissance et la forme du cràne — comme indice céphalique moyen des Italiens actuels, déduit de quinze crànes, le chiffre 81,6 qui s’accorde fort bien avec les mensurations précedentes. « Le crdne de Mezzana Corti appartient, sans doute, à ce type. Il en montre tous les caractères et si bien deéveloppés, qu'entier il en serait un véritable modéle. Si donc ce cràne est aussi ancien pour avoir gté contemporain des espèces éteintes, et notamment du Megacéros, en Italie, le type ligurien formerait, jusqu'à plus amples informations, le cràne d'une partie des premiers habitants de la péminsule, auxquels seraient venus plus tard se méler les étrusques. Les liguriens aborigènes auraient continué leur existence en conservant leur type crànien, mais ils auraient adopté, en grande partie au moins, la civilisation étrusque, comme le démontre la nécropole de Marzabotto. Mais ce sont là, non pas des résultats, mais de simples conjectures que je me permets pour signaler la direction, suivant laquelle devraient ètre faites des recherches ulté- rieures en Italie. Vous connaissez les beaux résultats obtenus par MM. His et Rorimeyer sur les types cràniens des habitants de la Suisse et sur la continuation de ces types à travers les temps historiques; je ne doute pas qu'on pourrait arriver en Italie è des résultats analogues. « Dans cette vue seulement, et pour notice j'ajoute encore quelques mots sur les deux crànes du Musée florentin que j'ai mentionnés dans le commencement de cette lettre. Le cràne très-ancien, contemporain des espèces éteintes, se place entièrement en dehors de tous les types que j'ai vus en Italie. Il est énorme, ayant 197 millimètres de longueur absolue, donc deux centimétres de plus que le plus grand cràne étrusque. Il est comparativement large, car son indice doit dépasser 85; la largeur n’étant pas exactement mesurable, on peut seulement en faire une évalua- tion approximative. La vue d’en haut rappelle beaucoup celle du fameux cràne du Néander-thal, surtout dans la partie postérieure où les contours se couvrent presque exactement; mais il en diffère beaucoup par le développement du front qui se rattache entièrement, par l’existence des dépressions frontales et coronales, au type ligurien. « Je ne connais rien de semblable dans toute la cràniologie ancienne. « Le cràne romain, dont jai oublié de noter la provenance, mais 206 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA qui, suivant M. Coccni, est authentique, est le cràne d’un adolescent dont l’avant-dernière molaire est au point de paraître. La base du cràne et la figure manquent, à l’exception de la machoire supérieure ; les arcs zygomatiques font défaut également. La téte est remplie de terre et très-fissurde, ce qui ne permet pas des mesures exactement rigoureuses, mais pourtant approximatives à quelques millimètres près. Or, c'est une petite téte arrondie, brachycéphale (indice céphalique presque 85, longueur absolue 172 millimètres), front très-gtroit, bas, s’élevant ver- ticalement pour se continuer brusquement dans le vertex plat et presque horizontal, è occiput rentrant, à bosses pariétales peu marquées’ et arrondies; c'est une téte enfin, qui, sous tous les rapports, cadrerait parfaitement avec le type ligurien, tout en tenant compte des caractères enfantins. « Ce résultat m'a fortement surpris, je l’avone. MM. His et RùrIMEYER ont prouvé (Crania helvetica, pag. 38 et 39) que la forme essentielle- ment dolichocéphale de quelques crànes suisses, qu’ils ont appelés le type de Hohberg et que j'avais désignés comme tétes d’Apotres — leur apparition dans les tombeaux concordant avec l’introduction du christia- nisme en Suisse — est la méme que celle de la téte romaine conservée dans le Musée de Gottingue et décrite par BLumensac®. Cette mème forme dolichocéphale se retrouve .dans les /ongs-barrows en Angleterre, décrits par MM. Trunam et Davis, et dans les crànes du midi de l’Alle- magne décrits par M. Ecxer. Malgré ces données disparates on paraît s'étre habitué depuis à considérer le cràne romain comme un cràne essentiellement dolichocéphale à vertex caréné et à occiput proéminent et pointu. « Or, le cràne florentin diffère de ce type du tout au tout. Les crànes de Pompej, que j'ai vus sans pouvoir les étudier en detail, ne ressemblent en aucune manière aux crànes des Apòtres, que je connais depuis que je m'occupe de questions cràniologiques. Ils m’ont semblé plutòt brachycéphales et se rattachant au type ligurien. Quelles conclu- sions tirer de ces faits? D’abord qu’ils sont encore très-incomplets, mais qu'ils permettent de douter de l’opinion formée sur le cràne de Gottingue que les Romains étaient des dolichocéphales des plus prononcées - et cela entre les Etrusques et les Liguriens plutòt brachycéphales, et les Italiens actuels brachycéphales aussi en grande majorité! Je croirais plutòt que le cràne donné à Brumensac® par le roi Louis I de Bavière et désigné DI B. GASTALDI. 207 comme romain, n'est pas d’un indigène, mais d’un barbare de souche celtique qui était venu en Italie du temps de l’empire romain, comme tant d'autres y sont venus pendant que Rome était la capitale de l’Univers. Je mai pas en main la Décade IV des crànes de BrumensAcH pour pouvoir examiner quelles sont les preuves que l’auteur donne pour la véritable origine de son cràne. Mais si cette origine était authentique et constatée par des exemples plus nombreux encore, il faudrait en déduire comme conclusion que dans l’Italie antique demeuraient, au lieu de deux, trois souches, deux plutòt brachycéphales et une haute- ment dolichocéphale. En attendant des recherches ultérieures nous pourrions bien nous contenter des Etrusques et des Liguriens, ces derniers étant peut-ètre plus anciens. « Jespère que la nouvelle année qui commence va nous porter d’autres eclaircissements. L’ardeur de vous et de vos collèégues ne saurait diminuer, et je salue d’avance les nouvelles découvertes que vous allez faire. « Agréez l’expression de mes sentiments affectueux. « Genève, le 20 janvier 1866. ì GC: Voer ». « Post-scriptum. Au moment où je ferme cette lettre je recois, de la part de mon ami et collèégue M. Ecxer à Fribourg, le passage de la Decade IV de Brumensack® relatif au cràne romain en question. Voici ce que dit Brumensaca: Militis est veteris romani, cuius ossa inter rudera castri praetoriani simul cum marmorea tabella reperta, quam ibidem amicus princeps transmisit et cui nomen spectabilis bellatoris ita incisum est: V . L. ALEJUS. i « Il résulte de cette notice, que le crine pouvait tout aussi bien appartenir à un légionnaire d’une nation barbare qu’à un Romain indigène ». Cranio di Cervo. Fu trovato alla profondità di 11 metri circa al disotto del suolo, e sortì dai cassoni in pessimo stato. Quantunque privo di molte sue parti di non lieve importanza, e soprattutto della lamina inferiore delle corna, nonchè delle ramificazioni basali, riuscii tuttavia 208 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL: PIEMONTE E DELLA TOSCANA a rimetterlo insieme alla meglio, onde poterlo far disegnare. Non è raro d’incontrare tali resti nelle alluvioni del Po, unitamente ad altre specie di Cervi, ed a cranii ed ossa appartenenti, a giudizio del sig. RùTIMEYER, al Bison priscus. Paragonato il fossile in questione con un cranio con- simile che fa parte del Museo mineralogico della nostra Università, e classificato dal sig. E. Siswonpa col nome di Cervus euryceros Aup., mostrava con questo perfetta analogia. Volli tuttavia consultare in pro- posito il sig. E. CornaLia di Milano, il più competente, in tale materia, fra i paleontologi italiani, e che ebbe agio di vedere e di esaminare molti fossili della stessa e di diversa specie, che conservansi nei pubblici e privati Musei di Lombardia. Egli altresì crede che è il Cervus ewryceros Atp. cui sono sinonimi il Megaceros hibernicus, il Cerf aux bois gigantesques dei Francesi, e l’Irish Elk degl’ Inglesi. Pare che questo Cervo sia vissuto nel nostro paese contemporaneamente all’Alce di cui si posseggono in Lombardia magnifici resti, che il già citato sig. E. CornaLia ci farà fra breve cono- scere unitamente ad altri resti di Cervo dell’epoca stessa. La figura che ne do (tav. I) mi dispensa dal descriverlo; mi limiterò a dire che, quantunque in molte parti monco, pare sia, in ordine alle corna, uno dei cranii meglio conservati di questa specie, che si posseggano in Italia. Esposte, collo scritto favoritoci dal sig. Prof. Voer, le più ampie, le più conchiudenti e precise osservazioni che, per ora, desiderare si potessero sul cranio umano trovato a Mezzana-Corti; esposto il poco che avevamo da dire sul cranio di Cervo, non ci rimane che a parlare della giacitura di amendue. Già è stato fatto cenno qui sopra della profondità alla quale sono stati scoperti , ed essa emerge, d’altronde chiaramente, dallo spaccato inserito a pag. 197, di cui andiamo altresì debitori alla cortesia del sig. Ingegnere Hamssein. Esaminando quello spaccato , si scorge che, se il cranio umano fu incontrato a più di tre metri superiormente a quello di Cervo, ambedue i cranii però giacevano nello stesso strato , il quale, essendo in tutta la sua grossezza di sabbia e ghiaia , sta poi sovrapposto ad un altro banco di ben diversa natura, cioè di argilla compatta con torba. Trovandosi al disotto di quest’ultimo banco altri strati indicanti un vero deposito alluviale, siamo autorizzati a credere che la corrente del Po, durante il deposito del banco torboso ed argilloso , aveva deviato DI B. GASTALDI. 209 a destra od a sinistra del suo letto primitivo, e che, fatto poscia ritorno all'antico alveo ne rialzò il fondo, coprendolo di un banco conside- revole (3",65) di sabbia e ghiaia, nel quale si incontrarono i cranii in questione. Tutto ben considerato, non è poi assolutamente impossibile che l'individuo uomo e l’individuo cervo, ai quali quei cranii apparten- nero, sieno vissuti contemporaneamente. Se ciò fosse, la razza umana, anzi quella razza brachicefaia cui si diede il nome di Ligure, avrebbe abitata Valta valle del Po anteriormente alla estinzione del Cervus eUryceros. In ordine al cranio di Euryceros, io devo qui notare un fatto che mi pare degno di speciale attenzione. Estratto, unitamente alle corna di cui va munito, in circostanze poco propizie alla sua conservazione, quel cranio era ridotto in pezzi, e per ridargli la primitiva forma dovetti procedere ad una lunga e non facile operazione di preparazione. Premetterò che la parte interna, la parte spugnosa delle corna era affatto alterata, e si riduceva senza la minima difficoltà in polvere; nè meno profondamente alterata era la superficie esterna dell’osso, talchè essa assorbiva avidamente il liquido. Io era però solito a notare tali cose nel preparare i resti di pachidermi e di ruminanti provenienti dagli strati pliocenici superiori. Osservava però che scaldando i varii pezzi alla fiamma dell’alcool, onde meglio potessero assorbire la colla, la carboniz- zazione dell’osso si produceva con molta facilità, ed in pari tempo ne esciva un odore empireumatico particolare. Dovendo poi far uso della lima e dello scalpello per diminuire in qualche punto lo spessore del corno, io vedeva che sotto l’azione della lima la sostanza cornea diveniva lucente, e che sotto al vivo taglio dello scalpello le porzioni staccate formavano trucciolo avyolgendosi su se stesse a guisa di quanto succede tagliando corna fresche. Presi allora alcuni di questi truccioli, li esposi ad elevata temperatura entro una capsula, e l’odore che ne emanava era identico a quello che si sviluppa quando si abbruciano corna fresche. Se ne deduce che, quantunque quei frammenti di corna abbiano appartenuto ad una specie oggidì estinta , quantunque sieno per secoli giaciuti in condizioni favorevolissime alla loro fossilizzazione , giacchè trovavansi in uno strato di sabbia, pel quale continuamente infiltravasi l’acqua del vicino fiume, tuttavia non furono intieramente decomposti. Serie II Tom. XXIV. “G, z2I0 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA Caverna ossifera di Bossea. Al Piemonte ben noto, anzi famoso per i suoi fossili del miocene inferiore, medio e superiore, per quelli del pliocene antico e moderno, mancavano sinora i fossili delle caverne. Ma il quaerite et invenietis che ha sovente la sua applicazione in luoghi in cui meno potevasi supporre, l’ebbe anche pel Piemonte; io sono perciò lieto di essere primo a segnalare nel nostro paese una caverna ossifera. Trovasi questa caverna nella valle della Corsaglia, circondario di Mondovì, territorio di Frabosa-soprana, presso la parrocchia delle Fon- tane, ed apresi sulla sinistra ed a pochi metri al disopra del torrente che dà il nome alla valle. L’accesso ne è facilissimo. Consta la caverna di una lunga serie di sale, taluna delle quali vastissime, di corridoi, di gallerie , ecc., talchè dovemmo impiegare più di due ore per arrivare fin dove per ora si può giungere. Le ossa giacevano quasi superficial- mente sopra un pianerottolo dell’estrema sala, ed ai piedi di una sta- lammite enorme, che avrà 3 metri di diametro su 5 circa di altezza. Giacendo a tale distanza dalla bocca della caverna, egli è molto probabile che queste ossa sieno state trascinate ed abbandonate là dalle acque che dall’alto penetravano nella grotta, come oggidì ancora vi penetrano (a poca distanza dal punto in cui si trovano le ossa) cadendo in massa dalla volta della sala, e formando una bellissima cascata. Noi racco- gliemmo tutte quelle ossa che si poterono avere adoperando il piccone, ma è probabile che, facendo saltare colla mina la stalammite, se ne scopriranno altre. Le ossa da noi raccolte appartengono tutte all’Uysus spelaeus, e sono: r. La serie superiore ed inferiore degli incisivi. 2. Parecchie vertebre cervicali, dorsali e caudali. 3. Porzione dello sterno. 4. Parecchie coste. 5. L’estremità del radio, ed alcune ossa della mano. 6. La rotula, l'articolazione della tibia, l’astragalo, il calcaneo, alcuni metatarsi e parecchie falangi del piede, compresavi una ungueale. 7. L'articolazione della scapola ed altre ossa di minor conto, o meno ben conservate. Tutte queste ossa hanno dimensioni ragguardevoli, e molte non DI B. GASTALDI. 210 inferiori per grossezza a quelle della grande specie descritte e raffigurate dallo ScamertIne. Dopo le belle tavole pubblicate da questo autore, dopo quelle, più belle ancora, dateci dal Prof. CornaLia di Milano, e da altri naturalisti, raffigurare le ossa da me trovate sarebbe stato uno spreco di danaro, ed è perciò che io mi limito a citarle. Un attento esame di queste ossa fatto assieme al sig. Zwanc, pre- paratore addetto al Museo zoologico , e coll’aiuto di due scheletri di Ursus arctos posti a nostra disposizione dal professore De FiiePi, ho potuto convincermi che, quantunque poche in numero, esse apparten- nero ad individui di età diversa, se non di differente specie. Mentre assisteva e prendeva parte alla estrazione di questi fossili, io posi tutta la mia attenzione a non lasciar inosservato un qualunque oggetto o fatto che potesse svelarmi l’azione, l'intervento dell’uomo e la sua contemporaneità coll’Orso delle caverne. Ma niente di simile venne a colpire il mio occhio. Quando però nel laboratorio io ripuliva i fossili trovati e li immergeva nell'acqua, onde più facilmente liberarli dalla crosta di stalammite da cui erano in tutto od in parte rivestiti, e che, in alcuni punti, aveva la grossezza di 10 millimetri circa, con non poca mia sorpresa vidi escire dal gran foro midollare di una vertebra cervicale alcuni frantumi di carbone vegetale. L'azione dell’uomo era scoperta. Ma un attento esame mi fece chiaramente vedere che quei frantumi di carbone stavano sovrapposti alla stalammite da cui era incrostata inter- namente ed esternamente la vertebra, ed erano inviluppati da argilla. Egli è evidente, che le acque, dopo di aver trasportato nella caverna le ossa di Orso, dopo di averle incrostate, portarono altresì i frantumi di carbone e l'argilla che vennero ad occupare il posto in cui li trovai. Un metatarso ed una falange, che pare perfettamente corrispondergli, stanno uniti, essendo ritenuti da incrostazione stalammitica nella relativa posizione che devono occupare. La falange è, relativamente al metatarso, inclinata in modo da formare con esso un angolo acuto; stanno infe- riormente i sesamoidei. Liberati per metà dalla crosta che interamente quasi li rivestiva, l’altra metà dell’ involucro serve loro di matrice , talchè si possono a tutt'agio togliere dalla nicchia e rimetterli esatta- mente nel posto che prima avevano. È la ripetizione di altri consimili fatti già citati da più di un autore; essi provano che, al momento in cui queste ossa furono dall’acqua trascinate nella caverna, erano ancora legate assieme dai tendini. 212 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA Tutte queste ossa hanno, in generale, una delle loro faccie con- servatissima, a segno da presentare ancora la lucentezza del periosto ; dall’altra esse sono più o meno alterate, corrose. Ben sovente la faccia conservata è appunto la faccia inferiore dell'osso, e la avariata o corrosa è la superiore. Le erosioni hanno, nella maggior parte dei casi, la forma di incavi regolari, quale si produrrebbe con un colpo di sgorbia, e questi incavi sono per lo più disposti quasi parallelamente l’uno vicino all’altro. Io sono persuaso, che questo fatto deve già essere stato os- servato da altri su fossili della stessa sorta, ma esso mi colpiva per la sua costanza ed un certo grado di regolarità. Avendolo fatto osservare al Dott. Srriver, assistente alla cattedra di mineralogia, amendue con- venivamo nell’idea, che la faccia corrosa era stata per lungo tempo esposta agli agenti atmosferici prima dell’introduzione delle ossa nella caverna. Il Dott. SrRiiver poi è d’opinione, che le erosioni siano effetto della stessa azione atmosferica, mentre a me pare probabile, che siano l’opera delle larve, che consumarono le carni del cadavere. Noi sappiamo che talune larve rodono non solo i legni più duri, ma persino, se ciò è necessario per lo sviluppo loro, il piombo e lo zinco. Comunque debbasi interpretare il fatto, non si potrebbe, neanche per un momento, supporre che quelle erosioni, quegli incavi vogliano essere la traccia lasciata da denti di carnivori, giacchè esse sono troppo profonde, troppo regolarmente disposte, nè si vedono sulla faccia opposta alla erosa le corrispondenti traccie di incavatura , traccie che dovrebbero esserci se l’osso fosse stato addentato (1). La esistenza di questa grotta era nota nel paese, ma non sarebbe quasi stata visitata dai viaggiatori e dai naturalisti, se il sig. Morra, (1) L’ illustre antropologo sig. C. VoGT mi notava in proposito, che diffatti successe già di os- servare la stessa cosa su ossa umane, e che su tale osservazione era sorta discussione in seno, se ben ricordo, della Società antropologica di Parigi. Si trattava di sapere se quelle erosioni siano dovute a larve od a radici. Mi è succeduto, facendo esplorazioni e scavi in una caverna, d’incontrare radici in piena vita a distanza considerevole dal suolo vegetale; ho potuto, per notevole lunghezza, tener dietro a queste radici smovendo l’%umus nero che formava il suolo della caverna, e vedere che esse facevano capo a certe fessure della roccia, per le quali erano penetrate e per le quali dovevano comunicare colla pianta vegetante. Ma non parmi probabile che esse possano, se non accidentalmente, intaccare, scanalare le ossa che si trovano sul loro passaggio, e contro le quali sono costrette ad esercitare più o men forti pressioni. Le erosioni osservate sulle ossa sono, come già dissi, sufficientemente regolari. Ora, che larve della stessa specie facciano, producano erosioni aventi qualche analogia di forma fra loro, parmi naturale; ma non mì pare egualmente naturale che ciò avvenga pel fatto di radici. D'altronde talune di queste erosioni sono molto profonde re- lativamente alla lunghezza loro, locchè non sarebbe conciliabile coll’azione delle radici, DI B. GASTALDI. i 213 intelligente industriale, che abita in quella valle ed a poche decine di metri dalla grotta, non l’avesse, con lodevole tenacità di proposito, a più riprese percorsa fin dove è possibile penetrarvi, e non vi avesse accidentalmente scoperte le ossa. In una corsa mineralogica che il sacerdote Bruno, professore nel Seminario di Mondovì, faceva per quelle valli assieme ad alcuni suoi allievi, passò alla parrocchia delle Fontane, ed invitato a visitare la caverna, seppe dal sig. Morra che in essa si trovava una terra grassa, untuosa, nera, cui si dà il nome di mummia animale. Venne allora in mente al sig. Bsuno di chiedere se vi si trovassero altresì delle ossa, e ricevuta risposta affermativa, egli nel percorrere la caverna procurò di averne alcune, che poi per tratto di squisita cortesia inviò al nostro collega Prof. A. SiswonpA ed a me, scrivendoci che egli contava di aver scoperto l’Orso delle caverne. Convintomi senza difficoltà, che egli aveva colpito giusto, non ci volle di più per indurre anche me a visitare quella grotta, lieto di aver per compagno lo stesso Prof. Bruno. Resti di Bue degli strati diluviali dei dintorni di Caluso. La strada ferrata che da Chivasso tende ad Ivrea attraversa, appena oltrepassata la stazione di Caluso, una galleria di 3 o 4oo metri di lunghezza, mediante la quale dalla pianura del Po penetra nell’anfiteatro di Ivrea, passando al disotto della morena frontale, che ivi è molto depressa. Questa galleria è per lungo tratto scavata in uno strato di pura e fina sabbia, che fa parte del diluvium, giacchè lo strato trovasi frapposto a conglomerati e ghiaia sottostanti alla morena. Egli è in questo strato di sabbia che nel 1858, all’epoca in cui operavansi gli scavi, si rinvenne, a 15 metri di profondità, un metatarso di Be, che io devo alla cortesia del Professore De FicIePI. Paragonatolo col suo omonimo del Bue ordinario, io vi trovava differenze assai notevoli. A tutti è noto quanto sia difficile distinguere, specificare ossa fossili appartenenti al gruppo dei ruminanti, operazione, del resto, che nen è facile neanche per le ossa fresche. Avendo non solo su questo ma su molte altre ossa fossili, di cui parlerò più sotto, serii dubbii, io ricorsi al Professore RiirimeveR, che è una vera e ben nota specialità per i profondi studi da lui fatti sui fossili in generale ed in par- ticolare su quelli di epoca recente. Ecco che cosa mi scrive in proposito : 214 INTORNO AD ALCUNI FOSSIL1 DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA « Questo metatarso ha proporzioni corrispondenti a quelle del Bos » primigenius e maggiori di quelle del Bison ; differisce però dai due » per lo spigolo prominente e ritorio della faccia anteriore e per la » concavità della faccia posteriore. Per la forma sua generale quest’osso » corrisponde all’omologo del Bos taurus, ma ne differisce essenzialmente » per questa particolarità: nell’osso in questione è il labbro esterno » della fessura longitudinale che predomina sull’interno, mentre. nel » Bos taurus V inverso ha luogo; il labbro interno cioè è più alto » dell’esterno. Quest’osso perciò deve appartenere ad una specie di Bue » che io non conosco ». Da quanto son venuto esponendo scorgesi, che questo fossile non ha forse per se stesso una grande importanza, ed io non ne avrei fatto oggetto di speciale menzione in questa nota, se non fosse il primo e sinora il solo fossile rinvenuto in Piemonte nel vero diluvium. Dico vero, giacchè di questa parola diluvium si è fatto oggidì un grande abuso, applicandola a qualunque strato un po’ esteso di ciottoli, di ghiaia e di sabbia, mentre con quell’appellativo dovrebbero solo indi- carsi quegli strati torrenziali che sono anteriori allo sviluppo dei ghiacciai. Hammali fossili dell’isola Pianosa (collezione Pisani). Nel 1861 il sig. Ministro di Pubblica Istruzione, sulla proposta del nostro collega Comm. SeLLa, faceva acquisto dal sig. Pisani, ufficiale in ritiro, di una collezione di minerali dell’ Elba, della Pianosa e del Giglio. Ricca di moltissimi e magnifici esemplari mineralogici, questa collezione, dopo di aver fornito al gabinetto della Scuola di applicazione una copiosa serie di Smeraldi, di Tormaline, di Feldspati, di Granati, di Ematiti ecc. , potè ancora somministrarne buon numero a diversi altri pubblici stabilimenti del nostro paese. Quantunque nella collezione Pisani i minerali tenessero il primo posto , i fossili vi erano tuttavia largamente rappresentati: tutti prove- nivano dalla Pianosa. Questi fossili sono : 1. Ricchissima serie di denti e palati di pesce, già stati in parte descritti e raffigurati dal decano dei paleontologi italiani O. G. Costa (Descrizione di alcuni fossili dell’isola Pianosa presso quella dell'Elba, letta al R. Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali 1862). DI B. GASTALDI. 215 2. Una serie di Echinodermi, fra i quali citerò : G2yphocyphus difficilis Acas. — Psammechinus mirabilis Nicor. - P. Serresii Des Movt. — P. Dueiei Wricnt. - Conoclypus Lucae Desor. - Schyzaster Scillae Des Mour. — Echinolampas hemisphaericus Lx. - Brissus imbricatus Wricnt. — Clypeaster altus Lx. 3. Una serie di Molluschi, dei quali già è cenno nella sovracitata memoria del sig. O. G. Costa. Tutti questi fossili furono irovati in istrati che devono probabilmente riferirsi al più recente orizzonte del miocene. Vi sono, oltre a questi, altri corpi marini evidentemente delle spiaggie di recente sollevamento, come quelli che conservano ancora i loro colori, e sono identici a’ viventi nel Tirreno. 4. Di un numero grandissimo di grossi esemplari di breccie 0os- sifere e di resti di Mammali delle succitate breccie. Questi resti, in numero di parecchie migliaia, erano sgraziatamente, per la maggior parte, rotti e guasti, talchè , dopo aver impiegato più di un mese a sceglierne i migliori, fui obbligato a gettarne via un grosso carico. Fatta questa operazione, io mi posi ad esaminare il prodotto della cernita , e vi trovava molari di Orso delle caverne, molari di Volpe, resti di Mustela e di Sus, ossa di Cavallo, di Bue, di Cervo ecc. Per la specifica determinazione della maggior parte di questi resti io rica- deva nella difficoltà già incontrata per la specificazione del metatarso di Bue sovra citato, ed anche in questo caso io mi decisi di ricorrere al sapere del Professore Ririmever , al quale comunicava perciò tutti i resti di Mammali fossili in discorso. Jo mi varrò ora delle osservazioni che quel distinto paleontologo si com- piacque fornirmi, onde dare una chiara e, per quanto possibile, precisa idea della importanza di quei fossili. Sarebbe superfluo il notare che, come sempre succede pei fossili rinvenuti in questa sorta di depositi (caverne e breccie ossifere), le ossa di una stessa specie animale hanno, per la maggior parte, appartenuto ad individui di diversa età e grossezza, locchè rende più difficile ancora il compito del naturalista che imprende a studiarli. « Ursus spelaeus. Porzione di mandibela con tre molari; molari » liberi, tutti di individuo molto vecchio ; calcaneo e vertebra dorsale. » Zulpes. Porzione di mandibola con varii denti, molto sottile, » non guari differente però da quella del Canis vulpes. » Mustela. Falange. 216 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA » Sus. Falange di pachiderma molto simile a quella di un Ss, ma » decisamente diversa da quella del Sus » scrofa per li spiccanti spigoli e per la » concavità laterale della parte anteriore. » Questi caratteri la ravvicinano un poco » a quella di un Rhinoceros; probabilmente quest’osso appartiene ad » una specie di Sus differente dal Sus scrofa e dal Sus palustris. » Equus. Due specie A e B. » Specie 4). Falange ungueale. Questa specie è la più grande delle » due, e si può classificare col nome di Equus fossilis, che è diverso » dall’Equus caballus; assolutamente simile ai cavalli fossili trovati » nell’Alvernia. » Specie 8). Equus asinus fossilis. Parecchi molari e parecchie » falangi, fra le quali tre ungueali. Questa specie differisce dall’Asirzs » recens per gli stessi caratteri che distinguono l’Equus fossilis dal- » VE. caballus. » Bos. Due specie. Una piccola 4, l’altra più grande £. » Specie 4). Mandibula con 3 molari, vertebre, parecchie ossa della » mano e del piede, testa inferiore del femore, testa inferiore dell’omero ecc. » In grossezza le ossa raggiungono le proporzioni di quelle del Be or- » dinario, e sono forse un po’ minori. Molte di esse ne hanno altresì la » forma, ma altre che paiono appartenere alla stessa specie ne differiscono » sensibilmente. Tali sono: la falange ungueale , l’attante, laxis e la » mandibula. Le falangi ungueali hanno la forma di quelle del Bwubalus; » l’attante tiene il mezzo fra quello del Taurus e quello del Bubades ; » laxis parimenti. La mascella inferiore è notevole per la sua breve altezza » e per poca proeminenza del suo angolo, nonchè per la curvatura del » suo bordo inferiore. Rassomiglia di più a quella del Buba/s che non » a quella del 7aurus, ma ancora meglio a quella del Bos grunniens. » ») » » DI B. GASTALDI. 217 I denti tengono il mezzo fra quelli del Taurus e quelli del Bubalus, essendo disposti più verticalmente che non lo siano nel Z'aurus ed avendo delle ali laterali ben sviluppate come nel Bubalzs. » Credo adunque, che tutti questi resti costituiscano una piccola specie di Bue, che differisce dal Taurus e si avvicina ‘molto al Bubalus. Converrebbe confrontarli (ciò che io sgraziatamente non ho potuto fare) collo scheletro e coi denti del Bos grunniens, e se si trovasse analogia, quei resti darebbero il primo indizio di un Buffalo fossile. Sarebbe importante avere delle corna, degli incisivi od almeno una porzione della fronte. Per ora parmi che siamo in diritto di distinguere questa specie dal Taurus. » Specie 5). Molti molari superiori ed inferiori, l’astragalo, il calcaneo e parecchie falangi. Queste ossa sono più grosse di quelle del Bisor, ma meno di quelle del primigerius. Quelle del tarso, che sono suffi- cientemente ben rappresentate, hanno proporzioni intermedie a quelle delle due specie. L’astragalo si avvicina a quello del Bison, e lo scafocuboide a quello del Z'aurus; il calcaneo per contro differisce da quello delle due specie e da quello del primigenius. Quest'osso è caratterizzato, nella specie di Pianosa, per la poca estensione del tuber, la grande altezza e la grossezza della parte anteriore dell’osso, nonchè per la piccolezza del sustentaculum tali. » I grossi denti, sia superiori che inferiori, che paiono corri- spondere alle grandi ossa, sono ben caratterizzati e differenti da quelli del primigenius , del Taurus, del Bison, del Bubalus ecc. » I caratteri sono : » 4) Forma cubica dei molari superiori. » B) Le due loro metà, anteriore e poste- » riore, disposte su una stessa linea. » C) I cornetti interni molto prolungati. » D) Il ponte di dentina, che separa i cor- » netti, forma un ponte di separazione molto » pronunziato tra la metà anteriore e posteriore » del dente, eminentemente caratteristico in » questa specie. » E) La colonna accessoria del bordo interno è molto proeminente sulla parte inferiore del dente e si nasconde quindi presso la radice. Serie II. Tom. XXIV. z2D 218 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA »)) » » ) Le colonne interne del corpo del dente escono fuori del con- torno della faccia interna. Tutto questo si ripete, per quanto pos- sibile, nei denti inferiori. » Si conosce una specie fossile, che presenta compiutamente questi stessi caratteri, ed io non dubito che essa sia identica a questa di Pianosa. È il Bos intermedius della caverna di Lunel Viel, descritta da MarceL pe SerrEs (Ossements humatiles, pl. XVII, fig. 8). » Cervus. Due specie che differiscono per le corna. » Specie 4) Rappresentata da porzione di cranio, la cui forma è quella del C. elaphus, ma con corna ben differenti. » B) Gli altri frammenti di corna sono, per forma, simili a quelli del Daino. » Non posso far loro la parte dei denti e delle ossa dello scheletro; queste somigliano di preferenza a quelle del Daino, solo essendo più robuste; i denti sono decisamente simili a quelli del C. elaphus. » Dopo di aver paragonato le figure, d’altronde ben cattive, dei Cervi trovati nelle caverne della Francia e dell’Allemagna (Devize e BovirLeT, Crorzet e JoseRT, JiGER, SCHMERLING ecc.), non mi sento il coraggio di dare un nome ad alcuno di questi Cervi di Pianosa, le cui corna non presentano forme conosciute, e le cui ossa sono troppo incomplete. » Antilopes. Due specie. » Specie 4) Di grossezza pari forse a quella del Daino. Appar- tengono a questa specie buon numero delle ossa e parecchie mascelle superiori ed inferiori. Sarebbe più difficile ancora dare un nome a queste Antilopi che non ai Cervi; converrebbe cercarne dei nuovi. » Specie 8) Più piccola, della grossezza di un Capriolo. È rap- presentata da un solo molare superiore. » Aquila. Seconda falange del secondo dito, della grossezza del- l'Aquila fulva ». La serie di fossili, che in grazia delle osservazioni favoriteci dal Prof. RirimeyeR siam venuti descrivendo, consta di un numero note- volissimo di ossa spettanti certamente ad una quantità anche considerevole di individui. Ora questa serie non è che piccola parte di quella ottenuta dalla cernita, e questa che una parte minima della intera raccolta di ossa delle caverne o breccie ossifere fatta dal sig. Pisani. Onde noi dobbiamo conchiudere, che il numero di individui (di Mammali ) da lui raccolto era grandissimo. In mancanza di informazioni precise, e DI B. GASTALDI. 219 limitandoci solamente a supporre che tutte queste ossa provengano da una stessa località, egli diviene per noi evidente , che il sig. Pisani non ha potuto raccogliere tutti i fossili di questa sorta, che la Pianosa può offrire alle ricerche del naturalista. Se fosse possibile farsi un'idea ap- prossimativa del numero di individui di Mammali ancora sepolti nelle breccie di quell’ isola, noi dovremmo probabilmente trarne questa conseguenza, che quell’isola, quale è oggidi, nom sarebbe atta ad alimentare tanti animali, e che probabilmente una volta, anteriormente cioè alla formazione delle breccie, essa era congiunta alla terraferma. Considerando allora quelle breccie come parte del continente, esse verrebbero a rappresentarci la continuazione di quelle che in altri luoghi noi vediamo lungo la spiaggia del Mediterraneo. In ogni caso conchiu- deremo, che quell’ isola merita di essere accuratamente esplorata non solo per i suoi fossili delle breccie ossifere, ma altresì per quelli marini, pesci, radiarii, molluschi ecc. di epoca più antica. I resti di Anthracotherium sovatî @ Digoin ed a Lausanne paragonati con quelli delle ligniti di Cadibona. I materiali di cui si valse Guvier per la creazione del genere Anthracotherium provenivano in gran parte da Cadibona, e gli erano stati comunicati dal Borson, dal sig. Larrin, dal BuckLanp e dal GREENOUGH; gli altri provenivano da Hautevigne, da Puy en Velay e dall’Alsazia. Quelli però della grande specie, 4. magnum, tutti indistintamente erano stati trovati a Cadibona. Egli è adunque in questa località che noi possiamo ritrovare 1 fossili tipici di quella specie, ed è appunto da Cadibona che io. ebbi quelli descritti e raffigurati coll’appellativo di 4. magnum nella Memoria Cenni sut vertebrati fossili del Piemonte (1). Trattandosi di fare qualche eritica osservazione sul sistema di clas- sificazione adottato dal Brarnvitte e dal Rimimever, ho cercato di procurarmi i modelli dei fossili stessi inviati a Cuvier da Borsow e da Larrin, e li ottenni dalla gentilezza del Direttore del nostro Museo mineralogico sig. Comm. A. Siswonpa. (1) Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, Serie 2.2, Tom. XIX, 1858. 220 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA Questi sono : 1.° I due molari superiori, raffigurati dal Cuvier tav. 161, fig. 1. 2.° I due molari inferiori, ibid., fig. 2. 3.° Il primo incisivo superiore, ibid., fig. 7. 4.° I tre molari superiori, l’ultimo molare superiore, i due ultimi e l’ultimo dei molari inferiori, dei quali fa cenno nel suo capitolo primo Des denis de la grande espèce. Perciò le osservazioni mie, qualunque possa essere il loro valore, avranno per punto di partenza esemplari identici a quelli dei quali si valse Cuvier per la creazione del genere Anthracotherium e della specie A. magnum, specie alla quale esclusivamente si riferiscono i miei appunti. Posto per massima , che il tipo di questa specie debba particolar- mente cercarsi fra i fossili delle ligniti di Cadibona, io debbo, prima di tutto, notare che, avendo esaminato centinaia di denti rinvenuti in quella lignite, trovai sempre che essi possono bensì presentare, entro certi limiti (dei quali ho parlato nella Memoria sopracitata), dimensioni diverse, ma che conservano altresì sempre perfetta analogia, anzi, paleontologicamente parlando, identità di forma; e lo stesso devo d’altronde dire dei molari provenienti dalle ligniti di Nuceto, del Vi- centino e di Agnana. Non v ha dubbio, che la specie in discorso debba trovarsi anche fuori d’Italia, a Brain in Francia per esempio (1); ma a me sembra, che il BrAmviLLe abbia, non troppo a proposito, compreso in detta specie i fossili di Digoin e quelli dell'Alvernia. Mercè l’estrema cortesia dell’illustre paleontologo sig. LarteT ho potuto procurarmi i modelli dei fossili di quelle località, descritti e raffigurati dal BLamvicLe, ed ebbi perciò agio di confrontarli coi nostri. Ai ni 1, 2, 3 della tav. VI, che va unita a questo scritto, sono raffigurati l’ultimo molare, il penultimo ed ultimo premolare superiori di Digoin (disegni eseguiti dai modelli); ai n.' 4, 5 e 6 sono raffigurati gli analoghi della grande specie di Cadibona. Egli è facile convincersi, che i primi differiscono sufficientemente dai secondi, non solo per maggiori dimensioni, ma soprattutto per la forma, notandosi nei denti di Digoin, e massime nell’ultimo molare e (1) V. Notice sur le système dentaire de l’Anthracotherium magnum BayLE. Bulletin de la Soc. geol. de France, 2me Série, Tom. XII, pag. 936. DI B. GASTALDI, 221 nell'ultimo premolare, maggior semplicità nella disposizione delle pira- midi ed una differenza nella figura della sezione, che passerebbe per la corona normalmente all’asse del dente, differenza che diviene soprattutto evidente per la porzione latero-esterna. Un incisivo inferiore, proveniente altresì da Digoin, mostra corri- spondenti proporzioni, e, quantunque molto più grosso degli analoghi nella specie di Cadibona, ha di certo (unitamente ai molari e premolari raffigurati ai n.' 1, 2 e 3) appartenuto ad individuo meno adulto di quello cui appartennero i denti raffigurati ai n. 4, 5 e 6. E maggiori proporzioni mostra altresì la mandibula dell'Alvernia , misurando dall’ultimo molare fino, e compreso il secondo premolare, o",235, mentre la stessa serie dentaria, nei più grossi individui pro- venienti da Cadibona, giunge appena a misurare 0", 200. I denti raffigurati dal distinto paleontologo Prof. RirImEyER ai n.' 4, 5, 6 e 8 della tav. II annessa alla sua Memoria Veber Anthracotherium magnum and hippoideum, sono più grossi ancora dei corrispondenti di Digoin, e non hanno, considerati sotto all’aspetto delle dimensioni , analogia con quelli di Cadibona, tipici della specie 4. magnum. Esiste, al contrario, analogia di proporzioni fra i fossili delle nostre ligniti e quelli di Aarwangen, sui quali il Prof. Ri:rimeyer ha creduto poter creare una nuova specie, l'A. Rippoideum; io credo anzi possibile, che qualora venissero paragonati fra loro gli originali stessi o buoni modelli di essi, si arriverebbe alla conclusione essere VA. hippoideum lo stesso 4. magnum di Cuvier, o tutt'al più una varietà di quella specie. Mi si potrebbe forse rimproverare, che io do troppa importanza alle dimensioni, ed è perciò bene che io noti il motivo pel quale in questo caso speciale attribuisco loro un certo valore. Non temo di esagerare dicendo , che si estrassero dalle ligniti di Cadibona, di Nuceto e di Bagnasco i resti di più centinaia di individui, locchè indica che gli Antracoterii trovavano presso le paludi o laghi, nei quali si formò quel deposito vegetale, condizioni propizie al loro sviluppo. Ora, per quanto io mi sappia, non si è ancora trovato in quel combustibile un solo individuo di dimensioni comparabili a quelle dei fossili di Digoin e di La Rochette. Io non posso perciò credere, che fra quelle centinaia di individui, non un solo abbia raggiunto lo sviluppo maximum della sua specie, ma crederò piuttosto che in quella località non esisteva la specie, o se vuolsi la varietà che nello 222 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA stesso periodo di tempo viveva in alcuni luoghi della Francia e della Svizzera. Noterò finalmente, che la distinzione della specie o varietà di Digoin, dell'Alvernia e di La Rochette io non la trovo solo nella maggior gros- sezza dei denti, ma altresì nella differenza di forma, sensibile partico- larmente nei molari superiori, e più specialmente nell’ultimo molare. Conchiuderò con dire, che parmi aver sufficientemente dimostrato l'opportunità di distinguere con altro appellativo i fossili di Digoin, dell'Alvernia e di La Rochette. Dal momento che Cuvier chiamò magnum l’Antracoterio più grosso di Cadibona, si potrebbe chiamare maximum quello più grosso ancora delle sovracitate località di Francia e di Svizzera; ci rimane in fondo Fappellativo di gigarieum, qualora in qualche luogo se ne trovasse un’altra specie di dimensioni ancor maggiori. Ornitolite delle liguitò di Monte Bamboli (Toscana). Questo fossile, raffigurato nella Tav. VI, n.° 7, quantunque si trovi in un poco soddisfacente stato di conservazione, non è tuttavia privo d'interesse e d'importanza stante la grandissima rarità, in generale, di tali resti ed in particolare poi di quelli trovati in Italia. Dirò anzi, che non mi consta sia mai stata pubblicata alcuna descrizione di scheletro fossile di uccello rinvenuto nel nostro paese. Il bacino lignitifero di Monte Bamboli è ben noto ai geologi ed ai paleontologi in grazia dei lavori di Paolo Savi e di G. MenEGHINI (tr). Sono frequenti in quel combustibile fossile i resti di un Sus, cui il Power diede l'appellativo di Cheroides, descrivendo alcune mandibule che io gli aveva comunicato nel 1847. Pare certo che, oltre ai resti di quel Sus, a quelli dell’Urside e della Zontra descritti dal MexEGHINI, siensi trovati molari di Anthracotherium e resti di roditori, nonchè di rettili cheloniani ecc. Non ostante la presenza dell’Anthracotherium (fossile caratteristico del miocene inferiore o molassa inferiore degli Svizzeri), il combustibile di Montebamboli è giudicato da taluni appartenere al miocene superiore, e (1) P. SAVI, Sopra i carboni fossili dei terreni mioceni delle Maremme Toscane. Pisa, 1843. — G. MENEGHINI, Descrizione dei resti di due fiere trovati nelle ligniti mioceniche di Montebamboli. Atti della Società italiana di scienze naturali in Milano. Vol. IV, 1862. DI B. GASTALDI. 223 questo loro giudizio lo fanno emergere dallo studio della flora che accom- pagna quella lignite. Qui cade però in proposito notare, che a Monte- bamboli ed a Monte Massi gli strati lignitiferi poggiano sul calcare alberese e sono ricoperti da conglomerati; che subordinate a conglomerati sono inoltre le ligniti di Cadibona, di Bagnasco e di Nuceto, e che sovrapposte ai calcari eocenici sono altresì le ligniti di Sarzanello. I conglomerati costi- tuiscono un orizzonte miocenico di molta importanza in Piemonte, ed, a quanto pare, anche in altre regioni d’Italia; e se volessimo perciò da esso trarre giudizio, dovremmo dire, che tutte le citate ligniti si formarono ad un dipresso nella stessa epoca, posteriore all’eocene, an- teriore al deposito dei grandi conglomerati miocenici (1). L’Ornitolite in discorso venne studiato dal mio amico e valente ornitologo T. SALvADORI, assistente alla cattedra di zoologia della nostra Università, e debbo alla di lui cortesia l'autorizzazione di pubblicare la seguente lettera, in cui mi fa note le sue osservazioni. Sig. Professore , « Lo schiacciamento dell’Ornitolite da lei comunicatomi è tale che ne rende difficile lo studio. Aggiunga a ciò, che la collezione degli scheletri di questo Museo è povera per modo da non esservi i tipi più indispensabili per i necessarii confronti. Per queste ragioni io debbo limitarmi a considerazioni assai superficiali. » I resti dello scheletro sono adagiati per tutta la regione inferiore, ond’è che se ne vede soltanto la parte dorsale, e neppure interamente, essendo lo scheletro mutilato in varii punti. Le sue dimensioni sono alquanto maggiori di quelle di un Anas penelope, e tutte le ossa sono assai più robuste che non lo siano in questo palmipede. Lo sterno, l’osso coracoide e la forchetta, che sono ossa assai caratteristiche dello (1) Qualunque possa essere l'orizzonte miocenico in cui vada posto lo strato di lignite di Montebamboli, egli è pur troppo certo, che la sua importanza dal lato industriale è quasi nulla. E tali sono, con danno gravissimo dell’Italia, tutti i bacini sinora noti delle nostre ligniti, talchè in ben minima parte sopperiscono ai sempre crescenti bisogni. Mentre tuttodì si accresce il tributo che noi dobbiamo pagare all’estero, onde tenere in vita il nostro naviglio, le nostre locomotive, le nostre macchine, si vanno allegramente e senza un pensiero al mondo distruggendo le foreste, riducendole in magri pascoli, in aride e deserte lande. Non uno dei tanti Ministeri che ad ogni cangiar di stagione si successero dal 1848 a questa parte, ebbe il pensiero o si senti il coraggio di porre il dito sulla piaga e di apportarvi rimedio. 224 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA scheletro degli uccelli, non sono visibili, e questa è un’altra causa per cui è fatta maggiore la difficoltà del determinare la specie. » Colonna vertebrale. Nulla si può dire intorno alla colonna verte- brale, per la impossibilità di distinguerne le varie parti insieme confuse per causa dello schiacciamento. La porzione cervicale è affatto nascosta. » Testa. Questa parte ha subito uno schiacciamento laterale, ma alquanto obbliquamente d’alto in basso e da destra a sinistra. Il cranio sembra di ordinaria grandezza. Le ossa mascellari e mandibolari ricor- dano alquanto la forma anatina, e sono assai robuste e protratte ; manca, forse per l’estensione di un terzo della lunghezza totale, la porzione apicale, più caratteristica. La depressione della glandola sopra orbitale è ben distinta. Lo spazio compreso fra i margini superiori delle orbite notevolmente largo. L’osso timpanico non può essere veduto distintamente. » Circolo scapolare ‘ed estremità anteriori. Le ossa di queste parti sono notevoli per una grande robustezza. La scapola è il solo osso visibile del circolo scapolare, ma anch'esso soltanto in una porzione , la quale non è rimarchevole che per la sua robustezza. L’omero è assai grosso , così pure il radio e l’ulna, le quali ossa sono incomplete , mancando dell’estremità carpica. Le ossa del metacarpo e le falangi conservano l'apparenza di grande robustezza. » Circolo pelvico ed estremità posteriori. Le ossa del bacino si vedono affatto confusamente : degli arti posteriori è visibile soltanto una por- zione del destro, cioè la estremità inferiore della tibia e l'estremità superiore dell'osso del tarso, e si presentano discretamente robusti. » Sarebbe tempo di fare il confronto di questi resti collo scheletro di specie note, onde riconoscere a quale debba riferirsi od avvicinarsi. Ho già detto più sopra per quali ragioni io non sia in grado di far ciò che molto superficialmente. » L'aspetto generale dello scheletro non permette che si possa riferire ad uccello di altro ordine che quello degli Anseres o palmipedi. Basta gettare uno sguardo sulla tavola per essere persuasi di ciò. Le ossa che meglio si prestano per un confronto sono senza dubbio quelle dell’ala destra, nelle quali è da notare l’omero alquanto più lungo delle ossa dell’antibraccio; la quale cosa s'incontra, è vero, in molti Anatinz, ma questa maggiore lunghezza dell’omero, unitamente alla robustezza di tutte le ossa dell’ala, mi sembra indicare, che le estremità anteriori meglio valessero al nuoto che al volo, e che perciò si trattasse di un DI B. GASTALDI. 225 uccello non grande volatore. Questa supposizione sarebbesi potuta con- fermare, qualora lo schiacciamento mon impedisse di conoscere, se le ossa dell'ala avessero originariamente un certo grado di compressione, e qualora si fosse potuta vedere l'estremità superiore della tibia, sulla quale si appoggia una rotula allungata, caratteri che sono proprii degli attuali uccelli #/7@torî in generale. E senza voler escludere affatto, che si tratti di un vero Anazide, io inclino a credere, che i resti da lei sottoposti al mio esame appartengono ad un Alcide , quantunque non mi nasconda l’obbiezione , che le specie di questa famiglia sono proprie delle regioni fredde dell’emisfero boreale, regioni affatto diverse da quelle ove è stato trovato l’Ornitolite in discorso, specialmente al tempo in cui la specie viveva. » Avendo visto la recente memoria di Owen ‘intorno allo scheletro dell’A/ca impennis (Trans. of Zoot. Soc. of London, vol. V, pag. 317), mi sembra di scorgere qualche rassomiglianza , in ispecie nelle ossa dell’ala, fra la figura che egli ne dà ed il fossile di Montebamboli. Forse il confronto di questo con uno scheletro di Alce torda (del quale manca il nostro Museo) potrebbe risolvere la questione. » Comunque siasi, la forma della testa è tale da dover riferire la specie ad un genere affatto distinto, e pel quale io mi astengo dal proporre un nome, volendo lasciare che ciò venga fatto da chi, più fortunato di me, possa avere materiali sufficienti per i necessarii confronti ». Sepie fossili del miocene e del pliocene. Nel dare qualche notizia su queste conchiglie io mi riferisco intera- mente a quanto scriveva il sig. C. D’OrsiGny circa il genere Sepia, con- siderato allo stato vivente e fossile, nella sua opera MoMlusques vivants et fossiles pubblicata or sono 20 anni. A quell’epoca non si conoscevano che dieci specie fossili ,, cinque delle quali, la S. hastiformis RuppeLt, la antiqua, la caudata , la linguata e la venusta sono dell’epoca giurassica, e più particolarmente degli strati oxfordiani di Solenhofen in Baviera, e furono descritte dal conte MynsTER. Le altre cinque, cioè la S. longispina , la longirostris, la Blainvillei , la Cuvierii e la Defrancei sono degli strati eocenici del bacino di Parigi, e furono descritte e raffigurate dall’egregio conchigliologo sig. DesHayes nella sua opera Fossiles des environs de Paris. Serie II. Tom. XXIV. > E 226 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA Non è a mia notizia che, posteriormente a quell'epoca, siano state segnalate conchiglie di questo genere provenienti da strati miocenici © pliocenici, ed è perciò che, costretto in certo qual modo a considerare i fossili in questione come specie nuove, io mi decisi a dar loro un nome ed a pubblicarli. Sepia Michelotti nob. (Tav. V). Conchiglia molto allungata, dritta, avente la forma generale della S. ornata vivente nell'Oceano Atlantico. Nella faccia sua superiore, la sola che si possa vedere, è alquanto convessa. Essa è percorsa in tutta la sua lunghezza da un rialzo spiccante fiancheggiato da altri due meno proeminenti che, partendo come il primo dalla base della conchiglia, divergono di alquanto. La parte inferiore è finamente ed elegantemente granulata. Lung. o", 15. Larg. massima, corrispondente alla metà circa della lunghezza, 0", 30. È raffigurata in grandezza -naturale nella Tav. V. Trovai questo fossile nelle marne grigiastre che formano la zona superiore del miocene medio e che incontrasi discendendo da Superga verso Chieri per la valle del Tepice. Lo distinguo col nome del mio amico cav. G. MicneLorTI che colle sue attivissime ricerche e coi molti suoi lavori non poco contribuì alla illustrazione della Paleontologia Piemontese. : Un'altra Sepia simile alla descritta, ma priva affatto di granulazioni e coperta nella parte sua superiore di finissima reticolazione, fu da me trovata nello stesso strato, ma parmi non convenga per ora farne una specie distinta. Non sono questi i soli resti di Sepia trovati nel miocene. Da pa- recchi anni il sig. MicteLoTTI ne rinvenne un frammento nelle sabbie serpentinose della nostra collina; questo frammento però è in troppo cattivo stato di conservazione per meritare di essere descritto. Sepia Craverii nob. (Tav. IV). Questa Sepia è notevole per le sue dimensioni. Se il fossile fosse intero, la sua lunghezza sorpasserebbe di un terzo forse quella della Sepia officinalis vivente nel Mediterraneo , della quale ha la forma DI B. GASTALDI. 227 generale. Nel fossile non è visibile che la parte interna della conchiglia e, mancando della superficie esterna, non è guari suscettibile di ulte- riore descrizione. Nella parte sua superiore la conchiglia doveva essere finmamente striata e munita d’altronde in tutta la sua lunghezza di un rialzo mediano fiancheggiato da due profondi solchi. È raffigurata in grandezza naturale nella Tav. IV. Questo fossile proviene dalle marne azzurrognole del pliocene, e fu trovato dal mio amico sig. Federico CraveRrI, professore di Chimica nel R. Istituto Tecnico di Brà, all’occasione in cui si facevano presso quel luogo gli scavi per l’apertura del tronco di strada ferrata da Brà ad Alba. Da quegli scavi, e mediante assidue ricerche, il sig. CRAVERI ottenne altresì una bella raccolta di altri fossili marini e di filliti che oggidì fan parte del suo museo, una delle più ricche e delle meglio ordinate collezioni private dell’Italia settentrionale. Zoophycos del miocene. I signori fratelli Vira nella loro Memoria sulla Costituzione geolo- gica e geognostica della Brianza (Milano 1844), memoria redatta allo scopo di provare che la maggior parte del suolo di quella regione spetta all’epoca cretacea, fra i molti esseri organici fossili là rinvenuti ne citano uno cui accennano colle seguenti parole: « Meritano (loc. cit., » pag. 22) speciale menzione alcuni corpi; talvolta giganteschi, sparsi » per tutta la varietà marnosa di questo gruppo, i quali presentansi » nel piano orizzontale degli strati sotto forma di impronte discoidali , » il più spesso vorticose, e con una impressione imbutiforme nel centro. » Separando gli strati sottoposti, non è rado vederli continuati. per- » pendicolarmente anche per la tratta di più pollici. Di questi rimane » ancor dubbio se debbansi rapportare ad organismi vegetali (Fuchi, » Equiseti, Cycas, Zamia ecc.) o ad organismi animali (Gorgonia ecc.) ». Questo fossile, evidentemente cretaceo, se dobbiamo giudicarne dal diligente lavoro degli Autori sopracitati, fu, a quanto pare, comunicato all’illustre paleofitologo sig. UnceRr, il quale lo classificò fra le Fucoidi, denominandolo Fucoides Brianteus (Uncer, Gen. et spec. plant. foss. , pag. 31). i Nella celebre collezione di fossili del monte Bolca, di proprietà del Conte Gazora, il nostro paleofitologo MassaLonco, la cui perdita 228 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA ancora deploriamo, trovava un fossile avente qualche analogia con quello già segnalato nel cretaceo della Brianza dai signori fratelli Villa. Quel fossile gli diede molto a pensare: ecco infatti come si esprime in pro- posito nella sua nota ZoopAycos, novum genus plantarum fossilium (1855) pag. 43 «..... est enim, nullo dubio, novitate commendatissimum. » Divinari nunquam potui, nunquam in paleontologiae operibus excel- » lentioribus reperire aut ipsum, aut aliquid ejus simile, quo in meis » investigationibus juvarer. Quo diutius studia produxi, eo difficilius » corpus illud cognitu videbatur, quod etsi inter organica corpora pro- » cul dubio erat referendum , incertum tamen reliquebatur animalibusne » an vegetalibus. esset adscribendum. » Nel dubbio intanto lo chiamava Zonarites? Caput-Medusae (Praelu- dium Florae primordialis Bolcensis 1850). Nell'anno susseguente e nel suo Prospetto della Flora primordiale del Monte Bolca, a pag. 39 delle sue Osservazioni sulle piante fossili dei terreni terziarii del Vicentino gli parve più conveniente porlo fra i Fuci, chiamandolo Zoophycos, sog- giungendo « novumque genus Zoophycos proposui, ideo prorsus quod » nihil simile in Flora praesenti viderem, eoque nomine: appellavi, » formam spectans mediam inter Algas et Zoophyta: eorum quippe » structuram, horum autem aspectum exhibet. » Nell’anno susseguente (1852) il MassaLonco pubblicava un nuovo suo scritto col titolo di Conspectus Florae tertiariae orbis primaevi, ed a pag. 8 ricollocava il fossile in discorso fra i Fuci. Ma posteriormente, in seguito a risorti dubbi lo poneva fra i zoofiti antozoi, e finalmente, consultato il celebre zoologo Mirne-Epwanps, conveniva definitivamente coll’opinione espressa dal citato sig. Uncer che il fossile più volte ri- detto fosse un'Alga e lo ribattezzava col nome generico di Zoophycos (V. Op. cit. pag. 43-46). Fossili dello stesso genere erano stati altresì rinvenuti nella pietra forte e nel nummulitico della Toscana. I signori P. Savi e G. MenEGHINI, nelle loro Considerazioni sulla Geologia della Toscana 1851, ed all’ar- ticolo Fossili dî S. Francesco di Paola presso Firenze , li descrivono nei seguenti termini: « Gorgonia? Targionii nob. (pag. 128). La searsezza dei fossili nei » nostri depositi cretacei superiori, e l'interesse che possono quindi avere » sotto all’aspetto geologico, anche ad onta della scarsezza di esatte » cognizioni che aver se ne possano sotto all'aspetto paleontologico , » » DI B. GASTALDI. 229 c'inducono ad accennare sotto questo nome un fossile frequentissimo nella pietra forte di Firenze, e che si trova pure nell’arenaria ma- cigno , variabilissimo nelle forme, e che appunto per la moltiplicità delle forme medesime, e la costanza di alcuni caratteri, sembra pro- venire realmente da corpo organico, ed essere sempre riferibile alla specie medesima. » Il Tarcioni ne aveva figurato un grandissimo numero di forme nella sua opera inedita sulle fucoidi, e quindi gli intitoliamo la specie. Il genere poi, che dubitativamente proponiamo, è dedotto così da una generale somiglianza nelle forme esteriori, come da un qualche indizio di struttura. » Le dimensioni di questo fossile sono molto variabili; ne abbiamo sott'occhio un esemplare di 25” di altezza, e di molto maggiori ne sono figurati dal Targioni. Ma ci limiteremo a descriverne uno minore, perchè quello nel quale ci sembra di rilevare qualche indizio della caratteristica struttura. » È un rilievo pressochè cilindrico di 7" di diametro diritto e continuo per 4" di lunghezza , ivi diviso per dicotomia in due rami di diametro pressochè eguale a quello del tronco, uno de’ quali, con altre due successive dicotomie, e con parecchie diramazioni laterali e minori, si espande a ventaglio su una lunghezza di circa un decimetro e su una larghezza di metà minore. Consimili diramazioni laterali sorgono pure dal lato sinistro del tronco principale , e dalla condizione par- ticolare presentata dalla superficie della roccia sembra potersene dedurre che tutte quelle ramificazioni a sinistra, insieme con quelle terminali delle ultime dicotomie, fossero fra loro collegate dalla espan- sione corticale che veste i rami ed il tronco stesso. Su questa espansione vedonsi chiaramente due ordini di strie , rilevate , parallele ed equi distanti, le quali, intersecandosi, vengono così a circoscrivere aree romboidali concave di circa 1" nel diametro maggiore , ed un terzo meno nel minore. Le strie più grosse e rilevate sono specialmente manifeste lungo i due fianchi del ramo o dei tronchi, coll’asse dei quali fanno angolo di 45°, tutte parallele ed alla distanza costante di 0,5. L’altro sistema di strie è molto meno evidente, occupa gli intervalli delle prime, ed ha obbliquità inversa, ma ad angolo più acuto. Negli intervalli fra ramo e ramo, che sembrano occupati dalla espansione corticale , si continuano ambidue i sistemi di 230 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA » strie, ma anche quelle del primo sono ridotte alla tenuità di quelle » del secondo ». Debbo alla estrema cortesia del Prof. MenEGHINI due bei modelli di queste Gorgonie?, una delle quali trovata a Pracchia, e l’altra a Grigliano nella valle superiore del Tevere. Lo stesso genere di fossili è adunque ritenuto dubbiamente per un Alga da Unger e MassALoNGO, e per una Gorgonia, altresì dubbiamente, da Savi e MeneGHINI. Quantunque persuaso che l'opinione mia personale non potrà influire sul definitivo giudizio che su quegli ‘esseri organici saranno per portare i naturalisti, sembrami che, nel dubbio, vi sia qualche ragione di preferire il parere di Uncer e di Massaronco. Attenendomi ad esso, ed adottando il nome generico proposto da quest’ul- timo autore, io soggiungerò anzitutto che parmi non sia da compren- dersi nel genere Zoophycos il fossile cui il MassaLonco diede il nome specifico di Scaradelli. I fossili cui accennerò qui sotto, quantunque appartengano, a mio giudizio, al genere Zoopkycos, differiscono tuttavia dalle specie descritte e raffigurate dal più volte nominato sig. MassaLonco , ed è perciò che io pensai convenisse farne menzione in questo scritto ; tanto più che essi furono trovati in depositi più recenti di quelli dai quali provengono le specie già descritte. Il Zoophycos raffigurato al n° 8 della tav. VI fu scoperto da me nelle marne superiori del miocene medio della nostra collina. Se dovessi darne una breve descrizione, mi servirei delle parole stesse di cui si servirono i Vira. Molti ne trovai nello stesso scavo praticato su larga scala per affossare una vigna, ed in tutti notava l’incavo imbutiforme centrale , che si ripeteva a più riprese, riproducendo sempre la stessa impronta, negli strati successivi e su profondità di parecchi centimetri; tutti poi avevano notevoli dimensioni, non inferiori a quelle dell’esem- plare raffigurato, che è lungo circa 0”, 80. Se questo fossile è veramente una pianta, essa doveva constare, a quanto sembra, di una sola foglia ravvolta a parecchie riprese su se stessa a mo’ di cartoccio, e munita di forti nervature che dall’estremità inferiore del cono riverso si ele- vavano, disposte a distanza più o men grande l’una dall’altra, sino all’orlo superiore. Esaminando la precitata fig. 8 della tav. VI, noi vediamo che essa ha molta rassomiglianza con quella di un ventaglio aperto. La linea DI B. GASTALDI. | 231 indicata colle lettere a è segna l’estremità superiore della foglia incar- tocciata che termina colla nervatura @d, la quale, unitamente a quella che a breve distanza la segue verso sinistra, forma una ripiegatura, per così esprimermi, del ventaglio. Queste due nervature si uniscono supe- riormente in arco. A questa prima ripiegatura del ventaglio fan seguito, dirigendosi sempre verso sinistra, quattro altre ripiegature meno elevate; a queste succede un’altra più elevata ed eguale in lunghezza alla prima, e così di seguito. Le nervature si avvicinano verso il centro della foglia, ed ivi si piegano in giù per formare l’incavo imbutiforme. Se il fossile fosse intiero, la porzione di foglia che vediamo disposta in curva, pro- cedendo da «6 verso sinistra, descriverebbe inferiormente un arco cor- rispondente a quello che vediamo nella figura, e verrebbe a congiungersi colla parte che, sulla destra della figura stessa, vediamo innoltrarsi al dissotto di 4d per compiere a parecchie riprese lo stesso giro. Nella stessa località e nello stesso strato io trovai parecchi altri corpi organici come molluschi (fra i quali la Sepia Michelottii sovra accennata, nautili, ecc.), crostacei, echini ed impronte di foglie di qguercus, di fagus, di salix, ecc. Il guscio; la sostanza di tutti questi corpi organici, è scomparsa, e venne sostituita perfettamente ed intieramente da limonite, talchè si può dire che la forma del corpo si rileva, si viene a conoscere da quella della macchia gialla da cui è rappresentata. Nei Zoophycos però non vi ha traccia di alcuna sostanza, non vi è che un'impronta dello stesso colore della roccia, cioè a dire cinereo. Un esemplare identico per forma a quelli in discorso fu da me rin- venuto nella stessa marna miocenica nel territorio di Brosolo. Il Zoophycos raffigurato al n° 9g della tav. VI fu trovato dal mio amico G. MicreLorTI nelle marne del miocene inferiore dei dintorni di Dego nell’Apennino ligure. Quantunque nella forma sua generale abbia grande rassomiglianza con quello che precede, ne differisce notabilmente per essere più frastagliato nel limbo, ove altresì non presenta quella serie di quattro ripiegature più brevi ordinatamente disposte in seguito ad una ripiegatura più lunga. Del resto, anche in questo caso, come in molti altri esempi, assenza perfetta di qualsivoglia sostanza, e semplice impronta sulla roccia. Egli è molto probabile che abbia una stretta affinità col Zoophycos il Chondrites scoparius TaroLLiERE, le cui impronte trovansi in quantità grandissima negli strati dell’ oolite inferiore dei dintorni di Lione e di 232 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA altre località della Francia. Non sarà fuori proposito ch'io trascriva qui alcuni periodi di una Memoria del sig. DumogtIER, in cui è fatto lar- gamente cenno di questa impronta (1). « Si l'on suit avec attention les diverses couches qui composent la partie inférieure de la formation jurassique sur le versant méditerrangen francais, pour peu que la station montre nettement la partie supérieure de l’étage du lias, on voit toujours apparaître, au-dessus de la zone sì riche en fossiles où se trouve l’Ammonites opalinus, des couches d'un calcaire gris jJaunàtre clair, solide, à cassure mate, dont tous les Joints de stratification sont couverts par les empreintes d'une plante. Ce végétal marin, de la famille des algues, a buriné profondément ses ramules en touffes contournées dans le calcaire, sans jamais y laisser cependant de traces de substance vegetale. Ces couches, quelquefois d’une épaisseur considérable, ne manquent jamais à ce niveau, soit que le lias supérieur consiste en minerai de fer oolitique, comme dans le Rhòne et l’Isère, soit qu'il se présente sous la forme d’une longue série de marnes schisteuses gris-bleuàtre, comme dans l’Aveyron, le Gard et la Lozère. Les calcaires clairs, couverts d’empreintes de Fucoides, se montrent toujours au-dessus et formant la base de l’escarpement de l’oolite inférieure ou calcaire à Entroques qui leur est superposé. » Comme les fossiles sont rares à ce niveau, et que, dans un grand nombre de localités, les empreintes, visibles seulement par leur relief, sans opposition de couleur, ne frappent pas facilement les regards , on a généralement confondu cette zone avec les calcaires très-sem- blables minéralogiquement qui les recouvrent, et bien peu d’obser- vateurs ont mentionné cette curieuse végétation, si remarquable au moins par l’espace considérable qu'elle recouvre. Toutefois dans la région qui entoure Lyon, la rencontre sans cesse répétée des débris, la netteté plus grande des traces végétales, avaient diì fixer davantage l’attention; le groupe regut des géologues de la contrée le nom de couche à Fucoides, calcaire à coups de balai; ce dernier nom indiquant fort bien l’aspect des surfaces de la roche qui paraissent couvertes de stries arrondies par masses assez régulières, semblables aux traces que laisse un balai promené sur une surface terreuse. (1) Vote sur le calcaire à fucoides, base de l’oolithe inférieure dans le bassin du Rhone, par M. E. DumoRrTIER, Bull. de la Soc. Geol. de France, série 2°, tom. XVIII, pag. 579, 1861. DI B. GASTALDI. 235 DER RO A la réunion de la Société géologique à Nevers, en 1858, » TuiorLière donne une courte description des couches à Fucoîdes, et » assigne à la plante, dont elles sont couvertes, le nom de Chondrites » scoparius. » Le Chondrites scoparius est formé de ramules contournés en » touffes d’une manière assez élégante, formant des groupes arrondis à » droite et à gauche; les brins se croisent quelquefois, et paraissent » alors superposés; chaque touffe, composée d’un assez grand nombre » de brins, couvre un espace qui dépasse rarement 12 centimétres en » longueur sur 9 en largeur; il y a 4 è 6 brins sur une largeur de » t centiméètre. Si l’on compare ce Chondrites aux végétaux analogues » vivants, on voit quil ne peut étre rapproché des wczs proprement » dits; c'est une plante marine appartenant aux Algues non articulées, » dont les ramures en cordelettes devaient présenter une grande résis- » tance à la compression et à la décomposition, si l'on en juge par » la profondeur de l’empreinte qu'ils ont laissée dans le calcaire, et qui » dépasse quelquefois 2 millimètres; je n'ai jamais trouvé de traces de » fructification. L’uniformité de l'ensemble, et l'absence de tout autre » corps organisé ne manquent jamais de frapper l’observateur , quand » il se trouve au milieu des immenses éboulis formés par ces calcaires, » dont pas un seul morceau ne se montre sans ètre couvert, sur tous » les joints de stratification, par le Chondrites scoparius. Les empreintes » sont souvent si abondantes, que le calcaire, toujours rude et grossier » pourtant, en prend une apparence schisteuse ». Più delle parole citate ci mostra l’affinità grandissima, riguardo alla forma generale del Chondrites scoparius coi Zoophycos , la figura che va annessa alla Nota del sig. DumortIER. Notiamo inoltre che, anche nel Chondrites scoparius non vi ha traccia di alcuna sostanza, non vi ha che un'impronta. Ammettendo che il Chondrites scoparius sia di fatto un Zoophycos, egli è coi Z. Brianteus e Villae che offrirebbe maggior analogia. I due Zoophycos miocenici, di cui è cenno in questo mio scritto, verrebbero a prender posto in un altro gruppo, differendo essi stessi l’uno dall’altro e dai Zoophycos del gruppo precedente. Il Z. Caprt-Medusae Massar. formerebbe il tipo di un terzo gruppo ben distinto dai due primi. Vi ha anzi luogo a dubitare molto se questo fossile sia congenere coi pre- cedenti. Diffatti esso non presenta l’incartocciamento così caratteristico Serie II. Tom. XXIV. 2/F 234 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA dei primi, e, per altra parte parmi, a giudicare dalla figura dataci dal Massaronco, che il fossile in questione abbia effettivamente corpo e non forma solo come avviene nei fossili dei gruppi precedenti. Più di una volta mi è occorso di incontrare sulle Alpi certi Zicher gelatinosi e diafani, in grossi cespiti, e la loro vista sempre mi richiamò alla mente il fatto notato nei Zoophycos, e non potei mai liberarmi dall'idea che, se questi erano piante, dovevano avere natura e struttura simile a quella di quei Zichern, onde poter lasciare Za loro impronta senza traccia di corpo. Ritornando ora alla separazione in gruppi dei Zoophycos conosciuti, nasce una difficoltà. Il Z. Caput-Medusae servì di tipo al MassaLonco per la creazione del genere. Ora se fosse provato che il CaputMedusae non è congenere né col Z. Brianteus, nè col Z. Yillae dello stesso autore, converrebbe dare a questi ultimi. un nome generico differente, converrebbe chiamarli, come già aveva fatto UnGER, semplicemente Fucoides. Ma prima di prender questo partito bisognerà aspettare che ulteriori scoperte ed osservazioni vengano a confermare le mie suppo- sizioni. Per ora lasciando il nome generico di Zoophycos a tutti questi fossili, terminerò col quadro dei gruppi in cui possono essere divisi, sia in ordine alla loro giacitura, che in ordine alla forma loro. Giurassico. Chondrites scoparius TuiorLizRe. Oolite inferiore, dintorni di Lione ed altre località della Francia. Cretaceo. Fucoides Brianteus Uxcer. Zoophycos Villae e Z. Brianteus Massar., Brianza. Gorgonia? Targionit Savi e MeneGHINI nella pietra forte dei dintorni di Firenze. Focene. Zoophycos della forma dello Z. Zillae nel calcare alberese di Grigliano, valle superiore del Tevere (modello donatomi dal sig. MenEGHINI). Zoophycos della stessa forma, su calcare argilloso , scistoso e mi- DI B. GASTALDI. 235 caceo della trincea di Sant'Anna presso Pistoia ( donatomi dal sig. De MORTILLET). Zoophycos della forma a ventaglio , del macigno scistoso di Pracchia. Lastra, di 0",50 su o”,42 (modello donatomi dal sig. MenEGHINI). Zoophycos Caput-Medusae Massar.., monte Bolca. Miocene. Zoophycos nova species , fig. g della tav. VI annessa a questo scritto. Marne del miocene inferiore di Dego. Zoophycos nova species, fig. 8 id. id. Marne superiori del miocene medio, collina di Torino, valle dei Ceppi. In ordine alla forma. Tipo a scopa. Chondrites scoparius TaioLLiERE. Fucoides-Zoophycos Brianteus e Villue Uneer e MassALonGO. Tipo a ventaglio. Zoophycos nova species, tav. VI, fig. 8 e 9g, nonchè quello del macigno scistoso di Pracchia. Tipo a cespite. Zoophycos Caput-Medusae MassaLonco. Notisi ancora che, in generale, la forma a scopa è di piccole dimen- sioni; di grandi al contrario quella a ventaglio. 236 INTORNO AD ALCUNI FOSSILI DEL PIEMONTE E DELLA TOSCANA SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tay. I Cranio di Cervus euryceros Aup., scoperto negli scavi praticati nelle alluvioni del fiume per la costruzione del ponte sul Po a Mezzana-Corti, alla profondità di circa 11 metri. Tav. II e II. Cranio umano di razza Ligure (NicoLucci e Voet), sco- perto negli stessi scavi alla profondità di 7 metri. Tav. IV. Sepia Craverii, marne plioceniche dei dintorni di Bra. Tav. V. Sepia Michelotti, marne mioceniche dei dintorni di Chieri. Tav. VI. Fig. 1, 2, 3. Molare e premolari superiori dell’Anthracotherium maximum di Dicorn. — Fig. 4, 5, 6. Molare e premolari su- periori dell’Anzhracotherium magnum Cuv., di Cadibona. - Fig. 7. Ornitolite (Alcide) delle ligniti di Montebamboli. — Fig. 8. Zoophycos, delle marne mioceniche dei dintorni di Chieri. — Fig. 9. Zoophycos delle marne mioceniche inferiori di Dego. È ca e=" a Accad Ri Delle Se. Di Torino, Classe Di Sc Fis. e Mat. Ser 2% Tow. XXIV 5 | Zav/ LornoltF%Doyen. 7966. Tav ll Lorino LiLFE Doyen 18 Lav JI E Zorino Lit.F' Li Doyen MWO6 ETA AU E Derpor 1566. Iorio. Iorino Lit. F%Poyen 18606 a ie ORTA Torino, Lit. Fi Yoyen 1866. x TI x È Ì | fi i iT, | NIE: f i Li = \ tan ti ARMOR) 237 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO. MEMORIA JAC MOLESCHOTT Memoria approvata nell’adunanza del 10 dicembre 1865 JR ESPOSIZIONE METODOLOGICA. Fin dall'anno 1861 ho cercato di applicare i mescugli di acido acetico, alcool ed acqua, da me raccomandati per le riterche istologiche, alla - conservazione di embrioni del pulcino. Già i primi tentativi fatti col mio mescuglio forte di acido acetico diedero dei risultati, che dove- vano incoraggiarmi a proseguire un lavoro, che prometteva ai giovani cultori della scienza un'occasione facile ed amena per osservare in serie continue e molto graduate lo sviluppo dell’embrione intero e dei singoli organi animali; al dotto investigatore i mezzi di addentrarsi sempre meglio in una parte così fondamentale della fisiologia, dell’anatomia comparata, della zoologia filosofica, in una parte della fisiologia che ha conferito tanta gloria ad uomini come Fabrizio pi AcquaPENDENTE, HARVEY, MarpiGHI, WoLFr, e soprattutto a Carlo von Baer, che ha trovato il più felice continuatore delle sue feconde investigazioni in Roberto Remax. Riprendendo le mie sperienze per la conservazione dei più teneri embrioni, nello scopo di fondarne una collezione per il gabinetto di fisiologia nell Università di Torino, trovai presto che si riesce meglio 238 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO allungando il mio mescuglio forte con acqua distillata. La soluzione di cui mi servo con oltimo successo, dal 1862 in qua, si compone nel modo seguente: Mescuglio forte di acido acetico (1) vol. ......... 1 Acqua distillatafiyiAtàoe LEPeR at pa 4004 STE A questo mescuglio darò per brevità il nome di mescuglio medio di «acido acetico. Ma per riuscire nella collezione degli embrioni non basta di cono- scere questo od altri mescugli che possano -impedire l'alterazione di oggetti così delicati. Prima di conservare bisogna bene preparare. Anch'io mi servo di acqua salata per immergere le uova prima di aprirle; ma importa moltissimo che quest’acqua non contenga nè troppo, nè troppo poco di sale di cucina. È verissimo che con un po di pratica si arriva facilmente a cogliere la quantità conveniente di sale. Ma l'esame degli embrioni del pulcino non può istituirsi ad ogni epoca dell’anno, ed io stesso devo confessare di aver quasi sempre perduto alcuni em- brioni del primo giorno d’incubazione per avere disciolto una quantità deficiente o eccessiva di sale nell'acqua, allorquando dopo un intervallo di più mesi mi rimetteva all’opera. Egli è perciò che ho voluto deter- minare la ‘quantità di sale disciolto in acqua salata, che mi aveva dato buoni risultati per gli embrioni del primo giorno e delle prime ore del secondo, imperocchè gli embrioni più avanzati sono assai meno sensi- bili. Una soluzione di sale di 1 per cento serve bene all’uopo (2). Non meno importante della concentrazione conveniente dell’acqua salata è la temperatura di essa. Ordmariamente si raccomanda di aprire l'uovo sotto dell’acqua. salata calda o tiepida. Il più esplicito su tale materia è stato Erpr nel suo magnifico e meritamente celebre atlante (3). (1) Questo mescuglio forte è composto di acido acetico (1,070).............. dHOd RISO vol. 1 alcool (0, 815). ....e.....50 0. e » 1 ACQUARO ISU AEREE AS ES DINI. È conosciuto dai chimici esistere due miscele di acido acelico e di acqua, che hanno la densità di 1,070, l’acido acetico glaciale possedendo alla temperatura di 18° C. il peso specifico di 1, 063, il quale si eleva a 1,079 quando l’acido si è combinato con 2 equivalenti di acqua. Mescolando questo idrato dell’acido acetico con una quantità maggiore di acqua, la densità va diminuendo, come va diminuendo per la deacquificazione del biidrato. Dei due acidi acetici, ai quali corrisponde la densità di 1,070, adopero il più acquoso. (2) Possono servire ancora le soluzioni di !/, e di 2 °/,, ma la prima ha l’inconveniente che in essa il blastoderma non si stacca così facilmente dal tuorlo, mentre nella seconda i preparali riescono un poco meno trasparenti che nella soluzione 1 °/,. (3) M. P. ErpL, die Entwicklung des Menschen und des Hihnchens im Ete. Leipzig, 1845. DI JAC. MOLESCHOTT. 239 Egli comincia la spiegazione della sua tavola seconda colle parole se- guenti: « Per tutti i preparati qui descritti il guscio veniva aperto in acqua » salata calda, poi tagliata con un paio di forbici la membrana vitellina » intorno al margine del blastoderma per staccarla dolcemente dal tuorlo. » Muovendo quindi con delicatezza le membrane nell'acqua, la blastoder- » mica si separava dalla vitellina , e quella poteva accogliersi isolatamente » sopra una lastra di vetro (1) ». E nella nota soggiunge l’autore : » Nei primi stadii ordinariamente non riesce di separare mercè tali dolci » movimenti la membrana blastodermica dalla vitellina ; per raggiungere » lo scopo bisogna prima raccogliere le due membrane attaccate insieme » sopra una lastra di vetro, in tal guisa che la faccia ventrale o pro- v fonda del blastoderma sia rivolta in su, poi con uno scalpello; in » diversi siti, spingere dolcemente il bordo del blastoderma verso il » centro per allontanarlo dalla membrana vitellina, riportare quindi il » preparato sott'acqua e per movimenti delicati e ripetuti staccare l’una » membrana dall’altra. Chi, negligendo questa precauzione, volesse isolare » il blastoderma per soli movimenti sforzati, correrebbe pericolo di » lacerarlo il più sovente nel mezzo della nota primitiva (2) ». Egli è soltanto pensando a questo metodo di preparare, che posso capacitarmi delle parole con cui Erpr accompagna la sua quarta tavola, che egli destinò ad ornare il titolo della sua bellissima opera, e nella quale rappresenta la nota primitiva: « Questo stadio è assai fugace » , dice egli, « e perciò di difficilissima osservazione; merita di essere lodato » come un caso felicissimo, quando fra più centinaia di uova s'incontra » una volta una preparazione di tanta bellezza quanta ne mostra la » figura qui aggiunta, che venne scrupolosamente presa dal vero (3) ». (1) ErpL l. c., p. 16: Bei allen hier vorliegenden Priparaten wurde nach Eròffrung der Kalkschale unter warmem Salzwasser die Dotterhaut rings um den Rand der Keimhaut - in einiger Enifernung von diesem - mittelst einer Scheere Rreisfirmig durchschnitten, dann mit ciner Pincette ber den Doter abgezogen und sachte in dem Wasser hin und hergeschwenkt. Durch diese Bewegung wurde die Keimhaut von der Dotterhaut hinweggespilt und auf cinem Glastifelchen auffefangen. (2) ERDL, l. c., p. 16: Bei den frihesten Stadien gelingt es in der Regel nicht, durch leises Hin-und Herschwenken allein die Keimhaut von der Dotterhaut zu trennen; um dieses zu bezwecken, muss man erst das herausgeschnittene Priparat so auf cinem Glastifelchen auffangen, dass die Bauchseite der Keimhaut dem Auge zugekehrt ist, und nun mittelst eines Messers an mehreren Stellen den Rand der Keimhaut sachte von der Dotterhaut hinwegschieben, dann das Ganze noch einmal unter Wasser bringen und durch miissiges Schwenken die vollige Trennung beider Hiute bewirken. Sucht man, ohne von der angegebenen Vorsichtsmassregel Gebrauch zu machen, bloss durch gewaltsames Schwenken die Keimhavt zu isoliren, so reisst sie leicht, am liebsten in der Mitte des Primitivstreifens. (3) ErpL, l. c., p. Si. Dieses Stadium ist hichst verginglich und deswegen auch sehr schwer zu 240 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO Colla stessa sicurtà con cui sono convinto che il compianto ErpL era un preparatore molto più abile di me, oso qui proclamare ch'egli stesso avrebbe designato come esagerazione le ultime riportate parole, se invece di aprire le uova sotto acqua salata calda, egli si fosse servito d’acqua di temperatura ordinaria. Purchè in questa il taglio venga con- dotto per le due membrane, vitellina e blastodermica insieme, e ciò con un po’ d’ardire, i più che si possa în vicinanza dell’area germi- nativa, allora la membrana vitellina raggrinzandosi , si separa da sè dal blastoderma con una facilità, che quando la vidi per la prima volta mi sorprese assai, ma che adesso preconizzo con tutta quella soddisfazione che si prova nell’aver vinto un ostacolo tenace. Attenendosi alle ore 12°-15° dell’incubazione, non solo non si vogliono parecchie centinaia, ma neanche dozzine di uova per incontrare una nota primitiva bellissima. Insieme ai Dottori Moriccia e Fusini ho voluto appositamente para- gonare embrioni dell’ora 12° sino alla 15° d’incubazione, preparati in acqua salata 1 °/, alla temperatura della stanza, cioè di 20° a 23° C. nei mesi di maggio e giugno, ad embrioni i quali negli stessi giorni e sotto circostanze identiche venivano tolti dalle uova in acqua salata 1 °/, alla temperatura di 32° a 45° C. Il risultato del nostro confronto si è, che alla temperatura ordinaria il blastoderma si stacca molto più facil- mente dal tuorlo e in generale anche meglio dalla membrana vitellina, benchè, per raggiungere questo secondo vantaggio, più della temperatura importi condurre il taglio in vicinanza dell’area germinativa. Le prepara- zioni ottenute alla temperatura della stanza sono inoltre notevolmente più trasparenti di quelle fatte fra 32° e 45° C. Tutti i vantaggi enume- rati vengono sacrificati tanto più sicuramente , quanto più la temperatura si avvicina a 45° C.; colla temperatura crescono soprattutto l'aderenza attaccaticcia del blastoderma alla massa del tuorlo ed il difetto di tra- sparenza delle preparazioni. Pare quindi, che le sostanze albuminoidi dell’area germinativa e delle prime tracce embrionali si coagulino ad una temperatura relativamente bassa, a meno che questo effetto dipenda dalla presenza della leggiera proporzione di sale di cucina unitamente all’ele- vazione di temperatura. A Separato il blastoderma dalla membrana vitellina e dal tuorlo, lo sehen; man kann es einen recht gliicklichen Zufall nennen, trifft man es unter Hunderten von Eiern cinmal so schon, wie die vorliegende Figur es volkommen der Natur getreu zeigt. DI JAC. MOLESCHOTT. 241 raccolgo sovra una lastra di vetro dentro una piccola cornice di lastrine tagliate di vetro copri-oggetti, attaccate sul porta-oggetto coll’ aiuto di una soluzione alcoolica di gomma lacca. Più gli embrioni sono teneri, più queste lastrine devono essere sottili, Avendo ben disteso, in posizione simmetrica, dentro la cornice il blastoderma, il quale talvolta va dolce- mente sciacquato nell'acqua salata per polirlo da’ globi vitellini che l’imbrattano, asciugo il porta-oggetti con carta bibula, estendendo quest’o- perazione anche alla circonferenza del preparato dentro la cornice. Quindi il preparato rimane esposto all'aria finchè l’essiccazione abbia attaccato bene la periferia del blastoderma al porta-oggetto. Trattandosi dei primi stadii, compresi quei della prima metà del giorno secondo, prendo allora un copri-oggetto con una piccola pinza, ed immer- sone il bordo opposto alla pinza nel mescuglio medio, così che ne resti bagnato una buona striscia, applico questo su una delle lastre della cornice nel porta-oggetto. Appena ciò sia fatto, un assistente con un pennello aggiunge rapidamente grosse gocce del mescuglio medio, mentre il prepa- ratore fa lentamente calare il copri-oggetto. Allora il liquido per adesione e capillarità si diffonde così presto sopra l'embrione, che lasciando dolcemente cadere il copri-oggetto sulla cornice, il preparato resta chiuso dentro di essa, il più sovente senza bollicine d’aria o almeno senza bollicine nocive. Dovendo includere degli embrioni del 3, 4, 5 giorno, le cornici devono naturalmente avere un'altezza corrispondente. Disposto in esse l'embrione, soventi coll’intera area vascolosa o sanguigna, come la vuole chiamata RemaKg, si aspetti ancora il momento in cui il margine della preparazione sia per prosciugamento attaccato al porta-oggetti; poi si cominci coll’empire rapidamente, quantunque sempre con delicatezza, la cornice di mescuglio medio, il quale deve inondare l'embrione e la cornice a tal punto, che trabocchi dai bordi dell’ultima ; finalmente si applichi il copri-oggetto nel modo già descritto. Facendo così riesce molto bene di inchiudere anche degli embrioni assai grossi; anzi io credo che con questo metodo sarebbe possibile l’inchiudere senza aria nociva un uomo intero fra due lastre di vetro. L'ultima operazione consiste nell’attaccare il vetro copri-oggetti a quelli che servono di cornice e di sostegno. A tal fine mi servo del metodo già descritto nel mio Giornale di Fisiologia (1), copro cioè (1) Untersuchungen zur Naturlehre des Menschen und der Thiere. Bd. VII; p. 218. Serie II. Tom. XXIV. "E 242 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO i bordi della lastra superiore con un mescuglio fuso di 2 parti di ‘colo- fonia ed 1 parte di cera gialla. Questo mastice, abbastanza scorrevole mentre è fuso, si solidifica subito, ma facilmente si screpola, per cui lo rivesto di più strati di vernice d’asfalto, la quale chiude molto bene non solo codeste screpolature, ma anche le rime capillari fra il mastice ed il vetro. Per raggiunger meglio quest’ultimo scopo, è utile che il porta- oggetti sia abbastanza largo, affinchè il margine di contatto fra il mastice e la vernice di asfalto rimanga alquanto discosto dai bordi di quello. Ogni preparato dopo l’essiccazione della vernice richiede un esame diligente per essere ritoccato con essa, quando desta il più leggiero sospetto di una screpolatura. Valendomi di tutte le precauzioni indicate, mi è riusciuto di con- servare degli embrioni del pulcino dei primi cinque giorni d’ incubazione per più di tre anni. Essi dunque si trovano in definitiva in una soluzione di un po di sale di cucina nel mio mescuglio medio di acido acetico, fiparati, per quanto meglio si possa, dall'azione dell’aria atmosferica , presi e fissati, non compressi fra le due lastre di vetro. So benissimo di non essere il primo che abbia provato di inchiudere i più teneri embrioni del pulcino in liquido conservatore. Ma ciò che finora in altri laboratori ho potuto esaminare io stesso, non mi par reggere al confronto: giudizio personale al quale non mi sarei abbandonato, se non fosse che molti uomini peritissimi in siffatta materia lo. avessero con- fermato della loro imparziale autorità. Mi piace di enumerare fra questi i nomi di Arsini, CrAccio, De Fiiepr, del compianto Biagio GAsTALDI, di HaeckeL, Knocn, Kunpe, LonceT, OrHt, Pacini, PiccoLo, RiccHiARDI, Scurr, Scaneevoocr, Scaròn, Tarcioni-Tozzetti ,, Salvatore Tommast e Garlo Vocr. Il. OSSERVAZIONI E MISURE. Avendo acquistato per la collezione del gabinetto di fisiologia di Torino delle serie embrionali discretamente numerose, e riflettendo alla scarsità di misure che la scienza in questa parte possiede, mi nacque il desiderio di mettere il mio metodo di conservare gli embrioni a con- tribuzione per colmare una lacuna che mi aveva sovente sorpreso. Ho quindi misurato l'area germinativa e le parti più interessanti o più DI JAC. MOLESCHOTT. 243 accessibili dell'embrione nei loro stadi primordiali o primitivi (1). Quasi sempre le misure vennero prese su preparati imbevuti del mescuglio medio di acido acetico contenente un poco di sale di cucina. Misure comparative su embrioni del primo giorno mi hanno dimostrato, che il mio liquido conservatore non cambia notevolmente le dimensioni nè in più nè in meno; anzi due volte ho misurato l’iniziamento dell’em- brione, che non presentava altro che il solco primitivo, senza che fosse formata alcuna appendice cefalica prima dell’aggiunta del liquido conser- vatore, e più giorni dopo, senza trovare differenza alcuna. L'uno di questi embrioni misurava nella sua lunghezza 1,99 millimetri, altro 2,28. Insisto su questa circostanza in favore precisamente delle misure istituite sui più teneri embrioni, le quali in parte vennero eseguite eziandio o esclusivamente su preparati freschi, cioè bagnati soltanto di una leggiera soluzione di sale di cucina. Per questi primi stadii di sviluppo è evidente l'interesse di misure riferibili ad oggetti che siano approssimativamente inalterati. Per gli stadii avanzati importerebbe meno se qualche rigonfia- mento o raggrinzamento ci fosse, giacchè il maggior numero dei valori in essi ha un significato relativo, e la proporzione è salva, in quanto che tutti gli embrioni avevano subito gli effetti dello stesso metodo di preparazione. i Non essendo d'altronde possibile di misurare gli embrioni perfetta- ‘mente inalterati ossia di assoluta freschezza, mi parve prezzo dell’opera il misurarli sotto condizioni uguali, il più che si potesse illesi. La lacuna, che in questa parte venne lasciata nella scienza, credo che dipenda precisamente dalla circostanza, che non si conobbero mezzi abbastanza felici per sottomettere all'esame delle serie di embrioni sotto condizioni identiche. Egli è per ciò che ho misurato con amore, per quanto non mi nascondessi che i numeri che avrei trovati non rappresen-. tassero valori assoluti, non essendo misurabili gli embrioni nel loro sito naturale, cioè nell’uovo stesso. Mi tengo poi persuaso, che i numeri non si scostano molto dal vero. (1) È invalso l’uso in embriologia di indicare come primordiale VP iniziamento di un organo il quale nell’ulteriore sviluppo cambierà il suo significato funzionale, così, in modo d’esempio, i reni primordiali; di chiamar primitive invece le prime tracce di organi, le quali persistono come fonda- mento dell’organo sviluppato, per esempio: aorlte primitive, vescichette visive primilive. Ho cercato di applicare in modo consistente questa nomenclatura, e perciò parlerò di nota primitiva e di vertebre primordiali. 244 STUDI. EMBRIOLOGICI SUL PULCINO Quantunque anch'io riconosca la divisione dello sviluppo del pulcino in tre periodi, quale venne introdotta da Carlo von Barr, come tanto naturale da esser indispensabile per una descrizione succinta e completa del qualitativo nei processi evolutivi, non pertanto ho dovuto scindere maggiormente la storia dell'embrione in quella parte che ho presa a disamina, se non voleva perdere il vantaggio di riunire stadii di sviluppo così vicini gli uni agli altri, che le dimensioni trovate per i singoli embrioni o le loro parti potessero condurre a valori medii attendibili. Non è dunque certamente per correggere l’insuperabile divisione di BAER, che ho spinto. più oltre le incisioni dei periodi, ma soltanto per ottem- perare ad un bisogno specifico delle mie ricerche. Sono specialmente i primi tre giorni sui quali ho fissato la mia atten- zione, ed è di questi che voglio adesso successivamente trattare. A) Misure ed osservazioni intorno al pulcino nel primo giorno dell’incubazione. Ho diviso gli stadi che l'embrione percorre nelle ultime dodici ore del primo giorno, dalla comparsa della nota primitiva cioè fino alla for- mazione di 4 o 5 paia di vertebre primordiali, in quattro periodi, dei quali il primo abbraccia le tracce embrionali, che consistono nella sola nota primitiva, senza presentare ancora indizio di solco; il secondo gli inizia- menti embrionali col solco primitivo, ma prima della comparsa della corda dorsale; il terzo gli embrioni con corda dorsale, ma non ancora muniti di vertebre primordiali; il quarto gli embrioni nei quali le ver- tebre primordiali sono iniziate senza che il numero delle paia di esse superi quello di cinque. Il quarto periodo si distingue inoltre per la mancanza del vero cuore, e del differenziamento della prima vescichetta cerebrale. Il funicolo arcuato, il quale si trova alla fine di quest'epoca nella Zovea cardiaca di WoLrr, non costituisce l’iniziamento del cuore, ma dei tronchi venosi, per cui preferisco chiamarlo l'Arco dei tronchi venosi. a) Primo periodo del primo giorno. Esso comprende, come venne già detto, il tempo in cui l’iniziamento embrionale si presenta sotto l’aspetto della nota primitiva senza alcuna traccia di solco. Questo stadio è riconosciuto comunemente molto fugace, DI JAC. MOLESCHOTT. 245 a, per quanto mi consta, nissuno ha espresso in valore numerico la durata dell’esistenza della semplice nota primitiva. Ho tentato di farlo colle osservazioni seguenti. Trentaquattro uova, fatte da galline che coa- bitavano col gallo, furono messe nella stufa da incubazione, nella quale la temperatura venne mantenuta a 38 o 39° c. Le uova, dopo 12 ore di incubazione, vennero successivamente esaminate, e le osservazioni relative sono consegnate nella seguente tavola. Favora E. TEMPO BREVE CARATTERISTICA d’incubaz.® dell? Osservazioni. in ore nt iniziamento embrionale 15' | Nissuna traccia d’embrione. 25' | Bellissima nota primitiva. 35! Non fecondato. 39' | Nota primitiva. 47' | Nota primitiva. 55' | Nissuna traccia d’embrione. Nota primitiva appena indicata. Un poco meno sviluppata di quella nella tab. IV di ErpL. 8' Guasto dopo la preparazione. 13' | Macchia embrionale. Tache embryonnaire di Coste. 25’ | Bellissima nola primiliva. Solco primitivo iniziato. Il solco venne distinto: soltanto dopo l’aggiunta del miscuglio medio. Solco primitivo appena PI Nota primitiva. Nola primitiva. Iniziato il solco nell’estremità cefalica. Nota primitiva. Nota primitiva. Leggierissimo indizio di solco. 5 Guasto sotto la preparazione. Nota primitiva. Nota primitiva. Solco primitivo appena iniziato. Solco primitivo distintissimo. Nota primitiva. Solco primitivo. Solco primitivo, appendice cefalica, | La corda appena iniziata. corda dorsale. Solco primitivo. Solco primitivo, I limiti dell'embrione poco distinti. Solco primitivo, appendice cefalica. Solco primilivo. Come 28. Non fecondato. Solco primitivo. Come 28. Solco primitivo, appendice cefalica. Solco primitivo. Da questo prospetto appare, che la nota primitiva venne osservata per la prima volta dopo 12 ore e 25 minuti d’'incubazione, per l’ultima volta dopo 15 ore e 22 minuti. La lunghissima durata dunque, che, 246 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO attenendosi a questa serie di osservazioni, potrebbe ascriversi all'esistenza della semplice nota primitiva, sarebbe di 2 ore e 57 minuti, ossia di quasi tre ore. Ma essendosi trovato ancora dopo 13 ore e 13 minuti la macchia embrionale, senza differenziamento di nota primitiva, potrebbe darsi che il tempo dovesse ridursi a 2 ore e 9 minuti. Senza preten- dere che questi limiti abbiano un significato assoluto, mi pare però, che dalla frequenza delle note primitive osservate in queste sperienze si possa inferire, che la nota primitiva può persistere all'incirca due ore. Se non che si potrebbe asserire, che la vera durata dell’esistenza che protrae la semplice nota primitiva, debba misurarsi coll’ intervallo fra la prima comparsa del solco e la prima osservazione della nota pri- mitiva; or questa venne fatta dopo 12 ore e 25 minuti d’incubazione, quella dopo 13 ore e 33 minuti; l'intervallo dunque equivarrebbe a un’ora e 13 minuti. La minima durata presumibile per l’esistenza della nota primitiva sarebbe dunque di più d’un’ora. Dalle mie osservazioni devo quindi conchiudere, che la nota primitiva può persistere per non meno di un’ora e non più di tre; che l’epoca più propizia all'apertura delle uova per chi vuol trovare la nota primitiva, senza indizio di solco, sia dalle 12 % fino a 15 ore d’incubazione (1); finalmente che fino ad ore 15 } trascorse dopo il principio dell’incubazione qualche nota primitiva semplice si possa incontrare, più tardi invece non se ne trovi più. Le misure che sì riferiscono al primo periodo del primo giorno tro- vansi raccolte nella tavola seguente. L'unità è il millimetro in questa tavola, come în tutte le altre. (1) Questo trovato corrisponde assai bene coll’asserzione di BAER, che, cioè, il primo rudimento dell’embrione apparisce verso la quattordicesima o quindicesima ora dell’incubazione, ossia trascorse le prime 13 o 14 ore. Cf. Karl Ernst von BaER, Veber Ertwicklungsgeschichte der Thiere. Beobachtung und Reflezion. R6nigsberg, 1828, I, p. 12. DI JAC. MOLESCHOTT. 247 Tavona lE. Giorno Primo. — Primo Periodo. MENA a = vi e e NUMERO LUNGHEZZA bordo superiore BordoVififeriore LUNGHEZZA LARGHEZZA ; dell’area pellucida| dell’area pellucida È d dell ° all'estremità dall'stremità delli massima efali I i } ordine area pellucida PRETI ELA embrione dell’embrione (2) 1 1,94 0, 60 0,50 0,85 0,11 2 1,37 3 1,42 4 2,99 0, 9i 0,00 1,48 0, 23 5 1,88 6 SLEli 1,05 0, 00 1,88 0, 17 7 1,99 8 2,91 0,91 0,00 2,02 0, 26 9 3,70 1,42 0,17 DITT 0,34 10 3, 42 1,14 0,00 2,28 0, 23 ii 3, sl 1,03 0,00 2,28 0, 26 12 2,96 0,68 0,00 2,28 0, 28 13 3, 42 0,57 0,28 2,56 0, 23 14 3, 88 1,25 0,0 2,62 0, 23 Valori medii 3, 08 0,95 0,09 1,93 0, 23 Da questi numeri ne risulta, che la lunghezza media della nota pri- mitiva è un po’ minore di 2 millimetri. In questo periodo l'embrione cresce da 0,85 a 2,62 mill., ossia più del triplo. Il minimo che io abbia misurato resta inferiore a 1 mill. Von Barr trovò la lunghezza della semplice nota primitiva uguale a circa 1 % linea, ossia 3,37 mill., valore che oltrepassa non solo la media, ma anche il massimo da me trovato (= 2,62), mentre esso monta a più del quadruplo del minimo registrato nella mia tavola seconda. } Sul principio la nota primitiva colla sua estremità codale non rag- giunge il bordo corrispondente dell’area germinativa, benchè la distanza fra questo e quella sia minore della distanza, che passa fra l’estremità cefalica della nota ed il bordo corrispondente dell’area. Ordinariamente però in quest'epoca l’estremità codale dell'embrione arriva al limite infe- riore dell’area pellucida. i L'area pellucida in questo periodo cresce più lentamente dell'embrione; mentre questo alla fine del periodo si è triplicato, quella si è raddop- piata soltanto. In media il rapporto fra la lunghezza della nota primitiva 248 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO e quella dell’area pellucida equivale a 2:3; sul principio la nota occupa meno della metà dell’area, sulla fine più dei due terzi. Dove la nota primitiva è più larga sul principio, il diametro trasverso ne misura soltanto o, 11 mill., ma può arrivare fino a 0,34; in media, di misure prese su dieci embrioni, la larghezza della nota, laddove è massima, è uguale a 0,23. Secondo Remax la larghezza della nota, cioè della sua lamina centrale, è di ‘/5 a '/s di linea = 0,37 a 0, 74 mill. (1). Stando alle mie misure, devo supporre che i numeri dati dal Baer e dal RemAKk siano riferibili al massimo che l’embrione possa presentare in questo stadio di sviluppo: massimo però da me non incontrato senza che esistessero di già il solco primitivo e la corda dorsale. b) Secondo periodo del primo giorno. Più volte mi è accaduto di credere che il preparato da me ottenuto, mentre era bagnato soltanto della soluzione di cloruro di sodio 1 °, non fosse ancora munito di solco primitivo , e di trovarlo poi distintis- simo dopo l'aggiunta del miscuglio di acido acetico medio. In tal caso ho assegnato gli embrioni al secondo periodo, e forse questa circostanza può rendere ragione delle misure più grandi che gli illustri miei pre- decessori hanno attribuito alla semplice nota primitiva. Innanzi di trascrivere le misure che ho raccolto per il secondo pe- riodo del primo giorno, cioè per tutto il tempo in cui si distingue il solco primitivo senza che sia ancora iniziata la corda dorsale, mi sia lecito di rispondere, coll’aiuto di quanto osservai io stesso, al quesito, che cosa sia quel solco primitivo. Ho raccontato più sopra come per coprire gli embrioni del mio liquido conservatore e della sottile lastra di vetro che deve chiudere la cornice preparata sulla lastra porta-oggetti, lascio essiccarsi un poco i bordi del blastoderma, affinchè il preparato non si sposti mentre si eseguiscono queste ultime manipolazioni, le più delicate di tutte. Per cogliere il momento più opportuno alla chiusura delle preparazioni , si vuole un po’ di pratica, ed anche dopo di averla acquistata, accade di perdere il miglior momento, soprattutto quando nell’'ardore del lavoro (1) V. REMAK, Untersuchungen iber die Entwickelung der T'hiere. Berlin, 1855, p. 8. DI JAC. MOLESCHOTT. 249 si è aperto un numero di uova troppo grande per poter passo passo sorvegliare attentamente tutte le preparazioni. Fra queste, in cui l'essic- cazione aveva fatto un progresso troppo grande, ho trovato dei casi in cui il foglietto superiore si era trasversalmente lacerato , lasciando a nudo il foglio intermedio nella regione corrispondente alla fessura. Ora in questi casi il solco primitivo non era interrotto nella fessura, anzi si continuava intero, ed accanto alla striscia centrale più chiara si distin- guevano perfettamente due striscie-scure. Da questa osservazione, che ho potuto più volte ripetere ed anche verificare in preparazioni in cui l'una delle estremità del foglietto superiore si era rivoltato a tal punto da lasciare scoperto l' intermedio , emerge che il solco primitivo si forma in quest'ultimo ; e mi pare naturale il supporre, che si formi perchè succede una migrazione laterale delle molecole che costituiscono il centro del foglio intermedio (1). Così sui due lati dell'asse di questo foglio nascono due striscie più dense ed anche più spesse, le quali, viste a trasparenza a traverso del foglietto superiore, si presentano come limiti di una gronda, mentre in realtà esse limitano lateralmente una specie di canale contenuto fra i foglietti superiore ed inferiore, ossia sensoriale e trofico di RemaAK (2). Lo chiamo canale, benchè non sappia se vera- mente contenga un liquido; ma fatto sta, che nello spazio qui designato, nella parte assottigliata del foglietto intermedio più tardi si formerà la corda dorsale (3). Quelle striscie scure che lateralmente limitano il solco, ossia il canale primitivo, sono propriamente /e lamine in cui si forme- ranno le vertebre primordiali; esse appartengono al foglietio intermedio, e sono desse che meriterebbero il nome di lamine dorsali, alle quali il foglietto superiore non partecipa, benchè le cuopra per qualche tempo. La formazione del tubo midollare, che si effettua per il rialzamento dei bordi della lamina centrale o midollare del foglietto superiore del blastoderma (1) Tale migrazione laterale venne ammessa anche da BAER, il quale però, come ancora REMAK, attribuì la formazione del solco ai due foglietti, superiore ed intermedio, uniti, BAER (1. c., p. 14) dice: Es scheint also dass die Korner aus dem Primitivstreifen nach den Seiten weichen. (2) Secondo il RemaK il fondo del solco sarebbe formato dal foglietto superiore; modo di vedere che non mi pare giusto. Cf. REMAK, l. c., p.9. (3) CL. Rema€, 1. c., p 10 dove dice: Die Seitenrinder der Chorda hingen anfanglich noch nittelst feiner ‘mikroskopischer Fiden mit den inneren Riindern der Urwirbelpluttien zusammen. Dieser Zusummen- hang list sich aber alsbald. Alsdann liegt die Chorda în cinem kanalformigen wasserhellen Raume, dessen chere Wand durch die Medullarplatte, dessen untere Hand durch das Drisenblatt und dessen Sciten- winde durch die Urwirbelplatten gebildet werden. Serie JI Tom. XXV. în n 290 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO (rialzamento così maestrevolmente descritto ed interpretato dal RemAK), è posteriore di un paio d'ore alla formazione del solco primitivo e nel prin- cipio di lunghezza assai limitata, e quindi la formazione del tubo midollare non può invocarsi per la spiegazione del canale primitivo. Questo è uno dei pochissimi punti in cui non vado d’accordo col bellissimo lavoro di RemaK, del quale altrimenti non saprei meglio giudicare se non col riferire le parole del KòLLiKER, dove asserisce, che l'esposizione del Remak merita di essere chiamata da quasi ogni lato finita, e che il lavoro di questo naturalista è tutto quello che di più sodo e più perfetto è venuto alla luce nel periodo più recente dell’ embriologia, vale a dire nel periodo iniziato dallo ScawanN (1). Secondo le mie osservazioni dunque si dovrebbe ammettere una rarefa- zione del foglietto intermedio nell’asse longitudinale dell’area germinativa, rarefazione dovuta ad un trasferimento di gran parte delle molecole centrali ai due lati dell'asse, dove, producendo un inspessimento del foglietto, vanno a costituire le vere lamine dorsali. Ora quella rarefazione non si produce d’un tratto in tutta la lunghezza dell’asse. Nelle prime osservazioni che feci di un solco primitivo imperfetto , lo trovai soltanto nell’estremità cefalica dell'embrione , ed era già disposto a credere che il solco, ad analogia di altre parti, s’ iniziasse regolarmente nella metà cefalica dell'embrione, quando trovai degli esempi di forma- zione del canale primitivo nella metà codale, senza traccia di esso nell'altra metà. Le osservazioni di questa rarefazione parziale, foriera della formazione del canale primitivo, che sono alla mia disposizione, non sono abbastanza numerose, e le diverse non vennero numerate, per cui non posso dire con sicurezza dove la rarefazione cominci il più sovente; però l'impressione mi è rimasta, che ciò succeda nella metà cefalica. Qui, nella tavola terza, seguono le misure per il secondo periodo del primo giorno. (1) KoLLIKER, Entwicklungsgeschichte des Menschen und der hiheren Thiere. Leipzig, 1861, p. 18. Auf ReicuerTs Untersuchunger fussend, gelang es denn endlich REMAK beim Hiilinchen und zum Theil beim Frosch eine Darstellung dieser Verhaltnisse zu geben, welche, wie ich aus eigener Anschauung sagen kann, als eine fast nach allen Seiten vollendete bezeichnet werden darf, wie denn dberhaupt die Arbeit dieses Autors als die gediegenste und vollkommenste der neuesten Periode der Embryologie nach SCHWANN erscheint. (© 4 DI JAC. MOLESCHOTT. 2 Tavora III. Giorno Primo — Secondo Periodo. DISTANZA DISTANZA A NUMERO | LUNGHEZZA del del LUNGHEZZA | LARGHEZZA | LUNGHEZZA | LARGHEZZA bordo superiore[bordo inferiore dell? dell? massima dell’ d’ dell’area | area pellucida | area pellucida dell’ del solco dall’estremità | dall’estremità dell? appendice di cefalica codale n bat: I ordine pellucida | gel’ embrione | dell'embrione | eMbrione | embrione cefalica primitivo (e) (8) 0, 23 0, 23 VESTITO 0, 63 i 2 3 4 5) 6 7 8 9 0,00 1 3 PU hO h9 hO (O CO (0 DOSI 4 a 0 = 00 000 DDA INAVASIO) DO ID ID dedi dedi im n do IS) (cp) Valori medii La lunghezza media dell’area pellucida in questo periodo è di 3,06, cioè quasi uguale a quella trovata per il primo periodo (3,08). La distanza del suo bordo superiore dall’estremità cefalica dell'embrione è doppia di quella fra il suo bordo inferiore e l'estremità codale. Quest'ultima misurando in media 0,25 mill., ne viene di conseguenza, che l’area pellucida è cresciuta oltre il limite codale dell’embrione. Questo cresce da 1,79 a 2,74, ma in media raggiunge soltanto 2,26 mill., valore il quale, confrontato col corrispondente del primo periodo (1,93), denota un lento accrescimento. Per la massima lar- ghezza dell’embrione l’accrescimento nel secondo periodo è nullo. Da ciò si inferisce, che nel secondo periodo del primo giorno il differenziamerto è molto più importante dell'accrescimento. Difatti, in questo periodo, oltre il solco (ossia canale) primitivo, vediamo sorgere l'appendice cefalica. Nessuna formazione è più atta di questa appendice cefalica a provare, che le diverse parti embrionali non vanno sviluppandosi di pari passo. Ho trovato talvolta un'appendice cefalica lunghissima (maggiore del terzo della lunghezza dell'intero embrione), mentre non si distingueva ancora 252 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO traccia di solco primitivo, ossia un solco primitivo molto incompleto ; quest'ultimo caso si verificò per esempio nel numero 12 della terza tavola. In questa si trovano eziandio esempi di embrioni relativamente piccoli con grandi appendici cefaliche e viceversa (vedi n° 2, 7, 9). c) Terzo periodo del primo giorno. Nel terzo periodo è iniziata la corda dorsale, ma non si distinguono ancora le vertebre primordiali. L’embrione cresce da 2, 5 a 3, 5 mill., ed in media misura 3,33; cresce quindi più rapidamente che non nel periodo secondo del primo giorno. La corda dorsale, misurata sempre nella stessa regione, ha in media il diametro trasversale uguale a 0,08 mill.; essa è più larga nel prin- cipio di questo periodo che al suo termine. L'area germinativa in questo periodo si allunga meno, relativamente ed assolutamente, dell'embrione ; questo non ne tocca i limiti nè colla sua estremità codale, nè colla cefalica, la quale però resta più lontana (0,35) dal bordo corrispondente dell’area che l’estremità codale (0, 15). Il primo iniziamento del tubo midollare misura '/; della lunghezza dell'intero embrione. Tutti questi fatti risultano dalla tavola seguente, ossia quarta. Tavora IV. Giorno Primo. - Terzo Periodo. DISTANZA DISTANZA LARGHEZZA | LARGHEZZA | LUNGHEZZA NUMERO | LUNGHEZZA del del LUNGHEZZA bordo superioreJbordo inferiore delle lamine | della corda dell’ dell’ dell’ d’ dell’area {area pellucida | area pellucida dell’ per dorsale |iniziamento dall’estremità | dall’estremità $ S cefalica codale A le vertebre | nella parte | del tubo ordine pellucida | qell’embrione | dell'embrione { embrione Mito i |, (&) (8) primordiali media midollare 0, 28 0,10 0, 28 0,09 0, 23 0,07 0,23 0, 06 0, 23 Valori medii DI JAC. MOLESCHOTT. 253 a) Quarto periodo del primo giorno. L'avvenimento principale che dà l'impronta a questo periodo è la formazione delle 4 o 5 prime paia di vertebre primordiali, mentre man- cano ancora i diversi compartimenti del cervello , compresa la prima vescichetta cerebrale, e l iniziamento del vero cuore, giacchè alla fine del primo giorno esiste solianto l'arco dei tronchi venosi. Finora era accetta la dottrina che fin dal principio le paia di ver- tebre primordiali esistessero in numero maggiore di uno; secondo R. Wacver s'inizierebbero in numero di 3 0 4, secondo RemaK e KòLLIKER di 2 o 3 (1). Però se si esamina una serie abbastanza grande di em- brioni, in cui le vertebre primordiali cominciano a spuntare , è facile 2 convincersi che le prime paia nascono proprio una per una. Ho potuto verificar questa circostanza, dalla esistenza di un solo paio fino alla formazione di tredici paia di vertebre. Dura però ben poco il tempo in cui non esiste se non un solo paio di vertebre primordiali. Ora il paio , la cui formazione precede quella di tutti gli altri, non è la prima vertebra cervicale, ma la seconda. Poco dopo questa nasce il paio che è situato avanti al primo formato, e poi il terzo, il quale dunque cronologicamente e topograficamente va indicato collo stesso nome. Egli è perciò che sovente, quando l’ embrione possiede di già tre paia di vertebre primordiali , il secondo paio è nettamente sviluppato, mentre il primo ed il terzo sono imperfettamente iniziati, talvolta anzi appena adombrati. (1) R. WAGNER, l. c., p. 71: Es sind anfinglich nur drei bis vier Paarc. - REMAK, l. c., p. 12: Wihrend im Halstheil des Embryo die Medullarplatte sich zu schliessen beginnt, zeigen sich im Rumpftheile die ersten (zwei bis drei) Urwirbel. - ROLLIKER, 1. c., p. 49: Im Anfange erscheinen nur zwei oder drei Paare solcher Urwirbel. i STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO (SÌ (Oki Tavora VW. Giorno Primo — Quarto Periodo. codale mordiali nella parte media NUMERO area pellucida estremità d’ Lunghezza dell’area pellucida Lunghezza totale dell'embrione Lunghezza media Larghezza della corda dorsale ordine riore dell'area pellucida dall’ estremità cefalica dell’embrione Numero delle paia sopra il primo paio di vertebre primordiali riore dell’ dell'embrione Distanza del bordo infe- dall’ per le vertebre primordiali delle vertebre primordiali Larghezza delle lamine Distanza del bordo supe- Lunghezza dell'embrione delle vertebre pri a R _ 1 2 3 3 3 4 4 ò 5 Valori medii Dalle misure raccolte nella tavola precedente risulta che, mentre l'embrione presenta da 1 a 5 paia di vertebre primordiali, la sua lun- ghezza media equivale a 3,84 mill. Quella parte dell’embrione invece, che è situata sopra il primo paio di vertebre, misura 1,52 mill. Ora, secondo la congettura di Remaxk, confermata dall’asserzione di KéLLIKER (1), le prime vertebre corrispon- dono alle future cervicali, e quindi tutta quella parte dell'embrione che trovasi sul davanti della prima vertebra primordiale rappresenta la futura testa. KòLLIKER, in conseguenza di questa considerazione, che mi pare verissima, ascrive quasi la metà della lunghezza dell’embrione alla testa; stando alle mie misure, in questo periodo la media lunghezza della futura testa misura */ della media lunghezza dell’intero embrione. La larghezza delle lamine per le vertebre primordiali va decrescendo: fatto che deriva dal confronto delle misure che si riferiscono al prin- (1) Vedi le pagine sovra citate di ambidue questi autori. DI JAC. MOLESCHOTT. 255 cipio ed alla fine di questo periodo , siccome dal valore medio trovato per il terzo periodo del primo giorno (0,25 mill.) e quello che spetta al periodo quarto (0,21 mill.). La lunghezza delle vertebre primordiali invece va crescendo; mentre nell'embrione con un solo paio di vertebre primordiali misurava 0, 08, in uno con 5 paia di vertebre equivaleva a 0,13 mill. Ora in larghezza le vertebre primordiali corrispondono alle lamine in cui si formano (lamine dorsali miki, o lamine per le vertebre primordiali); ne viene di conseguenza che sul principio le vertebre primordiali sono oblunghe, il diametro maggiore, che in media in questo periodo arriva al doppio del minore, essendo situato nella direzione del diametro trasversale dell'embrione. Per la corda dorsale si osserva un decremento progressivo del suo diametro trasversale: nel terzo periodo il valor medio per esso equiva- valendo a 0,08, in questo a 0,06 mill. B) Misure ed osservazioni intorno al pulcino nel secondo giorno dell’incubazione. Il secondo giorno si divide assai naturalmente in due periodi, dei quali il primo è caratterizzato dalla presenza di 5 a 8 paia di vertebre primordiali, di una vescichetta cerebrale, e dalla mancanza di limiti distinti del cuore nelle sue estremità superiore ed inferiore; il secondo dalla presenza di ga 12 paia di vertebre, di tre vescichette cerebrali, e di limiti distinti del cuore. Ho raccolto nelle tavole sesta e settima le misure che sì riferiscono ai periodi ora indicati. EMBRIOLOGICI SUL PULCINO Tavora VI. Giorno Secondo — Primo Periodo. STUDI QIOMI [E QUIDIA ISOUOA 1Y9UOIZ 19p crpowr ezzaydieg | e °° Sura Celco) DI = QJono E COLO Î FO Era SS CERA SELES vuwisseu 12209910] QUONI E OUIDIA e sa ISOUOA tqouoI} tap Si a: QIONI |Ip_ezzaySunt cIpawr ezzagBierr © ° SSSSSTSESTS È —_____—— == i ez101 CT e n Do) D GI DD DO DD ca Cp ERI 1u19]S9 IPIog t Caj CO na Roo Sa | cusssew czzaq8iet si Gi ù GUIA Ua To ISOUSA t]9UOI] 19p TCA z Da x 5 T_T Ss SS S| one ep eunsseu ezzaiduy i] S © >) (=) E (3) ezio) cop R_ RR Q QEZE Di S S o © vzz0gSui E, e @[e.1a190 eIJANo1osoA Si - va $ —|E_2 E 0008 E x xi ; cunid c|jop on UCI 87 Upuopos E]jop SCUSE rRESso I ewISSEUI vzZ0À1eT o ° ° 7 = | cwissew ezzoqdIet Se SESSI i = | S >_I i 9[LIA9199 LITATOIISOA ) SI e & S È 3) Upuooos t[jPop E na Co FA 5 I Sì AR 2 Si Î sé iù ewnd vpap ezzogSunt | Sa S = = CA ezz01Funrt Sir SSIS SIE i È ° (>) < —_Wl . . 7 n E ieipiownd Iqua 2 dI if 19 S È cwud cita, o R_ S HsaLSES5 | E 3 o[esIop Ep100 eIlop Ci Ci Rù FASSA ezzaqdIeT © ° 2 [=] cund Ciop TONSTasR99DI Se | £ i ace ipeipiownd o1qapioA @|[ap | 22 © . 3 vzz0ySung SES SESIA I ; = = tIpow :e2z9YS unt S S o) S ARR caiguaa 9][2P. 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LEA] SISSISTOIISISISISITOIORO Si SES ajepoo Rue 2189 IP I VIPMAITETAO i È ARIA CES ra we a E 53] gl ST re AIRES _ ° ogepoo eHtuonsa IEP Fl a SÌ SÌ LA ZIAZQDA o] pile | 9 PIO 19P qT epron[[ad cale [jap a.iotla —_ SSIS SESLTLI S s_& Il f|- TT pi. auotIquia {ap aJuI Opioq |op ezue)sig sz li L01]EJ99 eIw9I}SO ][eP î NONO. cprengod eoIe, jap odo » cOoOornso mona 4a 0 219 È el -adns opioq jop ezue\st( FS RE = 2 ail SS Di 4 5 |l ezzaydunrg epronjjod rale.Jjop SEI SS RESA 2 È zi È E° GO LENÒ ” N $ E VEE RT VMARIIT = È a FI —_——_—— e ee ie sl QUIPIOP_OJQUINN 3 E = CO | > o 5 59 Lea 2 Ss e lie È — È Fanta OnDDOTAMN = Gia = ii his) nen n Hm p 0) Si (21 ri _ > DI JAC. MOLESCHOTT. 257 Nel primo periodo del secondo giorno la lunghezza media dell’em- brione è uguale a 4,50, nel secondo a 4,77 mill. : numeri i quali per se soli bastano a dimostrare che lo sviluppo in quest'epoca è molto più attivo nel differenziare, che nell’accrescere delle parti. Il rapporto fra la lunghezza della futura testa e quella dell’intiero embrione nel primo periodo del secondo giorno è di 1:2,8, nel secondo di 1 :2,9. Posciachè questo rapporto per il quarto periodo del primo giorno venne trovato di 1 :2,5, si vede come dal principio in cui l’iniziamento delle vertebre cervicali permette di distinguere con limiti precisi la testa, questa s’accresce più lentamente in lunghezza che non il rimanente del corpo. L'area germinativa nel primo periodo del giorno secondo in media è lunga 5,16, nel secondo 5,40 mill. Durante il primo giorno, se confrontiamo i valori medii, abbiamo sempre trovato maggiore la distanza fra il bordo superiore dell’area germinativa e l'estremità cefalica dell'embrione, che non la distanza fra l'estremità codale di questo ed il bordo inferiore di quella. Permetten- domi d’ indicare brevemente. colla lettera « la prima e colla lettera f? la seconda di queste distanze, troviamo 4 6 per il primo periodo del primo giorno... 0,99 0,09 » secondo id. doo 040029 » terzo id. Lo, DI noi » quarto id. IRSFONSZIAE 0:28: Da questa rassegna dei valori medii ne risulta, che nel primo giorno « va sempre decrescendo , e che {} invece, benchè cresca con minore regolarità di quello che « decresce, arriva però a ragguagliare quasi quest'ultimo, così che l'embrione alla fine del primo giorno occupa presso a poco il mezzo della lunghezza dell’area germinativa. Esaminando i singoli casi, si trova che nei tre primi periodi del primo giorno x è sempre notevolmente più grande di ff, ma nel quarto ‘periodo dello stesso giorno sopra 9g casi troviamo due volte «= e due volte a°::0),r,F,.r— rr rm" È Lunghezza Larghezza Lunghezza Larghezza (1) massima i massimaa 0,97 1,60 1,82 1014 2.28 0,91 4 GSi } al piede 1,03 0,74 1.54 alla base 0, 74 alla base 0, 85 2 al piede 0,97 al piede 1,20 Valori medii 1,58 | 0,812) | 1,050)| (1) La lunghezza s'intende nel senso dell’asse longitudinale dei membri sviluppati. (2) Per calcolare la media ho sempre tenuto conto della massima larghezza alla base. DI JAC. MOLESCHOTT. 26 [Sai Avvegnachè le estremità superiori spuntino prima delle inferiori e presentino anche prima il differenziamento del piede (vedi tavola XII, n° 4), però già nel quarto giorno l’ accrescimento in volume progre- disce un poco più rapidamente per gli arti inferiori. Questa differenza si verifica eziandio nel quinto giorno. In tutto il quarto e nel principio del quinto giorno, il diametro longitudinale di tutte le estremità resta inferiore (in tutto il quario giorno di gran lunga inferiore) al massimo diametro trasversale. Durante il quinto giorno però questo rapporto cambia, prima per gli arti supe- riori che per gli inferiori (vedi tav. XII, n° 2), e nell’embrione più sviluppato che al quinto giorno appartiene (n° 5 della tav. XII) ho trovato la lunghezza maggiore del doppio della massima larghezza alla base delle estremità sì inferiori che superiori. Nel progrediente sviluppo delle estremità queste crescono in lunghezza a spese della larghezza. Mentre la media lunghezza delle estremità nel quinto giorno supera circa quattro volte quella del quarto, la media larghezza in questo ultimo giorno è superiore a quella del quinto. In linguaggio figurativo si potrebbe dire che le estremità crescono in lun- ghezza perchè vengono stirate. | F) Rassegna di alcuni valori mediù e di taluni minimi osservati neî primi giorni dell'incubazione del pulcino. Nella tavola XIV ho ravvicinato alcuni valori principali medii da me ottenuti per i tre primi giorni dell’incubazione, nell'intento di faci- litarne il confronto. Del rapporto fra la lunghezza della futura testa e quella dell’intero embrione ho già trattato (pag. 254, 257, 260, 261), ed altresì dell’invo- luzione che la corda dorsale subisce nei primi periodi della vita embrionale (pag. 252, 255, 258). Anche le dimensioni delle vertebre primordiali e la larghezza delle lamine in cuì si differenziano, vennero per l’addietro considerate (pag. 255, 258), e tornerò a parlarne. Qui dunque rilevo soltanto, che nei tre primi giorni l’embrione cresce molto più rapida- mente dell’area germinativa, come lo dimostra la semplice ispezione della tavola che segue. Serie II. Tom. XXIV. 3K 266 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO Tavora MHW. Rassegna di alcuni valori medi per le dimensioni del pulcino e di alcune sue parti | nei tre primi giorni dell'incubazione. e Giorno dell’incubazione Periodo del giorno relativo BREVE CARATTERISTICA DEL PERIODO Lunghezza dell’area pellucida Lunghezza totale dell'embrione della futura testa e quella dell'intero embrion Larghezza della corda dorsale nella parte media Larghezza delle lamine per le vertebre primordiali Lunghezza delle vertebre primordiali Rapporto fra la lunghezza Nota primiliva Solco primitivo Corda dorsale 1 —5 paia di vertebre primordiali. ... 1 9 3 4 n 5—8 paia di vertebre, 1 vescichetla cerebrale 9— 12 paia di vertebre, 3 vescichette cerebrali 15) Più di 12 paia di verlebre, cuore distin- tamente ricurvo, ma tutt’al più in forma di ferro di cavallo, encefalo:con 3 o 5 scompartimenli, o appianato. Cuore ad ansa stretta o spiriforme, en- cefalo diviso in 5 scompartimenti..{| 7,84 Per rispondere a questioni , che sovente mi si erano presentate all’animo , senza poter soddisfare la mia curiosità col mezzo nè dei buoni manuali, nè delle celebri monografie dedicate all’embriologia , ho messo insieme nella quindicesima tavola le minime dimensioni che ho osservate per l’area germinativa, per l'embrione ed alcune parti principali di esso. Pur troppo desidererei di poter abbracciare in questo elenco un numero maggiore di organi; ma in questo momento non mi è dato di empire la lacuna. Secondo RemaK dei due canali primitivi, coi quali si inizia il fegato, il destro arriva alla lunghezza di 0,28 mill., ed al diametro di 0,05 mill.; dalle parole di RemAK pare debbasi inferire, che questi non siano le più piccole dimensioni da lui osservate (1). Al fine del terzo giorno Remar trovò i tubercoli cavi, che rappresentano la prima formazione dei polmoni, della lunghezza di circa 0, 45 mill. (2). Non ho trovato altre misure per completare le mie proprie osservazioni. (4) REMAK, l. c., p. 51, 52: Der rechie primitive Lebergang ist immer linger und schmiler als der linke, bis e. !/s Linie lang und bis c. !),; Linie breit. c= circa? (2) REMAK, l. c., p. 56. DI JAC. MOLESCHOTT. 26 po | Tavonra XV. Minime dimensioni osservate per l'embrione della gallina, per l'area germinativa e per alcune parti importanti dell'embrione al loro primo iniziarsi. Lunghezza dell’embrione Lunghezza dell’area geminativa Larghezza del solco primitivo ........ poss RCIdIITOdRO0 dodo don deo 0,03 Lunghezza della testa futura ........... Lunghezza della prima vescichetta cerebrale Lunghezza del cuore Larghezza del cuore Diametro longitudinale delle vescichelte visive Diametro longitudinale delle vescichette uditive ...... DO DIO 0.000.605 0,08 È Diametro delle aorte primitive 0, 03 (2) |l Diametro dei condotti di W'OLFF 0,03 Lunghezza dell’allantoide.......-.-..- rx iii CRA DIO DO ION 0, i Lunghezza dell’estremità superiore Lunghezza dell’estremità inferiore III. CONSIDERAZIONI GENERALI. Nel registrare le misure da me raccolte sull’embrione del pulcino ed alcune delle sue parti più importanti, due fatti hanno principalmente colpito la mia attenzione, ambedue, a quanto mi pare, meritevoli di una formola generale. 1° L’accrescimento dell’embrione e delle sue parti non procede in modo uguale, a tal punto che non di rado un embrione meno grande di un altro possiede non pertanto delle parti più sviluppate e maggior- mente differenziate, o queste parti diverse nel loro sviluppo non sono progredite di conserva: 2° L’iniziamento delle parti o degli organi in più luoghi si fa in virtù di una migrazione delle molecole, prima, e quindi senza dell’inter- vento della circolazione, e ciò succede non di rado in tal guisa che, per formare nuovi organi, si consuma una parte di quei che erano di già spuntati. Per brevità vorrei indicare questo processo col nome di mi- grazione metablastica delle molecole. I due paragrafi seguenti, coll’aiuto delle osservazioni, spiegheranne meglio il mio concetto. i 268 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO A) Accrescimento disuguale dell'embrione e di alcune delle sue parti. Già i primi stadi dello sviluppo embrionale fanno rilevare delle differenze rimarchevoli di grandezza individuale dell’ intero embrione. Queste differenze non possono mettersi in miglior luce se non col con- fronto della massima lunghezza trovata per l'embrione intero, in un periodo qualunque dei tre primi giorni, colla minima del periodo pros- simo successivo. Egli è perciò che ho raccolto nella seguente tavola, accanto ai valori medii, i massimi ed i minimi da me trovati per l’intero embrione. ; Tavona XVI. Limiti e valori medii della lunghezza dell'embrione neî singoli periodi dei tre primi giorni dell'incubazione. i GIORNO PERIODO NUMERO LUNGHEZZA LUNGHEZZA LUNGHEZZA delle misure 7 See. - dell’ del prese per media minima massima incubazione giorno relativo | ciascun periodo } dell’embrione dell'embrione dell’ embrione 1,93 0,85 2,62 2, 26 1,79 2,74 3,33 2,51 3,48 3, 84 3,54 4,927 4,50 3,59 5,13 4,71 4,22 5,41 6,08 5,36 6,94 6,22 = 5,92 6,50 BO se RO o adi 9 LO ra All’eccezione del terzo periodo del primo giorno, tutti gli stadii in cui ho qui diviso la storia embriologica del pulcino, presentano per la lunghezza dell'embrione un massimo, il quale supera il minimo che compete al periodo successivo. Per mettere in maggior rilievo quella grandezza individuale che l'embrione può raggiungere in un'epoca in cui lo sviluppo differenziale degli organi è relativamente poco avanzato, trascrivo qui i numeri che ho calcolati per determinare il vantaggio che l’embrione più grande di un periodo aveva sovra il più piccolo dell’epoca successiva. I numeri seguenti esprimono questo vantaggio, per DI JAC. MOLESCHOTT. 269 ciaschedun periodo, in parti centesimali del più piccolo embrione dello stadio che viene appresso : Primo giorno, primo periodo ....... +47 » » secondo » BROLO RON a I 0) » » terzo » sirena att gin I » » quarto » dimosado GP UO Secondo » primo DINT. ii » » secondo.» ....... # I Terzo » primo DIMMI Da questa rassegna risulta, che il primo periodo del primo giorno fra tutti si distingue per la rapidità dell’acerescimento individuale in pro- porzione al progresso del differenziamento degli organi; essendochè la discrepanza fra il minimo ed il massimo valore della lunghezza dell’em- brione è maggiore in questo periodo che in qualunque altro. Fra il massimo embrione del secondo periodo del secondo giorno ed il minimo del primo periodo del terzo la differenza è piccola, ma ciò dipende dallo sviluppo progressivo delle curvature cefalica e cervicale. Ora, se lo sviluppo dell'embrione in lunghezza non progredisce di pari passo col differenziamento degli organi, dall’altra parte sì verifica che l’iniziamento di certi organi o sistemi embrionali può anticipare , quello di altri ritardare, in guisa che l'embrione già munito di parti, che competono ad un periodo più avanzato, non offra ancora traccia di una formazione che in regola si addice ad un'epoca anteriore. Così ho trovato talvolta l’appendice cefalica molto sviluppata, senza che si scorgesse traccia di solco o canale primitivo, mentre in altri casi si vede un bellissimo solco senza indicazione di vera appendice cefalica.-In alcuni embrioni del pulcino il tubo midollare è iniziato, senza che si distin- guano ancora delle vertebre primordiali; in altre due paia di vertebre sono già differenziate, senza che i bordi della lamina centrale di REMAK abbiano cominciato a sollevarsi. Avendo osservato tanta disuguaglianza nello sviluppo delle parti dell'embrione, sia che esse vengano paragonate fra di loro, sia colla lunghezza dell'organismo intero, ho voluto vedere se si troverebbe un accrescimento più regolare dell’ embrione, allorquando si mettessero insieme individui tutti quanti molto più vicini gli uni agli altri, mentre i singoli gruppi però si distinguessero per un carattere, il quale in modo 270 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PUICINO indùbitato denota un progresso di sviluppo. Ora tal carattere ci presta in modo assai soddisfacente il numero delle paia di vertebre primordiali. Purchè, a cominciare dalla diciottesima ora d’incubazione, si prepari un numero d’embrioni abbastanza grande dei due primi giorni, è cosa facile il radunare una serie d’embrioni, fra i quali siano rappresentati tutti i numeri per le paia di vertebre da 1 a 12. Le mie tavole V, VI e VII ne forniscono la prova. Per dedurre delle conclusioni stringenti dal confronto fra il numero delle vertebre e la lunghezza dell'embrione bisognerebbe avere delle osservazioni molto numerose, affinchè ogni stadio, caratterizzato per un dato numero di vertebre, fosse rappresentato da più individui. In questo senso dovrei desiderare di aver a mia disposizione delle serie più ricche. Ad ogni modo nel compilare una rassegna in forma di tavola, ho escluso quel numero di paia di vertebre primordiali, per il quale non aveva che un solo individuo, e perciò nella tavola seguente mancano gli em- brioni con 9g vertebre. Tavora XVII. Rapporto fra la lunghezza dell'embrione ed il numero delle paia di vertebre primordiali nei due primi giorni d’incubazione. NUMERO LUNGHEZZA > LUNGHEZZA LUNGUEZZA NUMERO delle paia di vertebre primordiali dell’embrione dell’embrione dell’embrione | pei singoli stadii media minima massima delle oservazioni 3,64 3,,53 3,76 3,176 2,96 4,33 3,75 3,54 3, 88 3,93 3,59 4,97 3,94 3, 66 4,11 4,22 3,99 4,45 4,71 4,70 4,84 4,87 3,59 5,13 4,70 4,22 5,41 4.66 4,50 4,80 4,98 4,54 5,20. E e e — e _———_———__— 919 PSN 5 6 7 8 a 4 dt Sì o 10 4 MM w (1) Uno di questi venne misurato dopo che era già chiusa la tavola V. (2) Due di questi vennero misurati dopo che era già chiusa la tavola V. DI JAC. MOLESCHOTT. . 274 -. Fino al numero di otto paia di vertebre primordiali la lunghezza media dell'embrione va crescendo in modo abbastanza regolare; ma gli embrioni con 10 ed rr paia di vertebre in media vennero. trovati più piccoli di quelli con 7. Senza voler insistere sulla differenza, la quale certamente non è grande, il fatto basta per mostrare che l'accrescimento della lunghezza dell'embrione non va in modo assoluto di conserva coll’incremento numerico delle paia di vertebre primordiali. L’accrescimento simultaneo , longitudinale per l'embrione intero, nu- merico per le vertebre primordiali, si verifica per il. quarto. periodo del primo ed il primo periodo del secondo giorno, cioè ‘in quell’epoca della vita in cui abbiamo trovato che le singole vertebre primordiali crescono nella direzione dell'asse longitudinale dell'embrione. Nel secondo periodo del secondo giorno invece, in cui la lunghezza dell'embrione non acquista di pari passo col numero delie vertebre, queste, in senso longitudinale come in senso trasversale, sono più piccole che nel primo periodo del giorno secondo (vedi la tavola XIV). La discrepanza fra l’ac- crestimento longitudinale dell'embrione e Y incremento numerico delle vertebre primordiali nel secondo periodo del giorno secondo quadra dunque perfettamente colla circostanza, che la lunghezza stessa delle ver- tebre in questa epoca non cresce in modo proporzionale col loro numero. Malgrado i limiti più ristretti che abbiamo nell'ultima tavola adottati per circonscrivere i singoli periodi dello sviluppo embrionale, si verifica ancora qui, come per i periodi più larghi, in cui ho diviso i tre primi giorni dell’ imcubazione , che il massimo individuo di ciascun periedo maggiore del più piccolo del periodo successivo. La. tavola XVII Fogli de resenta una sola eccezione di questa regola; il minor embrione, con sette paia di vertebre primordiali, era più grande del maggior embrione con sei paia di vertebre. La rassegna, nella quale: si fa il paragone fra la lunghezza deli’embrione ‘ed il numero delle vertebre primordiali, conferma dunque in modo stringente la disuguaglianza che. nei primi tempi dello sviluppo occorre fra l'accrescimento geometrico ed. il diffe- renziamento organico che subisce l'embrione. Se le nude ciffre lo provano in modo calzante, lo sviluppo qua- litativo degli organi. che accompagna uno stesso numero di vertebre primordiali può illustrare il medesimo fatto con ‘maggior eloquenza. Negli embrioni, già muniti di sei paia di vertebre. primordiali, il tubo midollare suol essere chiuso in grande estensione; resta aperto 272 STUDI EMBRIQLOGICI SUL PULCINO principalmente nella regione lombare; ma l’estensione in cui comba- ciano i bordi sollevati della lamina centrale del Remax può variare assai (1), e la prima vescichetta cerebrale essere distintamente diffe- renziata o meno. Il cuore, negli embrioni con 10 o 11 paia di vertebre primordiali, ordinariamente è già un poco incurvato, e questa curvatura cresce abbastanza rapidamente. Ma io posseggo un bellissimo embrione del fine del secondo giorno, con tredici paia di vertebre primordiali, in cui il cuore è pochissimo curvato in proporzione all’avanzato sviluppo delle altre parti. Sarebbe interessante il seguire con precisione lo sviluppo delle varie parti dell'embrione che può corrispondere ad un dato numero di vertebre primordiali. Senza voler addentrarmi adesso in questa materia, che spero trattare quando avrò un giorno a mia disposizione un materiale più ricco, non voglio però tacere, che non ho mai osservato traccia distinta del vero cuore (non parlo dell'arco dei tronchi venosi ), a meno che l'embrione presentasse già otto paia di vertebre primordiali , nè aorte primitive se non esistessero per lo meno nove paia, nè cordoni di WoLFr, che non fossero accompagnati da undici paia di vertebre primordiali. B) Migrazione metablastica delle molecole. Il solcamento totale o parziale del tuorlo è un primo fatto, direi il fatto cardinale, che ci dimostra l’esistenza della migrazione delle me- lecole senza l'intervento della circolazione : migrazione che finisce col formare l’iniziamento di interi sistemi, non che di organi dell'embrione; di interi sistemi, imperocchè la scissione del blastoderma in foglietti ne è il precursore; di organi, in quantochè il tubo midollare ed alcune paia di vertebre primordiali precedono perfino la prima traccia del cuore, il quale si distingue in un'epoca in cui ancora mancano i vasi. La formazione delle lamine dorsali, nel senso sopra da me indicato, (1) Per riconoscere con sicurezza la diversa estensione in cui sì è chiuso il tubo midollare, è d’uopo esaminar embrioni freschi, o per lo meno preparati col medesimo metodo. Imperocchè, siccome giustamente osservò il REMAK (l. l. p. 11), sul principio l’unione deì bordi della lamina centrale che combaciano è così debole, essi sono agglutinati insieme così leggiermente, che nel- l'embrione preparato si scollano colla massima facilità. DI JAC. MOLESCHOTT. 27 n) in cui sarebbero listerelle tumefatte del foglio intermedio, che devono la loro origine alla rarefazione di una striscia centrale di questo foglio , la quale striscia rappresenta il fondo di un canale, conosciuto sotto il nome di solco primitivo, sarebbe un altro esempio della migrazione metablastica delle molecole. Fatti di questo ordine non hanno potuto sfuggire ai tanti fisiologi, che hanno con somma diligenza scrutato il campo embriologico. Ma vi ha di più. Noi vediamo nelle prime epoche della vita embrionale il differen- ziamento farsi a spese dell’accrescimento, a tal punto che quest'ultimo riesca negativo, senza che il differenziamento progressivo si debba ad una semplice scissione o divisione. Le osservazioni che mi hanno condotto a questo concetto si rife- riscono alle vertebre primordiali. I valori medii, quali vennero raccolti nella tavola XIV, ci mostrano che la larghezza delle vertebre primordiali , a cominciare dal loro differenziamento fino al termine del secondo giorno, va sempre scemando; che invece la lunghezza delle vertebre primordiali è maggiore nel primo periodo del secondo giorno che non nel quarto del primo e nel secondo del secondo. La superficie delle vertebre pri- mordiali equivale in media : Per il quarto periodo del primo giorno a 0,0210 mill. quadrati » primo » secondo » 0, 0296» » » secondo » » » 0,0099 » » Già da questi numeri appare, che nelle prime 28 ore in cui esistono le vertebre primordiali, v è un’epoca nella quale la superficie delle vertebre primordiali va crescendo, cioè nel primo periodo del secondo giorno, mentre poi, col progressivo aumentarsi del loro numero nel secondo periodo dello stesso giorno, essa decresce, e ciò di molto. 5 Ho voluto esaminare questo andamento dell’accrescimento, prima positivo e poi per qualche tempo negativo, delle vertebre primordiali , dividendo Yepoca dalla ventesima fino alla quarantottesima ora dell’in- cubazione , in periodi più brevi di quei da me adottati per l'insieme delle misure in questa memoria raccolte. Per istabilire i limiti di questi periodi minori mi sono attenuto ancora al numero delle paia di vertebre primordiali, come lo indica la tavola seguente : Serie II. Tom. XXXIV. Ir 274 STUDI EMBRIOLOGICI SUL PULCINO Tavora XVEEE. Dimensioni delle vertebre primordiali nell'epoca limitata fra le ore 20 e 48 dell'incubazione. NUMERO LUNGHEZZA LARGHEZZA , SUPEREICIE delle paia delle vertebre primordiali delle vertebre primordiali delle vertebre di primordiali arri ni n" ii i delle a calcolata vertebre ; ; ; [I È po a RA à A REA 3 sui valori medii primordiali media minima massima media minima massima | in mill. quadrati | Da questa tavola bisogna inferire, che la superficie delle vertebre primordiali, coll’aumentare del loro numero, può accrescersi in certe epoche della vita, mentre in altre decresce. Ma certamente in tutto il periodo qui esaminato predomina la tendenza al decremento. Ora noi sappiamo , che il numero delle vertebre primordiali non s’accresce per divisione, anzi le nuove spuntano una per una all'indietro delle prime formate. Quindi le molecole delle già esistenti devono in parte migrare per prestare il materiale da figurare le novelle , ed è questa migrazione che, per distinguerla da quella che dipende dalla circolazione del sangue, in queste parti non ancora attivata, vorrei chiamare mezablastica. Un altro esempio , in cui la involuzione non è che apparente (imperocchè la parte delle molecole, che perde una formazione embrio- nale, serve all'evoluzione di un'altra), ci fornisce la corda dorsale, la quale va diminuendo di larghezza nelle prime 16 o 20 ore della sua esistenza e forse ancora più tardi. Per facilitare la rassegna di questa apparente involuzione, ho compilato la tavola XIX. DI JAC. MOLESCHOTT. 279 Tavora XIX. Larghezza della corda dorsale nella sua parte media. NUMERO LARGHEZZA | LARGHEZZA | LARGHEZZA delle paia di verlebre Ì iali i ini massima primordiali media minima iS 0, 08 0, 06 0,10 0,06 0, 06 0,07 0,055 0,05 0,06 A questi esempi mi resta di aggiungere quello delle estremità. Ho riferito sopra come nel principio esse siano più larghe che lunghe, ma che poi crescendo in lunghezza si sviluppino per breve tempo in questa direzione a spese della larghezza (vedi le tavole XII e XINM). Ora in quest'epoca la circolazione sanguigna non ha ancora invaso le estremità, anzi non sono ancora iniziate in esse le strade del sangue; si tratta dunque ancora qui della migrazione metablastica, non circolatoria delle molecole. Insisto su questi pochi esempi soli, per non uscire dai limiti delle mie proprie osservazioni. Se non m' illudo, essi bastano per istabilire il principio. In un’epoca, in cui la circolazione non è attivata ancora, sia che manchi in tutto l’embrione , o soltanto in alcune sue parti da noi prese in considerazione, avviene un parziale consumo di organi già formati per dare origine ad altri. Si verifica in piccolo il mito biblico della creazione della donna dalla costa dell’uomo. Stabilita la circolazione del sangue, questo fatto si ripete in nume- rosi esempi, che sono presenti alla mente di tutti, e quindi non ne parlerò. Mi sia lecito però di aggiungerne uno da me trovato colla guida delle misure, ed è che i grandi tronchi venosi, coi quali s’inizia il sistema circolatorio sul limite del primo e del secondo giorno, decrescono in diametro durante quest’ultimo, mentre il cuore, che con essi fin dal primo momento della sua formazione si continua, getta le sue fonda- menta in rapido sviluppo; con altre parole: la parete del cuore proviene, in parte almeno, dalla parete delle grandi vene. ® urp f 1A Pd R: pd [PR g UP li p \ % è n , ì y satana ntiirontasip iron sabnce pi sn Ara ir Bca Be: o es " Mi HA OMO NE ue” gt dit u e Fi lac be, i (he 7 n 0 Ti pa si DET sE ra | Le A L - La ci Ì c- Lidi Pa mg “ or | “# pad ti di dt ii: HE li, ii 14 all lg ato l'aborto pae 5 nl ao6d È PERA Quarti a Piani [90 dv € OP g FLEET Lie n ages. 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UNIVERSITA DI GENOVA CON UNA MEMORIA SOPRA LE CONCHIGLIE DELLE BRECCIE E CAVERNE OSSIFERE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE pEL Dott. A. ISSEL —__ee—_ Letta ed approvata nell'adunanza del 4 marzo 1865. I Liguria è abbondantissima di caverne, specialmente nella sua parte occidentale. Esse però erano finora restate quasi affatto inesplorate, quantunque debbano in questa regione rappresentare tutti i depositi di così diversa natura, che s’ incontrarono nelle altre parti d’Italia e d'Europa, e dai quali si trassero e si vanno continuamente traendo 1 documenti per scrivere la storia della prima civiltà. Infatti se vi è spe- ranza di trovare in Liguria gli avanzi delle antiche epoche, in niun altro luogo ciò può essere che nelle caverne, mancando nel nostro paese i laghi addatti alle costruzioni lacustri, le torbiere, le terremare, gli estesi letti di fiumi, e tanto più quei depositi in riva al mare, che in Danimarca ebbero nome di Kiodekkenmoeddings. Pure dalle poche esplorazioni che vennero eseguite si trovarono due sorta principali di depositi: quelli cioè di un'epoca antica, in cui non 278 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA si rinvennero armi od indizii dell’ esistenza dell’uomo, ovvero quelli molto più recenti formati d’ossa d’animali domestici, accoppiati con armi riferibili all’età della pietra levigata, corrispondente all’epoca la- custre di Lombardia. Chi volesse trovare una relazione tra questi depositi finora conosciuti in Liguria e quelli della Francia, mi pare, che partendo dalla divisione fatta da GarRrIGOU (1), specialmente per le caverne dei Pirenei, in tre epoche : 1° quella dei grandi carnivori perduti, 2° quella delle renne, 3° quella degli animali domestici, sarebbero presso noi rappresentate finora la prima e la terza, e mancherebbe la seconda, finora propria della Francia, quella delle renne. Dallo studio che potei fare dei vari depositi conosciuti in Liguria, e da quello fatto sulle conchiglie dal mio amico Dott. A. Isser, mi pare che poirebbero in ordine d’antichità ascriversi alla prima epoca, priva ancora di segni certi dell’esistenza dell’uomo : 1° La breccia ossifera di Nizza e le altre delle coste del Mediter- raneo, tra cui una, di cui farò menzione, presso Finale, le quali con- tengono avanzi di elefanti e d’altre specie che più non si trovano in alcuna delle caverne di Liguria. 2° La grotta di Cassana presso la Spezia, esplorata dapprima dal Prof. Savi nel 1831, in seguito dal Prof. CapeLLINI nel 1859, e la quale contiene numerosi avanzi di due specie d’orsi (lo Spe/zews, ed un altro non ben descritto ancora, e forse neanche ben distinto) e qualche raro di cervo. 3° Credo che la grotta di Bossea, sul versante nord dell'Appennino, che conteneva ossa d’orsi, raccolte ed illustrate testè dal Prof. GasrALDI, debba pure riferirsi a quest'epoca. All’epoca seconda appartengono : 1° La caverna di Mentone, esplorata dal sig. Prof. Perez, che diede bellissime armi in pietra levigata, accoppiate ad avanzi di Ovis e di Cervus. 2° La caverna di Finale, che il mio amico Dott. A. Isser illustrava al Congresso dei Naturalisti a Biella nel settembre 1864, la quale, oltre ad avanzi di mammiferi domestici, diede ossa umane, ed istrumenti in osso e terra cotta ; e probabilmente infine (i) Etude comparative des alluvions quaternaires anciennes, et des cavernes, ossemens etc. Paris et Toulouse, 1865 DI GIOVANNI RAMORINO. 279 3° Un'altra caverna esplorata dal Cav. E. CrLesia, Bibliotecario alla R. Università di Genova, che ne ricavava ossa ed armi in pietra levicata, ma della quale non posso asseverare con certezza, non avendo D b) q P ? potuto avere in tempo quegli oggetti che il dotto esploratore aveva con somma gentilezza messi a mia disposizione. Desideroso di poter aumentare le cognizioni sopra la comparsa P 5 Ì delluomo nel nostro paese, e la fauna delle epoche antiche, io pensai p ’ ? I di rivolcere le mie esplorazioni più specialmente nella Liguria occidentale S p È S D al quale scopo la R. Accademia mi otteneva un sussidio dal Ministero di Pubblica Istruzione. È di questa esplorazione ch'io intendo intrattenere la R. Accademia, gno gli oggetti ricavati , fortunato di poterle ancora una volta 5 esprimere la gratitudine per la benevolenza che mi usava, aderendo cui conse di così buon grado alla proposta del sussidio che veniva fatta dal Comm. De FitIppi. In questa gita, che in parte effettuai col più volte menzionato Dott. Isser, fu mia cura esplorare le numerose caverne, che si trovano nel tratto della Liguria occidentale, che s’estende dalla città di Noli a quella di Albenga, tratto di paese ove le montagne presentano una quantità innumerevole di spaccature e caverne ora grandi molto , ora piccolissime, dovute forse alla violenta azione delle eruzioni serpentinose avvenute in prossimità. Trovai però, che non è caso generale, che ogni caverna contenga fossili, anzi verificai il caso contrario. Nè ciò deve farci stupire, giacchè molte di esse vengono solo attualmente aperte per effetto di frane, e molte quindi vi saranno venute in epoche e condizioni tali da non potere più essere riempiute: altre poi devono essere state vuotate per effetto di erosioni (delle quali in qualche luogo trovammo sicuri indizi), sia di correnti, sia dal mare, al cui livello molte di esse si trovano. Quelle che offrirono argomento di studio furono : 1° Quella di Verzi. È questa collocata in una valle al nord della città di Loano: valle abbondantissima di sorgenti d’acqua, che alimenta varii opificii. Questa grotta, di proprietà privata, è una spaziosa cavità, divisa in tre principali grandi camere, scavate in un calcare argilloso , ed adorne da potenti stalattiti ed incrostazioni. Il suolo è formato da una purissima argilla deposta, con uno spessore di più di due metri, e la quale potrebbe con vantaggio essere adoperata come terra figulina. 280 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA Essa deve certo provenire dalla scomposizione del calcare, che forma la montagna, in cui la grotta è scavata, e deve giungere al suolo tra- versando tutte le numerose fessure che si trovano nel volto e nelle pareti. Quantunque questa caverna non abbia offerto alcun avanzo di mam- miferi, l’'accenno perchè in una breccia conchiglifera , che trovasi all’entrata, vi furono trovate molte specie di conchiglie terrestri, delle quali s'occuperà il Dott. Isser nell’appendice a questa mia relazione. In prossimità di questa caverna un'altra ne esaminai, nella quale sta formandosi un deposito ossifero analogo a quelli delle passate epoche. È questa una cavità, per quanto potei vedere, assai grande, la quale avendo una bocca aperta in alto sul pendio del monte, riceve per questa, assieme a quella specie di /oeAm, che ricopre pressochè tutte le mon- tagne liguri, una grande quantità d’ossa perfettamente isolate , di diverse specie d’animali, tra cui predominano la volpe e la lepre, ossia i più comuni animali selvatici di quella regione. Questo fatto, in apparenza così semplice, mi pare possa gettare alquanta luce sulla formazione di certi depositi di caverne, nelle quali lo stato delle ossa, la promiscuità delle specie, la mancanza di ciottoli, rendono difficile la spiegazione della loro origine. 2° Le grotte di S. Lucia. Celebri in Liguria per la loro estensione e grandezza. Trovansi presso Toirano in una vallata che sbocca a Borghetto non lungi da Loano; un’erta e ripida salita, pochi passi dopo trascorso il paese, conduce alla loro apertura rivolta verso po- nente. Sono due: l’una al disopra dell'altra ed a pochissima distanza, ma non si conosce comunicazione alcuna tra loro. Ambedue sono lunghe gallerie, alte molto e piuttosto ristrette. L’assoluta mancanza di stalattiti, e le pareti affatto liscie e levigate, mi fanno credere abbiano altre volte servito di emissarii a potenti correnti d’acqua. La superiore venne destinata a santuario dedicato a $. Lucia, onde il loro nome, e nell'adattamento a tale uopo è molto probabile che siano andati perduti tesori paleontologici, che doveano essere conservati nel terreno rossiccio di cui vidi ancora qualche raro lembo privo di fossili. L'inferiore è meno lunga, ma più spaziosa. Alcuni scavi, che il Dott. IsseL ed io vi femmo praticare, ci diedero un dente d’orso assai consumato , pochi avanzi di ruminanti non determinabili e somiglianti per lo stato di conservazione a quelli trovati nella grotta di Finale. DI GIOVANNI RAMORINO. 281 Ma la mancanza di uomini pratici nello scavare, la potenza delle croste stalammitiche, e varie altre circostanze non ci permisero di continuare le ricerche , che avrebbero potuto essere coronate di più felice successo. 3° La grotta di Spotorno, trovata nel praticare una galleria tra questo paese e Bergegi. Sovrasta a quell’altra conosciuta in Liguria col nome di Bergegi, e che trovasi a livello del mare. Non diede avanzi di ver- tebrati, ma solo conchiglie racchiuse in un cemento calcareo-argilloso durissimo e biancastro. Anche di queste discorrerà il Dott. Isset. 4° La grotta delle Dune. Così chiamo una piccola grotta che trovasi ai piedi del monte della Caprazoppa presso Finale, quasi a livello del mare, e in prossimità di quei cumuli d’arena silicea, che valsero il nome di Dipartimento delle arene bianche a quella provincia nell’epoca della dominazione napoleonica. Un campo di annosi olivi divide l'apertura di quella grotta dalle dune: tuttavia avendo fatto scavare a più che tre metri di profondità, altro non trovai che arena silicea; ma adocchiato in un angolo, in cui il vòlto sembrava discendere verso terra, quasi formando una camera a parte, feci scavare in quel posto, e quivi trovai nella solita terra rossc-bruna ossa frantumate, ma immensamente guaste e corrose dall’ umidità, unite a grandi quantità di carbone: a un metro circa dal suolo la terra era nera affatto e tutta stemperata dall'acqua, dimodochè rinunziai ben presto alle concepite speranze. Però l’esame dei pochi frammenti ricavati mi fece credere che quella grotta sia stata una dimora d’uomini all’epoca della pietra levigata o degli animali domestici; della stessa epoca quindi di quella di Mentone, e dell’altra collocata un cento metri al disopra nella stessa montagna, che ricevette da Isset il nome di Grozta di Finale, e forse di quella cui sopra accennai di S. Antonino , posia pure a poca distanza da questo monte, e che venne esplorata dal Cav. CeLEsIA. Una tanta frequenza di caverne ossifere ci è già indizio di quanto grande importanza sarebbe il continuare le ricerche in quelle località per lo studio dell’epoca antestorica, e della fauna delle epoche passate. Ma questa importanza è viemmaggiormente dimostrata da quello che trovai nella caverna di Verezzi, la quale essendo di tutte la più ricca e la più antica, credo doverne fare argomento di uno studio più accurato, narrando la storia di sua scoperta, descrivendo la sua forma, e analiz- zando i pezzi paleontologici che ne ricavai, e che ora ho l’onore di presentare alla R. Accademia. | Serie II. Tom. XXIV. ?M 282 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA 5° Breccia e caverna di Verezzi. Nell'agosto del 1864 il Rev. Luigi SsurtonI, prete della Missione a Finalmarina, inviava al Museo di Storia Naturale della R. Università di Genova molti frammenti di una breccia ossifera incontrata nel taglio di una trincea per la ferrovia alle falde del monte della Caprazoppa presso Finale, precisamente sui confini tra il comune di Borgio e quel di Verezzi. Esaminate le ossa di quella breccia, vi potei riconoscere gli avanzi mal conservati d’una grande specie d’orso, d'un cervo, d’un grande bue, di un grande pachiderma e molte conchiglie, le quali, studiate dal Dott. IsseL, lo indussero nel- l'opinione che quella breccia appartenesse alla stessa epoca di quella di Nizza, specialmente per la presenza dell’. vermicularia BoneLLI, come già aveva opinato il March. Pareto (1), che aveva osservato questa breccia non so se nell’istesso punto, od in altro del monte suddetto. Chiesi immediatamente informazioni sopra questa breccia, ma mi venne risposto che era stata totalmente distrutta nei lavori della ferrovia, onde rinunziai all'idea di recarmi a visitarla, e mi contentai di studiare i frammenti che mi erano stati spediti. Essa era formata da molte ossa rotte in modo da essere quasi tutte indeterminabili, cementate da un succo calcareo fortemente colorato in rosso da ossido di ferro, spugnoso, colle piccole cavità, tappezzate spesso di cristalli di carbonato calcare, e racchiudenti, oltre alle ossa, pezzetti del calcare siliceo che forma la montagna della Caprazoppa, dei pecten ed echinodermi già fossilizzati prima, provenienti dal travertino pliocenico che riposa sulla sommità di quel monte, e che venne tanto utilizzato nelle fabbriche di Genova specialmente nel secolo XVI. Dopo vari mesi lo stesso Sac. Ssurtoni mi annunziava che, prose- guendo il taglio della trincea, s'era messo allo scoperto l'apertura d’una caverna con belle ed enormi stalattiti. Allora partii immediatamente, e chiesto all’Ingegnere Direttore dei lavori sig. Gustavo PrApA il permesso di far praticare qualche scavo sul tracciato della ferrovia, riuscii dopo poco tempo a scoprire la presenza di ossa in un potente strato di terra rossa che giaceva al disotto di una crosta stalammitica fortissima che formava il suolo della caverna. Impedito per allora di proseguire le ricerche, raccomandai all’Ingegnere G. Prava di sorvegliare a che quel deposito non fosse sciupato; al che egli con somma gentilezza aderì non (1) Descrizione di Genova e del Genovesato, vol. I, pag. 41. DI GIOVANNI RAMORINO. 283 solo, ma mi propose di farmi il piano e le sezioni di quel tratto di strada ove si trovava la caverna, disegni che do ora uniti a questa relazione, e che più delle parole potranno giovare a conoscere la sua posizione. Sono quindi lieto di potere qui esternare la mia gratitudine tanto a lui che agli Ingegneri suoi dipendenti, i quali nulla omisero per ren- dermi più facili le ricerche, ed al Sac. SsritrONI, che molto si adoperò acciocchè quei materiali di studio non andassero perduti. Questa caverna ch’era prima perfettamente chiusa, come apparisce dalle fig. 2 e 3, tav. I, ha l'apertura all’altezza di 6,61 dal livello del mare, e trovasi separata dalla spiaggia per mezzo della sola strada provin- ciale per Nizza. Dall’apertura che, come si vede, venne praticata nel suo più alto punto, ed è rivolta a mezzogiorno, si discende per una specie di vestibolo in una fenditura stretta assai, ora sufficientemente larga, che decorre precisamente nel senso di levante a ponente, posta all'incirca al livello del mare. Il suolo però a levante discende sotto questo livello finchè s’arriva ad un'apertura scoscesa molto, che conduce in una se- conda camera, o se vogliamo dire, in un secondo piano che si distende sotto alla prima. Non potei innoltrarmi in esso, perchè era quasi total- mente pieno d’acqua. Ritornando alla prima galleria, e andando all’altra estremità verso ponente, si trova tra enormi panneggiamenti calcari un foro angusto e basso in modo da non dar passaggio che ad una persona che vi strisci col ventre. Quest'apertura, lunga vari metri, dà accesso ad una serie di piccole sale assai alte, e in cui ho potuto vedere sta- lattiti sottilissime pendere dal vòlto fino al suolo, sempre conservando lo stesso calibro, quasi fossero tanti cordoni bianchi tesi artificialmente. Nella prima sala o galleria erano invece le stalattiti di grossezza enorme, e il suolo era formato in qualche luogo da croste stalammitiche di quasi mezzo metro di spessore; non era piano, ma tutto scosceso e dirupato, in modo da formare quasi nell’asse di quella sala un ristretto canale entro cui si raccoglieva l’acqua che abboridantemente cadeva dalle pareti e che finiva poi nel serbatoio o lago cui sopra accennai. Quantunque abbia dentro a questa sala esplorato in varii luoghi, in nessuno potei trovare ossa od avanzi; ma questi erano al contrario abbondanti nella specie di vestibolo che ad essa conduceva dal di fuori. Perciò, allorquando ritornai a visitare quella caverna coll’intenzione di farvi scavi regolari e ben condotti, pensai di cominciarli dall’apertura, 284 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA e poco tempo trascorse che io potei ottenere già una bella raccolta paleontologica. Gli strati ove erano contenute le ossa erano sottoposti ad una crosta stalammitica, ove di tre, ove di quattro, ed ove persino di cinque decimetri, e divisi da tante altre successive stalammiti. La terra non presentava differenza alcuna da quella che ricuopre la montagna, e che in molte di quelle spaccature, cui accennai fin da principio, si va anche attualmente accumulando, portando con sè numerose conchiglie di Helix nemoralis et adspersa, e che è così destinata, quando venga cementata col carbonato calcare, a formare breccie conchiglifere attuali. Fra i varii strati così separati da quelle croste stalammitiche più abbondavano di avanzi dei grossi carnivori gli inferiori, mentre i mediani erano ricchi d'ossa di bue, di cervo, di piccoli carnivori, ed i superiori non contenevano più che ossa di lepri ed arvicole della stessa specie di quelli che s'incontravano pur anco negli strati inferiori. Questa circostanza mi fa credere, che quella grotta prima di chiu- dersi perfettamente abbia servito per un certo tempo come tana di conigli ed altri roditori. Le ossa erano tutte rotte e frantumate in modo che della minima parte potei in seguito cavar partito per lo studio. Trovai pochissimi ciottoli e questi molto piccoli, e nessun osso che dia indizio d'essere stato rotolato ; finalmente non vi trovai alcuno di quei fossili del travertino che sovrasta a questa grotta all'altezza di più che 100 metri. Il taglio del monte mise anche in vista un'apertura che dalle falde della montagna giungeva fino alla bocca fatta dal taglio stesso della caverna. Quest'apertura, larga quasi un metro, ed ora ripiena di sassi angolari cementati fortemente da un succo calcare, credo dovesse un giorno servire d'accesso alla grotta. Le specie che vi rinvenni furono le seguenti: UOMO. Quantunque nella caverna di Verezzi non abbia rinvenuto alcun osso d'uomo, pure la sua contemporaneità è ben dimostrata dalle ossa spac- cate, da quelle che hanno sofferto l’azione del fuoco, e dal carbone contenuto nelle croste stalammitiche e nella terra fossilifera , oltre a qualche valva di Mytilus raccolta fra le ossa. DI GIOVANNI RAMORINO. 285 Non trovai armi, ma solo qualche scheggia di quarzo indentica a quelle che furono rinvenute nella grotta di Mentone, e che doveano essere i pezzi staccati dai ciottoli onde si faceano le armi. Raceolsi però un osso lungo di coniglio, di cui do il disegno, dovuto alla gentile opera del mio amico Raffaello GestRo, in cui si vedono certe incisioni fatte a tratti ben definiti, equidistanti, uguali in altezza, cui sottosta una piccola stella a quattro raggi ben convergenti, più larghi alla parte esterna che al centro, indizii tutti che quelle incisioni siano opera 2 d'uomo. Non arrischio però una decisione, troppo facile essendo l'errare su questo punto. Invito però la Reale Accademia a voler esaminare questo curioso pezzo e giudicare in qual conto debba essere tenuto. Ove si verificasse che questi sono veri segni, li crederei i primi carat- teri conosciuti. Riguardo alla questione se l’uomo abbia abitato quella caverna , propenderei quasi a credere che quel deposito debbasi piuttosto riferire all'accumulamento di ossa sparse sul piano che sovrasta ad essa per mezzo delle acque, allo stesso modo in cui osservai, che si va facendo in quella piccola caverna di cui accennai, parlando di quella di Verzi. Siccome appunto al disopra dell'antica apertura, ora ricolma, il pendio del monte è assai dolce , e presenta piani piuttosto estesi, è probabile che le ossa, residui di pasti d’ una colonia, la quale avesse abitato in quei piani, venissero a precipitare per quell’apertura, od anche vi fossero portati da iene; alcun osso diffatti presenta il segno dei denti di quest'animale, ma (mi affretto a dichiarar subito ) questo solo negli strati ultimi. Onde era forse in principio quella caverna una dimora di iene ed altri carnivori ; in seguito era un deposito di ossami di cervi, residui dei pasti dell’uomo; ed infine era servita di solo riparo a piccoli rosicanti. CHIROTTERI. Le ossa che rinvenni di animali appartenenti a quest'ordine erano negli stessi strati delle ossa di cervo, bue ecc., e non debbono quindi confondersi con quelli che per lo più si trovano posati sul suolo di tutte le caverne, o rinchiuse nel guano che spesso abbonda in esse ; sono specie che vissero al tempo degli altri animali, di cui sto parlando. Molte ossa ne raccolsi, ma tutte rotte in modo da non permettere 286 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA la determinazione. Solo una mascella trovai ben conservata, che non mostra alcuna differenza con quelle del RAyrolophus ferrum equinum, sia per la grandezza, come per la disposizione dei denti. CARNIVORI. a) INSETTIVORI. TALPA. Qualche raro osso, tra cui due omeri perfettamente conservati , ci rivelano la presenza di quest’animale in nulla diverso dall’attuale 7°. caeca. ERENACEUS. Ne ebbi due frammenti di mascelle, l’una delle quali ha un dente molare, l’altra non contiene che la parte posteriore, priva di molari , e l’apofisi coronoide. Da questi due pezzi non si può scorgere alcuna differenza dall’E. europaeus. b) FIERE. Fiere plantigradi. URSUS. La presenza dell'orso nella caverna di Verezzi ci viene dimostrata per varii frammenti non molto comuni e specialmente da denti. A. quale delle varie specie debbonsi attribuire questi avanzi ? Le moderne teorie rendono difficilissima la risposta, tanto più dopo il profondo esame che dei caratteri specifici del genere Ursus venne fatto da J. DeLsos nella sua memoria sopra i caratteri fossili della caverna di Sentheim (©) Egli con una saggia e ben condotta critica , esaminando tutte le specie finora descritte di orsi fossili, viene alla conseguenza, che alcuna delle specie fatta da ScamerLine ha tali carat- teri da giustificare uno smembramento dai tipi ammessi da CuvieR, e (1) Ann. des scienc. natur. Série 4°, tom. IX e seg. DI GIOVANNI RAMORINO. 287 riguardo a questi, due soli aver diritto al grado di specie distinta, lUrsus piscus Gorn, e lo spelaeus Biun, dovendo l’Arctoideus essere considerato piuttosto come una varietà di quest'ultima, che con una forma a parte, come aveva già opinato CuvieR stesso. Ma pur anche non conservando che due: tipi priscus e spelaeus, sarebbe difficile nel caso nostro il determinare con sicurezza a quali dei due debbansi ascrivere gli avanzi da me trovati nella caverna di Verezzi. Altri caratteri non abbiamo che le dimensioni di troppo poca importanza per dar loro grande valore; però altri non avendone e poichè il confronto non mi dimostra differenze notabili tra i denti da me rac- colti e quelli descritti da molti autori, così propendo a credere abbiano appartenuto ad individui di U. spelaeus. Ecco i pezzi trovati : Due incisivi superiori e Due incisivi inferiori. Questi quattro denti hanno la corona consumata quasi totalmente , in modo che riesce difficile assai determinare il posto che occupavano nella serie dentaria. Credo abbiano appartenuto ad un individuo diverso da quello cui attribuisco gli altri denti da me trovati. Incisivo superiore esterno sinistro molto ben conservato, a corona niente affatto logora. Lung. totale 44 mill. È notabilissima in questo dente la cresta che trovasi alla base della corona e che si eleva ad angolo per unirsi collo spigolo acuto del margine interno del dente. Terzo incisivo inferiore , di cui più non esiste che la corona, po- chissimo corsumata. Terzo incisivo inferiore, quasi intero e parimente pochissimo con- sumato, anzi quasi intatto. Antipenultimo molare inferiore a corona, pochissimo consumata. Misura 31 mill. nel suo diametro anteposteriore e 14 mill. nel suo mag- giore diametro trasversale, ed è per questo e. per sua forma molto simile a quello figurato di ScamertIne, tav. VIN, fig. 21, ch'egli attri- buisce alla 5° specie (U. Zeodiensis). Se dalle dimensioni di questo dente fosse permesso giudicare della statura dell'animale che lo portava, si potrebbe dire che non fosse molto differente da quello scoperto nella grotta di Laglio in Lombardia, descritto e figurato dal Prof. CorsaLia (1). (4) Monographie des mammifères fossiles de Lombardie. Milan, 1865. 288 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA. Frammento di vertebra (cervicale ?). Non ha che le apofisi articolari inferiore e posteriore, e parte dell’apofisi spinosa. Osso del metacarpo. Ha le estremità rotte, nè può giudicarsi con precisione quale posto tenesse nelle varie ossa metacarpee. MELES TAMXUS. Di ossa riferibili a questa specie altro non posseggo che un omero destro, molto ben conservato, che apparteneva ad un individuo della grossezza di un comune tasso. Differirebbe però dall’ attuale per la fossa olecranica assai meno profonda. Non vi scorgo differenza notabile dall’esemplare figurato dal Prof. CornaLiA (1). Avea anche osservato , facendo gli scavi nella caverna, porzione del cranio di questa specie ben caratterizzato dalla sua grandezza e dalla forma allungata; ma essendo fortemente cementato in una crosta stalammitica, non potei ritirarlo, e andò in minuti pezzi. Fiere digiltigradi. MUSTELA. Trovai una piccola mascella, che deve aver appartenuto ad una Mustela, della grossezza della M. boccamela. Dalla metà del condilo articolare al bordo alveolare del canino misura 22". Dalla apofisi uncinata alla sommità della coronoide 11". Il terzo molare, munito di tre tubercoli, è lungo 6"®, alto 3°. Il secondo è in forma acuminata, coll’ indizio di due tubercoli alla sua parte anteriore. È lungo 3%", alto altrettanto. Mancano gli altri denti. Sopra così pochi dati è difficile il determinare la specie. La forma del terzo molare mi pare però alquanto differente da quella che si vede nella M. vulgaris, e nella boccamela, in cui i due tubercoli ante- riori sono più profondamente disgiunti che in questa. (1) Mamm. foss. de Lombardie ; tay. 53, DI GIOVANNI RAMORINO. 289 PUTORIUS. Un osso mascellare superiore sinistro col penultimo molare e gli alveoli del canino, e del 1° e 2° molare mi pare abbiano appartenuto al Putorius per la brevità del muso, quasi ripiegato, in modo che gli alveoli dei denti seguono una linea curva; per la grandezza e la posi- zione del canino; per avere un solo alveolo pel primo falso molare , e due pel secondo, e finalmente per la forma del vero molare, diviso in due lobi, di cui l'anteriore assai acuto, molto più lungo del poste- riore, e da questo separato per mezzo d’una larga e profonda incisura. CANIS. Ne raccolsi varii frammenti; il più bello è un osso mascellare supe- riore sinistro, coi due penultimi denti, dei quali il vero molare ha 25®® di diametro antero-posteriore, e 15” di massima altezza della corona ; il susseguente 20"” di diametro trasversale, 15" di diametro antero-posteriore alla base della corona, e 10"” alla massima altezza di questa nel tubercolo anteriore. Dalla crosta stalammitica ricavai una mascella inferiore destra col- l’ultimo molare e il primo tubercoloso. Essa somiglia molto a quella descritta da ScamerLInc e figurata nel tom. II, tav. 4, fig. 1. Ha, come questa, la cavità per l'inserzione del massetere assai stretta, cioè 34"" misurata dal condilo articolare alla cresta dell’apofisi coronoide : uguale altezza, cioè 28" misurata sotto il penultimo molare; la lunghezza misurata dal condilo articolare al foro mascellare è di 14"® circa. Un dente molare inferiore sinistro è uguale per dimensioni a quello ancora contenuto nella mascella, ha cioè un diametro antero- POSEERIONEN dle CIA AI IIS RZ Massima altezza della corona di ......... PIT tC ROR7 cera Diametro trasversale al disotto dell’apice del tubercolo LIO A a iL) Part=hezza de ARTARICERAME ROLE ER no Altre ossa in cattivo stato sono pure riferibili a quest’animale. Quantunque sia difficilissimo il distinguere il lupo dal cane dietro così pochi caratteri osteologici, pure propenderei a crederlo piuttosto lupo per le sue grandi dimensioni. Seme IIL Tom. XXIV. N 200 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA VULPES. ScumerLine nella determinazione degli avanzi di volpe delle caverne del Belgio potè constatare certe differenze tra le specie fossili tra loro e tra quelle viventi, per cui pensò dover istabilire due specie tra le fossili, l’una che chiamò /w/pes major, l’altra Yulpes minor. La prima si distin- guerebbe dall’attuale per maggiori dimensioni, la seconda per minori e per un forte distacco fra i due falsi molari. Dai numerosi avanzi di questo animale, che tolsi dalla caverna di Verezzi, non mi risulta che il primo smembramento possa sussistere , almeno per la Liguria. In realtà ScHmerLING stesso non ammette che le sole dimensioni possano essere sufficiente carattere per istabilire una specie, per cui la sua /°. major altro non sarebbe che la volpe attuale, alquanto più grande. Ora quelle mascelle che io tolsi sarebbero il vero passaggio tra le due specie, mentre nella forma in nulla differirebbero dall’attuale. Ciò sarà dimostrato dal seguente confronto tra le dimensioni date da ScamerLInc per la Z7. major e l’attuale, e quelle osservate da me. V.major. WV.diVerezzi. V. comune. Lunghezza dal margine incisivo alla metà del condilo. 0, 114 o, 109 0,076 (1) ) ) al margine posteriore dell'ultimo tubercoloso. . . ...... CRORSECE 0,08 0,078 ‘0,076 Altezza della mascella dietro l’ultimo molare. ..... 0,018 0,016 0,015 Lunghezza del condilo articolare... ........... 0, 018 0, 017 . Lascio le altre dimensioni, non potendo confrontare ne’ miei esem- plari, perchè in parte danneggiati. Riguardo alla Z°. minor, non avendo incontrato alcun pezzo che le sì possa supporre corrispondente, non potrei dire se debba o no con- siderarsi come buona specie. Certo il carattere osteologico della distanza tra i denti ha più valore che quello della grandezza. Ecco ora gli avanzi di volpe che mi fu dato raccogliere: Osso mascellare superiore sinistro cogli ultimi due molari; Osso mascellare superiore sinistro coll’antepenultimo molare. (1) Credo sia occorso un errore nell’opera di ScHMERLING. Questo numero deve riferirsi alla seconda dimensione. DI GIOVANNI RAMORINO. 291 Frammento di mascella inferiore destra coi tre molari e il penultimo tubercoloso. Mascella inferiore destra col 1° tubercoloso e l’ultimo molare. Mascella inferiore sinistra quasi completa col 2° e 3° falso molare, il molare e il primo tubercoloso. Frammento di mascella sinistra col 4° falso molare, il molare e il grande tubercoloso. Antepenultimo molare. Due canini inferiori. Frammento di epistrofeo. Frammento d’omero coll’estremità inferiore. Frammento di cubito. Due calcanei. Un astragalo. HYAENA. Di una iena che abitava la Liguria nell’ epoca quaternaria raccolsi vari denti e qualche osso, che le attribuisco con esitazione per il loro cattivo stato di conservazione. Non dubito che quella specie sia la spelzea, poichè alquanto differisese dalle specie viventi cui era analoga quella che FaLconER indicò, senza aver tempo a descriverla, come propria di certe caverne d’Europa. Dei denti superiori possedo i penultimi, dei quali ecco le dimensioni : Lunghezza totale 38". Massima altezza della corona 22”" (al disopra dello spazio tra le due radici ). Diametro anteriore 21"” (comprende la lunghezza dei due tu- bercoli ). Diametro della radice anteriore interna ..... 12" » » CSLECNANAS N Or » » posteriore ss a ii ZO Queste dimensioni sono prese sul dente di sinistra: quello di destra è assai guasto, per cui non possono prendersi con esattezza; però non vè differenza sensibile, eccetto che è alquanto più consumato. Degli inferiori ho il secondo molare inferiore di destra: 292 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA Diametro alla base della corona............+. 209" Massima altezza della corona ................. 219 Il terzo molare di destra: Diametro alla base della corona. .............. 23" Massima altezza ‘della. corona we on Diametro trasversale della radice anteriore ...... 10"" » » posteriore... Ligue Terzo molare di sinistra: ha dimensioni uguali al precedente. Ultimo molare di destra: Diametro antero-posteriore alla base della corona. 309" Altezza massima del tubercolo anteriore ........ 2zomm » » posteriore SEO Diametro antero-posteriore della radice anteriore. 18"" » » posteriore 8"". Due premolari superiori. Un dente canino, rotto in due pezzi con un colpo assai deciso, e ì cui pezzi trovai uno in una stalammite, l'altro a grande distanza nella terra, mi pare riferibile a questa specie, e testificare 1’ azione dell’uomo, che solo può avere spaccato longitudinalmente un così grosso dente. Trovai pure ossa di iena giovane, e un dente molare superiore da latte. Questo e gli indizi di rosicature su qualche osso mi pare indichino che le iene hanno abitato quella caverna durante un certo tempo. Tro- vavansi le ossa sempre negli strati inferiori. Genere FELIS. Non rinvenni tra le ossa riferibili a specie del genere Felis alcuno che mi dasse indizio dell’ esistenza della grande specie del leone delle caverne. Questa specie quindi o non avrebbe mai esistito in Liguria, o sarebbe scomparsa prima dell’Hyaena. Il qual fatto pare siasi verificato pure in Francia, essendo ormai quasi certo che l’Hyaera, sia la spelaca che l’altra indicata da FaLconeR, ma non descritta nè ben constatata, e che forse non è che una delle specie d'Africa, sono comparse in DI GIOVANNI RAMORINO. 293 epoche posteriori agli altri animali veramente quaternari, come 1U. spelaeus, ecc. Del genere /elis però trovai due specie , tra le quali dalla prima, che dovea essere molto comune, tolsi solo un dente molare ultimo infe- riore destro, ma vari omeri, femori, tibie e radii. Tre ossa seconde metacarpee credo debbono pure assegnarsi a questa specie per la loro forma appiattita che le rivela proprie di un felino, e per le dimensioni. Il molare ha alla base della corona un diametro antero-posteriore di 14”, la massima altezza della medesima corona al tubercolo poste- riore è di 8". La lunghezza della maggiore radice, che è l'anteriore, è di 12”®, quella della posteriore è 7°". Crederei queste ossa di una specie di gatto affine alle linee, e forse anche di questa specie. Una mascella che a prima giunta tanto si contraddistingue per la forma o il numero dei suoi denti, e che venne figurata dal mio amico R. Gestro, dovrebbe essere la mascella d’un Felis coi denti da latte, come lo dimostra la formola dentaria. Le sue dimensioni la farebbero assegnare a questa seconda specie che giudico di lince (v. tav. II, fig. 4). 2° Specie. La seconda specie pare abbia ad essere stata la più comune, poichè raccolsi di essa molii frammenti, e principalmente mascelle. To non dubito abbia essa a considerarsi come la specie comune di gatto, quantunque manifestasse qualche differenza dal gatto domestico. Attribuisco ad essa 5 mascelle che non mi pare differiscano di molto da quelle di cui ScamerLIino fece la sua 7. cattus magna. La più com- pleta ha le seguenti dimensioni: Lunghezza dell’apice al condilo .............. SO Gun SPAZIO (OCCUPALON CANE OA AI AZ Spazio tra il margine alveolare del cranio ed il 1° molare 69" Altezza del margine inferiore fino all’apice della branca ISCENAENTE di Altezza del margine inferiore fino al margine superiore ACINCONALIO TOI I AF Altezza al davanti del 1° molare ..........4.-...-- Tomi Quest'ultima dimensione io credo però sia di poco valore, molto variando lo spessore e l'altezza delle mascelle col procedere dell'età ; 29/4 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA basta a dimostrarlo il confrontare una tra le mascelle che ricavai, e che dovette appartenere ad un giovane individuo, con tutte le altre che furono certo di individui adulti. In questa lo spessore relativamente maggiore e la rapida ascesa del margine anteriore, insieme al taglio più orizzontale del margine alveolare del canino, rendono più alta in questo punto la mascella. Oltre a queste mascelle raccolsi varii canini isolati; un osso ma- scellare col penultimo e parte dell’ultimo molare, Un atlante, Tre vertebre dorsali, Un osso del bacino, Varii cubiti, ed una grande serie di ossa che possono giudicarsi di queste specie com maggiore o minore probabilità , stante la cattiva loro conservazione. ROSIGANTI. Molto copiosi erano i resti di questi animali, specialmente negli strati superiori, dove quasi assolutamente predominavano. Credo anzi, che abbiano avuto un certo tempo assoluto dominio in essa, allorchè già quasi affatto chiusa, non poteano penetrarvi altri animali. Non è però da credere per questo, ch’essi siano d’età posteriore agli altri avanzi, giacchè trovaronsi pure insieme a questi negli strati inferiori, separati dal superiore per croste stalammitiche intatte, quindi non ri- maneggiate. Trovai rappresentati i generi Arctomys, Mus, Arvicola, Lepus. ARCTONMIS. Assai raro; non ne raccolsi che tre mascelle inferiori, in nulla dif ferenti da quelle conservate alla collezione della Scuola d’'Applicazione degli Allievi-Ingegneri in Torino, e raccolte nel terreno quaternario di Piemonte. A giudicarne dalle figure date da Cuvier (Oss. foss., tav. 202, fig. 2) e dalla descrizione, tom. VIII, pag. 56, 57, questa specie differirebbe alquanto dalla marmotta comune per l’estensione assai più grande: del DI GIOVANNI RAMORINO. " 295 solco mediano dei molari, il quale è in questo caso piuttosto una cavità che un vero solco. Ognuna delle tre mascelle osservate dimostra non aver portato che quattro denti. Che nell'epoca quaternaria abbia esistito un Arctomys differente dall'attuale, è idea emessa pure da Sruprati nella descrizione delle specie della breccia di Sardegna. Egli però non arrischia una sicura determi- nazione, nè io vorrò, con così pochi documenti, spingermi più innanzi di lui. NMIUS. Ne possiedo pure due mascelle e qualche altra parte di scheletro, da cui mi pare non potersi la specie della caverna distinguere dal Mus musculus attuale. ARVICOLA. Questo genere venne sempre copiosamente trovato nelle breccie os- sifere delle coste del Mediterraneo, e CuvieR venne nell’opinione, che si trattasse d'una specie ora perduta, delle dimensioni all'incirca dello schermauss. Ma il Prof. SrupratI osservò , che mentre i caratteri ch'egli trovava sulle ossa di tali roditori della breccia di Sardegna erano ana- loghi a quelli descritti da Cuvier, pure le dimensioni erano sempre minori. Dall'esame delle numerose mascelle che ricavai, potei accorgermi che tale differenza non è casuale, ma che pur nel caso nostro si ripete, trovandosi mascelle di grandezza assai diversa ; eppure pochissimo dif- ferenti per caratteri l’una dall’altra. Io non saprei se tale differenza debba attribuirsi a sesso, età, od a diversità di specie. Se quest'ultima opinione, alla quale propendo, fosse giusta, vi sarebbero state due diverse specie di Arvicole, la prima delle quali della grossezza dell’Ar. amphibius. La sua formola dentaria è come — 3 quella delle Arvicole = il primo molare superiore possiede due angoli rientranti per lato; il secondo due all’esterno, uno all’interno ; il terzo due per lato ; il primo molare inferiore ha quattro angoli rien- tranti all’interno e tre all’esterno, e gli altri due solamente per ciascuno. Questi angoli rientranti nel primo molare inferiore sono formati dal 296 "SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA prisma anteriore e posteriore, più da due per l'esterno , tre all'interno: disposizione propria dell’arvalis, amphibius ed economus, e constatate dal Prof. Srupiati nelle specie della breccia di Sardegna. I quali caratteri, insieme a quelli che potei trovare sulle altre ossa, fanno collocare questa specie di Aryicola nel gruppo dell'A. amphibius, senza però pretendere sia proprio lo stesso , poichè, a differenza di questo , porta i rudimenti d’una cresta interorbitale, che manca assolutamente nell’amphibius, e che Cuwer trovò molto sviluppata sopra gli esemplari raccolti nella breccia di Sardegna, di Cette e d’altre breccie delle coste del Mediterraneo. La seconda specie non differirebbe da questa che nella grandezza, e forse potrebbe essere quella che il Prof. SrupIATI incontrò nella stessa breccia di Sardegna, e che asserisce essere sempre assai più piccola di quella descritta da Cuvier nella stessa località. LEPUS. Abbondantissima trovai una specie di Coniglio, di grandezza all'incirca uguale all’attuale, e da cui non si distinguerebbe stando al solo esame delle ossa del tronco e delle estremità. Ma un frammento di cranio , che trovai insieme ad altre ossa ben certificate di questa specie, e colle quali avea in comune una forte incrostazione, mi pare presenti qualche differenza , specialmente in una larghezza assai maggiore misurata tra la linea mediana e l’osso giugale; ma la potente incrostazione, di cui è rivestita, non permette che si possano studiare con precisione i suoi caratteri. A tutti i modi la grandezza delle orbite, la forma e la dispo- sizione dei denti, quella del giugale e gli indizi delle apofisi sopra orbitali, sono sicuri criteri per farlo giudicare d’una specie affine molto alla lepre. Non trovai alcuna differenza tra questa specie e quella rinvenuta da Cuvier nella breccia di Nizza, di cui egli figura varie ossa, per cui mi riterrò a quello ch'egli ne disse, che cioè, quantunque sia questa specie di Conigli assai somigliante all'attuale, pure non si potrebbe con sicurezza asserire sia lo stesso. È pure identica a quella rinvenuta da ScumerLIine nel Belgio. Trovai pure alcune assai rare ossa, riferibili alla vera lepre (Zepus tinidus), su cui per conseguenza non mi fermo a discorrere, e finalmente DI GIOVANNI RAMORINO. 2097 potei vedere un radio uguale in forma a quello del Coniglio, ma di molto piccole dimensioni. Disgraziatamente questo pezzo andò smarrito, onde non posso asserire s’egli fosse di quel piccolissimo Coniglio che Cuvier trovò nelle breccie ossifere di Nizza, e che anche molto raro gli si era dimostrato. RUMINANTI. Numerosi sono gli avanzi di ruminanti, sia per la quantità delle ossa, come delle specie. Essi abbondavano specialmente negli strati intermedii. CERVUS. Tre specie ben distinte di Cervi si trovano nella caverna, uno dei quali più vicino di forma al Daino, l’altro all EZaphus, e l'ultimo di grandezza poco minore a quello che trovossi in Toscana, assieme alle ossa di Rinoceronte e d’Elefante. Senza enumerare qui le varie ossa, che credo appartenere a queste tre specie, dirò che più rara mi si dimostrò la prima ‘specie, la più piccola cioè, e che per la forma più svelta delle estremità giudicai affine al Daino. La sua statura dovea essere intermedia tra quella della Dama platyceros e quella del C. elaphus. i Notai questa specie colla lettera D, non volendo con una denomi- nazione specifica qualunque portare una nuova confusione nel già molto intricato genere dei Cervi, e confortato in questo dall’esempio del ce- lebre RurIMeEvER , il quale in questo modo distinse le ossa del genere Bos, ch'io vidi nella collezione paleontologica delle Scuole d’Applicazione degli Ingegneri a Torino. La seconda specie è rappresentata da individui di grandezza ben differenti, ma i caratteri presentati dalle loro ossa, mi pare non auto- rizzino la separazione in gruppi distinti, tanto più che le dimensioni oscillano sempre intorno a quella del C. elaphus. Notai però nel- catalogo questa seconda specie con due lettere 4 e 5: segnando con 4 gl’ in- dividui minori, con 8 i maggiori. I caratteri osteologici condurrebbero a giudicare questa non fosse 2 Serie II Tom. XXIV. o) 298 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA altro che la specie EZaphus, ove il profondo canale nei metatarsei e metacarpei principali per il passaggio dei flessori delle falangi, la grande robustezza delle creste per l'inserzione. dei muscoli, e soprattutto la forma appiattita delle corna, di cui raccolsi due frammenti, che portano parte del primo ramo, non lo distinguessero e quasi lo facessero somi- gliare alla renna; ma a questa mi pare non si debbano attribuire, perchè le corna, e più specialmente l’uno di essi, invece d’essere liscie, sono piuttosto scabre; ed il primo ramo che sorge poco al disopra della corona invece di allargarsi in palma, dimostra che deve finire in punta. Del resto il carattere che Cuvier assegna come distintivo della Renna, il profondo solco cioè per il passaggio dei flessori delle falangi, mi pare debba trovarsi in tutte le specie di grande forza muscolare, come dovea essere quello di cui sto parlando, a giudicarne dalle forti creste per l'inserzione degli altri muscoli. La terza specie finalmente era molto più voluminosa, avvicinandosi alle dimensioni proprie del Megaceros, e a quelle dei Cervi del pliocene di Toscana menzionato da Cuwier, e di cui il Museo di Genova pos- siede qualche frammento raccolto vicino ad Arezzo. A giudicarne da due frammenti molto mal conservati di corno, che per la loro grossezza attribuisco a questa specie, avrebbe avuto corna rotonde e molto scabre, per cui sufficientemente si potrebbe già distin- guere dalla seconda che le aveva appiattite e più lisce. Ma ciò che toglie il dubbio sulla distinzione si è un metacarpo principale anteriore, il quale ha ancora le sue due epifisi affatto staccate, e la cui dimensione supera quella dei metacarpei della specie seconda. Del resto, già CuvieR avea notato l’estrema difficoltà delle determi nazioni delle specie di Cervi dai soli caratteri osteologici, quando non si possano avere che poche ossa come nel caso nostro, per cui sarebbe imprudenza di voler qui spingere troppo innanzi le nostre conclusioni. Onde mi trovo pago ad aver constatata la presenza di tre specie di questi animali, certamente appartenenti a specie non più esistenti, come CuvieR stesso avea potuto trovare negli avanzi delle breccie ossifere di Nizza. In queste infatti egli scopriva gli avanzi di un Antilope e di due Cervi, uno dei quali di grossezza tra il Daino ed il Cervo, e sarebbe la mia prima specie; l’altro, di grossezza alquanto maggiore dell’EZaphus, sarebbe forse la mia terza specie od uno dei grandi individui della seconda. DI GIOVANNI RAMORINO». 299 Quasi tutte le ossa lunghe di.questi animali sono rotte per mano dell'uomo, ciò che bene si vede sopra una tibia della seconda specie , di cui trovai i due pezzi distanti l'uno dall'altro, ma che accostati, mostrano ancora benissimo la traccia dei colpi dati per romper l'osso. ANTILOPES. Possedo porzione del cranio d’una specie d’Antilope, di grossezza assai. maggiore dell’A. Arabica. Ne do la figura in grandezza naturale, cui devo, come le altre, alla compiacenza dell’ottimo mio amico Raffaello GestRo (tav. II, fig. 6). Questo cranio è rotto con un deciso colpo portato posteriormente alla sutura fronto-parietale, in modo da far credere sia stato rotto per mano d'uomo onde estrarne il cervello. È in troppo cattivo stato per poterlo determinare, non essendovi di conservate per intero che le ossa frontali. Un frammento di mascella superiore sinistra mi pare debba pure corrispondere alla specie cui appartiene il cranio suddetto, per la forma dei denti molto consumati e della forma di quelli delle Antilopi. Il quinto molare contiene, tra i due prismi ed alle parti interne, il pic- colo colletto, che venne dato come carattere proprio dei denti di Bue e di Cervo, ma che si trovò essere proprio anche di qualche specie d’Antilope. Il profilo di questa mascella è molto ricurvo, e le radici dei denti formano dei rialzi assai forti. Lo spazio occupato dai cinque molari, che ancora sopravvanzano, è di 46". Appartengono pure a questa specie un omero assai mal conservato, un'estremità inferiore d’osso metatarseo principale e due falangi. Questa specie potrebbe essere la stessa che Cuvier indicò nella breccia di Nizza. Altre ossa più grandi di quelle proprie di questa specie, sono rife- ribili a un Ovis; ma ne ebbi pochissime e troppo mal conservate per giudicarne con certezza. E OS. La specie di Bue è identica di forma, ma minore forse di quella che venne trovata in Lombardia, e che si conserva nella collezione della R. Scuola d’Applicazione degli Ingegneri a Torino; ed un altro 300 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA raccolto in Toscana insieme ad ossa dell’E. meridionalis, di Rinoceronte e di un gigantesco Cervo, e di cui si conservano alcune ossa nel Museo della R. Università di Genova. La sua grandezza mi fa credere che altro non sia che il Bos primigenius. Trovasi tanto nella breccia come nella caverna. I pezzi che ne raccolsi sono : Articolazione inferiore di omero, larghezza 0", 115. Quello di Lombardia è quasi 0",14 (la lunghezza di quest’ultimo èrdiiona/0)). Quello di Toscana, quasi conservato allo stesso modo di quello della caverna, è OP, IID. Un'estremità superiore del metacarpeo principale, massima lar- ghezza 0", 099. Un'estremità inferiore del metacarpeo principale, massima larghezza o", 095. È identico per forma e grossezza a quello di Lombardia. Estremità inferiore del metacarpeo 0”, 080. Osso cubo-scafoide, massima larghezza 0”, 080. Un frammento di calcaneo, Un osso del carpo d’ individuo forse più piccolo ed un astragalo E varii denti molari. Pare esistesse pure un Bue d’assai più piccole dimensioni, di cui non raccolsi che un astragalo molto mal conservato. Assegno pure ad un ruminante a corna persistenti un metacarpeo principale , il quale per la forma si avvicina moltissimo a quello dei buoi, ma è straordinariamente piccolo. Lascio quindi in dubbio a che possa egli appartenere. La sua lunghezza è 0", 013. La massima larghezza delle articolazioni superiori è 0", 033 id. id. inferiori o, 037. Esso potrebbe essere attribuito a qualche specie affine alla capra od al camoscio, ove non si opponesse il quasi parallelismo de’ suoi margini, che gli danno un aspetto molto massiccio, più proprio de’ buoi che di quelli agili animali. PACHIDERMEI. La mancanza di ossa di Elefante e di Rinoceronte fanno assegnare alla caverna di Verezzi un’epoca posteriore alla breccia di Nizza , in cui tali ossa s’ incontrarono. DI GIOVANNI RAMORINO. 3oi _Gerte grandi ossa poco determinabili, contenute nella breccia, mi parvero però doversi attribuire a Rinoceronti od Elefanti, ma essi man- cano affatto nelle caverne nelle quali non si trovarono *che il Cinghiale ed il Cavallo. SUS. Di questo raccolsi una mascella inferiore coi molari, le cui dimen- sioni sono : Pel 1°; diametro anteriore posteriore ......... oe ” trasversale ..... SS Pel 2°; diametro anteriore posteriore. ........ 14M" » trasyeksale rea NOA Pel 3°; diametro anteriore posteriore. ........ To » trasversale ...... SIOE TORA Pel 4°; diametro anteriore posteriore......... 24" » trasversale ss oReno. TORInE Una mascella inferiore sinistra quasi completa, coi denti da latte, a cui forse corrisponde un mascellare superiore destro, coi denti pure da latte; in ambedue l’ultimo molare non è pur anco totalmente spuntato. Non trovo differenza sensibile tra questa mascella e quella di un giovane Maiale domestico, ove se ne tolga la maggiore robustezza e spessore, indizio di vita selvatica. Questo è l’unico osso che presenti certe abrasioni nella sua superficie, che il Prof. GasraLpi mi facea rimarcare sopra le ossa d'Orso tolte nella caverna di Bossea, e che sono evidentemente effetto degli agenti atmosferici che agivano sopra quella superficie dell’osso, che stette lungo tempo esposto ad essi. Ricavai pure molti altri denti di questa specie, ma non mi fu pos- sibile rinvenirne alcuno di grossezza uguale a quella raccolta da ScameRLING nel Belgio e dal Cav. Perez nella grotta di Mentone. Del resto non mi pare esista alcuna differenza essenziale tra questa specie e l’attuale cinghiale, meno forse una dimensione alquanto maggiore. (6) Q D SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA EQUUS. Molte ossa di questo pachiderme si trovarono nella terra della grotta di Verezzi, ma tutte affatto frantumate. L'unico ben determinabile è uno zoccolo, che indica una statura eguale a quella di un comun Cavallo di vettura. UCCELLI. - RETTILI. - CROSTACEI. Fra le ossa finora enumerate se ne trovarono anche di uccello; ma di queste non mi occupo, avendo promesso di farlo il sig. Alfonso Mirxe-EpwaArps, cui spedii in comunicazione tutti i resti ornitologici ; se ne trovarono pure, ma pochissime, di rettili, principalmente del genere Zucerta. Ed in ultimo incontrai un Oniscus murarius, il quale non saprei discernere dall’attuale. Per le conchiglie vedasi la nota del Dott.-A. Isser, che fa seguito a questa mia Memoria. CONCLUSIONE. Dall'esame della fauna che andammo finora facendo, mi pare adesso di poter conchiudere, che la caverna di Verezzi contiene i documenti di due distinte epoche: una, la più antica, è caratterizzata dallU. spelaeus, dall’H. spelaea, ed ha comuni coll’epoca successiva le tre specie di Cervi ed il Bos primigenius; la seconda è piuttosto contraddistinta dalla man- canza di quelle specie di grandi carnivori. L'uomo coesisteva cogli animali della prima epoca: cosa nè strana, nè nuova, ma non ancora constatata in Liguria. Ora se volessimo ricercare a quali delle epoche, già stabilite per - altre località , debbano riferirsi le due che mi paiono rappresentate nella caverna di Verezzi, niun dubbio che si dovrebbe assegnar quella del- l'Orso e dell’ Jena, alla quaternaria antica, ma posteriormente alle breccie delle coste del Mediterraneo , ed anche alla grotta di Cassana , ove gli avanzi d’Orso indicano individui di più grande volume, probabilmente perchè l'estinzione della specie era preceduta già come da un indebo- limento degli individui. DI GIOVANNI RAMORINO. 303 La seconda epoca sarebbe per la Liguria la rappresentante di quella della renna in Francia; ancora non essendo gli animali, specialmente erbivori, ridotti a domesticità,. e già essendo scomparsi i grandi carni- vori dell’epoca precedente. Nuove ricerche potranno mostrare in seguito , se sia giusta questa mia idea, la quale non mi pare possa aver nulla di improbabile, giacchè alla domesticazione degli animali deve aver preceduta la distruzione delle specie nocive, e l’uso della carne degli erbivori selvaggi, o in altra parola la caccia propria dell’epoca più antica deve aver preparato_il cammino alla pastorizia ed all’ agricoltura, che furono retaggio della seconda e della terza epoca. Era già stata presentata questa Memoria quando il sig. Alfonso Mixe- Epwarps mi favoriva la determinazione degli avanzi ornitologici della grotta di Verezzi, ch'io gli avea spediti. Essi si riferiscono tutti a specie viventi, e sono: Falco cenchris. » tinnunculus. Strix bubo. Athene passerina. Secondo l'opinione del distinto ornitologo, mio amico Tommaso SaLvapori, sarebbe supponibile che più della passerina si tratti in questo caso della roczua, alcuni dando a questa specie quel nome, mentre la vera passerina è una piccolissima specie dell'Eur. sett. Fringilla cannabina. Loxia pyrrhula. Turdus viscivorus. ; Turdus migratorius? Questa specie non si trova più in Europa, ma è propria del Nord America. | Corvus pica. Pirrhocorax alpinus. Columba oenas. Tetrao albus. Proprio del Nord Europa. Tetrao urogallus. Confinato nelle montagne del Tirolo; comune nel Nord Europa. Ortyx communis. Rallus crex. Eccettuate dunque quattro specie, cioè: Athene passerina , Tetrao albus, T. urogallus, Turdus migratorius , le altre specie fanno parte dell’attuale fauna italiana, e sono comuni in Liguria. 304 SOPRA LE CAVERNE DI LIGURIA SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Tavora I. Fic. 1. Piano della strada e della ferrovia per Nizza, onde indicare la situazione della grotta di Verezzi. » 2 e 3. Sezioni trasversali în corrispondenza della grotta. Il colore nero indica la forma del monte prima del taglio che è indi- cato con colore rosso. Tavora HE. Fic. 1. Osso con supposte incisioni fatte dall'uomo (grand. nat.). Ultimo molare inferiore d'Hyaena spelaea (grand. nat.). Secondo molare inferiore d’Hyaena (grand. nat.). Mascella inferiore di giovane Lince (grand. nat.). Porzione di osso mascellare superiore di Sus (grand. nat.). Porzione di cranio d’ Antilope veduta dal disopra (grand. nat.). O di b 1 0 DDDPOGT1 n ———a GA Mecca 9. Rel delle Be. di Gorino , las e di Se. Fis. Malte 2% Conv XX IV. Sezione B. Sezione Verrovia \= = CwTwUCL[.A-AoO_ 3 = Irivello del Mare in cala NZ z E == î OR) . RETTINANI sali tO vue NO ì Ml Bro pit 2 - a an NL uu gii atta tiantate SIRO cc falde” "n i MMM rtaneioioe x ca Ù | COOITITT TONI FI LULZE "o ji pira TRI 5 ATL a NE) ctr pat vl us AULA Im ei ly, - b (xa MILZA SMTNFTIT RT \ULIT NVCILII \ Lù LICO TR AVRA, Ki ira / TEZZE n ps ZZZ na — ad fiano scala, 1 2000 Sezioni , 1400 GL dis. l Zorino Lit. f""Ypven. Torino, Lit. FL Doyon 166. CI s 305 DELLE CONCHIGLIE RACCOLTE NELLE BRECCIE E NELLE CAVERNE OSSIFERE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE Le conchiglie fossili o subfossili noverate in questa Memoria proven- gono da varie località della Liguria occidentale. Ecco, incominciando dai più antichi e procedendo ai più recenti, la serie dei giacimenti, ove furono raccolte : ) 1° Breccia ossifera del monte della Capra Zoppa; 2° Grotta ossifera di Verezzi; 3° Breccia conchiglifera di Verzi; o Breccia a Ciclostomi di Spotorno; i ° Grotte ossifere di Mentone; ° Grotta di Finale. La breccia della Capra Zoppa riempiva, or son pochi anni, alcune D spaccature nel monte di quesito nome; ma essendo stata estratta per servire all’uso di materiale da costruzione, è presentemente esaurita. Non sarebbe difficile però, che qualcuna delle recondite cavità della montagna ne contenesse altri ammassi sfuggiti finquì alle ricerche dei naturalisti. In questa breccia si trovarono resti di Urswus spelaeus, scarse con- chiglie terrestri, di cui alcune appartenenti a specie estinte, nonchè Serie II. Tom. XXIV. ÎF 306 DELLE CONCHIGLIE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE fossili pliocenici rimaneggiati (conchiglie marine, echinodermi , denti di pesci, ecc.), il tutto collegato da durissime concrezioni lapidee. Non vi si rinvennero mai avanzi dell’ industria. umana. Essa è, secondo il mio giudizio, uno dei più antichi depositi qua- ternari della Liguria e può riferirsi alla stessa età della breccia di Nizza e della caverna di Cassana. La grotta di Verezzi è uno speco di piccole dimensioni, scavato alle falde dello stesso monte della Capra Zoppa, a pochi metri d'altezza sul livello del mare. Sotto lo strato stallattitico, che ne forma il suolo, v ha un potente deposito di terra sciolta, rossiccia, ricchissima d’ossa e di conchiglie, e contenente traccie non dubbie lasciatevi dall'uomo. Tali fossili mi sembrano di poco posteriori o contemporanei a quelli della breccia sopra descritta. Secondo il Prof. Ramworino i resti di mammiferi si riferiscono ad un gran numero di specie, fra le quali non poche o sono affatto perdute o non esistono più in Liguria. In quanto alle conchiglie , quelle raccolte dal Prof. RamorIno e da me, ascendono a 12 specie : una marina ed 11 terrestri. Di queste ultime tre sono certamente estinte. La breccia che occupa nella mia nota il terzo posto, si trova non lunge dal Borghetto, paese della riviera Ligure, a qualche: centinaio di passi dal piccolo villaggio di Verzi. Costituisce vari massi , situati intorno all'imboccatura d'una vasta caverna, ben conosciuta nel paese sotto il nome di grotta di Verzi, e risulta di frammenti di pietra più o meno voluminosi, uniti insieme da un cemento calcare e ferruginoso. Le conchiglie che vi ho rinvenute, spettano a specie viventi; ma alcune di esse si riferiscono a certe varietà peculiari, che probabilmente non esistono più in Liguria. Riguardo alla breccia a Ciclostomi, riempie un’ampia fenditura in uno strato di calcare giurese, che trovasi alla base di un monte pocq elevato, ad un mezzo chilometro a levante dal paese di Spotorno , in prossimità del mare. i Si compone prevalentemente di chiocciolette terrestri, di avanzi di piante e di pietruzze, il tutto cementato da una tenace concrezione biancastra o bigia. Le conchiglie che vi ho osservate, sono straordina- riamente abbondanti; ma spettano a sole due specie, tuttora viventi. Le specie di Verzi e di Spotorno sono probabilmente coeve o quasi DI A. ISSEL» 307 coeve: forse la prima è un poco più antica della seconda, ma non posseggo criteri sufficienti per accertarlo. In ogni modo, credo che entrambe si siano formate quando già da lungo tempo esisteva il de- posito di terra rossa ossifera nella caverna di Verezzi. Le grotte di Mentone furono illustrate da vari paleontologi , e segna- tamente dal sig. ForeL; quella di Finale I’ ho descritta io stesso in una Memoria presentata l’anno scorso alla Società italiana di Scienze Naturali; però mi asterrò. dal ripetere le cose già dette in proposito. Mi basterà rammentare , che il riempimento di queste caverne si è in gran parte effettuato per opera dell’uomo, ed ha avuto luogo in diverse epoche. I resti da me trovati in quella di Finale si possono quasi tutti attribuire all’età del bronzo. Le conchiglie raccolte nel suolo di queste spelonche vi furono per la massima parte apportate dall'uomo ; esse sono tutte identiche a specie tuttora viventi in Liguria, ad eccezione d’una sola, che s’ incontra però in una provincia limitrofa. Noterò in proposito, che anche nell’attualità non sono rari i casi di certe specie di molluschi, le quali in brevissimo spazio di tempo scompariscono da una località. Or son venti anni, era comune sulle mura di Genova, presso la foce del Bisagno (nella parte che guarda il mare), l’7elix muralis, MirreR, ed io ne posseggo vari individui raccolti in quel tempo. In oggi, sebbene quella località non abbia subìto per mano dell’uomo alcun cangiamento, e di più la specie scomparsa da non ve ne rimane un solo esemplare, Genova non esiste altrove in Liguria. Potrei similmente noverare non poche specie di molluschi terrestri, che erano in passato abbondanti nel Genovesato, e che ora, forse per lievi mutamenti sopravvenuti nelle condizioni fisiche del paese , sono diventate assai scarse e stanno per estinguersi. 308 DELLE CONCHIGLIE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE CATALOGO delle conchiglie raccolte nelle breccie e nelle caverne ossifere della Liguria occidentale i. Cassis suLcosa, LaAmaRcr. Cassis sulcosa, Lam., An. sans vert., X, p. 34 (1844). Ho trovato una porzione del labbro sinistro appartenente ad un indi- viduo di questa specie nel terriccio della caverna ossifera di Finale. Tal frammento giaceva ad una certa profondità nel suolo della grotta insieme a molte ossa di mammiferi e con rozzi campioni di primitiva industria umana riferibili all’età del bronzo (1). Noterò che il Cassis su/cosa è assai raro in Liguria, e vive soltanto ne mari molto profondi; non l'ho mai raccolto sulle nostre spiaggie fra le conchiglie rigettate dal mare. 2. PateLLA Rouxn, PavrAupEAU. Patella Rourii, PavR., Cat. des Ann. et des Moll. de Corse, p. 90, tav. IV, fig. 1-2 (1826). Mi fu comunicato un solo esemplare di questa specie raccolto dal cav. Perez in una grotta ossifera situata presso Mentone, contenente resli dell'industria umana ed ossa di mammiferi. La stessa specie si trova in Corsica e lungo il litorale di Nizza. 5. PATELLA LUSITANICA, GweLIN. Patella punctata, Lam., An. sans vert., II, p. 97 (1844). Ne ho veduto un solo individuo raccolto dal sig. Perez colla specie precedente. È piuttosto comune in Liguria. (1) A. IssEL, di una caverna ossifera di Finale, Atti della Soc. it. di Sc. Nat., vol. VII, 1864. DI A. ISSEL. i 3009 4. PATELLA BONNARDII, PAYRAUDEAU. Patella Bonnardii, PayR., Cat. des Ann. et des Moll. de Corse, p. 89, tav. II, fig. 9-11 (1826). Ne ho trovati due esemplari nella grotta di Finale. Questa Patella è abbondantissima sulle nostre coste. ò. ZONITES LUCIDUS, DrApPARNAUD. Helix: lucida, DraP., Tabl. Moll., p. 96 (1801). Ho raccolto un solo individuo di questa specie nella terra rossa della caverna ossifera di Verezzi. 6. ZoniTES CELLARIUS, MiuLLER. Helix cellaria, MùLu., Verm. hist., II, p. 38 (1774). Zonites cellarius, MoQ. Tanp., Moll. de France, II, p. 78 (1855). Var. depressus, Isset. È abbondantissimo nella breccia conchiglifera di Spotorno ed in quella di Verzi. Questa varietà presenta l'apertura alquanto più stretta di quel che non sia nel tipo, ed è più depressa. Non l’ho mai osservata vivente. 7 7. ZONITES SPELAEUS, IsseL. Testa profunde umbilicata, compressa , supra convexiuscula , infra excavata, nitida, pellucida, radiato-striata; - anfractibus 6 /, regulariter crescentibus , sutura mediocri separatis ; ultimo supra subplanulato , infra convexiusculo. Apertura exigua, paululum obliqua , lunato-oblonga ; peristoma acuto, simplice. Altit milIRINES A); Ranzi 3g Diane ISO RACER ARTO È discretamente abbondante nella grotta di Verezzi ove si trova, ora libero, ora unito a pezzi di osso a sassolini o ad altre conchiglie, da concrezioni stalattitiche. Questa specie offre una conchiglia munita di profondo ombelico , depressa, superiormente un poco convessa, ed inferiormente alquanto 310 DELLE CONCHIGLIE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE incavata, nitida, un poco trasparente ed ornata di strie disposte a guisa di raggi. I suoi giri sono nel numero di 6 4; si accrescono regolarmente, e sono divisi da suture mediocremente profonde; l’ultimo è alla parte superiore quasi appianato , ed inferiormente un poco convesso. Il Zonites sopradescritto forma parte del gruppo che comprende il Z. lucidus, il Z. obscuratus, il Z. Dumonti, il Z. cellarius ed altri; ma non può confondersi co’ suoi congeneri, perchè ha la spira più depressa, l'apertura più stretta, e per essere più incavato inferiormente. Tali caratteri sono sufficienti per distinguerlo dal Z. cellarius, il quale vi si avvicina più di ogni altro. 8. HELIX ROTUNDATA, Mirren. Helix rotundata, MtLL., Verm. hist., II, p. 29 (1774). Var. major, Isser. È comune nella: grotta di Verezzi e nella breccia conchiglifera di Verzi. Questa nuova varietà ha una conchiglia il cui diametro presenta 8 a g millimetri, mentre nel tipo oltrepassa di rado i 6. L’H. rotundata vivente è assai rara in Liguria; ne ho trovato pochi individui appartenenti ad una varietà assai piccola nei dintorni di Voltri e nella valle della Scrivia. 9. HeLix RAMORINIANA, Isset. Testa orbiculato-depressa, diaphana , longitudinaliter striata, alba dA, ? P 7 (o) b) b, unifasciata; spira convexiuscula, apice laevi; anfractibus 4 convexis, regulariter crescentibus, sutura impressa separatis; ultimo rotundato descendente; umbilico magno, profundo. Apertura exacte rotundata , obliqua; peristoma acutum reflexum, intus non labiatum , marginibus approximatis. AMICIS DIETE Ne posseggo parecchi esemplari trovati nella caverna di Verezzi. Piacemi assegnare a questa specie, che credo nuova, il nome del Prof. G. Raworino , che fu il primo ad esplorare la grotta di Verezzi, e che mi ha procurate quasi tutte le conchiglie menzionate nel presente catalogo. DI A. ISSEL. 3ri Essa è orbiculata, depressa, diafana, striata longitudinalmente, bianca e munita di una sottil fascia bruna, situata nella parte mediana di ciascun giro. La spira è alquanto convessa, V’apice liscio ; i giri sono nel numero di 4 %, crescenti regolarmente, un poco convessi, e sono divisi l’uno dall’altro da suture discretamente profonde. L'ultimo è arro- tondato ed assume in prossimità dell’apertura direzione discendente. L'ombelico è ampio e profondo. L'apertura è obbliqua, nella maggior parte degli individui esattamente tonda, ed offre un peristoma riflesso , acuto, bianco e sprovvisto di labbro internamente; i due margini sono molto avvicinati ma non congiunti. Questa conchiglia si riferisce ad un gruppo di Z/elix quasi esclusi- vamente alpine, i cui rappresentanti si trovano soltanto sulle alte montagne, e mancano alla Liguria marittima. L'H. Fonzenilli della Grande Chartreuse ; 17. glacialis del Cenisio, del monte Rosa e dell’alta Moriana ; l’Z. frigida del monte Codeno (Lombardia); l’H. insubrica del monte Baldo (Veneto); l'H. intermedia del Bellunese e del Friuli ; VZ. phalerata della Carinzia ; V'H. Schmidti della Carniola formano parte di tal gruppo. La specie’ ligure si accosta soltanto all’. insubrica; ma se ne distingue per alcuni evidenti caratteri; la sua altezza è maggiore, l’om- belico è un poco più piccolo di quel che non sia nella specie veneta, ed ha 4 giri % invece di 5 %. x A degli esemplari da me raccolti sono così ben conservati che presentano ancora una sottil fascia bruna, la quale spicca sul fondo bianco della conchiglia. 10. HELIX NEMORALIS, Linneo. Helix nemoralis, Linn., Syst. nat., ed. X, I, p. 773 (1758). Var. apennina, STABILE. Helix genuensis, PoRRO. È assai frequente nella grotta di Verezzi e nella breccia di Verzi. Il Prof. Ramorino ed io ne abbiamo raccolti parecchi belli esemplari, fra ì quali si riconoscono tre sottovarietà, munite l’una di tre fascie , la seconda di cinque, l’altra di una sola. d12 DELLE CONCHIGLIE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE 2. Var. cisalpina, STABILE. Ne. posseggo un solo individuo, raccolto colla varietà precedente. Questa forma dell’. nemoralis manca, per quanto credo, alla Liguria ed è invece abbondantissima in Piemonte. Essa offre dimensioni minori delle normali, ed è più conoidea della varietà innanzi menzionata. 4Î. Helix PARETIANA, Isser. Testa imperforata, globoso-conoidea, solida, valde striata ; striis obliquis, paululum flexuosis; anfractibus 6 convexis, regulariter cre- scentibus. Sutura impressa separatis ; ultimo rotundato , vix descendente. Apertura perobliqua semiovalis; peristoma reflexum, expansum, margine columellari incrassato. ACI RITA, RCATIVA LOS I ia TSO GE RISI 43 II Mi SON DO » VALERIA SICA I) DI Ne ho ispezionato vari individui provenienti dalle breccie ossifere della Capra Zoppa e della caverna di Verezzi (1), ove fu trovata dal sig. RamoRINO. Ho chiamato questa specie /- Paretiana in onore del sommo e compianto scienziato, cui dobbiamo i primi e più importanti studi. sulla geologia ligure. Essa è globosa, conoidea, priva di perforazione, spessa, solida e fortemente striata nel senso longitudinale. Guardando attentamente le parti della conchiglia meglio conservate, vi si scorgono anche delle minute strie trasversali interrotte ed ineguali, che intersecano le prime; le strie longitudinali sono oblique, un poco flessuose, profonde e disuguali. I giri sono nel numero di 6, separati da suture profondamente segnate e sono più o meno convessi ; l'ultimo è arrotondato ed appena discen- dente in prossimità dell’apertura. Questa è assai obbliqua, semiovale, non molto ampia. Il peristoma è espanso e riflesso ; il margine. colu- mellare è breve, ingrossato e calloso. (4) In quest’ulima località è assai rara. DI A. ISSEL, 313 L'/. Paretiana forma parte di un gruppo di specie, che comprende lH. pomatia, V H. lucorum, VH. grisea, ecc. Si distingue facilmente dalla prima, perchè ha la spira molto meno elevata, l'apertura più stretta ed obbliqua, e finalmente perchè è più solida ed ornata di strie longitudinali più profonde. Coll’. Zucorum non può confondersi, perchè presenta la spira meno elevata relativamente al diametro, ed ha l’ultimo giro meno ampio, e per conseguenza l’apertura più angusta. Gli stessi caratteri differenziali valgono anche a separarle da tutte le analoghe che non ho noverate (1). 12. HELIX VERMICULARIA, BoxELLI. Helix vermicularia, Bon., in scheda (Museo di Torino). Ne ho veduti pochi esemplari incastrati nella breccia ossifera della Capra Zoppa. È una bella specie completamente estinta che si riferisce al gruppo della H. vermiculata e dell’H. lactea, e che si accosta alquanto all’ul- tima. Per altro agevolmente se ne distingue per aver la spira un poco più elevata, per essere più solida, e perchè presenta un’apertura meno ampia. Le piccole impressioni vermicolari caratteristiche che si osservano su queste chiocciole sono meno profonde nella specie vivente chie nella fossile. Questa conchiglia fu dapprima scoperta dal Bonetti nelle argille plioceniche dell’Astigiano; poi fu rinvenuta nelle breccie quaternarie di Nizza e di Finale. Le dimensioni dell’. vwermicularia sono : 063% DU OD II: FINIZIO. . mill. 25 SITL do Gol Solo virali DI dl) 15. HeLix verMIcuLATA, MiiLLER. Helix vermiculata, MùLL., Verm. hist., Il, p. 20 (1774). In una piccola zolla di terra rossiccia raccolta dal Prof. Perez in una delle grotte di Mentone e conservata nel R. Museo di Genova ho osservato un esemplare di questa specie. (1) È d’uopo avvertire che nell’. Paretiara V’altezza della spira e la convessità dei giri subiscono da un individuo all’altro notevoli variazioni. La specie rimane però sempre distintissima dalle sue congeneri. Serie II. Tom. XXIV. i @ 314 DELLE CONCHIGLIE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE 14. HELIX CESPITUM, DRAPARNAUD. Helix cespitum, Drap., Tabl. Moll., p. 92 (1801). Ne ho ispezionati pochi individui, perfettamente identici ai viventi, raccolti pure nelle grotte di Mentone. 15. HELIX UNIFASCIATA, PoIrET, Helix unifasciata, Porr., Prodr., p. 41 (aprile 1801). Helix bidentata, Drap., Tabl. Moll., p. 85 (luglio 1801). Helix candidula. Stup., Kurz. Verzeichn., p. 87 (1820). Ne ho rinvenuti due individui in buono stato di conservazione nella caverna di Verezzi. 16. BuLimus DECOLLATUS, Linneo. Helix decollata, Linn., Syst. nat., ed. X, I, p. 773 (1758). Bulimus decollatus, BRUG. Encycl., Vers., I, p. 326 (1789). Il Prof. Ramorino me ne ha comunicati parecchi esemplari provenienti dalla breccia della Capra Zoppa, dalla grotta di Verezzi e da quella di Mentone. 17. Burimus (?) ANTIQUUS, Isset. In un pezzo di terra ossifera della Capra Zoppa esistente nel R. Museo di Genova ho osservato un altro fossile interessante il quale, se non erro, è il modello interno d'una conchiglia del genere Bulmus, di cui non rimangono che i due ultimi giri della spira. Da ciò che si vede in questo esemplare così mutilato, si può dedurre che la specie fosse ovata allungata, fornita di 5 o 6 giri di spira, un poco convessi e divisi da suture mediocremente segnate. L'apertura dovea essere verosimilmente allungata e piuttosto stretta; riguardo al peristoma non potrei asserir nulla di certo. L'ultimo giro della conchiglia è alto 3 centimetri e largo 2; l’altezza totale dell’individuo intero non dovea essere minore di 5 centimetri. Fra i Bulimus europei viventi non ve ne ha alcuno che somigli a questo fossile, e che raggiunga le sue dimensioni, perciò credo che esso appartenga ad una specie estinta, non ancora descritta, e propongo di nomarlo provvisoriamente Bulimus antiquus. DI A. ISSEL. 315 18. BuLimus quaprIiDpENS, MiLrER. Helix quadridens, MùLL., Zerm. hist., 11, p. 107 (1774). Bulimus quadridens, BRUG., Encyel., Vers., I, p. 351 (1792). Conservo nella mia collezione due individui di questa specie , un poco più grandi di quelli viventi in Liguria. Provengono entrambi dalla grotta di Verezzi, ove furono trovati dal sig. RamorINo. 19. CLAUSILIA LAMINATA, MontAGU. Helix bidens, MùLL, Verm. hist., IT, p. 116 (1774). Turbo laminatus, Mont., Test. Brit., p. 359, tav. II, fig. 4 (1803). Clausilia laminata, Turt. Brit. Moll., p. 70 (1831). Ne furono raccolti 4 esemplari dal Prof. Ramorino e da me nella terra ossifera di Verezzi. Sono in tutto simili a quelli che vivono nei dintorni di Voltri. 20. CyrcLostoma ELEGANS, MiuùLLER. Nerita elegans, MùLt., Verm. hist.,, II, p. 177 (1774). Cyelostoma elegans, DRAP., Tabl. Moll., p. 170 (1792). È abbondantissimo , come. già. dissi, nella breccia conchiglifera di Spotorno. Si trova anche, ma meno comunemente, nella grotta di Verezzi ed in quella di Mentone. 21. POMATIAS SEPTEMSPIRALE, RAZOUMOWSCKI. Helix septemspiralis, RAazoum., Hist. nat. Jor., 1, p. 278 (1789). Pomatias variegatum, Stup. Faunul. Helvet., in Coxe, Trav. Switz, II, p. 432 (1789). Cyclostoma patulum, var. b, DraP., Zabl. Moll., p. 39 (1801). Cyclostoma maculatum, DrAP., Hist. Moll., p. 39, tav. I, fig. 12 (1805). Ho determinato due esemplari di questa specie che aderivano ad un pezzo di terra tratto da una delle grotte di Mentone. Per quanto credo, il detto Pomatias non vive attualmente in Liguria; abbonda però in Toscana e nella Francia meridionale. 22. MyrILUS EDULIS, Linneo. Mytilus edulis, Lam., An. sans vert., III, p. 21 (1844). Il sig. Ramorino ha raccolto due valve del mitilo comune nella terra rossa ossifera della spelonca di Verezzi; e siccome non è ammissibile 316 DELLE CONCHIGLIE DELLA LIGURIA OCCIDENTALE per molte evidenti ragioni che il mare sia penetrato in quella cavità, così mi sembra probabile che in tempi molto remoti l’uomo abbia gettato conchiglie, ossa ed avanzi di cucina nelle vicinanze della grotta, nella quale poi questi oggetti sarebbero stati trascinati dalle acque o da altra causa ignota. Aggiungerò che lungo il lido sabbioso , presso il quale apresi la grotta di Verezzi, non si rinvengono mitili: ve ne hanno invece ad una ragguardevole distanza, ove il litorale diventa scoglioso. 253. OSTREA PLICATA, CHEMNITZ. Ostrea plicatula, Lam., An. sans vert., III, p. 87 (1844). Ne ho trovato una valva nel suolo della caverna di Finale, alla pro- fondità di 80 centimetri. 24. SPONDYLUS GAEDEROPUS, Linneo. Spondylus gaederopus, LAm., Ar. sans vert., INI, p. 70 (1844). Ne ho rinvenuto una sola valva colla specie precedente, Tali con- chiglie al pari delle ossa spaccate, delle ceneri e dei frammenti di sto- viglia, sono avanzi di cucina accumulati dagli antichi abitatori della spelonca. Dazio Re delle de. di lecumo! Classe di do. io. Na. dev. qa SRG NOXCVE Ext Borzorze [865 HEI spelaenò 5 Ag 0 de ION vermicntla: 1a) n AA si ; 3 4 6 lia Visiera. Sagl SE05 Soli SI, Mg ve ALCUNE PROPOSIZIONI SULLA SUPERFICIE CONOIDE AVENTE PER DIRETTRICI DUE RETTE DEL PROFESSORE GIUSEPPE BRUNO Approvata nell'adunanza del 18 marzo 1866 ? 1. Gissi il conoide S che ha per direttrici due rette, e sup- pongasi noto che a) Questa superficie ha due sistemi di generatrici rettilinee, a ciascuno dei quali corrisponde un piano direttore della superficie, al quale piano sono parallele tutte le generatrici del sistema stesso; 5) Due generatrici della superficie non sono mai in uno stesso piano quando appartengono ad un medesimo sistema: se invece esse sono di sistema differente si incontrano sempre. Per ogni punto della super- ficie passano due generatrici rettilinee della medesima, l'una dell’uno, l’altra dell’altro sistema ; c) Esistono e si sanno determinare due generatrici della superficie $, una per ciascun sistema, le quali fanno angolo retto coll’ intersezione dei piani direttori del conoide: il punto in cui queste generatrici si tagliano è detto vertice della superficie, e la retta condotta pel vertice parallelamente ai due piani direttori chiamasi asse della superficie. 2. Rappresenti GX (fig. 1°) l’asse, O il vertice del conoide S: le due generatrici del medesimo che si incontrano in O sieno 04, OB: HK ed FG sieno altre due generatrici di S, parallele al piano diret- tore BOX, le quali incontrino 04 rispettivamente nei punti #7 ed £; 318 ALCUNE PROPOSIZIONI SULLA SUPERFICIE CONOIDE ECC. la proiezione ortogonale della prima delle dette generatrici sul piano BOA sia Hk. La retta che segna la minima distanza fra Z7K ed FG è perpendicolare al piano BOX, epperciò è contenuta nel piano che passa per 7 K ed è perpendicolare a BO X. Il detto piano ha per traccia sul piano BOA la retta HE perpendicolare abbassata da # sopra OB in un punto £ di quest’ultima retta: il piano stesso inoltre contiene la generatrice di S che passa per £ ed è parallela al piano 40X, la quale generatrice incontra Z7KX nel punto 2%, la cui proiezione m sul piano BOA è l'intersezione di Z& con la parallela ad OA condotta per E. La minima distanza dunque fra /7K ed FG si avrà conducendo dal punto N di intersezione di #°G con EM una parallela ad E fino ad incontrare in P la 7K. À 9. I punti N e P si proiettino sul piano BO in r e p: la retta np sarà parallela e di lunghezza uguale ad VP. La distanza perciò di due generatrici qualunque 7KX, #"G del conoide S' ed appartenenti allo stesso sistema varia come #77, ossia come la distanza dei punti in cui esse tagliano la OA. Inoltre il punto P, in cui la minima cuni NP fra HK ed FG incontra la 77 K, dista dal punto M sopra nominato, della lunghezza M P, la quale varia ancor essa come 7, e che tende perciò ad annullarsi a misura che la f"G incontra 04 in un punto più prossimo ad 7. . Si sa che, se in una superficie sghemba si segna su ciascuna gene- ratrice rettilimea il piede della comune perpendicolare ad essa ed alla generatrice infinitamente prossima , il luogo geometrico dei punti così determinati dicesi linea di stringimento della superficie. Nel conoide S la linea di stringimento è adunque il luogo dei punti come M: ora le proiezioni di questi punti sono i vertici opposti ad O di parallelogrammi i quali, come ONmE, hanno due loro lati diretti secondo 04 ed OB rispettivamente, ed inoltre una loro diagonale per- pendicolare ad 08: i detti parallelogrammi sono perciò simili, simil- inente disposti, ed hanno per loro comune centro di similitudine il loro vertice comune O, epperciò la proiezione sul piano 40 del luogo dei punti come M, ossia della linea di stringimento del conoide $, è la retta O7m, e la linea di stringimento stessa è una sezione fatta nel conoide S da un piano passante per l’asse della superficie. 5. Il piano della linea di stringimento del conoide S ora iano divide per metà le corde di questa superficie che sono perpendicolari DI GIUSEPPE BRUNO. 319 al piano direttore B0X. Infatti ritenendo OX, 04, OB (fig. 1°) per rappresentare l’ asse e le due generatrici che passano pel vertice di S, sia Om la traccia del piano della sua linea di stringimento sul piano BO4, e P vn punto qualunque della superficie conoide. Per P conducasi la generatrice di S° parallela al piano BOX, e sia dessa 7 K la quale incontri 04 in Z# e la linea di stringimento nel punto M avente 72 per sua proiezione ortogonale sul piano 80 4. Condotta per M la generatrice ME del conoide che è parallela al piano 40X ed incontra 05 in £, la retta mÉ£ risulta parallela ad 04, e la ZE perpendicolare ad 0.8. Se ora da P si conduce 2/V parallela ad E 7, essa è perpendicolare al piano BOX, ed incontra la EM in un punto N il quale appartiene perciò alla superficie. S. Essendo. E /7 diviso per metà dalla retta 07m, la PN è pure divisa per metà dal piano XO7m, il che è quanto volevasi dimostrare. 6. La linea di stringimento del conoide $ ha un secondo ramo, che gode delle stesse proprietà di quello fin qui considerato, ed è il luogo geometrico dei piedi delle comuni perpendicolari a due generatrici con- secutive del conoide S parallele al piano direttore 40 X. La determinazione del piano di questo secondo ramo risulta chiara- mente da quanto si è detto: noteremo solamente ancora che, se i piani direttori di S fossero ortogonali fra loro, la linea di stringimento della superficie si ridurrebbe al sistema delle due rette 0.4, O. 7. Consideriamo una generatrice qualunque EM (fig. 1°) del co- noide S parallela al piano direttore 40: sia M il punto che la detta generatrice ha comune col ramo della linea di stringimento del conoide che corrisponde al piano direttore 58 0X, ed /V un altro, punto qua- lunque della stessa generatrice E M. Condotte per M ed /V le generatrici MH, NF del conoide S che sono parallele al piano BOX ed incontrano O 4 in 27 ed / rispettiva- mente, dico che l'angolo EMH è minore dell'angolo EVI. Infatti, il piano 7Mm è perpendicolare ad E MZ: la retta EM si proietta quindi sul piano MHm ortogonalmente secondo 7#M, mentre la proiezione ortogonale di NZ sullo stesso piano è una retta che passa per P e non coincide con la detta 7#PM. L'angolo che fa la ora nomi- nata proiezione di MF con ME è dunque maggiore dell’angolo EM 7, e siccome #N è paralella al piano 7Mm, l’angolo EMH è minore di ENF. i 320 ALCUNE PROPOSIZIONI SULLA SUPERFICIE CONOIDE ECC. Sussiste perciò il teorema seguente: Fra gli angoli, che una generatrice rettilinea del conoide $ fa con le differenti generatrici dello stesso conoide che appartengono al sistema opposto, è minimo quello il cui vertice cade sul ramo della linea di stringimento che corrisponde alle generatrici di questo sistema. Si intende quivi per angolo di due generatrici il loro angolo acuto. 8. Il valore dell'angolo minimo che una generatrice della superficie $S fa colle differenti generatrici del sistema opposto varia col variare la distanza di quella generatrice al piano direttore cui essa è parallela, e scema col crescere di quella distanza. Così se E'M' sia una generatrice rettilinea di S dello stesso sistema che la £47, ma meno distante di questa dal piano direttore 40X, il minimo degli angoli che la £'/M' fa colle generatrici di S che sono parallele al piano BOX è più grande del minimo degli angoli che fa EM colle dette generatrici parallele al piano BOX. Infatti sieno MZ ed M'/ le generatrici parallele al piano diret- tore BOX, le quali fanno angolo minimo rispettivamente con EM ed E'M'. Dai punti M ed M', i quali, come fu dimostrato , apparten- gono alla linea di stringimento del conoide, conduciamo Mm ed M'm' parallele all’asse OX, e consideriamo i due triedri che hanno i vertici l'uno in M l’altro in M' e per spigoli rispettivamente ME, MH, Mm e M'E', M'F, M'm'. Questi triedri hanno uguali i diedri MH, M'F perchè retti, ed uguali ancora rispettivamente i diedri Mm, M'm': d'altronde l’ angolo piano EMm del primo di essi è manifestamente minore dell'angolo piano corrispondente £'M'm' dell'altro: sarà dunque l'angolo EMZ minore dell'angolo £'M', come volevasi provare. Il valore dell'angolo minimo di cui si discorre varia dunque fra un massimo uguale a BO 4, cui raggiunge quando £ 47 si confonde con 04, e zero a cui sempre più si accosta a misura che EM più s’ allontana dal piano 40 X. i 9. Con una facile costruzione si può determinare quella, fra le gene- ratrici parallele al piano direttore 40 del conoide S, per la quale il minimo degli angoli da essa fatti colle generatrici dello stesso conoide parallele al piano BOX è uguale ad un angolo dato. Prendasi infatti (fig. 1°) il punto / arbitrariamente sulla genera- trice 04, e tirisi da # la F°£' perpendicolare in £' sopra l’altra gene- ratrice 03 che passa pel vertice O della superficie: sieno FM' la DI GIUSEPPE BRUNO. 32Ì generatrice parallela al piano 8 0X condotta per , ed E'M' la gene- ratrice di sistema opposto alla precedente, e condotta per £': queste due generatrici si incontrino nel punto ' il quale abbia m' per sua proiezione ortogonale sul piano B04. Sopra E' si costruisca nel piano BO 4 il triangolo £' Fg rettangolo in /, ed il cui angolo in gq uguaglia l'angolo dato. Nello stesso piano sopra /°m' si formino i trian- goli #m'M,, Fm'q' rettangoli in m', il primo dei quali abbia il ca- teto M,m' uguale ad M'm', il secondo abbia l’ipotenusa 9’ uguale ad Mq. Da g' si tiri g'v parallela ad 08 fino ad incontrare in v la MM, e da v si abbassi vr perpendicolare in n ad Fm". Condotta per n la retta Er parallela ad 04, la quale incontra 08 in E, essa è la proiezione ortogonale sul piano B 04 della generatrice cercata. i Invero, Om' è la proiezione sul piano 5804 del ramo della linea di stringimento del conoide S che corrisponde alle generatrici del me- desimo parallele al piano BOX. Sia m il punto d’incontro di Er con Om', MX il punto di S il quale si proietta ortogonalmente in m sul piano 5804, MZ la gene- ratrice del conoide che passa per M ed è parallela al piano B0X, la quale taglia 04 nel punto H. L'angolo minimo fatto da EM colle differenti generatrici della superficie che appartengono al sistema opposto è uguale ad EM, epperciò sarà dimostrato che è uguale all’angolo dato, se si fa vedere che i triangoli EM, E'Fq sono simili e che-i lati EM, E'F dei medesimi sono omologhi. Ora, se si faccia rotare il trapezio Fg'vn attorno Fr finchè il suo piano diventi perpendicolare a BOA, e si faccia rotare il triangolo £"g attorno £'/ finchè il suo lato Fg venga a coincidere colla posizione presa dal lato #9 del trapezio suddetto, il lato £'g del triangolo £'g si dispone parallelo al lato £ M del triangolo EM, e siccome i detti triangoli hanno inoltre paralleli fra loro i lati £'F, E, e sono d'altronde rettangoli, essi sono simili, e l'angolo EMH uguale perciò all'angolo dato. 10. Data una generatrice del conoide S, il problema di trovare una generatrice del sistema opposto, la quale faccia colla data un angolo dato, si riduce alla risoluzione d’un angolo triedro, e quindi non vi ci fermiamo sopra. Noteremo però che il luogo geometrico dei punti di S, pei quali Serie II. Tom. XXIV. îR 322 ALCUNE PROPOSIZIONI SULLA SUPERFICIE CONOIDE ECC. le generatrici che vi passano sono ortogonali fra loro, è una sezione fatta nella superficie da un piano perpendicolare al suo asse. Infatti rappresentiamo ancora con O il vertice della superficie (fig. 2°) con 04, OB le generatrici di essa che concorrono in O e con OX l’asse della medesima; sieno M ed / due punti della superficie le cui proiezioni ortogonali sul piano BO4 cadono in m ed n. Le generatrici ME, M/° che passano per M taglino le 04, 05 rispettivamente nei punti E ed Y, e le generatrici MG, IV condotte per /V incontrino rispettivamente le stesse 04, 05 nei punti G ed Z. Tirate le EF, GI, i triangoli mnEY, nGH, per essere l'angolo in m del primo uguale all’angolo in » del secondo, somministrano manifestamente l'uguaglianza (1) EF-mE —mF° __HG-nH—nG SUI i Fm.mE mi Hn.nG ) Sia P il punto di incontro di EM con HM, il quale si proietta nel punto p d’intersezione di Em con HYn: i triangoli simili 7Vr, HPp; PpE, MmE danno le proporzioni 1 HrEiHipi Nn ep piElmeE (Pip: Mim, dalle quali ricavasi che è Nn _Hn.pE _Hn.nG Mm Hp.mE Fm.mE L'eguaglianza (1) può dunque scriversi nel modo seguente: E° mE ml HGi-aHn6° Mm na Nn 7 od ancora EF°—ME'— MF +3Mm HG NH NG +>Na' Mm gra Nn î 7 “0, finalmente EF ME MF RCS SNIHRESNI O AO RI 10 Mine E ra mM Nn +2 Nn Ora, se si suppone che gli angoli EMY, Z4/VG sieno retti, dal- l'ultima forma che abbiamo dato alla uguaglianza precedente risulta, DI GIUSEPPE BRUNO. 323 che Mm è uguale ad 7; supponendo invece che uno solo degli angoli savraccennato sia retto, e che si abbia inoltre Mm=Nr, risulta dall’uguaglianza' stessa che l’altro degli angoli ora detti è pure retto. Le sezioni fatte nel conoide S da un piano parallelo a due gene- ratrici del medesimo essendo iperboli , i cui assintoti sono paralleli a queste generatrici, è facile il vedere che le proposizioni dimostrate in questo numero e nei tre precedenti si applicano alla risoluzione del problema di determinare un piano il quale tagli il conoide $ secondo una iperbole data. 1. Riteniamo i dati e le notazioni della fig. 2°, supponendo però che in essa i punti M ed IV rappresentino due punti qualunque del conoide S. Il piano EMF è tangente in M a questa superficie, ed il piano GN lo tocca in N. Chiamati w e v gli angoli che gli ora detti due piani fanno rispet- tivamente col piano BO 4, dico che si avrà la proporzione seguente : EF :tang.p :: GH : tang.vy Difatti si abbassino dai punti nm ed r le mr, ns perpendicolari la prima in » ad EY, la seconda in s a GI. Si ha manifestamente mrtangp=Mm ; nstang.»=/Nn e poichè fu dimostrato precedentemente, che la ragione di Mm ad Nn è uguale a quella di Fm.mE ad HYn.nG, ossia a quella dei trian- goli EmF, HnG, e questi triangoli hanno per loro altezze rispetti- vamente mr ed ns, le basi EF e GI dei triangoli stessi stanno fra loro come tang.f. a tang.v. 12. Quando una superficie è illuminata da raggi paralleli fra loro, l’intensità dell’ illuminazione in un punto qualunque di essa è propor- zionale al seno dell'angolo che fa il piano tangente in quel punto alla superficie colla direzione dei raggi luminosi, e chiamansi linee di uguale illuminazione della superficie i luoghi geometrici dei punti della medesima, nei quali il piano tangente fa uno stesso angolo colla dire- zione della luce. Se dunque si supponga il conoide S' illuminato’ da raggi paralleli al suo asse, e che M ed sieno due punti appartenenti ad una stessa linea di uguale illuminazione del conoide, dovrà essere EY=GMH; e viceversa se è vera questa uguaglianza, i punti M ed I della super ficie sono ugualmente illuminati, 324 ALCUNE PROPOSIZIONI SULLA SUPERFICIE GONOIDE ECC. Segue da ciò che le proiezioni sul piano BO 4 delle linee d'uguale illuminazione del conoide sono ellissi, aventi il centro in O, e gli assi diretti secondo le bissettrici degli angoli formati dalle rette 0.4, 05. Le lunghezze degli assi di una qualunque di queste ellissi, di quella , per esempio che passa pel punto m, si ottengono nel modo seguente. Condotte da m le nm É, m £ rispettivamente parallele ad 08 ed 0.4, si tiri la diagonale E del parallelogramma OEmF. Si formino poi ‘sopra 04 ed O 5, o sopra 04 ed il prolungamento di 0.58 come lati, due rombi, in ciascuno dei quali la diagonale che unisce i vertici adia- centi ad O sia lunga quanto E; le altre diagonali di questi rombi, ossia le diagonali che partono dal loro vertice comune O, rappresentano non solo in posizione ma anche in grandezza i semiassi della ellisse di cui sì tratta. Il rapporto dei semiassi ora trovati è uguale al quadrato della cotangente della metà dell'angolo BO4: perciò le ellissi proiezioni sul piano BO 4 delle differenti linee d’uguale illuminazione del conoide $, oltre ad essere concentriche ed avere î loro assi rispettivamente coinci- denti in direzione, sono tutte simili fra di loro. 15. Le ellissi predette si riducono a circonferenze concentriche in O quando i piani direttori del conoide sono ortogonali. Qualunque poi sia l'angolo formato dai piani direttori del conoide » la costruzione d’una qualunque delle ellissi sunnominate, di quella per esempio che passa pel punto n, è facilissima. Infatti se si tira da 7 una parallela ad O 4, e si considera il punto m, di essa, il quale dista quanto 72 dalla retta OB, la distanza di m, da O è eguale ad EF. Facendo per ogni punto della proiezione della linea d’uguale illumi- nazione che passa per 72 una costruzione analoga a quella che si è fatta pel punto 72, il luogo dei punti come m, è una circonferenza. E quindi per costrurre la proiezione suddetta basta descrivere dal centro O e con raggio uguale ad E £ una circonferenza nel piano BO A, e condurre da ogni punto n, di questa circonferenza una parallela ad OA terminata in un punto 7 tale che n,m sia divisa per metà da OB: il luogo dei punti m è Vellisse a costruirsi. Sia g, il punto della circonferenza sunnominata, nel quale la tan- gente ad essa circonferenza è parallela ad O 4, la tangente alla ellisse della quale parliamo nel punto g di essa che corrisponde a 9g, è pure. DI GIUSEPPE BRUNO. 325 parallela ad 04, epperciò Og è il diametro della detta ellisse, che è coniugato del diametro cadente secondo 04: ora per essere gg, diviso per metà da 08, la retta Og è la traccia sul piano BO4 del piano del ramo della linea di stringimento del conoide $, che corrisponde alle generatrici del medesimo, che sono parallele al piano direttore 40X: similmente 0. è, nella ellisse della quale si tratta, diametro coniugato di quello che è disposto secondo la retta proiezione sul piano 804 del ramo della linea di stringimento del conoide S, considerato come: luogo delle sue generatrici parallele al piano BOX. lai RI N e, È e »’ DLE di > - br TU I x i SE ‘ - a n RE r È, i] A n LI i i ha È PERITI o) VeagRo Vada 23 crudi ANTIAITO Bea np i PAVIA Al DA ario gderilto A rilof visti Sd $ de i Quo milita: " n sa i ] ì, dui si i ) D isa dia d: rà oe Pao PA VITA: 4 É op Di PT N QI bm NO" agi i Me moana af a w ian ee'Er° CE È) TN ipldorartni e oblanat (ab: dsaritzna ab: ai pia) Ma RON ci i lt ch hi) too tarli Pas i; Tino cata ae visi bla br detto; iltugno O: sc DR \b get Inaar p4SOIOL Rie; chngiaa ‘dt ade na $ ae ai È LATI I 6 Mii oa GIRO Coli Rea: 3 ‘ie Ronn una cl Ei e EGLI I basi arti pu Mona: eat) ui Cali x» USETITÌ Bani *, LI » > È è, o : Ti ) a À S x È, ne - - a D n À f Dn Ig (Tai) ERI LALA: MLA X A È a “ si dt . h ? Îi ni La hà pri 4 N ante RETI SUSE La) Ù da Ù ba (NNICOA AE L Li NR : ARI ì VE » % a ‘ «74, î ì VASO a DA #) x ì, ie ad VT) s Ù Ea la giur ib Oi N cortile È n deg Dato lan DI gin Didi: dito Spr sii DM | ‘da, ul {ele frana Fotone si i di i Ma ; gIRE' LISI" Re di ; È. A s 4 Kia Eg Na Meda Lea dira: ia: De Artio, ME è RI IDA, | Ti Caron agi bit PIT De ine Met cdr Ei pino LENTA Mbifp,y i #gbag, ui i i È prg, N Sete OR “GEO, og Sai Kad » “albe li Do a } NOTA SULLA SUPERFICIE CONOIDE LA DIRETTRICE CURVILINEA DELLA QUALE È UNA LINEA PIANA DI 2° GRADO ED INTERSECA LA DIRETTRICE RETTILINEA DEL CONOIDE STESSO DEL PROFESSORE GIUSEPPE BRUNO —_m Approvata in seduta del 18 marzo 1866. —se—_ 1. ID noto che l'intersezione d'un elicoide sghembo a piano direttore con un cilindro di rivoluzione di raggio qualunque, il quale abbia per una sua generatrice la direttrice rettilinea del conoide, è un'elica, ossia una linea della stessa natura che la direttrice curvilinea dell’elicoide. Mi propongo di provare che una proprietà affatto analoga appartiene ad altri conoidì. Sia 4 una linea qualunque di 2° grado, e D una retta la quale tagli la linea 4 in un punto qualunque O senza essere contenuta nel piano di essa. Il conoide £, che ha per direttrici le linee- 4 e D ed un piano qua- lunque ? per piano direttore, è tagliato da un cilindro qualunque €, il quale abbia D per una sua generatrice, e la cui traccia sul piano ? sia simile e similmente disposta alla proiezione di 4 sul detto piano ? fatta parallelamente alla retta D, secondo una linea piana epperò della stessa natura di A. Per dimostrare tal verità, prendo il punto O per origine delle coor- dinate, la retta D per asse delle 2, ed il piano delle x ed y parallelo 328 NOTA SULLA SUPERFICIE CONOIDE ECC. al piano P. L’intersezione del piano delle x ed y così determinato col piano della linea 4 sia l'asse delle y, e finalmente l’asse delle x sia scelto in modo che il sistema degli assi delle x ed y sia parallelo ad un sistema di diametri coniugati della proiezione di 4 sul piano delle x ed y. Con tale disposizione di assi delle coordinate le equazioni della linea 4 sono: ay?+cx*+dy+ex=o0, z+hax=0, nelle quali le lettere «, c, 4, e, & rappresentano costanti date. Con noti procedimenti facilmente si trova che il conoide X è rap- presentato dalla seguente equazione : (1) sese z.(ay'+cx°)—ha(dy+teax)=o . Il cilindro C ha d'altronde per equazione : (a ay+cx'+d'y+c'x=o0 , nella quale le lettere d' ed e' denotano parametri, a cui si possono attribuire valori arbitrari qualunque. E poichè l'intersezione di X con C è TIRprcscdiani dal sistema delle equazioni (1) e (2), per dimostrare il teorema enunciato bisogna e basta che si possa dedurre dalle dette due equazioni una terza, la quale sia di primo grado in x, y e 2. i Ad ottenere tale scopo si rappresentino con « e { due costanti indeterminate e si consideri l'equazione (ele. (ce +By).(ay'+ca°+d'y+e'x)=o , la quale rappresenta il sistema composto del ciindro C e dun piano Q passante per l’asse delle 2. Sottraendo membro a membro la (3) dalla (1) si ha: (oa (—-aea—LBy).(ay°+cx°) > —|d'er+('B+d'a+hd).xy+(e'u+he).x°|]=o0. Determinando « e { in guisa che sia d'8__e'a+he cca 2 a c e f+d'a+hd=o , I (S) {o} DI GIUSEPPE BRUNO. ossia facendo aee'+cdd' a=— h So asse an PEREZ 2 ed'— e'd B=ah. e 5 ae'’4+cd la (4) si trasforma nella (ae'’+cd'°).2+h.(ace'+cdd').x (5)... (ayr°+ex°) | } lE O) —ah.(ed'—ed).y—-d'h.(ed'-—e'd) Questa equazione deve essere verificata per tutti i punti che il conoide £ ha comuni col cilindro € o col piano Q: e siccome queste due ultime superficie si proiettano sul piano delle x ed y secondo linee le cui equazioni sono per l’una la (2), per Valtra ax+y=0 , è chiaro che per l’intersezione di esse superficie con ® non sarà gene- ralmente nullo il primo fattore del 1° membro della (5), epperciò le intersezioni accennate giaceranno nel piano la cui equazione è (Cl atene: z.(ae'"+cd'°) +hx.(aee'+cdd')—ah.(ed'-e'd).y-d'h.(ed'—e'd)=o0 , il qual piano noi diremo AR. 2. Quando fra d' ed e' esiste la relazione ae'"+cd'=0 3 non si può fare l’analisi indicata nel numero precedente, perchè le equazioni determinatrici di x e { diventano in generale contradditorie. Ma in tal caso è facile il riconoscere, che il cilindro € si riduce a due piani paralleli alla retta D, dei quali uno è assintotico al conoide £, e l’altro taglia il conoide stesso secondo una linea di secondo grado ; cosicchè anche in questo caso è vera la proposizione enunciata. ò. Cercando le coordinate del centro della intersezione del cilindro C e del conoide X, la quale intersezione è rappresentata dal sistema delle equazioni (2) e (6), si trova che l’ordinata z, parallela all’asse delle del detto centro è data dall’equazione Serie II. Tom. XXIV. 4S 330 NOTA SULLA SUPERFICIE CONOIDE ECC. he TaioTo 2A il valore di z, essendo indipendente da d' e da e', si conchiude che i centri delle linee d’intersezione di 2 coi differenti cilindri rappresentati dall’equazione (2), nella quale ai parametri d' ed e' si dieno succes- sivamente tutti i valori possibili, sono collocati sopra uno stesso piano parallelo al piano 2. 4. Una superficie sghemba di terzo grado è in generale tagliata da un suo piano tangente qualunque secondo un sistema composto della generatrice rettilinea che passa pel punto di contatto, e di una linea di 2° grado. Questa proprietà appartiene dunque al conoide £; per esso conoide inoltre avviene che , proiettando le curve di 2° grado sue sezioni coi differenti piani ad esso tangenti sul piano P e parallelamente a D, si hanno linee tutte simili e similmente disposte fra di loro. Ed infatti l'intersezione dei piani che abbiamo chiamati Q ed È giacendo sul conoide ® è una generatrice di questa superficie , epperò il piano R è tangente ad essi : dippiù attribuendo ai parametri d' ed e', che contiene l’equazione (6) del piano , valori convenienti, si può fare in modo che l’ora detta equazione rappresenti il piano tangente a £ in un punto dato qualunque di questa superficie ; e siccome la proiezione sul piano delle x ed y della intersezione di % col piano È ha per equazione la (2), risulta provata la proposizione. 5. Consideriamo il conoide X', che ha per direttrice curvilinea una parabola 4' e per direttrice rettilinea D' una parallela all’asse di 4°. Questo conoide è manifestamente tagliato secondo una parabola da un piano qualunque parallelo al piano di 4': ma potendosi riguardare il conoide 2" come il caso particolare del conoide X, in cui il punto O, nel quale si tagliano le sue due direttrici, si porta ad una distanza infinita, la proiezione della direttrice 4' sul piano direttore P essendo in questo caso una retta, le intersezioni di X' con qualunque dei suoi piani tangenti sono parabole aventi ciascuna il suo asse parallelo al piano della direttrice 4': e similmente qualunque cilindro parabolico , del quale la retta D' sia una generatrice e la cui parabola direttrice abbia il suo asse parallelo al piano di 4', taglia il conoide X' secondo una parabola il piano della quale è tangente al.conoide. 6. Per dedurre l’equazione (5) dalle (1) e (2) fu introdotto nel primo DI GIUSEPPE BRUNO. 331 membro di quest'ultima il fattore estraneo «x +fy, unicamente perchè tal metodo meglio si presta a dimostrare la proposizione , della quale ci siamo occupati nel n° 4. Altrimenti, osservando che, qualunque sieno le quantità rappresentate dalle lettere d' ed e', l'equazione (1) è identica colla seguente : hd'(ed'—e'd Si n (n) tn) LU LA Li / A (aee'+cdd').x —a.(ed'—e'd).y ACI e e rar op ei 5 e sostituendo in questa, al fattore d'y+e'x del suo secondo termine, il suo valore —(ay°+cx°) ricavato dalla (2), si ha immediata- mente la (5). LÈ; Î LI } | UGO TE Ance Da mia casate Ml ESSA SPIRITO T:SDIT9T gni pros pettini i dleng sile £ anioisimogotg nf atriizoatià a gag. ia cilgos % dii sSpanianp dd oBas Wigan oe pu hi loa: stasi 2 ARR Da \ fi nana bid ( L) atto insspo'i PA hai erastol alte pren \ H Ù 8 Matto 8 MI nf ARE, 15 vt la UTRZIEI PROTO Lat sù ta 1A i ti È Arte data | LU 14 Gi NL. dro tigssa 0, (ro d: n ul) Lai Seth 2 | » ad 0 Qu 5 n n DI DE + IATA ESA Res PRC), x Ì ge VIGNA VET Tie è bal ++ n nf : "tan î TAC, { i K % 4 Ù Mi 5 ‘ ì DAR wa Ù MA Lal F N tia îi è ti 1 pie TY] ab.) tl te.) Chi pe ag di t; pi : 4 UP bb Hi bed, SINCE, d S. >; à Need SII: Torino, ass. di Sc. Fia. e Mo. Serie 2° Fom. XXV. 333 NUOVE OSSERVAZIONI GEOLOGICHE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI DEL COMMENDATORE ANGELO SISMONDA PROFESSORE DI MINERALOGIA NELLA REGIA UNIVERSITÀ DI TORINO _—proo Letta ed approvata nell’adunanza del 5 dicembre 4866. _r—— Ne nostri lavori geologici già indicammo quali sedimenti metamorfosati la maggior parte delle rocce cristalline stratificate , gneis, micascisti, talcoscisti ecc. (1), del dorso alpino acquapendente in Piemonte, e ciò per la ragione, che qua e là sono tra esse intercalate rocce di evidente costituzione detritica, anzi in molti luoghi le due sorta di rocce alter- nano insieme. Questo è uno dei fatti, i quali c’ indussero ad assimilarle (1) La Carta geologica delle antiche Provincie da noi pubblicata è eseguita secondo questo principio. L’idea dell’esistenza di micascisti, di gneis ecc., secondari, è chiaramente espressa dal De Saussure nella classica sua opera /oyages dans les Alpes. AI paragr. 846 si legge: « Si l'on suit » laréte du Col (de la Seigne) en marchant au nord-cuest du còté de la chaîne primitive, on » rencontre des banes de roches quartzeuses et micacées mélées de bancs de quartz pur. Tous » ces banes sont inclinés de 40 ou 45 degrés en s’élevant an nord-ouest contre les primitives, et » ces mémes bancs se prolongent du còté du Chapiu. Plus loin, dans la mème direction, au delà » de ces roches quartzeuses, on retrouve des ardoises siluées de mème, à cela près qu’elles sont » plus inclinées: ensuite les mèmes roches quarlzeuses reviennent, et sont encore suivies par des » ardoises; alternatives bien remarquables, comme je l’ai déjà dit, et qui prouvent qu’il ne faut » pas tant se presser de classer au nombre des rocs primitifs ceux qui sont composés de quartz » et de mica, ou plutòt que la nature n’a point cessé tout-à-coup de produire des montagnes » primitives; mais qu’après avoir commencé à en produire du genre de celles que nous nommons » secondaires, elle est revenue pendant quelque temps et par alternalives à en produire de celles » que nous appelons primitives: changements bien faciles à expliquer par les. changements des » courans qui charrioient les élements de ces differens genres de pierres ». 334 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI nella età geologica alle rocce del pendio opposto, ove si osservano pur anche le medesime rocce cristalline associate a rocce detritiche. Noi fummo condotti a quel giudizio nonostante che le rocce nelle due contrade non fossero di composizione identica, ed in Savoia inoltre racchiudessero fossili organici, mentre nessuno ne fosse stato trovato nelle Alpi piemontesi; stantechè quest’ultima differenza a nostro avviso dipende dal grado diverso di metamorfosi dalle rocce stesse raggiunto. I fossili trovati in Savoia consistono in impronte di vegetali dell’epoca carbonifera e in resti di animali proprii al liasse. Il BrAumonr è stato il primo ad avvertire l’ intima connessione delle rocce contenenti le due sorta di fossili organici. Nel giudicarne l'età geologica, egli credette dare la preferenza ai resti animali (1), la qual cosa porse quindi origine ad animate discussioni, le quali non furono infruttuose , poichè contri- buirono moltissimo a far meglio conoscere la costituzione dei monti dell’alta Savoia. Avendo noi avuto la fortuna di accompagnare il Beaumont nelle sue escursioni alpine, potemmo convincerci co’nostri proprii occhi non sussistervi ragioni per scompartire, come fanno distinti geologi , quelle rocce fossilifere in diverse formazioni geologiche. Ciò non pertanto le contestazioni insorte avendoci determinato a rivisitare parecchie di quelle località, nulla ci capitò di osservarvi da consigliarci l'abbandono dell'opinione emessa dal BrAumonr sull’età di quelle rocce, opinione già stata da noi altre volte commentata e sostenuta (2). Ora potrebbe forse parere inopportuno il ritornare su tale argomento, tanto più che va di continuo scemando il numero degli oppositori all'opinione del BrauMONT; ma se pur torniamo a tenerne discorso, per altro nol faremo, se non per esporre i fatti osservati nelle escursioni eseguite nella Tarantasia e nella Moriana in questi ultimi anni, e più particolarmente in quella fattavi in sul finire dell’estate 1865 in compagnia dei distinti geologi i sigg. Lory, Professore di geologia nella facoltà di Grenoble, abbate VALLET, professore nel Gran Seminario di Chambéry, e Cav. Avvocato PiLLEr, Socio e Bibliotecario Archivista dell’Imperiale Accademia di Savoia. Non (41) Il Cav. MontAGNA, Maggiore nel Corpo d’Artiglieria, nella sua Opera Gererazione della terra, e nel suo Opuscolo sugli Esseri delle rocce azoiche nel caso di coesistenza nei medesimi strati di spoglie di animali e di vestigie di piante di differente epoca geologica, accorda maggiore impor- tanza a queste ultime; quindi le preferisce per classificare le rocce nella serie dei terreni. (2) Vedi Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, serie 2°, tom. XII e seguenti; e Comptes rendus de V Académie des Sciences de Paris, tom. XLV e XL_X. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 335 narreremo cose nuove, perchè non è facile rinvenirne sopra una questione, che occupò la mente e scosse l’attività dei più distinti geologi dell'età nostra; ma se quanto racconteremo non avrà il merito della novità, por- tiamo credenza che servirà almeno a viemmeglio dimostrare come tutte quelle rocce fossilifere facciano parte integrante di una sola e medesima formazione geologica. Il Beaumont le divide in tre gruppi (1), che per ragione dei fossili animali ascrive collettivamente al terreno liassico. Per tanto un tal terreno avrebbe nelle Alpi una grossezza, di cui non si conosce finora altro esempio; poichè, secondo asserisce lo stesso. BeAUMONT, il gruppo medio (composto del nostro calcare di Villette) non conta meno di 2000 metri di grossezza (2). Noi poi abbiamo in più luoghi riconosciuto una leggera discordanza di stratificazione tra un gruppo e l’altro (3), ed inoltre dal modo in cui è fatta la ripartizione dei fossili, ben si comprende, che i tre gruppi di rocce non si formarono in con- dizioni perfettamente identiche. In fatti il gruppo inferiore contiene alcune delle numerose specie di animali esistenti nel gruppo medio , mentre in questo mancano affatto le impronte dei vegetali abbondan- tissime nel gruppo inferiore, ed abbastanza copiose nel superiore, nel quale per contro non furono fin qui rinvenute vestigie di animali. I tre gruppi non essendo identici, ma semplicemente affini tra loro, consi- derammo col Briumonr liassico il gruppo inferiore, ma gli altri due poi, il medio cioè e il superiore, li dicemmo rappresentanti il primo l’oolite, e il secondo le argille osfordiane. Non taceremo infine di avere osservato in più siti, e particolarmente al monte Tabor e ne'suci dintorni, un calcare cristallino, nero venato di giallo, scistoso, discordantemente adagiato sulle rocce del gruppo superiore. In esso non ravvisammo nessuna analogia, nè similitudine coi calcari alpini posteriori ai giuresi, per cui pensammo possa essere l'equivalente degli ultimi depositati a tale epoca, cioè del calcare kemeridiano. Ma su ciò sempre avemmo, e conserviamo tuttora, i nostri dubbi (4). (1) Nel corso del presente scrilto chiamiamo gruppo l’assembramento di rocce denominato dal BEAUMONT etage nella Note sur un gisement de vegetaux fossiles; Annales des Sciences naturelles, tom. XV; e dal BROCHANT assise. (2) Vedi Arrales dis Sciences naturelles, tom. XV, pag. 376. (3) La discordanza di stralificazione qui avvertita è eziandio stata notata dal sig. Scipione GrAs. Vedi Bulletin de la Socicté Géologique de France, 2° série, tom I, Congrès de Chambéry. (4) Vedi Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, 2° serie, tom. XII. 336 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI La divisione in tre gruppi di quella massa enorme di rocce è cosa, che da se stessa facilmente si svela. E ciò conobbero tutti coloro, i quali si occuparono della geologia di quella parte delle Alpi. Qualunque fosse il loro concetto su quei terreni, e sulla loro età geologica, si trovarono tutti del medesimo avviso intorno al numero ed alla limita- zione dei gruppi. Il sig. Scipione Gras, ingegnere delle miniere in Francia, autore di parecchi interessanti lavori sulle Alpi, chiamò i suoi gruppi con nomi differenti da quelli usati da noi; ma in sostanza le sue divi- sioni, come dichiara egli medesimo, sono perfettamente d’accordo colle nostre (1). Nel 1854 il Braumonr lesse all'Accademia delle Scienze di Parigi il sunto di un lavoro del Rozer, nel quale l’autore separa dal liasse la massa calcare e ne fa un gruppo, che chiama calcare giurese medio (2). Questo calcare, da quanto si può raccogliere in quel sunto, è il calcare di Villette, che noi nel sistema seguito supponemmo essere il rappresentante del terreno oolitico. I signori Favre e Lory, occupatisi anch'essi della geologia dei monti dell’alta Savoia, ne divisero eziandio le rocce stratificate in tre gruppi, ai quali fissarono i medesimi confini loro assegnati da tutti coloro, che li precedettero in quello studio. Se non che, essi credono due dei tre gruppi, il medio e il superiore, più antichi del liasse. Uno dei due gruppi, il medio, lo vogliono contemporaneo del triasse, l’altro, il supe- riore, del terreno carbonifero. Si comprende, ch’ essi collochino in quest’ultimo terreno le rocce, che ne contengono i fossili, ma non si vede la ragione per cui abbiano ascritto al terreno triassico il calcare e l’unitovi gesso, mentre nè in essi, nè nelle rocce concomitanti si sono finora rinvenuti resti organici di tal tempo. Non isfuggiva un tal fatto all’oculatezza di que’ distinti geologi, come loro non isfuggirono nè l’intercalazione degli scisti con impronte di vegetali carboniferi nel calcare con fossili liassici (3), nè l’alternanza di queste due sorta di rocce tra loro; per le quali cose si appalesa come esse appartengano al medesimo periodo geologico. Ma ciò appunto non credendo il Favre (1) Vedi Bulletin de la Socicté Géologique de France, 2° série, tom. I, pag. 707; e Annales des mines, serie, tom. V, pag. 475. (2) Vedi Comptes rendus de l Academie des Sciences de Paris, tom. XXXIX, pag. 473. Il lavoro annunziatovi non mi consta che siasi pubblicato, (3) Vedi Motice sur un gisement de végétaua fossiles et de bélemnites, ete., par M. ÉLIE de BEAUMONT Annales des Sciences naturelles, tom. XIV, pag. 113. 5 DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 337 e il Lory di poter acconsentire, idearono e sostennero molto argutamente, che siffatte unioni delle rocce sono semplicemente apparenti, che sono illusioni procacciate dal simultaneo ripiegamento dell’ intiero sistema di rocce. E siccome non vi restano tracce di codeste ripiegature, essi suppongono la porzione curvata corrosa dalla lunghissima e persistente azione degli agenti atmosferici. Ma se tal cosa fosse pur anche avvenuta, la ripiegatura delle rocce, com'essi l’intendono, si paleserebbe tuttavia mediante l’alternanza tra i tre gruppi di rocce. Ora simile alternanza non esiste di certo. I tre gruppi di rocce corrono distinti l’uno dall'altro in tutta la catena alpina, conservando il medesimo ordinamento, cioè si vede costantemente il gruppo calcare con fossili liassici ed alcuni oolitici intercalato nei due altri, dove si trovano le impronte di piante carbonifere. Non intendiamo però con questo sostenere, che non vi sieno colà rocce piegate, increspate, curvate, ma quei fatti sono accidenti locali, i quali non si estendono da un gruppo all’altro (v. tav. 1). A viemmeglio provare, che le rocce con impronte di vegetali car- boniferi, inferiori alla gran massa calcare, costituiscono un gruppo particolare ; che le rocce contenenti similmente impronte di vegetali di quella medesima epoca, sovrapposte alla massa calcare, ne costituiscono parimente un altro, distinto dal primo; e che i due gruppi infine sono indipendenti tra loro, basta, per non dir d’altre prove, fare alcuni con- fronti fra le rocce componenti i detti due gruppi. In verità dal lato della composizione il gruppo inferiore (liasse) consta di scisti argillosi neri (ardesia) e di calcare cristallino, nero, scistoso; il superiore (argille osfordiane) consta in cambio di conglomerati quarzosi, di psammite, di gneis, di quarzite, di calcare cristallino e di scisto argilloso con grossi banchi di antracite; dal lato dei fossili il gruppo inferiore con- tiene impronte di piante carbonifere e resti di animali liassici : il superiore contiene solamente le impronte delle piante carbonifere. Di più il gruppo inferiore contiene specie di piante mancanti al gruppo superiore, e il numero complessivo di queste specie nel gruppo inferiore supera d’assai quello del gruppo superiore; in questo poi predominano le impronte dei tronchi e dei fusti, in quello invece sovrabbondano le impronte delle foglie (1). Inoltre nel gruppo superiore l’antracite forma grossi banchi, (1) Queste differenze della Flora nei due gruppi sono state avverlile ed apprezzate da Adolfo BroncniarT. Vedi Arrales des Sciences naturelles, tom. XV, la Nota inserita alla pag. 375. Serie II. Tom. XXIV. 27 338 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI nell’inferiore costituisce scarsi e sottili straticelli, che non valgono la spesa di una scavazione. Havvi in conseguenza una differenza abbastanza grande e d’assai notevole importanza tra i due gruppi, perchè non si possa neanche supporre, che trattisi di un solo gruppo sovra se stesso ripiegato. Nè può dirsi, che l'ordinamento dei tre gruppi corrisponda meglio al concetto portato dai sigg. Favre e Lory sulla loro relativa età geo- logica. Imperocchè per essi, come per noi, il gruppo inferiore è liasse, ma nella loro opinione il medio è triasse, e il superiore è carbonifero. Questa sovrapposizione non corrispondendo al loro modo di vedere, nè potendola spiegare colla semplice ripiegatura degli strati, supposero rovesciato l’intero sistema di essi. Da quanto abbiamo esposto risulta colla maggiore possibile evidenza, che anche ammettendo questa specie di sconvolgimento, i gruppi non restano tuttavia disposti e ordinati secondo le esigenze dell'opinione dei sunnominati distinti Geologi; stantechè, sì giri pure e si rigiri mentalmente, come si vuole, quella massa di rocce, si avranno mai sempre nei gruppi inferiore e superiore impronte di vegetali carboniferi, e nel mezzo di quelli incontrerassi il gruppo cal- care con spoglie di animali essenzialmente liassici. Se fosse realmente accaduto un rovesciamento, sarebbe cosa affatto naturale il credere, che qualche porzione della estesissima area fossilifera fosse stata salva da quello scompiglio; ma finora, per quante ricerche siensi fatte con questo intendimento, nessuno ha additato ancora un tratto, anche ristret- tissimo, in cui la successione e l'ordinamento dei gruppi non stiano nel modo da noi esposto, e che speriamo di meglio dimostrare in appresso. In conseguenza di nuovi studi il sig. Lory ha abbandonato l’opinione, che a Petit-Coeur nella. Tarantasia. gli scisti con impronte di piante carbonifere risiedano in una piega del calcare belemnitico. A questo proposito egli scrive ....... Cette coupe présente deux paquets, dont chacun est forme d'une succession normale d’assises, sans aucune inter- version, sans indice de repli ni de renversement. Cette remarque suffit, je crois, pour exclure toutes les explications proposées jusqu'ici, par- ticulièrement par M. Favre, par M. G. pe MortILLET, ef par moi- méme (1). Noi ci siamo recati parecchie volte a visitare quelle località, vi ritornammo nell’agosto 1865 in compagnia dello stesso sig. Lory, e. neanche quest'ultima volta sapemmo scoprirvi fatto accennante la rottura (t) Vedi Bulletin de la Société Geologique de France, 2° série, tom. XXII, pag. 52. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 339 e l’accavallamento (chevauchement) delle rocce, con cui il Lory intende ora di spiegare l’interposizione del calcare belemnitico negli scisti con impronte vegetali, anzi restammo sempre più persuasi, che le due rocce fossilifere sono in perfetta concordanza di stratificazione , inclinate al- VE. 20° S. 70°, come notò il Beaumont (1), che gli scisti gradatamente passano al calcare argillo-scistoso, e che infine queste due rocce alternano insieme. Il cambiamento di opinione del Lory sull’origine di quel fatto è per noi arra di prossimo trionfo pel giudizio pronunciato dal Beaumont sull'ordinamento e sull’età geologica dell’ intiero sistema antracitifero delle Alpi. Mentre non ci acconciammo all’opinione dei geologi, i quali vogliono ripiegate quelle rocce, a nostra volta additammo una nuova piega estesa simultaneamente ai tre gruppi di rocce. Ma la piega da noi accennata è una semplice curvatura degli strati a guisa di V rivolto all’insù, o come suol dirsi a foggia di fondo di battello; curva la quale non lascia campo ad equivoco sulla successione con cui si formarono le rocce. Noi avvertimmo questo particolare spostamento degli strati nelle nostre Memorie geologiche sulle Alpi, col notare accuratamente come le mede- sime specie di rocce si abbassano dove verso un punto dell’orizzonte, e dove verso il punto opposto, nel che dobbiamo dire essere stati preceduti dai De Saussure, Brocmant, BrAumonT, ecc. Ma noi ne par- lammo dippoi in modo esplicito in una lettera diretta al Braumont (2), nella quale facciamo osservare, che il luogo dove si possono vedere le rocce con opposta inclinazione, ossia dove passa la linea’ sinclinale, si è presso Orelle, piccolo villaggio posto a 7 chilometri circa all'E. di S'-Michel nella valle dell’Arc (3). Egli è vero, che non dobbiamo attenderci d’incontrare in ogni dove lungo la sunnominata linea le rocce inclinate come esige la linea sinclinale annunziata; si notano anzi fre- quenti deviazioni , e la cosa non può essere altrimenti in un paese, dove le rocce plutoniche sorgono come tanti isolotti di figura elissoidale. (1) Vedi Annales des Sciences naturelles, tom. XII, pag. 116. (2) Vedi Comptes rendus de l Academie des Sciences de Paris, tom. XLIX: Séance du 19 septem. 1859. (3) AI sud di Orelle la linea sinclinale raggiunge il colle du Chardonnet, e continua più oltre nella medesima direzione; al nord di quel villaggio passa tra Bois de Posey e Bois du Bane. A Bois de Posey le rocce inclinano all’ovest; a Bois du Bane, a Longefoy, ecc. inclinano all’est; per queste località vedi la Carta dello Stato Maggiore piemontese al sos foglio di Moutiers. Pel colle del Chardonnet vedi lo spaccato unito alla Memoria del sig. Scipione GRAS, Annales des mines, 3° série, tom V, pag. 473. 340 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI La principale massa di rocce plutoniche è quella del Monte Bianco, composta di granito e di protogina (1). Da quel colosso si estende per mezzo alla Savoia nella direzione NNE. $SO., e penetra nel Delfinato dalla parte di levante; sopra vi risiedono rocce metamorfosate , la prima delle quali, in progressione ascendente, è un grès a grana di grandezza mediocre, composto di felspato, di quarzo e di mica, e che alterna con uno scisto nero (ardesia alterata). A Petit-Coeur nella Tarantasia questa riunione di rocce inclina all’ E. 20° S. di 70°, e vi termina col grés, su cui viene senza mutazione di giacitura un calcare cristallino , nero, scistoso, in alternanza con uno scisto ardesia consimile a quello associato al sottostante grès, calcare e scisto appartenenti ai gruppo antracitifero inferiore, come attestano le numerose belemniti, i nodi di pentacriniti ( Entroques), l’Ammorites bisulcatus Bruce. (2) annidati nel calcare, e le impronte di piante carbonifere, specialmente di fronde, esistenti in taluni degli strati di scisto ardesia. Nei monti sulla sinistra dell’Isera s'incontra la medesima alternanza di grès e di scisto ardesia or ora citata a Petit-Coeur, la quale vi pos- siede pur anche la medesima inclinazione. Noi la vedemmo lungo tutta la sponda sinistra del Celliers, torrente, che sbocca neli’ Isera presso N. D. di Briancon (3). In alcuna delle mostre di grès colà presa, il felspato è in tanta abbondanza, che la roccia assume l’aspetto di granito. Non potemmo distinguere se questo grès faccia o no parte del gruppo inferiore (liasse); incliniamo però a crederlo nel medesimo orizzonte geologico occupato dalle rocce detritico-scistose di Ugine, di Vallorsine ecc., le quali fanno (1) Il sig. Alfonso FavRE crede di origine nettuniana la Protogina del Monte Bianco, perchè, secondo lui, sarebbe stratificata. Le commessure che gli suggerirono una tale idea sono, a nostro avviso, piani di sfaldatura (clivagio), quindi non sì posssono invocare come prova dell’enunciata origine. Vedi Brblotheque universelle et Revue Suisse, livraison de novembre, 1865. (2) Questo Ammonite è stato trovato dal sig. pe MortILLET, il quale, accondiscendendo alle mie istanze, lo cedette al Museo torinese, dove si conserva. (3) Il sig. Cav. LacHaT, Ingegnere delle miniere, e distinto Geologo, si occupò molto della Geologia della Savoia sua patria. Nel 1859 mì scriveva un’ interessantissima lettera, dove tra le altre cose mi annunziava, che tra Cudraz e Mine de Cuivre (vedi la Carta dello Stato Maggiore piemontese x fogli di Moutiers e di Albertville), lungo il 'Gulliers, il grès è percorso da rile- gature e filoni di quarzo jalino, in alcuni de’ quali si trova il rame piritoso. Volendosi questo scavare, si aprirono tre cunicoli l’uno sopra l’altro. L’inferiore, meno lungo degli altri due, raggiunse uno straticello di antracite, avente per telto e per muro lo scisto ardesia identico a quello in aller- nanza col gres. Lo straticello di antracite e il grès inclinano concordemente all’E. 35° S. di 65°. Ora tracce di questo combustibile esistono eziandio nei conglomerati infraliassici di Ugine, Val- lorsine, ece. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. S4I parte del terreno da noi denominato infraliassico , coll'unico fine d’ indi- care la sua posizione per rispetto al liasse (1). Dal villaggio Celliers a S-Martin-Belville passando per Roc de Nictard e Villard, o tenendo in quella località altra via a questa parallela, si osserverà sul grès la serie compiuta di rocce dei tre gruppi antracitiferi e il granito, che loro serve di base. Ecco la lista delle rocce principali da noi vedutevi in una seconda gita eseguita dopo ricevuta l’ interessante lettera del Cav. Lac®ar testè citata in nota. Noi le additeremo nell'ordine in cui ci venne fatto di scorgerle procedendo dal basso in alto. 1° Granito e protogina, nel letto del Celliers. 2° Grès più o meno felspatico, in alternanza con ardesia, contenente tracce di antracite (infraliasse ? Srsm.). 3° Scisto argilloso nero (ardesia), con impronte di foglie di piante carbonifere , intercalato nel calcare scistoso nero con belemniti. Le me- desime rocce si vedono nel fondo della valle dell’Isera tra Aigueblanche e Moutiers. In prossimità di S'-Martin-Belleville vi sono aggregati scisti violacei con grandi macchie verdi (gruppo antracitifero inferiore, liasse). 4° Calcare cristallino e gesso con fossili delle tre zone liassiche insieme rimescolati, e mella parte superiore con alcune specie di essi del terreno oolitico (gruppo antracitifero medio, che si suppone rappre- sentare il calcare oolitico). 5° Conglomerato quarzoso, grès, psammite, quarzite, calcare scistoso cristallino, e scisto ardesia con impronte di foglie, ma più specialmente di fusti di piante carbonifere e grossi strati di antracite (gruppo antra- cilfero superiore, che si suppone rappresentare le argille osfordiane). I quattro gruppi di rocce (2) stratificate corrono inclinati S. E., però gli assi di sollevamento dei singoli gruppi si tagliano con un angolo piccolissimo, come annunzia la discordanza di 10° a 12° nella direzione delle rocce, cosa stata pure avvertita dal sig. Scipione Gras (3). Le rocce delle cinque divisioni summenzionate sono parimente visibili (1) Nelle Alpi acquapendenti in Piemonte le rocce del gruppo infraliassico sono state metamor- fosate in micascisto con quarzo granoso, in gneis a elementi sottili spesso :con noccioli e straticelli di quarzo granoso. (2) Im questo scritto noi intendiamo principalmente di parlare dei tre gruppi di rocce che costi- tuiscono il terreno antracitifero alpino. (3) Vedi Bulletin de la Société Géologique de France, 2° série, tom. I, pag. 692-708. In molti luoghi la discordanza accennata non è apprezzabile. 342 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI lungo il tratto di strada tra S'-Jean-de-Maurienne e S'-Michel nella valle dell’Arc (vedi tav. I). Il granito e la protogina attraversano la valle al disotto di S'-Jean. Sovra di essi e dalla parte di levante sta il medesimo grès citato a Petit-Cceur e lungo il Celliers nella Tarantasia. Presso la casa dei Bagni di Echellion, posta a non grande distanza da S'-Jean sulla destra dell’Arc, il grès è ricco di felspato, ed i suoi componenti sono piuttosto grossi; per le quali cose, se non si sta in attenzione, si corre pericolo di cadere in inganno sulla sua natura, e di confonderlo con lo gneis.. Noi lo provammo coll’acido nitrico, e questo vi produce effervescenza; non tutte però le mostre fecero effer- vescenza, nè tutte la fecero egualmente viva ; per cui pensiamo, che il calcare non esista in tutte le varietà di grès, nè che sia uniforme- mente distribuito in quelle ove esiste. Intanto la sua presenza dimostra sempre più l'origine sedimentaria della roccia. Lo scisto ardesia, com- pagno di questo grès, esiste anche quivi, ma in istrati sottili, e più profondamente metamorfosato, che non altrove. Sopra il grès si suc- cedono i tre gruppi del terreno antracitifero , le cui rocce nè per natura, nè per ordinamento, nè per giacitura non differiscono da quelle congeneri del pendìo opposto della medesima catena, di cui infine queste sono parte (1). Se non che, il calcare a valle di S'-Michel è per buon tratto ripiegato (vedi tav. I), ed ivi puossi verificare quanto altrove abbiamo asserito a questo proposito, cioè, che le pieghe non si estendono alle rocce del gruppo inferiore, nè a quelle del gruppo superiore, che coprono il calcare nel monte a sopracapo di S'-Michel (2). Per sempre più comprovare la costanza nella successione dei gruppi, e nella soprapposizione, direzione e inclinazione delle loro rocce, ci 1) L’Abbate Prof. VaLLET, in compagnia del quale ci recammo nel 1865 ai bagni di Echellion, ci disse di avere in una delle precedenti escursioni rinvenuto colà ammoniti e belemniti liassici nel calcare scistoso soprapposto al grès. Nella gita da Celliers a St-Martin-Belleville trevammo di questi medesimi fossili lungo Ja via in luogo dove non potevano venirvi d’ altrove fuorchè dai monti colà vicini. (2) Il BrocHzanT nella sua Iemoria sui terreni della Tarantasia cila rocce piegate. La descrizione che ne fa esclude perfino l’idea, che per una tale anomalia sia stata alterata la loro originaria alternanza, o il loro ordinamento. Ecco che cosa si legge a questo riguardo nel Journal des mines, vol. XXIII, pag. 332....... « La stratification est très-régulière, et s°écarte peu de la verticale: » les roches ne sont point contournées en grand comme les calcaires secondaires: certaines roches » schisleuses présentent, il est vrai, des contournements, ou plutòt des ondulations dans leurs feuil- » letles, mais ces roches sont rares, et les surfaces de leurs bancs, vues en grand, peuvent ètre » consìderées comme planes ». >) DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 343 firemo a raccontare ciò che si vede scorrendo per que monti in dire- zioni diverse da quelle qui sopra seguite dopo l'escursione da Celliers a S'Martin-Belleville, e quella lungo la valle dell’Arc. Ritornammo ancora in Tarantasia per tornare poscia di nuovo in Moriana, facendo questa volta la via pel colle della Maddalena. Ci recammo dunque a Doucy (1), e di là il giorno 3 agosto 1844 passammo nel vallone Cel liers tenendo la via di Cote-de-Chardoz. Nel tragitto si cammina sopra scisti neri in disfacimento, dai quali spunta un calcare cristallino, scistoso, nero. Trovammo in quelle rocce alcuni ammoniti liassici, e numerose belemniti così solidamente fissate alla roccia, che non riuscimmo a sepa- rarle da essa. Nessun'altra roccia, oltre le nominate, s'incontra salendo al colle. Ma nella discesa pel vallone Mongellaz , e particolarmente dopo percorso un breve tratto di strada, si arriva ad un sito coperto di pezzi e di massi angolati caduti indubitatamente dalle punte dette Cheval noir, Roc-blanc, Mollars-des-Bceufs ecc., che si alzano sopra la cresta della giogaia. L'esame di quelle rovine c'insegnò, che sugli scisti liassici stanno anche colà i due altri gruppi di rocce antracitifere, del che ci accertammo mediante successive gite in que monti. Un'ora circa prima di arrivare alla Chambre un grosso cono alluviale nasconde in parte la protogina vestita di tratto in tratto di gneis porfiroide talcoso, su cui sta il grés felspatico (infraliasse?), inclinato all’E. 15° N. Col fine di viemmeglio assicurarci sul giudizio portato intorno alla costituzione della giogaia su cui s’alzano le punte denominate Cheval noir, Roc-blanc, Mollars-des-Boeufs ecc., vi ci recammo dalla Chambre tenendo la via di Montaimond. In quel tragitto rivedemmo ancora le cose già narrate intorno alla natura, alla successione e all'ordinamento delle rocce. Sul grès felspatico giace lo scisto ardesia in alternanza col calcare cristallino, nero, scistoso, con belemniti, inclinato all’E. 15° a 20° S.; su questo giace il calcare nero, cristallino a grossi strati, del quale non si scorge il termine nè dalla parte del nord, nè dalla parte del sud (2), e su questo infine sono adagiate le rocce del gruppo (1) Il monte su cui sta il villaggio Doucy minaccia di rovinare. Sull’invito avuto dal Cav. Oltavio DeLLa MARMORA, in allora Intendente della Provincia, studiammo se fosse stato possibile ovviare ad un tale pericolo, ma nulla sapemmo trovare da proporre che inspirasse la fiducia di ottenere il desiderato intento. ‘2) Il Cav. LacHar nella citata lettera scrive di avere osservato al Roc: de la Platière grossi arnioni di calcare compatto annidati nel calcare cristallino. 344 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI antracitifero superiore, poddinga, grès, psammite , quarzite , calcare , ardesia , ecc. (1). Nel discendere pel vallone di Mongellaz si vede a fior di terra gesso racchiuso nello scisto rosso con macchie verdi, rocce ambedue abbondantissime nel gruppo mediano, ma che ivi crediamo facciano parte del liasse. Da Mollard-des-Boeufs venendo alla Planey, villaggio posto nel vallone di Mont Gel-Jafrey (per tutte queste località vedi la Carta dello Stato Maggiore Piemontese —— , i fogli Montmeillan, Albertville, Moutiers 50000 e Modane), si cammina ancora sui terreni sopra notati; ma come ben naturalmente potevamo prevederlo, trovammo ch’essi si presentano in ordine inverso a quello con cui si osservarono nella salita; così al gruppo antracitifero superiore succede la massa calcare, ed a questa succedono gli scisti ardesia col calcare scistoso belemnitico. L'inclina- zione dei tre gruppi di rocce è verso l’E. 20° S. Il grès felspatico, e gli scisti ardesia col calcare si protendono nei monti alla sinistra dell’Arc. Egli è tra queste rocce che scorrono i torrenti Glandon e Arvan dalla loro origine fino allo sbocco nell’Arec. Dove finisce il Glandon queste rocce sono nascoste sotto un cono allu- viale composto essenzialmente di ciottoli e di massi di granito e di gneis. Attorno al cono il grès infraliassico e gli scisti ardesia col calcare liassico inclinano simultaneamente all’E. 15° S. Risalendo il vallone fino al colle de la Croix-de-Fer, e di là discendendo a S'-Jean-de-Maurienne pel vallone Arvan, nulla si osserva che abbia aspetto di novità; impe- rocchè si cammina sempre sulle rocce scistose liassiche, che racchiudono numerose belemniti e qualche ammonite (2); là dove esse sono rotte e profondamente corrose si vede sotto il grès felspatico. Anche ivi il calcare liassico è cambiato in gesso, e ciò si osserva nei monti di S'-Jean-d’Arve. Presso $'Sorlin poi vien fuori un filone o muriccio (dycke) di porfido quarzifero bigio-cenerino , simile a quello citato da Necker (3) tra lo gneis e il granito in Vallorsina. Notammo in quei (1) Una porzione delle nominate rocce, le scisto-argillose, secondo ci disse il Prof. Abbate VALLET, appartiene al terreno nummulitico, e sarebbe la continuazione di quello esistente a Montricher. (2) Si fu nelle vicinanze del Colle Maroley ove rinvenimmo fossili in maggior copia. (3) Vedi Bibliothèque universelle de Genève, tom. XXXIII, pag. 62. Lettne du Prof. L. A. NecKER au Prof. G. MAURICE. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 345 due valloni più di un centinaio di direzioni degli strati; la media di esse è N. 19° E., S. 19° O., coll’inclinazione all'E. 19° S. - Passando dalla valle dell’Arvan in quella di Valminier si vede la conferma di quanto da noi si è detto intorno all'ordinamento di quelle rocce. Scorgonsi gli scisti e il calcare liassici nascondersi sotto la gran massa calcare costituente il gruppo mediano pareggiato all’oolite; massa che alla sua volta è coperta dalle rocce del gruppo antracitifero supe- riore, tenuto pel rappresentante delle argille osfordiane, le quali rocce ivi, come ovunque nelle Alpi, consistono in conglomerati quarzosi, grés, psammiti, quarzite, calcare ecc., con banchi di antracite. Egli è nei monti di StMichel neila valle dell’Arc, che si vede in modo distinto il contatto della gran massa calcare col gruppo antraci- tifero superiore (vedi tav. I). Ivi si scava il calcare, e si scava l’antracite e ciò condusse alla scoperta di resti organici proprii ai due gruppi an- tracitiferi. Nel calcare si trovarono resti di animali liassici con alcuni oolitici (1); nelle rocce antracitifere si trovarono impronte di foglie (1) Nell'occasione della riunione della Società Geologica di Francia a St-Jean-de-Maurienne , tenutasi dal 1° al 10 settembre 1861, il Prof. VALLET chiamò l’attenzione di quell’illustre consesso sul calcare con Avicula cortoria scoperto da lui nei monti alla sinistra dell’Arc ira St-Michel e St-Julien. Vedi Bulletin de la Société Geéologique de France, 2° serie, tom. XVIII, pag. 725. Nel- l’agosto 1865 il Prof. VALLET cì fece vedere questo calcare presso St-Martin d’Arc, dove si conosce ch’è soprapposto al calcare du Pas-du-Roc contenente spoglie di molluschi liassici, ed alcuni oolitici. In quei giorni lo stesso distinto Prof. e amico mio mi fece eziandio osservare il medesimo calcare nelle vicinanze di St-Jean-de-Belleville, associato allo scisto verde-rosso soprastante alla breccia calcare, parzialmente multata in gesso. Ora la medesima combinazione di rocce esiste al colle des Encombres. Il calcare fossilifero di quivi non differisce mineralogicamente da quello dell’ Avicula contorta dei luoghi sovranominati, ma tra l’uno e l’altro corre però una importante differenza paleontologica, ed è che il calcare des Encombres racchiude belemniti e ammonili in gran numero; ora neppur uno di questi molluschi è stato trovato nel calcare coll’ 4vicula contorta di quei monti. Accenniamo il fatto per compiere il debito di narratore esatto, e non già per sollevare dubbi sull’unità di formazione dei due calcari. Non mancheranno Geologi di un avviso contrario al nostro; di questi ye n° erano alla succitata riunione scientifica, i quali pertanto stimarono la scoperta del VALLET come un fatto comprovante l’esistenza in que’ monti del terreno triassico annunziato mollo tempo innanzi dal” FavRE. (Questa non era l’opinione del Prof. SToPPANI, nè del Prof. VALLET). Non li moveva dalla loro credenza la residenza di quel calcare su quello evidentemente liassico du Pas-du-Roc, anzi di ciò traevano profitto per l’altra loro opinione, voglio dire, che se ne giovarono per sostenere che nelle Alpi l’intiero sistema di rocce è rovesciato. Ricerche fatle in seguito fuori delle Alpi svegliarono molti dubbi sul significato cronologico dell’ Apicula contorta; imperocchè nella molti= plicità dei fossili seco lei uniti si conobbe, che ve ne sono di quelli proprii ed esclusivi agli strati di quella zona, che ve ne sono di quelli esistenti eziandio nel triasse, e che ve ne sono infine di quelli proprii al liasse; quindi se ne volle fare un deposito o terreno particolare, che stabilirebbe in certa qual maniera la transizione dal triasse al liasse; ma se si tien conto del numero relativo Serie IL. Tom. XXIV. SOT) “u 346 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI di piante carbonifere. Ma anche quivi, da quanto ci è stato riferito dagli scavatori, le. impronte dei fusti e dei tronchi predominano su quelle delle foglie. Per meglio osservare il succitato contatto è uopo salire al colle des Encombres; imperocchè la via che suole farsi, passa e ripassa ora sul calcare, e ora sopra taluna altra roccia del gruppo antracitifero superiore, conservando questa e. quello la direzione N. 12° a 20° E., S. 12° a :20° O., con l’inclinazione al 12° a 20° S. Poco prima di raggiungere il piede dell'estrema salita al colle si cam- mina per un buon tratto di strada sulla linea di contatto della gran massa calcare colle rocce del gruppo antracitifero superiore , e così si ha opportuna occasione di accertare, che alla base di questo gruppo stanno grossi banchi di quarzite (1); ivi il calcare è cangiato in gesso, e tra questo e il quarzite s interpone uno scisto violaceo con macchie verdi, da non confondersi nell’età geologica collo scisto consimile dei contorni di Moutiers. Da quell’altezza si seguono coll’occhio il calcare e gli scisti; che escono da sotto il quarzite lungo tutto il pendìo del monte, i quali poi continuano a mostrarsi con questo medesimo modo di giacitura nel vallone di Valminier, fatto d'altronde che esaminammo sul posto nel 1838, nell'occasione in cui ci recammo in compagnia dei sigg. ELie pe Beaumont e Fourwnet al monte Tabor. Lo scisto ardesia addossato al quarzite contiene in prossimità del colle des Encombres numerose impronte di piante ed antracite. Nella discesa a. Moutiers la via corre buon tratto sul quarzite, poi sullo scisto rosso con macchie verdi adagiato sul gesso, e infine sul calcare cristallino in grossi banchi. Tutie queste rocce costituiscono la giogaia posta a levante del torren- tello scorrente sul fondo del vallone; la cresta però è costituita da testate di rocce proprie alla parte superiore del gruppo, di cui il quarzite forma la base. Progredendo nel cammino si osserva diminuire la gros- sezza dei banchi di calcare, e nel tempo stesso il calcare assumere una delle specie componenti quella particolare fauna, si troverà molto -preponderante il numero delle specie liassiche. Quindi noi, incoraggiati da questo fatto, collochiamo il calcare coll’ Avicula con- torta delle Alpi della Savoia nel gruppo medio, ed a ciò siamo anche indotti da che ivi giace sopra il calcare du Pas-du-Roc, ove coi fossili liassici se ne trovano alcuni oolitici (Sul calcare coll’ Avi- cula contorta vedi Jules MarTIN, Zone à Avicula conterta, ou étage rhotien, Paris, 1863). (4) Il terreno antracilifero superiore alla sua base contiene grossi banchi di quarzite. Questa roccia però sì mostra a fior di terra su maggior numero di punti dalla parte della linea sinclinale, dove gli strali sono alzali verso levante. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 347 tinta bruna e poi nera, e allora scorgesi tra i suoi strati lo scisto argillo-calcare nero. A tre chilometri circa sotto il colle, e più preci- samente a mezza via circa tra le prime casipole (grangie) e la casa detta di Genoxillet, il calcare in discorso è fossilifero, anzi pare debba essere ricchissimo di resti di animali; imperocchè, un masso di oltre 3000 metri cubi, venuto giù da quelle cime fin presso al torrentello , ne contiene uno strato di circa tre metri di grossezza, dove sono rime- scolati resti di specie delle tre zone liassiche, e tutti egualmente bene conservati, per cui convien dire, che vissero contemporaneamente (1). (4) La vista di un tale masso produsse in noi una sensazione, che non sapremmo ben definire se fosse dì sorpresa o di ben lieta meraviglia. Ne corse alla mente il contento che avrebbe provato il BeauMoNT nel vedere solennemente confermato da quella gran copia di spoglie animali, ciò ch’egli annunziava nel 1828 nella sua Notice sur ur gisement de vegetaux fossiles et de bélemnites situé à Petit-C@ur près Moutiers en Tarantaise, cioè che tutte quelle rocce, nonostante contengano vestigie di piante carbonifere , vogliono tuttavia essere riferite al liasse, di tal periodo essendo appunto i fossili di quel masso. Ciò ne accadde il 27 agosto 1847. La mattina di quel giorno par- timmo per tempo da St-Michel coll’ intendimento di arrivare a Moutiers prima di sera. Al colle des Encombres fummo improvvisamente avvolti da folta nebbia, che non tardò a risolversi in pio- viggina, e quindi in pioggia dirotta. Arrivammo al gran masso fossilifero bagnati fino alle ossa, nè in migliore stato erano il nostro domestico Giuseppe Ferrante, e la guida Marcellino Fulgence di St-Michel. Ciò malgrado, ci fermammo oltre tre ore nel cercare fossili. Carichi tutti e tre a più non posso ci rimettemmo in via, e non arrivammo a Moutiers prima delle 11 di sera in condizione tale, che ben facilmente si comprende. La lista dei fossili raccolti in quel giorno fu pubblicata nel Bulletin de la Société Géologique de France, 2° série, tom. V, pag. 410. Venne quindi riprodotta accresciuta nello stesso Bu/letiz, 2° série, tom. XII, p. 361, e nei Comptes rerdus de l Académie des Sciences de Paris, séance du 7 décembre 1857. Credendo utile allo scopo cui mira il presente scritto la conoscenza dei fossili ivi trovati, ci determiniamo pertanto a ristampare di nuovo la lista dei medesimi. Aptycus, spec. indeterm. Chemnitzia undulata, D’ORB. Teudopsis Sismondae, BELL. » specie indeterminabile. Belemnites, spec. vicina al B. elungatus, MicH. Trochus, due specie indeterminabili. » spec. vicina al B. irregularis, SCHL. Pleurotomaria expansa, D'ORE. Nautilus, spec. vicina al N. truncatus, Sow. » rotellaeformis, DUNK. » spec. vicina al IV. irtermedius, Sow. » nerei? MUNSTER. Ammonites fimbriatus, Sow. » vicina alla P. coepa, DESH. » annulatus, Sow. : » due specie indeterminabili. » Juvencis, ZEIT. Pholadomya liassina? Sow. » beckei, Sow. . » vicina alla P. elungata, MUNSTER. » margaritaceus, D’ORB. Corbula, due specie indeterminabili. ” cornucopiae, YOUNG. Astarte, specie indeterminabile. D) planicosta, Sow. Lucina, specie indeterminabile. » thouarsensis, D’ORB. Cyprina, specie indeterminabile. » radians, SCHL. Cardinia concinna, AG. » henleyi, Sow. E » hybrida, Ac. » specie indeterminabile. _ » specie indeterminabile. 343 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI Chi dal masso fossilifero recasi a S'-Martin-Belleville trova a destra quarzite e a sinistra calcare. Il quarzite è ancora associato allo scisto rosso, ed il calcare in parte metamorfosato in gesso. Poco prima di ar- rivare a S'-Martin-Belleville, e colà appunto dove il vallone piega alquanto verso levante entrasi tra le rocce superiori al quarzite. Continuando a discendere pel vallone vedonsi ben tosto le nominate rocce inclusiva- mente alla gran massa calcare, risiedere sul calcare cristallino, nero, scistoso, in alternanza collo scisto ardesia, nero, il quale calcare si mostra esso stesso qua e là metamorfosato in' gesso. Nulla da essere in particolar modo ricordato notammo rispetto alla giacitura di queste rocce. Esse corrono dal N. 20° E. al S. 20° O., inclinate dalla parte dell’E. 20° S. E questa loro costanza nella giacitura e nell’ordinamento è pure una forte opposizione a coloro, i quali. le vogliono ripiegate e capovolte. Nei dintorni di Moutiers le cose si presentano in ben altro modo. La città è posta sul fondo di un bacino calcare, il cui asse massimo è nel verso del corso dell’Isera. Al sud di essa, nello spazie compreso tra Isera e il Doron il calcare è parzialmente convertito in gesso, e muta di quando in quando direzione. La media ricavata da una trentina di osservazioni è N. 39° E., S. 39° O., con un’inclinazione dove di 35° e dove di 62° all’E. 39° S. Qua e là sul calcare incontrasi l’antracite. Isocardia, specie indeterminabile. i Avicula inwquivalvis, Sow. Venus, due specie indeterminabili. Inoceramus, vicino all'/. perroides, GoLD. Arca, sei specie indeterminabili. Pecten priscus ? SCHL. Mythilus decoratus? GOLDF. » vicino al P. correus, Sow. » due specie indeterminabili. » vicino al P. subulatus, Sow. Lima decorata? MinsT. Terebratula variabilis? ScnL. » inaquicostata, MUNST. Spirifer rostratus, DE BucE. » punctata, DESH. » tumidus, ZIET. » tre specie indeterminabili. In tutto 63 specie, di cui se ne poterono conoscere solamente 35: di queste, 5 spettano al liasse inferiore; 14 al liasse di mezzo; 12 al liasse superiore, e 4 al liasse senza sede particola- rizzata ed al terreno osfordiano inferiore. Fossili trovati al Colle de la Madeleîne, Fossili trovati a Petit-Ceur. Ammonites bisulcatus, BRUG. Ammonites bisulcatus, BRUG. » thouarsensis, D'ORE. î Belemnites acutus, MILL: » murchisonac, SOW. Encrinites. » bucheriae? Sow. n DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. — 349 E siccome i monti son per intiero composti di calcare, se mentalmente si abbassano e se ne estendono gli strati quanto basti per farli con- giungere insieme, pare ch’essi abbiano ad avvolgere l'antracite. Questo fatto che sarebbe senza esempio in quelle contrade, in realtà non esiste; imperocchè nulla vha, che accenni essere quell’ allargamento della valle, ossia bacino, opera di agenti corrodenti. Il vero, secondo noi, sì è, che nei sovvertimenti geologici ivi succedette un avvallamento, per cui la porzione del suolo abbassatasi si presenta come soggiacente a quella rimasta in alto. Ora se quel bacino avesse un'altra origine, se ripetere si dovesse per esempio dalle acque, l’antracite avrebbe dovuto essere la prima a venire esportata, essendochè fa parte del terreno antra- citifero superiore, come lo dimostrano le rocce seco lei associate. Così a Salins, a Villarluvin, a Jeissons, a Brids l’antracite giace nei soliti scisti ardesia, nei quali gradatamente si svolge la mica, e s'ingrossano i componenti, per cui finiscono per convertirsi in psammite; ma tra queste rocce ed il calcare, le cui relazioni geologiche dimostrano appar- tenere al gruppo antracitifero medio, sta il quarzite ; quello visibile tra Villarluvin e Brids contiene laminette di talco, e in alcuni strati si notano grani di quarzo roseo, ed in alcuni altri si osservano ciottolini della stessa sostanza, che cambiano il quarzite in puddinga. A Hauteville, oltre alle nominate varietà di quarzite, una ve n’ ha felspatica (1). Da Hauteville andando a Villet per la via di Longefoy si passa suc- cessivamente su rocce dei tre gruppi antracitiferi. Lo scisto argillo- calcare del gruppo inferiore si vede semplicemente di tratto in tratto uscire da sotto la gran massa calcare. Quello scavato a Cotron sulla sinistra dell’Isera appartiene. a quel gruppo. -Il calcare prosegue ad essere scoperto fino al ponte di Curcaille; ivi è di nuovo nascosto sotto le rocce del gruppo antracitifero superiore, e così. rimane fino oltre- passato il paese Aime. Su tutto l’esteso spazio compreso tra il ponte (1) Nel quarzite di Villarluvin corrono vene di ferro oligisto. Il Cav. Ing. Lacmar scrive nella citata lettera, che uno strato di questo minerale spunta dal mezzo delle rocce antracitifere supe- riori lungo la linea che congiunge insieme Bojacière nella Tarantasia, e Montaimont nella Moriana. Il Cav. LacHaT l’esaminò a Roche-Lanzon, a Mongirod, a Montaimond, a Robellin e a Ste-Mar- guerite, e lo trovò ovunque inclinato come le rocce antracitifere fra cui giace all’E. 19° S., se non che dove di 27°, e dove di 44° (in media). Ora Villarluvin è sulla linea esplorata dal sig. LAcHAT; quindi il ferro oligisto di quel quarzite vuol ritenersi come un affioramento dello strato citato nella lettera di questo distinto Geologo. Noi vedremo in seguito, clie il medesimo strato di minerale di ferro ricompare nella porzione del sistema antracilifero inclinata verso 1’O. 350 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI di Curcaille e Aime le rocce antracitifere non diversificano da quelle di Hauteville nè per la composizione, nè per l'ordinamento, nè infine per la giacitura, poichè continuano ad avervi la direzione N. 20° E., S. 20° O., con l'inclinazione all’E. 20° S. di 45°. È bensì vero, che di quando in quando si osservano lievi variazioni nella direzione e nel grado d’inclinazione, ma vi sono molte ragioni per crederle accidentalità locali, prodotte da scoscendimenti parziali, oppure da pressione avve- nuta per l’idratazione della karstenite. : Fin qui noi abbiamo esposti fatti, che si presentano sotto gli occhi del Geologo, il quale si rechi a studiare i terreni posti a ponente della linea sinclinale da noi indicata. Ora se egli intraprende i medesimi studi nei monti a levante di detta linea, nulla di essenziale trova a notare salvo l’inclinazione delle rocce, la quale non è più all’E. ma all’O., e salvo i cambiamenti operativi dal metamorfismo (1). Che i fatti stieno come qui annunciamo chiunque può accertarsene, risalendo la Moriana da Oselle al monte Cenisio senza che punto gli tocchi di allontanarsi dalla strada grande. Le rocce del gruppo antracitifero superiore, poddinghe quarzose, grès, psammite, scisto argillo-calcare ecc. con antracite, si estendono fino a Modane, dove finiscono in una riunione di banchi di quarzite della grossezza di 500 e più metri (2). Di sotto sta la gran massa calcare, in massima parte convertita in gesso. La valle a monte di Modane si volge alquanto nel verso della direzione delle rocce, per cui si cammina a lungo con a diritta ed a sinistra il calcare parzialmente metamorfosato in gesso. Tra Bramant e Lanslebourg si vede più volte il calcare giacente su varie maniere di scisti uniti a calcare cristallino scistoso (3). Chi si avvezzò ad osservare le' rocce delle Alpi, ben s’avvede, che quegli scisti e quel calcare sono gli stessi che quelli di Petit-Coeur, di S'Jean-de-Maurienne ecc., in uno stato di (1) Molte delle cose notale in questo scritto furono da noi ricavate dal giornale tenuto nel viaggio eseguito nel 1838 lungo le Alpi in compagnia dell’ illustre. nostro amico Elie di BEAUMONT. (2) Come abbiamo altrove notato, il quarzite nei monti a levante dalla linea sirclizale si mostra più sovente e su più ampio spazio di quello che si mostri nei monti a ponente della medesima linea. (3) Nel calcare di Esseillon si rinvennero spoglie di Molluschi, nel'e quali, ‘quantunque in cattivo stato, ci parve di riconoscere le medesime specie esistenti nel calcare di Villette in Tarantasia. Vedi la nostra Lettera al BEAUMONT nei Comptes_rendus -de lVAcadémie des Sciences de Paris, tom. XLIX, pag. 470, 1859. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 351 metamorfismo particolare o, come suol dirsi, molto avanzato. Le mede- sime rocce si ritrovano verso l’origine delle valli dell’Arc, dell’Isera ecc., inclinate sempre all'0., dove più e dove meno N., cioè inclinate in verso opposto alle rocce coetanee, che trovansi nei monti a ponente della linea sinclinale. Il traforo o tunnel in corso di scavazione tra Modane e Bardonèche conferma ora molto opportunamente le cose da noi nar- rate sulla costituzione e sulla struttura di que’monti. Dalla parte di Modane il traforo s' intraprese in un cono alluviale, composto essen- zialmente di rovine dei monti circonvicini, più o meno strettamente agglutinate insieme da sugo calcare. Attraversato questo, si ebbe a lottare contro la tenacità della poddinga quarzosa, alla quale succedettero poscia tutte le rocce del gruppo antracitifero superiore sottostanti alla poddinga, compresavi l’antracite. Da oltre diciasette mesi si è raggiunto il quarzite, ed in questo spazio di tempo si scavarono in esso appena 317 metri di galleria (1). Noi riteniamo, che a questo abbia da succedere il calcare o puro od associato al gesso, e quindi lo scisto ardesia alternante col calcare scistoso proprio del liasse; lo scisto però in uno stato di meta- morfismo molto avanzato (tav. II, fig. 1, 2). Queste ultime rocce si estendono fino a Bardonèchè, dove ha fine il tunnel. Su tutto quel lungo tratto (13 chilometri ) le nominate rocce inclinano all'O. un poco N., inclinazione che conservano nell’interno della galleria (2). Nelle vicinanze (1) I signori Ingegneri Comm. SommeILLER e Cav. Massa, i quali hanno la compiacenza di tenerci informati di tutte le mutazioni delle rocce nel tunnel, ci notificarono, che dopo attraversati 90 metri di quarzite, s’incontrò un banco di karstenite quasi pura di 5 metri di grossezza; a questa succedette di nuovo il quarzite contenendo tratto tratto. arnioni o venucce di karslenite. (2) Nello scavare il tannel si nolarono dalla parte di Modane frequenti mutazioni nei gradi d’in- celinazione delle rocce, ma questa inclinazione si mantenne sempre verso il medesimo punto del- l’orizzonie, cioè verso }’0.; osservaronsi inoltre molto prima di raggiungere il quarzite gli strati curvati a guisa di grande C colla convessità prospiciente a levante. All’esterno una tale anomalia non si palesa, il che spiega come nella scavazione il quarzite s’incontrò 90 metri circa a levante dal punto da noi indicato nella relazione al Governo nel 1845. 3 I) pensiero di aprire un tunnel per mezzo alle Alpi, collo scopo di facilitare la comunicazione tra il Piemonte e la Savoia, apparliene al sig. MepAIL, da Bardonèche, il quale l’espose in un Opuscolo pubblicato nel 1841 a Lione, stamperia di Demoulin, Ronet et Sibuet, dopo però averlo presentato al magnanimo re CARLO ALBERTO, il quale, sempre intento a migliorare le condizioni del suo paese, ordinò al suo Ministro dell’Inlerno, in allora il Cav. DESEMBROIS, che si facessero gli sludi necessari per conoscere se l’esecuzione fosse tra le cose possibili. Questo grave incarico venne affidato al Cav. Maus, Ingegnere belga, arrivato appunto in quei giorni a Torino per assu- mere la direzione dei lavori della via ferrata di Genova, ed all’autore di queste osservazioni. Ciò avveniva in sul finire del luglio 1845. In quell’epoca io mi trevava in Nizza marittima attendendo 3ha2 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI della catena principale questa giacitura è sovente modificata, e talvolta anche cambiata. Dove poi le modificazioni e i cambiamenti sono frequenti egli è nel pendìo orientale della catena, il che contribuisce a mantenere i Geologi in disaccordo nell’ assegnare alle rocce un posto determinato nella serie dei terreni. Nelle vicinanze di Susa, nella valle della Dora Riparia, la medesima roccia in un sito inclina verso un punto dell’oriz- zonte, e ad alcune centinaia di metri di distanza inclina verso un altro. agli studi della Carta geologica. Colà ricevetti la lettera del Ministro Cav. DESEMBROIS, in cui a nome di S. M mi sollecitava di raggiungere il MAus, e di recarmi seco lui nelle Alpi per istudiare, se si potesse scavare una galleria avente tutti i requisiti per congiungere la Savoia col Piemonte mediante una ferrovia. Il MAus ed io percorremmo adunque e ripercorremmo in tutte le direzioni possibili la porzione della catena alpina tra il monte Cenisio e il monte Genèvre, e conchiudemmo poi che la linea, la quale, secondo noi offriva i maggiori vantaggi per una tale opera, era quella appunto supposta dal MEDAIL, e che dopo nuove indagini determinarono di seguire i distinti Inge- gneri Comm. GRATTONI, GRANDIS, SOMMEILLER e Ranco, i tre primi dei quali vennero incaricati di far eseguire quel gigantesco lavoro. Fissato il luogo in cui doveva aprirsi la galleria, studiata la natura delle rocce, comprendemmo ben tosto che coi mezzi ordinari di scavazione sarebbe stato necessario uno spazio di tempo non minore di trentacinque anni a compiere quell’opera, suppo- nendo ancora, che nulla d’impreveduto venisse a capitare nel corso del lavoro. Ora ognun vede, che non si poleva raccomandare al Governo un’ impresa di così lunga durata. Riflettendo però quanto importasse quell’opera alla prosperità dei due paesi, si pensò di trovar mezzo onde acce- lerarne il compimento. Per raggiungere questo intento era uopo poter disporre di una forza per- manente superiore a quella che, a parità di condizioni, si può ottenere dall’uomo. A ciò provvide il Maus, pensando a valersi delle acque in gran copia fluenti ai due lati della catena, ed ideando a tal fine una macchina, che tutti noi vedemmo a lavorare con esito felicissimo in Valdocco, e intorno alla quale tutti noi ricordiamo i giudizi favorevoli che diedero uomini in tali materie versalissimi. Colla macchina MAus, secondo calcoli desunti da ripetuti esperimenti eseguili sulle rocce, contro alle quali essa doveva agire, si sarebbe ottenuto l'economia dei tre quarti del tempo voluto coi metodi ordinari; tuttavia la macchina MAus non si costrusse in grande, nè si mise mano aì lavori preliminari di quella grand’opera, salvo il tracciamento della galleria, e ciò per le vicende politiche del 1848. Frattanto poi, terminatasi la strada ferrata di Genova, il MAus, a norma della convenzione col nostro Governo, ripatriò, e la sua lodatissima macchina rimane qual documento, che attesterà mai sempre l'ingegno e le profonde cognizioni in meccanica del suo inventore. Per. buona sorte dell’Italia il concetto del MeDAIL e le ricerche a tal uopo ordinate dal compianto CarLo ALBERTO non furono poste in vbblio; imperocchè quell’opera sotto il glorioso regno del- l’illustre successore di questo Monarca venne ripresa sulla proposta del Conte di Cavour, fatto persuaso dal Generale MENABREA della possibilità della riuscita, e si sta ora compiendo colla mac- china perforatrice, frutto dell’ingegno e della scienza di tre dei sopranominati distintissimi Inge- gneri GraTTONI, Grinpis e SOMMEILLER. La macchina perforatrice altro non ha di comune con quella del Maus fuorchè lo scopo. Ciascuna delle due macchine ha i suoi pregi e le sue prero- gative; quella per altro del SommEILLER, di cui il Conte di St-RoserT ha dato la teoria (vedi Annales des mines, 62 série, tom. II, pag. 281), ha il pregio di provvedere, senza il concorso di . altro artifizio al rinnovamento dell’aria; ed ora, in grazia di questa macchina, si penetrò nelle viscere del monte per la lunghezza di 6232 metri di galleria, dei quali 2412 dalla parte della Savoia, e 3820 dalla parle del Piemonte. Su questa inliera ragguardevole lunghezza verificossi tutto ciò che i nostri studi ci avevano fatto prevedere in ordine al rinnovamento e alla giacitura delle rocce, come nel nostro rapporto del 1845 significammo al Governo. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 955 Nei dintorni del monte Bianco, tanto dalla parte di Francia, quanto da quella d'Italia, le rocce, come dice il De Saussure, sono alzate verso quel colosso; ma l’ inclinazione loro cambia gradatamente in modo da descrivere un irregolare circolo attorno alla massa granitica (1). Nel pendio italiano noteremo ancora una o, per meglio dire, due particolarità; la prima riflette la composizione delle rocce , l’altra ris- guarda il loro ordinamento. Entrambe queste particolarità, a nostro avviso, sono opera delle rocce plutoniche. In Savoia, nell’area che pren- demmo a studiare nel presente scritto , vi sono due sole rocce pluto- niche , il granito e la protogina, le quali trovansi associate e confuse nella medesima catena, quella che dal monte Bianco mette nel Delfinato; in Piemonte, sopra uno spazio di circa uguale ampiezza, oltre al granito e alla protogina, havvi la sienite, la diorite, la serpentina (2), il porfido quarzifero , il melafire ecc., ecc.; e siccome parecchie di queste rocce furono causa efficiente di grandi rivoluzioni geologiche, non deve recare maraviglia il trovare in Piemonte le rocce nettuniane in uno stato dif ferente da quello in cui trovansi le loro congeneri in Savoia, e ciò perchè le prime sono state ripetutamente esposte agli agenti metamor- fosanti. Non intendiamo, è vero, con ciò, di circoscrivere l’azione di questi agenti entro un perimetro del raggio di poche migliaia di metri, ma intendiamo di dire , che lo stato delle rocce ci fa presumere, che l'agente metamorfosante perdesse del proprio potere allontanandosi dal luogo di irradiazione, locchè dimostrò il BrAumonT con un felicissimo paragone, assimilando cioè lo stato di certe rocce a un tizzone arso ad un de’ capi. Quindi si comprende come i conglomerati, le psammiti, gli scisti argillosi, il quarzite, in una parola tutte le rocce dei due gruppi antracitiferi, l’inferiore e il superiore, nelle Alpi piemontesi sieno metamorfosate in gneis, in micascisto, in scisti micacei, talcosi e anfi- bolici, e l’antracite in grafite (3). La seconda particolarità è uno scon- (1) Nell’osservare l’inclinazione delle rocce è uopo fare attenzione a non iscambiare la stratifi- cazione col divario delle medesime, tanto più se si tratta di rocce scistose, le quali ben sovente posseggono le due specie di commettiture. (2) Vi sono Geologi, i quali pretendono la serpentina una roccia nettuniana metamorfa. Nei nostri lavori sulle Alpi abbiamo sostenuta l’opinione contraria. E come noi pensa pure il sig. Roques, il quale scrisse in questo medesimo senso una particolarizzata Memoria col titolo Ophites des Pyrénees, stampata nelle Memorie della Soc:cté Imperiale d’ Agriculture, d’Histoire naturelle et des Arts utiles de Lyon, 1864. (3) Nel corso di questo scrilto abbiamo solamente citato il terreno antracilifero, perchè cesì Serie II Tom. XXIV. LV 394 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI certo negli strati, dovuto ancor esso alle rocce plutoniche, le quali erompendo spostarono talvolta inegualmente le parti divise (faille), per cui venne distrutta la naturale corrispondenza tra le rocce. Le rotture di questa natura non iscarseggiano nelle Alpi. Una ve n'ha lunghesso la catena principale, avvertita tra gli altri luoghi nelle vicinanze di Bardonèche, dove sul medesimo piano verticale sono in mutuo contatto le rocce del gruppo antracitifero inferiore, e le poddinghe coi grès, ecc. (metamorfosate in una specie di gneis con grossi nodi di quarzo ) del gruppo superiore. L'osservatore, che da natura sortì robusta tempra, ed a cui non increscano nè la fatica, nè i disagi, può vedere co’ proprii occhi molti anomali contatti di rocce prodotti da ineguali spostamenti lungo una verticale percorrendo la cresta della catena principale dal monte Bianco al monte Viso; ma quando se n'è avvertiti si sfuggono facilmente gli inganni che un tal fatto male apprezzato può ingenerare. CONCLUSIONI Dalie cose narrate si ritrae: 1° Che le rocce antracitifere delle Alpi costituiscono tre gruppi (1) distinti l'uno dall'altro per la natura delle loro rocce, per lievi variazioni nella giacitura, e per i resti di esseri organici in essi esistenti; 2° Che l’ordine con cui le rocce si succedono dal basso in alto è il medesimo con cui si sono originariamente deposte; esige l’argomento da noi preso a trattare; ma ci facciamo debito di dichiarare, cosa per altro già da noi ripetutamente avvertita, che nelle Alpi la maggior parte delle rocce cristalline stratificate inferiori alle antracilifere sono da noi reputate sedimenti metamorfosati delle epoche geologiche anteriori al liasse. Per lo passato questa classificazione poleva giudicarsi ipotetica o mollo avventata; in oggì però può aversì come un fallo dimostrato, stantechè si sono riconosciute in queste rocce impronle incontestabilmente di corpi organici. Noi trovammo un’ impronta di equiseto in una mostra di gneis staccata da un masso del terreno diluviale a settentrione di Rezzasco nella Brianza, masso, che tutto porta a congetturare venuto dalla Valtellina (vedi Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, 2° serie, tom. XXIII). Il Cav. Crescenzo MonTAGNA, Maggiore nel R. Corpo d’ Arliglieria , scoprì nelle rocce cristalline delle Alpi più antiche delle antracitifere impronte di vegetali carboniferi, scoperta che pubblicò in un Opuscolo intitolato: Zriorno all'esistenza di vesti organizzati nelle rocce dette azoiche, ecc. Torino presso la libreria Loescher. (1) In quest’enumerazione viene escluso il gruppo da noì chiamato infraliassico. DEL COMMENDATORE A. SISMONDA. 355 5° Che la ripiegatura degli strati è un mero accidente locale, e che le pieghe di un gruppo non si estendono mai agli altri con esso con- finanti, per cui non possono indurre in inganno sulla successione , nè sulla alternanza delle rocce; 4° Che i tre gruppi di rocce sono simultaneamente piegati a guisa di V, cioè a guisa di fondo di battello, piegatura che punto non ne altera l'ordinamento primitivo; 5° Che le vestigie di piante carbonifere si sono finora trovate in due soli gruppi, nell’inferiore cioè e nel superiore; 6° Che nel gruppo medio finora si sono unicamente trovate reliquie di animali delle tre zone liassiche insieme rimescolate, e tutte ugual mente bene conservate, e alcune nei banchi superiori dell’ epoca oolitica; 7° Che nel gruppo inferiore le rocce con impronte vegetali sono asso- ciate ad altre contenenti spoglie di molluschi liassici, spoglie che mancano assolutamente nel gruppo superiore (1); 8° Che nel gruppo inferiore predominano le impronte di foglie, e nel superiore quelle di fusti; e che inoltre nell’inferiore scorgonsi appena tracce di antracite , mentre questo combustibile è abbondantissimo nel gruppo superiore; 9° Che il gruppo medio con fossili animali esclusivamente liassici e oclitici è intercalato tra due gruppi di natura diversa, ambi conte- nenti impronte di vegetali del periodo carbonifero; quindi, ammet- tendo ben anche i tre gruppi rovesciati, come pretendono que'Geologi, (1) La coesistenza nella medesima roccia, o nel medesimo gruppo di rocce, di resti organici stati creduti caratteristici di periodi geologici più o meno distanti tra loro, è un fatto, di cui ad ogni breve tratto si scopersero nuovi esempi. Noi, in una lettera al BEAUMONT (vedi Comptes rerdus de VAcademie des Sciences de Paris, séance du 26 octobre 1857), avvertimmo nelle rocce nummulitiche di Taninge (Savoia) impronte di piante diverse da quelle dei gruppi antracitiferi alpini, futtochè carbonifere, come decise il sig. Ad. BRONGNIART, il quale, sulla preghiera ricevuta dal BEAUMONT, ebbe la compiacenza di studiare le mostre che gli inviammo. Ma fra i tanti fatti di questa nalura, ehe in oggi si potrebbero rammentare, ci limitiamo a citare quello pubblicato dai signori MaRcoU e Cav. ‘Professore CAPELLINI. Questi distinti Geologi ci narrano avere osservato a Nebraska nel- l’America settentrionale 1’ Iroceramus problematicus, mollusco cretaceo , insieme con impronte di piante, nelle quali il sig. HEER di Zurigo riconobbe 7 generi di dicotiledoni frequenti nel terreno mioceno europeo, e sconosciuti affatto nel terreno cretaceo di quell’emisfero. Vedi Bulletin de la Société Géologique de France, 2° série, tom. XXI, pag. 132, e la Memoria dei signori Professori G. CaPELLINI e O, HeER, stampata nelle Mémoires de la Société Helvétique des Sciences naturelles , Zurich, 1866. 356 OSSERVAZIONI GEOLOGICHE SULLE ROCCE ANTRACITIFERE DELLE ALPI i quali vogliono dell’ epoca carbonifera il nostro gruppo superiore, e liassico il nostro gruppo inferiore, non si viene tuttavia con questa supposizione a mutare lo stato della questione, in quanto che il gruppo inferiore, secondo essi liassico, contiene eziandio impronte delle medesime specie di piante esistenti nel gruppo superiore , il quale per essi è il gruppo inferiore, ossia carbonifero; 10° Che il gruppo inferiore e il gruppo medio sono legati insieme per comunanza di spoglie di esseri animali, e che medesimamente sono legati insieme i gruppi inferiore e superiore, perchè ambi racchiu- dono avanzi delle medesime specie di vegetali dell’epoca carbonifera ; ma queste relazioni non distruggono la reciproca indipendenza dei tre gruppi dimostrata dai fatti esposti nelle precedenti conclusioni O o 11° Che per tutte le enunciate cose l'opinione del Beaumont, che i tre gruppi di rocce in discorso appartengano a una sola e medesima formazione geologica (alla giurese), diventa una verità dimostrata ed incontestabile (1). (1) La ricomparsa di piante carbonifere nel periodo liassico può spiegarsi colla supposizione di una nuova creazione, come anche con quella, che non abbiano mai cessato di esistere, ma che le loro vesligie nei terreni dei periodi intermediari (tra il carbonifero e il giurese) sieno state distrutte dagli slessi agenti i quali metamorfosarono in gneis, in micascisto, ecc. i sedimenti operatisi in quello spazio di tempo. Erano scritte le presenti nuove Osservazioni, quando ricevemmo il Bulletin de la Société Géologique de France, avril et juin 1866, în cui alla pag. 480 è inserita una nota intitolata: Carte Géologique de la Maurienne et de la Tarantaise, par MM. les Professeurs Lory et VaLret. In essa nulla trovammo da indurci a modificare le conclusioni di questo nostro lavoro. Accad . Pol dello Sol di Touno, Classe dv do. Fio. 0 Noa. dee SA af Tomo ANI RE DPF | SOPRAPPOSIZIONE DEI TRE: GRUERICOBROSEE Spaccato tra Sì Jean-de-Maurienne e SHhchel sulla divi dellAre (oriana) il 50000. ferron des Encombrer 2825. a < SY °_ SAlartn wr org: a “Echallon su J I Livello del Mare i Lello del Mare | Gruppo Supertore | (ruppo Medio Gruppo inferiore o reglomerato quarzoro Ouarzite Stam trà (&leare e (îesso con resti di animali gia (alcare e scosti argillosi con resti dii i esctrti argillosi con anbrecale e Impronte di senza vestigie di vegelali . annali luessici è impronte di fogle darti di pianto carbomiere senza vestugiedì vi sg di O cardonifere . | Corriopondenti alle argille csfordianio Grispondente ‘all’ colite. Liasse ù Potogina LL CE La ) \\\ (serrato onae 3; ) I Geoco con Carssivlo. fo] Quore J ImF"Doyen # vii i) vet di TUOI SPACCATO TRA LES FOURNEAUX (Ml) E BARDONNECHE (DORA RIPARIA) Dili, Goa DI 8080 1 | (iruppo superiore Gruppo medio 50000. (iruppo inferiore | = Lando Qirarzite, Gros, (Calcare e Gesso conrestidi sip Calcare cristallino scistoso e scisti argillosi i | | Psammite; Calcare. e Soisto argilloso conAntracile liassici e oolitici (al forte disseillon) metamorfosati e tracce di Grafite. o| Quarzite | e fusti di piante carbonifere. senza vestigie dipinte Pi Veste ! i È Lasse . ) | \ Corrispondente alle argille osfordiane. \(orrispondente all'oolite. y , FRANCIA ITALIA Tunnel Tumnel 1 Entrata Nord. (17), i e init Entrata Sud. el ; TI TITTI (( (\\ î / ; / Tr : = ZA \\ .À: To, E : TT x3 Ni Ni SS SÈ NÉ Livello del mare Ni i Si Livello del mare. ASSE /DELS TRA Osservatorio Val @-\- de nie N \/ x | ZZZ i (OS) (Chi NI MEMOIRE Sur les eclatements remarquables des canons en Belgique de A857 da 1858, et ailleurs, a cause des poudres brisantes; sur les chargements defectucua et sur les chargements d’eqal effort dans les canons lisses et dans ceua rayes; de leur effet balistigue important, et deduction de l’experience, des tensions successives et maxima des poudres brisantes, des poudres pilons et de celles inoffensives, et de leur reception plus rationnelle. — Dissertation sur les principes des theories emises et maniere rationnelle de calculer la resistance vive des bouches a feu, de leurs proportions, et des epreuves de reception du tir et mecaniques les plus concluantes, et conclusion sur le choix du meilleur metal à canon, avec resume final, PAR JEAN CAVALLI Lu dans les séances du 22 avril, 6 et 27 mai 1866. Preface E éclatements imprévus des bouches à feu en fonte de fer, et quelque- fois aussi de celles en bronze, méme avant l’introduction des canons rayés et assez fréquemment après, ont préoccupé les artilleurs de tous les temps et de toutes les nations ; et entre les artilleurs les dissensions sont parvenues au comble, justement après cette introduction des canons rayés, tant sur leurs rayures et sur leurs projectiles, que sur le choix du métal, dont les canons devaient étre faits, s'ils devaient étre coulés ou forgés d’une seule pièce, ou composés de plusieurs, et de différentes facons. La fonte de fer, avant l’introduction des canons rayés, était le métal à canon le plus généralement employé è la fabrication de la presque 358 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. totalité des bouches à feu, à l’exception de celles de petit calibre , et méme de celles-ci chez plusieurs puissances; et quoiqu'on ait cherché de tout temps à y substituer le fer forgé, et aujourd’hui aussi l’acier, on n'a obtenu que des succès encore généralement incertains. Il paraît donc que la fonte de fer est encore le métal à canon préférable, puisqu'on a pu faire avec ce metal les bouches à feu les plus colossales que les hommes aient jamais construites, de manière qu’en généralisant et en poursuivant les perfectionnements de fabrication déjà introduits dans quelques Etats, lon pourra partout alors couler les bouches è feu en une fonte de fer aciéreuse , ou d'un metal homogéène, d'une résistance vive satisfaisante. On verra qu'il suffirait de doubler encore une fois la résistance vive de la bonne fonte è canon d’aujourd’hui, comme on en a déjà doublé la tenacité de 14 à 28 kilogrammes par millimétre carré, pour rejoindre celle de l’acier ductile des canons coulés et forgés après; operation qu'il faudrait pourtant pouvoir supprimer pour obtenir aussi la quantité et l'homogénéite dans les grandes masses. Mais sans attendre ce résultat qui pourrait ne pas ètre assez sùr et économique, on verra que depuis longtemps d’importants perfectionnements de fabrication des bouches à feu en fonte de fer, mèéme de première fusion, furent réalisés par l’artillerie suédoise depuis 1835, à la suite d’études soignées sur le choix des minerais et la conduite des hauts fourneaux; ce qui accrut de beaucoup la réputation des canons fournis par les fonderies suédoises : réputation qu’elles possédaient déjà è cause de l’excellente qualité de leurs minerais. i En Belgique, la fonderie de Liége, sous la direction du Capitaine d’artillerie Huguenins, et après sous celle du -Colonel Frédérix, est aussi parvenue à produire de bons canons et à soutenir la concurrence avec les produits des fonderies suédoises. Mais, tandis qu’en Angleterre la fonderie grandiose ouverte à Wool- wich pour améliorer le coulage des bouches à feu en fonte de fer avait failli, l’artillerie des États-Unis d’Amérique, après avoir étudié bien plus profondément la question, et y avoir apporté des réformes et des perfectionnements très-importanfs, parvint à se pourvoir des meilleures et des plus gigantesques et puissantes bouches à feu en fonte de fer, que ne purent encore obtenir ses rivaux de l’ancien continent avec tout autre système de fabrication. PAR JEAN CAVALLI. 359 En 1856, avec l’approbation du Secrétaire de la guerre, il parut è Philadelphie un livre ayant pour titre: « Rapport'des experiences sur » la force et les autres propriétés des métaux à canons; descriplion des » machines pour éprouver les métaux, et classification des bouches è » feu en service, fait par les officiers d’artillerie des États-Unis ». Il nous paraît fort à propos de rapporter ici les passages les plus importants pour notre recherche. On y lit dans la préface: « Pour la durée ei pour l’économie, la » fonte de fer est le meilleur métal à canon; mais l'expérience passée » a fourni des résultats si difféerents dans la durée des canons de fonte » de fer, qu'il devint évident qu'on ne pouvait compter suffisamment » sur les canons alors en service, ni sur ceux que journellement on » fabriquait pour le gouvernement. En effet on avait de ces canons qui » soutinrent plus de 2000 coups, et d'autres, ordonnés après, devant » étre faits précisément de la méme manière dans chaque particularité, » souvent ont fait défaut, méme avec les charges d’épreuve , ou ils » éclatèrent en service après peu de coups ». On détermina de classifier les canons exisiants, à l'objet de ne plus employer en service que les meilleurs. Un officier fut chargé de faire des épreuves mécaniques sur de petits cylindres que l’on devait extraire de la tranche de la bouche de chaque canon, pour pouvoir ainsi, sans les endommager, parvenir à leur classification, relativement à leur durée probable, en trois ciasses, les meilleurs, les douteux, et les mauvais. On prit après des canons d'essai de chaque classe, on les réunit au fort Monroe, où on les soumit è une série de tir jusqu'àè l'excès. Nous rapportons ici le résumé qu’on lit è la fin du titre « Discussion des resultats » parce qu'on y voit éiablis les grands progrès acquis, et quel est l’état actuel des questions. courantes. i « Le succès qui a couronné ces efforts pour améliorer la qualité des » canons, apparaît mieux du contraste de la force des canons faits avant » 1841, époque dans laquelle on commenca le système actuel d'inspection » et d'épreuves, avec ceux faits en 1851. D'après le rapport du feu » Capitaine Warsack (auteur de la machine américaine pour les épreuves » mécaniques), qui a fait les épreuves sur les petits cylindres pris de » tous les canons, coulés avant 1851, des forts et des arsenaux, il résulte » que le nombre total des canons ainsi éprouvés a été de 2824. D'après » les résultats obtenus, ces canons furent partagés en trois classes; la 360 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. » » » première considérée de bonne qualité et de service, la deuxième dou- teuse, ou bonne seulement pour un service limité, et la troisième comme hors de service. La densité moyenne et la ténacité des canons de chacune de ces classes sont les suivantes: » Première classe, densité 7, 200 ténacité en kil° par mill°° carrés 18%, 5 7 , » Deuxitme classe, » 7,143 » » » 16%, 4 » Troisième classe, » 7,100» . » » 145,7 » Moyenne avant 1841 » 7,148.» » » I65 O » La densité et la ténacité moyenne des canons dernièrement faits aux fonderies de Boston, West Point, et du fort Pitt en 1851, d’après les tables précédentes, sont les suivantes: Fontes d’Amérique en canons de 27 et 32 livres, densilé 7, 316 ténacité 24%, 70 4 canons de 32 livres Di 200 ND 2069 Satan 4 colombiades de 8 et 10 pouces » 7,290» 27595 MOYenneRen ONE TE DT 2 COMO ZO » Les propriétés mécaniques des métaux les plus essentielles pour la fabrication des canons sont la ténacité et la dureté, auxquelles on peut ajouter la densité, parce qu'elle est dans une relation intime avec les premières. Ces coefficients mécaniques, avec les instruments d'épreuve que l’on a construits, sont tout ce qu'on peut déterminer le plus promptement, et avec le plus de justesse. Une demi-journée de travail d’un ouvrier est suffisante pour extraire le petit cylindre d'essai d'une masselotte, et pour le faconner pour les épreuves; et ces épreuves peuvent étre faites dans une heure ». Le méme auteur dudit rapport, le Capitaine WaLsack, dans son autre rapport final sur l’examen des qualités des canons de fonte de fer PP Î en service, du 30 juin 1847, de Baltimore, résume ces observations générales et conclusions, qu’on reproduit encore ici en grande partie dans le but de constater l’état de la question en Amérique, où elle a fait le plus de progrès. » » » » 1° 67 les cylindres d'essai pour les gpreuves. — Dans les premières expériences ces cylindres d’essai furent pris dans les tourillons des canons. Les résultats obtenus ne peuvent pas ètre bons, parce que la rapidité du refroidissement et de solidification de cette partie » PAR JEAN CAVALLI. 361 saillante comparativement petite de la masse totale du métal, con- courramment avec le mélange des scories et du sable qui s’y arrétent pendant la coulée, altèrent la force et la densité de cette partie. Ces mémes inconvénients furent en partie rencontrés dans les cylindres d'essai pris aux parties saillantes de la culasse. Ainsi les cylindres d'essai les plus faciles è enlever, quelle que fit la position de la bouche è feu, et sur lesquels on peut ètre le plus rassuré par rapport à la justesse des résultats, ce furent ceux pris à la bouche; parce que le métal s’y refroidit sous la pression de la masselotte , et en une masse plus grande et proportionnée; et se trouve plus identifié avec le corps du canon. En outre dans cette partie le métal de ces cylindres se trouve contigu à celui des plaques ou disques d’essai pour les épreuves, coupes d’ordre de la Direction des canons coulés récemment et déposés comme échantillons des canons dans la salle des modéles à Washington. » 2° Manière de remplir la cavité fuite. — Pour ne pas défigurer la surface des canons, les trous laissés par l’extraction des cylindres d'essai, on les remplit solidement avec une composition humide de sel ammoniaque et de tourniure fine de fonte de fer. Il s’ensuit une prompte action chimique, lorsqu’on y ajoute de l’eau; par la décom- position de l'eau et du sel, il en résulte une composition de chlorure et d’oxyde de fer en masse compacte, qui s’attache fortement aux parois de la cavité à boucher. Cette composition durcit en peu d'heures, et en cet état supporte les effets du temps, et les chocs les plus forts du tir sans altération. » 5° Densité du metal à canon. — La densité du métal è canon a quelque relation avec sa ténacité et sa dureté. Elle varie dans les divers canons entre les limites de 6,9 et de 7,4, de 7,18 à 7,19 et aussi avec plus de latitude de 7,14 à 7,30. On la retient con- venable pour les canons lorsqu’elle subsiste avec les autres conditions nécessaires. Lorsque la densité est de 7,16, comprise dans les pre- mières limites susdites, le métal est trop mou, et il est géneralement faible en ténacité: lorsqu'îl excède la plus haute limite de densité, il devient trop dur et fragile. » 4 Tenacité du métal è canon. — La ténacité paraît ètre dans le plus grand nombre des cas la preuve la plus sùre de la bonne qualité du métal: lorsqu’un canon a cette propriété, et en mème temps une Serie II. Tom. XXIV. Dar 362 MÉMOIRE SUR LES ECLATEMENTS DES CANONS, ETC. » » » » densité correspondante, et que le caractère de la fracture en est dépendant, on en déduit la conséquence qu'il est capable d'une grande force et d’une grande durée. » © Caractère de la rupture. — Pour un eil expérimenté, un des meilleurs indices de la bonne qualité du métal est fourni par le carac- tere de la fracture, et dans l’absence d’auzres epreuves cet indice peut aider beaucoup. » 6. Exceptions à la relation generale entre la force et la densite. — Quoiqu'en general il paraisse exister une étroite relation entre la densité et la ténacité de la fonte de fer, un désaccord cependant a eté trouvé. Il y a des cas pour lesquels une densité moyenne était accompagnée d'un haut degré de ténacité; et par contre dans d’autres on a trouvé une faible densité accompagnée d’une grande force ; cependant dans ce dernier cas la ténacilé n’est jamais fort élevée. » 7° Resistance à la force d’ecrasement. — Dans les cas semblables aux précédents, lorsque la relation ordinaire n’existe pas entre la densité et Ia ténacité, Jai pensé que la faculté du métal à résister à une force d’écrasement, pourrait étre avantageusement expérimenteée, Ainsi j'ai fait à la machine des épreuves une addition telle, qu’une moitié du cylindre d’essai (qui a déjà subi l’épreuve de la ténacité ) serait maintenue dans sa position pendant qu'on lui appliquerait la force d’écrasement suivant la direction de son axe. La relation de cette force avec la ténacité et la densité, et par conséquent sa relation avec la durée du canon, pourra fournir des données ultérieurement utiles. Le petit nombre d’essais, que j'ai encore pu faire de cette facon, sont suffisants pour faire voir que cette addition à la machine répond parfaitement à l’objet pour lequel elle a été faite. » 8° Epreuve à l'excès avec la poudre. — Àu 4° article du programme des expériences il a été proposé de soumettre quelqu’un des canons è l'épreuve extrème avec la poudre et avec la pression hydrostatique. Les résultats de l’épreuve du tir qu'on a exécutée, ont vérifié suffi- samment ceux obtenus des autres gpreuves. » 9° Epreuve à la pression hydrostatique. — Cette épreuve fut appliquée avec succès dans les seuls cas de l’épreuve extrème. À un degré modéré de pression, c’est-à-dire de 3 ou 4000 livres par pouce carré (21 à 28 kilogrammes par millimétre carré), cette épreuve peut ètre utile pour découvrir les porosités et les cavités du métal (Extratt PAR JEAN CAVALLI. 3653 du Rapport sur les tirs d’épreuve des canons de la 1°°, 2% et 3°"° classe, faits è l’arsenal du fort Monroe, commencés le 5 juin 1852 et achevés le g mai 1853, par le Major J. D. Ramsay, aidé par le premier Lieutenant d’artillerie G. Gorcas, suivant la direction du chef. de l’artillerie. Conjointement aux instructions parvenues du Ministère de la Guerre on recut l’extrait suivant d’un rapport du Bureau de l’ar- tillerie du 30 janvier 1853). » 10° Zes epreuves pratiques, tirant aux charges de service pour la justesse de la classification des canons en fonte de fer... . Ensuite des insinuations du bureau dans sa missive de mars 1849, on propose à présent le programme suivant pour l’épreuve des canons classifiés provenant des différentes fonderies, rassemblés au fort Monroe, pour ètre tirés comme il suit, c’est-à-dire charge de poudre '/, du poids du boulet respectivement avec un bow/et et un valet de jonc sur le boulet. Avec ces charges le tir doit se poursuivre jusqu'à 500 coups, à moins que la pièce n’éclate auparavant. Après les 500 coups, comme il a été dit, la charge sera augmentée avec l’addition d’un boulet à chaque coup jusqu'à ce que l’àme soit remplie. Si le canon soutient toutes ces épreuves, on augmente la charge de poudre jusqu'è la moitié du poids du boulet respectif, avec l’àame remplie de boulets. » Sommaire des résultats. - Durée. — Des canons de la 1° classe (à l’exception des colombiades ) un seul éclata avec les charges de e service. De ceux de la 2° classe trois éclatèrent avec les charges de service. De ceux de la 3° classe cinq éclatèrent aux charges de service. » Les plus mauvais canons sont ceux de la 3° classe, 5 ayant éclaté aux charges de service, 3 entre le 52° et le 208° coup, un éclata au 318°, et un autre au 409° coup. » La quantité de poudre et de boulets employés par chaque canon est donnée au tableau &. » Tenacitée. — La ténacité des 6 canons qui supportèrent les tirs prescrits, varie entre 24500 et 31700 livres. » La durée anormale des 3 canons de la 3° classe (un desquels soutint tous les tirs) peut ètre expliquée à cause des échantillons qu'on prend pour les épreuves. » L’éclatement de la colombiade de 10 pouces au 94° coup semble conduire à la conclusion qu'une forte tenacité n'est pas une garantie contre l’éclatement. On observera que tous les canons ayant une 364 MÉMOIRE SUR LÉS ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. » ténacité de 26000 à 32000, à une seule exceplion près, ont soutenu » les 5oo coups de service: et l’exception, comme on verra par la suite » des tirs, n'est pas d’un caractère décisif. En totalité les irrégularités » paraissent ètre moindres pour les ténacités comprises entre ces limites » que pour celles ayant des limites plus ou moins grandes ». En Amerique, sur le méème sujet, parut encore en 1861 le Rapport des experiences faites dans l'Arsenal d’Alleghany par le Capitaine Ropman du département de l’artillerie des États-Unis, de l’année 1857 è l'année 1858, afin de déterminer les propriétés du métal à canon, et la résistance que les canons peuvent opposer à la force d’explosion, la pression actuelle par pouce carré dévolue aux différentes charges de poudre et projectiles , etc. Il suffira d'en rapporter ici les extraits les plus intéressants. pour lobjet de ce Mémoire; le but de l’auteur ayant en outre été de démontrer l’avantage de sa nouvelle methode de couler les canons à noyau et avec l’àme refroidie par un courant d'eau. Le passage suivant de la Préface est d’abord très-remarquable. « Peu ou aucun des sujets expérimenteés » ne sont regardés comme épuisés, les expériences étant dans la plupart » des cas faites dans les limites d’incertitude, sans qu'on soit parvenu » à une vérité absolue ». Dans le rapport des bons et des mauvais canons, à la page 137, on lit: « Sur g colombiades d’expérience coulées pleines, une seule a » été bonne; sur 6 colombiades coulées vides, trois furent bonnes, ayant » fait 1500, 1600 et 2452 coups respectivement sans éclater. » Il n'est pas hors de propos, pour démontrer la nécessité de faire » de plus grandes recherches sur les propriétés de la fonte de fer, et » sur son application à la fabrication des canons, de s’arrèter sur certains » faits de l’histoire de la coulée des canons avant 1849. La durée trés- » courte de la première paire de canons de 8 pouces expérimentés, » lesquels furent coulés dans cette année, fut attribuée à la qualité » inférieure de la fonte de fer employége. Deux années furent épuisées » dans la recherche d’une meilleure qualité de fonte de fer, laquelle » fut certainement trouvée, et en 1857 on coula une autre paire de » canons de 8 pouces. » La fonte de fer de cette dernière paire de canons avait. une » ténacité d’environ 38000 livres, tandis que la ténacité de la fonte de fer » de la première paire était seulement comprise entre 27 et 28000 livres. PAR JEAN CAVALLI. 365 » Le canon coulé massif de la première paire éclata au 85° coup, et celui de la seconde paire éclata au 73° coup; la fonte plus tenace ayant fourni le canon coulé massif plus faible. Ces résultats cependant ne détruisirent pas la confiance dans la fonte de fer forte pour les canons coulés massifs, et le premier couple de canons de 10 pouces fut fait de la mème qualité de fonte de fer, ayant une ténacité de 37000 livres, et le canon coulé massif éclata an 20° coup. Ce résultat affaiblit la confiance dans la fonte de fer très-forte, et la ténacité fut réduite. » En 1857, depuis que les canons de bonne ténacité avaient failli aux fonderies de Fort-Pitt, South Boston et West Point, 4 sur 7 canons offerts pour l’inspection dans la dernière de ces fonderies ayant éclaté dans l’épreuve, M." Parrot, propriétaire de la fonderie, un des plus expérimentés fondeurs de canons, coula ses canons d’épreuve du contrat avec une ténacité de 30 a 32000 livres. Un de ces canons a soutenu rooo charges de service de 14 livres de poudre (800 coups avec obus et 200 avec boulets ). La fonte de fer choisie dans cette fonderie , avec laquelle on a fait les 5 derniers canons d’'expériment, était de la méme qualité, et dans les mémes proportions que pour les canons susdits. En 1858, après l’insuccès au 169° coup des canons d’expé- riment de West Point faits avec cette fonte, M. Parrot la condamna comme étant trop forte pour les canons lourds. Avec cette fonte de fer condamnée , on fit le dernier couple n° 362 et 363, canons de ro pouces d’épreuve à la fonderie de Fort-Pitt, lesquels ont tiré 2452 coups chacun avec la méme charge de 12 livres de poudre et un projectile massif, et aucun canon ne creva. Ensuite ces canons ont encore tiré 1000 coups chacun avec 18 livres de poudre et pro- jectile massif sans crever ». On voit bien que l’expérience seule n'a pas suffi à déméler la question compliquée sur la ténacité du métal capable de donner la plus grande résistance vive aux canons. Il résulte du Rapport sur la résistance trans- versale (puisqu’on la distingue de celle longitudinale) du métal à canon, à la page r4r, qu'on a fait les épreuves sur des échantillons beaucoup plus grands que ceux pour lesquels le Capitaine WarsacK avait construit sa machine. Ces échantillons prismatiques, desquels on a cherché à déduire des résultats plus complets, avaient jusqu'à 40 pouces de longueur. A la page 225, sous le titre « Cowlees préliminaires pour le choix de 366 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. » Za miscèle pour les canons de 15 pouces », on voit qu'on a d’abord coulé debout quatre cylindres, chacun d’une miscéle différente, désignés avec les lettres 4, B, C, D, ayant la hauteur de Go pouces et à base elliptique, ayant leurs diamétres de 24 et 16 / pouces, pesant 5995 livres. La pl. IX représente la manière dont on a débité ces cylindres pour en tirer les barres d’essai. A la page 261 on trouve tous les résultats obtenus O) , bid r La »i par les différentes sortes d’épreuves; avec les épreuves mécaniques toutes les diverses proprigtes de la fonte de fer des quatre cylindres, c’'està- dire la densité, la ténacité, l’extension dernière, la dernière partie retour- nante et la dernière restante, la compression par pouce de longueur sous la charge de 35000 livres, la partie retournante de cette compression 5 > p ’ la dernière résistance à l’écrasement, et enfin la résistance transversale. 2 Suivent les résultats des épreuves hydrostatiques jusqu'à la rupture des canons sous les tensions statiques de 600 à 700 atmosphères, tandis que l'on verra que ces tensions instantanées maximum des gaz de la I paralifs pour faire lirer à ce canon une série de coups en augmentant successivement la charge » de poudre, car on pensait qu’il serait capable de résister à une très-grande force de concussion, » la pièce ayant été construite sous la direction de Sir W. ARMSTRONG, avec une altention et » un soin parliculiers. La série d’expériences avait commence par des charges de 70 livres (31k, 75) » de poudre, et un projeclile excédant 600 livres (272 kil.); après le 54° coup une craqure fut » découverte dans le sens longiludinal de la volée, le tube intérieur aussi bien que l’enveloppe » intérieure ayant céde à l’effort, ce qui mit fin à l’expérience ». 390 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETG. Les causes d’insuccès résident dans la nature méme des métaux employés et dans l’impossibilité d’obtenir plus ou moins directement du forgeron, de la main d’oeuvre humaine, des produits colossaux, soit en fer, soit en acier, suffisamment bons et homogènes tant par toute la masse de chaque grand canon, qu’entre ceux de la mème fabrication. Par contre, les progrès de la fonte de fer à canon ont toujours augmenté sans aucun des inconvénients précités, et les Américains ont pu couler ainsi les plus énormes bouches à feu qui aient jamais été faites, sans grande difticulté, ni grande dépense. A ces avantages des canons en bonne fonte de fer on en doit ajouter un autre qui leur est exclusif, celui de supporter la percussion des projectiles ennemis, par laquelle ils ne sont que difficilement mis hors de service; tandis que les canons, soit en fer forgé, soit en acier ductile, tels qu'il convient le mieux pour la résistance à l’explosion de la charge, sont mis hors de . service à peu près comme s'ils étaient de bronze, à cause que les coups qu'ils recoivent, enfoncent leurs parois jusqu'àè produire des bosses à l’intérieur de leurs àmes et empéchent ainsi le chargement. Quoiqu'on ait dépensé beaucoup de millions en Europe, dans la recherche d’un métal, à faire les gros canons, meilleur que la fonte de fer, aujourd’hui encore on peut dire avec l’amiral DanLGREN d'Amé- rique: « La résistance de nos canons fondus supporte donc la compa- » raison avec les meilleurs canons forgés d’Angleterre ». L’état de perfection qu’a acquis la fonte de fer des plus grands canons, surtout coulés avec la méthode Ropman, avec l’àme refroidie , supprime toute raison de rechercher un meilleur métal à canon, qui puisse soutenir le tir des grandes charges de poudre; car l’expérience et la théorie ont prouvé, que ces grandes charges ne sont plus néces- saires pour obtenir les plus grands effets balistiques. A ce moyen par lui seul déjà suffisant à assurer le bon service des canons en fonte de fer perfectionnés, un autre plus efficace encore peut ètre ajouté par l’emploi d'une poudre inoffensive pour les bouches à feu, mème pour celles de fonte ordinaire. Les épaisseurs maximum des canons américains en fonte de fer, du calibre de 15 à 20 pouces, SS 38 et 51, sont de 1, 1o calibre, épais- seur qu'on a trouvée suffisante, S 43; tandis qu'on a augmenté cette épaisseur dans les canons de fer et acier forgés, jusqu'à 1,44 calibres dans ceux Armstrong, jusqu'è 2 calibres environ dans ceux de Blakelg PAR JEAN CAVALLI. 3g1 rayés de 30 centimètres de calibre, et jusqu'àè 4,66 dans ceux d’acier Krupp russe de 1r pouces, pesant 26 tonnes etc. Enfin les résultats, principes et conséquences déduits, se résument de la manière suivante : 1° Les éclatements prématurés des canons en fonte de fer sont en genéral causés par des chargements défectueux, par l’emploi des poudres trop vives et par les dommages provenant des épreuves des tirs à outrance qu'on leur a fait subir dans les réceptions, et surtout par l’incurie de vérifier avec les épreuves mécaniques, si la fonte de chaque canon avait une résistance vive suffisante, et pour ne pas avoir rebuté les pièces aussitòt après qu’elles avaient été couldes, lorsqu’elles don- naient des résultats au-dessous des limites fixes de résistance vive (1). (1) Resumé des formules concernant les épreuves mécaniques des barreaux prismatiques d’essai pour les réceplions, moyennant: 10° La mesure de l’allongement et du raccourcissement, et des réesistances respectives à la limite de stabilité et de rupture; 2° La deduction des vitesses d’impulsion longitudinales à Vallongement et au raccourcissement, et de leurs relations avec celle du boulet dans le tir; 3° Déterminalion de la vitesse que Je boulet peut recevoir è l’instant du maximum de tension des gaz, correspondante à la resistance vive stable du canon, ainsi que la determination de cette vitesse à la limite de tolérance admisible. L’epreuve mecanique , pour obtenir ces coefficients è l’allongement, doit se faire à la flexion transversale perpendiculairement à la longueur des prismes, plantés d’un bout et libres de l’autre; et celle au raccourcissement est faite moyennant la compression longitudinale, sur des prismes plus petits recoupés après l’épreuve à la flexion du bout libre du prisme primilif, et mieux recoupés de l’autre bout fiché, dans la partie qui n’a pu étre altérée. F et F, sont les forces, l’une flechissante et l’autre qui comprime à la limite de stabilité ou de rupture. x et x, sont l’une la flexion, l’autre la compression produite, seulement élastique, ou élastique et ductile ensemble. L et L, les longueurs b et b, les largeurs du barreau prismatique. h et h, les épaisseurs D et D les poids respectifs de l’unité cubique du métal de ces prismes qui devaient étre égaux avant l’essai. P et Q les poids respectifs sur l’unité superficielle pour allonger ou raccourcir les prismes aux limites susdites. 1 et ;l’allongementetle raccourcissement correspondants de l’unité linéaire des prismes mémes. Y et 7, les vitesses d’impulsion pour allonger ou raccourcir ces prismes de ces quantités. On a pour les valeurs de ces coefficients mécaniques en fonclion des données F,%,9 OT A) Fat TORO : Q EL SET, EI OT IPIERI ere oi EGO 4003 ERA, 392 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. 2° La tension des gaz des charges de poudre embrasée dans les canons lisses et rayés, dans des espaces laissés derrière le projectile ———___—_—_—__k+"/t—eo—»——mrt+.+oé...__ _— ———___PPTPTr gD'A>Fp>p« La combinaison de ces coefficienis mécaniques, qu’on peut prendre pour la mesure explicite de la resistance vive d’un canon, è l’endroit de la tension maximum des gaz de Ja charge de poudre embrasce, se trouve dans la fonetion de la vitesse #,, que le projectile pourrait acquérir parvenu à cet instant, correspondani à la mème limite de stabilité ou de rupture de ces mèmes coefficients. Celte fonetion découle de ce que le travail de l’explosion s’épuise dans la compression et l’extension graduelle des parois du cylindre creux, jusqu'à la profondeur è laquelle ces mouye- ments s’éteignent, tandis qu’à la surface interne le métal est poussé à la limite de stabilité ou de rupture (voir le chapitre VI). Ret 7 soient les rayons externe et interne de la parlie cylindrique du canon contenant la charge, et 7, soit le rayon du projectile sphérique ou cylindrique, D et D, les poids de l’unité cubique du metal du canon et de celui du projectile, k le nombre de fois que le projectile cylindrique pèse en boulets sphériques, G la base des logaritmes Népériens: on aura Li î II ou log =((3 i log e ; To Sri +5) SENSO y/ o SMD RE R? SEE NE SE ACA I pE BE TAN RON Cso r,D, p al i) TANTE 1) log e L’expérience ayant fourni, avec la poudre aux pilons, tirant le boulet sphérique è la charge du MO, tiers, la vitesse e,=116m,5: étant alors X=1, el approximativement x D=r,D, et = 7 pour J o] la bonne fonte de fer, on a R è R_-r r dr —MF1068 PANDA PARISE Ces valeurs des vitesses d’impulsion excèdent la limite de stabilité trouvée dans quelques epreuves primitives, les résultats desquelles sont consignés dans les tables du Méemoire publié en 1863; limite cependant qu’on peut bien excéder dans le tir des canons sans inconvenients graves et immeédiats, à cause de la très-courte durce de la force vive de la poudre embrasée. Ce résultat est parfaitement d’accord avec l’état notoire de la resistance limitée de la moyenne des canons en foule de fer, regus sans que la résistance -vive en eùt été mesurce; parmi lesquels, cependant, plusieurs ayant présenté une résistance illimitée, on eut la preuve de la possibilité d’en ameliorer, comme on l’a déjà bien amélioree, la fabrication. Maintenant que l’on a encore perfectionné davantage la fabricalion des plus grands canons en + EMA AC Ra fonte de fer, on peut bien avec plus de confiance retenir que le rapport susdit — soit égal à 39% de peu inférieur; valeur qui, avec celles susdites de deux vitesses d’impulsion, que la fonte de fer mème peut bien soutenir à la compression et à l’extension è la limite de stabilité, donne justement la vitesse #,=116,5 mèlres par minute seconde: vitesse qui est la méme que celle qui fut trouvée dans une experience particulière déjà recue par le boulet sphérique parvenu au point du maximum de tension des gaz de la pouùdre embrasée dans un canon, lorsqu’il est tiré avec la charge de poudre d’un tiers de son poids, charge plus que suffisante à produire le maximum d’effet pratique. Les valeurs compélentes à celles susdites, des coefficients de résistance à la compression et à PAR JEAN CAVALLI. 393 proportionnels aux volumes de ces charges de poudre (dans la gargousse et dans des limites qui ne soient pas trop différentes entre elles), Vexlension à la mème limite de stabilité vraisemblablement admissibles pour la meilleure fonte à canon, sont respeclivement 24 et 9 kilogrammes par millimètre carré; valeurs qui, quoique élevées, ne dillèrent pas trop de celles deduites des prismes de fonte d’essai déjà éprouvés: prismes qui, avec les mèmes dimensions, pour l’essai à la flexion de millimètres 105 de longueur, 17,7 d’epaisseur et 32,5 de largeur, devraient soutenir la charge de 533 kilogrammes avec la flexion de 1,77 millimètres à la limite de stabilité; et pour l’épreuve à la compression avec des cylindres de 27,5 millimètres de hauteur, et de 18,5 de diamètre, devraient soutenir la charge de 2646 kilo- grammes, el se raccourcir de 0,518 millimètres. De l’ensemble des épreuves mécaniques, qui ont cte failes, il paraît que l'on peut tripler ces resistances de la limite de stabilité pour passer a celles de la limite de rupture; ainsi l’on aurait pour la dureté de la meilleure fonte à canon 72 kilogrammes par millimètre carré, et pour la ténacite 27 kilogrammes, inférieure de peu à 27,5 celle de la 7° classe de notre serie du $ 54 de la densité de 7,29, classe equivalente à la 5° de la série suédoise, à laquelle appartiennent les canons qui sont juges les meilleurs. De ce cas normal de la résistance vive d’un canon en dessus il ne peut y avoir la convenance de s’imposer une limite, si ce n’est pour les valeurs des coefficients méca- niques qui en abaisseraient trop celte resistance vive. En effet la convenance d’adopter une limite supérieure pour la durelé et la lénaciteé dans l’acceptation des pièces coulées fut praliquement jreconnue avant tous par les officiers prussiens de contròle auprès des fonderies suédoises avant SR cnsuito de l’eclatement halif de quelques pièces de contròle prises parmi les pièces coulces, appartenant aux classes supérieures de fonte de fer la plus dure et tenace, qu'on croyait ètre la plus resislante, et que pourlant on était obligé d’abandonner le plus souvent à cause seulement de la difficallé de percer ceux-mèmes de la 8° classe suédoise équivalente à la 10° de notre série, limile qu'on ne pouvait outrepasser. La lénacité de Ja meilleure fonte de fer de 28 kilogrammes, est déjà supérieure è celle du meilleur bronze; sa densité est environ de 7,315, qualité qu’on a obtenue non-seulement en Amérique, mais aussi en Europe, à l’arsenal de Turin et de Vienne, $ 54, et elle n’appartient quà la 6° classe suédoise, ou à la 8° de notre série. Il peut paraître de cela qu’on devrait prendre cette ténacité comme limite supérieure; mais des résultats contra- dictoires sur la resistance vive des canons en fonte de fer la plus tenace sont rapporlés dans des ouvrages officie!ls publiés aux Etals-Unis d’Amérique, cù, comme en Suède, fut ébranlée la croyance qu’on avait, que les pièces de fonte de fer la plus dure et tenace fussent toujours les plus résistantes. Comme en convient M. Ropman dans son remarquable ouvrage de 1860, de n’awoir put arriver è une conclusion rationnelle, malgré ses vastes recherches experimentales et les nombreux résultats oblenus, on voit qu’on ne pouvait de la connaissance seule des coefficients mécaniques en deduire rien de certain, et que seulement avec le concours de la théorie l’on pourrait trouver la, fonetion ou la combinaison de ces coefficients meécaniques du metal de chaque canon, aple à la mesure de leur résistance vive. Cette combinaison, la ihéorie nous l’a fournie dans l’expression explicite de la plus grande vitesse 9, en fonction des coefficients mécanignes, que la resistance vive d’un canon è la limite de stabilité ou de rupture permet au projectile de recevoir, depuis le commencement de l’embrasement de la charge de poudre jusqu'à l’instant du maximum de tension des gaz; tandis qu’au delà de cet instant, la plus grande com- pression et extension soutenues par les parois cylindriques du canon, retourneraient nécessairement en arrière, d’abord très-rapidement, environ avec la méme celeérité avec laquelle elles parvinrent au maximum, et ensuite toujours plus Jentement, jusqu’à la sortie du projectile de la bouche du canon. Consequemment, le metal à canon le plus resistant sera celui pour lequel la fonction irouvée de ses coefficients mécaniques fournira la plus grande valeur possible è la yitesse e,, et il ny Serie II. Tom. XXIV. 3B 394 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS; ETC. semble, d’après l’expérience, ètre à peu près la mème; quelle que soit la forme du projectile, malgré la différence de leurs poids de un è aura lieu è rechercher que sa moindre valeur admissible. A cet effet il faui d’abord rechercher quels sont les coefficients mécaniques qui ont été pris pour limite inferieure. Les officiers danois près des fonderies suédoises choisirent la 3° classe de la série susdite, equivalente è la 5° de notre série, pour la limite inferieure d’acceptation des jets de leurs canons, et les officiers de contròle suédois, avec ceux d’autres nalions, choisirent la 2° classe equivalente à la 4° de notre série. A ces classes correspondent respectivement les iénacités de 25 et 23, 5 kilogrammes par millimètre carré, et les densités 7, 24 et 7,21 qu’on prend aussi pour le rapport de dureté. Il faut ici dire que notre série de 12 classes a été acerue de deux classes en dessus des 10 classes sugdoises, parce qu'à deux classes de moins correspond effeclivement la fonte de fer des jets des canons, de celles des barres d’essai appartenant aux classes inférieures de ladite série suédoise: à cause que Je refroidissement est de beaucoup plus lent dans les grandes masses des jets des canons, que n’a lieu pour des masses immensément plus petiles, qu’ont ces barres d’essai coulées simplement dans des moules en sable; tandis qu’on oblient la mème qualité de fonte des barres de notre série pareille è celle des jets des canons, lorsqu’on enioure préventivement à la coulée ces mèmes moules des barres, d’un bain' de scories, ‘justement pour en rendre également lent le refroidissement. Consequemment, au lieu des classes 5° et 4° susdites de notre série, on doit prendre pour la limite inferieure de la fonte de fer à canon celie de nos classes 3° et 2°; puisque effectivement ce sont celles correspondantes à la fonte de fer des grands jets des canons, classes qui ont les densités respectives de 7,17 et 7,135, et les ténacités de 21 et 18 kilogrammes par millimètre carré. La moindre de ces deux ténacites, celle de 18 kilogrammes, ensuite des épreuves mécaniques failes aux États-Unis d’Amerique depuis 1841 pour toutes leurs bouches à feu, a été prise, pour la limite inferieure de celles jugées excellentes dans le partage qu’on en fit en trois classes; dans lequel on jugea bonnes celles d’une ténacité supérieure à 16 kilogrammes, et mauvaises celles inférieures. Plus récemment il parait (*), d’après-les conditions stipulées dans des contrats avec les fonderies pour fournilure des bouches à feu, que la ténacité devait ètre comprise entre 21,09 et 19,33 kilo- grammes par millimètre carré, avec une densité environ de 7,23. De ces divers renseignements on peul retenir celui de 18 kilogrammes pour la limite inférieure de la ténacité de la bonne fonte à canon: de sorle que, en relenant les mèmes rapports supérieurement établis pour passer de cette limite de rupture à la limite de stabilité, on aura pourles résistances à l’extension et à la com- pression respeclivement 6 et 16 kilogrammes par millimètre carré. Avec ces coefficients réduits 2 - cada o È È de mi de ceux 9 et 24 susdits de la meilleure fonte de fer, il s'ensuit nécessairement la réduction aussi des vitesses d’impulsion à 10%, 46 et 20m, 91 les È de celles 13m, 94 et 27m, 88 propres de ladite meilleure fonte, conséequemment avec la réductien aux 7 dela vitesse 0'= 116,2 5 qu’acquiert effeciivement le projectile sphérique; ce qui fait 0, = 87,4 pour la limite inférieure de stabilité de Ja resistance vive des canons en fonte de fer. Les prismes d’essai de dimensions égales à celles des prismes susdits n’auraient à soutenir à cette limite inférieure que la charge de 361,6, avec la flexion de 1,0 millimèlres, et è la compression celle de 1421 kilogrammes, avec 0,293 millimètres de raccourcissement. (*) Voir la Revue maritime et coloniale, livr. 55 de 1865, pag. 97, où on lit que, d’après les conditions en 1865 spécifices, la fonte doit offrir une ténacité qui ne soit pas au-dessous de 30000 livres par pouce carré (kilogr. 21,09 par millimètre boadeot que la résistance doit ètre en moyenne de 50000 livres par pouce carré; mais il y a une tolérance de 2500 livres en plus ou en moins, ce qui fixe les limites à 27300 et à 32300 livres par pouce carré (kilogr. 19,22 è 24,09 par millimètre carré). On observe une règle analogue A l’égard de la pesanteu D ] | : dA ) (14 iS) soit de 7,25 environ. PAR JEAN CAVALLI. 395 quatre; tandis que la moindre variation de cet espace cause un grand changement de cette tension susdite. ACE RESI ORA RA A VITA ALERT I ENI IA SS A AIR ARI Per EI Tous ces résultats sont assez plausibles et concordants avec ceux plus généralement admis, pour - a S NOIR 3 qu'on puisse prendre avec assez de confiance lesdits FT de la vitesse e,— 116% 5 pour mesure de la limite inférieure de la resistance vive de stabilité des bouches à feu coulées en bonne fonte de fer usuelle: quoique dans le tir du boulet à la charge du tiers cette limite soit ainsi dépassée 1 n ; . = R R o 7 ; tolérance qu'on peut bien admettre à cause de la très-courte durée de la force vive de la poudre embrasce; et cela jusqu’à ce qu'on puisse élever celte limite à la valeur entière de Ja vilesse mème qu’@acquiert le boulet è l’instant du maximum de la tension des gaz de la poudre ordinaire. Mais dès à present l’on peut affirmer que, lorsqu’on en viendra à la nouvelle manière de grainer la poudre, manière qui doit la rendre inoffensive aux bouches è feu, celles qui sont douges d’une resistance vive à la limite inférieure susdite, acquerront aussi une durée indéfinie. Si pour les canons en fonte de fer l’on a pu prendre pour la mesure inférieure de la resistance vive 'la vitesse donnée-par la fonction des coefficients mécaniques à la limite élastique de stabilité, que le boulet peut recevoir à l’instant du maximum de tension des gaz, cela n’est plus possible pour les canons de bronze, à cause du peu de dureté de ce metal, inférieure à sa teénacité, comme il paraît des résultats inserits dans les tables de mon Mémoire de 1863. En prenant pour exemple le premier essai de bronze y inscrit, on a les valeurs suivantes : E 20, = =1,52, R_r—0,36.2r ei /—16n,64, ] { } x un seul s de la vitesse de 116,5, qu’effectivement regoit le boulet sphérique, à l’instant du maximum de tension des gaz, tiré avec la charge d’un tiers de son poids. On ne peut donc compter sur la resistance vive à la limite de stabilité du bronze, ce qui en effet est démontré par l’expé- rience; car dans les canons de bronze, après peu de tirs, l’àme est gàtee et élargie surtout à l’endroit de la charge : et lorsqu’on tire avec une célérité supérieure à deux coups par minute, a cause de l’échauffement, ils perdent beaucoup en ténacité au point de se crevasser à l’extérieur et jusqu’à éclater. Mais en évitant ce cas, la très-grande ductilité du bronze permet que toute l’épaisseur des parois de ces canons concoure à leur resistance; de sorte que l’on aurait pour les épaisseurs suivantes : | A la limite de Stabilité élastique Rupture dlastique Rupture élastique et ductile R—r=0,36.27r, Ro) v,=16,64=1116,5, v,= 54079—=0,47.116,5, o,= 840,00=0,72.116,5 r DERO5 OR _- _ _ » 70, 97=0,61 » » 163, 59—=1,40 » v Gi » »d DE — _ = D bp = » 181, 61=1,56 » DEA Di I — _ — » 169, 75=1,46 » » 263, 87=2,26 » On voit, d’après ces résultats, qu'il suffit que l’épaisseur des parois à l’endroit de la charge ’ P »91 q i P 5 E 3, o ; } : des canons en bronze soit de gi un calibre, ce qui est conforme à la pratique. En retenant ce bronze de bonne qualité, la resistance vive élastique et ductile è la limite de rupture des canons pourra ètre mesurée par la fonclion des coefficients mécaniques respectifs, qui donneraient à la vitesse e; une valeur de 1,56 ou de 2,26 fois celle susdite du boulet, ayant respectivement les cpaisseurs de parois de 0,75 ou d’un calibre. 396 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. 3° Les qualités physiques de la poudre à canon ont de méme une très-grande influence sur cette tension maximum des gaz, tension que l'on a déduit de l’'expérience dans des canons de 12 lisses, tirés à la charge du tiers, ètre de 24000 atmosphères pour la poudre brisante de Wetteren, de 3700 atmosphères pour la poudre des pilons; et on a démontré la possibilité de faire de la poudre inoffensive, ne donnant que le quart de cette tension maximum des poudres des pilons. 4° Dans la réception des poudres à canon, l’on doit. également sassurer de leur puissance balistique, et de leurs qualités inoffensives pour les bouches à feu. L’essai doit donc étre fait avec l’éprouvette, le canon pendule de 12° long et le court, tirés'à la charge du tiers du boulet sphérique: pour le canon long le boulet doit recevoir la vitesse initiale voulue de 500 métres par seconde, tandis que tiré dans le canon court, où il n’ait è parcourir qu’'un demi calibre, la vitesse acquise ne devra pas depasser les 221 métres que donne la poudre au pilon, vitesse quon peut réduire à la moitié avec de la poudre alors inoffensive. 5° La progression décroissante du rapport entre la grande épaisseur du meétal à la culasse d'un canon, avec les épaisseurs successives jusqu'à la tranche de la bouche, ne peuvent ètre déduites que de l’expérience du tir contre un pendule balistique, de petites balles tirées d’un coté d'un canon d'essai. Cette décroissance est en raison directe de la viva cité de la poudre. 6° Du reste, le poids des bouches à feu en fonte de fer, nécessaire à leur stabilité dans le tir et è la conservation du pointement, est suffisant aussi à leur donner des épaisseurs capables de résister aux plus grands efforts utiles intérieurs des gaz, ei à supporter à l’extérieur a percussion oblique des coups ennemis. En effet l’expérience séculaire asp blique d L En effet l'ex} nous a appris, que les bouches à feu, mème en fonte de fer du poids Sì l'on compare cette résistance vive à la limite de rupture des canons de bronze avec celle des canons en fonte de fer srpérieurement prise pour la limite inférieure d’acceptation ; limite pour laquelle les vitesses d’impulsion à la limite mème de rupture auraient au moins une valeur double de celles à la limite de stabilité, les résistances seraient 4,35 fois autant, et en retenant en outre les mèmes rapporis établis; alors la vitesse 0, résulte égale à 175; d’où l’on voit que la résistance vive au commencement de la rupture intérieure des canons en fonte de fer la moins bonne, ayant 1,106 calibre d’épaisseur des parois serait égale à peu près à celle des canons en bronze, dune epaisseur seulement de 0,75 de calibre: résultat qui s’accorde aussi assez bien avec la pratique. PAR JEAN CAVALLI. 397 de 200 fois au moins le poids du boulet sphérique, ont assez de stabilité et soutiennent bien le tir à la charge du tiers, avec leur Gpaisseur de metal maximum de 1,10 à 1,25 au plus de calibre : et la théorie vient confirmer ce résultat pour la bonne fonte à canon, en demontrant qu’une épaisseur excédante® n'empécherait pas que la ruplure commencàt à l’intérieur sous un effort excédant la limite de stabilité. 7° La Théorie prouve en outre, que la résistance vive longitudinale d'un canon est de très-pew umférieure à la résistance-vive transversale à la conjonction du fond hémisphérique avec l’àme cylindrique, à instant du maximum de tension des gaz; et qu’après cet instant seulement la resistance longitudinale près des tourillons est notablement supérieure à la résistance transversale. 8° Les épreuves de tir dans la réception des bouches à feu de service, doivent ètre réduites à quelques tirs seulement d’ordonnance: et, parmi les épreuves à outrance de quelques bouches à feu, la seule concluante est celle des tirs continus, qui ne doiveni pas étre plus forts que ceux d’ordonnance. g° Les épreuves meécaniques sont les seules rationnelles pour les réceptions qu'on doit faire sur le métal de toutes les bouches à feu coulées , pris tout près de la tranche de la bouche sur la masselotte, qui doit avoir toujours une grande masse proportionnelle à celle du canon coulé. Le rapport de l’extension ou raccourcissement de ce métal ne doit pas ètre notablement inférieur de deux tiers pour la bonne fonte de fer, et en méme temps les vitesses d’impulsion, àè V'ex- tension et à la compression à la limite de stabilité élastique, ne doivent pas étre respectivement inférieures à Q et 27 méètres environ par minute seconde. i 10° Les canons en bronze, surtout de grand calibre, de mème que ceux en fer ou en acier forgé, à cause de la grande ductilité de ces meétaux, se difforment trop sous la percussion des coups ennemis. L'àme méme d’acier, si l’acier est trop ductile, s'use et. s'agrandit, quoique moins que dans les canons en bronze et en fer forgé; et sul est dur il n'est pas assez ductile, quoique plus tenace, et il offre moins de résistance vive; en tout cas la réussite n’est encore assurée que pour les canons de campagne; tandis que la réussite des plus grands devient de plus en plus douteuse avec l’accroissement de leur masse, 398 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. conclusions applicables aussi aux canons composés. C'est pourquoi, con- r x O . dA r . 5 7 séquemment à ce qui vient d'étre exposé, le choix du meilleur métal des grands canons doit tomber encore sur la meilleure fonte de fer, tant è l’égard de la résistance, qu'à celui de la dépense. CHAPITRE I. Des cclatements remarquables des bouches à feu en Belgique et ailleurs à cause des poudres brisantes. $ 4. Les éclatements imprévus des bouches à feu en fonte a préoccupé sérieusement les corps d’artillerie de toutes les nations, et c'est en Belgique que dernièrement ils eurent lieu d'une manière surprenante, et ont provoqué de grandes épreuves à la recherche des causes qui les avaient occasionnés. On attribua d’abord ces éclatements uniquement aux défauts de la fonte de fer, tandis que plus tard les épreuves démontrèrent quils étaient dus à la qualité brisante des poudres et au mode vicieux de chargement. En 1857 trois canons de 24 éclatèérent au polygone de Braschat (Belgique), l'un au 36° coup, un autre au 23°, et le troisième après 232 coups. Deux de ces canons furent coulés en 1847, le troisième en 1843. Ces éclatements inattendus mirent en émoi l’artillerie belge , et le Ministre de la guerre nomma une Commission chargée : 1° De rechercher les causes de ces éclatements ; 2° D’indiquer les moyens de les prévenir. En 1858 six nouveaux éclatements eurent lieu. Sous l’empire de ces faits le département de la guerre, par suite des propositions faites par le chef de l’arme, pensa qu'il y avait lieu d’établir un tir comparatif : 1° Entre les poudres réputées vives et celles réputdes lentes; 2° Entre les canons coulés avec environ '/; de fonte de seconda fusion et ceux coulés avec plus d’ 1/4 de cette fonte; 3° Entre les canons coulés depuis 1850 sous la direction de M. le colonel FrepERIX, et ceux coulés antérieurement è cette époque sous la direction de M. le général HucuenIss. PAR JEAN CAVALLI. 399 On lit dans les rapports de ces expériences, que « les résultats du » tir de cette année sont trop concluants pour qu'on puisse continuer » à établir une distinction entre les deux espèces de poudre; sur six » canons éclatés, trois se sont rompus avec la poudre vive et trois autres » avec la poudre lente. » Les six éclatements de cette année démontrèrent que ceux de » l'année passée ne peuvent pas ètre considérés comme des faits » exceptionnels; mais qu'ls sont tous dis à des causes qui leur » sont communes. » Dix-huit canons de 24, dont neuf coulés avant 1830 et neuf » coulés après, furent soumis à l’épreuve du tir continu. Tous ces » canons Zypes et autres éclatèrent prematurement. » Des lors la question des fontes ou des canons était tranchée ; les » premiers, pas plus que les seconds, ne pouvant étre utilisés en faisant » usage de nos poudres vives ou lentes ». $ 2. Les poudres étaient classées en poudres vives et poudres lentes, d’après leurs portées avec le globe léger du mortier éprouvette, res- pectivement plus ou moins grandes que celles obtenues. avec le globe ordinaire. i Parmi les conclusions de la Commission les seules essentielles à la question qui nous occupe sont les suivantes : 1° Le mode de classement ne différencie pas convenablement les poudres. 2° Les canons en fonte ont tous éclatés prématurément avec les poudres, dont on a fait usage dans ces derniers temps, soit qu'on les ait considérées comme vives, soit qu'on les ait appelées lentes. Suivant la Commission , abstraction faite d’autres causes (telles que dans le chargement on ai négligé de placer le bouchon de foin entre la charge et le projectile, et qu’on ait poussé celui-ci sur la poudre) dont l’existence est douteuse, la cause principale des éclatements réside dans les qualités brisantes de la poudre dont on fait usage dans ces dernières années ; car les canons résistaient bien lorsqu'on se servait de poudres autres que celles dont on a fait usage en 1857 et 1858. Enfin le général-major Tiwmerzans dit « La majeure partie de nos » poudres, aussi bien celles qu'on a classées lentes, que celles réputées » vives, sont brisantes; elles font éclater les bouches à feu sans dis- » tinction d'origine et de dosage. Leurs effets destructeurs se sont pro- 400 MÉMOIRE SUR LES ECLATEMENTS DES CANONS, ETC. » duits méme après une reduction des charges du tiers au quart ». Le général Piosert, dans son ZPaité d'artillerie de l'année 1859, p. 436, rapporte aussi que «....toutes les poudres des anciens procédés, et » celles du Bouchet et d’Esqueides à tonnes, sont plus inoffensives , » à la charge du tiers du poids du boulet, que la poudre d’Esqueides » à charbon roué avec meules, à la charge du quart du méme boulet ». S 6. Ces fàcheux résultats n’étaient pas nouveaux; en effet on lit à la page 243 du Cours sur le service des officiers d'artillerie, dans les fonderies, approuvé par le Ministre de la guerre en France, Paris, » 1839, pag. 170: « La nature de la poudre exerce une action très- » remarquable sur les bouches à feu. En 1827 une pièce en bronze .» de campagne de 8 ayant éclaté à Vincennes, un éclat de la culasse » d'un poids considérable fut trouvé à près de 200 méires de la bat- » terie. Cet événement porta l’attention sur l’espèce de poudre, dont » se composaient les charges; c'était de la poudre ronde du Bovcnet, » fabriquée par le procédé des tonnes et des presses, avec un charbon » distillé. » Des épreuves comparatives eurent lieu immédiatement sur six » pièces neuves, trois tirant avec la poudre ronde du Bouchet et trois » tirant avec la poudre fabriqude avec les procédés ordinaires des » pilons. Après un petit nombre de coups, les premières présentèrent » des gercures à l’extérieur, un refoulement énorme à l’intérieur, » et furent déclarées hors de service ; les trois autres n’éprouvèrent » rien de remarquable. Des épreuves ont eu lieu à Metz en 1837, » desquelles il semblerait résulter, que les poudres dont le grain a » une grande densité, fabriquéges par les meules ou les tonnes et le » laminoir, quels que soient le dosage et la nature du charbon, dété- » riorent les bouches à feu beaucoup plus que les autres poudres, et » les mettent promptement hors de service à la charge du tiers du » poids du boulet; charge qu'il est nécessaire d’employer pour obtenir » les vitesses initiales dont on fait usage dans l’artillerie ». Dans un document extrait d'un mémoire intitulé : Recherches et experiences sur les bouches à feu en fonte de fer, par le capitaine ELLé, on lit: «...... Des rebuts extraordinaires ayant eu lieu à la fonderie » de Toulouse par suite des épreuves de réception faites au mois de » mai 1838, sur des canons de divers calibres, l’entrepreneur de la » fonderie attribua ces rebuts aux effets de la poudre employée, et PAR JEAN CAVALLI. 4or » reclama une indemnité. Le Comité d’artillerie consulté sur cette affaire, » emit l’avis que le plus sùr moyen était d’essayer, dans les mémes » circonstances, aux deux autres fonderies la poudre dont on s'était » servi à Toulouse. En conséquence le Ministre donna ordre le 16 sep- » tembre 1838 que dans chacune des fonderies de Douai et de Stras- » bourg quatre canons de 24, cinq de 16, et cinq de 12 fussent » essayes avec de la poudre envoyée de Toulouse, fabriquge au Rip- » pault en 1338, la mème que celle employée aux épreuves de la » fonderie de MM. Mather. A Strasbourg on essaya d’abord trois pièces » de 16, cinq de 12 de place; les résultats furent si désastreux, que » le directeur de la fonderie demanda gràce pour ses canons de 24 ». La question des poudres brisantes est très-ancienne ; la poudre méme des pilons d’aujourd’hui est d’une vivacité bien plus grande que celle des anciennes poudres, et c'est là une des causes de la plus prompte dégradation de nos bouches è feu. Cette vivacité est due surtout à la peutesse des grains de nos poudres. Déjà dans les temps de Henri II M. Vicenkve (voir à pag. 21 des Re/lexions et études sur les bouches à feu par M. Trrovx, Paris 1849) rapporte, que dans les grosses bouches à feu 30 livres de poudre en petits grains produisaient moins d’effet sur les projectiles que 20 livres à gros grains, tandis que la plus fine endommageait la pièce. La composition de la poudre était 75,67 de nitre, 13,5 de charbon et 10,81 de soufre, presque les mèmes proportions de 76, 14, 10, considerées par les chimistes comme du plus grand effet. La trituration n'était pas raffinée, puisque le méme écrivain rapporte qu’en Allemagne et en Italie les poudres ainsi raffinées étaient offensives pour les -bouches à feu, et les faisaient éclater. Les grains des. poudres pour les grandes bouches à feu étaient de la grosseur de petites noisettes, méèlées avec toutes celles plus petites et meme avec la poussière, aucune partie n’étant enlevée. Cette poudre était chargée avec la lanterne et refoulée jusqu'à la faire pénétrer dans la petite chambre porte-feu. VicenÈvE assure avoir vu tirer près de S'-Antoine-des-Champs 300 ccups avec une piece de 33 du poids de 5000 livres avec la charge de 20 sans le moindre dégàt, et il ajoute qu’auparavani on n’'aurait pu tirer 25 à 30 coups sans que la lumiére se ffit agrandie, jusqu'è y passer le poing, et sans que la pièce fit en danger de crever, justement avec l’emploi d'une poudre d’une fabrication trop raffinee. Serie I. Tom. XXIV. ic 402 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. S 4. Les faits qu'on vient de rapporter, parmi beaucoup d'autres qu'on pourrait citer, sont bien suffisants pour constater les effets ficheux de certaines poudres reconnues brisantes. On a vu, que déjà ancien- nement on avait eu de semblables résultats des poudres perfectionnées; résultats qui viennent de se reproduire avec les poudres des nouveaux procédés de fabrication. Cependant par l’usage des poudres fabriquées avec ces nouveaux procédés, introduits d’abord en Angleterre, et suc- cessivement dans plusieurs antres États, quoique cet usage n’ait pas été suivi partout de résultats aussi mauvais, il n’en est pas moins résulté une durée toujours moins longue des bouches à feu. En Angleterre, surtout dans ces derniers temps, le cas d’eclatement des canons s'est accru au point de leur faire renoncer aux canons en fonte de fer, et de les engager à les fabriquer à grands frais d’autres métaux, sans qu'ils en aient été entièrement satisfaits; tandis qu’aux États-Unis d’Amégrique les plus grandes bouches à feu qu’on ait jamais faites, sont coulges en fonte de fer selon la méthode Ropman et tirges avec la poudre è gros grains, et ont donné des résultats satisfaisants. En France, où cette question des poudres brisantes a été profondé- ment étudiée à la suite des éclatements déjà cités, on est revenu de suite aux poudres à pilon, procédé qui est encore le seul réglementaire pour les poudres è canons, quoique les opinions favorables aux nou- veaux procédés soient assez répandues parmi les officiers d’artillerie. En Belgique l’artillerie avait adopté les nouvelles poudres; qu'elle ordonnait è la fabrique de Wetteren de manipuler selon ses propres prescriptions. La discussion suivante entre des officiers belges très-distingués suffira a démontrer l'état des idées à ce propos. M. le lieutenant-colonel Newens soutient les deux propositions sui vantes : 1° Que de deux charges de poudre identiques en tout, mais dif férant par leur combusubilité, c'est la plus combustible qui produit le plus grand effet sur les parois de l’àme avant le déplacement du boulet; 2° Que de deux charges de poudre identiques en toui, mais diffé- rant par leur combustibilité, c'est la plus combustible qui donne la plus grande portée à l’éprouvetie, surtout avec le globe allégé. Tandis quil admet la première de ces propositions, Monsieur le Général FrEéDEéRIX fait de justes objections à la seconde, les appuyant sur PAR JEAN CAVALLI. 403 des expériences faites par d’estimables officiers de l’artillerie anglaise , dans lesquelles la poudre la plus combustible avait donné la plus petite portée, et viceversa. Ces messieurs expliquent ainsi les différences. « La » poudre de Wetteren étant d'une combustion beaucoup plus vive que » la poudre anglaise, la charge se combure entièrement dans la chambre » du mortier éprouvette belge, et donne ainsi une grande portée; tandis » que la poudre anglaise étant plus dure, d'un grain plus gros et d'une » combustion plus lente, ne se combure qu’'en partie, et l’autre partie » est lancée hors du mortier, sans produire tout son effet sur le mobile. » Dans le mortier anglais de 8, à chambre tronconique, avec une » charge de deux onces et un projectile assez lourd pour donner à la » poudre le temps de se comburer entièrement avant le déplacement » du projectile, la poudre produit sa véritable force balistique ». La portée plus ou moins grande du globe allégé sur celle du globe ordinaire, obtenue avec la mème charge du mortier éprouvette belge , ne prouve autre chose si non que la fabrication de la nouvelle poudre était bien loin d’èétre homogène. Le deéfaut de ce imoyen d'épreuve pour arriver au but que l’on s'est proposé, n'est pas difficile à démontrer; car, si au lieu de deux seuls projectiles de différents poids, on en imagine une série commencant par un de liége, et allant jusqu'àè un de platine (70 fois plus lourd), et qu'on les tire du reste dans les mèmes con- ditions, il est évident qu'il y aura un de ces projectiles de la série pour chaque qualité de poudre qui sera lancé le plus loin; conséquem- ment il y ‘aura des couples de globes, un léger et un lourd, qui seront lancés à des distances égales, et d’autres qui seront lancés à des distances respectivement plus ou moins grandes, de sorte que l’on ne pourra rien en déduire. On ne peut guère juger de la force vive des poudres de qualités différentes, que par la mesure distincte de leur travail nuisible et du travail utile obtenu dans deux bouches à feu de méme calibre, l’une courte et l’autre longue, et assez semblables à celles de service. On voit donc, que le mortier éprouvette è deux globes seulement ne suffit pas mème pour mesurer l’un de ces deux travaux, et qu'àè cet effet il fau- drait tirer dans les mémes circonstances une série de projectiles creux d’un égal diaméètre, différant seulement en densité croissante. Il est évident, que chaque poudre mise en essai, en tirant ces pro- jectiles avec des charges égales en poids et en toute autre circonstance 404 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. identique, les portées que l'on obtiendra, en commencant du projectile le plus léger pour arriver successivement au plus lourd, iront en crois- sant jusqu'à un certain point de la série, et puis elles décroîtront. Le travail de la méme charge de poudre audit point de la série sera à son maximum d’effet utile, de manière qu'avant ce point, le temps pour lancer un projectile léger aurait été insuffisant à la combustion de la poudre, laquelle conséquemment était d'une combustion trop lente par rapport è l’inertie des projectiles plus légers. Tandis qu'au delà de .ce point de la série susdite, la comburation ayant lieu dans un temps plus court que celui nécessaire à lancer le projectile , cette méme poudre serait trop vive par rapport à ces. projectiles plus lourds. Asi est démontrée l'erronéité de ce moyen de réception pour mesurer le degré de force élastique nécessaire à la poudre à canon. Cette question épineuse des poudres s'est justement embrouillée, faute d'entente technique, et conséquemment par les défauts de toutes les éprouvyettes réglementaires connues, et de tout autre moyen d’essayer les poudres que l’on a mis en usage jusqu'è ces derniers temps. CHAPITRE II. Du mode de chargement et autres causes qui contribuenti puissammeni à la rupiure des bouches d feu. S 5. On croit que les anciens artilleurs, lorsqu'ils chargeaient les canons avec la lanierne, laissatent un grand espace à la déflagration de la poudre, et que c’était à cela que l’on devait la longue durée de leurs bouches è feu. Mais d’après ce que VicenÈvE nous rapporte, on peut douter de l’exactitude de cette pratique, puisqu’ils refoulaient la poudre jusqu'à la faire arriver dans la petite chambre porte-feu. I est cependant très-probable, que pour atténuer les effets destructeurs des poudres nouvelles d’alors, on introduisit l’usage de laisser plus d’espace à la charge; ce qu'ls faisaient aussi pour changer le projectile de place afin de ne pas laisser trop agrandir l’effeuillement orbiculaire, surtout dans les canons de bronze; ce qui fit introduire la pratique décrite par Diego Urrano, d’envelopper le projectile d’étoupe et de le rehausser par le mèéme moyen pour en reporter le centre sur l’axe de l’àme. PAR JEAN CAVALLI. 405 Rumrorn a démontré par ses célèbres expériences , que la poudre ren- fermée dans une cavité entièrement remplie, développe ‘une tension au moins de 5oooo atmosphères, et que cette tension se réduit à 10000 seulement, lorsque l'espace est d’ 1/3 plus grand que le volume de la charge. Le célèbre artilleur prussien ScmarinHorsT è trouvé à peu près le mème rapport, c’est-à-dire que la tension de 40 à 50000 atmosphéères est descendue à 11000 lorsque l'espace occupé par la poudre fut agrandi d’un tiers, et seulement de 3283 à 750, lorsque l'espace occupé par la poudre n’était que de la moitié à un quart (1). Cependant les meilleures pratiques sont aussi oubliées, et il faut que les mémes malheurs d’autrefois se reproduisent pour les rappeler de nouveau en usage. S'il était done aisé à GrisrAuvaL et à ProsERT, qui rappelèrent, chacun dans son temps, l’usage des charges allongées, d’en démontrer les avantages, il n’était pas également facile d’en répandre l’usage partout. Ainsi il ne faut pas trop se formaliser des accidents qui arrivent, ni trop s'en alarmer, car, en étudiant bien les causes, on retrouve les mèmes moyens déjà usités, aimsi que des moyens nou- veaux, pour obvier efficacement à des inconvénients jugés d’abord irréparables. En effet depuis la suppression de tout espace entre la (1) D’après d’autres auteurs la force absolue de la poudre serait beaucoup plus faible, et seulement de 4000 atmosphères suivant M. BRIANCHON. Des canons, dit-il, eclatent avant que la compression de l’eau contenue arrive à 1000 atmosphères, tandis qu’ils ne sont pas mème endommages après uo grand nombre de coups où, d’après HuTTON, la plus forte, pression exercée par le boulet serait environ 2000 fois celle de l’atmosphère; paradoxe qu’explique très-bien M. le General PONCELET en suivant le n° 177 de sa Mecanique industrielle, où è la fin il conclut ainsi: « Il y aurait lieu » de penser que ce resultat d’HurTON surpasse encore de beaucoup la vérité (on verra qu'il est » encore trop faible), si l’on ne savait que, dans certaines circonstances, les corps solides et ductiles » sont susceplibles de résister momentanement à des efforts qu’ils ne pourraient supporter pendant » un temps mème assez peu prolongé ». Cette réflexion suffit pour mettre en doute les résultats obtenus par les moyens des empreintes, lorsqu’on croit pouvoir comparer les empreintes obtenues par le choc des gaz avec celles déduites par la machine d’épreuve; méthode qui a été employée par le Major Ropman dans ses remarquables épreuves, du reste très-intéressantes. D’après les epreuves faites en 1860 il a estimé au moins de 20,000 livres par pouce carré, ou de 13610 aimo- sphères la pression maximum de la poudre de 0,1 pouce de grosseur des grains 2, 54 (voir à la page 116 de la Revue technologique militaire du Major TERSTEN, tom. IV, 1864). Cette eslimation done de la plus grande force de la poudre est d’autant moins juste que la méthode empioyée pour l’obtenir est moins rationnelle encore que celle employée par RumFoRT du pelit mortier ou cylindre creux expérimenté aussi par RoDMAN, lequel, d’après les empreintes, aurait trouve des tensions plus grandes que celles deduites de la ténacité de la fonte mème, en supposant que la resistance soit uniforme dans toute l’épaisseur du metal, comme dans l’épreuve de la résistance a la traction. 406 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. gargousse et le boulet, ensuite de l’introduction du valet d’Erseau, dans le chargement des canons de la marine francaise, on eut des éclatements de canons neufs de 30, tirant à la charge de 5 kilos, après 4oo coups en moyenne; de sorte que la Commission des expériences avait conclu alors: « que la prudence commande de retirer les canons de 30 longs du service, lorsqu'ils ont supporté environ 300 coups ». Au siége de Sebastopol ces éclatements cessèrent presque entière- ment quand l’ordre fut enfin donné de remettre un et méme deux valets ou bouchons entre la charge et le boulet. Les expériences de 1847 avaient déjà prouvé, que par ce simple changement dans le chargement la durée des bouches à feu allait au delà de 2000 coups; mais ce cor- rectif ne put ètre adopté que trop tard, à cause du temps immense que les commissions, les comités et l’administration exigent pour décider les affaires méme les plus urgentes, lorsque les chefs ne savent pas prendre sur eux la responsabilité du commandement, responsabilité qui ne peut avoir de valeur que lorsqu'elle n'est pas subdivisée. « Au » siége de Sébastopol un assez grand nombre de canons en fonte de » fer, rapporte le général Prosert à la pag. 647 de son Zraité d’ar- » tillerie de l'année 1856, dùrent étre réformés du 17 octobre au » 1o novembre 1854, après 4 à 500 coups tirés avec le chargement » de la marine par suite du progrès des dégradations qui se manifestè- » rent par l’évasement des lumières. Sur l’attaque gauche 3 canons de 30, » qui paraissaient neufs, ont éclaté, l’un le 3 novembre 1854, après » 200 coups à la charge du tiers du poids du boulet; le second, le » 16 avril 1855, après 290 coups, à la charge du quart, avec le. char- » gement de la marine, et enfin le troisième après 90 coups, aussi à » la charge du quart et avec le chargemeni de la marine, dit successif. » Avec le chargement allongé de l’artillerie de terre, employé du » g avril au 8 septembre, les bouches à feu en fonte de fer ne subirent » plus de degradations rapides par suite de leur propre feu, et quelques- » unes fournirent une carrière de 2000 coups à la charge du quart » du poids du boulet ». $ 6. Il est très-intéressant de reproduire encore quelques résultats des expériences faites è ce propos par la marine francaise, vu leur importance et la précision avec laquelle elles ont été faites et résumeées. Les expériences susdites, qui avaient pour but d’observer et de com- parer l’influence des diff&rents modes du chargememt sur la conservation PAR JEAN CAVALLI. 407 des bouches à feu, eurent lieu d’abord en 1847 sur les canons de 30 coulés è Ruelle, avec les quatre modes de chargement suivants : Canon n° 1. - On introduisait successivement la gargousse et un bouchon de foin, et on refoulait une fois. On placait ensuite le boulet, puis un second bouchon de foin, et on refoulait une fois. Canon n° 2. - On introduisait successivement la gargousse, le boulet et le valet d'Erseau, puis on refoulait deux fois. Canon n° 3. - ©n introduisait la gargousse, puis le valet en etoupe, et l'on refoulait une fois; on placait ensuite le boulet ei le second valet en etoupe et l'on refoulait deux fois. Canon n° 4. - On introduisait la gargousse, puis le valet en étoupe et on refoulait une fois. On placait ensuite le boulet et le valet d’Erseau et l’on refoulait deux fois. Le canon n° 2 éclata au 407 coup, ensuite du chargement régle- mentaire comme ceux essayés auparavant, tandis que tous les autres ont resisté à 2000 coups, ensuite de l’interposition du bouchon ou du valet. Ces résultats très-rassurants pour la durée et conservation en bon etat des bouches à feu en fonte, lorsqu'on n’oublie pas les conditions auxquelles ils sont dus, s’accordent parfaitement avec les conclusions de la Commission de Lafère de l’artillerie de terre francaise, qui fut constamment opposée à l’introduction des bouches à feu en fonte, et qui ne les a adoptées depuis 1852, qu'après des épreuves du tir con- tinu de 2000 coups. La Commission de Lafère insista sur le point, « qu'aucune pièce » n'a éclaté, et que leur mise hors de service n’a été amenée unique- » ment, que par l’accroissement des lumières, à en pouvoir conclure, » dans l'ensemble des épreuves, les faits observés décident de la manière » la plus favorable la question de la résistance du metal. Elle signale » particulierement en faveur des canons de fer la parfaite conservation » de l’àme après un tir de 2000 coups, la justesse du tir et la portée » qui ne semblent pas avoir varié sensiblement pendant la durée des » épreuves, malgré l’énorme quantité de gaz qui s’'échappait par les » lumières de plus en plus agrandies ». Ajoutons encore le irès-intéressant résultat rapporté par le général Frépférix dans ses notes sur l’épreuve de deux canons de 6, dont un cerclé, d’après son projet éprouvé en 1840 par le tir continu avec le chargement allongé, qui ont supporté chacun 6000 coups sans éclater. 408 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. S 7. Il est de mème intéressant de rapporter les effets généraux des tirs sur les canons, observés dans les essais susdits, faits par la marine francaise. Touchant la dégradation de l’àme, voici l’exposition textuelle des résultats: « Quel que soit le mode de chargement que l'on emploie, » la partie de l'àme.située en avant de l’'emplacement du projectile » reste à peu près intacte. On n’y observe aucune trace de battement du » boulet; elle éprouve seulement à la longue un iéger accroissement de » diamétre. Au-dessus du projectile l’ème présente bientòt une foule de » sillons sinueux et dirigés dans le sens de la génératrice. Après 400 coups » à la charge de 5 kilos, leurs dimensions transversales sont encore » très-petites, et leur longueur ne dépasse pas 4 à 5°”, mais ces dégra- » dements s’accroisssent ensuite rapidement lorsque la durée du tir vient » à se prolonger. Après 1200 coups elles s’'étendent de ri à 12°", et » quelques-uns des sillons dont la forme est d’ailleurs fort irrégulière , » ont en certains points une profondeur et une longueur de 6 à 7, et » méème 10°", i » Après 2000 coups, on trouve quelquefois des largeurs de 28” et » des profondeurs de 1,9"". ‘Toutefois ces dimensions extrèmes ne se » manifestent qu'en quelques points des sillons. La longueur totale de » ces derniers, après 2000 coups, est d’environ 13 à 14°" ». Les sillons s’affaiblissent à droite et à gauche de la partie culminante du projectile, et la paroi inférieure de l’àme reste intacte. L’échappement du gaz par le vent de 5,1 mill, qui a lieu au-dessus du boulet pendant le temps nécessaire à vainere son inertie , est la cause évidente de cet unique dégàt de l’àme, outre l’agrandissement de la lumière où la mème cause produit des ravages semblables. Ceux qui ont fait des expériences sur les armes, et surtout sur les canons se chargeant par la culasse, ont eu l’occasion de connaître la force énorme des courants de gaz de la poudre embrasée pour attaquer les métaux les plus durs avec une puissance bien supérieure à celle de ‘tous les outils les plus durcis par la trempe. Le moyen d’empècher ces dégàts décrits par Diego Urrano, tendant à centrer le projectile, ne suffit pas. Il faut réduire le vent autant que possible, et si l'on craint qu'en con- séquence la tension des gaz puisse s’élever trop, et endommager la pièce, il suffira de réduire la charge. L'on peut annuler le vent là seulement ou le projectile s'arrète dans l àme, par un raccordement conique , et puis tant soit peu sphérique, PAR JEAN CAVALLI. 409 pour que les boulets peu différents en diamétre puissent ètre arrètés à peu près à la méme distance du fond de l’àme qu'on ferait à cet effet, dès ce point, d'un diamètre un peu plus petit. Le vent de 5"" desdites pièces de 30 est trop grand, et si pour les canons obusiers d’un calibre bien supérieur on a pu réduire le vent à 2"" à plus forte raison on doit pouvoir le réduire d’autant pour les calibres plus petits. Le tir è boulet rouge n'est pas méme une raison suffisante pour ne pas le réduire, car leur agrandissement ne peut pas surpasser la retraite du metal en se refroidissant, qui n'est que d"/,. à peu près. Les crasses qui peuvent s'accumuler au point d’arréter le pro- jectile dans l’àme, peuvent aussi étre facilement enlevées, en employant des écouvillons de fil de laiton, ayant conjointement le racloir et en le mouillant souvent, operations qui sont toutes à l’avantage de la conser- vation de la bouche à feu, et de la justesse du tir; car il est généra- lement reconnu, que dans toute arme, pour la justesse de tir, il faut, avant tout, la maintenir bien propre. S 8. L’orifice supérieur de la lumière agrandi graduellement perd , peu à peu, sa forme circulaire, et finit par en prendre une très-irrégu- liére. Toutefois le contour se rapproche en général d’une ligne convexe. Quant è l’orifice inférieur , il prend le plus souvent la forme d’un iriangle curviligne; deux des pointes sont dirigées perpendiculairement aux genératrices de l’àme, l’une à droite, l’autre è gauche, et la troisième se prolonge en avant et parallèlement è l’axe du canon. La partie posté- rieure du triangle est formée par un arc convexe; les deux autres còtés sont des arcs concaves. Ces trois arcs sont parfois sinueux, et offrent de fortes irrégularités. Quelquefois une quatrième pointe se manifeste en arrière, et se pro- longe parallèlement à l’axe du canon, mais sa longueur est moindre que celle de la pointe antérieure. La forme de l’orifice se rapproche alors de celle d’une étoile è quatre pointes réunies par des arcs concaves. Les variations qui se sont présentées à cet égard dans les expériences précedentes sont fort irrégulières, et il serait difficile d’en conclure quelque chose en faveur de tel ou tel autre chargement. Ainsi, si les quatre pointes ont paru dans le canon n° 2, soumis au chargement ordinaire de la marine (gargousse-boulet, valet-Erseau), on les a apercues de méme dans le canon n° 3, pour lequel on se servait du chargement à deux valets en étoupe. Serie II. Tom. XXIV. > 410 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Le diamètre de la sonde qui traverse la lumière croît à peu près de 1”®,3 par chaque centaine de coups. Cette règle est vérifiée jusqu'à $o0 coups. Dans la pratique ces dégradations sont moins rapides, puisque sur les 85 coups qui forment l’approvisionnement d’une pièce à bord d'un vaisseau, il n°y en a guère que 17 pour lesquels on emploie la charge de 5 kilos. Dans les canons qui se chargent par la culasse on observe bien mieux la marche des dégradations intérieures de la lumière, et c'est d’après l’expérience acquise sur le premier grand essai de 1842 (voir $ 43 vers la fin) que nous avons pensé de garnir cet orifice intérieur de la lumière d'un simple cylindre de cuivre forgé de 28 mill. de longueur et de diamètre. Par ce moyen on empèche pour longtemps l’agrandis- sement de l’orifice intérieur de la lumière, et conséquemment aussi l'orifice extérieur; mais l’expérience a fait reconnaître que le canal de la lumière s'agrandissait encore dans la fonte au-dessus du cuivre, et qu'il s’y formait un arrét dù à sa moindre grandeur dans le cuivre. Pour la conservation uniforme de tout le canal de lumière, l’artillerie sarde, d’après notre proposition, a adopté le grain de lumière à la Mathis, ainsi nommé parce que ce. chef d’atelier imagina et rendit très-facilement praticable la pose et le changement de ces grains sans vis, mème dans les canons se chargeant par la bouche (voir vers la fin du $ 43). Par ces grains à la Mathis, qu'on peut toujours faire d'une seule pièce de cuivre, et les placer en les courbant, le dégàt de la lumière est entiérement empéché , ainsi que les crics où prennent leur origine les fentes susdites qui, en grandissant à chaque coup, accéléraient l’écla- tement des pièces en fonte. C'est, seulement dans l’emploi des fortes charges, ou d'un chargement mauvais que le canal de la lumière, avec ce grain en cuivre, se rétrécit démesurément au lieu de s’agrandir à l’orifice intérieur, de manière è ne pouvoir étre ajusté par les canonniers, avec un alésoir aussi simple que le dégorgeoir, défaut qui disparaîtrait avec tous les autres, par l’abandon des fortes charges qui ne sont nul- lement nécessaires à produire le plus grand effet balistique. Par ces moyens, les scules dégradations de l’àame des canons en fonte à la place du projectile et à la lumière étant empéchées, la bouche è feu pourra soutenir un nombre de coups bien au delà de 2000, avant quà cause de l’agrandissement de l’ùme elle soit hors de service. Mais l'on objecie, que c’est par l’agrandissement de la lumière, lorsqu'elle PAR JEAN CAVALLI. 4II arrive de 6 cu g à 14 ou 15 mill., qu'on estime que la bouche à feu a déjà fait 380, ou 600 à 700 coups, car l’expérience a prouvé que jusquà 800 coups elle s’agrandit regulièrement d’r mill. pour chaque centaine de coups. On s'est arrété à ce nombre parce que les étoupilles à friction peuyent bien ètre employées tant que la sonde qui traverse la lumière, n'a pas un diamétre supérieur à 14 ou 15 millim; mais alors la pièce n'a encore supporté que 600 ou 700 coups'à la charge de 5 kilos, nombre bien éloigné de ce que les canons peuvent supporter. Mais cette manière d’estimation, jusqu'ici tolérable, faute de mieux, ne l’est plus à présent, puisqu’on n’aurait pas pu juger, par l’agrandissement de la lumière, l’état des pièces qui auraient éclaté par les susdits charge- ments défectueux. En outre l’on se tromperait grandement en jugeant le nombre des coups par les agrandissements dans des pièces de la fonte la plus dure, en comparaison de ceux des fontes les moins dures; tandis quà égal agrandissement le canon de fonte plus dure serait bien plus près d’éclater que l’autre. Enfin on a bien d'autres renseignements plus rationnels pour juger de l’état des canons, tandis qu'il n’est pas rationnel de s’abstenir de mettre les grains pour ce motif, avec la certitude d’an- ticiper ainsi l’éclatement de la pièce. S 9. Des faits remarquables précédemment cités, et de beaucoup d’autres qu'on pourrait recueillir, il résulte qu'il faut accorder la plus grande influence au mode de chargement des canons touchant leur durée. On a vu que l’interposition d’un valet en étoupe, cu d'un bouchon de foin placé entre la gargousse et le projectile, sont éminemment favorables à la conservation de la bouche è feu, sans affaiblir la vitesse initiale du projectile. On a vu aussi par l’expérience directe que le changement de l'espace derrière le projectile fait changer plus qu'aucune autre cause la tension des gaz. Ainsi c'est l’invariabilité de l'espace laissé derrière le projectile quil faut assurer, après en avoir déduit la mesure de cet espace le plus convenable, et trouver un moyen de fixer le projectile à la distance voulue, tout en supprimant le valet, suppression qu'on avait trouvée convenable de faire. Les éclatements prématurés des canons de 30 de la marine francaise eurent evidemment lieu à cause de la sup- pression de tout espace vide entre le boulet et la poudre , et à cause aussi de la plus grande condensation de la charge causée par les forts coups de refouloir quil faut aussi supprimer en empèchant de mème, qu’en poussant avec trop de force le refouloir, l’effet des charges allongées 412 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. ne soit ainsi anéanti. Il faut absolument empécher que l’enveloppe de Ia gargousse en papier ne crève facilement par la moindre pression du refouloir, et que sous ces coups ne vienne aussi à crever celle en tissu; circonstance qui dans la pratique se vérifie très-souvent, malgré les pres- criptions contraires, à cause souvent aussi de l’emploi des bouchons trop petits, ou de leur suppression, faute d’en avoir, ou afin de pouvoir tirer plus vite. De sorte que la réunion de ces circonstances fàcheuses rend illusoire, plus qu'on ne le croit, le chargement allongé; et alors voilà quelles sont les causes les plus puissantes de l’éclatement inattendu des bouches à feu en fonte, ou du peu de durée de celles en bronze. Ainsi à la marine, comme pour toute artillerie, on pourra employer le valet d’Erseau seul sur le projectile, et supprimer le valet ou les bouchons entre le projectile et la charge de poudre, pourvu que par d’autres moyens on assure encore l’espace voulu pour la charge derrière le projectile, mieux que ne l’assurent des corps compressibles. Cet espace devrait ètre maintenu au moins comme si l’on n’avait pas dté le valet ou les bouchons de peu de densité; et alors cet espace résulte double environ du volume de la charge en gargousse, ce qui correspond è trois calibres de longueur pour la charge du tiers, proportion que l’on pro- pose d’adopter en principe, en allongeant alors la gargousse, pour qu'elle arrive du fond de l’àme au projectile. Maintenant cette distance du projectile au fond de l’àme peut ètre assurée de différentes manières, également simples et praticables. Dans les canons lisses il est déjà en usage dans quelques artilleries de rétrécir un peu l’àme à l'emplacement de la charge, de sorte que le projectile y soit arrété toujours à la méme position. Cette disposition n’empéche pas d’exécuter les tirs aux moindres charges, l’inconvénient n’étant pas assez grand pour qu'è cause de cette disposition on soit obligé de les faire plus fortes; et les moyens de maintenir ces petites charges sous la lumière ne sont pas plus difficiles à pratiquer. Mais sans rétrécir l’àme du canon, on peut de mème assurer la position invariable du projectile à toute distance, en arrètant dans V’axe de la gargousse une tige de bois de la longueur voulue , chose très-facile à pratiquer, et qui procurera l’autre avantage de consolider et d’assurer la gargousse, afin que la poudre ne puisse étre écrasée dans les coffres ou caisses de transport. Par le moyen de cette tige on pourra encore mieux assurer la position des petites charges, afin qu'elles restent au-dessous de la lumière; et sous PAR JEAN CAVALLI. 413 ce rapport l’adoption de cette tige affermie dans l’axe de la gargousse sera aussi utile pour le tir dans les canons rayés, quoique le projectile puisse y ètre aussi arrété dans une position invariable, si la combinaison des rayures et des ailettes ne s’y oppose point. L’allongement des charges avec la position constante du projectile pour chaque différente charge serait non-seulement avantageuse à la durée de la bouche à feu, mais on gagnerait aussi dans la justesse des 5 portées, particuliérement lorsqu’on tire à charges réduites, leur variabilité etant alors surtout due à la variabilité de l’espace laissé derrière le projecbile. $ 10. On vient de voir que le tir avec le projectile sur la poudre, qui n'est pas refoulée jusqu’au refus complet, et d’autant moins jusqu'à l’écrasement des grains de la poudre, est le plus nuisible pour la bouche à feu; mais il n’en est plus ainsi lorsqu'on refoule puissamment la charge de poudre. Lors de la réception à Voolwich d’une fourniture de canons faits par des industriels anglais à V'artillerie italienne, dans les tirs ordinaires d’épreuve faits d’abord avec le chargement de faction, des agrandissements tellement excessifs de l’àame se produisirent à l’endroit de la charge, quils mettaient les pièces au rebut. Les fournisseurs en attribuèrent la cause au mode de chargement avec un valet entre la poudre et le projectile, et obtinrent que le chargement fit fait comme le pratique l’artillerie anglaise pour le tir ordinaire de réception de leurs bouches a feu, c'est-à-dire, sans valet entre la poudre et le projectile, et la charge de poudre excessivement refoulée è grands coups. Alors l’agrandissement n°a plus été excessif, et les pièces ont di étre acceptées. Par ce dernier procédé de chargement on était dans la croyance de produire le plus grand effet, mais il n’en a pas été ainsi. L'explication de ce fait se trouve dans les essais sur le chargement allongé, où il est résulté que la plus grande vitesse est acquise au projectile par un certain degré de l’allongement de la charge, degré répondant peut-étre au maximum de tension des gaz, à la suite du plus grand embrasement de la poudre, degré pour lequel il faut un certain espace et une certaine quantité d’air. M. Brancni l’a prouvé récemment par ses expériences sur la poudre ordinaire le fi/minant-coton et la poudre fulminante elle-méme. Ces poudres, dit-il, brilent dans le vide avec une lenteur extraordinaire, à peu près comme l’amadou; tandis que dans l’air elles brilent avec la vitesse de la lumière de 298 à 300 mètres 414. MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. par minute seconde. Déjà D'Anronr, dans son Esame della polvere (Torino, 1765, S 70), a prouvé par expérience que la cause des moindres portées, lorsque les canons sont très-échauffés, et dans les grandes chaleurs, c'est le défaut d’air pour la combustion intérieure de la poudre. Ce célèbre artilleur de son temps en outre a trouvé, au $ 4, qu'une partie de la poudre ne brùle pas dans un milieu d’air très-raréfié, malgré le contact de la flamme de celle déjà bràlée. Outre l’importance de ce rapport ci-devant établi entre le volume de la charge et l’espace laissé dans l'àame du canon derrière le projectile , on sait que le rapport entre le poids de la charge de poudre et le poids du projectile a encore la plus grande importance sur l’effet maximum à produire, ce qui a été l’objet de notre précédent Mémoire. A ce propos il est essentiel de relever ici, que le plus grand travail mesuré par la plus grande portée n’est pas ordinairement celui qui est le plus important de chercher; car le plus souvent un peu plus ou un peu moins d’élévation suffit pour atteindre la poriée voulue, tandis qu'il faut chercher plutòt è accumuler dans le projectile parvenu à la bouche du canon la plus grande quantité de mouvement due au travail de la poudre embrasée, employant une charge, et lui assignant une masse telle à produire le plus grand effet, effet qu'on a vu n'étre pas du tout proportionnel à sa force vive. Il résulte de ce Mémoire que les charges de poudre qui donnent à peu près le maximum de travail utile dans le tir (avec le canon), sont comprises de */, ou '/,, à celles de '/ à '/5 du poids du projectile. Les charges les plus fortes en usage ne sont donc pas celles qui donnent le plus grand effet dans le choc du projectile, près de la bouche du canon, et d’autant moins plus loin; effet qu'on peut obtenir de méme que la plus grande quantité de mouvement (voir le Mémoire publié avant celui-ci), tout aussi bien avec les petites charges précitées, propor- tionnellement au poids du projectile. Ainsi on peut affirmer que le véritable progrès se trouve dans la réduction progressive, qui a eu geénéralement lieu, de la charge de la moitié au tiers, et aux plus petites charges; réduction qui, pour étre rationnelle, doit aussi ètre poussée pour les canons rayés du sixièéme au douzième, et à moins encore pour les plus grandes bouches à feu. Conséquemment on voit que, pour obtenir le plus grand travail utile des canons, il faut limiter les charges de poudre, et augmenter le poids du projectile, et améliorer leur forme, ce que l’on a fait avec les canons PAR JEAN CAVALLI. 415 rayés, avec lesquels les portées et la justesse du tir se sont considérable- ment augmentées, ainsi que la puissance de percussion et de pénétration, véritable progrès prévu par la théorie, et confirmé enfin par l’expérience de tous les États qui viennent d’adopter les canons rayés en hélice. Par l’application de ce principe avec l’autre précité des charges suffisamment allongées, on peut donc assurer les bons services des canons en fonte de fer, sans la nécessité de chercher d’autres canons beaucoup plus coùteux, et qui, malgré cela, ne sont pas encore siùrs pour les grands calibres. CHAPITRE HI. Sur la détermination par lexpérience directe des charges d'un égal effort trans- versal contre les bouches à few lisses et rayées; difference inappréciable d'effort causée par la rayure et le plus grand poids des projectiles. S ff. Les canons rayés étant encore plus exposés que les lisses à étre endommagés par un chargement défectueux, il était important d’en rechercher les meilleures conditions en comparant les effets des variantes du chargement les plus connues des canons lisses avec ceux des canons rayés. Les projectiles cylindriques des canons rayés les plus longs exigent plus de temps pour que leur inertie soit vaincue ,, quelle que soit l’intensité de l’impulsion; cette cause laissait craindre que la tension maximum des gaz s’élèverait plus que dans les canons lisses, outre la limite convenable pour obtenir le plus grand travail utile de la poudre sur le projectile parvenu à la bouche du canon, et le moindre travail possible sur la bouche à feu; mais la théorie, $ 60, démontre que pour vaincre l’inertie des projectiles sphériques il faut plus de temps que n’exigent les projecliles cylindriques d’égal diamètre et de double poids. Comme on a d’abord placé le projectile sur la poudre, dans le tir de mes premiers canons rayés, en supprimant les bouchons ou valets jugés inutiles, suppression que l’on a vu étre, sans l’allongement de la gargousse, très-puissamment nuisible à la durée des bouches è feu lisses, on a pu, sans s’apercevoir de l’équivoque, attribuer la moindre durée des canons rayés aux rayures et aux ailettes des projeciiles. 416 MÉMOIRE SUR LES ECLATEMENTS DES CANONS, ETC. Quant à cette influence des rayures, ‘un calcul facile nous assure quelle est négligeable. D'après le tir comparatif fait par V’artillerie ita- lienne en 1865 de deux canons rayés en bronze de campagne du calibre de 96 millim., l’un à rayures droites, et l’autre incliné de 6° et 16, tirant à la charge d’'/; du poids des projectiles avec ailettes en zine, on a trouvé la vitesse initiale moyenne du projectile tiré dans le canon à rayures droites de 399,41 métres, et dans le canon d’ordonnance è rayures inclinées, de 391,15. Cette perte de vitesse à cause de l’incli- naison des rayures est pratiquement insignifiante, et démontre le peu d’utilité des rayures à inclinaisons progressives, puisque les différences ordinaires des vitesses sont bien plus grandes, et sont dues à tant d’autres causes inévitabtes en campagne et dans les expériences mémes faites avec les plus grands soins aux polygones. Du reste, cette perte de vitesse est tout à fait rationnelle, puisqu’on trouve, pour le coefficient du frot- tement des ailettes contre les rayures 0,19, justement la valeur environ que donnent les auteurs pour le frottement des métaux entre eux. En effet l’on déduit cette valeur de l’équation de la quantité de mouvement acquise par le projectile tiré dans le canon à rayure inclinée, avec la quantité de mouvement acquise par le projectile tiré dans le canon à rayures directes, déduction faite de la quantité de mouvement épuisée par le frottement qu’auraient causé les rayures, si elles eussent été inclinges. On a d’abord la composante normale è la rayure de la quantité de mouvement précitée, en la multipliani par le sinzs de l’in- clinaison, qui, multipliée ensuite par le coefficient du frottement, devient la composante tangente, qu'il faut encore multiplier par le cosinus de la mème inclinaison pour avoir la composante à retrancher de la quantité de mouvemeni susdite du projectile, et de cette équation on a 399”, di — 391", 15 399”, 41 sin 6° 16'cos 6° 16' —i0319008 S 12. Cette cause écartée, il en resterait encore bien d’autres pour induire à résoudre aussi par l’expérience la question de savoir quelle est la charge des canons rayés pour laquelle la tension des gaz, et mieux le travail des gaz contre les parois cylindriques de la bouche à feu n'est pas plus grand que pour le tir d’ordonnance des mémes canons lisses. On ne songea pas au procédé du tir comparatif qui, outre qu'il est long et dispendieux, laisserait encore de l’incertitude, lorsqu'il ne serait PAR JEAN CAVALLI. 417 pas pratique sur un grand nombre de bouches à feu pour chaque com- binaison des rayures, des projectiles et des charges. Pour rejoindre plus vite le but, il fallait procéder à la mesure directe du travail de la poudre contre les parois cylindriques à l’emplacement de la charge dans deux canons, l’un à àme lisse, et l’autre rayé. Ainsi au commencement de l'année 1860 je fus autorisé à essayer de résoudre la question par le procede le plus expeditif que j'avais d’abord employé avec succès en 1849, pour déterminer les rapports des épaisseurs suc- cessives pour toute la longuenr de l’àame à donner aux bouches à feu. Maintenant on voulait seulement obtenir, de la manière la plus directe, par des expériences comparatives, une solution pratique des questions concernant la mesure de l’influence de la nouvelle forme, poids et distance du projectile , au fond de l’àme, pour la fixation des charges des canons rayés; conséquemment on s'est limité à exécuter le tir d'un coté par un seul trou pratiqué à 0,26 métres du fond hémisphérique de l’àme vis-à-vis le milieu de la longueur de la charge du tiers du poids du boulet spherique, pratiqué à chacun des deux canons de 4o (30 francais), l'un lisse et l’autre rayé à deux rayures, selon mon système de 1846, montés sur des affiits de casemate. L’axe de ce trou était horizontal à la hauteur, et perpendiculaire è l’axe de l’àme. Son dia- métre méme à travers l’épaisseur de la paroi du canon était de 19”, 6, calibre de la canne de fusil qu'on y vissa, et qu'on y assura en outre par des verges de fer de 10"" de diamètre (voir PI. II). Dans le tir des cylindres lourds pesant plus que deux fois la balle de plomb, la canne s'est courbée et cassée; ainsi on a été obligé de la renforcer en l’entourant d'une couche de fil de fer dure enroulége, en la renfermant en outre entre deux demi-cylindres creux de bois bien serrés avec des frettes à vis, après avoir ajouté d’autres verges de fer vers le milieu de sa longueur. La bouche à feu sur son affiit était placée sur une plate-forme très- solide, à son coté dans la direction de la canne à fusil, et à 5 métres de distance était suspendu un pendule fait è la hàte mais suffisam- ment exact pour donner dans le tir les oscillations causées par le choc des petits cylindres de plomb contre une plaque en fonte durcie; tandis que les gros projectiles allaient à quelques métres de distance s’enfoncer dans une butte de sable pur, è l’objet d’étre examinés après, eux et leurs fusées pour d’autres objets. 5 Seme II. Tom. XXIV. LE 418 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Le pendule était composé d’une planche de bois léger bien dressée, la largeur tournée dans le sens de l’oscillation: cette planche portaii aux extrémités supérieures deux branches de fer recourbées avec les pointes aciérées par lesquelles avait lieu la suspension en des coussinets de fer. En bas il portait la plaque avec son centre à 3 mètres de distance de la suspension, ayant la forme d'un parallélipipède de fonte durcie du còté du tir, ayant o”, 20 de largeur et o",30 de longueur sur une épaisseur qu'on a dù augmenter avec les poids des cylindres de 45 à go”". Une flèche de fer à l’extrémité inférieure tracait les oscillations sur une surface cylindrique de terre fine et légère. Pour empècher l’influence de la flamme sortant de la canne è fusil, on établit un rideau de planches à un métre du pendule, en n'y laissant qu’un large trou recouvert d’une feuille de papier que les cylindres traversaient. Moyennant un fil de soie on pointait soigneu- sement la canne, en la dirigeant sur un point un peu au devant du centre de la plaque, c’est-à-dire de toute la distance due au recul de la bouche à feu avec son affùt, qui avait lieu pendant le trajet susdit de 5 mètres. Pour charger on placait d’abord le cylindre dans la canne à fusil jusqu’à fil de ia paroi intérieure du canon, où à cet effet on intro- duisait un refouloir d'un diamétre très-juste, percé dans son axe pour qu’en le retirant l’air ne fit pas tomber le cylindre dans l’àme du canon. Puis pour empècher qu'en chargeant il ne fùt pas chassé de sa po- sition à cause du refoulement de l’air, on avait l’attention de le tenir à sa place par la baguette servant à charger la canne, qu'on ne retirait qu'aprèés que le canon avait été aussi chargé. Le chargement du canon se fit d’abord en introduisant la charge dans une gargousse de papier et puis le projectile, sans usage d’aucun bouchon; mais on plagait le projectile avec le plus grand soin è la distance voulue ; qui a été d’abord réglée de sorte que la poudre n’occupàt que les ?/; de l'espace laissé derrière le projectile mème. $ 15. Avant tout il est intéressant de remarquer dans la:Tab. I des résultats des tirs des boulets sphériques faits avec le canon de 4o lisse à la charge du tiers, que la vitesse moyenne de 8ro métres acquise au petit cylindre de 25 grammes, poids de la balle sphérique, est peu différente de celle de 845 métres obtenue par le tir du canon de 16 (12 frangais) dans les mémes circonstances, quoique le tir de còté se PAR JEAN CAVALLI. 419 fit alors dans une canne de fusil de rempart d’un calibre de 27 mill. avec balle de 76 grammes de fer. On trouve à peu près cette mème vitesse 803 dans les résultats de la Tab. Il des tirs faits avec le canon rayé, avec la mème charge de 5 kilog. et le projectile de 30 kilog., en laissant de còté le 3° tir qui ne pouvait donner un résultat inf&rieur, si ce n'est à cause de quelque inadvertance. Des résultats de la première table on voit que le maximum de travail de la poudre dans le tir de còoté, on l’a obtenu avec les cylindres de 5o à 100 grammes; mais que pour les autres la différence est très-pelite. Les vitesses des petits cylindres de la Tab. II doivent se retenir en général inférieures à celles que l’on aurait obtenues si le canon de fusil ne se fùt pas dérangé successivement de plus en plus, parce que l’on tirait dans le canon un projectile de poids double avec la méme charge, ce qui causait des impulsions beaucoup plus rudes dans le sens du recul du canon; car on ne peut pas rationnellement admettre qu’elles puissent ètre inférieures; elles doivent ètre tout au plus égales è celles qui ont été obtenues dans le tir du canon lisse è égal chargement; comme en effet il eut lieu pour le 4° coup après le redressement de la canne de fusil. Comme ce canon de fusil ne pouvait plus servir, ‘ion réserva aux trois suivants la solùtion des questions relatives aux charges. Du reste, on apercevait déjà qu'à charge égale le travail des gaz sur les parois cylindriques de l’àme ne subissait pas une augmentation appréciable par cet essai, en passant du tir à boulet dans le canon lisse au tir de l’obus cylindro-ogival du poids double dans le canon rayé. S 14. Il était intéressant de reconnaître aussi par le méme moyen, si dans le tir à élevation les résultats précités ne changeraient pas. Ce tir è 20 degrés d’'élévation ne pouvant se faire dans les fossés de la citadelle avec les mèmes projectiles, on a dî donc leur substituer des cylindres en terre et sable comprimés dans des sacs de toile retenus dans des formes de bois de diamétre et de poids égaux aux projectiles précédemment tirés, qui, dans des essais précédents, ainsi qu'on l’avait reconnu, avaient causé le mème recul de la pièce. On essaya cette substi- tution dans le canon lisse et dans le canon rayé et l’on trouva que les mémes petits cylindres tirés de còté recevaient les mèmes vitesses trouyges dans le tir horizontal. 420 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. S 15. Il était également intéressant de reconnaître si l'impulsion contre les parois cylindriques augmentait en tirant dans le canon, toupours avec la mème charge de poudre, plusieurs projectiles à la fois. On a d’abord tiré ces mémes cylindres, et le résultat de la Table III nous montre qu'il n'y a pas eu augmentation de travail contre les parois; mais que les résultats furent irréguliers à cause que les cylindres anté- rieurs, par leur trop grand éloignement, ne pouvaient se mettre en mouvement avant que ceux plus près de la charge ne fussent écrasés. Dès lors ces mèmes tirs ont été faits avec la mème charge de poudre placée dans le méme espace et avec des boulets ou des cylindres en fonte pesant deux, trois et mèéme quatre boulets, et on a eu pour la vitesse du petit cylindre tiré de còté respectivement 635, 556, 640, Gri métres par seconde. Ces résultats montrent qu'il n'y a pas augmen- tation sensible du travail total des gaz, résultat qui s’accorde avec celui cité par le général Proserr (è la page 167 du cours lithographié sur les effets de la poudre) dans le tir fait dans une canne de fusil; d’où l’on a trouvé qu'il a fallu tirer 13 balles pour augmenter d’un cinquième seulement la tension des gaz (1). S 46. Pour faire ressortir de la manière la plus évidente sur quelque autre variante l’influence qu’exerce le rapport du volume coccupé par la charge de poudre avec l’espace vide laissé derrière le projectile, on tira le boulet de 15 kilog. avec la charge de 5 kilog. en supprimant (1) Le Major RopmaN (v. pag. 75, tom. IV de la Repue de technologie militaire) trouva au contraire qu’avec la mèéme charge de 5 livres de poudre la pression par pouce carré sur le fond de l’àme, en tirant des projectiles pesant depuis 33 livres jusqu’à 85 livres, a augmenté de 16733 a 41120 livres. Mais il y a lieu d’observer qu’outre la manière douteuse cmployée à déduire ces tensions, elles ont été déduites du fond de l’àme sur lequel continue la réaction de la détente des gaz; de sorle que ces tensions ne peuvent ètre que des moyennes des pressions successives exercées par les gaz enflammes pendant toute la durée aussi du travail de leur détente jusqu’à ce que le boulet soit chassé hors de la-bouche à feu. Dès l’instant que les gaz sont parvenus au maximum de tension, comme cette tension commence dès lors à diminuer à cause de ieur détente, malgré que la combuslion des grains de la poudre continue, la masse des gaz, après avoir été lancée également dans tous les sens, revient des parois cylindriques, et leurs mouvements tournent du còté de la moindre résistance le long de l’àme vers la bouche du canon, ‘en exercant ainsi leur impulsion contre le projeclile et par réaction contre le fond de l’àme, et en ralentissant d’abord le mouvement réactif causé par le choc des gaz pendant leur ascension au maximum de tension pour le reprendre et ensuite l’étendre au moins sur toute la partie du canon postérieure aux tourillons. Il faut remarquer encore qu’il pourra s’y produire un autre maximum d’effort longitu- dinal, tandis que l’effort transversal initial pourra étre prolongé, son intensité allant toujours en diminuant, sauf qu'il survienne un temps d’arrét dans la course du projectile. PAR JEAN CAVALLI. 421 le valet de vieux cordage sans changer la position du boulet. Cette sup- pression influenca beaucoup le travail des gaz, quoiqu'on eùt tiré avec la méme charge, puisque l’on n’eut pour la vitesse du petit cylindre que 493 méètres; tandis qu'avec le bouchon et toutes circonstances d’ailleurs égales l’on a eu 635 métres. Cette expérience fut refaite un autre jour par le tir des cylindres de 30 kilog., poids de deux boulets sphériques avec la mème charge de 5 kilog., et l’on eut pour deux coups faits sans valet 597 et 596 métres, et pour le coup fait avec valet 665 metres de vitesse initiale des cylindres tirés de còté; résultats assez conformes aux précédents, eu égard aux secouements du canon de fusil beaucoup plus violents dans ce tir des projectiles deux fois plus lourds. S 17. La grande influence de l'espace laissé derrière le projectile ayant été ainsi constatée, il devenait encore plus intéressant de recon- naître la loi que suivrait la somme des impulsions des gaz contre les parois cylindriques de l’àme à lPemplacement de la charge par les vi- tesses données au méme cylindre de 50 grammes, lorsqu’on augmen- terait les charges pour lesquelles on maintiendrait le mème rapport de */: du volume de la charge de poudre à l’espace laissé derrière le projectile. On tira avec 6,7 % et 10 kilog. de poudre, le cylindre de 30 kilog. sans ailettes, placé à la distance du fond respectivement de 480, 580, 770 mill., et l'on trouva pour les vitesses initiales du cylindre de plomb respectivement 593, 608, 506 à peu près les mèmes, la moindre vitesse pour la plus forte charge étant aussi attribuable aux dégats de la canne de fusil qui ne pouvait soutenir sans fléchir l’impulsion du recul de la pièce plus violent dù à ces fortes charges. Ce résultat pourrait bien n’ètre pas confirmé entre d’autres limites des charges employées et des espaces qu’elles occupaient et dans des circonstances de calibre et de poids des projectiles variables; car à cet effet il aurait fallu des expériences beaucoup plus complètes, extensibles aux plus petits rapports des charges aux projectiles, bien autres que "/; jusqu'à ‘/,,. Il est probable qu'on trouverait alors un maximum d’effort pour un de ces rapports intermédiaires de la série, et ensuite une diminution des deux còtés pour le tir dans les canons lisses beaucoup. plus grande que pour ceux des canons rayés. $ 18. Ensuite on changea le canon lisse contre celui rayé auquel on attacha la canne de fusil de la manière renforcée susdite. Le but 422 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. était de constater si avec le canon rayé, le résultat du tir de charges croissantes placées dans des espaces proportionnels, serait le mème que celui qui avait été obtenu avec le canon lisse du précédent $ 17. On commenca par tirer successivement quatre coups avec chacune des charges de 5, 6 et 7,5 kilog. à la manière ordinaire pour ces canons rayés, c'est-à-dire sans valet; avec la bombe cylindro-conique pesant 30 kilog. placée respectivement à 520, 616 et 760 mill. du fond de l’ìme. Les cylindres de plomb de 50 grammes recurent une vitesse moyenne pour ces différentes charges, respectivement de 623, 653, 663, suivant ainsi une loi très-peu croissante. Pour chacune de ces trois charges on eut des vitesses des petits cylindres respectivement tantoòt plus fortes, tantòt moins fortes que ces vitesses moyennes. Ainsi en comparant ces vitesses avec celles cbtenues dans le mème bui avec le canon lisse du $ 17 et en remarquant que la supériorité n'est pas grande et qu'elle est due plutòt à ce que les espaces laissés aux charges furent par mégarde réduits d’un cinquième, on peut retenir ce résultat obtenu en dernier lieu, comme conforme aux pré- cédents: ce qui prouve toujours plus que la somme de travail des gaz enflammés contre les parois cylindriques à l’emplacement des charges dans les deux canons, ne croît qu’insensiblement avec les poids des projectiles, lorsqu'ils sont placés à des distances du fond proportion- nelles aux charges mèmes. S 19. L’importance des résultats obtenus est d’elle-mème manifeste, et quoique l'on ne pit faire que des essais d’exploration avec. des moyens restreints, leur accord avec les résultats de mes autres expé- riences de 1845 (voir S 28) est parfait; et de leur ensemble on peut déduire que: comme les pressions sont égales sur toutes les parois exposées dans le méme temps au choc des gaz de la charge embrasée, on retient de méme égales les quantités de mouvement transmises à toutes ces parois. Ainsi on pourra déduire la quantité de mouvement transmise à chaque tranche du canon supposée partagée par des plans normaux à l’axe de celles recues par les petits projectiles tirés de còté, eu égard aux surfaces choquées respectives et aux autres circonstances du tir. Les préecédents théoriques étant bien entendus, l'ensemble de ces ré- sultats obtenus peut ètre résumé comme il suit: 1° La quantité de mouvement transmise par la charge de poudre embrasée dans le canon au petit cylindre placé dans la canne de fusil PAR JEAN CAVALLI. 423 entre les limites de poids et avec la longueur de cette canne de fusil, employé pour avoir le maximum d'’effet, est à peu près toujours la méme, quoiqu’on fasse varier le poids de ces petits cylindres de 25 à 150 grammes. 2° Le tir dans le canon d’un seul projectile en terre glaise et sable comprimés d’un poids égal à celui des boulets et cylindres en fonte, oppose la mème réaction. 3° Il mest pas résulté de changements marqués dans la somme des impulsions des gaz contre les parois cylindriques de l’àme du tir horizontal jusqu'à celui fait è l’élévation de 20 degrés. 4° Il n'y a pas non plus lieu è augmentation appréciable de ces sommes d'impulsions des gaz sur les parois cylindriques du canon par la méme charge de poudre embrasée dans le mème espace, soit dans le tir des canons lisses, soit dans le tir des canons rayés. 5° Les tirs dans le canon avec la mème charge et des projectiles pesant deux, trois et méme quatre fois le boulet sphérique, ne pro- duisent pas, jusqu'à ce nombre, une augmentation remarquable des quantités de mouvement sur les parois cylindriques du canon, ce qui induirait à croire que la tension maximum des gaz n’a pas non plus varié notablement. Résultats déjà trouvés en France sur le fusil. 6°. Par contre la somme des impulsions des gaz contre les parois cylindriques, ou la vitesse transmise aux petits projectiles tirés de còté du canon, change considérablement en tirant avec ou sans le valet ou bouchon; c’est-à-dire en laissant la place de celui-ci vide, cu dés qu'on place le projectile sur la poudre; ce que les expériences sur les divers chargements, faites par la Marine francaise firent déjà connaître. 7- En variant la charge de poudre de */. à '/; à */, à '); du poids du projectile, le mème rapport du volume de la charge è l’espace derrière le projectile étant maintenu, c’est-à-dire que le projectile soit à une distance du fond de lame proportionnelle aux charges, dans ce cas les vitesses des mémes projectiles lancés de còté ne semblent pas varier, et conséquemment il ne paraît pas non plus qu'il y ait augmen- tation des quantités de mouvement transmises aux parois cylindriques de l’àme, d'une manière notablement croissante (1). - (1) Ce mème résultat a été postérieurement confirmé par les expériences américaines du Major Ropman (pag. 112 du T. IV de la Revue de technologie militaire), où il est dit: « Ces résultats 424 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Tandis que dans la direction de l’axe aurait lieu l’accroissement successif de la vitesse du gros projectile, et sa quantité de mouvement, égale à celle acquise par la bouche à feu dans ce sens augmenterait dans la méme proportion. Ce résultat est bien entendu limité aux charges qui different peu de celle d''/; donnant très-approximativement le ma- ximum de vitesse au gros projectile; tandis qu'on aurait trouvé une diminution notable dans la vitesse des petits. projectiles tirés de coté, si l’on avait poursuivi l’essai avec des charges réduites jusqu'à '/,, à ‘/.o- S 20. Il y aurait donc lieu de conclure que les canons rayés de manière que le projectile ne soit pas et ne puisse étre forcé contre les parois et d’autant moins se coincer, quoique instantanément, peuvent tirer avec les charges mèmes des canons lisses, des projectiles pesant le mèéme nombre de fois la charge, avec des bouches à feu d’égal poids mais d'un calibre réduit, car ils sont alors dans la condition générale d’avoir au moins la méme résistance vive et la méme stabilité. Mais on verra au $ 46 quil faut seulement conclure qu'on peut tirer dans les canons rayés des charges en poudre et un projectile tel qu'on puisse obtenir la méme quantité de mouvement au moment du maximum de tension des gaz enflammés. Pourtant les plus grandes épaisseurs du métal qu’aurait dans cette condition le canon rayé pourraient ètre réduites en réduisant les charges, puisque les charges bien inférieures au tiers sont suflisantes pour obtenir des effets de canons rayés très-satisfaisants et mèmes plus efficaces, avec une artillerie plus légère que l’artil- lerie lisse. i » prouvent que quand le volume de la poudre est dans un rapport constant avec l’espace où elle » est comburée, la pression produite par des poids inégaux de poudre est sensiblement égale ; » mais, poursuilt-on, ils ne sont pas en harmonie avec les résultats obtenus avec le canon de 42 » et les canons de 9 et 11 pouces. » Cela est une méprise, à notre avis, car ces desaccords pro- viennent de ce que les autres expériences cilées ne sont pas comparables à celle-ci , justement parce qu’on a changé de calibre dans un autre but; changement qui a été fait pour reconnaître la loi des accroissements des pressions avec l’accroissement des calibres; accroissement qui, d’après des considérations lhéoriques, devrait ètre en raison du carré du calibre, puisque le temps pour vaincre l’inerlie du projeclile croît avec sa longueur, et la chaleur des gaz augmente aussi avec le calibre. En effet on a trouvé (pag 96 de l’auteur précilé) que les pressions à l'endroit de la charge pour les trois calibres de 7, 9 et 11 pouces étaient respectivement de 36420, 67100, 86750 livres par pouces carrés, au lieu de 36420, 60200, 89940 qui n’en diffèrent pas beaucoup, les charges 1 1 1 Ces accroissements disparaîtraient par le choix d’une poudre appropriée à chaque calibre, au lieu de faire usage de la mème. poudre pour tout le calibre. respeclivement employées ayant été un peu differentes respectivement de PAR JEAN CAVALLI. 425 Dans ces essais les rayures et les ailettes en fonte coulées avec le projectile, selon mon premier système, outre l’avantage de la plus grande simplicité de construction et de conservation, ont toujours présenté la plus grande résistance au tir avec les plus fortes charges jusqu'à celle du tiers du poids du projectile. Un méme projectile a été tiré deux fois avec la charge de 7 kil., 5 et deux autres fois avec celle de 10 kil. sans dégàts aux rayures, ni aux ailettes; tandis que les ailettes ou boutons rapportés tant de zinc que de bronze ou de fer sont, les pre- miers écrasés, et les autres arrachés dans le tir avec ces grandes charges. Des ecailles de fonte se détachèrent du projectile, gàtèrent l’àme de la bouche è feu, et elle aurait pu coincer le projectile et causer l’écla- tement du canon. Ces dégàts se produisirent aux premiers tirs aux charges mème plus petites que 7 kil., 5, outre laquelle on n’a pas cru prudent de tirer ces projectiles à ailettes de rapport. Quant à la durée des rayures, eu égard au système d’ailettes, la question ne peut étre séparée de celle de la conservation en bon état de l’èame de la bouche è feu à l'endroit de la charge où toute bouche à feu se gàte plus vite, tant celles lisses que celles rayées. Peut-étre ces dégàts sont-ils dus plus particuliérement à l’échappement des gaz par le vent, avant le départ du projectile, qu'au choc des ailettes contre les rayures, comme le croient les partisans de la rayure de l’ar- ùllerie de terre francaise: puisque par ce système, qu’on prétend devoir centrer le projectile de suite à l’embrasement de la charge, et pour toute la longueur de l'àme, la justesse du tir qui n'est pas des plus grandes ne s'est aucunement altérée après la corrosion complète des rayures et de ces plans inclinés dans un essai fait dans tout autre but. Sous le rapport de la conservation, il faut premièrement que le métal de l’àme soit le plus résistant que possible à la corrosion et conséquemment dur et tenace telle qu’est effectivement la meilleure fonte à canon et que la charge de poudre soit la moindre possible, d’une vivacité de com- bustion modérée, de manière à produire la moindre tension maximum des gaz enflammés. Secondement il faut que la fonte aux ailettes du projectile soit moins dure que celle du canon, pour ne pas user les parties en contact avec les rayures et les parois de l’àme, ce que l’on obtiendra facilement méme dans la coulée, et surtout en enlevant la croùte avec une machine à raboter ces parties; opération qui. per- mettra de rétrécir toujours plus les tolérances du petit vent à laisser Serie II. Tom. XXIV. IF 426 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. dans les surfaces limitées à ces mémes parties, au moins sur trois points à chaque extrémité du projectile, ce qui produira la méme justesse que le tir forcé. Le bon effet des charges allongées étant ainsi assuré, et si l'on ne fait usage que des plus petites des charges de poudre inof- fensives avec les gros projectiles donnant encore le maximum d’effet balistique, le concours de toutes ces mesures sera alors bien suffisant, toutes les fois qu'on voudra les pratiquer soigneusement, pour donner méme aux bouches à feu, avec les projectiles, simplement en bonne fonte de fer toute la durée nécessaire; sans avoir besoin de recourir à des canons de métaux très-chers et au système de projectiles et , de rayures compliquées mis en usage malgré leurs nombreux incon- vénients. S 24. En revenant sur l’espace assigné à la charge de poudre derrière le projectile, il était d’abord evident que la plus grande tension des gaz dépendait surtout du plus ou moins de cet espace: et si des doutes avaient encore pu étre élevés, ils devaient disparaître ensuite des ré- sultats des dernières expgriences précitées, lesquels s’accordaient assez bien avec ceux obtenus par le célèbre Rumrort. Aussi lorsque la charge remplissait entièrement l'espace derrière le projectile d'un énorme poids qui obturait son mortier, ce célèbre physicien trouva que la tension était cinq fois plus forte que lorsque la charge ne remplissait que deux tiers de cet espace. Il est remarquable que dans ce méme rapport de 5 à 1 se trouve réduit en moyenne le nombre des tirs de 2000 à 400 que soutinrent les canons de 30 de la marine francaise dans les expé- riences précitées $ 5, soit lorsqu’on refoulait le boulet sur la charge sans interposer le valet, de manière que la poudre occupait tout l'espace derrière le projectile, soit lorsqu’on laissait un vide à peu près aussi d’un tiers par le chargement allongé, introduit de nouveau par le Général Prosert. Cet auteur classique dans la dernière édition de son Zraite d'artillerie technique et pratique rapporte les essais faits en divers pays, qui prouvent que les vitesses initiales loin de diminuer, augmentent jusqu'à un allongement correspondant à la reduction du diaméètre de la gargousse contenant la charge de poudre de 1 à 0,85 du calibre à peu près, ce que l'on voit dans les résultats suivants des essais faits en Autriche, que nous rapporterons comme les plus complets. PAR JEAN CAVALLI. 427 Avec le canon de 48. Rapports susdits o, 958 o, 852 o, 816 0, 749 Vitesses initiales (en métres) 452 453 454 440 Avec le canon de 24. Rapports susdits 0, 979 0, Q0I o, 850 0, $00 Vitesses initiales (en métres) 419 428 434 416 On voit que pour ménager toujours davantage les bouches à feu on peut allonger la charge jusqu'è en réduire le diamétre à 0, 80 du calibre sans perte de vitesse initiale, ce qui correspond è laisser le vide susdit d'un tiers, ou à laisser un espace derrière le proJectile de deux calibres et demi pour la charge du poids du tiers du boulet sphérique en fonte de fer. Dans le tir des canons rayés, la suppression des sabots ou des valets peut bien tenir lieu d’un peu plus d'un autre demi-calibre à ajouter aux deux et demi susdits et porter l'espace à laisser derrière le projectile pour recevoir une gargousse de mème longueur qui aurait alors le diamètre de 0,707 du calibre; bien entendu que l’échappement des gaz ne soit pas extraordinaire en pure perte, à cause d’un vent trop grand, provenant du grand nombre des rayures et du vide que dans certains systèémes elles laissent. Ce grand résultat, que sans perte de vitesse initiale sur celle obtenue par le chargement non allongé, on peut laisser un espace è la charge de poudre de la moitié en plus au double de son volume, a fourni un moyen des plus simples et des plus puissants. pour augmenter la durée des bouches à feu en bronze et prévenir l’éclatement de celles en fonte de fer. Pour assurer en pratique ce tir à charge allongée sans interposition de bouchon, il suffit d’adopter les gargousses avec une tige de bois assujettie dans leur axe ayant la longueur susdite, de ma- nière que le principe des charges allongées ne puisse étre affaibli ou éludé par une bourrade donnée inconsidérément ou par les défauts des bouchons eu des valets; et par ce moyen on acquerrait méme l’avantage de leur suppression absolue entre la poudre et le projectile, en les remplacant alors avantageusement par le valet d’Erseau lorsqu'il est nécessaire d'en placer un sur le projectile. 428 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. CHAPITRE IV. De la recherche expérimentale des vitesses acquises successivement par le pro- jectile dans l’îme des bouches a feu dues aux poudres trop vives cu brisantes et à celle des pilons; avec déduction de ces mémes vitesses dues à une poudre inoffensive, ainsi que la déduclion des tensions et des temps écoulés et des conditions de la réception la plus rationnelle de la poudre à canon, dans le but d’assurer un effet balistique suffisant et de limiter l'intensité de l’effort contre la bouche è feu. $ 22. Les études et les essais consciencieux faits dans les divers pays, dans le mème but que ceux exposés jusqu'ici aux chapitres pré- cédents, sont encore insuffisanis pour juger rigoureusement sur la ré- sistance vive des canons. Il ne suffit pas de connaître la quantité de mouvement que le projectile a acquise à sa sortie de la bouche du canon, pour en déduire les efforts qu'il peut supporter et les épaisseurs quil faut lui donner. Il n'est pas non plus possible de détruire ces épaisseurs de théories faites sur l’embrasement de la charge de poudre et de la détente des gaz et de leurs tensions si rapidement variables dans le but de ramener enfin le problème dynamique de la résistance vive du canon à celui statique. Ce but est de sa nature irrationnel, lors méme que ces tensions pourraient ètre tirées directement de l'expé- rience, ou qu'on les déduirait directement des vitesses acquises par le projectile aux diverses distances de son point de départ dans l’àme du canon: car les épaisseurs des canons ne peuvent étre fournies de cette manière, étant impossible, dans l’état actuel de la théorie des fluides, surtout gazeux, et d’une vivacité pareille à celle de la poudre enflammée, d’en traduire les mouvements dans le langage de l’analyse avec assez de justesse; et il est d’autant moins possible d’évaluer en mème temps les phénomènes immensément compliqués de l’explosion de la charge dans un canon et les mouvements d’expansion du canon mème, mou- vement qu'on ne peut pas négliger! Nous avons démontré dans le Meémoire Sur Za Théorie de la resistance statique et dynamique des solides, qu'on ne peut faire cette conversion des problèmes dynamiques , où ont lieu des forces en mouvement pour les ramener à l’état statique, où l'on ne considère que des forces immobiles.. PAR JEAN CAVALLI. 429 On ne peut pas non plus mesurer pratiquement la pression des gaz dans l’àme des bouches è feu par-la méthode des empreintes faites par un piston poinconneur dans un morceau de métal mou, sous le choc de la charge de poudre embrasée dans le tir d’un canon; quoique par cette methode le Major Ropwan ait fait beaucoup de bien inté- ressantes expériences, utiles sous plusieurs rapports (voir le tome IV — 1864 de la Revue de Technologie militaire du Major d'Artillerie Terssen ). D’abord comment peut-on. comparer les empreintes causges par le choc des gaz de la poudre embrasge avec les empreintes produites par la machine d’épreuve où les masses mises en mouvement et leurs vitesses sont si différentes? Où l’on ne peut pas mettre de còté l’élasti- cite, la ductilité des corps employés et les frottements pendant le choc, ensemble de causes qui fausseront les résultats cherchés toujours d’autant plus que la différence de la vivacité des chocs est grande? On peut bien reproduire avec différentes machines d’épreuve la mème empreinte faite par la poudre embrasge avec le méme instrument poinconnant sous les efforts divers de ces différentes machines, mais lequel de ces efforts devra-t-on prendre pour la pression des gaz de la poudre? Et quand méme on pourrait déduire la mesure de cette pression, elle ne serait qu'une moyenne tension, dans l’hypothèse d’une action des gaz constamment égale du commencement de l’embrasement de la charge Jusqu’à la fin de la détente des gaz contre le projectile pendant sa course dans l’àme du canon. On ne parviendra jamais par cette méthode à con- naître la véritable tension maximum. des gaz, ni l’instant où elle a eu lieu, données indispensables pour juger les qualités mécaniques. des poudres et calculer la résistance vive qu'il faut donner aux bouches è feu. Ce n'est que dans le cas d'un mouvement périodiquement régulier, lorsque les vitesses dans les chocs sont petites, qu'on peut reconnaître l'instant où de l’état dynamique on passe è l’état statique, où l'on suppose tous les mouvements cessés, qu'on peut alors apprécier et attribuer les effets produits, ou les résultats obtenus par des forces vives seulement périodiquement variables, comme équivalents à ceux produits par certaines forces retenues constantes et immuables. Elle est donc inadmissible la distinction que le Major Ropman fait (pag. 75 du volume précité) où il dit: « Dans le but de s’assurer si » les gaz de la poudre agissent comme un choc sur les parois de l’àme » ou comme une pression croissant rapidement (on avait déjà tiré avec 430 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. » la charge de 5 livres), on tira encore trois coups avec ro livres de » poudre et un boulet ensaboté de 43 livres, le poincon agissant toujours » sur le méme disque de cuivre et dans la mème empreinte, et l’appareil » étant fixé à la culasse du canon. » Quoique la diffé&rence de ces charges fùt grande, la deuxième étant le double de la première (elles étaient cependant petites étant respecti- vement moindres d’*/; et d’'/,) d’après l’auteur la pression s’était changée en choc de l’une à l’autre charge, parce qu’avec la première charge les empreintes ne s'agrandissaient pas comme avec la seconde de ces charges. Cette différence d’effet dans la grandeur de l’empreinte était naturelle- ment due à ce que la resistance ductile avec la première charge avait été epuisée au premier coup, de sorte que dans les coups suivants il ne restait que la résistance élastique, laquelle était suffisante à soutenir le choc conséquemment sans l’agrandir ultérieurement; tandisque avec la deuxième charge cette résistance élastique du méème disque étant insuf- fisante, l’empreinte s’agrandissait naturellement, sans que pour cela un changement fùt advenu dans la nature du choc. Sans connaître la loi théorique que suivent les vitesses acquises par le projectile dans son mouvement dans l’àme du canon, l’expérience ce- pendant peut nous fournir et nous a fourni en effet les vitesses, en un nombre assez suffisant de points de plus en plus éloignés du point de départ du projectile. En restant donc dans le vrai Éétat des choses on a pu déduire de ces vitesses les tensions correspondantes des gaz de la poudre embrasge et en tracer graphiquement les courbes représentant les lois qu'elles suivent; d’où l'on est parvenu aussi à trouver la tension maximum, la distance du point du départ du projectile où elle a lieu et le temps écoulé. On verra dans la suite que la connaissance de ces résultats élait nécessaire pour résoudre le problème très-complexe des effets de l’explosion de la charge dans un canon. S 25. On a vu au chapitre I que dans le tir du mortier éprouvette l'effet utile maximum d’une charge de différentes poudres dépendait du poids du projectile et de la vivacité de combustion de chaque poudre. Déès les premiers temps où l’on fit usage de la poudre dans les canons, le besoin se fit sentir de moderer cette vivacité en grossissant les grains; conséquemment on a dù allonger l’ùme des mortiers en en faisant des canons, pour regagner la vitesse voulue au projectile moyennant une plus longue détente des gaz enflammés et un plus long parcours aux PAR JEAN CAVALLI. 431 grains, nécessaire à effectuer leur combustion dans l’àme. Ainsi s'’intro- duisirent les deux espèces de poudre de guerre, à mortier et à canon. Aujourd’hui les artilleurs américains les premiers reconnurent la né- cessité d'une poudre à grains plus gros encore pour les plus grandes bouches è feu qu'ils ont introduites (1). Ainsi la poudre capable de pro- duire le plus grand travail utile et le moindre travail nuisible à la bouche à feu, ne pourrait étre la mème pour les diverses sortes de bouches à feu, pour lesquelles la pratique démontra le besoin d’employer des poudres diflérant essentiellement dans la grosseur des grains. Après avoir allongé, peut-ètre excessivement, l’àme des bouches à feu, afin d’'employer des poudres moins vives, moins brisantes pour ces bouches à feu, peu à peu on en revint, au fur età mesure qu'on a voulu perfectionner la fabrication de la poudre en lui redonnant plus de viva- cité, à une granulation plus fine, et conséquemment on a diminué encore la durée des bouches à feu en usage et augmente les cas d’éclatements. La conséquence à déduire de tous ces faits anciens et modernes c'est que le veritable progrès dans la fabrication des poudres de guerre doit consister dans une production homogène d’une conservation inal- térable pour que sa force balistique soit très-constamment la méme, et la moins offensive possible pour les bouches à feu. È L’usage séculaire des poudres aux pilons est une preuve qu'elles remplissaient suffisamment ces conditions et par une longue expérience on a appris quel était leffet balistique suffisant duquel il fallait partir. pour en améliorer encore plus la fabrication dans le seul but d’enlever les mauvaises qualités. Ce point de départ est que la quantité de mou- vement imprime au boulet sphérique par le travail de la charge de poudre d’un tiers de son poids, embrasée dans les canons lisses soit celle correspondante à sa vitesse initiale de 500 métres par seconde, qui donne tout l’effet balistique désirable en pratique, et qu'on peut obtenir, sans que cette quantité de mouvement imprime à la bouche à feu des impulsions qui compromettent la durée de celles en bronze, ou la résistance de celles en bonne fonte de fer, au-delà de deux mille coups au moins faits avec les gargousses allongées. La théorie d’accord avec la pratique Justifie la tendance qui se généralise de plus en plus {1) Voir pag. 225, T. IV de la Reoue de Technologie militaire du M, Ropman. 432 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. aujourd'hui de donner aux projectiles des vitesses de beaucoup inférieures à cette limite; puisque méme pour obtenir des trajectoires plus tendues, on ne gagne pas sensiblement en augmentant les vitesses initiales au delà de 4oo à 500 métres, tandis qu'on compromettrait sùrement la résistance de la bouche à feu. Au contraire, en les réduisant, on assure leur résistance et on peut en augmenter l’effet utile en augmentant le poids relatif du projectile sans perte appréciable à cause des trajectoires moins tendues; parce que sous ce rapport, la courbure des trajectoires plus tendues s'éloigne encore trop du parallélisme au sol idéal de ceux qui en exagerent les avantages illusoires, surtout lorsque le sol est accidenté et pour les longues portées des canons rayés. Du reste on gagne bien :d’avantage dans l’effet du tir par le canon rayé sur toute autre manière de canon fait pour le tir à trajectoire un peu élevée et de but en blanc des projectiles qui sont à présent tous explosifs, à cause de la plus grande justesse de ce tir dans la portée ainsi que dans la direction, justement parce que les charges furent réduites à '/; à '/o et au-dessous; et c'est ce qu'on a fait pour les plus grands canons lisses américains. Cette question des poudres on la trouve bien résumée par NaroLéon IMI dans son Manuel d’artillerie, 1836, qui à la page 381 termine ainsi: « Toutes les poudres aujourd'hui existantes sont pour ce service » trop inflammables et d'une explosion trop secouante. Autrefois les » canons de fer éclataient bien moins souvent et l’on se servait pourtant » des charges plus fortes, la poudre était faible ei pourtant d’aprés » toutes les données, les portées n’étaient pas moins grandes que celles » d’aujourd’hui. Le fer étant moins bon conducteur du calorique donne » àla poudre plus de force qu'elle n'en aurait dans une bouche à feu » en bronze. » La déflagration de la poudre peut varier avec le mème dosage » seulement par son poids spécifique, car on sait que des deux poudres » égales, celle qui est la plus légère est aussi la plus prompte è s’en- » flammer, mais cette méthode d’analyse serait d’une application très- » difficile. Il faut donc se borner à diviser les poudres par la grosseur » de leurs grains et il faudrait, suivant le Capitaine Meyer, donner » à la poudre à canon une plus grosse granulation que celle adoptée » Jusqu'ici ». Le Geénéral Prosert dans une dernière édition de son Traité d'Ar- tillerie théorique et pratique, è la page 403 parvient à la conclusion PAR JEAN CAVALLI. 433 que « l’influence des qualités physiques de la poudre est beaucoup plus » grande que celle qui est due aux divers procédés de fabrication et » aux proportions des matières qui constituent la poudre, dans les » limites des dosages employés dans les dilférents pays; de sorte que » les questions de dosage et de manipulation ne sont que secondaires » et n’ont plus l'importance que quelques personnes sont disposces à » leur attribuer ». Ala page 454 il dit: « En résumég, les poudres très- » denses dégradent très-promptement les bouches à feu en bronze, dans » le tir à la charge du tiers du poids du boulet, avec le mode de » chargement en usage, le chargement avec gargousse allongée atténue » beaucoup les dégradations de ces poudres brisantes"et rend insigni- » fiantes celles des poudres d'une densité moyenne ». D’après l’exposition faite de ces différentes questions on voit toujours plus manifestement la nécessité de parvenir à rallier entre eux par une théorie irréprochable tous les éiéments épars afin de mieux pouvoir en pondérer la combinaison la plus favorable à la durée des bouches è feu, puisque, répétons-le, c’est là que réside le besoin impérieux d’amé- lioration qu'on peut rejoindre, comme nous le croyons possible, sans la nécessité: de recourir à des métaux et à des procédés de fabrication des bouches à feu beaucoup plus couteux sans qu'elles soient plus ras- surantes que celles en bonne fonte de fer. . On rencontrait d’abord une grande difficulté pour procéder à ce but avec suùreté, par le manque d’un moyen sùr de mesurer la force balistique et dilaniatrice de la poudre. En effet quelle est l’éprouvette en usage sans reproche à essayer surtout la qualité brisante de la poudre? Le mortier éprouvette jadis en usage, y compris aussi celui belge à deux globes, vient justement d’ètre généralement abandonné presque partout, tandis qu'il semble que le pendule balistique sera généralement usité malgré sa complication, et quoique l'on soit arrivé à mesurer le temps d'un certain parcours du boulet par le télégraphe électrique. Mais c'est la force dilaniatrice qu'il importe aussi de mesurer dans la réception des poudres, mesure qu'il serait surtout nécessaire de pratiquer pour les poudres de nouvelle fabrication qui, pour la grande difficulté d’en régler la densité, résultent moins uniformes, plus ou moins brisantes, d’une force encore trop variable puisqu’on réclame pour leur réception une tolérance qui va jusqu'à ‘/, en moins de la vitesse initiale requise, mesurée au pendule balistique du boulet tiré è la charge du tiers: Serie H. Tom. XXIV. UE 434 MEMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. S 24. Parmi les experiences qui ont été faites sur la variation des vitesses initiales en raison de la longueur de l’àme, on rencontre très- à propos celles exgcutées en 1854 et 1855 par l’artillerie belge avec les nouvelles poudres de la fabrique de Wetteren de l'année 1850 (voir DeLoseL - Revue de technologie militaire, T. II, 1857, à la page 80), qu'il est bien de comparer avec les résultats des expériences analogues faites avec des canons du mème calibre de 12 francais, par l'artillerie piémontaise en 1856 et 1857 dans le but justement de comparer la force balistique et celle dilaniatrice des poudres aux pilons avec celles fabriquées dans les tonnes et avec les presses, expgriences qu’avait alors proposées le Major Comte P. de S®Rosert (voir à la page 37 du Journal d'artillerie italienne, dixième partie, 1862). On verra que les moyens employés dans ces expériences peuvent ètre simplifiés et appliqués d'une manière trés-simple à la réception des qua- lités balistiques et dilaniatrices des poudres. On lit dans l’auteur mentionné, qu’en Belgique le tir a été exécuté avec un canon de 12 en fonte, raccourci de 30 centimétres en six re- prises successives, de manière à obtenir les longueurs d’àme de métres DEN OI SOMMO SO PIMICIO SOFIA OLIO II MO NOE Les vitesses furent prises au moyen de l’appareil électro-balistique du capitaine Navez, et leurs moyennes obtenues avec la charge du tiers soni les seules qui intéressent la question actuelle. Ces vitesses obtenues different peu de celles régularisées, données dans le méme tableau de l’auteur et qui servirent au tracé de la courbe des vitesses de la PI IL Le calibre étant de 120 millimétres, le centre du boulet sphérique dans le canon entier restait ainsi è. 17 '/, calibres de la tranche de la bouche et à 385 millimetres du fond de l’àme. 4 Le diamètre du mandrain de la gargousse étant de 113, si l'on prend pour la densité de la poudre 0,992, on trouve que la longueur de la charge de 2 kilogrammes était de 210 millimétres; ainsi il restait 115 millimètres de la gargousse au boulet pour le valet. En désignant les distances du centre du boulet à la tranche de la bouche du canon successivement raccourci en calibres, on a Aux distances de... 2% 5 A 10 DA 15 I7./ na les vitesses\ obtenues 401,6 531,5 463,5 484,0 486,0 500,3 492,6 en métres | rectifites 399,2 436,3 463,5 482,0 492,5 498,3 S5or.6. PAR JEAN CAVALLI. 435 En Piémont, au lieu de raccourcir successivement le mème canon, on fit couler d'autres canons tronqués de diverses longueurs du mème calibre de 121 millimètres, avec lesquels on a trouvé que le travail en unités dynamiques de 1000 kilogrammétres produit par la charge d'un tiers du poids du boulet sphérique, après avoir parcouru les diverses longueurs d’ùme en calibres ici désignés, Ctait de Calibres parcourus. . . .. 4 0, 5 Tip 3 D To 14,5 61,7870 78,0700 PENICIONNE Roli 5 211 22007] aux pilons. ....... 14,9240 26,0920 39,9642 bagigli 2 D 2 Pour les _Javec la charge de kilog. 2 poudres N i È 61,7153 78,2343 aux tonneaux et presses 15,0020 26,6030 41,9455 57,2840 avec la charge de kilog. 1,99 1,99 1,95 1,95 1,95. Le premier tronc de canon de 7 % calibre de course du projectile ayant éclaté, on a dù suspendre les essais et les reprendre après avec un autre tronc de canon égal: ainsi on a consigné les deux vitesses moyennes obtenues, entre lesquelles se trouve celle qui s’ajuste mieux avec les autres pour la régularité de la courbe représentant la loi qu'ils suivent. Le centre du boulet étant à peu près à 2,9 calibres du fond, il restait à la charge de poudre un espace de deux calibres de longueur. Pour l’objet qu'on traite, on a tiré de ces résultats les vitesses suivantes acquises au projectile avec la poudre aux pilons pour lesdites distances. Vifesses en métres 221,0 292,1 361,5 Or, soit la force d’expansion des gaz de la charge de poudre embrasée dans le canon, x l'espace parcouru par le projectile en calibres, m sa masse, et © la vitesse acquise à ce point de l’àme, on aura gm-0=(P.da i Comme on ne connaît pas la fonction générale de F° en x, on ne peut effectuer l’intégration; mais l’expérience nous ayant fourni un 436 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. certain nombre de valeurs successives de la vitesse 0, on a pu dédwre toutes les autres par le tracé de la courbe qui en représente graphi- quement la loi qu'ils suivent. Soient 'p, w) 03-.-. les valeurs de gp. et.x; x, x3..-.. celles'cor respondantes de x. Comme il faut à la force motrice des gaz de la poudre embrasée un certain temps (1) pour vaincre l’inertie du projectile, cette force ou tension des gaz aura déjà accumulé dans la masse du projectile une quantité de mouvemens, et conséquemment une certaine vitesse initiale acquise à l'origine du mouvement qu’on désignera par v, avec laquelle le projectile se mettra en mouvement. Or, en prenant. des points de la courbe des vitesses assez rapprochées pour pouvoir considérer tous les traits de la courbe qui les unissent comme rectilignes, on pourra alors pour chacune des différences entre les distances consécutives parcourues par le projectile retenir la force motrice des gaz /° comme si elle était constante; et comme les distances x sont données en fonction des vi- tesses y par les équations respectives Dei x, XxX, X, Xx, X, Xi —_ ci Vi=t=lci= 23 Vi==05 (niCA A v,—V I3 CHI BE 9, SNA etnologia Varz)Va gola en prenant la différentielle dx, en la substituant dans l’expression de l’intégral précité, puis en mettant pour g respectivement la plus grande de ces deux valeurs entre lesquelles on intègre; et désignant par #,, 7, F;....les valeurs successives que prend /", on a les expressions I V,—V I VV F,=-m-—-S (Oh CHAPITRE V. Proliminaires et dissertations sur la détermination des épaisseurs du métal depuis le fond de lame jusquà la tranche de la bouche des canons. S 28. La variabilité du tracé des bouches à feu, ainsi que la cir- constance que les éclatements dus à leur charge ordinaire et extraordi- naire ont lieu en culasse et non pas en volee, excepté lors de causes accidentelles, prouveraient qu’indépendamment des questions relatives aux proportions de l’àme, les épaisseurs ne sont pas toujours bien réglées: quoique dans ces derniers temps on les ait rectifiges d’après des règles quon a déduites d’une série d’expériences plus ingénieuses que ration- nelles. Jai publié moi aussi un Mémoire sur cette question en 1851, inséré dans le Tome XII, 2"° série, des volumes de l’Académie des Sciences de Turin, avec le résultat des experiences exécutées en 1845 d'une nouvelle manière, dont le but était d’obtenir le plus directement possible de ces expériences des résultats irréprochables , sans la nécessité de les appuyer par des calculs difficiles, ainsi que par des hypothèses plus ou moins douteuses. Cette manière d’expérimentation consistait à lancer à la fois, par la méme charge de poudre, d'un canon, outre le gros projectile, par la bouche, un autre projectile beaucoup plus petit par des trous succes- sivement percés de l’un de ses coòtés contenus dans le plan horizontal passant par l’axe: à ce trou on ajustait un canon de fusil de rempart d'une longueur suffisante, pour utiliser l’effet de la partie de la charge de poudre embrasée, qui s'échappait de ce còté; car, sans cette addition du canon de fusil, on voyait en plein soleil les grains de poudre achever leur combustion en l’air après avoir eté lancés dehors. La vitesse que le petit projectile tiré de còté (voir pl. IT) recevait de la mème charge de poudre embrasée dans le canon, était mesurée seraient pour celte poudre de Fossano de 220 metres (vilesses qu’on avait déjà trouvées avec le tronc de canon de 12), pour cette mème poudre en gargousses comprimées de 221", 6, et pour | la poudre è gros grains en gargousses comprimées 262 mètres: ainsi la conclusion du rapporteur a été que les gargousses comprimees sont nuisibles pour les bouches è feu. Les experiences en Amerique semblent ayoir donné ce mème resultat, puisque là où on les a imaginées d’abord, elles ont éte de suite abandonnées, ainsi que partout ailleurs. 446 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. avec un pendule balistique convenablement placé. Ainsi; moyennant un petit projectile parcourant une longueur de canne convenable, on s'est mis dans la méme condition du tir ordinaire. du boulet, c’est-à-dire, de recevoir tout le travail de la charge de la poudre embrasége qui peut ètre exercé dans chaque endroit de l’àme sur ces petits projectiles, à l’objet d’en déduire la quantité de mouvement transmise -à ces parois respectivement aux diverses distances du fond. Ce but pouvait ètre atteint soit avec une canne courte adjointe au gros canon et un long et très-lourd projectile, soit avec un canon de fusil de rempart suffisamment long, et un court et léger projectile dans des proportions égales à celles reconnues plus convenables pour utiliser le maximum du travail de la poudre: nous avons suivi ce second système comme plus rationnel et d'une exécution plus facile, et quoique les moyens fussent limités, on a obtenu des résultats assez concluants en ‘ 1845 comme en 1860 ($ 12). Des doutes sur les résultats obtenus par cet essai singulier peuvent naître lorsqu’on ne s'est pas fait une assez ‘juste idée du phénoméène de l’explosion de la charge de poudre dans un canon; j'essaierai de les dissiper. S 29. Il faut d’abord considérer deux espaces principaux dans la durée de ce phénomène; le premier depuis l’inflammation de la charge de poudre jusqu'àè ce que le projectile soit parvenu au point du maxi- mum de tension des gaz, que l’on est assez d’accord avoir lieu à très-peu de distance de son emplacement initial. Le second espace s'étend de ce point du maximum de tension des gaz jusqu'à la bouche du canon. Lorsque la charge est dans de bonnes conditions dans le canon, pour employer la plus grande partie du travail de la poudre sur le projectile et le moins possible sur la bouche è feu, il faut que, dans ce premier espace, le projectile recoive la moindre vitesse possible; et dans le second espace c'est par la détente des gaz, quoique leurs tensions aillent en diminution, que le projectile doit recevoir la plus grande partie de sa Vitesse initiale totale du courant de la colonne fluide embrasée, qui sétablit avec la plus grande énergie du fond à la bouche du canon. Dans le premier espace le choc des gaz contre les parois de l’àme doit les comprimer et étendre, et ainsi causer un agrandissement progressif dans cette partie du canon contenant la charge jusqu'è ce qu’on arrive au maximum de tension des gaz, et conséquemment d’agrandissement; PAR JEAN CAVALLI. 447 tandis que la tension des gaz décroissant dans le second espace, et la détente des gaz n’ayant lieu que suivant le parcours du boulet, elle n’aura plus d’effet sur cet agrandissement que tout au plus sur le temps qui s'écoulera pour que le rétrécissement subséquent s’accomplisse. Conséquemment il était naturel de n’avoir pas trouvé dans les essais rapportés au S II de -diff&rences appréciables dans les vitesses des cylindres tirés de còté par des charges croissantes, lorsque la poudre était embrasée dans ce premier espace d'une grandeur proportionnelle à sa quantité, quoique la différence se soit bien manifestée par le recul, suivant l’axe de la bouche è feu, à cause du travail de la détente sur le gros projectile et sur le fond de l’àme du canon. S 50. Nous avons trouvé en 1845, que les balles étaient lancées de coté à peu près avec la méme vitesse du trou ouvert derrière l’emplace- ment du boulet de celui à la moitié de la distance de son emplacement au fond de l’àme, et du trou ouveri près du fond mème, quoique cette vitesse fùt un peu moins grande, au trou percé derrière le boulet; ce qui s'explique à cause du courant des gaz qui s'échappaient de suite à travers le vent. Nous avons deduit de la vitesse de la balle celle du boulet, comme l'on déduit de celle-ci la vitesse du recul du canon, de l’équation des quantités de mouvement recu; ainsi les mèmes équations doivent pouvoir s'établir entre les quanlités de mouvement regues par les balles lancées de coòté et celle recue par les parois cylindriques de l’àme. Ce procédé fut trouvé d'une très-grande simplicité par le Rédacteur de la Revue de Technologie militaire de Bruxelles, Tome Il, pages 149 et 150, auquel je dois mes remerciments pour la rectification qu'il a bien voulu faire à la page 146, en ce quil maccorde la priorité de ce nouveau moyen d'expérimentation sur celle exécutée en Prusse; mais je ne sais trouver les raisons sur lesquelles il appuie son jugement, page 150, où il dit que le mode d’exécution analytique adopté par les expériences de Berlin est incontestablement supérieur. S Sf. Sous ce rapport, on ne comprend pas pourquoi en Prusse, en renouvelant les expériences faites en 1845, on a substitué le tir “ d’un très-long cylindre dans un très-court canon, à celui d’une balle, ou d'un très-court cylindre dans un long canon è fusil; ni pourquoi on a poursuivi dans ce système, lors méme que les inconvénients s’augmen- tèerent, avec l’addition d’une téte restant hors de la bouche du petit canon, qui avait été faite aux cylindres pour en accroître le poids sans 448 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. avoir pu par ce moyen mesurer le maximum du travail de la poudre , ni obtenir aucun autre résultat rationnel. Quelques années après, M. C. A. DantereIN (comme on lit à la page 263, T. X de la Revue maritime et coloniale) « prit littéralement l’empreinte des forces développées par » l’explosion de la poudre dans ces premiers canons, en percant, de la » culasse à la volée, perpendiculairement à l’axe, une série de petits » trous sur le còté de la pièce; il ajustait sur chacun de ces trous un » canon de pistolet, ou un tube, vissé à une profondeur telle que les » distances de la paroi de l’àme à la bouche du tube fussent précisément » les mémes; chacun de ces tubes fut chargé d’une simple balle, » laquelle, aux coups de canon, fut chassée avec une force proportion- » nelle à la pression des gaz à chaque endroit de la longueur de l’àme » de la pièce. Cette force fut mesurée par la profondeur à laquelle » chaque balle pénetrait au massif de chéne ». Après on substitua des poincons aux balles, terminés par un tranchant à angle obtus d’un coté, appuyés de l’autre còté à un morceau de métal mou, et on jugea des effets par la grandeur des empreintes. ; Ces méthodes étaient bien plus rationnelles que celles suivies en Prusse, où, à la vérité, on s’était proposé de suivre une autre voie pour arriver au mème but de la détermination des épaisseurs des bouches à feu, celle de chercher la loi des tensions des gaz que soutiennent les parois de l’àme à chaque distance du fond, et à chaque instant du phé- nomène du tir, et le point où cette tension était arrivée à son maximum; mais au lieu de simples pressions supposées exercées par la tension des gaz, ne sont-ils pas des chocs avec lesquels on a à faire puisqu'ils se produisent et croissent dans un temps très-court? Comment déduire par ces moyens le temps du maximum de tension? Et comment déterminera- t-on le mouvement analogue d’accroissement des extensions mélées avec les compressions, que les couches successives dans l’épaisseur des parois de l’àme recevront par le choc des gaz, et dans leur détente dépendante du progrès de la combustion, de l’inertie et du mouvement du projectile? Voilà un cahos inextricable que, gràce aux lois simples de la méca- nique naturelle, il n’est pas nécessaire de résoudre pour arriver au but, comme le dit M. PonceLer dans sa Mécanique industrielle; Metz, 1841: « Quoiqu'on ne connaisse ni la loi de ces pressions, ni celle de » l'inflammation progressive de la poudre, on peut cependant déduire de » nos principes plusieurs conséquences conformes, dans leur généralité, PAR JEAN CAVALLI. 449 » aux résultats bien connus de l’expérience; car le cas est ici semblable » à celui de la communication du mouvement par le choc des corps » (154 et suivant), où sans connaître aucunement la loi que suit la » force de réaction, on parvient néanmoins à divers principes utiles, et » qui ne s'écartent pas trop des effets naturels ». S$ 32. Mais en admettant méme qu'on puisse parvenir è traduire dans la langue de l’analyse avec assez de justesse la loi que suivent les tensions des gaz exprimées en atmosphéres, cela ne suffit pas pour en déduire les épaisseurs à donner aux canons avec la formule jadis employée par le célèbre Rumrorn à déduire de la ténacité des parois de son petit mortier les tensions dues aux charges embrasges. Parmi plusieurs autres savants écrivains le Capitaine russe MAyevsTIES en suivait l'exemple comme l’on voit dans son trés-savant Meémoire inséré dans le 2° volume de la Revue de technologie militaire susdite de Deroset. Cette formule, qui exprime la relation entre la résistance d’un cylindre creux à la rupiure et l’effort intérieur d’un liquide ou d’un gaz à une tension constante, n'est pas méme plus juste dans cette hypothèse statique, lorsqu’au lieu de l’état d’équilibre immobile on considère comme état statique celui dynamique parvenu à un mouvement périodique et régulier, quand l’épaisseur n'est pas mince comparativement au diamétre interieur, comme dans les cas des chaudières à vapeur. Déjà pour les presses hydrauliques, cù l’épaisseur du cylindre creux est ordinairement égale au rayon de ce creux, l’expérience prouve l’inexactitude de cette formule, qui fut remplacée par une autre donnée, il y a 30 ans environ, par le professeur Barrow. dà Cet auteur, sur l’hypothèse que le cylindre creux du métal pressé à l’intérieur s'agrandit sans changer non-seulement de poids, mais sans mème changer de volume, a déduit que l’effort soutenu par les couches successives varie en raison inverse du carré de leur distance à Vaxe du cylindre. Cette théorie fut appliquée aux canons par plusieurs auteurs anglais et américains, qui en exagérèrent les conséquences surtout sur l’inutilité de grossir les épaisseurs près de la culasse des canons. On verra au $ 43, qu'on a pu très-bien observer en 1842 l'état intérieur d'un canon de 32 piémontais (24 francais) se chargeant par la culasse pendant le tir de 1000 coups de plus en plus forcés, où, quoique une fente longitudinale fùt aussitòt apparue à la lumière avant Serie II. Tom. XXIV. ST 450 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. le 3ro"° coups, cette fente se prolongeait beaucoup plus vers la bouche que du còté de la culasse; justement à cause des grandes dif- férences des épaisseurs, fait qui démontrerait que la grande épaisseur de la culasse n’était pas superflue. S Sd. L'expérience prouve que dans les canons de fonte on n’apercoit jamais d’agrandissement à l’extérieur, lors méme que l’agrandissement à l’intérieur est très-sensible. Il faut que les canons soient d'un métal tres- ductile comme le bronze, pour que l’agrandissement arrive jusqu'àè V'exté- rieur avant de crever, tandis que ceux d’une fonte dure très-pcu ductile crèvent après un agrandissement à peine sensible mèéme à l'intérieur. M. le Général Morin rapporte dans ses traités qu’un cylindre en fer forgé d'une énorme presse hydraulique, s’agrandit successivement jusqu'à ce qu’enfin le metal et acquis par la compression la resistance néces- sare sans que le diamétre extérieur eùt changé. La méme chose arrive surtout dans les canons en fonte convenablement truités. S 54. Ainsi, en retenant la seule hypothèse existante , celle que le poids du cylindre ereux reste invariable, et non pas sa densité comme dans l’hypothèse Barrow, si l’on pose que 7 représente le rapport du diaméètre extérieur avec celui intérieur du cylindre creux, que r repré- sente le rapport de la densité du métal du cylindre après l’agrandis- sement sur celle qu'il avait auparavant, et c soit le rapport du diamétre intérieur agrandi sur le mème avant l’agrandissement, et qu’enfin x soit le rapport analogue de l’agrandissement extérieur, on obtient la relation: ai e z i o =>% 6 XE +4 “» nr n On voit que x devient égal à c lorsque le rapport n est très-près de l’unité, comme pour le cas des chaudières, où, à cause de leurs gpaisseurs très-petites, on peut retenir à peu près l’agrandissement extérieur égal à l’intérieur. Pour la fonte dure près de la rupture, étant d’après des mesures très- exacles c= I, 001, et en posant que le diamètre extérieur du cylindre soit double de l’intérieur, de sorte que la densité n’a pu s’accroître qu'insensiblement , et soit le rapport 7 très-près de l’unité, on déduit xX=1,00079, cest-à-dire que l’agrandissement de l’extérieur, cu de la ì È 3 0, 75 I ; circonférence , serait accru de —<— ou 7 moins que 3 agran- 1000 1000 dissement de l’intérieur. PAR JEAN CAVALLI. 451 Aìinsi s'explique jusqu'à un certain point que la rupture doit com- mencer par l’intérieur dans les conditions susdites. Pour les cylindres creux en fer forgé ou de bronze, métaux mous, il se peut que l’effet de lextension soit plus grand que celui de la compression, et consé- quemment que le rapport » de densité devienne moindre au lieu de s'accroître. Si l’on cherche la valeur de ce rapport » qui donne a=c où les agrandissements intérieurs et extérieurs seraient égaux, on trouve I A r ‘ x »= — valeur indépendante du rapport n des diamétres, et pour - c=1,001 on aurait "= 0, 998. Ainsi l’on voit que pour peu que la densité diminue, l’agrandissement exlgrieur, après avoir égalé l’intérieur, peut bien le dépasser, et donner lieu au commencement de la rupture de l’extérieur au lieu de l’intérieur. S 55. Les effets de l’extension et de la compression des parties d'un canon sous la violente action de l’explosion de la charge intérieure sont tels, qu’ordinairement les limites de stabilité sont dépassées d’abord jusqu'à une petite profondeur dans ces parois internes où la rupture commence lorsque le métal est beaucoup plus dur que ductile ; tandis que le contraire a lieu, lorsque le métal est beaucoup plus ductile que dur; car alors les parois, si elles ne sont pas d’une épaisseur excessive, s'allongent plus qu’elles ne se compriment, et bien que leur densité croisse à l’intérieur, la diminution à l’extérieur l’emporte; comme il arrive aux canons de bronze, où la rupture commence è l’extérieur. Ainsi il pourrait y avoir un juste milieu pour les canons en fonte de fer ni dur, ni trop ductile, mais tel que la rupture ne puisse avoir commencement plus tot de l’intérieur que de l’extérieur; et ces canons seraient conséquemment beaucoup plus résistants. C'est à ce résultat très-important que la pratique doit tendre par le mélange des’ fontes blanches et dures avec celles grises et ductiles, que produit la fonte truitée, généralement reconnue comme la plus résistante pour les bouches à feu. On comprend aussi, que ce degré dans la proportion du mélange de la fonte blanche et dure avec la grise et ductile , doit varier avec le degré de l’effort intérieur qui tend à faire crever le canon. Plus l'effori est grand et de courte durée, plus il faut que les parois du canon puissent s'étendre à l’intérieur pour en retarder la rupture, et puissent se condenser à l’intérieur au point de compenser le défaut 492 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. d’extension vers l’extérieur, de sorte que la rupture ne puisse commencer plus tòt de l’intérieur que de l’extérieur. Aussi les bouches à feu de contròle destinées è soutenir un nombre limité, mais de très-forts coups des épreuves à outrance, sont faites d’une miscèle plus abondante de fonte grise que celles destinées è soutenir le plus grand nombre de coups possibles, mais beaucoup moins forts, pour lesquels cette miscèle n'est plus la meilleure; tandis qwalors elle devrait pencher toujours plus vers la fonte dure, à mesure que l’effort des coups sera moindre jusqu'au point où cet effort reste dans la limite de stabilité, puisque alors le canon acquerrait une durée indéfinie. S 86. L'expérience prouve qu'il n'y a pas d’agrandissement à l'ex- térieur dans les canons en fonte, pas méme quand ils sont tirés aux grandes charges à outrance, et que dans ceux de fonte très-dure l’agran- dissement, méme intérieur, est insensible. Ce doit étre ainsi; parce que les agrandissements stables sont uni- quement dus à la ductilité de la fonte, et plus les fontes sont dures, plus cette ductilité diminue jusqu'à disparaftre entièrement; et alors les agrandissements élastiques, qui ne parviennent guère de l’intérieur jusqu'à l’extérieur, disparaissent après l’effort. L’expérience nous démontre aussi que ces deux qualités, l’élasticité et la ductilité des solides, sont presqu'inséparables, et que dans certaines proportions elles nous procurent la meilleure fonte à canon; c'est l'éla- sticité qui doit l’emporter à fur et à mesure que l’effort des coups rentre dans la limite de la stabilité , parce que celle-ci se maintient propor- tionnelle à l’effort jusqu'àè la rupture; tandis que l’épuisement de la ductilité augmente dans une raison toujours plus forte avec les efforts, quoique aussi régulièrement pour les fontes à canon jusqu'à la rupture. Il s'ensuit que, puisque dans les canons de fonte il n'y a pas d’agran- dissement extérieur , l'hypothèse de la conservation du méme volume sur laquelle est fondge la théorie de Barrow; n’est point applicable è ces bouches è feu; étant alors x=1, on déduit pour l’expression de l’agrandissement intérieur ai 2 2 Nb = dl DTA vr UTI Dans le cas où la ductilité disparaîtrait ce serait r=t, puisque . . ò è g IO sans compression possible la densité reste invariable , c’est-à-dire que PAR JEAN CAVALLI. 453 l’agrandissement stable n’aura pas méme lieu; tel est le cas des canons de fonte très-dure, résultat conforme à l’expérience. S 57. Pendant la percussion de la charge embrasée l’agrandissement intérieur a toujours lieu, et lorsque la fonte est aussi ductile, cet agran- dissement se compose de deux parties, l’une due è l’Clasticité qui revient avec la cessation de l’effort, et l’autre due è la ductilité ‘qui ne revient plus; et laisse ainsi toujours substituer un agrandissement, quoiqu\l puisse ètre imperceptible au premier coup fait avec une charge telle à ne pas pousser l’agrandissement au delà de la limite de stabilite. Cet agrandissement n’augmente plus aux coups suivants faits avec la mèéme charge, comme si le canon avait acquis alors une élasticité parfaite absolue, et n’avait point de ductilité, et il pourra ainsi avoir une durée indéfinie. Mais comme la force de la charge est ordinairement suffisante pour que la limite de stabilité soit dépassée, alors à chaque coup, méme en les supposant tous d’une force égale, il y aura augmentation d’agran- dissement progressif, et le canon ne pourra plus faire. qu'un nombre limité de coups. Ainsi il dépend, d’un còté des épaisseurs, de l’autre còté du mélange des fontes du canon, d’obtenir qu'il s’établisse un juste equilibre entre les tensions et les compressions à l’interieur ei à l’ex- terieur en vertu de la ductilité et de l’élasticité, de facon que la somme totale de la resistance s’accroisse et en fasse retarder, si l'on ne peut lempècher, la rupture, en faisant qu'elle ne puisse avoir lieu qu'en méme temps sur toute l’épaisseur, et non pas successivement, autant quil est possible. $ 58. D’après cette longue digression nécessaire pour se faire une idée de l’importance des phénomènes qui ont lieu dans la masse du métal d'un canon sous V’action du choc de la poudre embrasée, on voit aussi qu'il faudrait àè plus forte raison soumettre sa manière de résister à l’analyse la plus complète et rigoureuse, comme on cherche de faire pour la déflagration de la poudre. Dans l’état actuel des connaissances humaines, il est impossible d’aborder une telle analyse avec le moindre succès pratique (quoi qu’en dise contrairement à notre assertion la Repue de technologie militaire è la page 150 du Tom. I); mais il n'est pas nécessaire de suivre cette voie, en tous cas, très-longue et difficile, pour arriver au but de la determination des épaisseurs à donner aux bouches è feu, comme on le démontrera dans le chapitre suivant. 454 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. CHAPITRE VI. Analyse théorique expérimentale des cas où il importe de savoir caleuler la résistance vive des bouches à feu; délermination de leurs épaisseurs suecessives en rapport avec celui plus fort à la culasse et calcul de leur résistance vive transversale et longitudinale. $ 39. Une théorie assez véritable de la résistance vive des bouches à feu n'a jamais été faite, à cause de la complication du phénomène de l’embrasement de la charge de poudre dans leur intérieur, à cause de la difficulté de déméler l’influence des divers éléments et en défaut de connaissance d'une mesure rationnelle de la résistance vive des solides. Il a fallu d'abord remplir cette lacune de la mécanique appliquée, puisque toutes les méthodes employées pour ramener les questions du ressort de la dynamique à l’état propre de la statique, étaient de leur nature irrationnelles et erronges. Ensuite il a fallu prendre de l’expé- rience les résultats quil était impossible de déeduire théoriquement; car les essais infructueux de telles théories faites jusqu'ici par les savants prouvent qu'elles ne peuvent ètre resolues d'une maniére ‘generale et assez pratique; et que la seule chance de succès consiste à se prévaloir des résultats des expériences particulières qu'on ne saurait déduire directement par l’analyse, et à les rattacher par des calculs alors sùrs et assez simples. Telle est la voie qu'on a tàché de suivre, et d’abord on a reconnu que, quoique le calcul de la résistance vive des bouches à feu puisse conduire à la determination de leur poids, ce poids ainsi déterminé serait insuffisant comme on verra par la suite; et doit plutòt ètre déterminé d’après la stabilité nécessaire à donner aux bouches à feu dans le tir, comme on l’a démontré dans le précédent Mémoire de 1865. Il est encore bien d’ajouter ici, à propos des expériences qu'on rapporte plus tard, où des balles étaient lancées dans un pendule placé d'un coté du canon par la méme charge qui lancait par la bouche le gros boulet, que, comme il fallait diriger la balle sur un point de la plaque du pendule plus en avant du centre vers la bouche du canon, afin que cette balle frappàt ce centre, il s'ensuit la preuve évidente que le canon avait déjà commencé à reculer de 14 centimétres environ, mesure de PAR JEAN CAVALLI. 455 ladite distance; et que le recul du canon qui avait lieu jusqu'à la sortie du boulet, en était plus grand encore. Dans des essais de mes canons se chargeant par la culasse, lorsqu’on avait tiré des boulets qui entraient bien par la bouche postérieure agrandie, mais qui n’entraient pas libre- ment par la bouche antérieure, cause principale des éclatements qui eurent lieu, on voyait clairement le boulet frapper le sol du còté mème de la direction qu'avait prise le canon dans le recul. On ne peut donc pas dire absolument que le recul: n’influence pas la justesse du tir, lorsque surtout les bouches à feu sont trop légéères, et il reste aussi démontré que pour obtenir la plus grande justesse du tir, il ne faut pas alléger les bouches à feu au delà du poids: que la plus ancienne et longue expérience leur fit assigner de 250 à 200 fois le poids du boulet sphérique, lorsque l’impulsion que la bouche à feu recoit égale celle de ce tir avec la charge du tiers, ce qui est le ma- ximum d'’effort nécessaire pour obtenir tout le plus grand effet balistique. Sans donc se préoccuper du poids de la bouche à feu, on a d’abord cherché l’épaisseur du métal autour de la partie de l’àùme occupée par la plus grande charge, pour en déduire ensuite les rapports à établir entre cette plus grande épaisseur et celles qu'il était nécessaire de donner progressivement vers la bouche, pour que le canon présentàt pourtant la méme resistance vive proportionnée aux efforts de la poudre embrasée, décroissant avec la course du projectile et la détente des gaz. Aprés avoir bien étudié ce problème, on verra qu'on ne peut parvenir à régler les épaisseurs à donner successivement de la culasse vers la bouche des canons d’une manière assurge, que par la méthode du tir de còté des petits projectiles lancés par la mème charge de poudre embrasge dans le canon qui lance le gros projectile par la bouche, en mesurant les quantités de mouvement avec le pendule balistique. Le premier essai de ce genre a été fait en Piémont en 1845 (1) sur un canon de r2 de campagne, au còté duquel on fit successivement onze trous, dont un seul restait ouvert dans le tir: le premier à 15 calibres du fond de l’àame, et jusqu’au sixièéme de deux en deux calibres; ensuite leur distance se réduisit à un seul calibre, de manière que le cinquième trou tomba sur le devant du tourillon de droite, le huititme sur le devant du boulet (4) Voir mon Mémoire Delle grossezze di metallo delle bocche a fuoco d'artiglieria, inséré dans la Série II, T. XII des Mémoires de l’Académie des Sciences de Turin. 456 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. avec la charge de poudre du tiers de son poids, le neuvième sur le derriere du boulet au commencement de la gargousse, puisqu’on tirait sans sabot ni bouchon, le dixièéme A la moitié de la longueur de la gargousse, et le onzième trou était tangent au fond de l’àme. Enfin un autre trou fut fait dans l’axe de l’àme après avoir coupé du canon son bouton de culasse. Le diamètre de ces trous était de 27 millimètres, calibre d'un demi-canon de fusil de rempart qu'on visait au trou en essai. On tirait des balles de fer du diamétre de 26, 4 millimètres dans un pendule assez long, de sorte que les vitesses résultaient à très-peu près toutes de 1600 fois l’oscillation du pendule. Il est résulté alors, des expériences ainsi faites, que la balle sortait du trou de l’axe avec un peu plus de vitesse que 845 métres par seconde, vitesse de la balle qui sortait par-les deux trous au fond de l’àme et de celui è mi-longueur de la gargousse contenant la charge de poudre d'un tiers du poids du boulet; et qu’ensuite cette vitesse décroissait rapidement. Si la gargousse cit été allongée de trois calibres, au lieu quelle l’était seulement de deux, et d’un diamétre réduit en proportion, étant allumée du fond, elle ne se serait pas d’abord entassée contre le projectile, et n’aurait pas causé une vitesse è la balle inférieure è celle partie du fond; à cet effet pourtant concourut aussi le grand vent du canon de rebut employé. Ces circonstances étant écartées, avec le changement allongé de trois calibres, on peut retenir que toutes les parois renfermant la charge embrasée derrière le projectile parvenu au point du maximum de tension des gaz, point qui est très-près de l’endroit de son départ, ont recu la mème somme d’impressions que le boulet en cet instant en raison de leur surface. De ces essais on obtenait ainsi Ja quantité de mouvement total im- primée aux parois comme aux projectiles, et ils ne pouvaient consé- quemment servir quà établir les rapports entre les épaisseurs de métal cherchées. Encore faut-il observer, qu'on a trouvé la vitesse de la balle sortant du trou dans l’axe peu différente de celles sortant du còté du fond de l’àme, à cause que les grains de poudre ne peuvent bruler entitrement dans le parcours et dans le temps beaucoup plus court ecoulé dans la canne de còté que suivant l’àme du canon: $ 40. Les quantités de mouvement des balles lancées ‘de coté du canon pouvaient donc étre prises comme celles moyennes imprimées aux parois, proportion gardée à la surface choquée, pour toute la longueur PAR JEAN CAVALLI. 497 de chaque trone cu tranche du canon résultant de son partage fait avec des plans normaux à son axe; en retenant comme donnée l’épaisseur maximum du tronc de culasse cylindrique et non plus conique, à cause que la charge la plus allongée doit y rester comprise: et en retenant de méme forme les trones suivants, puisqu’on peut réduire leur lon- gueur autant qu'il est nécessaire afin d’admettre cette forme plus simple dans les calculs suivants, pour déduire les épaisseurs progressivement décroissantes, nécessaires à contenir l’impulsion des gaz. La condition à remplir est que la bouche à feu présente partout une resistance vive, uniforme, c’est-è-dire que son métal ait partout à opposer la méme vitesse d’impulsion. Soit donc X le rayon extérieur du canon dans un endroit quelconque, & celui en culasse, 7. le rayon de l’àme, 26, 0 26,5 sections de l’ame et de la cartouche de la canne additionnelle, w et x, les vitesses de la balle, et 7. et n, les rapports du poids des charges hypotétiques de poudre au poids de la balle; c’est-à-dire des charges p le poids du petit projectile, k=( ) le rapport des surfaces des fia pa at 4h ha 0 du cylindre de culasse; avec laquelle (1) V. pag. 3H1 da Memorial d’artillerie N. v. Serie II. Tom. XXIV. IK 4598 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. on a calculé les épaisseurs successives du métal des bouches à feu er calibres de la table suivante en prenant la plus grande épaisseur égale à lunité. Les expressions suivantes des quantités de mouvement recues par la balle, celle correspondant à un endroit quelconque, et celle à l'endroit de la plus grande épaisseur donnée, sont déduites de la formule tirée de l’expérience par Rocne (1) 2(14kn)u, 5 P (14kn)u E 8 E où les facteurs binomes sont introduits pour déduire des quantités de mouvement du projectile, celle qu'aurait recue le fond de l’àme du canon de fusil. Comme c'est le rapport de ces facteurs seulement qui entre dans la formule trouvée ci-dessus , l’influence de la justesse plus ou moins grande de ces coefficients empyriques ne pourra altérer sen- siblement les résultats cherchés. CHARGE DU CANON Distances du fond de l’àme en calibres 1]. du poids du projectile 44| 43] 45 | 47 Vitesses initiales en mètres des balles o 642 | 580 | 523 | 432 ; Rapports du poids des charges Î hypothétigues avec. celui des balles..... 2,90|1,75 | 1,20 |0,87 | 0,68 [0,43 | 0,29 [0,18 | 0,13 [0,105 *| Épaisseur de métal en calibres | 1 |0,816|0,695|0,611|0,543|0,437|0,352|0,288| 0,250|0,220|0,20 S 41. Dans la précédente manière de déterminer les épaisseurs suc- z ò . ’ x L cessives, on a justement admis l’hypothèse que toutes les tranches résultant du partage du canon par des plans normaux à son axe s'agran- disseni indépendamment, soit unies, soit séparées, hypothèse qui s'éloignera d’autant moins de la réalité qu'on partagera le canon en un plus grand nombre de ces tranches, à l’exception de celle embra- sant la charge ou l'espace derrière le projectile, partie du canon pour laguelle la détermination de l’épaisseur doit se faire directement. D’abord il est d'usage de traiter cette question, dans ceite première 5 C 7 hypothèse, conjointement avec cette autre hypothèse, que toute l’épaisseur 4) Voir son 7raité de balistique; Paris 1844, PAR JEAN CAVALLI. 459 du cylindre creux concoure également dans la resistance à la rupture comme si les cylindres creux fussent des prismes ayant pour base la coupe de leurs parois cylindriques et pour hauteur la circonference A: MRE.. TAB: da prise à la moitié de l’épaisseur rectifige. Cette hypothèse admise, soient f et r les rayons extérieurs et inté- rieurs de la tranche du canon d'une hauteur Z, le rayon du projectile r,, son poids p, v, sa vitesse au point de la plus grande tension des gaz, et g la gravité. ee RION ) Il faut observer que la quantité de mouvement du projectiile Pla 4 8 z sa ; Val da rapporté sur le fond de l’àme, devient Pa(2) ; et que la quantité 4 Ss A de mouvement recu par la projection de la paroi cylindrique 27rZ sur celle 2rZ, étant en raison de celle du projectile projecté sur son p i oLr grand cercle; donne lieu à la proportion 7r,:2rZ e A & ©8ri où Z deésigne la hauteur du tronc embrassant la charge embrasée au 9 moment du maximum de tension des gaz. Si, comme on pourrait le croire possible, on réussissait à régler la proportion des fontes élastiques avec celles ductiles de la miscèle de la coulée des canons, de manière à avoir une fonte truitée, telle que la rupture ne commence pas plutòt de l’intérieur que de l’extérieur, condition qui réaliserait l’hypothèse établie ici, alors le cylindre creux susdit se trouverait agrandi, de la mème manière que le prisme pro- venant de ce cylindre creux deéveloppé serait allongé, car il aurait son axe rectiligne, de circulaire qu'il était, placé à mi-épaisseur; dans ce cas la vitesse de l’impulsion qui l’allongerait est justement celle que le métal peut supporter et qu'on a désigné par Y en désignant par D le poids de l’unité cubique. Ainsi l’on pourra égaler la quantité de mouvement que ledit prisme de métal à canon peut soutenir suivant son axe à la quantité du mouvement du projectile recu par la défla- gration de la charge ci-dessus référée sur le rectangle 2rZ: ale (2-») pla 2Lnpe 2 8g TUTSANVSORI de laquelle on tire la formule cherchée, en observant qu'on a p= È knrD, où È pour les projectiles sphériques est 1 oil dio (e inD 7 =3i(-1)55 : La vitesse que le boulet a acquise au point où la tension des gaz est arrivée à son maximum étant trouvée (voir $ 25), on pourra consé- quemment déduire l’épaisseur du métal autour de la charge. D’apres les experiences exécutées, d'’abord en Belgique et ensuite en Piémont, comme on a vu au chapitre IV, on a pu avoir de l’expérience les vitesses acquises aux projectiles aux diverses distances jusqu'à celles près de l’origine du mouvement, en outre étant ici &4=1 et 7,D,=rD, quand les projectiles sont frappés, en supposant au canon les épaisseurs ordinaires de R ; 1,1 '/, et 17% calibres, pour lesquels le rapport des rayons = serait égal respectivement à 3; 3 '/3; 3 '/, en compiant sur la seule résistanee vive circulaire À l’extension susdite pour laquelle on peut prendre iV=98 au plus pour la bonne fonte de fer à la limite de stabilité, on trouve seulement pour Y, les vitesses respectives 28, 31, 34 métres par seconde et deux fois autant pour la limite de rupture; tandis qu'on a trouvé cette vitesse de 116",5 au point du maximum de tension qui a lieu après le parcours de '/, de calibre. On voit donc quwil faut tenir compte de toutes les manières de la resistance vive que le canon oppose au travail des. gaz pour le briser, puisque dans l’hypothèse la plus favorable è la résistance vive d’extension cette seule évaluée est loin de suflire. i S$ 42. On a vu dans le chapitre premier que l’action expansive des gaz de la poudre embrasée dans un canon contre les parois cylindriques rejoint la limite extrème, avant que le projectile soit notablement poussé loin de son point de départ, dans le méme temps que la tension des gaz monte à son maximum d'intensité. Dans ce temp #,, (voir S 26) la propagation dans l’'épaisseur du métal da mouvement d’extension et de compression pour les distinguer des mouvements seulement vibra- toires, aura lieu d’une manière décroissante de l’iniérieur à Vextérieur en produisant la compression dans le sens du rayon, l’extension susdite des parois suivant la cireonférence, et en outre la flexion suivant la direction de l’axe du. canon, lorsque les épaisseurs sont faibles et le métal trop ductile. Il faut d’abord distinguer le cas. où l’extension de la première couche de la paroi intérieure , sera poussée jusqu'à la limite de stabilité ou de rupture: tandis que la propagation du mou- ® PAR JEAN CAVALLI. 461 vement d’agrandissement et non-seulement vibratoire, parviendra tout juste à la surface extérieure du canon; partie qu'on fait à present cylin- drique, au moins pour la longueur de l’àme contenant la charge. Il ya lien conséquemment à chercher quelle sera la compression que ce cylindre pourra subir de l’intérieur à l’extérieur, jusqu’au point que tiendra la force de résistancee du métal è l’extension. Soient encore RR et 7 les rayons extérieurs et intérieurs de ce cylindre creux, et Z la longueur: on pourra supposer ce cylindre creux partagé en éléments égaux par une infinité de plans passant par Vaxe; de sorte que la compression x jusqu'à la profondeur z du dedans au dehors pour chacun de ces éléments sera la mèéme. En désignant par la force exercée par les gaz à l'intérieur du cylindre creux sur toute la surface intérieure 27rZ, on aura de méme è la profondeur 2 pour la surface d’une des couches cylindriques et concentriques 27 (r+z)Z, et l’épaisseur de ces couches étant dz, on aura Fdz a E,2n(r4-2) £ E, est le module d'élasticité pour la compression. En intégrant et en observant que la consiante est nulle pour x=0, étant aussi alors z= 0, on a pour l’expression du raccourcissement 1 x; : - H “È e È 1.1 = . 2nbElloge g° r Pj En faisant Tn Q la résistance à la compression du métal du canon sur l’unité superficielle , en désignant par x, le raccourcissement total pour toute l’épaisseur 2, égale alors à R—r, on a R Qlog— CT E loge Or, d’après l’hypothèse précitée, ce raccourcissement x, total de l'épaisseur RX —r du cylindre creux étant parvenu tout juste à la paroi extérieure du cylindre, où le raccourcissement y, desdites couches con- centriques a cessé , il s'ensuit qu'il y aura, entre le raccourcissement total x, et l’allongement total y, de la première couche intérieure , la proportion 462 MÉMOIRE SUR LES ECLATEMENTS DES CANONS, ETC. CISTI 9A Cet allongement y, est ici plus grand que son expression ordinaire Di : È ; E 2773 où P est la résistance è l'allongement pour l’unité superficielle, et E le module d’élasticité à l’allongement du metal du canon; puisque à cause de la compression Poisson a démontré, et CacnarD DE LA Tovr a vérifié expérimentalement, qu’une relation singulière existe entre l’ex- tension. ou la compression linéaire et la cubique (1). En désignant par j le raccourcissement proportionnel à celui de l’unité de longueur d'un prisme, et par a l’accroissement de la section transversale com- primée sur celle primitive 4, on aurait a da: Q Aria 4 Ainsi il y a lieu de poser ia proportion suivante, où A désignerait le còté de la section agrandie Ad:Ata::(anr):X° . En observant que pour extraire la valeur de X on peut négliger les termes du développement du radical supérieurs à la première puissance de en vue de la petitesse de cette valeur, on a RIE TRODNE X—27n1 ((+3$) 3 Q 2E T mais comme il faudrait encore tenir compte de la ductilité qui pourra dans ce sens avoir au moins autant d’effet que la dilatation élastique cubique, ainsi il faudra doubler cet agrandissement, le retenir au moins de Se , et mettre dans la proportion établie entre x, et y, pour y,- 2 I Q E P È l’allongement 27r+ plus 27r—- ; ou en faisant E OI. ? —=i, on auralt 2 ie>|Mas] = of io E —_ ia Ya= 21 (+2) e ap sal ò (1) M. R. MALLET s’appuie aussi sur ces résultats. Voir pag. 55, n° 115 de son estimable ouvrage de 1856. i PAR JEAN CAVALLI. 463 Or de l’équation de deux expressions trouvées de x, en éliminant les coefficients d’élasticité qui sont 2 2 pela pe Ca WD e) I VD on obtient une formule très-simple du rapport du rayon È extérieur du canon, ou jusqu’au point où parvient dans l’epaisseur du métal la propagation du mouvement de compression et d’extension, avec le rayon r de l’intérieur 7 ARI =@ 0 p°. a=zt- ; EDIFICI 0 SE 0) On voit que l’épaisseur utile du cylindre dépend uniquement du i 3 s î rapport - de l’extension à la compression proportionnelle: de sorte que J le métal è canon qui doit ètre préféré est celui pour lequel ce rapport a la plus grande valeur, c’est-à-dire le metal capable du plus grand allongement et du plus petit raccourcissement elastique. S 45. Il y a lieu d’examiner d’autres cas remarquables après le cas précédent, où l’on a retenu l'épaisseur du cylindre creux tout juste celle jusqu'où parvient la propagation du mouvement, et où conséquem- ment la compression et l’extension è l’extérieur sont nulles, tandis qu'à l’intérieur l'extension et la compression parviendraient fustement à la limite de stabilité ou de rupture. Un deuxième cas est celui du $ 4i où, si la rupture avait lieu, elle commencerait à la fois du dedans et du dehors en mèéme temps pour toutes les épaisseurs du cylindre creux. Suit le cas où cette épaisseur serait moindre que celle susdite, n’ayant aucun besoin de nous occuper ici du cas où cette épaisseur serait plus grande que dans le calcul de la résistance longitudinale. L’effort expansif des gaz aura encore pour effet, dans ce deuxième cas singulier, de produire la compression totale x, et les allongements totaux y, et y,, lun a l'intérieur, l’autre à l'extérieur de l’épaisseur de la paroi cylindrique à la limite de stabilité ou de rupture; de sorte que l’on aura ici pour leurs expressions, &, désignant le rayon extérieur dans ce deuxième cas au lieu de ft du premier cas précité, R, Qlog— Vero =27(2,+,) pe pda sa ap / E, log e 2 HE / US 2 Vaje ig 7 Il E 404 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Or, en substituant dans cette expression de y, la valeur de son allongement total précédemment trouvé, et à x, et x, les valeurs indiquées, on en deduit On voit que le rapport du rayon extérieur au rayon intérienr du cylindre creux ne dépend que du rapport de l’extension à la com- pression proportionnelle, de son méial (1). Or, en retenant la valeur î Lea iti: j 9° Ré 8 pour le rapport des rayons 1,265 1,37 1,46 1,54, ou que les épais- de ce dernier rapport décroissant de -=1; etc., on trouve seurs en calibre seront 0, 137 0,185 0,230 0,270, valeurs notablement petites qui résultent ainsi d’après la condition que la rupture ait lieu à la fois dans toute l’épaisseur, et non pas successivement. Dès que le rapport du rayon extérieur à celui intérieur du cylindre creux surpas- serait ces valeurs, si rupture avait lieu dans les canons d'une épaisseur inférieure aux épaisseurs qu'on vient de trouver, elle commencerait è l'extérieur, puisque alors l’allongement de la paroi à V'extérieur depas- serait la limite de stabilité ou de rupture; et dès que l’épaisseur en serait supérieure, la rupture commencerait è l’intérieur, et aurait lieu successivement jusqu'à l’extérieur. La rupture commencera donc toujours de l’intérieur dans le cas où l’épaisseur dépasse celle de ce deuxième - cas, et il y aura agrandissement è l’extérieur jusquà ce que l’épaisseur ne rejoindra pas celle du premier cas, épaisseur entre laquelle la rupture de l’intérieur pourra s’étendre dans lépaisseur du métal sans qu’aucun effet se manifeste àè Vextéricur. ; LEICA En supposant, dans ce premier cas précédent, au rapport - les valeurs susdites, on a pour les rapports correspondants des rayons 4,482 2,718 (1) La loi que la tension des différentes couches composant les parois d’un cylindre creux, soit en raison inverse du carré de la distance à l’axe, loi trouvée par le docteur BARLOW, résulte de l’bypothèse que la section transversale du cylindre reste conslante pendant l’application de la force centrale? hypothèse qui, si elle pouvait avoir lieu, ne serait que pour les minces parois; cas dans lequel l’hypothèse la moins erronée est celle que la tension soit constante. Le Colonel GapoLiN (voir tome II de la Revue de technologie militaire, pag. 45) donne une théorie qui y est appelée plus exacte. Toutefois le rédacteur dit aussi que la formule de cet auteur ne s’accorde pas plus que celle de BarLow avec les pressions observées à la page 89, tome IV, 1864. PAR JEAN CAVALLI. 465 DS; FL] 1,868, et pour les épaisseurs en calibres 1,74r 0,859 0,558 0, 434; dans ce cas la surface extérieure du cylindre creux n’aurait à subir aucun agrandissement avant que le commencement de la rupture interieure eùt lieu. Il serait ici è propos d’appliquer ces résultats aux divers métaux à canon, si l’on connaissait assez exactement les nouveaux coefficients mécaniques de ces métaux, desquels dépendent les valeurs du rapport de leur extension à leur raccourcissement proportionnel. On donne bien dans les livres ces allongements et rarcourcissements de l’unité linéaire à la soi-disant limite d’élasticité qui est ordinairement dépassée dans le cas des forces vives; mais en réalité c'est pour Ja limite de stabilité qu'il faudrait les connaître aussi bien que pour la limite de rupture. En les prenant méme par approximation on courrait le risque d’avoir de ces rapports erronés jusqu'à étre renversés, tant il est difficile par les mé- thodes encore en usage de les déduire en conservant entre eux une juste relation. Jusquà ce qu'on ait fait des essais complets avec la méthode proposée, on ne peut espérer d’avoir des coefficients méca- niques des solides assez exacts pour qu'on soit rassuré dans les appli cations pratiques, surtout dans le cas des forces vives. Cependant pour i 2 les canons en bonne fonte de fer la valeur de — peut étre de 3 , et 3 I celle pour le bronze à canon de — : de sorte que pour la fonte de 10 fer on aurait dans les deux cas susdits, respectivement à ces valeurs k R, CRAS MOR ; —=3,212 et —!=1,327, et les épaisseurs respectives en calibres = ? = 2 7 lì seraient 1,106 et 0,1635; et pour le bronze on a les rapports R R —=1,822 et r r o, 411 et 0,280. Il s'ensuit que le second des cas ci-devant établis n'est = 1,560, et pour les épaisseurs respectives en calibres pas possible en artillerie , et il est. conséquemment inutile de nous en occuper ultérieurement. Il y a seulement lieu d’observer encore, quant au bronze, qu'étant un métal très-compressible , le rapport de son allongement à son rac- courcissement pourrait bien se réduire de 0,1 à 0,044 avant de crever, ce qui porterait à doubler le terme di à l’extension cubique è cause de cette grande compressibilité, valeur répondant alors à Bilo, SU Serie II Tom. XXIV. di 466 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. ou à une épaisseur de 0,77 calibres, telle que l’ont environ les canons de bronze, qui sont conséquemment sujets à se crever à lextérieur avant de se crever de l'intérieur. Les épaisseurs très-minces que la théorie fournit pour le deuxième cas montrent l’inadmissibilité de telles conditions pour les bouches è feu, puisqu'elles éclateraient quoiqu'elles fussent du plus fort métal à canon, au lieu de fonte de fer; mais ouire que l’on consiate une fois de plus la concordance de la théorie, lorsqu’elle est irréprochable, avec l'expfrience, la thiéorie vient de demontrer que les épaisseurs néces- saires aux bouches à feu excluent le cas que la rupture puisse avoir lieu à la fois à l'intérieur et à l’extérieur. Elle admet que la rupture pourra, dans les canons d'un metal trés-ductile comme le bronze, com- mencer de l’exiérieur, tant que ces épaisseurs seront les plus petites en usage; mais qu’ordinairement elle commencera è l’intérieur, si rupture aura lieu, et Ja rupiure commencera pour peu que le métal è canon ait des coefficients mécaniques inférieurs à ceux susdits trouvés par une bonne fonte, on pour peu que la poudre employée soit. plus vive que celle ordinaire aux pilons, comme on a vu arriver des poudres belges de 1850. Quand le canon a une épaisseur plus grande que la limite posée dans le premier des deux singuliers cas susdits, on ne pourra par cette plus grande épaisseur empécher que, sous l'action d'un plus violent effort d'une poudre plus vive, cu à cause de la médiocre résistance vive du métal, la rupture ne commence è l’intérieur; mais quoique la rupture soit commencée è l’intérieur, la forte épaisseur du canon en retardera encore de beaucoup l’éclatement; comme nous l’avons pu sùrement constater dans l’essai fait en 1842 par l’artillerie piémontaise sur un canon de 32 (24 frangais) lisse se chargeant par la culasse d’après mon système, qu'on tira à boulet sphérique de 12 kilog. avec la charge de 4 kilos de poudre aux pilons. Comme on voulait éprouver le mécanisme de charger par la culasse, à un long tir plus fort que l’ordinaire, on supprima le bouchon entre la poudre et le boulet lequel était centré et encoigné dans une espèce de coiffe en carton poriant quatre cales de bois de noyer qui l’éclipsatent à sa place; ce qui a considérablement augmenté l’effort. du tir contre les parois cylindriques de l’ùme et contre le coin obiurateur du fond de l'àme. En effet le culot ou sabot d'abord en bronze qu'on plagait contre ce coin obturateur du fond de l’àme, au 30° coup était déjà rétréci, sur PAR JEAN CAVALLI. 467 r14 millimètres de diamèire, de 4 millimetres sur celui horizontal, et de 7 sur celui vertical, et sa densité de 7,378 s'acerut à 8,427; (ce sabot a dù depuis éètre remplacé par un autre en fonte de fer qui ne fut plus comprimé. On tira ainsi 568 coups avant de mettre le grain ordinaire de lumière en cuivre, en trois jours de suite avec un tir continu de 130 coups au moins par jour, en moyenne un coup chaque deux minutes. Au 302° coup, le canal de la lumiéère percée dans la fonte excellente du canon présentait à son orifice intérieur la forme d’un rbombe presque régulier, pl. INI, fig. 1, avec la plus grande diagonale de 25 mill. suivant Ja génératrice de l’ùme; tandis qu'aucune dégradation ne paraissait encore à lorifice extérieur. En agrandissant la lumière pour la pose du grain, on a pu prendre les empreintes, fig. 2, successives des coups qu'elle presentait. La fig. 3 fait voir l’existence profonde et. l’extension des fentes suivant ladite génératrice de l’àme; qu'en aurait sirement retardée, sì non empéchée, si l’on avait placé le grain dès le commencement; ainsi la fig. 4 montre l'état de la lumière après la pose des grains, où l'on voit qu'il restait 21 millimètres de fente apparente vers la culasse et 25 vers la bouche du canon. Ensuite le tir a été poursuivi avec un boulet et la charge de 4 kilogr. de poudre jusqu'à 900 coups, non compris les 12 premiers. Les empreintes, fig. 6, montrent qu’après d'autres 67 et 111 coups, tandis que la fente vers ia culasse ne s’al- longeait pas sensiblement, vers la bouche elle s'accrut du double. Pour en finir plus vite, aux 5g tirs suivants on ajouta au boulet un cylindre de terre glaise comprimé d’égal poids, et aux 54 derniers on augmenta en outre la charge de 4 à 6 kilogr. qui firent. éclater le canon comme l’indique la pl. NI, figures 10 et 11; d’après laquelle on voit que les épaisseurs éiaient assez bien proportionnées aux efforts, puisque l’éclatement s’étendit presque sur toute la longueur, méme en culasse; laquelle ne s'est pas fendue suivant la grande ouverture transversale. Il est très-important de remarquer que lallongement de la fente vers la bouche, à la suite de ces derniers tirs plus forts qui étaient d’abord peu sensibles aussi de ce coté, lorsqu’on eut seulement augmenté les projectiles, s'accrut toujours plus rapidement lorsqu’on porta la charge de poudre de 4 à 6 kilogr., comme on le voit aux empreintes, fig. 7, 8 et 9g. En comparant l’allongement total par coup de cette fente longi- tudinale, la seule qui se soit manifestée, on trouve à partir de la fig. 5, 468 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. après les 835 coups, que l’allongement apparent moyen par coup. à un boulet éclipsé et à la charge du tiers a été de 0,04 millimètres; que l’allongement causé par les coups è deux projectiles et charge du tiers de 0,63 millimètres; que celui des coups à deux projectiles et charge de la moitié a été de 5,90 millimétres. C’est-à-dire, pendant que l’allongement de la fente par coup était presque insensible aux tirs ordinaires, il devint 16 fois plus long par les coups à deux projectiles, et 148 fois aux tirs à deux projectiles et è Ja charge de la moitié. Il résulte done de cette expérience compétente que l’épaisseur de deux calibres au plus fort de la culasse, a eu pour effet de prolonger considérablement la durée de la bouche à feu quoique la fente se soit manifestée à l’intérieur après les premiers 300 tirs environ (1). Certainement, dès que les fentes seront assez allongées et la bouche à feu chauffée au point que les gaz qui y pénétreront ne perdraient plus avec la chaleur leur force expansive, la surface pressée par les gaz augmentant, accélèrerait l’éclatement de la bouche À feu. Pour empécher ce mauvais effet on a imaginé de doubler la paroi de l’àme avec un tuyau d’un métial plus ductile que celui du canon méme, et sous ce rapport ce doublage est sùrement utile; mais il est toujours plus con- venable de ne pas se mettre dans la circonstance d’avoir besoin d’ex- pédients dans la fabrication des bouches è feu, en s'attachant aux seules conditions nécessaires qu'on peut remplir à moins de frais. S 44. On a vu au S 4o que la seule resistance è l’extension de la paroi cylindrique d'un cylindre creux ne suffit pas à contenir l’explosion de la charge de poudre dans un canon è l’endroit où les gaz -atteignent leur maximum de tension, et conséquemment il faut ienir compte aussi du travail des gaz épuisé dans la compression et à la flexion du dedans au dehors de ces parois cylindriques, c’est-à-dire qu'il faut évaluer les trois quantités de mouvement épuisées par ces trois manières de résister et égaler leur somme ‘è celle acquise par le projectile au point du (1) Le mécanisme de fermeture ne laissa échapper du gaz ni après ces 30 premiers coups, ni après tous les autres, quoique l’anneau de cuìvre, comprimé par les gaz enflammeés contre le coin obturateur et contre la paroi cylindrigue de son encastrement, n’ail pas élé empéché dans le tir de suivre le léger mouvement de recul de l’oblurateur méme, ce qui en facilitait l’extraction pour ètre repoussé à sa place après le rechargement; opération qui s’effectuail toujours promplement et sans difficulté. Les difficultés surgirent par la suite Jorsqu'on eut cherché de fixer cet anneau de Cuivre dans son encastrement qu’alors on fit à queue d’hirondelle. PAR JEAN CAVALLI. 469 maximum de tension des gaz, proporlion gardée aux surfaces respectives choguges. Cette forme cylindrique de la culasse des canons est devenue de rigueur depuis le chargement allongé, surtout dans les canons rayés. Cette partie cylindrique a au moins la longueur du fond de l’àme au centre du boulet sphérique ou au fond du projectile cylindrique à la place qu’ils occupent à l’instant du maximum de tension des gaz de la charge de poudre embrasée. D’après les paragraphes 41 et 42 on a distingue deux cas singuliers, l’un où les épaisscurs des parois cylin- driques seraient tout juste suffisantes pcur qu’'à Ia surface extérieure le mouvement d’agrandissement y arrivàt à peine: quand l’extension è la surface intérieure est parvenue à la limite de stabilité ou de rupture, limite entre laquelle l’altération et la rupture commenceraient de l’in- térieur. Dans l’autre cas on a retenu que toute l’épaisseur de la paroi cylindrique, tant au dedans qu’au dehors arriverait dans le mème temps à la limite de stabilité on de rupture; de sorte que dans ce deuxième cas il y a lieu de calculer comme au $ 40 la quantité de mouvement absorbée par l’extension circulaire de toute l’épaisseur de la paroi cylin- drique, comme si elle était un cylindre ayant pour hauteur la circon- férence prise à la moitié de son épaisseur; tandis que dans le premier cas l’extension étant dgcroissante réguliérement de l’intérieur à l’extérieur où elle est nulle, l’effet de cette extension variable devient égal à celui que produirait une extension moyenne constante. Ainsi dans ce deuxième cas l’expression de la quantité de mouvement épuisée par l’extension de la paroi d’un cylindre creux dans le sens de la circonférence recevant une impulsion de l’interieur , se réduira à la moiué de celle donnée au Sur Pour calculer la quantité de mouvement épuisée par la résistance vive à la compression intérieure du cylindre creux, on peut le supposer, comme ici devant, partagé en éiéments égaux par des plans passant par son axe, et pour chacun comme pour leur somme on aura l’équation différentielle de ce mouvemeni de compression leeneydo = pax où y est la vitesse d'impulsion variable avec le raccourcissement x, M est la masse comprimée, et /° est la résistance opposége ici variable avec la compression x donnée par les formules suivantes précédemment déduites BS { # cylindre creux par des plans passant par l’axe; et I Ù soit EX=x la droite des abscisses passant par les Sg: 5 fibres invariables, et qui partagent cette base en deux parties ayant chacune leur centre de gravité aux distances de cette droite 2, pour celle de dessus, et 2, pour l’autre. En deésignant leur surface respective avec S, et .S,,, et que toutes les autres désignations soient celle du n° 22 du Mémoire 1863 où l'on a posé l’équation des moments Pz,S=Qz,Sy ? qui subsiste également pour la somme de tous les éléments du eylindre; en désignant en outre par a et 2 les cotés de la coupe transversale d'un élément, on aura pour l’expression des moments d’un des éléments tl -S=gN(20+2) i Z s,=3(B-r-N) (+2) ) où l'on peut substituer les valeurs suivantes de PAR JEAN CAVALLI. 473 a=27, bI=PraRee x=27(F+N), d= et on arrive à une fonction de N de laquelle il est facile de tirer Ma N les valeurs numériques de — n N° N ONT di CINI n i T Le moment d'inertie 7 se déduit de l’équation RI=P| 23fdy,+ Qt dy, 7 s=e—(e_a)t, a =+(6-a) 257, h=R-—r ; en substituant et intégrant entre les limites respectives de y,=N i F=0, i de gela yy = On a 1=(5-57)v+]F+i(1-a) en éliminant x et en observant qu'on peut, de méme qu’on l’a fait ci-devant, substituer 4, 3 et 4 par les valeurs susdites, enfin on a 3 R 3 Sei (1-n) ; / ri 6 r r PETOT: Ces formules seraient suffisantes pour établir aussi l’équation des quantités de mouvement, dans ce deuxièéme cas, dans l’hypotèse d’un | agrandissement extérieur du canon; mais on s’arréte ici, ce cas’ n’étant pas intéressant pour la pratique d’artillerie. : Il n'est de mème pas nécessaire de tenir compte pour le premier cas de cette quantité de mouvement insignifiante due à la flexion longi- tudinale intérieure du cylindre, puisqu'elle ne peut presque pas subsister lorsqu'il n°y a pas d’agrandissement extérieur, et puisque l’agrandissement intérieur doit toujours ètre très-limité s'il n’est pas toujours insensible, de sorte qu’alors on peut plutòt considérer l’intérieur agrandi d’une manière égale partout. S 46. Maintenant, comme ce n'est plus le cas de tenir compte de Serie II. Tom. XXIV. 35M 474 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. cette quantité de mouvement due à la flexion, il ne reste que les deux seules quantités de mouvement épuisées par l’extension et la compression intérieures des parois cylindriques; et il ne faudra plus ajouter ici que la moitié de celle déjà trouvée au $ 42, nécessaire à l’extension de ces mèmes parois dans le sens circulaire , puisque effectivement le raccourcissement doit ètre pris sur la circonférence, axe qui se trouve à la moitié de l’épaisseur des parois, et conséquemment y est réduite à la moitié: ainsi l’on aura cette autre équation tout-à-fait rationnelle dans les conditions du premier cas, entre les quantités de mouvement que peuvent supporter les parois cylindriques du canon à l’emplacement de la charge à l’extension et à la compression, avec la quantité de mouvement que recoit le projectile, en raison des projections des sur- faces respectives choquées par l’explosion d'une charge de poudre telle à pousser la resistance vive du canon mème è la limite de stabilité ou de rupture où, après avoir substitué à p sa valeur du $ 42, on déduit l’expres- sion suivante explicite de la vitesse 9, que peut recevoir le projectile en fonction des coefficienis mécaniques du métal du canon, expression : ; x digg: qui les lie en une seule fonction, et en démontre les combinaisons les plus utiles pour faire le choix du meilleur métal à canon, d’après leurs coefficients mécaniques c , o 3 reD r R° V R° Ole Vi ——_ ne 2 ii VT PID: FP ; To log e où leurs expressions en fonction des données et résultats à obtenir des = ba . épreuves mécaniques des barreaux d’essai sont LE, LINO ‘ DOS Fxg . pale Eee Tann vata Aa; ui DIA ) bi TODE =}, ec a sani 4 Vai WAR 2 PAR JEAN CAVALLI. 479 Il suffit done de deéduire par l’essai des barreaux prismatiques la valeur de trois coefficients mécaniques V, YV, et Q; YV par Vessai è la flexion d'un prisme arrèté d'un bout ayant flèches de l’autre de la quantité x sous la charge / ayant la longueur Z, l'épaisseur /, et la largeur 6; et Q et YV, par l’essai d’un autre prisme plus petit recoupé du premier soumis à la compression, s'étant raccourci de x, sous la charge /, , ayant la longueur Z,, et l’équarrissage 2,%, (Voir pour plus ample explication le Mémoire de 1863, pag. 16 et 23). Soit par exemple à calculer la résistance vive normale à l’axe des canons en fonte de fer tirant à la charge du tiers du poids des boulets sphériques (ceux-ci coulés en bonne fonte et puis bien frappés), de sorte que l’on pourra retenir "r D=r,D, comme aux $$ 42 et 43, où È È È 9 R l'on a trouvé pour le rapport 395 5 73,212 7 Puisqu'on a vu qu'on pourrait avoir pour une poudre inoffensive ,,= 61 métres par seconde, tandis que des expériences, $ 25, il est résulté vy,= 116,5 métres pour la poudre fabriquée aux pilons, et v,= 189 métres pour les nouvelles poudres belges de 1850; il y a lieu de comparer ces vitesses dues à ces trois qualités de poudre, avec celle 9, de la précédente formule que le canon en bonne fonte de fer peut supporter, en prenant les valeurs de .V et V, respectivement aux deux limites élastiques de stabilité ou de rupture environ égales en moyenne entre celles des tableaux A et B du Mémoire de 1863, c’est-à-dire à l’extension et-à la compression on aura pour la limite de stabilité avec V= 9 métres et V,=27 métres, o,= 96”,6; la limite de ruptare avec V=18 métres et V,=80 mètres, v,= 288", 0 . Si au lieu de supposer la vitesse d’impulsion à la compression triple de celle à l’extension, comme dans l’exemple susdit pour la limite de stabilité, on ne la retient que deux fois autant, alors leurs valeurs correspondantes à la vitesse normale du boulet v,=116",5 seraient respectivement V=12",93 et V.=25",96. Avec ces coefficients mécaniques on voit que la vitesse du boulet 96”,6, à la limite élastique de, stabilité que peut soutenir le canon, excède de 35 métres (plus de la moitié) celle de 61” due à la poudre susdite inoffensive, et sa durée pourrait donc ètre infinie : tandis qu’avec les deux autres poudres, celle aux pilons et celle dite brisante de 476 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Belgique, cette vitesse 9, imprimée par ces poudres aux projectiles surpasse celle que peut soutenir le canon, de 20 mèétres pour la poudre aux pilons, et de 93 mètres pour ladite poudre brisante. Ainsi done avec la poudre aux pilons les canons d’une bonne fonte auraient encore une longue durée, puisque cette limite de stabilité peut bien ètre dépassée de '/; de plus par les forces vives de très-courte durée; tandis que ceux d'une meilleure fonte pourraient aussi avoir une durée indéfinie. Mais avec la poudre brisante cette limite allant au double environ de celle que peut supporter la pièce, on voit la cause pour laquelle les canons éclataient en Belgique après un nombre plus ou moins restreint de coups; quoique pour pousser ces canons à la limite de rupture au premier coup il eîìt été nécessaire d’imprimer aux projectiles une vitesse de 288 mètres, où 1,20 fois celle de ladite poudre brisante, et après gpuisement de la ductilité du métal. - L'application de ces résultats ne pourrait se faire pour des canons d'un calibre de beaucoup supérieur à celui de 12 centimètres, sans avoir égard è l’accroissement possible de ladite vitesse e,=116",5 de la poudre aux pilons, à cause qu’avec l’accroissement du calibre croissent aussi les tensions des gaz, quoiqu’on fasse usage de la mème poudre. Car, avec la grandeur du calibre décroît la surface proportionnelle absorbant le calorique, celle de l’àme derrière le projectile contenant les gaz è l’instant de leur maximum de tension, et conséquemment cette tension croît; et elle croît aussi une autre fois avec le calibre en raison de la longueur du projectile , puisque le temps nécessaire à vainere l’inertie de ce projectile est proportionnel à sa longueur et indépendant de l’intensité de l’impulsion recue. Ainsi, par exemple, pour le calibre 15 du canon de 24 il se pourrait que la tension maximum s'accrùt de — 12 È 3 a (2) , Cest-à-dire que la vitesse du projectile à l’instant du maxi- mum de tension des gaz serait de 1,12 à 1,25 fois celles trouvées pour le canon de 12 (Voir la note du $ 19). L’expérience qui a été faite sur le calibre de 12, devrait ètre refaite au moins sur le calibre de 24 et de 48, pour en déduire la loi de ces accroissements avec la méme poudre , et surtout pour trouver des poudres décroissantes de vivacité avec l’accroissement du calibre, afin de reconnaître combien sont les diverses poudres à canon qu'il pourrait PAR JEAN CAVALLI. 477 convenir d’adopter, et quelles devraient ètre leurs qualités pour que les vitesses au point du maximum de tension des gaz restassent mème au- dessous de celles trouvées pour la poudre aux pilons dans le canon de 12. En tout cas il serait réellement nécessaire de n’avoir que deux diverses poudres à canon, comme l'’artillerie de quelques États l’ont déjà pratique. En y réfléchissant bien, comme on a déjà dit ailleurs, en definitive il convient d’avoir avec les deux qualités de poudre deux espèces d’artillerie par rapport au calibre, l’une, la plus nombreuse, des plus petits calibres, et l’autre, la moins nombreuse, pour tirer les plus grands projectiles. i —S 47. Jusquici on a cherché à régler les épaisseurs indépendamment de l’effort du tir suivant l’axe de la bouche à feu. On croit géné- ralement que la résistance dans ce sens est plus grande, quoiqu'il arrive plusieurs fois que les culasses se détachent sans que le tronc du canon crève. Aujourd'hui il est bien connu que la cause de cet accident est propre des canons de fonte dure à fond plat, où langle faisant défaut de continuité des parois cylindriques avec celles du fond, elles tendent à se fendre justement dans l’arrèt à chaque vibration causée par le tir. Une autre cause qui n'est pas moins puissante à produire. la fente circulaire au fond de l’àme est due aux crics qui naissent des corrosions opérées par l’échappement des gaz par la lumière sur l’arrét de l’orifice intérieur de la lumière méme. | Il a été facile de corriger le défaut du fond plat en l’arrondissant suffisamment et ordinairement par la forme hémisphérique, ce qui a suffi pour retarder l’éclat des culasses des canons de fonte; mais il est au moins tout aussi nécessaire d’écarter l’autre cause, les crics étant plus dangereux qu'on ne le croit généralement. Les erics sont tellement dangereux à l’orifice intérieur de la lumière, que par les tirs successifs ils se prolongent dans l’épaisseur du métal suivant ordinairement les directions normales et longitudinales è l’axe du canon. Des dangers non moins grands sont aussi présentés par les crics ou fentes, qui se pro- duisent au-dessous de l’emplacement du boulet, en conséquence des corrosions produites par l’échappement des gaz croissant rapidement avec l’agrandissement du vent. Il est pouriant aussi facile d’éter les crics de la lumière par la pose d’un grain de cuivre sans vis, avec téte en dedans; de sorte que ne pouvant étre chassé par l’effort des gaz, ils sont si bien refoulés, qu’'un rétrécissement de la lumière se produit au lieu 478 MÉMOTRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. d’un élargissement; ce qui donne lieu à une compensation au moins en partie avec sa propre corrosion, et en prolonge la durée. Les crics au-dessus ‘de l’emplacement du boulet sont aussi faciles è òter, en réduisant d’abord le vent de 5 à 2,5 millimétres au plus, et surtout en le supprimant par un rétrécissement de l’àme derrière la place du boulet, et un raccordement d’abord en talus et puis sphérique. Ces causes de rupture de la culasse étant écartées, on admet géné- ralement que la résistance longitudinale du canon est très-supérieure à celle transversale, quoique les ruptures -transversales en culasse près des tourillons arrivent assez souvent. Pourtant il est bien de s’en assurer par le calcul, surtout lorsqu’on veut affaiblir les épaisseurs des parois cylindriques des canons en fonte, pour les renforcer après par des frettes en acier: au S$ 48 suivant on examine les deux cas de la rupture transversale ensuite de l’effort lon- gitudinal des tirs, qui auraient lieu ou à la jonction du fond de l’ame avec la partie cylindrique, ou près des tourillons; car il n'est pas néces- saire de calculer le cas où la rupture transversale aurait aussi lieu à la suite de celle longitudinale à l’endroit de la charge, ou un peu plus en avant; puisque l’agrandissement extérieur ne peut arriver qu’après que la rupture à l’intérieur est commencée, cas qu'il n'est pas non plus nécessaire de soumettre alors è un calcul inextricable. D’abord il faut observer que le tronc du canon postérieur aux tou- rillons est ébranlé plus que le reste de la masse du canon et de son affàt avant que le recul commence. Dans le sens longitudinal le canon est allongé du fond de l’àme vers les tourillons d’un allongement croise sant pendant tout le parcours du projectile dans l’àme; mais jusqu'à l’instant du maximum de tension des gaz de la charge de poudre em- brasge, la partie du canon du fond de l’àme:au projectile supporte aussi dans le sens longitudinal un effort capable de détacher la culasse, l’écla- tement ayant lieu alors comme dans une bombe. Dans cette partie du canon l’allongement intérieur comme la compression peuvent arriver aux limites maximum de stabilité ou de rupture: tandis que ces mouvements d’allongement et de compression sont à peine parvenus à la surface extérieure, comme pour le cas où l'on a déjà déduit les formules de sa résistance vive normale à l’axe; et à présent il reste encore à déduire l'expression de sa resistance vive longitudinale dans les deux hypothèses que rupture puisse avoir lieu au fond de l’àme, ou près des tourillons. PAR JEAN CAVALLI. 479 L’expansion violente des gaz produira sur la paroi du fond de l’àame, comme sur les parois cylindriques dans le cas établi, les mémes deux effets d’extension et de compression; conséquemment, si le fond de l’àme est plat comme la base d'un cylindre droit avec les aréles vives à sa conjonction, avec la paroi cylindrique, il est évident qu’avant mème que la compression et l’extension de ces parois soient parvenues à la limite de stabilité ou de rupture, ces limites seraient surpassées à cet arrét, et l’altération ou la rupture y commencerait d’abord pour se propager ensuite rapidement. L’expérience a donc dù apprendre à accorder cette conjonction par des surfaces courbes, entre lesquelles la meilleure est celle dont l’angle de deux éléments consécutifs est constamment le plus grand possible; condition à laquelle satisfait la seule forme du fond de l’îme hémisphérique, de méme diaméètre que la partie cylindrique; forme conséquemment, soit intérieurement soit extérieurement, la plus avantageuse à la résistance vive du canon. Ainsi on s’en tiendra pour le calcul aux canons terminés à la culasse par un hémisphère creux, ayant la méme épaisseur des parois cylindriques auxquelles elle se rejoint. S 48. Avec le fond de l’ame et la culasse hémisphérique les résultats deduits aux $$ 41 et 42 pour la partie cylindrique y sont également applicables: et les quantités de mouvement, épuisées par la résistance longitudinale du canon à la compression et à l’extension, s'égaleront à la quantité de mouvement acquise au projectile au méme instant du maximum de tension des gaz, multiplié par le rapport des projections normales des surfaces choquées par les gaz enflammés. Dans l’hypothèse établie pour le premier cas, le seul qu'il importe de traiter ici, aucun mouvement d’agrandissement n’ayant lieu à la paroi extérieure du canon ensuite de la déflagration intérieure de la charge de poudre, dans cette hypothése la résistance du canon se trouve dans la méme condition que la resistance vive d'une bombe, comme on l’a déjà dit, jusqu'à l’instant du maximum des tensions des gaz. Pour avoir la quantité de mouvement épuisable par la compression de la culasse hémisphérique, on le suppose partagé en une infinité d’élé- ments tronqués pyramidaux aboutissant au centre commun de la sphéère, et désignant par a et A les surfaces de la petite et de la grande base respectivement aux distances 7 et du centre, on aura pour l’expression du volume élémentaire i 480 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. = ( AR—a r) En observant que ces deux bases sont proportionnelles aux carrés des rayons susdits, et que la vitesse d’'impulsion qu’'un tel solide peut soutenir a la méme expression que celle trouvée au n° 31 du Mémoire 1863, on a pour l’expression de la quantité de mouvement élémentaire imprimée sur la base a choquée par les gaz enflammés ar R} al. RIN 3 (3: TResSinpesp Or, en décomposant ces forces élémentaires, chacune en deux com- posantes, lune parallèle et l’autre normale à l’axe du canon, et sachant que la somme de ces composantes parallèles est égale à la somme de ces - mèmes forces rapportées de l’hémisphère fond de l’àme sur la surface du grand cercle, pour avoir cette somme il suffira de ‘substituer dans l’expression précédente 77° à la surface élémentaire @, et on aura ainsi l’expression de la composante totale, suivant l’axe, de la quantité de mouvement épuisable par la compression du fond de l’àme. De mème, si l’on voulait la somme des composantes normales à l’axe et à la surface cylindrique, prolongement d’une longueur égale au rayon de celle de l’àme, on n'aurait quà substituer la surface 27r.7 au lieu de «a, d’où l'on voit que cette somme serait. 7 fois moins 2 grande que la précédente. Maintenant, avant de procéder au calcul de la quantité de mouvement épuisée par la résistance longitudinale du canon à l’allongement, il faut observer que dans l’hypothèse établie cet allongement ne peut avoir lieu que dans la surface intérieure, et que quand la tension des gaz est parvenue au maximum, tout finit à la sur- face extérieure, tout mouvement n’y parvient pas; condition qui, comme on l’a déjà dit ci-devant, réduit ce cas du canon è celui de la bombe pendant au moins l’ascension des gaz à leur maximum de tension. Ainsi il suffira de ne calculer que l’allongement de l’hémisphère de la culasse, et à cet effet supposons-le partagé en éléments par des plans passant par l’axe du canon, le plan normal à cet axe passant par le centre de lhémisphère comprendra la base de ces éléments commune aux éléments semblables du corps cylindrique du canon supposé partagé par les mèémes plans. Désignons par a, le còté intérieur de cette base trapézoide, 47, PAR JEAN CAVALLI. 431 sera l’expression du coté extérieur; en désignant avec 4, sa surface, on aura pour son expression Ad, 4=i (Rn). DIR Or supposons encore cet élément demi-fuseau d’une sphère engendré par une base 4 de surface variable contenue dans un plan passant toujours par le centre commun, et faisant l’angle « avec la base 4,, on aura pour son expression générale VA (r°_r )f cos a - ar La distance z du centre de gravité de ces bases est constante , puisque le rapport de leurs còtes parallèles est constamment égal au 2% rapport des rayons. En effet a et 6 étant (fig. 2° 2.) ces deux bases, on a d’après la proportion I ( I I a 5(c+5): 3(8-r) sge3(hr) i ) Fig. NESTA Renato nn non nccena I a -=r+3(8-r)-3(R r) 5, lé di DIA ve ES 7: =>“ et en observant que le rapport a? déduit FÉ 2R+Rr+r° R-z _1R+2r 3 RE ? pes 3 RETT >» Pd II ld Li . L’arc servant d’axe de l’élément préecité étant 375 la partie de cet arc correspondante à l’angle « sera «z, tant pour cet élément que pour leur somme, pour laquelle alors dans l’expression de 4 il faudra rem- placer la longueur «@, par 27r, de sorte qu'on aura pour l’expression differentielle de Yallongement x de cet axe des éléments, comme du total e zda VE DA gi = FRS TO [as EAE=F] c(sin=sina)+ Ti VÀ . , comme cet arc est — Poli on voit que la constante est nulle, étant 2 x=0 lorsqu'on a «=0, et on tire les expressions Serie II. Tom. XXIV. i ; PI MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. E z0. i Prnz = — —— =} 4 E 2 + wo puisque pour «=9g0°% onlana&=x;j-et: R=F.=Pa(k°_r); en désignant avec Vla vitesse d’impulsion que peut soutenir chaque 5 p q tri élément susdit, la méme que pour leur somme, étant n a gM=z-—n(R'-r°)cose , I it IONI 290 z@ en substituant ces valeurs de gM et / dans l’équation différentielle , $ 30 du Memoire de l’année 1863, on a enfin 360°gE ——!_ x an Dz° 7 va Vt où giant v=0 lorsque ax= 14 » 2 » » 9» » Total des tirs... » 16. Total de la fonte tirée 480 kilogr., et de la poudre brùlee 77 kilogr. Pièces de fonte espagnole: Tir de la réception anglaise n° 2 avec 2 boulets et la charge de 21 livres de poudre ande \LEprenvertisete 220 OTO » » Sp. » >; C’Epreuves....e--. DEE di 9 » » St » Ra TOULLA CONS tino » 9 de 3 à ii au7en moyenne boulets » 9» » » » nettare 06 de 0 Ra. tautito. » » 19,5 » » —_ Marte NO MSA: Total de la fonte tirée 25800 kilogr.; et de la poudre brùlée 3700 kilogr. Total des lirs .....e PAR JEAN CAVALLI. 497 Résultats d'essais @ la limite de rupture en kilogrammes par millimètre carré. RESISTANCE RAPPORT —__—_ = le l'écrase- i ment Observations FONDERIE de disques pris dans des |j jj Russie 19,93 Des prismes recoupés des | canons. 23,16 fi Belgique ........ . | Lié DIVI Idem | Des canons de 32 (Voir |f Revue maritime et co- || loniale, pag. 324, ann. |l 1856). { Angleterre 27,95 9,27 Des prismes recoupés des |j disques pris dans les 3,20 canons. et canons russes o 2,80 Miscèle A 2,80 de fonte argentine et canons russes . - 27 2,50 | 2,65 de fonte belge | | ji Val Camonica (Lombardie) Parmi les résultats d’essais de ténacité faits à l'Arsenal de Vienne en 1859 par M. Ucmarivs sur divers métaux exprimés en kilogrammes par millimètre carré, on rapporte les suivants: Acieriide] OttogGrubitza|Monttremperr Ri 8I d'un canon coulé BICIIPe REL EOE ; 134 Fontexde)fer afcanons'ardimane). sO 14 Fonte de fer à canon, la meilleure............ 29 Bronze-è canon Los Bre Ro toni 20 Herttoroetde SHARE eri SE SETE I Ncierde SEyrtet poUBtrESSOLES AS Net . 66,6 Id. Krupp d'un canon de fusil.......... doc oe gl Td. Strippitdinnesbanche:di fep io dc 89 td! + Hatsmin:3 tt 04 ii ener A) 126699) Id:sbanglaistpourtiFessors'olio. 8A Id. prussien pour ressoris............ lara Serie II. Tom. XXIV. 5p 498 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. On voit ici encore que la ténacité des fontes à canons est double de celle d’autrefois en fonte ordinaire, maintenant qu’on les fait de la meilleure fonte; ténacité comparable à celles de nos fontes, autant qu’aux fontes américaines; et supérieure aussi à la ténacité du bronze à canon, trouvée ici de 25 kilogr., un peu plus de 23 kilogr. généralement admis. S 56. Monce proposa dans son temps comme limite inférieure la charge de 1598 livres pour l’essai des barreaux à la flexion, fait de la ma- niére dont l’avait introduit à la fonderie de Ruelle en France M. GAZERAN, qui rapporte que la meilleure fonte d’alors avait soutenu la charge de 2021 livres. En 1817, d'après la méme épreuve, à la fonderie de Liége, on est arrivé jusqu'à la charge de 2419. Ainsi ces ténacités transversales de 1598, 2025 et 2410 déduites à la flexion, traduites en kilogrammes par millimetre superficiel d’après les données consignées dans le Traité du celebre Moxce,; resultent de 17%, 36 et 23%, 44 et 28%, 15: lesquelles comparées aux ténacités americaines susdites, transversales. de mème entendement, montrent le progrès continuel que la meétallurgie de la fonte de fer à canona fait, cette dernière ténacité transversale pouvant correspondre à 18% de iénacité longitudinale. Mais hàtons-nous de rappeler que la seule iénacité ne peut pas ètre prise pour mesure, ni mème pour comparaison de la capacité de travail des fontes; cette ténacité pour une pièce de 8 longue qui a seulement soutenu 54 coups. dans l’épreuve, était de 28 kilogr.; tandis qu'après avoir augmenté la proportion des fontes grises en reduisant celle des fontes nerveuses belges plus dures, la piece de 8 en soutint 56 coups, quoique la ténacité de cette pièce ne fùt que de 21 kilogrammes. On trouve la ténacité du bronze à canon de 23 à 25 kilogr., téna- cité très-inférieure à celle des meilleures fontes américaines et des nòtres; tandis que les canons en bronze sont encore les plus résistants è la rupture; mais l’anomalie disparaît lorsqu’on ne se trompe pas en faisant ces mesures. La ténacité du bronze par millimètre carré de la table A- du Meémoire 1863 a été déduite de l’essai à la flexion d’après la résistance à la compression trouvée de 17 kilogr. Cette ténacité de 42 kilogr. paratt exagerée en comparaison de celle de 23 kilogr. déduite des essais è la traction directe. Cette méthode plus directe d’expérimentation, si elle PAR JEAN CAVALLI. 499 est impropre pour l’essai des métaux durs comme la fonte, sujets è étre cassés successivement à cause de leur peu de ductilité, devient par contre moins impropre que l’autre justement pour les métaux très- ductiles comme le bronze, puisque les prismes peuvent fléchir considé- rablement, et se redresser avant que la rupture commence de còté et puisse en fausser les résultats. Tandis que dans l’essai de la flexion de ces métaux mous on ne peut saisir aussi facilement la limite de rupture, à cause que les barreaux fléchissent beaucoup mèéme sans se casser, et puisque, dès que la limite de stabilité est dépassée, la rupture s'ensuit toujours quelle que soit la charge, mais plus ou moins vite selon le degré de ductilité du metal. Ainsi dans le calcul de la résistance vive des canons de bronze, quand la rupture n’arrive pas promptement, il faut prendre la plus grande de ces ténacités. Malgré cela, si pour les canons en fonie de fer on peut s’en tenir dans le calcul de leur resistance vive à la limite de stabilité, pour ceux en bronze il faut se résigner à la limite de rupture. En effet, conformémeni à l’expérience, c'est avec cette plus forte ténacité que le calcul donne seulement aux canons en bronze une résistance vive à la rupture, supérieure à celle des canons en fonte de fer: tandis que le contraire a lieu à la limite de stabilité ; ce qui est aussi conforme à l’expérience qu’on a de la plus longue durée en bon état de l’àme des canons en fonte de fer; tandis que peu de tirs suffisent à causer, avec l’altération de l’àme, la perte de justesse du tir des canons en bronze. $ 37. Parmi les conditions de réception, quant à la résistance des bouches à feu, celles des épreuves mécaniques ont évidemment sur les épreuves du tir le grand avantage de pouvoir étre exécutées sur le métal méme de chaque bouche à feu sans l’endommager; c’est-à-dire sur des barreaux coupés près de la tranche de la bouche, où l’expérience ( Voir la préface) a démontré pour les pièces coulées que le méial de cet endroit a une résistance moyenne et comparable è celle du métal autour de l’emplacement de la charge. De tout temps on a fait des épreuves mécaniques, mais ces épreuves ne pouvaient ètre régulièrement adoptées; puisqu’on ne savait ni pratiquement ni théoriquement en rapporter les résultats d’une manière rationnelle à l’effet des gaz de la charge de poudre embrasée dans les canons. Déjà un écrivain distingug, M. Mayer, disait de son temps que la ténacité seule ne peut servir à mesurer l’effort de l’explosion de la poudre, d00 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. et l'expérience confirma depuis son assertion, puisqu’on a di recon- naitre que les bouches à feu du métal le plus tenace n’avaient pas le plus de durde aux épreuves du tir en usage (Voir la préface). Maintenant que la théorie nous a rigoureusement désigné les condi- tions è rechercher dans les coefficients mécaniques, qu'on sait aujourd’hui déduire de ces épreuves mécaniques , elles ont conséquemment acquis une assurance sans comparaison avec toute autre condition cu épreuve reconnues plus ou moins fautives. D’après cette théorie qu'on vient d'exposer au chapiire précédent, et dont on a démontré l’accord avec la pratique, on a vu d’abord au $ 42 que la plus grande épaisseur de metal du canon bien utilisée ne dépendait que de la plus grande valeur du rapport de l’allongement au raccourcissement longitudinal d’un prisme de metal du canon méme : car on a vu ce reésultat découler de la condition que l’effort de la charge embrasége soit épuisé, parvenu à la surface extérieure du canon, lorsqu'à la surface intérieure de l’àme la résistance du métal est par- venue à la limite de stabilité ou de rupture. On a vu en outre au $ 46, que pour obtenir la plus grande résistance vive du canon, il faut que les vitesses d’impulsion longitudinales du méme prisme de metal du canon, tant à l'extension qu'è la compression, soient les plus grandes possible. Donc les épreuves meécaniques du prisme de metal du canon doivent étre dirigées à obtenir toutes les données nécessaires pour constater quel est le rapport de l’allongement au raccourcissement, et quelles sont les vitesses d’impulsion qu'il peut supporter tant à l’extension quà la compression. Il faut établir des limites inférieures dudit rapport et desdites vitesses, telles à fixer la limite de résistance du canon représentée par la limite inférieure de la vitesse que peut acquérir le projectile àè l’instant de la plus grande tension des gaz de la charge du tiers du poids du 5 boulet en poudre des pilons embrasée dans le canon; vitesses qu'on a vu étre de 189 ou 116,5 ou Gr métres par seconde, respectivement pour les poudres offensives des pilons et inoffensives. Car on a vu que la vitesse de 116%,5, qui répond à peu près à la limite de stabilité de la fonte de fer, ayant de bons coefficients mécaniques, répond aussi au plus grand effet balistique qu'on puisse désirer en pratique: elle pouvait donc étre prise pour la limite de vitesse précitée par égard à la . PAR JEAN CAVALLI. Sor resistance vive du canon, lors méme qu'on parviendrait à avoir une poudre inoffensive. Cette vitesse du boulet de 116", 5, bien qu'elle soit correspondante / 3 au rapport ?/; de l’allongement au raccourcissement du métal du canon en bonne fonte de fer, et aux vitesses d’impulsion de 10", 734 è l’ex- tension, et de 3.10,734=32”,202 à la compression, pourra cor- respondre aussi à d’autres combinaisons de ces coefficients mécaniques qui pourront varier et donner ainsi lieu à ces autres combinaisons éga- lement propres à la resistance des canons de métaux divers; pouvant tous soutenir les effets de cette mème quantité de mouvement du pro- jectile; mais pour la recherche de ces autres combinaisons,. ou de la meilleure entre elles, il reste à faire bien des essais. Cependant il ressort de la théorie ce que l’expérience avait déjà enseigné, qu'il faut choisir des fontes pour canon donnant au moins le ‘rapport */; susdit, puisqu'il répond à l’épaisseur utile de 1, 106 calibres, épaisseur qui a été trouvée la plus convenable par la plus longue pratique. Si ce rapport de */; est loin de ceux des résultats consignés aux tableaux de mon Mémoire de 1863, c'est parce qu'il semble qu'on a pris les résistances à la com- pression trop fortes pour la limite de stabilité. Le Général Morin, dans ses Zecons de mécanique pratique sur la resistance des materiaux, au n. 90, parvient à la conclusion qu'il est, au meins pour la pratique, à peu près exact de regarder les résistances de la fonte à l’extension et à la compression comme égales entre elles. . . . pour les petites flexions qui ont lieu jusqu' la limite de la stabilite : alors étant le rapport ‘= 1 ona trouvé, $ 43, Pong 482, et Ve- < = paisseur en calibres correspondante serait de 1,741; et s'il fallait retenir aussi la vitesse Y=V,, sa valeur serait de 8", 27 au lieu de 10", 73. Mais en réalité il n'est guère probable que dans de nouveaux essais de barreaux des meilleures fontes, prises à la tranche de la bouche des canons, la valeur de ces rapports surpasse le rapport précité. Ce n'est que pour les métaux beaucoup plus ductiles que la fonte de fer, comme pour le fer forgé, que l’allongement total pourrait arriver jusqu'à deux fois le raccourcissement méme à la limite de stabilité ; 5 - ib È > rapport auquel répondrait la valeur de — = 11,67, ou l’épaisseur de r métal en calibre de 5,335; épaisseur qu'on ne pourrait donner aux 502 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. bouches à feu avec le poids de métal seulement nécessaire à- leur sta- bilité dans le tir; poids qui, comme la pratique l’enseigne, ne doit ètre en aucun cas dépassé. Mais quand méme on pourrait surmonter la dif- ficulté du poids pour avoir une bouche à feu en fer forgé d'une grande resistance vive, il ne semble pas possible d’obtenir cette grande résistance par l’oeuvre du forgeron sur les grosses pièces sans altération des bonnes qualités du fer employé et des coefficients mécaniques propres de ce fer, lorsqu'il était encore en petits échantillons; altération qu'il ne paraît pas possible d’eviter, malgré les grands efforts faits dans ce temps par la métallurgie. Lors mème qu'on parviendrait àè forger ces grandes masses de fer en leur conservant encore assez de bonne qualité, la théorie, d’accord avec l’expérience, démontre que ces canons seraient de méme promptement réduits hors de service à cause de leur agran- dissement intérieur; car le fer et tout autre métal qui s’allonge plus qu'il ne peut étre raccourci, est trop mou, et ne peut opposer à la grande vitesse d’impulsion du gaz de la charge de poudre embrasée que des vitesses d'impulsion trop faibles; de sorte que les parois de l’àme sont refoulges par la vivacité de la poudre ordinaire qui devient bri- sante par rapport à ses métaux. Les mèmes consequences ont lieu pour les canons en acier ductile, à un degré toujours plus près de celui du fer, au fur età mesure qu'on les fait d’un acier plus ductile, parce que cet acier perd alors d’autant plus des qualités de l’acier proprement dit, qu'il s'approche davantage du fer, que l'on nomme justement alors fer homogène, à cause que la fusion lui donna l’homogénéité que ne peut lui donner Yoeuvre du forgeron. Dans tous les cas l'on voit qu'on ne doit pas surpasser l'unité pour la valeur du rapport de l’allongement au raccourcissement, et qu'il faut tàcher de rejoindre */; pour ce rapport è la limite de stabilité pour la bonne fonte à canon, fonte en outre qui fournira les plus grandes valeurs pour ces vitesses d’impulsion, soit à l’allongement, soit au raccourcis- sement, afin d’obtenir la plus grande résistance vive des bouches à feu, tant dans le sens transversal, que longitudinal. On peut vouloir cette plus grande résistance vive pour tirer un canon le plus longtemps possible avec des charges qui ne produisent pas des efforts plus grands que ceux du tir au tiers du poids du boulet sphé- rique, qui est pratiquement suffisant lors méme qu'on aurait des canons d'une résistance indéfinie. Alors on a vu, que les limites des valeurs PAR JEAN CAVALLI. 503 des trois quantités précitées, pourront ètre celles de la limite de sta- bilité du metal méme pour la bonne fonte de fer, condition nécessaire à la durée des canons qui pourrait étre indéfinie. Lorsqu’on voudrait faire des tirs beaucoup plus forts, la limite de stabilité gtant alors dé- passée, on ne pourrait guère songer quà retarder l’éclatement; et on sera forcé alors de prendre les valeurs desdites quantités plus près de la limite de rupture de ce metal, que de la limite de stabilité; ce que l’on peut encore faire pour un nombre limité de tirs, à cause de la très-courte durée des efforis de la force vive de la poudre embrasée; et on devra alors préférer les métaux plus ductiles que durs, quoique moins tenaces. Ce ne sera qu'après avoir fait des essais assez nombreux et soignés des meilleures fontes à canon qu'on sache produire aujourd'hui, qu'on pourra arréter les limites de ces valeurs inféricures . des coeffi- cients mécaniques pour la réception des canons. Cependant la limite inférieure de la vitesse du boulet sphérique en fonction des coefficients mécaniques , ne saurait ètre réduite à moins de 3/; de celle normale 116, 5 mètres susdits, ou de 87", 4, qu'on obtient en se réduisant à la ténacité de 18 kilogrammes précitée comme limite des bons canons en fonte de fer: avec ladite ténacité les résistances à la limite de stabilité pourront' étre de 6% à l’extension et de 16% à la compression, le tiers de celles de la limite de rupture, et les 2/3delgli et 24" ceux correspondants à ladite vitesse normale; ei conséquemment les vitesses d’impulsion respectives à la méme limite. en seront les 3/, ou 10”,40 et 20",g91, valeurs toutes assez plausibles, qui n’excluent pas que bien d’autres combinaisons puissent ètre également satisfaisantes. $ 38. Les conditions ou les épreuves mécaniques sur les barreaux coupés de la masselotte du còté près de la bouche du canon, étant comme ci-devant gtablies ‘on aura la certitude d’avoir de bonnes bouches à feu, quant à la résistance du metal dans les conditions voulues, toutes les fois que les résultats de ces épreuves mécaniques résulteront dans les limites reconnues convenables. Quant à l'épreuve des tirs faite dans le but de mieux découvrir les petits défauts qu’on croirait ne pouvoir découvrir qu’après cette épreuve réduite à deux coups ordi- naires, on pourra aussi bien la conserver que la négliger (1). (1) Après l’introduction des canons rayés on a déjà dans plusieurs Élats supprimé celte épreuve du tir ordinaire. ; | i 504 MÉMOIRE SUR LES EÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. On pourrait étendre les épreuves. mécaniques sur des barreaux coupés d'une masselotte laissée aussi dans le jet du còté de la culasse du canon; mais alors cette masseloite devrait ètre assez grande relati- vement à la masse à laquelle elle est attachée, afin que le refroidis- sement puisse avoir lieu de la méme manière et dans le méme temps; conditions nécessaires pour avoir des qualités mécaniques pareilles è celles de la masse du métal du canon; mais il ne paraît pas nécessaire, d’après les essais faits dans plusieurs temps et lieux, d’étendre ces épreuves mécaniques outre celles qu’on a faites sur les barreaux coupés près de la bouche du canon, toutes les fois que la masselotte, comme il est du reste nécessaire, aura une hauteur et une masse abondante de beaucoup au-delà de celle qui est nécessaire pour remplir le vide di à la retraite. Pour mieux s’assurer de la bonne qualité de toute la masse coulée du canon, pour mieux découvrir les défauts superficiels et de po- rosité, on les soumettait à l’épreuve de l’eau è une pression assez élevée ; mais on était bien loin de s’approcher de 500 à 600 atmosphères, puisque alors cette épreuve, qui ne peut se faire de très-courte durée, compromettrait la solidité da canon. On devrait aussi prendre le poids specifique de toute la bouche è feu, en employant tous les soins néces- saires pour l’avoir exacte: et si sa densité moyenne résultait inférieure à la limite établie pour la récepuon, et inférieure è celle des barreaux coupes des masselottes près de la bouche , alors ce fait extraordinaire prouverait que la pièce a des défauts cachés, et on devrait la mettre au rebut. Toute éprèuve du tir à outrance, faite sur un canon pour chaque lot des pièces fournies, qu'on pratique depuis longtemps, et qu'on sait bien ne pouvoir assez garantir la résistance des autres bouches à feu du méme lot, qu'on a introduites, faute de ne savoir comment recon- naître, d'une autre manière, la véritable résistance vive de chaque bouche à feu sans l’endommager, devrait étre définitivement abandonnée comme tout-à-fait illusoire. L’épreuve du tir d’ordonnance continue sur quelque bouche à feu de nouveau modèle ou méme d’ancien modéle, mais que l’on veut soumettre è un nouveau tir ordinaire, commence à étre généralement pratiquée, et elle a déjà été introduite dans les nouveaux règlements de réception. Cette épreuve devient moins néces- salre maintenant qu'on sait faire le calcul de la resistance des canons d'une manière rationnelle, quelle que soit leur construction nouvelle ou leur maniere de tir, et quoiqu'elle diffère assez de toute autre bouche è feu déjà éprouvée par une assez longue expérience. PAR JEAN CAVALLI. 505 S 59. En reprenant ces dernières conclusions sur les épreuves ordi- naires d’une réception rationnelle des bouches à feu simplement coulées , elles seraient: 1° La prescription de couper des rondelles entre la masselotte et la bouche du canon, une au moins, de laquelle on couperait des barreaux de chaque còté du diaméètre de l’àme pour les essais mécaniques. 2° Que ces essais des barreaux prismatiques à base rectangulaire auront pour objet de déduire la valeur des coefficients mécaniques , d’abord le poids spécifique, et plus particulièrement l’allongement et le raccourcissement et les vitesses d’impulsion respectives élastiques et ductiles aux deux limites de stabilité et de rupture: essai qu’on ne pourrait obtenir avec assez de précision que par les moyens d'une machine qui trace les résultats sur une échelle assez agrandie. D’après les résultats de ces essais mécaniques on mettrait de suite au rebut les pièces coulées pour lesquelles on obtiendrait une vitesse du boulet in- férieure à celle prescrite ensuite des coefficients trop petits, soit pour les deux vitesses d’impulsion susdites, soit pour le rapport de l’allonge- ment au raccourcissement élastique à la limite de stabilite. 3° On mettra aussi de suite au rebut les pièces, dès qu'elles sont coulées, lesquelles, après leur aveir coupé la masselotte et percé l’àme ou l’avoir seulement égalisée pour celles coulées vides, résulteraient avoir une densité moyenne de toute la masse inférieure à celle de leurs barreaux d'essai; surtout si, à la suite de l’épreuve de l'eau, avaient lieu des suintements. 4° Aucune épreuve du tir ne serait plus nécessaire, quoiqu’on puisse sans inconvénients pratiquer l’épreuve de quelques tirs ordinaires qui ne soient pas plus forts que ceux de service. 5° La seule épreuve extraordinaire è outrance rationnelle qu'on puisse faire sur quelques pièces est celle du tir continu de service, pour reconnaitre surtout la durée en bon état (Voir à la fin le Proyet de règlement). es prescriptions sur le choix du minerai ou des fontes vieilles ou neuves, sur la conduite des fours, le moulage, la manière de couler, seront toujours utiles, quoique par les épreuves mécaniques de chaque pièce, elles deviennent moins importantes. Ainsi on pourrait réduire les conditions onéreuses pour l’État et pour les fournisseurs, lesquelles ne seraient plus indispensables pour assurer la bonne qualité de la fonte des Serie II. Tom. XXIV. i 506 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. bouches à feu, dès qu'on a appris à la reconnaître avec les essais mé- caniques. Telle serait l’épreuve de la pièce de 8 longue, cu de tout autre calibre pour la réception des fontes à employer au jet des bouches è feu, en substituant en tout cas aussi à cette épreuve l’épreuve méca- nique des barreaux coupés des jets préalables qu'on pourrait alors faire sur plusieurs cylindres d'essai coulés è peu de frais, assez grands pour ètre comparables aux jets des canons. Sur ces bases on trouve è la fin un projet de règlement des épreuves mécanigues à faire subir è la fonte de fer et de bronze de chaque jet de canon pour ne pas mettre en ouvrage ceux de rebut. CHAPITRE VIII. Digression sur les métaue à canon, sur les progrès métallurgiques de leur fabri- calion et sur le choix du métal préférable, en rapport d la qualité de la poudre et aux charges du plus grand effet, avec résumé des conclusions auaquelles on est parvenu. S 60. La fonte de fer et le bronze sont encore les meétaux géné- ralement employés à couler les canons, mème ceux rayés. A l’exemple de l’artillerie de terre francaise celles de plusieurs autres États ont fait leurs canons rayés, surtout de campagne, en bronze, moyennant un système de rayure approprié pour ménager le peu de résistance de ce métal à la percussion des gaz de la charge de poudre embrasge; rayure qui leur assure une durée passable lorsqu’on les emploie avec tous les soins nécessaires à leur conservation. Cependant le manque de dureté de ce métal se fit toujours de plus en plus sentir dans ces canons rayés, et à ce propos il est intéressant de rapporter ici le passage suivant du — Memoire de M. Scumaetzi, inséré dans le Journal des armes speciales, avril et mai 1860, où l'on dit au S 4g: « L’obstacle principal qui » s'oppose à la transformation totale des canons en bronze, c'est leur » peu de durce. Déjà après l’affaire de Valenza (Italie) on apprit par » des officiers d’artillerie francaise, que les canons rayés en bronze » s'échauffaient après un certain nombre de coups, et ne pouvaient plus » servir. Le métal perd considérablement par lì de sa ténacité, et de » son élasticité, surtout aux arétes saillantes des rayures, au point que » celles-ci se dégradent par le simple frottement des ailettes en zinc PAR JEAN CAVALLI. 507 » et des parois en fer du projectile. On dut entièrement abandonner » le tir à mitraille ». Quoique ces assertions soient contredites par d'autres officiers, ce qui suit est pourtant vrai: « Avant méme qu'on » eùt l’idée d’adopter d'une manière générale les canons rayés, on sentit » dejà le besoin d’un métal plus durable pour la fabrication des bouches » à feu. On reconnut que le canon en bronze ne répondait plus à ce » qu'on doit attendre d’une pièce » (1). Aussi les pièces de bronze rayées dans le système francais tirent moins juste que les canons en fonte de fer ou d’acier rayés, selon des systèémes où le projectile est maintenu mieux centré par des appuis plus résistants, d'une maniéère plus simple et solide. Les canons en bronze lisses se gàtent déjà promptement, et ceux rayés peuvent moins encore soutenir un tir prolongé et accéléré sans s'échauffer, s’agrandir et se gàter surtout à l’emplacement du projectile : au point que les ailettes, qui, par le système de la rayure, forcent contre les còtés directeurs et tendent à s’en échapper et à coincer quoique instantanément le projectile, causent assez souvent l’éclatement de la pièce. L’auteur de l’article susdit croit « devoir recommander au » fondeur de faire tous les efforts possibles pour arriver à une com- » position métallique répondant à des exigences touJours croissantes , » et de ne pas étre obligé d’avouer l’insuffisance de son art. » L’auteur conclut enfin « que les expériences connues jusqu'à ce jour » ne permettent guère d’espérer qu'on réussira à résoudre complétement » ce problème, et qu'il ne restera qu'à recourir à des moyens dont » l’insuffisance ne fera que mieux ressortir le besoin d’une nouvelle » matière à canon. « Au tommencement de 1858 on était déjà d’accord sur ce point » en France; on en a les preuves dans l’opinion de M. le Général » LamrtE, Président du Comité de l’Artillerie, et dans la décision de » l'Empereur Naroréon INI pour l’adoption des canons rayés. Si au « debut de la guerre d'Italie, l’armée francaise n’était pas en possession » de 200 canons d’acier fondu, commandés è la fabrique de M. Krupp, » c'est que des circonstances particulières y ont mis obstacle; ceci » explique aussi pourquoi on eut recours provisoirement à des canons » rayés en bronze. » {1) Gazette militaire universelle, 1853, n° 122. Appendice è la fabrication des canons. - 508 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Il n'est pas surprenant d'entendre encore des opinions diff&rentes sur les services et la conservation des canons en bronze rayés francais dans la mémorable campagne de 1859. Aujourd’hui les journaux nous - annoncent que la France aussi a repris les expériences sur les canons rayés d’acier. C'est un vieux fait que les canons en bronze s’usent trop vite: la preuve en est dans les recherches poursuivies depuis longtemps d'un autre métal è canon plus durable. On a cru que le bronze d'aluminium, d’après les avantages qu’on lui attribue, devait remplacer avantageusement le bronze d’étain, si son prix se rapprochait au moins de celui-ci, et si les défauts de dureté et de se chauffer promptement ne subsistaient plus. S 61. M. Scuwmartzi se montre très-partisan des canons en acier, fondu par le procédé de M. Krupp fabricant à Essen (Prusse Rhénane). Il dit au $ 50: « Les Journaux ont suffisamment fait connaître, pour » que nous ne songions point à y revenir ici, les expériences faites » en 1848 à Brunswick avec un canon de 12 livres; celles de 1849 » è Berlin, de 1856 à Munich, à Vincennes, à la Haye età Waalsdorp » (Pays-Bas); enfin celles poursuivies à Vincennes en 1857 avec des » pièces de differents calibres en acier fondu (non rayées ) provenant » de la fabrique Krupp. Il est du plus haut intérèt d’apprendre par ces » expériences quà Munich on tira avec un canon de 6 livres et avec » la charge ordinaire 2000 coups, soit à boulets froids, soit è boulets » rouges, soit avec des boîtes à balles: qu'è Vincennes un canon obusier » tira 3ovo coups, et que ces bouches è feu restèrent sans battements » et aussi intactes après ce tir qu@avant. Bien plus, la dernière pièce » supporta à Vincennes l’épreuve extraordinaire de 5 coups avec la » charge de 6 kilos et de 6 boulets, et la résistance fut telle que, » vérification faite avec l’étoile mobile, on ne remarqua pas la moindre » trace de dégradation dans l’ème. On regarda comme plus que satis- » faisante cette épreuve prodigieuse, à laquelle aucun autre métal n’aurait » résisié. L’acier fondu peut donc à juste titre ètre considéré comme » le plus tenace des métaux, et promet aux canons fabriqués avec ce » metal une durée trois ou quatre fois plus grande que celle des canons » en bronze. La supgriorité incontestable de l’acier fondu, jointe è la » nécessité d’avoir des canons rayés, fit renoncer completement aux » canons en bronze.» Voir Appendice au Mémoire de M. ScHmaELZI , page 490. « Par contre la fabrique Krupp a recu du gouvernement PAR JEAN CAVALLI. deg » prussien la commande de la plus grande partie de ses canons (de » campagne), et elle vient d’entreprendre pour l'Angleterre une livraison » de 500 pièces (On l’a dit!). Il est dès lors important de poursuivre » sans relàche cette transformation, et d’autant plus rapidement que » la grande dépense à laquelle on s’attendait se réduit très-considéra- » blement; la vente du bronze couvrira une grande partie des frais. » La grande extension donnée à l’établissement de M. Krupp, qui » possède 161 fourneaux, 12 machines à vapeur de la force de 4 à 200 » chevaux, 7 marteaux de 7 à 150 quintaux ,° ro machines à forer, » 57 bancs de forage, 18 machines à raboter, et emploie 1000 ouvriers, » dont les produits annuels se sont élevés à 7,000,000 de livres d’acier » fondu, permet d’en tirer des blocs en acier de toutes grandeurs pour » les canons; il n°y a plus alors qu'à les livrer aux ateliers de l’artil- » lerie pour les forer, les rayer, et les achever complétement. » D’autres fabricants aussi ont essayé d'autres procédés pour la fabri- cation des canons d’acier fondu, et puis plus ou moins courroyé. Le métal employé par M. WairwortE, qui, dit-on (1), est du fer homogène dur comme l’acier tenace, et malléable comme le meilleur fer forgé, ne peut étre autre chose qu’une nouvelle espèce d’acier coulé, puisqu’on coule tout d’abord la pièce de forme convenable, et qu'on la forge et la tourne après; quoique l’on puisse aussi obtenir une telle pièce directement de la coulée en fonte de fer ordinaire, cu préalable- ment meélangée avec du fer pur, avec les dimensions assez précises, sans avoir à la faconner après à la forge. Les progrès rapides que la métallurgie a faits aujourd’hui n’ont pas tardé à nous fournir de l’acier fondu en grosses masses à des prix relativement modérés, qu'on prétend pouvoir baisser jusqu'à ceux des canons de fonte; ce que l’on ne saurait comprendre qu’en supposant que l'on puisse supprimer leur manipulation à la forge, opération qui, outre qu'elle est corîteuse, est d'une réussite douteuse pour les grosses pièces, et laisse toujours douter de leur résistance individuelle, quoiqu’on ait des exemples d’une résistance extraordinaire , puisqu'on en a aussi qui ont éclaté à la suite de très-peu de tirs. Dans l’Appendice aux canons rayés par M. ScamarLzi (Voir Journal (1) Page 25 de la brochure Carors ruyds systéme Armsirong et WWhitworth par Edouard Buen- WALDER, ingénieur. Genèye, ociobre 1860. 5ro MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. des Sciences militaires, n. 98, page 335) on trouve que la ténacité de l’acier des canons de M. Krupp varie de Go à 66 kilos par millimètre carré: en outre on peut citer M. Otto Grusitz de Karlswerk près de Neustadt-Eberswald comme ayant eu beaucoup de succès dans la fabri cation de l’acier fondu pour canons rayés; la ténacité de son acier mou varie entre 56% et 61%, 5, et celle de l’acier dur entre 78%, 4 et 101%, 4. D’aprés les digressions et les résultats ci-devant référés, et les théories exposées au chap. VI sur la manière de résister des canons, on a vu que la connaissance de ces ténacités est loin de suffire, et qu'il faut connaîttre aussi la dureté ou la résistance à l’écrasement, et en outre il faut en déduire les vitesses d'impulsion, et le rapport de l’allongement au raccourcissement: puisqu’on a vu que toutes ces qualités mécaniques sont nécessaires dans une proportion convenable pour utiliser la résis- tance vive du métal pour toute l’épaisseur de la bouche è feu; et pour empécher que la rupture ne commence trop tòt de l’intérieur, lorsque le métal est trop dur; ce qui explique pourquoi les canons d'un metal trèés-dur, quoique beaucoup plus tenace, éclatent plus facilement que ceux d'un métal tant soit peu ductile, quoique moins tenace. Ainsi on pouvait prévoir que les canons d’acier, de la ténacité de 100% et plus par millimètre superficiel, n’étaient pas les plus résistants; mais plutòt ceux d’acier un peu ductiles, quoique d'une tenacité de 6o à 66, tels que les fait M. Krupp, desquels il serait intéressant de déduire par les essais mécaniques susdits, leurs vitesses d’impulsion, seuls termes de comparaison rationnels. $ 62. Anciennement on faisait déjà beaucoup de canons en fer forgé suivant simplement le procédé des doupes et des cercles ou frettes. On a ensuite cherché à appliquer aussi les procédés plus raffinés, employés pour faire les canons à fusil, et de nos temps le Capitaine Sroxron, de l’artillerie des États-Unis d’Amérique, fit construire de gros canons en fer forgé, un entr’autres du calibre de 12 pouces (305 millim.), ayant 24 de diamétre extérieur en culasse et 18 en volée, et l'on dut après les tirs le cercler pour le renforcer à cause des fentes qui s’étaient ouvertes. Il en fit construire un autre semblable du poids de 12392 kilos dans les grandes forges de Liverpool au prix de 62,266 francs, (5 francs par kilo). Ce canon, quoique pesant 121 fois le boulet, ne tira que 23 coups (avec des charges d'un neuvième du poids du boulet) en tout avant d’éclater à bord de la frégate è vapeur le Princeton, le 28 février 1848. PAR JEAN CAVALLI. 5rr Quoique le nombre des victimes causées par cet éclatement, entre lesquelles il y avait des personnes d'un rang très-élevé, eit 6té trés- fort, après qu'une enquéte eut prouvé qu'il ne pouvait étre attribué ni à negligence, ni à ignorance de l’inventeur, le Président des États-Unis lui donna ordre d’en faire construire un autre pour continuer les essais. C'est ainsi qu'en ce pays on encourageait le progrès de l’artillerie, et conséquemment elle y a acquis la supériorité sur tous les autres. D’après le rapport de l’enquéte on'a vu, d'après quelque barre restée, que le fer était d’excellente qualité , et après les tirs était devenu (celui du canon ) à gros grains, et avait perdu 0,09 de densité. Un nouveau procédé de fabrication fut suivi par le Professeur de Mécanique des États-Unis M. Treapwecr. En considgrant que dans le meétal è canon il faut de la ténacité et de la dureié, et en attribuant la première au plus haut degré au fer, et la seconde à l’acier, il com- posa ses canons avec des tranches faites avec des barres enroulées d’acier au dedans, et de fer en dehors qu'il soudait dans des moules par la pression d’une très-puissante presse hydraulique. Par ce moyen il obtint des canons plus résistants, mais certainement trop coùteux; et il ne paraît pas qu'on ait donné suite è cette fabrication. Aujourd’hui M. Braxecy et M. William Armsrronc fabriquent leurs canons avec des barres du meilleur fer quils mélangent aussi avec de l’acier, qu'ils chauffent ei enroulent autour d’un cylindre suivant plusieurs différentes manières, en forgeani après le tout dans une seule masse. Plusieurs autres fabricants ont essayé de faire des canons de fer forgé, mélangée ou non avec de l’acier forgé, d'une seule masse, ou plus ou moins composée de diverses parties plus ou moins soudées ensemble, ou simplement superposées ou frettees. S 65. Ainsi le mélange du fer doux et du fer dur, ou du fer et de l’acier en barres déjà bien courroyées, réunies par un nouveau courroyage ou par des frettes, a fait espérer d’obtenir dans la masse résultante les meilleures qualités aussi pour en faire de bons canons. Mais malgré la multiplicité des essais faits sans égard aux énormes dépenses, les progrès obtenus ne soni pas encore suffisants, et il semble toujours plus difficile d’éviter les défauts qui tiennent è la nature méme des .procédés employés pour obtenir ces grandes masses de métal par l’addition d'une grande quantité de petites. A ce. propos il est très-intéressant de rapporter ici ce qu’en dit M. Love è la page 181 512 MÉMOIRE SUR LES ECLATEMENTS DES CANONS, ETC. de son ouvrage sur les diverses résistances et autres propriétés de la fonte du fer et de l’acier. Paris, 1859. « Cette supériorité de l’acier » fondu sur le fer, quant è la résistance, tient naturellement à ce qu'il » est obtenu avec des matières de choix, et à ce que la fusion du » métal assure une grande égalité dans la température de la masse et » par suite une grande homogenéité , et surtout une union intime et » parfaite de toutes les molécules, union dont la meilleure soudure » de fer ne peut approcher. Car, dans le fer chauffé en paquets on » n'est jamais bien sùr que toutes les parties soient au blanc soudant, » et si l’on y arrivait par hasard, il resterait encore l'action mécanique » dont l’effet pour rapprocher les parties, les réunir et les souder, est » nécessairement moindre au centre de la masse qu'à la circonférence. »' Ce qui fait que les fers de fortes dimensions présentent toujours une » texture peu homogène, et une résistance inférieure à celle des fers » de petit calibre. En ce qui concerne la manière supérieure dont l’acier » fondu se comporte à la forge, on se l’explique encore par sa pro- » priété de s’amollir jusqu'à la fusion, et par cette raison que les chaudes » succéssives qu'on lui donne pour l’amener à sa forme définitive par » le marteau, nm'ont pas d’autre effet que de l’affiner, en lui enlevant » graduelletnment une partie du carbone qui le constitue à l’état d’acier » ou de fer fusible; de sorte quà la fin du travail Vacier s'est rap- » proché du fer d’excelliente qualité. Pendant que l’acier doux subit un » grand nombre de chaudes sans altération influant sur sa résistance , » le fer au contraire doux et nerveux, et qui se forge moins bien parce » qu'il s'amollit moins que l’autre, ne peut que perdre en qualité en » passant par les mèmes opérations; parce que l’oxygène de l’air, ne » trouvant plus le carbone pour lequel il a le plus d’affinité, s'attaque » au fer lui-méme , l’oxide et l’aigrit. » S 64. D’après ces intéressants renseignements que l’on vient de passer en revue, et de tant d’autres connaissances utiles que les célèbres auteurs précités continuent d’exposer dans leurs écrits et notes, celles sur la fonte de fer, les aciers coulés Wolfranés sont très-remarquables, ainsi que les résultats obtenus par M. ScamwmeLBusa sur l’amélioration des fontes de fer, et de M. Franz Mayr pour les aciers. On voit combien est grand le champ du progrès meétallurgique, des fontes de fer et de l’acier coulé, et combien on peut avec fondement espérer de voir bientòt ces métaux s’identifier et acquérir de nouveaux degrés de résistance capables PAR JEAN CAVALLI. 513 de nous fournir des bouches à feu d’une durée indéfinie, mème avec l'’emploi des poudres à canon en usage. Les praticiens constatent qu’en grosse masse l’acier fondu perd beaucoup de ses bonnes qualités, parce qu'on ne peut pas aussi bien qu'en petite masse le courroyer sous les marteaux, courroyage nécessaire pour lui donner, en termes pratiques, du nerf; et que les grosses masses exigent l’emploi de marteaux d’un poids énorme, la percussion desquels ne peut pas produire par toute la masse frappée les mémes bons effets, à cause de la difficulté de pouvoir bien corriger l’inégal échauf- fement de l’intérieur à l’extérieur de la masse méme, difficulté crois- sante au fur et à mesure que la masse est plus grande. Dés lors la réussite de la pièce dépend beaucoup trop de l’attention plus ou moins soutenue des ouvriers, de leur intelligence et méme du hasard et de l’impossi- bilité d’obtenir l’homogénéité nécessaire. Voilà les causes qui font tou- jours craindre que parmi quelques bonnes pièces qu’on peut réussir quelquefois è bien forger de fer et d’acier fondu, il n’en reste encore plusieurs mauvaises qui passeront également à la réception, faute de pouvoir constater assez bien l’égalité intime de la fabrication, et distinguer les bons des mauvais produits; difficulté toujours plus grande avec l’accroissement des masses énormes des canons qu’on exige aujourd'hui. $ 65. L’amélioration de la fonte de fer a toujours avancé sans aucune sorte des inconvénients précités. Des perfectionnements notables de la fonte è canon eurent lieu en Suède dès l’année 1835, où l'on a su d'abord mélanger bien à propos leurs divers minéraux; pour en obtenir de la fonte truitée, c'est-à-dire un mélange de la grise avec la blanche, l’une ductile et peu tenace, et l’autre dure et plus tenace suivant la densité, qu'on a justement classifiée en dix classes de fontes à canons, d’après le degré du mélange de ces deux qualités. L’opinion dans ce pays, que les canons de fonte truitée s’approchant le plus possible des fontes blanches étaient les meilleurs, s'est depuis 1846 modifige après l’éclatement de quelques canons de la fonte la plus dure, choisis par les officiers prussiens pour pièces de contròle. Ce mélange des deux qualités de fonte, du moins, l’une plus dure, élastique et tenace, l’autre plus ductile, qui donnent lieu à la fonte truitée, est nécessaire dans les proportions dépendantes du degré et de la manière de résis-. tance requise qu'on veut ou qu'on peut donner à la bouche à feu. Ainsi, si la charge et la qualité de la poudre sont dans des Serie II. Tom. XXIV. ?R 514 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. proporitons telles que son explosion ne soit pas capable d'imprimer aux parois du canon une vitesse de compression suivant le rayon, et d’exten- sion suivant la circonférence supérieure à la limite de stabilité, on devra abonder dans le mélange avec la fonte plus élastique; mais il faudra pratiquer le contraire, si les bouches à feu doivent ètre tirées avec de fortes charges et avec des poudres capables par leur. vitesse de déflagration d’'imprimer aux parois de l’àme des vitesses supérieures à la limite de stabilité, et surtout de rupture. Comme M. le Général Frépérix a fort bien dit dans ses notes lithographices: «la résistance de la fonte a deux coefficients bien distincts, » l'élasticité et la ductilité; » et comme a dit M. le Général PonceLeT dans sa très-savante Mecanique industrielle, à la fin du n° 177, « les » corps solides et ductiles sont susceptibles de résister momentanément » à des efforts qu'ils ne pourraient supporter pendant un temps mème » assez prolongé »: ainsi il est nécessaire de savoir distinguer le travail ductile è la limite de stabilité et de rupture de celui élastique que les solides peuvent supporter. En effet on a vu par les applications faites au chapitre VI, comment, mème avec la poudre aux pilons, la limite de stabilité élastique et ductile des parois cylindriques des canons à l’emplacement de la charge se trouve facilemeni dépassée dans le. tir avec les charges en usage; et conséequemment, si les bonnes bouches à feu peuvent malgré cela soutenir plus de 2000 coups de faction avant d’éclater, c'est justement à cause de la très-courte durée de l’effort des gaz de la charge embrasée, en comparaison du temps qu'il faut auxdites parois des canons à parvenir è la limite de rupture, lors méme que la limite de stabilité est franchie. Puisque les bouches à feu en bonne fonte de fer soutiennent au moins 2000 coups en de bonnes conditions avant d’éclater, il suffit donc que les limites susdites à la rupture du métal du canon scient celles des meilleures fontes en usage: et lorsque la quantité et la qualité des charges de poudre seront telles que la limite de stabilité ne soit pas franchie, alors la durée de la bouche à feu, quant à la résistance, deviendra indéfinie. Ce résultat de l’expérience, que ce ne sont pas les canons de fonte de fer ou d’acier les plus durs qui sont les plus résistants, quoique la ténacité augmente avec la densité et la dureté, c'est un fait assez général connu des praticiens, comme aussi que les métaux les plus durs, quoique plus tenaces, sont cependant les plus cassants. « Il est à PAR JEAN CAVALLI. 515 » remarquer à ce propos (dit M. Love à la page 161 de son ouvrage) » que les tòles jugées mauvaises, cassantes, et offrant une texture » cristalline ont présenté le maximum de resistance » ...... età la page 178 que « plus les aciers fondus sont doux et malléables, moins » ils sont résistants ...... On peut dire qu'il en est de méme du fer > » doux et très-malléable par rapport au fer dur et plus cassant. » M. Tensrincx sur l’emploi de l’acier dans les constructions dit aussi : « Nos expériences ont fait ressortir un fait saillant; c'est que plus les » aciers fondus sont doux et malléables, moins ils offrent de résistance; » et cela à tel point que le plus flexible s'est rompu à 48 kilogr. par » mill. carré; cet acier présentait cependant une section bien nette, » et un grain fin et serré. » Ce fait tout naturel s’explique facilement lorsque l’on observe que les vitesses d’impulsion que les métaux peuvent soutenir sont très-limitées et sont facilement dépassées dans les chocs ou sous de simples impul- sions. Ordinairement ces impulsions ont lien sans qu'on s’en apercoive, ou bien l’on croit pouvoir les prendre pour des forces mortes, et non vives, et on ne se soucie pas d’en évaluer l’intensité sous laquelle la rupture a pratiquement lieu. Quoique les métaux durs les plus tenaces puissent soutenir des vitesses d’impulsion plus fortes au-dessus :de la limite de stabilité, ordinairement ces vitesses è la limite de rupture sont loin d’ètre suffisantes pour que dans les chocs cette limite de stabilité et méme celle de rupture ne soit pas franchie, à cause de leur peu de ductilité ; qualité contraire à leur dureté prédominante. La vitesse d’impulsion que les solides peuvent soutenir se partageant en deux, celle églastique inépuisable due à la dureté, et celle épuisable due à la ductilité, c’est è cause de celle-ci que les solides peuvent céder davantage et amortir les impulsions qu'’ils recoivent, lorsque la limite de stabilité est dépassée. Pour éviter que les ressorts cassent sous un effort plus qu’ordinaire, défaut qui pourrait étre pour eux très-grave, on les fait de ligue, cu d’acier assez ductile, et on les fait longs et minces pour que leurs mouvements de flexion agrandis soient plus doux, et qu'ils puissent amortir en cédant les impulsions ordinaires sans flexion restante. Toutes les fois qu’un solide aura à supporter des impulsions, et surtout des chocs de corps durs, il est nécessaire d’y opposer des corps à la fois assez durs et suffisamment ductiles. 516 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Aussi l’expérience d’accord avec la théorie prouve que les canons de la fonte la plus dure ne sont pas toujours les plus résistants, quoique le métal soit plus tenace: lorsque les efforts des tirs surpassent la limite de stabilité, ce sont alors les canons d'un métal moins dur et plus ductile qui résistent le plus; ceux d'un métal appartenant aux classes intermédiaires des séries, $ 54, en dessous de notre 7° ou de la 5° suédoise et en dessus de la 2° classe comprise entre les densités de 7,135 et 7,29; cette dernière à peu près pareille à 7,27 de la 4° classe des résultats moyens obtenus par laméricain Waxzack (Voir le Report of experiments etc., page 268, Philadelphie 1856); où c'est par erreur qu’entre la 4° et 5° classe la ténacité longitudinale a été trouvée décroissante, tandis que celle transversale suit la progression générale croissante ( Voir page 15 de mon Mémoire de 1863). La fonte de fer sera toujours le métal à canon le plus économique et le plus résistant à la percussion des projectiles de l’ennemi, puisqu'elle fournit des produits les plus homogéènes et égaux entre eux, et parce que cette homogéneité s’obtient de la ‘coulée seule, par la cristallisation, indépendamment de l’imperfection d’aucun courroyage successivement fait à la main d’oeuvre humaine; opération que, de mème qu'on la pratique sur les masses de fer, on est encore obligé de pratiquer aussi sur les masses d’acier coulé pour leur donner du nerf. Si l’on parvient è obtenir simplement de la coulée, de l’acier conve- nable, ce sera en l’approchant de la fonte de fer aciéreuse , produits qui tendent à se rapprocher toujours plus avec les progrès de la mé- tallurgie, et finiront par s’identifier complétement. L’échelle ascendante des ténacités que l’on trouve au S 55, donne la mesure de la rapidité de l’amélioration progressive de la fonte è canon, et rien ne nous indique qu'on soit parvenu au nec plus ultra, et qu'on puisse enfin obtenir des fontes plus résistantes encore. Mais déjà dans l’état actuel nous avons cité des épreuves de canons en fonte qui ont supporté 2000, 3000, et jusqu'à 6oco coups, presque autant que ceux d’acier, avec la seule différence de la plus prompte dégradation de la lumière après so0 cu Goo coups, lorsqu’on ne met pas les nouveaux grains de cuivre, dégradation qui alors a également lieu dans les canons susdits d’acier. Ces résultats sur la durée des canons de fonte, lorsqu'ils sont tirés dans de bonnes conditions pour leur conservation, ne sont pas inférieurs à ceux obtenus des canons qu'on fait aujourd'hui d’acier ductile, à part PAR JEAN CAVALLI. I] leur excédante résistance à l’éclatement qu'on n'est encore parvenu à donner quà ceux d'un petit poids qui sont alors capables d’une résistance vive très-supgrieure, résistance qui quelquefois peut ètre aussi inférieure dans les canons de petit calibre, et trop souvent dans ceux d’un calibre supérieur, et toujours d’autant plus inférieure que les calibres sont plus grands à cause que l’opération de les forger a toujours moins de pro- babilité de réussite. Ce grand défaut est du reste difficile è reconnaître, tandis qu’avec les épreuves mécaniques on peut s’assurer de la résistance vive de chaque bouche à few simplement coulée en bonne fonte de fer sans crainte de la gàter, et avec l’assurance de ne mettre en service que celles bonnes. Le Genéral Parxmans dans son ouvrage Constitution militaire de la France, disait déjà que « les bouches à feu en bronze peuvent s’em- » ployer avec sécurité: elles se brisent rarement, et ne se brisent pas » subitement. Mais elles coitent fort cher; elles ne durent pas quand » on les tire vivement; leur inconvénient de s’altérer rapidement à » l’intérieur y détruit la fustesse: et, en somme, elles peuvent compro- » mettre le service dans les plus graves occasions. Les bouches à feu » en fonte de fer ont toujours été employées à cause de leur moindre » prix; mais autrefois elles étaient d’un emploi dangereux. Aujourd'hui, » par l’effet des progrès industriels de ces derniers temps, on sait » en faire qui sont d’excellente qualité. Or elles ont sur les bouches à » feu en bronze les avantages que voici: le canon en fonte de fer peut » tirer un nombre de coups beaucoup plus considérable sans se dété- » riorer intérieurement. Conservant ainsi sa forme intérieure plus intacte, » il tire plus juste après un certain nombre de coups. Et à cet égard » la justesse du tir de ces bouches à feu est un progrès tellement: re- » marquable, que dans les récentes expériences comparatives de La FèrE, » lorsque les bouches à feu en bronze manquaient la cible, en moyenne, » dix à douze fois sur cent, celles en fonte de fer ne la manquaient que » deux fois. Et ces canons, qui valent beaucoup plus, coùitent beaucoup » moins dans un tel rapport que, par exemple, un canon de 24 en » fonte de fer coite 1,500 francs, tandis qu'en bronze il cotte 7,250. » De plus, l’artillerie en fonte de fer emploie nos produits naturels, et » encourage notre industrie nationale, tandis que l’artillerie en bronze » exige qu'on fasse venir le cuivre de Russie et l’étain de l’Angleterre. » Depuis le temps du Général Parxzans ces défauts du bronze ont 518 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. augmenté pour les canons rayés au point de les faire éclater aussi subi tement, lorsque le projectile se coince à cause de la forme des rayures, et lorsque, à cause du métal mou des ailettes et de l’usure des rayures, les ailettes en sortent par la tendance naturelle du projectile de s’en €chapper. Depuis Parxmans, l’amélioration de la fonte de fer à canon a été si grande, qu'elle a dépassé le bronze à canon en ténacité et en résistance vive à la limite plus importante, celle de stabilité; et à l’écla- tement elle n'est plus inférieure au bronze qu'àè cause de sa moindre ductilité qu'on reproche au bronze d’avoir, de trop. S 66. Quoiquon ait dépensé dans quelques États un grand nombre de millions de francs depuis 1860 à la recherche de nouveaux canons d'un métal meilleur que la fonte de fer, aujourd’hui encore on peut dire avec M. l’Amiral DanLGrREN dans son remarquable rapport de 1863, annexé au compte-rendu annuel fait au Congrès par le Président des États-Unis, que « quoiqu’aucune Puissance maritime ne soit entièrement » satisfaite de l’arme qui lui est propre , cependant elle croit ne rien » pouvoir trouver de mieux dans les armes des autres. » Ce fait est la preuve que le but n’a encore cté atteint par aucune Puissance. Ensuite sa conclusion sur le métal à canon était que « la résistance » de ces canons fondus supporte la comparaison avec les meilleurs » canons forgés en Angleterre. » Mais d’après les résultats des études qu'on vient d’exposer sur la résistance vive des canons, la grande question du choix du meilleur métal doit ètre posge différemment. A Vétat d’amélioration actuel de la métallurgie de la fonte de fer, la recherche d’un métal plus résistant pour faire les canons, outre que ce métal résulte très-corteux, est-elle encore nécessaire ? Dans notre Mémoire de 1863 on a déjà démontré que non ; qu'il suffisait d’employer le mode de chargement le moins nuisible à la bouche à feu, par sa forme et par l’emploi des charges de poudre moins grandes avec des projectiles relativement un peu plus lourds, produisant de méme le maximum d'’effet balistique , pour que les canons simplement coulés en fonte de fer eussent une durée déjà satisfaisante. A ces moyens d’eux-mémes suffisants un autre plus efficace encore vient de s’ajouter, celui du perfectionnement de la poudre qu'on a démontré pouvoir se faire tout à fait inoffensive pour les bouches à feu (Voir le chapitre IV de ce Mémoire). Puisqu'il est bien plus facile et économique de donner par ce moyen aux canons en bonne PAR JEAN CAVALLI: 519 fonte de fer une résistance alors indéfinie, que de chercher un meilleur meétal è canon, ou de faire des canons composés, on voit combien che- minaient hors de la juste voic pour arriver au but ceux qui abandon- nèrent les canons en fonte de fer, parce quiils leur attribuaient des défauts graves qu'on a pu plus facilement écarter que les défauts qui ne sont pas moins graves de toute autre constitulion qui ait été jusqu'ici essayée dans le tir des canons. Dès qu'il est reconnu que la tension maximum des gaz a lieu après un petit déplacement du projectile-négligeable , et que cette tension des gaz est partout égale contre les parois occupées par la charge, les gpaisseurs y devront étre égales à celle maximum, jusque et mème un peu plus au-dela de cet espace occupé par la charge, y compris au moins le projectile sphérique. Ensuite les épaisseurs iront en diminuant tout au plus suivant les proportions déduites du calcul conjointement avec l'expérience, et mieux en leur conservant des épaisseurs les plus fortes possibles aussi en volge: puisque les plus grandes épaisseurs en culasse ne sont plus nécessaires, pas plus que les grandes charges; les petites charges de poudre étant suffisantes è produire le maximum d'’effet ba- listique : ainsi on a toujours du meétal excédant à disposition pour renforcer le plus possible la volée de la bouche à feu aussi contre la percussion des coups ennemis. Ce poids pour les anciennes bouches à feu était compris entre 230 et 310 fois le poids du boulet pour des charges de poudre pesant d’une demie à une fois le boulet. Ces poids se réduisent successivement à 250 et à 200 fois le boulet, avec la réduction des charges de la moitig au tiers du poids du boulet sphé- rique: et après avoir, pour l’artillerie de campagne rayée, augmenté le poids du projectile allongé de la moitié de celui du boulet sphérique du mème calibre, et pour la grosse artillerie doublé ce poids, on réduisit les charges de poudre des petits canons è '/; du poids du nouveau projectile, et on a vu que celles des gros canons peuvent ètre réduites à "/ et jusquà '/,; sans perte dans l’effei maximum balistique qu’on doit atteindre. Les poids des grandes bouches à feu, tels à leur con- server la stabilité reconnue nécessaire, résultèrent respectivement aux- dites charges de roo et 80 fois le projectile: de sorte qu'avec les canons rayés on a plutòt gagné que perdu en légèreté, mème en produisant plus d’effet balistique que les canons lisses, toujours de plus en plus avec l’accroissement des distances. 520 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Avec ces poids indispensables pour la stabilité dans le tir et Tes longueurs d’îme déjà réduites de 18 à 14 calibres de l’artillerie de marine lisse, longueurs aussi convenables pour les canons rayés, qui, à cause de leurs projectiles plus lourds relativement aux charges de poudre, ont besoin de parcourir une moindre longueur d’àme, on peut donner des épaisseurs à la partie cylindrique du canon autour de la charge de plus de "/, de calibre; épaisseur qu'on donnait déjà aux anciennes bouches. Le tracé des anciens canons de forme conique est devenu très-défectueux sous le rapport de la répartition du métal pour le tir avec les charges d’une poudre plus puissante, mais en revenant à des charges de poudre plus faible, cette forme conique s’approche encore de celle théorique avec la culasse cylindrique. Les épaisseurs que la longue pratique fit généralement adopter de 1,1 à 1,25 calibre, sont celles données aussi par la théorie qui a été exposée d’après la condition que toute l’épaisseur concourt à la résistance, avant que la paroi intérieure de l’àme soit poussée jusqu'à la limite de stabilité ou de rupture, au moins dans les canons en bonne fonte de fer. Ces cpaisseurs, dans les canons qu’on voudrait tirer avec de fortes charges de poudre, peuvent encore éètre utilement augmentées par un choix convenable de fonte truitée moins dure: laquelle tout en satisfaisant à ladite condition y est plus appropriée à ces tirs qu'ils pourront alors supporter quoique aux dépens de teur durée en bon état, et en rappro- chant le danger d’éclatement. En tous cas des épaisseurs plus grandes que celles satisfaisant à la condition précitée, ne seraient pourtant pas inutiles à la résistance absolue de la bouche à feu, comme quelques artilleurs le croient; car la théorie nous dit alors que cet excédant d’épaisseur ne concourrait a en accroître la résistance que lorsque l’altération et puis la rupture commenceront aussi à la paroi intérieure. En effet la rupture d’un canon de 24 se chargeant par la culasse de mon système, après plus de 1000 coups à boulet sphérique placé et coincé sur la charge d’un tiers de poudre sans interposition d’aucun valet, qui eut lieu uniformé- ment d’un bout à l’autre, quoique la grande épaisseur de deux calibres en culasse se réduisit subitement à beaucoup moins, prouva que les épaisseurs de cette bouche à feu étaient bien réparties. Ainsi, tandis que l’expérience d’accord avec la théorie prouvent que l’épaisseur du metal à la culasse de 1,11 de calibre est suffisante à donner à la bouche (Sig PAR JEAN CAVALLI. 2I à feu dans de bonnes conditions des tirs une durée mème indefinie, elles prouvent également qu’une plus grande épaisseur n'est pas inutile lors des tirs les plus forts. S 67. Enfin on peut résumer comme il suit les résultats, les prin- cipes, et les conséquences auxquelles on est parvenu. Cuapirres I et II — Les causes principales des éclatemenis pré- maturés des bouches à feu en fonte de fer sont dues: 1° à l’emploi des poudres trop vives; 2° aux chargements défectueux où l’on ne laisse ordinairement pas assez d’espace derrière le projectile è l’embrasement de la charge de poudre; 3° au défaut d’une réception assez rationnelle de leur force vive, qu'on devrait faire sur chaque bouche à feu , lors méme qu'on les soumet toutes à l’épreuve ordinaire de tirs plus ou moins forcés que ceux d’ordonnance; et lorsqu’on voudrait encore juger de leur résistance par le tir à outrance d’une bouche prise par lot d’un certain nombre. Caapirre IN — Le travail des gaz contre les parois cylindriques qui entourent la méme charge de poudre embrasce dans deux canons du méme calibre, l'un lisse et l’autre rayé, semble, d’aprés l’expérience, étre le méme que lorsque les charges de poudre qui ne sont pas trop différentes entre elles sont embrasées dans des espaces proportionnels; tandis que le moindre accroissement ou réduction dans cet espace laissé derrière le projectile à la combustion de la charge, diminue cu augmente considérablement l’effort des gaz à l’instant de leur maximum de tension. Crapirre IV. — Les qualités. physiques de la poudre ont une influence excessivement grande :sur la tension maximum des gaz de la charge de poudre embrasée dans les canons; tension qui a été deéduite directement de l’expérience , et on a trouvé qu'elle a lieu à peine le projectile a été remué de sa place, et qu'elle est pour les poudres bri- santes de WertEREN de 24000 atmosphères, et pour les poudres aux pilons de 3700; tandis qu'on démontre qu'on peut faire de la poudre inoffensive, sans perte de la puissance balistique, d’une tension maximum réduite mème au quart de cette tension susdite des poudres aux pilons. La réception de la poudre à canon doit donc étre faite dans le double but de constater non-seulement si sa puissance balistique est suf- fisante, mais aussi si elle n’est pas offensive pour les canons; résultat qu'on atteindra par l’éprouvette, canon pendule à deux àmes, une longue de 20 calibres environ, et l’autre courte de quatre calibres, percées des Serie II. Tom. XXIV. %s 522 MÉMOIRE SUR LES ÈCLATEMENTS DES CANONS, ETC. deux bouts sur le méme axe, pour tirer le boulet sphérique au moins du calibre de 12 centimètres avec la charge du tiers allongée de trois calibres, de sorte que le boulet reste dans l’àme courte tangert à la tranche de la bouche. Avec cette éprouvette convenablement étalonnée, la poudre devra imprimer au boulet qui parcourrait dans l’àme longue 16 calibres la vitesse initiale usuelle de 500 mètres; tandis qu’avec la méme charge de poudre qui ne soit pas plus vive que celle aux pilons, le mème boulet tiré dans l’àme courte ne devra pas acquérir une vitesse plus grande que 221 mètres par seconde; vitesse correspondante à celle de 116”,5 de l'instant de la plus grande tension susdite, tandis que cette dernière vitesse pour la poudre inoffensive, qu'on a démontré qu'il est possible de faire, m’arriverait qu'à la moitié environ. Cuapirre V. — Les rapports des épaisseurs du métal des bouches à feu, de celles plus grandes en culasse avec celles successives, peuvent se déeduire de l’expérience directe, d’une manière rationnelle seulement par le tir d'un còté d'un canon d'essai successivement percé, ayant l’addition d’un canon de fusil pour tirer, en méme temps que le gros boulet par la bouche, de petits projectiles de ce canon de fusil dans un pendule. Les valeurs de ces rapports s’abaissent de la culasse à la tranche de la bouche plus ou moins rapidement selon le plus ou moins de yiva- cité de la poudre employée. Pour la poudre inoffensive cette progression des épaisseurs ne s’éloigne pas notablemeni de celle des anciens canons, parce qu’alors justement on faisait usage des poudres et des chargements de plus lente explosion. Du reste, le poids des bouches è feu nécessaire à leur stabilité dans le tir, réduit d’après la pratique à 200 fois au moins le poids du boulet sphérique de fonte de fer, lorsquil est tiré à la charge du tiers, est encore suflisant pour patata les épaisseurs mémes des canons en bonne fonte de fer au-delà de celles requises pour leur résistance vive, à l’avantage de leur resistance à la percussion des projectiles ennemis. Une plus grande légèreté des bouches à feu nuirait non-seulement à ces conditions et à leur stabilité en général, mais aussi à leur stabilité dans le tir, comme l’ont prouvé aussi les experiences des tirs de còté preécitées. Cmaermre VI. — Il suffit pour chaque meétal de savoir cale uler la plus grande epaisseur utile des canons à la culasse, autour de l’empla- cement de la charge, à l’instant de la plus grande tension des gaz de Ja charge de poudre embrasée. Cette plus grande épaisseur utile se deduit PAR JEAN CAVALLI. 523 du principe qu'il faut: qu'alors la première couche de la paroi de l’àme soit poussée è la limite de stabilité ou de rupture; tandis que l’agran- dissement quoique instantané de l’intérieur arrive è peine et s’éteint à la paroi extérieure. D'après cette condition on trouve que le logarithme Neépeérien du rapport du diamétre extérieur au diamétre intérieur est égal au rapport de l’allongement avec le raccourcissement du metal du canon augmenté de '/, à cause de la dilatation cubique, et d’autant encore à compte de la ductilité; et que pour la bonne fonte è canon cette épaisseur résulte de 1,106 cahbres à 1,25 au plus, telle qu'elle est résultée de la plus longue pratique. La résistance vive des canons ayant l’épaisseur ainsi déterminée , outre qu'elle est déependante du rapport précité de l’allongement au raccourcissement du métal, croît avec les vitesses d’impulsion que le métal mème peut soutenir soit à l’extension, soit au raccourcissement à la limite de stabilité ou de rupture. Cette résistance vive transversale des canons en bonne fonte de fer è la limite de stabilité est à peine suffisante à soutenir l’explosion des charges du tiers du poids des boulets sphériques d'une poudre qui n'est pas plus vive que celle des pilons. La résistance vive longitudinale à la culasse, è l’instant de la plus gaz, est de bien peu inférieure à celle transversale; S mais derrière les tourillons cette résistance longitudinale est notablement grande tension des supérieure à celle transversale. Le rapport des épaisseurs du métal de la culasse avec celles successives vers la bouche décroît plus ou moins rapidement en raison de la plus ou moins grande vivacité des poudres qu'on emploie. Cuapirre VII. — Les épreuves des tirs de réception des bouches à feu de service, pour qu’elles ne les gàteni et ne les usent pas inuti- lement, doivent se réduire à très-peu de tirs, d'un à trois qui ne soient pas plus foris que ceux d’ordonnance: et l’épreuve à outrance faite sur quelque bouche à feu de chaque lot, quels que soient les soins apportés dans leur choix, ne peut étre concluante, si l’on excepte celles qui sont faites avec un tir continu d’ordonnance, sans que cette épreuve puisse donner une veéritable garantie pour les autres; si les coeflicients méca- niques de chacune des autres bouches à feu ne constatent pas quelles sont toutes d'une résistance vive supérieure ou au moins égale à celles d’essai. Ainsi les seules épreuves de réception rationnelles pour la resistance des bouches è feu sont celles mécaniques, qui doivent ètre faites 524 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. sur le métal de chacune, sur des prismes coupés des rondelles détachées autour de la masselotte près de la tranche de la bouche, pour les bouches à feu simplement coulées; car pour celles forgées cela ne serait pas suflfisant. La limite inférieure du rapport de l’extension du métal au raccourcissement doit pour la meilleure fonte de fer étre de deux tiers environ; et les vitesses d’impulsion à l'extension et au raccourcissement à la limite élastique de stabilité, ne doivent pas étre très-differentes respectivement de 9g et 27 métres environ par, seconde. De l’ensemble de ces trois coefficients mécaniques du bon metal à canon doit résulter au boulet sphérique la vitesse au moins de 116",5, qu’effectivement tiré è la charge du tiers il recoit à l'instant du maximum de tension des gaz de la poudre aux pilons. i Cnapirre VIII. — Le bronze, faute de dureté, se déforme trop faci- lement; autant il en est du fer et de l’acier ductile employé à la fabri- cation des canons. Les canons en bonne fonte de fer seulement peuvent supporter la percussion des projectiles ennemis. La fabrication des canons en fer ductile et en acier de grands calibres, plus ou moins composée de parties forgées ensemble ou en partie superposées, est encore très-coùteuse et d'une réussiie incertaine, si l'on en excepte ceux de campagne. C'est de la coulée du meétal seulement qu'on a pu et qu'on peut espérer d’obtenir l’homogengité nécessaire dans toute la masse, surtout avec la methode de coulée Ropman pour les grandes masses des énormes canons en fonte de fer qu'on fait aujourd’hui, et c’est aussi avec la coulée seule qu'on peut espérer de faire également en acier de bons canons, lorsqu’on saura les obtenir sans besoin de les forger après pour leur donner du nerf; acier qui dès lors tendra à s’identifier avec la fonte truitée ou aciéreuse, d'une ténacité et d’une résistance vive qui s’approchent toujours plus de celle de l’acier des canons, qu'on est obligé de faire de plus en plus ductiles plutòt que tendres, pour en augmenter la résistance vive, au fur et à mesure qu'on augmente la masse de ces canons. D'après les résultats pratiques et théoriques obtenus, il n'est plus le cas d’avoir à chercher à tout prix un métal à canon meilleur que la bonne fonte de fer; puisque d'un còté on a obtenu pour ce meéetal les perfectionnements les plus positifs sans qu'il cessàt d’étre le plus éco- nomique; et que de l’autre còté il est bien plus facile, au lieu de PAR JEAN CAVALLI. 525 rechercher un plus fort métal è canon, de modérer les efforts des charges de poudre en n’employant que celles en rapport avec les poids des projectiles è peine suffisantes à produire le plus grand effet balis- tique, ainsi que d’obtenir une poudre inoffensive pour les bouches è feu, sans rien perdre de sa puissance balistique; poudre avec laquelle toutes les bouches à feu en fonte de fer, mème ordinaire , deviendraient de bon service, autant celles lisses que celles rayées, sans quil fit plus necessaire de rapporter des ailettes aux projectiles en métal beaucoup plus mous que la fonte de fer des canons mémes, ni d’en compliquer la rayure et ces projectiles mémes plus que ceux du système primitif de 1846, duquel enfin on se rapproche de nouveau. (Gn. DN Dì NOTE sur la manîière d’attaquer les places-fortes avec les canons rayes, et sur la composition des parcs avec beaucoup d'artillerie de campagne et un petit nombre de très-gros canons de siege. Le cas d’un siége régulier, tel qu'on le suppose implicitement è la page 568 de l’Aide-Memoire d'’artillerie francaise de 1856, où l’on a resumé les prescriptions et les procedés qu’on enseigne dans les écoles, n’etait déjà plus le cas généralement suivi avant l’introduction des canons rayés. Que ce procédé systématique d’attaque des places-fortes n’était plus generalement pratiqué, le Général Parxmans l’a incontestablement démontré à son tour à la page 81 de son livre, Constitution militaire de la France, par la statistique des siéges qu'il y rapporte, en concluant ainsi: « Sur » 180 places attaquées de diverses manières, 44 seulement ont été l’objet » d'un siége.......» Le fameux siége de Sebastopol, par les grands moyens deployés de part et d’autre et sa longue durée, justement parce qu'il a été entrepris méthodiquement, ne se termina que lorsqu’on eut recours au bombardement; et si ce parti avait été pris d’abord, on aurait épargné beaucoup de temps et de victimes, surtout avec les ca- nons rayés de 1846, si on les avait demandés et approvisionnés à temps. Maintenant que ces canons rayés ont presque entièrement remplacé partout les canons lisses, que l’effet des canons lisses de 24 en batteries de bréche, à bout portant, peut étre produit mème par l’artillerie de campagne ‘rayée, el peut étre augmenté à volonté avec de gros canons rayés de siége, méme aux plus grandes distances, ces attaques métho- diques doivent à plus forte raison ètre abandonnées contre les places- fortes existantes. Le bombardement fait avec ces petits obus de 4 !/2 et g kilogr., et méme de 12 de l’artillerie de campagne rayée, disposés de manière à croiser leurs feux sur tout le front d’attaque, sera assez puissant NOTE SUR LA MANIÈRE D'ATTAQUER LES PLACES-FORTES, PAR J. CAVALLI. 527 pour renverser l’artillerie et les faibles défenses de ces fronts de la place ainsi attaquée, et pour en chasser les défenseurs et les en tenir gloignés; alors en poussant à propos en avant ces feux croisés , les troupes de l’assiégeant pourront avancer sous leur protection à l’assaut, et pourront alors surmonter les fossés et les remparts avec des moyens transportés à la hàte par des troupes gymmastiques expressément exercées, capables d’établir immeédiatement des passages stirs, et de ceux méme praticables pour l’artillerie. Il n'y aurait alors que les batteries et les abris fortement cuirassés ou casemates, lels que les casernes, magasins des vivres et des poudres à l’épreuve de la bombe, quil faudra et qu'on pourra préalablement dé- truire d’assez loin avec la plus forte artillerie étant hors de tout danger. Ces destructions qui pourront s’'accomplir comme le bombardement fait avec l’artillerie de campagne rayée, causeront en peu d’'heures d’abord le désordre et le découragement dans les defenseurs, et assureront la réussite de l’assaut et la prise de la place d’emblée, répétons-le, lors- qu'on aura bien prévu et pourvu à tout, d’une manière spéciale pour chaque place et pour chaque front d’attaque. A cet objet la première question qui se présente est celle du choix de cette grosse et très-puis- sante artillerie de siége, sil en faut d’une seule sorte ou de plusieurs, calibres. On a déjà démontré (Voir le Mémoire de 1866) qu’avec le méme canon rayé on peut faire le tir et produire tout l’effet du canon, du canon-obusier et du mortier, en tirant trois sortes de projectiles, le boulet ou l’obus sphérique si l’on veut, l'obus et la bombe allongée; ainsi cette arlillerie de siége pourra se composer d’une seule sorte de bouches à feu. Or il faut maturellement que cette artillerie de siége soit capable d’abattre aussi de très-loin toutes sortes de défenses ou edifices le plus solidement construits dans le moindre temps possible, et avec la moindre consommation en poids de munitions à transporter. Ainsi cette question du choix de la grosse artillerie de siége se trouve strictement liée avec la condition, que la composition entière du parc de siége résulte du moindre poids total possible, et que toutes ces par- ties puissent ètre vite mobilisables , et les pièces conduites jusqu'à la batterie en état de faire immédiatement feu, presque comme l’artillerie de campagne. é : Telles sont les conditions à remplir dans le choix et la composition des pares de siége pour cette manière d’attaque d’emblée; manière et 528 NOTE SUR LA MANIERE D’ATTAQUER LES PLACES-FORTES; ETC. TA conditions que plus que jamais, avec l’introduction des canons rayés, on peut pratiquer, et que l’on doit suivre, pour pouvoir en tout cas procéder à un sigge, et atteindre le but le plus vite possible, méme sans investissement complet de la place forte attaquée. Il faut done, tout en simplifiant et allégeant les parcs de siége pour les mobiliser aussi promptement que possible, les composer pour la moindre partie en grosses bouches à feu, mais les plus puissantes possibles: et, comme on l’a dit, pour la plus grande partie, d’artillerie de campagne, de celle méme des corps d’armée et de réserve, et pour complément avoir aux parcs des batteries du mème matériel attelées par le corps du train militare, et servies par des compagnies d'’artillerie à pied; de sorte que ces batteries des corps d’armége et des parcs pourront, dans tous les cas, ètre mutuellement destinées à combattre en campagne ouverte ou aux siéges. Cette très-importante faculté a été acquise par la rayure des canons de 12 de campagne; puisque leur portée, leur justesse et leur puissance surpassent celles du canon de 24 long lisse, le plus fort canon qu'on employàt dans les parcs de siége mème pour battre en bréche à bout portant. Ainsi l'on n’aurait proprement de parc spécial de siége que pour la plus grosse artillerie; et pour la raison qu'on a. trouvé bien plus: simple et efficace de remplacer le tir concourant de tous les divers canons des batteries de bord par le tir d'une seule bouche à feu lancant le méme poids de fer à la fois sur le mème point, quoique très-éloigné ici; il faudra ici de méme remplacer tout ce grand nombre de bouches à feu et de munitions différentes et très-embarrassantes des parcs des canons lisses par une seule sorte des susdits grands canons rayés, seuls capables de produire le plus grand effet. Déès lors, comme il faut donc des canons du plus fort calibre possible, et en mème temps très-ma- niables et movibles, c'est de l’artillerie en chemin de fer qu'il faut composer ces parcs: car à l’exemple des industriels qui pour les transports de quelque importance trouvent leur convenance à abandonner les voies ordinaires et les chevaux, et à exécuter les transports par les chemins de fer construits et établis expressément partont, mème pour ces seuls objets, il y a évidemment le plus grand avantage à adopter aussi ce moyen pour le transport de ces nouveaux parcs de siége, maintenant grand nombre des chevaux 5 nécessaires à la guerre; que de recuecillir des rails, et d’établir des surtout qu'il est plus difficile de trouver le rameaux et des embranchements avec les chemins de fer existants jusque PAR JEAN CAVALLI. 529 aux batteries; à présent qu'on peut établir ces batteries de siége assez loin des batteries ennemies, de manière à avoir peu à craindre de leurs feux, et dès qu'on peut du reste facilement les masquer. La difficulté des transports des plus lourdes bouches à feu étant ainsì écartée, on ne sera plus géné dans leur choix qu'on devra alors faire tomber sur celles assez puissantes pour abattre les abris importants, mème du premier coup, ou avec le plus petit nombre possible. Plus les canons seront de fort calibre, moins de coups il faudra diriger sur le méme but, et leur nombre ne dépendra plus que du nombre de ces buts et du temps nécessaire à les abattre tous. Qu’on suppose d’avoir à abattre è la fois cinq fortins casematés, et autant d’édifices construits à l'épreuve de la bombe, exigeant en moyenne le mème travail en coups de ces gros canons rayés. Cette détermination du calibre et du nombre qu'il faut de ces canons n'est pas facile à établir @ priori; si ce n'est que, d’après l’expérience (1) rapportée à la page 82 de mon précédent Mémoire de 1866, il serait résulté qu'on a pu détruire un fortin construit en bonne maconnerie, revétu en granit demi-circulaire, avec les 760 coups qu'on y tira contre, à 3479 métres de distance, avec des canons en fonte rayés du calibre de 30 (16%, 5), tirant des obus allongés de 3o kil. à la charge de poudre de 3%, 2 dans le canon, et de 1", 1 dans l’obus. Car ce foriin fut réduit dans un état à ne plus pouvoir tenir, quoiqw'il soit résulté qu'il ne fut frappé que 374 fois sur les 760 coups tirés; mais tous ces coups seraient tombés dans un carré de 100 mètres de front sur 200 de profondeur; de sorte que, si l’on avait pointé avec quelques instruments meilleurs que la simple hausse, tous les coups auraient bien touché ei entitrement détruit le fortin, en le réduisant en un monceau de débris. En tirant environ un coup chaque 5 minutes avec dix de ces canons des forts semblables seraient done détruits en 6 o 7 heures de feu. Or, d’après l’essai comparatif fait du tir de près de ces canons de 30 avec ceux de 12 rayés tirant des obus de 12 kilogr., les pénetrations dans le revètement de granit ont été de 15 à 13 centimètres, 14 en moyenne, contre 32 centimètres du canon de 30: ainsi, si l’on retient (1) Voir l’Extrait du Journal du Genie militare italien, n. 3, année 1865; et l’Extrait du Journal d’artillerie italienne, imprimé à Turin en juin 1865. Senie II Tom. XXIV. 37 530 —NOTE SUR LA MANIERE D'ATTAQUER LES PLACES-FORTES, ETC. que le rapport des brèches ou des volumes de maconnerie ébranlée est en raison des cubes de ces pénétrations, on a pour ce rapport 323 S 7 È i a =12, qu'on pourrait retenir comme expression du rapport des nombres des bouches à feu respectives capables de produire le méme effet, rapport qui se maintiendra au moins le méme entre des bouches à feu de plus fort calibre, jusqu'à ce que ces pénétrations outrepas- sent presque d’un coup les épaisseurs des murailles à deétruire. D'un autre coté la plus longue expérience ayant. démontré que la justesse du tir croît avec la masse des projectiles, et comme pour la méme distance de 600 méètres pour des boulets de 6 à 30 kilogr., les uns pesant cinq fois plus que les autres, elle est double (1), è plus forte raison on verra au moins doublée la probabilité de frapper d’un obus allongé cinq fois plus lourd que celui de 30 kilogr. ou de 150 kilogr.; et puisque la moitié de ceux de 30 kilogr. ont frappé le but susdit éloigné de 3200 métres environ, conséquemment à plus forte raison encore tous ceux de 150 kilogr. frapperont le mème but de 34 métres de fond et méme de 17 métres seulement, si l’on pointe avec un bon instrument au lieu de la simple hausse (2) lors de ces grandes distances. Conséquemment de ce coté on trouve aussi qu’avec un seul canon tirant des projectiles cing fois plus lourds que ceux de 30 kilogr., on produirait au moins la méme destruction du fortin qu'avec dix des autres, puisque la moitié seulement des coups de ceux-ci portent juste. On est donc très-fondé pour conclure que tout l’effet au moins que peuvent produire 10 canons rayés de 30 en tirant abondamment 1000 coups en dix heures pour détruire complétement un de ces fortins, s’obtiendrait de mème ‘avec un seul canon rayé qui tirerait au plus roo projectiles semblables, mais d'un poids cinq fois aussi fort ou de 150 kilogr. Mais en outre il résulte de l’expérience susdite que les obus allongés de 30. kilogr. tirés de 3475 métres percaient de part en part du premier coup les mu- railles d'un mètre d’épaisseur. En retenant un tel effet proportionnel au (1) Voir pag. 607 de 1° Aide-Memoire francais de Vartillerie de terre 1856, où l'on trouve que la probabilite du tir à la distance de 600 mètres entre les canons de 12, 16 el 24 est respeclivement de 2,9; 4,7 et 5,4; c’est-à-dire précisément proporlionnelle aux poids des boulets; raison pour laquelle elle pourrait plulòt augmenter qu’ètre réduite avec l’accroissement des masses des pro- jJecliles et des dislances. 3 (2) Voir page 116 de mon Mémoire: Recherche, ete., 1866, le croquis, pl. I, fig. 4. PAR JEAN CAVALLI. 531 poids des projectiles, ceux de 150 kilogr. pergaient de part en part des mu- railles de 5 métres d’épaisseur, plus que la plus grande épaisseur des murailles dudit fortin; c’'est-à-dire que du premier coup la brèche pourrait ètre ouverte dans une grandeur proportionnelle égale au moins à l’épais- seur, ainsi qu'il a eu lieu dans les murailles d’un métre d’épaisseur. Dès lors une muraille égale à la surface projectée du fortin, qui n'aurait pas plus de 5 méètres d’épaisseur et de 34 métres de front pour 14,5 de hauteur ou de 500 métres carrés, pourrait ètre entièrement abattue en 20 tirs d’obus de 150 kilogr., et tout ce méme fortin, si l'on veut, serait réduit à un monceau de ruines avec Io autres tirs faits avec le mème canon de bombes de 258 kilogr.; de sorte qu’en total 30 de ces coups, au lieu de 100 précédemment déduits, tirés contre des fortins ou des constructions d’une résistance pareille è celle des fortins susdits, seraient suffisants pour les détruire. Les poids de ces grands projectiles sont justement ceux du grand canon moyen de la série deduite au $ 30, pag. 88 de mon Mémoire de 1866 du calibre de 307 mill. pesant au, plus 16 tonnes; lequel serait en definitive le canon rayé capable par 30 de ces coups de produire tout l’effet des dix canons de 30 avec leurs 1000 obus de 30 kilogr., et mème d’une distance plus grande que 3500 métres. En supposant que dans une place-forte existante il y et dix buts à détruire, entre fortins et autres constructions à l’épreuve de la bombe, comme casernes, magasins des vivres et des poudres etc., qu'on voudrait attaquer dans le mème jour, il faudrait un parc au moins de 100 canons rayés de 30 avec 10,000 obus et ro heures de temps en raison de 6 minutes par coup; tandis que trois de ces gros canons suffiraient pour produire le méme effet avec 300 coups en 3 heures seulement, tirant aussi en raison de 6 minutes par coup; et on n’'aurait qu'un poids total à transporter six fois moins grand; et lorsqu'on voudrait en doubler les munitions, il ne serait è peù près encore que d'un quart, et capable d’un effet double. i Les six minutes qu'on a admises par coup, sont un temps plus que suffisant pour soigner le pointement avec la hausse ordinaire, temps qui, se trouvant avec un meilleur instrument réduit de moitié, permettrait de pointer encore avec plus de justesse : mais l’objection naturellement surgit pour les très-gros canons; on se dira: est-il possible de ma- neuvrer, charger, pointer et tirer aussi promptement un canon pesant 532 NOTE SUR LA MANIERE DATTAQUER LES PLACES-FORTES, ETC. 16 tonnes? Si dans un navire à vapeur, avec la force de ses machines, on peut surmonter cette grande difficulté, comment pourra-t-on la sur- monter en campagne, à un siége? A la vérité, puisqu’on a maintenant partout des chemins de fer, on pourrait de mèéme employer la force de la vapeur des locomotives; mais il suffit, comme on l’a déjà dit, de pouvoir conduire en chemin de fer ces grandes bouches à feu déjà montées sur leurs affùts jusqu’en batterie, et ces pièces, en vue de la grande portée et puissance de leurs projectiles, peuvent étre portées à de grandes distances de la place-forte,, où il suffit de les couvrir avec de simples épaulements en terre, étant ainsi presque hors de danger; surtout giant alors très-facile de bien les masquer. Sans la vapeur on peut pareillement manier ces gros canons sur leurs affiìts et sous-affiits avec des engins, construits comme les grues et les crics hydrauliques, qu'on pourra mettre en mouvement, méme avec une pompe à incendie mise à couvert assez loin de la bouche à feu. D’après des calculs faciles, on trouve qu'il suffirait de 8 hommes à la pompe qui pourraient servir plus d'un de ces gros canons; tandis qu’àè la rigueur un seul homme suffirait pour charger et remettre en batterie ces bouches à feu, les pointer et tirer en moins de temps qu'il n’en faut pour les canons de 30 avec les moyens en usage, en retenant que ces lourds projectiles seraient ainsi amenés en chemin de fer. Mais qu'on suppose qu'il faille doubler, et méme tripler le nombre d’hommes nécessaire à chacun des 1oo de ces canons de 30, comme il ne faut que trois de ces très-grosses bouches à feu pour produire le mème effet, un dixième au plus des servants nécessaires aux autres leur suffira. En résumant, les avantages de ces très-grosses bouches à feu de siége sont que trois à six au plus de ces bouches à feu produiront plus d’effet que 100 des autres, en trois heures contre dix de temps, avec moins d’un dixième à un cinquième de servants, et qu'on n’aurait à transporter qu’un sixième à un quart, au plus un tiers du poids total du parc des autres canons relativement petits. Partout done où il est possible d’établir les embranchements nécessaires des chemins de gros canons qu'il conviendra de choisir, et ce n'est 5 qu'où l'on sera forcé de suivre les routes ordinaires qu'on ne pourrait fer, ce sont ces très- les y trainer; et alors on les remplacerait par les canons suffisamment moins lourds pour pouvoir les y conduire, mais d’un calibre qui ne soit pas moindre que le 30 long susdit qu’on traîne assez facilement parteut. PAR JEAN CAVALLI. 595 Pour chaque parc special de siége en général, suivant les vues ci- dessus exposées, mème pour la prise d’emblée d’une grande place-forte, telle que Mantoue et Veérone, il suffirait de le composer environ de six grosses bouches à feu tirant des boulets de 106 Kilogr. ou des obus sphériques de 72 kilogr., des obus allongés de 159 Kilogr. et des bombes de 258 kilogr. en quantité et proportion convenables. Comme on vient de le demontrer, ce parc special serait capable d'une puissance de destruction d'une à deux fois au moins celle d'un parc de 100 canons rayés de 30 tirant des obus de 30 kilogr. Il nous reste à déterminer le pare des bouches à feu de campagne qu'il faudrait y joindre, néces- salire à une attaque d’emblée, après qu'il a été prédisposé par la grosse artillerie, pour assurer la réussite de l’assaut. On peut retenir en général pour chacune de ces attaques d’avoir à croiser les feux de cette artillerie de campagne, au plus sur une surface équivalente à 1000 métres de front sur 200 mètres de profondeur; on aurait ainsi à deblayer 20 carrés de 100 métres de coòté en y faisant tomber et éclater dans chacun 5 obus de 12 kilogrammes au plus par minute; feu qui sera bien suffi- sant au but (1) pour peu qu'on le poursuive. Pendant une heure on n’aurait tiré que 6000 obus, qu'on pourrait lancer avec 100 canons en raison d'un coup par canon chaque minute, feu qu'on pourrait. ra- lentir au besoin ou qu'on pourrait poursuivre pendant plusieurs heures ; car pour deux heures de feu, en raison de deux minutes par coup, la consommation des munitions par pièce ne serait que de 120 coups portés par un caisson et l’avant-train du canon. On posterait de ces canons 5o de chaque còté du front d’attaque pour en croiser les tirs de la manière la plus efficace. La moitié de ces 100 canons pourrait étre prise des batteries mobiles de campagne tirant des obus de 9g et mème de 4,5 kilogrammes, autant pour augmenter le feu s’il est nécessaire, que pour attaquer plus d'un front avec un feu d’une égale intensité, ou pendant 8 heures en tout, si l’on ne veut vider qu’un caisson par canon. Avec un approvisionnement de 480 coups pour chacune de ces 100 pièces d’artillerie de campagne, on en aurait pendant ces 8 heures et autant encore en réserve pour faire un feu bien suffisant au (1) Des experiences repetées dans plusieurs pays prouveraient que l’effet du tir des obus de 12 kilogr. de ces canons de 12 rayés est supérieur, de près comme de loin, à celui du canon de 24 lisse, mème pour baltre en brèche. 534 NOTE SUR LA MANIERE D'ATTAQUER LES PLACES-FORTES, ETC. but; car il n'est guère probable qu’après seulement une heure ou deux d'un tel feu toute défense et tous les défenseurs ne soient pas disparus du front d’attaque; et il ne faudra pas, plus de temps pour établir les passages de la manière susdite nécessaire pour surmonter fossés et remparts. Quoique l’expérience ait démontré la possibilité de battre en brèche avec. une dixaine de ces canons de 30 rayés (16% 3) de la distance de 3500 méètres en moins de ro heures, et qu’avec un seul des très-gros canons on puisse battre en brèche beaucoup plus vite et de plus loin encore, il conviendra toujours d’avoir des moyens apprétés expressément pour les passages des fossés et pour surmonter les remparts d’une for- teresse, et d’avoir des troupes gymnastiques exercées à y établir prompte- ment avec du matériel expressément fait, des rampes et des passages à niveau pratiquables, mème pour l’artillerie. de campagne; car 600 hommes au plus peuvent porter le matériel nécessaire pour jeter un pont de 36 métres sur un fossé de la profondeur de 12 métres en une demi-heure environ, sous la protection des feux croisés de l’artillerie rayée de campagne, qui par la puissance et justesse du tir tiendra loin les assiégés sans atteindre les assiégeants, ne tirant au dernier moment que des obus sans fusée sur le devant de ces troupes assaillantes. Lors mème que l’investissement d'une place ne serait pas complet et que l’assiégé serait assez appuyé à des forces extérieures suffisantes pour lui refournir des moyens de défense en troupe et matgriel, si l’assiégeant, assez fort pour tenir téte à l’ennemi en campagne ouverte, a eu la prévoyance d’organiser tous les moyens susdits è temps sur la parfaite connaissance particularisée de la place-forte, avec un parc d’artillerie de campagne assez nombreux, et un parc spécial de siége suffisant, il pourra étre rassuré sur le résultat d’une attaque d’emblée. Ce résultat esi l’immediate prise d'une place-forte qu'on peut donc obtenir dans très-peu de temps par le bombardement fait de la facon qu’on vient d’exposer, surtout à cause des grandes portées, de la justesse et de la puissance des tirs des canons rayés, qui suppriment la nécessité de faire de grands travaux de tranchée et d’approche avec un parc total de 50 à roo pièces d'’artillerie de campagne, calculées pour une ou deux attaques: plus un parc spécial de siége de 100 canons au moins de 30 (16%, 5), plutòt destinés à renverser les grosses deéfenses et édifices è l’épreuve de la bombe en raison de 10 de ces pièces pour PAR JEAN CAVALLI. 535 chacun de ces buts à abattre dans le mème temps; et beaucoup mieux au lieu de ces 100 canons de 30, avec six très-gros canons en chemin de fer, tirant des obus cinq fois plus grands et des bouches de 8 à 9 fois plus grandes encore. Avec ces projectiles on obtiendrait le double d’effet dans un tiers de temps au moins, avec un quart seulement du poids total à transporter, et 1/5 de canonniers servants; résultat enfin qu'on atteindrait avec beaucoup moins de perte de troupes, qu’on n’en devrait subir en faisant un siége soi-disant régulier. APPENDICE sur le meilleur type de fusil d’infanterie et sur l’application du nouveau principe du choc au choix de ses projectiles. 1° La supériorité morale et physique qu’acquièrent les troupes les mieux organisées, commandées par les meilleurs chefs et pourvues des meilleures armes, surtout lorsqu'elles sont de nouvelle invention, ou méconnues par l’adversaire, vient d’ètre démontrée de la manière la plus convaincante, par la grande et éclatante guerre terminée par les Prussiens dans une seule et courte campagne de deux mois. De mème que sous le Grand Frépéric, ils viennent de montrer encore une fois aux autres peuples ce que peut faire un petit État bien dirigé, fort par la moralité, la civilisation et la prospérité de la masse de ses habitants (1). Le perfectionnement des armes portatiles n'a pas été négligé en Italie; en 1856 le Parlement Piémontais, d’après ma proposition, alloua au Ministèere de la Guerre 15,000 fr. pour prix d’un concours pour le meilleur fasil, prix qui est cité dans une récente brochure (2). Des (1) Qu’il me soit permis de reproduire ici ce que je disais dans la Préface du Memoire de l’année 1862, Apercu sur les canons rayés, pag. 4: « Le but auquel furent toujours dirigés mes » efforls et mes ouvrages était de multiplier la force de l’armée nationale, non-seulement par le » nombre de ses soldats, mais encore par le perfectionnement de ses armes, et surtout de son » arlillerie. En effet le Grand Capitaine du siècle passé disait que l’arlillerie faisaît aujourd’hui la vcritable destinée des armeées et des peuples. C'est dans le mème sens que le Grand FRÉDÉRIC » disait encore: 7out État se trompe qui, au lieu de se reposer sur ses propres forces, se fie à celle » de ses alliés (pag. 32 de son Zistoîre de la guerre des sept ans). C'est donc un devoir d’éclairer » tout'citoyen patriote, qui par son influence peut contribuer énergiquement à accomplir ces » nouveaux perfeclionnements, et à redoubler ainsi nos forces dans ce temps précieux que la » Providence nous laisse pour nous consolider, et pouvoir compléter dans un avenir prochain la x nalionalité et l’indépendance italienne. » (2) Cette proposition avait été faite, selon moi, pour une arme se chargeant par la culasse, condition sur laquelle j'ai insisté dans le Rapport comme Commissaire italien pour les armes è Pexposition universelle de 1862. Le prix est aussi cité par C. S. FAKELS à la page 55 de ses Etudes sur les armes se chargeant par la culasse, publiées à Paris en 1866. Mais sì l’on ne s'est pas empressé alors de changer nos armes, il ne faut pas précipiter aujourd’hui le choix d’un modèle nouveau; vu que la réduclion des anciennes peut se faire à peu de frais, salisfaisant assez à toutes les exigences de la guerre; tandis que la multitude de nouveaux fusils tous differents en usage, prouve que le mcilleur n’a pas encore paru. PAR JEAN CAVALLI. DT études et des expériences furent toujours poursuivies en Italie, mais comme dans la plupart des autres États, sans un grand succès; car un grand succès ne pouvait ètre obtenu si ce n'est avec le chargement par la culasse (3), à présent généralement adopté en principe, comme en font foi les journaux et les programmes de ces concours publics. Parmi ces programmes pour le chargement par la culasse nous trouvons très-remarquable celui de la Suisse, qu'on lit à la page 282 de la Revue Militaire Suisse de lV’année 1865, après qu’en 1863 on adopta et introduisit pour l’armement de l’armée le nouveau fusil se chargeant par la bouche. Ce programme. est remarquable encore pour le prix de 20,000 fr. accordé par le Conseil fédéral à l’inventeur du système qui sera adopté et introduit pour l’armement de l’armée fédérale, ainsi que pour la condition qu'on doit utiliser le nouveau fusil, en lui conservant le canon avec son calibre actuel, sa balle et sa charge, avec cartouche unique, contenant la boule explosive; les effets du tir du fusil, une fois trans- formé, devant ètre autant que possible égaux à ceux obtenus auparavant. (3) Voir ma Relation comme Commissaire italien pour les armes et J’artillerie à l’exposition universelle de Londres, 1862, où à la page 23 on lit: « Les représentants des Etats, où les armes » se chargeant par la culasse ont déjà été introduites, vantent le grand avantage, surtout pour » les troupes se battant comme les chasseurs, de pouvoir tirer et recharger avec l’arme toujours » baissée, et la baionnette tournée contre l’ennemi; de pouvoir, le besoin echéant, multiplier la » vivacité du feu, ce que d’autres ne voudraient pas, de crainte de rester sans munition. Mais è » ce propos Napoléon disait que les munitions ne doivent jamais faire defaut; et en effet on òterait » beaucoup de la puissance des armes à feu, s’il fallait établir en principe l’économie des munitions, » lorsque par la vivacité du tir l’on peut mieux s’assurer la victoire. Il faut donc écarter cette » nécessité d’économiser sur les munitions, et à cela on doit justement tendre avec la reduction » du poids des cartoùches. D’ailleurs l’éducation en se répandant toujours plus dans les masses » avec l’instruction et la discipline intelligente apprise au soldat, le rendra de soi-mème avise et » suffisamment prévoyant pour ne pas encourir le danger de rester sans cartouches. Dès lors, » pour écarter un inconvénient autrement évitable, on ne doit pas renoncer pour ioujours à un » avantage certain; celui de pouvoir faire, avec le chargement de la culasse, un feu beaucoup » plus vif; celui de multiplier ainsi la puissance des armes à feu dans les moments deécisifs, et » de faire prévaloir le plus petit sur le plus grand nombre de soldats moins bien armés et disci- » plinés. On doit done retenir que le fusil militaire doit se charger par la culasse, que le soldat » doit pouvoir charger son arme baissée, la baionnette croisée contre l’ennemi, avec sa main » libre, sans qu'il ait è détourner son attention de dessus l’ennemi; ayant des cartouches faciles » à manier et à conserver, conienant possiblement l’amorce exploisive , de sorte que le soldat » puisse avec sùreté charger et tirer sans trop de soin, mème lorsqu’il est en orgasme, et quoique » le temps soit humide et pluvieux. » Le fusil prussien, avec lequel on poursuit l’armement de l’armée, satisfait en grande partie » aux conditions susdites. Pourtant on lui reproche la complication de l’obturateur de la culasse, » la faiblesse de l’aiguille, la possibilité des fuites de gaz, et les dégàts qui s’ensuivent dans l’arme ; du reste il est facile à se gàter si l’on néglige les soins qu'il exige. » Serie II. Tom. XXIV. : 3u 538 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. Dans le programme publié en Angleterre (Voir la page 27 de la Revue précitée) le calibre de l’arme est prescrit de mill. 11,44 à 11,56 au plus, la balle de 32 4% grammes et la charge de poudre de 4 ‘/,, presque un septième, et on y trouve aussi de remarquable les prescriptions sur les graisses à employer sur la cire à donner à la balle comme con- dition indispensable; tandis que tout autre graissage peut étre fait sur la balle ou par dessus la cartouche. 2° Les diff&rences des prescriptions de ces programmes sont saillantes, surtout dans le poids des balles et des charges de poudre relativement au poids mème de la balle; et il y a aussi lieu de s’arréter sur la cause de la prescription speciale concernant l’usage de la cire et des graisses, à l’objet évidemment d'assurer le nettoyage de l’àame du canon et d'en empècher l’usure. Tandis qu'on fait un usage très-abondant du graissage dans le tir des balles nues ou simplement enveloppées du papier de la cartouche, ce graissage paraît n'étre que peu ou presque pas employé dans les cartouches du fusil prussien; dans lesquelles par contre la balle est entourée d’un sabot de papier maché, par le moyen duquel est transmis le mouvement de rotation à cette balle de forme ovale; et en outre ce sabot, quoique sans cire ni graisse, sert à neitoyer l’àame à chaque coup, et à empécher l’usure interieure ge des balles du canon, mieux que ne peut la préserver le graissag sans sabot. La variabilité des nouveaux modéles de fusils qui paraissent inces- samment, et la variabilité des modéles adoptés par les divers États, prouvent qu'on est encore loin d’ètre arrivé à luniformité et à un accord sur les conditions è remplir: uniformité de conditions qui exis- tait auparavant pour les fusils lisses; d’où il résulte, qu'il est encore nécessaire de mieux gtudier les conditions d’un nouveau programme, et de les poser telles qu’elles puissent mieux en assurer le choix que l’on doit faire du meilleur fusil, neuf ou transformé. 1 Le type du nouveau fusil, qui permettrait de transformer ceux existants, serait évidemment à préférer toutes les fois qu'il remplirait suffisamment les meilleures conditions essentielles. Le fusil è aiguille type prussien ayant très-bien soutenu l’'épreuve de la guerre, il était naturel qu'on commencàt l’examen par ce type, dans le but de voir premièrement si la transformation des fusils existants a ce méme type est possible; deuxièmement, jusqu'è quel point et pour PAR JEAN CAVALLle 539 quelle particularité il est possible de trouver un autre modéle de fusil se chargeant par la culasse, meilleur encore que le fusil prussien. Pour chacune de ces propositions il y a lieu de distinguer l’examen propre de la manière de charger l’arme par la culasse, c’est-à-dire de la solidité et simplicité du mécanisme d’obturation , de l’examen special de la cartouche et des effets balistiques nécessaires à obtenir. Quant à la première de ces propositions, concernant le chargement de l’arme par la culasse, puisque le fusil è aiguille prussien a bien rempli: les exigences de la guerre (4), vu sa construction facile et peu couteuse, et son applicabilité aux autres fusils existants, il a été na- turel, qu'on s’en soit d’abord tenu à ce type è aiguille éprouvé , tout en cherchant à le perfectionner. On voit de suite, que le mécanisme pour le chargement par la culasse, quelle que soit sa construction, doit non-seulement fournir une bonne obturation, mais se préter encore de la manière la plus prompte , simple et sùre à placer et à faire enflam- mer la cartouche dans l’ame. Quant à la deuxièéme des deux propositions susdites, celle concernant (4) Voir le jugement qu’en a donne le Lieutenant-Colonel suisse BERcHEM, membre de la Commis- sion federale pour l’étude des armes, à la page 21 de sa brochure de 1865 avant la dernière grande épreuve de la guerre. « Le fusil à aiguille prussien est le résultat de recherches infatigables et » d’essais ingénieux entrepris dès 1831 par M. DrEYSE, de Lomeda....... Le reproche de com- » plication qu’on lui a beaucoup fait n’est pas fondé. » L’étude de ce fusil a aiguille a été entre- prise par son auteur depuis bien longlemps. D’après l’histoire que la Presse rapporte ,: Nicolas DREYSE, jeune armurier de l’àge de 18 ans, quittant son pays pour se rendre à Paris à l’objet de se perfectionner dans son métier, visita le champ de bataille d’Iéna, et fut frappé de l’infériorité des fusils prussiens d’alors: dès ce moment il congut le projet d’améliorer les armes è feu de son pays. Arrivé è Paris il eut le bonheur d’ètre connu et placé par le Colonel d’artillerie PAULI, Directeur très-distinguée des manufactures des armes. En 1809 ce Colonel fut invité par NAPOLEON I à fabriquer un fusil se chargeant par Ja culasse, qui ouvrît un concours pour un tel système applicable aux armes de guerre. Le Colonel se mit aussitòt à l’ceuvre , et le jeune DREYSE, en l’habileté duquel M. PAULI avait une grande confiance, fut chargé d’exécuter sous sa direction les pièces les plus importantes du fusil projeté. Le résultat cependant ne répondit pas aux esperances du Colonel. NAPOLEON néanmoins donna à l’auteur de cet essai, tout imparfait qu'il était, une somme de 20,000 fr., la croix de la Legion d’honneur, et un privilége de 10 ans; qui ne consola pas le Colonel de son échec. DREYSE è la paix retourna en Prusse; riche de l’expérience qu'il avait acquise auprès du Colonel PAULI, il reprit ses recherches, et dans quelques années il créa son fusil è aiguille. Mais alors commenca pour lui une lulte contre les hommes, qui n’était nul- lement comparable à celle qu'il avait eu a soutenir contre les choses. C’était beaucoup d’avoir inventé son fusil, mais le plus difficile restait è faire; il fallait obtenir qu'il fùt essayé et adopteé, et pour y parvenir il ent àè combattre, pendant plus de 30 ans, l’envie, les préjugés, la routine. Voir le Journal l’Italie du 11 septembre 1866 pour de plus amples details. 540 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. la cartouche, on voit combien d’inventions, quoique très-ingénieuses, doivent étre écartées, si elles ne la remplissent pas, car elle est une condition prédominante. 3° Le but de ce Memoire étant plutòt d’établir les conditions d’un programme pour le choix du meilleur type de fusil, que d’en examiner les divers modéèles, nous passons outre sur ceux-ci, pour nous occuper des conditions balistiques, auxquelles doivent satisfaire les fusils, soit transformés, soit nouveaux, ainsi que de l’examen des cartouches et des effets du tir. Une infinité d’expériences furent déjà faites de tout temps et en tous lieux sans obtenir complétement le but, parce qu'avant tout ce but n'avait pas été clairement et dans toutes les particularités précisé- ment défini (5). Il fallait d’abord déterminer quel était l’effet nécessaire, quelle que fùt l’arme portative à choisir, mais naturellement d'un poids, y compris les cartouches, le plus petit possible: but auquel il fallait viser dans les réductions à opérer du calibre des fusils; mais dans tous les États, où cette réduction d’abord s’effectua, on n'y eut pas assez d’égard, car on voulut plutòt obtenir un plus grand effet, tandis quil fallait rechercher le plus petit effet, à peine suffisant en guerre ; principe sur lequel on a et on avait fait des objections nombreuses. Depuis lors ces objections tombèrent devant des résultats de l’expérience, qu'on verra ensuite confirmés par la théorie; résultats qui ont été surtout obtenus en Suisse, où l’on parvint à trouver pratiquement le poids minimum. de la balle nécessaire en guerre, ce qui est affirmé aussi en France par un officier très-distingué (6). (5) A ce propos on lit dans la Préface du livre intituté: Etudes sur les armes se chargeant par la culasse, par C. S. FAKELS, officier d’armement au régiment des carabiniers; Paris, 1866: « Quelles que soient les études auxquelles on s’est livré, les questions nébuleuses de la balisiique ne sont » pas complétement élucidées, et il règne encore dans celte parlie si importante de l’armement » bien des points obseurs qu'il s’agit d’eclaircir. » > (6) Le mème auteur, que nous venons de ciler, à la page 27 dit: « Toutes les objections tombent » devant les résultats obtenus dans les experiences faites avec le projectile suisse (10mm, 5) dans » le but d’obtenir la solution de la question suivante: « Quelle est la quantité de plomb nécessaire pour en former un projectile capable des effets » qu’on en altend à la guerre? ou en d’autres termes: jusqu’à quelles limites peut-on alléger la » balle du fantassin sans nuire à ses effets normaux? i » Il a été admis, à la suite de ces expériences, que la balle suisse a fourni la preuve matgrielle que l’on peut, avec 16 ou 17 srammes de plomb, mettre un homme ou un cheval hors de combat, avec une cerlitude suffisante, à toutes les distances que l’on a à considérer ici. » Le fusil suisse (système Bernard PRÉLAT) est jugé comme il suit par l’érudit auteur PLENNIES PAR JEAN CAVALLI. 54I Toutefois les différences des calibres et des poids des balles en usage et de leurs charges de poudre, mème entre les armes nouvelles récemment introduites dans les armées des divers États sont encore très-grandes, ainsi que les différences parmi les prescriptions des programmes des concours qui eurent lieu; ce qui fait voir la nécessité de bien défimir la mesure des effets balistiques pour bien en déterminer le rapport de la charge avec le poids de la balle, son poids et ses meilleures pro- portions. Il est de toute nécessité de savoir distinguer dans le choc des balles le double effet qui s'y produit, c’est-à-dire la pénétration ou mieux l’épaisseur de la cible à percer, ou nécessaire à arréter la balle, de lVextension de la partie entamée autour du point frappé jusqu’où est parvenu l’effet de la percussion. La longue pratique des Suisses, dans les exercices du tir, leur fit introduire justement cette distinction trés-importante de l’effet du tir (7): et leur fit comprendre la raison pour laquelle il fallait expressément composer leurs cibles de plusieurs planches placées à distance, plutòt qu’avec une seule planche d'une plus grande épaisseur; car la pénétration serait alors plutòt celle dans une cible d'une épaisseur indéfinie, ce qui n'est pas la méme chose, puisqu'elle ne peut plus ètre prise pour mesure de l’effet cherché. Ainsi que dans le choc des projectiles d’artillerie contre les plaques de cuirassement, de mème contre les cuirasses endossées par les soldats, contre les planches des buttes, la théorie nous a fourni les mèmes for- mules pour calculer l’épaisseur nécessaire è arréter la balle du fusil, épaisseur désignée par les Suisses avec l’expression d’effet de péné- tration: voulant sans doute, avec l’autre expression de destruction, dé- signer le volume cylindrique entamé, ayant l’épaisseur de la butte pour hauteur et pour base une surface circulaire, ayant le centre au point frappé et s'étendant jusqu’où l’effet de la flexion s’épuise. - la page 283, vol. II, traduction frangaise: « L’infanterie confédérée ne peut que se feéliciter de por » posséder dans ce nouveau fusil de ligne, du calibre de 10,5 millim., une arme qui occupe » incontestablement le premier rang parmi tous les fusils europgens qui se chargent par la bouche. » (7) En effet on lit dans ia Revue militaire suisse de l'année 1863, è la page 56: « Nous n’at- » tachons toutefois pas d’importance è cette difference (de pénétration), et croyons que /a force » de percussion, c’est-a-dire la force de penetration, est suffisante pour les trois calibres; mais il » n’en est pas de mème de la force destructive, qu’il ne faut pas confondre avec Ja première, » c’est-a-dire le pouvoir de mettre hors de combat d’une manière instantanée et durable les hommes » et les animaux. » Y 542 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. 4° Conséquemment, dans la table VIN des données et résultats com- È paratifs des effets balistiques pour chacune des onze armes diverses par rapport à leur tir, on a Apre les deux mesures susdites de l’effet du choc: mesures SR on n’a pas cru devoir en ajouter une troisième, celle du produit de ces deux premières, parce que ce produit ne peut étre approprié que pour évaluer l’effet complet dans le tir des canons; tandis que pour les fusils, la première mesure d’effet est la seule im- portante. Ici, ce qui est le plus important, ce n'est pas tant la valeur absolue de ces résultats, que leurs rapports avec ceux d'une mème arme la plus généralement connue; on a donc dans cette table inscrit ces rap- ports en prenant pour unité.de comparaison les résultats de la colonne 1°° du tir du fusil ordinaire lisse; l’expérience séculaire duquel en avait universellement uniformé la puissance dans les divers États. Pour le but de ce Memoire on se limite, quant à la distance, aux résultats du tir, de près et à Goo métres, distance qui est généralement prise pour limite des effets utiles en guerre avec les fusils rayés. Cependant à cette distance l’effet de la percussion des balles sphériques du fusil lisse est encore suffisant, puisqu'il résulte égal à celui des balles les plus légères du fusil rayé; Veffet duquel a été expérimentalement trouvé encore suffisant à des distances beaucoup plus grandes (8 et 8 %is). (8) Effeclivement on lit à la page 129 de la Revue militaire suisse de 1863: « Les essais qui eurent » lieu en novembre 1865 sur Allmend à Thoune prouvent que les projectiles un peu plus légers, » alors employés, possédaient encore une force telle, qu'à 1600 pas (1200 mètres) ils auraient pu » mettre un ennemi hors de combat. Ces résultats ont été entièrement confirmés par les essais de » janvier 1856, où è la distance de 400 pas (300 mètres) on perga les os Îes plus forts d’un » ‘cheval, qui, selon l’opinion d’un professeur de lari véterinaire, aurait été mis hors de combat » de suite par ces coups isolés. » ($ dis) La pratique et la ihéorie conduisirent, comme on l’a déjà dit, à faire la distinction de deux sortes d’effets produits dans le choc des projectiles contre une cible, lesquels ont pour mesure l’un l’épaisseur seulement nécessaire à arréter le projectile, et l’autre le rayon jusqu’où l’effet s'est ctendu circulairement autour du point frappé en entamant cette parlie du but. Pour la troisième mesure susdite de l’effet du choc on entend une mesure composée par le produit des deux mesures précédentes, produit representant une surface; mais cette troisitme mesure n’a pas été inserite dans la Table VIII, étant seulement appropriée au tir des canons et non des fusils. La théorie demontre que le volume de la parlie de la cible entamée est toujours proportionnel à la quanlité de mouvement, ou au produit de la masse du projectile par la vitesse qu'il a à> l’instant du choc; ainsi aux rapports des volumes des parties entamées du but on peut substituer les rapports des quantites de mouvement des projectiles que l’on compare. Mais lorsqu’on veut une mesure de cet effet qui donne plus d’importance à l’épaisseur qu’à l’extension de la partie entamée du but, alors il est préférable de prendre pour cette mesure le produit de l’épaisseur par le rayon du cercle d’extension de la partis entamge de la cible , afin de tenir, dans le choc 4 PAR JEAN CAVALLI. 543 La 1° colonne de la table VIII appartient. au fusil è ame lisse or- ‘ dinaire, et la 2°"° an mème fusil rayé, pour lequel on a accru le poids de la balle, et on a réduit le poids de la charge de poudre, en total, avec un surcroît de '/, dans le poids de la cartouche; de sorte que l’effet fut augmenté, mais aux dépens de la tension du tir. Comme il n'y avait pas le besoin d'un plus grand effet, et qu'il est bien plus important d’alléger le plus possible la balle de la cartouche et le fusil méme, l’on en vint à la réduction du calibre des nouveaux fusils. mo- dernes, surtout de ceux se chargeant par la culasse, pour lesquels il n'y a plus besoin de faire usage des balles creuses, afin de les faire penétrer par l’expansion dans les rayures. Ainsi l’unique but quàil fallait et qu'on doit atteindre avec la réduction du calibre, étant la plus grande reduction possible du poids des cartouches et du fusil, il y a lieu de chercher quelles sont les meilleures proportions à etablir entre le poids de la balle et de la charge de poudre, et quelle est la meilleure forme des balles, s'il faut les faire massives ou si elles peuvent ètre cannelées, evidées, cas dans lequel elles sont d’une densité moyenne, inférieure à celle du plomb, et on peut les retenir de forme équivalente à un cylindre circonscrit et raccourci à sa pointe ovale. A cet objet on a calculé les différentes combinaisons des colonnes. 3°, 4°, 5° 6° et 7°, où le poids des balles, avec celui de la charge de poudre, est pour toutes de 18 grammes, la moitié de la somme analogue pour le fusil lisse; et l’on a, à la 8° colonne, augmenté un peu cette somme jusqu'à 20 grammes, pour augmenter l’effet utile de ce fusil rayé et l’égaler à celui méme du fusil lisse. A la 9° colonne on a inscrit les données et les résultats analogues concernant le fusil suisse de 1863, qui est un de ceux d'un plus petit mème, un plus grand compte de l’épaisseur que de l’extension dans les effets produits. Si dans le choc des projectiles d’artillerie l’on doit chercher de produire préférablement ledit effet com- posé, designé par les Suisses sous le nom de destructior, par contre cette mesure ne sert pas pour les balles de fusil, et dans ce cas, comme on l’a dit, on doit chercher à obtenir seulement l’effet designé par les Suisses sous le nom de peretration, qui a pour mesure l’épaisseur seulement néces- saire pour arréter la balle. Il s’ensuit que pour la comparaison des effets des armes diverses et combinaisons variées de leurs cartouches, on doit prendre seulement les rapports des épaisseurs susdites inserits dans la table VIII. On y a ajouté les coordonnées du point le plus élevé des trajectoires du tir de chaque arme, pour la distance de 300 mètres, afin de yoir de combien ces trajectoires yont respectivement plus ou moins rasant le sol. 544 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. calibre, et qu'il importait de comparer avec ceux d’un calibre plus grand, tel que le fusil à aiguille prussien inscrit à la colonne 10°; et enfin à la colonne 11° on trouve les résultats du tir d'un fusil rayé ordinaire tranformé se chargeant avec une cartouche (pl. IV, fig. 2), analogue è celle du fusil prussien (fig. 1). Cette cartouche est analogue à celle prus- sienne par l’introduction du sabot de papier maché, qui embrasse Ia balle cylindro-ogivale; moyennant ce sabot on peut produire le tir forcé, quoique cette balle soit d'un diamétre beaucoup moindre que le calibre du fusil; diamétre qu'on a pris égal au plus grand diamètre de la balle ovale prussienne. La cartouche (fig. 3) est aussi analogue è celle prus- sienne pour un calibre restreint, mais moins qu'elle ne pourrait l’ètre sans sabot: elle se trouve déssinée à la méme fig. 3, par la partie ponctuée, qui fait voir les différentes proportions des deux cartouches auxquelles sont applicables les résultats de la colonne 8°. La cartouche de la colonne 11° diffèere en outre de celle prussienne par la reduction du poids de la balle et l’augmentation de la charge de poudre, et par la forme du sabot modifié ensuite de la forme cylindro- ogivale de la balle; modifications faites à l’objet de donner plus de stabilité à la balle mème dans làme du fusil à l’instant du départ, pour en rendre le tir plus juste et rasant, et faciles à ratifier par l’expérience. Si les avantages susdits se réalisent, on aurait encore celui de. l’alléegement de */, sur le poids des munitions prussiennes, comme on le voit ci-après. Pour les fusils respectifs aux colonnes de la table WII | 4° | 2° | 8° | 9° | 40° | 44° aus db ale odo so gato en grammes | 27 36 16 18,7 | 31 22551 » de la charge de poudre. ...... n O) 45 | 4 4 49| 56 » du papier, sabot, boule explosire.. . mune DION MNRI2A RIDI CAI AS Poids total de la cartouche . .. Deco || 92/2725 2804072 5° On voit que la combinaison de cette onzième colonne avec la cartouche relative a été faite è l’objet d’explorer s'il y a la convenanee, du còté balistique, de faire la transformation du fusil ordinaire rayé au chargement par la culasse. D’après les résultats consignés dans la table VIII précitée, il résulte, quant à l’effet du choc de ces balles, que le fusil ordinaire rayé dans le tir de près a très-peu gagne sur le PAR JEAN CAVALLI. 545 fusil méme lisse, soit relativement è l’effet utile de pénétration , soit à Veffet total; mais à la distance de 600 méètres ces effets sont consi- dérablement supérieurs; cependant, comme on l'a déjà remarqué , ils le sont aux dépens de la tension du tir et avec accroissement du poids des munitions. Les résultats de la colonne 8° de la table VITI sont également appli- cables aux deux sortes de cartouches, l’une avec sabot à la prussienne, et l'autre sans sabot. La fig. 3 représente ces deux cartouches, pour lesquelles il faut un différent calibre du fusil. Apparemment la réduction du poids de ces fusils et de leurs cartouches respectives. est la plus grande qu'on puisse faire : car l’effet utile de près résulte de peu inférieur à celui du fusil lisse; tandis que pour le tir de loin, ie plus important ici, cet effet est environ d'un quart supérieur; et ce mème effet est à peu près égal à celui du fusil prussien, soit de la col. 10°, soit è celui modifié de la col. 11°; et il est sensiblement supérieur è l’effet du fusil suisse, col. g°, se chargeant par la bouche. Ce fusil, après sa transfor- mation au chargement par la culasse, pourrait bien tirer une balle massive au moins de 20 grammes avec la charge de 5 grammes, et donner encore de meilleurs résultats. La tension du tir du fusil prussien est bien supérieure à celle du tir du fusil ordinaire lisse, et surtout de celui rayé; mais cette tension est moindre que celle du fusil suisse, et que celle des fusils des co- lonnes 8° et 11°, pour lesquels la tension est la plus grande de toutes. Néanmoins cette plus grande tension rase à peine le sol avec suffisance sur la distance de 150 métres au plus, puisqu'à la plus grande hauteur 2°, 77 4 tireur debout, l’on a déjà 2 métres de hauteur totale. Or, comme il est très-important que la tension du tir soit la plus rasante possible, tout au moins jusqu’à la distance de 150 méètres, pour l’obtenir il faut donc pouvoir tirer au moins avec la charge du quart du poids de la balle. Avec cette charge la vitesse initiale des balles è expansion des fusils se chargeant par la bouche résulte déjà trop forte: puisque dans ces fusils la balle, plutòt que de suivre la rayure à hélice, parcourt directement de la trajectoire de en ajoutant 1",30, hauteur de l’arme du l’àame, et en sort sans avoir recu le mouvement de rotation nécessaire; tandis qu'avec le chargement par la culasse cet inconvénient disparaît, surtout en renoncant à lexpansion et aux balles creuses; conditions Seria II. Tom. XXIV. vi 546 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. non-seulement inutiles, mais muisibles. Il y a deux manières capables de bien imprimer une rotation suffisante aux balles massives, tirées méme avec de fortes charges: de ces manières la plus usitée (9) consiste à faire que la rayure de l’àme du canon s'imprime sur la paroi cylindrique de la balle, lorsqu'elle, de la chambre d’un diaméètre plus grand, est poussée forcément par l’explosion de la charge de poudre dans l’àme, et reste ainsi obligée de suivre l’inclinaison de la rayure, et de prendre le mouvement de rotation. Ce forcement deviendrait superflu et nuisible, si le diamétre de la partie cylindrique de la balle, compris le papier qui l’enveloppe, dépassait ou n'atteignait pas tout-à-fait le diaméètre du canon, pris au fond des rayures mèmes: puisqu'l ne faut pas que la balle soit allongée et deformée à cause de la plus grande resistance quelle opposerait au passage de la chambre dans l’àme; et il ne faut pas non plus que la tension des gaz 's'augmente, puisque cette augmentation pourrait étre nuisibleé sans rien ajouter à la vitesse initiale. Les balles creuses avec leur expansion, quoiqu’elles aient été conservées quelquefois par routine en passant du chargement des armes par la bouche è celui par la culasse, n'ont plus aucune raison d’ètre employées, et doivent étre abandonnées. L’autre manière d’imprimer la rotation à la balle est celle qui s'obtient moyennani un sabot de papier màché, qui l’enveloppe à l’égal de la cartouche du fusil è aiguille prussien (planche III). Les intervalles des rayures de l’àme se creusent alors sur la paroi cylindrique de ce sabot, en passant de la chambre dans l’àme; ei en mème temps la balle étant fortement serrée, en recoit par transmission le mouvement de rotation. En augmentant la charge de poudre de */, à '/, de la car- touche prussienne à celles modifiées, il se pourrait que la balle, à cause de sa surface lisse, glissàt dans le sabot, et la transmission de la rotation à la balle fùt incomplete (10). Le susdit inconvénient aurait lieu surtout si le sabot n’embrassait que la partie conique de la balle ovale prussienne, è cause de la tendance naturelle de celle-ci à glisser hors du sabot, à l’instant qu'elle y est fortement serrée. Mais il semble que rien ne s’oppose à faire cette partie (9) Telle est la manière decrite à la page 28 de C. S. FAKxELS déjà cité, où l’on trouve des détails intéressants sur la composition de la cartouche propre à ce moyen. 40) « L’augmentalion de la charge de 4 srammes à 4 */, dans le nouveau fusil suisse (1863) a » produit une diminution de la Justesse du tir....... On renonga à cette augmentation malgré » sa trajectoire plus rasante » ( Pag. 5 de la Revue militaire suisse de l’année 1866). PAR JEAN CAVALLI. 547 de la balle cylindrique, et il paraît mème qu'il est nécessaire d’en strier légèrement la surface, afin qu'en se compénetrant avec la matière souple du sabot, tout glissement soit empéché, et la transmission de la rotation soit assurée. La raison qui peut-ètre a induit à faire conique la partie postérieure de la balle prussienne comprise dans le sabot, est celle d’en faciliter la séparation au sortir du canon du fusil: à cet objet on pratique quatre entailles au bord du méme sabot; ce qui pourrait avoir seulement pour but d’y faciliter l’enfoncement de la balle. En tout cas, pour. assurer de mème la prompte séparation du sabot-de la balle, il pourrait suffire d’en prolonger et multiplier assez ces entailles, et, s’il le faut, d’en saupoudrer l’intérieur; et enfin de laisser un petit passage aux gaz par le trou où est placée l’amorce explosive, plutòt que de faire la balle conique, ne fut-ce mème que de fort peu. Car, c'est à cette forme très-conique de la partie postérieure de la balle prussienne, qu’on peut attribuer sa moindre justesse et tension du tir (r1). La justesse moindre derive précisement de ce que le moindre ebranlement de la balle peut la faire sortir du sabot à l’instant qu’ils sont ensemble poussés par l’explosion de la charge de- ia chambre dans l’àme du canon de fusil, à cause du serrement très-fort qui en résulte au moment du passage; et alors son axe s’inclinant au-dessous de celui de l’àme, la balle prend un mouvement de gyration, et ce mouvement gyratoire deviendrait d’autant plus grand et nuisible, qu'on ferait usage des charges de poudre plus fortes, pour en rendre le tir plus rasant; défaut qu'il paraît pos- sible d’eviter avec les moyens susdits. i 6° Quoi que ce soit de ces deux manières d’imprimer la rotation è la balle, sans ou avec le sabot, quand on augmente la charge pour en augmenter la vitesse, l’effort que doit soutenir la rayure de l’àme de mème que celle de la balle ou de son sabot, augmente aussi: et alors, plutòt que d’augmenter la profondeur des rayures, il convient d’en aug- menter le nombre, en leur donnant la forme de dents de scie; et leur faisant le còté directeur le plus près possible de la direction de la nor- male è l’àme, afin que très-peu ou point du tout d’effort pour cette cause ne soit ajouté à l’effort d’expansion des gaz aux depens de la résistance (11) « Au point de vue de la précision et de la tension de la trajectoire..... le fusil prussien » à aiguille reste en arrière de nos armes de petit calibre » (Pag. 24 de la brochure déjà citée de BERCHEM). 948 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. 7 du canon, ce qui en augmenterait aussi le frottement et l’usure de l’àme et en réduirait la vitesse initiale. Le sabot de papier maché a encore pour objet de recevoir dans un petit creux, fait au milieu de sa base, tournée vers la poudre, lamorce fulminante: laquelle, ainsi placée dans la partie la plus intérieure de la cartouche prussienne, s'y trouve mieux à l’abri dé tout danger d’explosion préematurée. En dernier lieu l’objet de ce sabot est aussi de bien nettoyer l’ìame è chaque coup, et d’en empécher l’usure et l’encrassement du plomb de la balle, qui a lieu lorsque la balle se trouve en contact im- mediat avec les parois de l’àme, defaut qu'on cherche aussi à écarter (12) en cirant la balle et en l'enveloppant d'un tour du papier assez fort de la cartouche, qu'on enduit aussi d’un mélange de cire et de suif. De ces deux manières de faire les cartouches, dans le but quwelles puissent mieux assurer les effets balistiques et préserver l’àme de l’usure et bien la nettoyer des fèces, le choix pourrait rester longtemps encore indécis, malgré les experiences faites et celles qu'on pourra encore faire: mais d'autres raisons peuvent faire prévaloir le choix de la cartouche è sabot, non-sculement parce que les avantages de cette cartouche de con- tenir l’amorce explosive dans le sabot de la. manière susdite ainsi mieux assurée ,: sont vraiment prévalants; mais plus encore, parce que, avec l’introduction de ce sabot embrassant la balle, on peut faire varier son diamètre entre de larges limites, et on parvient è rendre assez indepen- dant le choix du calibre du fusil de celui du diamétre de la balle. Avec la cartouche à sabot l’on peut donc transformer les fusils ordinaires rayés existants au chargement par la culasse, sans renoncer à aucune des meil- leures conditions qu'on peut atteindre dans une arme neuve; puisqu’on peut, comme on l'a dit ci-dessus, retenir le diamètre méme des balles prus- siennes, leur donner la forme cylindro-ogivale et en reduire le poids de SI grammes è 22,5; et puisqu’on peut en augmenter la charge relative ; jusqu'àè "/,, on doit par dessus obtenir les meilleurs effets balistiques pos- sibles avec ume reduction aussi de ‘/, dans le poids des cartouches (13). (12) Dans le programme de concours. publié en 1865 par le Gouvernement anglais qui à cette cpoque a decidé d’introduire les fusils se chargeant par la culasse pour toute l’infanterie anglaise (Voir le 7imes du 22 aovùt), on lit au n° 10 graissage de cire pour les balles: « Cette condition est » indispensable, mais tout autre gras peut ètre ajouté par dessus ou appliqué à la cartouche sì » le concurrent le juge nécessaire. » Cela s’entend pour les cartouches sans sabot. (13) A ce propos on lit dans la Revue militaire suisse de l'année 1863 une importante discussion, PAR JEAN CAVALLI. SLI La forme cylindro-ogivale de la balle étant ainsi établie, pour la détermination de ses proportions les plus convenables on fit, relative- ment à la forme de l’ogive differents cas: en la supposant engendrée avec des ares de cercle ayant leur centre è la distance du centre du cercle, base de la partie cylindrique, pour le cas de la forme hémisphé- rique de zéro fois son rayon, et pour les cas suivants de '/,, et 2,435 fois ce. rayon; ce dernier cas étant celui des projectiles. de 30 kilogrammes des premiers canons de 30 rayés en 1846. La densite moyenne de ces obus était de 4,885 et leur rapport avec la sphére d’egal diamètre et densité de 2,553, et ce diamétre, de 167 mill., était celui de la section moyenne du projectile avec ses ailettes. Pour tous les cas susdits on suppose la balle massive de 16 grammes, de plomb, ayant la densité 11, de sorte que le volume résulte de 7,3304 fois le cube du rayon de la partie cylindrique; et l’on a pour ces cas Pour les distances en rayons des centres susdits, de... .... 0 % YA 1 2,435 Volume de la partie ogivale, en rayons cubes ........... | 2,0940| 2,4081| 2,6837| 3,1640|4,2265 || Distance de la base commune au centre de gravité de l’ogire, CIO eli We laa 0,3754 | 0,4349| 0,4878| 0,5792| » Distance de la base postérieure au centre de gravité du total, CIRATAYO SERA V gt E SETE ESAZIIE + | 1,1786| 14,1837| 1,1890| 4,1993| » Longueur totale du projectile ........... «... en rayons | 2,6668| 2,7915| 2,8932| 3,0582| » Lonqueur de la partie cylindrique . .... A ox » .. | 1,6668| 1,5668| 1,4790| 1,3262| » Pour le projectile de 16 grammes lonqueur totale en millim. (15,55 |16,27 |16,81 (17,83 » du diamètre de 11,66 millim. lonqueur du cylindre » . 972 9,13 | 8,62 | 7,73 » qui eut lieu lors de l’introduction du nouveau calibre réduit, où la minorité de la Commission opinait pour une balle plus lourde que celle adoptée; elle disait à la page 113: « La munition » plus légère que l’on emploie avec un petit calibre a ce double avantage, d’étre moins chère et » de charger moins le soldat. Il y a cependant une limite è la diminution du poids de la mu- » nilion; limite qui résulte, comme nous avons déjà eu l’occasion de l’indiquer, de ce qu’une balle » trop legère a des inconvénienis graves pour la précision du tir, surtout dans certaines cir- » constances. A ce point de vue, une balle de 21 à 22 grammes est, selon nous, dans les meilleures » conditions, » landis que l’on avait trouvé suffisant l’effet d’une balle de 16 grammes, ainsi que le rapporte anssi M. FAKELS précité. La difference avec le poids de 18,7 grammes de la balie adopiée n’est pas grande, et elle est bien plus grande avec la balle de 10,7 grammes qu’on em- ploie pour tirer a la cible avec le méme fusil, et la charge de 2 grammes jusqu’à 400 mètres de distance. Conséequemment on doit retenir pour limite inférieure le poids de la balle de 16 grammes, et le poids de l’arme et des muniltions de la colonne 8° correspondante, le poids de la balle étant 550 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. En comparant les balles ayant l’ogive engendrée , l’une par un arc de cercle d’un rayon égal, et l’autre double de celui de la base de leur partie cylindrique, on trouve que la différence de leur longueur totale est près de '/,: et que la difference des distances de leur pointe au centre de gravité, est de '/,,.,. Il s'ensuit, que pour produire le plus grand effet dans le choc en profondeur, il faudrait choisir le projectile le plus raccourci; mais si l'on réefléchit que la résistance de l’air augmente environ de ‘/,, (14) au plus en passant de la forme antérieure ogivale cquilaterale de ia balle è celle ogivale heémisphérique , à cet égard il conviendra de prendre une moyenne convenable telle , que la position du centre de gravité réesulte situce suffisamment è l’intérieur de la partie cylindrique de la balle mème: et cela dans le but de mieux assurer la stabilité du projectile dans l’àme, en empèchant que l’axe du projectile ne s’incline sur celui de l’àme, et puisse prendre aussi, outre le mou- vement initial de rotation, un mouvement gyratoire de son axe mòme autour de celui de l’àme. Ce mouvement gyratoire serait d’autant plus grand et nuisible à la justesse et à la portée, que l’axe du projectile s'inclinerait davantage sur celui de l’àme; ce qui arriverait d’autant plus facilement, que son centre de gravité serait de plus en plus éloigné de cet axe en s’approchant du sommet de la balle mème. Voilà très- apparemment la cause de la moindre justesse du tir des balles creuses du fusil ordinaire, cause qui s’ajoute à celle de leur moindre densité. Ce mouvement gyratoire des projectiles si muisible à la justesse du tir, en moyenne correspondant aux deux susdites tiréges avec le fusil suisse; puisque cette balle de 16 grammes tirée avec la charge de ‘/, fournit le plus grand effet nécessaire. En outre on doit retenir cette balle comme limite inferieure non-seulement pour le poids, mais aussi pour son dia- mètre: en vue de ce que celle d’ordonnance du fusil suisse 1863 de 18 gr., 7, à cause de son diamètre trop petit, donne un effet ulile inférieur, quoique de peu, à celui de la col. 8° avec la balte de 16 grammes preécitée. i (14) Ce résullat a été deduit du tir des projectiles pesant 30 kilogr., ayant une extrémité hémis- pherique, et l’autre à ogive très-aigué engendrée par un arc du rayon de 3,435 fois le rayon de la base de la partie cylindrique du projectile. On a tiré ces projectiles alternativement, avec lane ou l’autre de leurs extrémités en avant:-et de la difference des portées on a déduit que le coeflficient de la résistance était de !/,, plus fort lorsque le projectile était lance avec l’extrémité hémispherique en avant. M. CuveLIER DE CuvERVILLE dans son ouvrage sur le Cours du tir (Paris 1864), pag. 388, dit « que les pointes coniques et ogivales produisent des effets peu différents les uns des autres, toute circonslance égale d’ailleurs; et que toutes ces formes ne l’emportent sur la forme hemisphé- rique que dans le rapport de 4,3; différence trop grande de celle déduite de l’expérience faite sur de gros projectiles. » PAR JEAN CAVALLI. 55 se reconnait distinctement du son periodique assez lent de leur révolu- tion, qui se fait sentir dans le tir des gros projectiles d’artillerie, qui ne sont pas bien centrés dans l’ùìme des canons, et qui furent d’abord employés dans mes premières experiences. Ce mouvement a lieu lors méme que le centre de gravité se trouve dans la partie cylindrique, si à cause du vent l’axe du projectile peut prendre une inclinaison sen- sible sur l’axe de l’àme du canon. C'est justement pour empécher ces mauvais résultats du tir, qu'on a dès lors ajouté des talons en arrière et en avant du projectile, jusque sur la partie ogivale, afin de les éloigner le plus possible; ce qui, avec la réduction du vent au minimum è l’endroit de ces talons, eut alors pour résultat un accroissement considérable de la justesse du tir. Pour les balles de plomb ayant la partie cylindrique assez longue, tirées dans des fusils se chargeant par la culasse où le tir est forcé, elles n’ont besòin d’aucune addition, et peuvent avoir l’ogive engendrée par un arc de cercle d'un rayon tout au plus égal è une fois et demie celui de la base de la partie cylindrique ; forme qu'on a trouvée ci-dessus plus convenable. Il nous reste à rechercher quel est le pas de l’helice que doit suivre la rayure, pour que la balle recoive la rotation la plus convenable, dans le but de neutraliser tout autre mouvement pertur- bateur de la justesse du tir. Quoique l’expérience montre qu’on peut varier de beaucoup le pas de l'hélice des rayures, cependant il y a des conditions à remplir à cet égard, et des limites qu'il ne faut pas franchir: puisque, si par la rayure à hélice et par le mouvement de rotation qui sensuit du projectile autour de son axe longitudinal, on accroît de beaucoup la portée et la justesse du tir, on n’obtient pas ces avantages sans rencontrer l’inconvéenient. de la deviation du projectile, déviation incommode quoique constante du mème còté, qu'on nomme derivation ; inconvénient pourtant qui est bien moins grand que ceux qui auraient lieu sans la rotation initiale donnée au projectile. Cependant il importe de réeduire cette dérivation à la moindre possible, non-seulement eu égard auxdits inconvénients qu'on veut ecarter avec la rotation du projectile , mais aussi. pour. amoindrir les autres inconvénients qui proviennent de la manière d’imprimer la rotation méme, et qui crois- sent avec la vitesse. C'est pourquoi il fant donner au projectile une vitesse de rotation à peine suffisante; c’est-à-dire, rien de plus que la quantité de mouvement de rotation nécessaire pour empécher tout 552 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. autre mouvement variable, qu'un projectile quelconque lancé en l'air tendrait nécessairement à prendre outre le mouvement de translation qu'on lui a imprimé; et cela à cause de l’impossibilité pratique d’obtenir que la résultante des forces d’impulsion des gaz de la charge de poudre enflammée, passe exactement par le centre de gravité et par celui de figure, et en mème temps par l’axe de l’àme du canon du fusil. A l’objet de rechercher les meilleures conditions è remplir, et de déterminer la quantité de mouvement nécessaire -à la stabilité des balles dans le tir des armes à feu rayées, on peut retenir que leur rayon de gyration soit celui du cylindre equivalent r. ctant le rayon de la partie n Voll cylindrique de la balle massive, car si elle n’était pas massive, c’est-à- dire, si elle était creusée et sillonnée, le poids D de son unité cubique serait moindre que celui du plomb, et serait celui correspondant è la densité moyenne du cylindre équivalent. Soit % la hauteur de ce cylindre equivalent par rapport à l’ogive, soit v la vitesse initiale, et 4 le pas de l’helice. On aura pour le nombre des rotations dans une minute v o : { seconde g et 2777 pour la vitesse angulaire , et pour celle du tre de gyrati “I. laquelle multipliée par l REALI centre de gyration 274-= ; laquelle multipliée par la masse 5) È Hy2 DRSO] Je p g du projectile deviendra l’expression de la quantité de mouvement 2n=7= qui est ainsi épuisée par la rotation, et enlevée à "A arh D la quantité de mouvement v de translation. C’est pour cette raison à ajouter aux autres déjà dites, qu'il faut que le rapport de ces 277 Hy3° quantités de mouvement de rotation avec celle de translation, ou soit le plus petit possible. On voit encore que, pour un projectile donné, cette quantité de mouvement de rotation est simplement en raison directe de la vitesse initiale et inverse du pas de l'hélice de la rayure: ainsi, quelle que soit la vitesse initiale 9 du projectile mème determinée par la charge, il faut néanmoins que ce pas # soit le plus grand possible , pourvu que la rotation soit suffisante. À cause de la petitesse de ce rapport De N A a eat HVi de la quantité de mouvement de rotation avec la quantité de PAR JEAN CAVALLI. 553 mouvement de translation, égal au rapport de la circonféerence decrite a SARE 7, pd n par le rayon de gyration += avec le pas de l’hélice, et pour étre ) 8 5 V surtout independant du poids et de la vitesse initiale du projectile , sans crainte de nuire à la justesse du tir dépendante du pas de la rayure, il s'ensuit qu'on peut avec la mème arme tirer des projectiles égaux en diamétre, quoique ayant des poids différents (15); mais seule- ment avec des charges également proportionnelles à leurs poids, ou de maniére à ce que les vitesses initiales ne soient pas fort différentes entre elles. Il faut en tout cas que l’arme ne recoive pas une vitesse d’impul- sion notablement supérieure à celle pour laquelle elle fut construite, avec une stabilité suffisante dans le tir à l’épaule du soldat. Cette vitesse d'impulsion déduite des fusils ordinaires, avant et après avoir été rayés, se trouve ètre respectivement de 3,42 et 4,02 métres par minute seconde, pareille en moyenne è celle de 3", 72 trouvée pour les canons en fonte n. 1 du calibre de 16,5 cent. Il y a naturellement des limites à l’accroissement des charges et des vitesses initiales des balles des fusils, comme pour celles des canons; lors mème qu’on réduit le poids du projectile , il faut avoir égard non-seulement à la résistance de la rayure de l’arme, mais surtout à celle du projectile méme, et ne pas lui donner de trop fortes vitesses muisibles à la régularité de son mouvement dans l’air. L’expérience prouve qu'on ne peut tirer les fusils rayés se chargeant par la bouche qu’avec une charge de poudre moindre que celle de '/, du poids du projectile, charge au moins qu'on pourra employer dans les fusils rayés se chargeant par la culasse, quoique les balles soient de plomb. Le rapport des susdites quantités de mouve- ment imprimées au projectile, de rotation ei de translation, pour le fusil ordinaire rayé, d’après les données de la colonne n. 2 de la table VIII, resulte de 0, 003041; rapport dont se rapprochent ceux des carabines Dixon et Enfield, pour lesquelles ils sont respectivement de 0,0006536 et 0, 003065. Si ces rapports sont un peu moindres que ceux des fusils prussiens et suisses 1863, respectivement de 0, 004831 et 0,004474, la cause en est due aux pas de la rayure qui est respectivement de - (15) C'est le cas du fusil suisse de 1863, avec lequel, outre qu’on tire la balle d’ordonnance de 18,7 grammes avec la charge de poudre de 4 grammes jusqu’à la distance de 1200 mètres, on tire encore à la cible la balle de 10,7 grammes avec la charge de 2 grammes è la distance de 400 mètres avec assez de justesse. Serie Il. Tom. XXIV. x 594 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. o”, 885 et 0",81 moins longue; tandis que ce mème rapport pour les canons est environ quatre fois celui des fusils, à cause que les trajectoires parcourues par leurs projectiles, au lieu d’ètre rasantes, sont très-courbes pour les portées nécessairement beaucoup plus longues. Il est ainsi né- cessaire de leur donner proportionnellement une plus grande quantité de mouvement de rotation pour neutraliser les plus grandes causes de perturbation du mouvement de leurs gros projectiles. On doit donc retenir le pas de la rayure des armes d’égal calibre, égal pour toutes, une fois bien déterminé pour une: lors méme qu'on voudrait tirer des balles avec des charges variables en poids absolu, en retenant seulement comme égal ou à peu près leur rapport, ou la vitesse initiale des diverses balles; de sorte que ce pas, une fois trouvé convenable pour le tir dans une méme arme d'une certaine balle et charge, le sera aussi pour toute autre balle et charge dans les conditions susdites. En tout cas le pas de la rayure devra ètre determiné par le tir avec la plus forte charge de poudre relativement au poids de la balle, ou en le déduisant par la comparaison de cette arme avec une autre dont le pas a été déterminé par suite d'essai: ainsi l’on trouve pour le pas du fusil de la colonne 8° de la table VII 1,35 si on le deduit de la comparaison avec le fusil ordinaire rayé , colonne n.,2; mais en le déduisant du fusil suisse 1863 colonne n. 9; on le trouve de 0",923, ou seulement de 0,885 se rapportant au fusil prussien, colonne n. 10. 9° Le soldat, avec son équipement, recoit dans le tir du fusil une impulsion ou une quantité de mouvement égale à celle que regoit le fusil mème, pendant son recul causé par l’explosion de la charge de. poudre. La mesure de cette impulsion a été donnée par la formule connue du general PioserT, et elle est plus forte que celle imprimee à la balle. Les forces vives imprimées ou les travaux mécaniques opérés à l’épuisement de cette impulsion causée par l’explosion des diverses cartouches embrasées dans des armes différentes sur ces armes et sur le soldat mème, sont bien divers entre eux, à cause que l'espace et le temps de la durée sont différents en raison de ces diverses masses et de leur manière spéciale de résister; conséquemment il s’ensuit, que dans la comparaison des effets, on peut toujours s'en rapporter aux quantités de mouvement sans tenir compte de l’espace parcouru et du temps écoulé, qu'on ne pourrait négliger si l’on s'en rapportait aux PAR JEAN CAVALLI. 555 forces. vives; puisque cet espace parcouru et le temps nécessaire à pro- duire le travail le plus souvent varient d’un cas à un autre. En général il faut done s'en rapporter aux quantités de mouvement, et toujours lorsqu’on doit considérer des forces mouvantes, car les forces vives, ou les quantités de travail, ne sont que les effets produits: effets qui peuvent avoir lieu de différentes manières, qui ne sont pas toujours comparables entre elles. Ceci bien compris,'il y a lieu de remarquer que la quantité de mouvement transmise par le tir au soldat étant égale au produit de la masse du fusil par la vitesse d’impulsion recue, c'est la valeur - maximum de ce produit, qu’avant tout il faut déduire de la plus longue pratique du fusil ordinaire tant lisse que rayé: valeur qu'on ne peut pas accroître, sans que le travail à soutenir par le soldat résulte excessif et insupportable; mais l’on peut bien et l'on doit déduire cette quantité de mouvement que le tir imprime au fusil ordinaire toutes les fois qu'il est possible d’obtenir de mèéme un effet balistique du tir suffisant en guerre. Il y a des limites aux valeurs de chacun des deux facteurs de la quantité de mouvement imprimée au fusil; car la masse du fusil ne peut excéder celle du poids de 5 kilogrammes sans étre excessive, et la vitesse d’impulsion qu'il peut recevoir ne pourrait ètre supérieure à celle du fusil ordinaire lisse, et tout au plus à 3”, 77, moyenne entre celle-ci et celle du méme fusil rayé (Voir la table VIII). Une plus grande vitesse d’impulsion du fusil, dans un feu prolongé, froisserait l’epaule du soldat: et elle ne peut étre inférieure, puisqu'il conviendrait plutòt de réduire le poids du fusil; réduction qui pour étre d'un soulagement continuel du soldat armé est bien preférable, et qu'on peut effectuer en réduisant l’effet balistique au seul nécessaire, et surtout en faisant le canon du fusil en acier; puisqu’on peut alors en réduire les épaisseurs, sil est nécessaire, jusqu'à la moitié de celles des cannes en fer forgé sans perte de resistance. Cependant il ne conviendra pas de réduire le poids du fusil, lors méme que la résistance comme arme à feu le con- sentirait, au-dessous de 2%, 5, poids nécessaire au moins à sa resistance comme pique ou arme blanche, qui, outre une resistance rigide, doit posséder assez de masse pour recevoir une force d’impulsion suffisante. On est done libre de varier le poids du fusil, de sa balle et de sa charge de poudre dans les limites susdites, et non pas la vitesse d'impulsion de 3”, 77 du recul. Ainsi en faisant toutes les réductions possibles du poids des balles, du poids de leur charge de poudre ou de la 556 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. cartouche, ces réductions permettront d’en faire aussi une sur le poids du fusil, laquelle pourrait étre effectuée ensemble avec leur transformation du chargement par la bouche en celui par la culasse, et surtont lors de leur renouvellement complet. On ne peut pourtant pas admettre la conclusion qu'on lit à la page 297 de l’auteur cité à la note 14 con- cernant les forces vives et la déduction « que le poids des armes deter- » miné par des considérations plus absolues reste toujours à peu près » le mème. Il s’ensuit qu'on ne pourrait employer une charge sensi- » blement plus petite dans le tir des gros, que dans celui des moyens ».et des petits calibres. » Et à la page 229: « qu’avec des armes de calibre moindre il devient » possible de donner aux projectiles plus de longueur relative (ce qui, » bien qu’admissible en sens absolu, ne peut l’ètre en pratique que » dans une certaine limite que paraît avoir atteint le fusil suisse) portant » plus de masse et de résistance aux causes qui tendent à les déformer » ou à les écarter de la direction de l’axe.... » C'est une déduction, cette dernière, qui est aussi inexacte ; puisque pour un mème poids et une méme matière du projectile, le rayon de gyration diminue avec son allongement; ainsi qu'à égale vitesse initiale et angulaire, diminue sa quantité de mouvement de rotation; et pour ne pas l’affaiblir ainsi il faudrait raccourcir le pas de la rayure pour en augmenter la vitesse angulaire aux dépens de celle de translation. 10° De toutes les combinaisons possibles il en existe certainement une qui est la plus convenable entre le poids du projectile, celui de la charge de poudre et le poids du fusil; et il y a aussi un rapport entre le poids de la balle sphérique d’égal diamétre et densité du projectile allongé avec le poids de celui-ci, qui pourra étre le meilleur, de mème qu'un rapport de la longueur de la partie cylindrique du projectile avec celle de Ja pariie ogivale. Mais pour découvrir une telle combinaison, qui serait la meilleure , il n'y a qu'è suivre le procédé qui nous conduisit à la solution des mèmes questions concernant l’artillerie, donnée dans mon Memoire de l’année 1866, dans lequel on a trouve que le meilleur rapport entre le poids du projectile allongé avec le poids de la balle sphérique de mème diamètre et densité est compris entre 1,5 et 2. Pour que les projectiles, surtout les courts, maintiennent dans le départ et le parcours de l’àme du canon de fusil leur juste position centrée , leur centre de gravité doit ètre suffisamment interné dans leur partie PAR JEAN CAVALLI. DDT ki cylindrique; et pour que ce projectile en dehors de l’àme rencontre la moindre résistance de Vair, il faut que leur densité soit la plus grande possible, et qu'ils soient conséequemment massifs; conditions qui déter- minent leur proportion et le choix du metal, le plomb. Déès lors le poids de la balle allongée étant déjà fixé, on en déduit son diamétre: et avec le choix de la forme de la rayure le calibre mème s’ensuit, par la condition que sur la surface cylindrique du projectile, en passant de la chambre dans l’àme du canon du fusil, les rayures aient à se creuser avec le moindre effort et le moindre déplacement possible du meétal, qui est borné à la seule petite couche extérieure de la balle mème, ou du sabot, si la balle est ensabotée. A cet effet il faut que, par la forme de la rayure, il y ait égalité entre le volume des empreintes creusées intérieurement à la surface cylindrique du projectile et le volume de la partie émergeante du metal mème du projectile sur sa surface; en retenant que l’effet de la compressibilité du plomb soit compensé par le papier de la cartouche qui enveloppe aussi le projectile; de sorte qu’en retranchant du diamètre mème du projectile la moitié de la pro- fondité des deux rayures opposées de l’àame du canon, on en aura déter- miné le calibre, en retenant pour la forme des rayures ou de leur section celle è dents de scie. La rayure à dents de scie, non trop allongées, ni trop nombreuses, aurait l’avantage de déplacer le moins possible du metal de la couche extérieure du projectile, de présenter une plus grande somme de ré- ‘sistance à l’impulsion de rotation, avec les còtés directeurs normaux è la paroi, pour ne pas décomposer cette impulsion, et d’augmenter celle directement soutenue par le canon du fusil; et, avec un nombre con- venable de ces dents, de réduire leur profondeur à l’avantage de la résistance du canon mème. Par contre, si le canon de fusil est rayé avec peu de rayures larges et séparées par de grands espaces égaux ou à peu près, alors vis à vis de ces espaces le metal du projectile sera plutòt comprimé que deéplacé, et pour peu contribuera à faire surhausser la partie correspondante aux rayures; effet qu'on ne pourra obtenir qu’'en augmentant la différence en plus du diaméètre du projectile sur celui de l’àme, et conséquemment son forcement avec une plus grande déformation du projectile méme. Ces manières de rayures sont évidemment moins favo- rables pour transmettre la rotation au projectile, avec moins d’effort des gaz de la charge embrasée, et avec moins de déformation du projectile 558 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. méme; et sont moins aptes à empécher que les empreintes des rayures sur le projectile mème ne se déchirent, et è lui assurer la rotation néces- saire à la justesse du tir. La susdite première manière de rayure est donc préeférable pour obtenir les moins nuisibles et plus résistantes can- nelures sur le projectile, avec la moindre profondeur possible des rayures mémes, et avec leurs còtés directeurs normaux à la paroi de l’àme, pour ne pas en augmenter les frottements et l’effort direct que le canon du fusil soutient, ce qui permettra ainsi de faire usage de la plus forte charge de poudre possible pour obtenir la plus grande tension du tir. 11° Par tout ce qu'on vient de dire, en retenant la charge de poudre du quart du poids du projectile, et le poids de celui-ci de 16 grammes et de forme cylindro-ogivale (Voir la colonne 8° de la table VII), son diamétre résulte de 11,66 mill. et le calibre du canon du fusil de 11,42, et le poids de cette arme de 3 kilogr. A la colonne 11°, où l’on donne le diamétre du projectile de 13,75 millimétres, le méme que la balle prussienne de la colonne 10°, on en a deduit le poids de 22,5 grammes; et pour le poids minimum que pourrait avoir le fusil kilogr. 4,28; pour ces armes les résultats balistiques obtenus avec les mémes formules sont déjà meilleurs, quoique de peu, que ceux de la colonne g° du fusil suisse 1863 se chargeant par la bouche. Ce peu d’infériorité du fusil suisse, le plus réputé parmi ceux du plus petit calibre, prouve que ce calibre est déjà trop petit, et que la balle est trop allongée; sa densité n'est que 9,065, à cause de ces cannelures et de sa cavité; son poids de 3,66 en balles sphériques de méme dia- métre et densité, dépasse trop la plus grande limite susdite de 2. Ce projectile, fait massif, bien conditionné pour le méme fusil, aurait un diamètre de 12, 9 mill.; mais pour le calibre des fusils suisses transformés au chargement par la culasse, le projectile devrait avoir 11 mill. de dia- métre, et un poids réduit de peu à 17,42 grammes pour étre tiré avec une charge un peu plus forte que celle adoptée de 4,355 grammes de poudre: ce qui donnerait des résultats balistiques un peu superieurs (16). (16) La coincidence de ces résultats avec ceux obtenus dans les experiences suisses rapportées par PLENNIES, pag. 240 et 341, est très-remarquable. « Les résultats des épreuves suisses les plus » récentes..... prouvent une fois de plus qu’un projectile plein pesant 16 à 17 grammes, four- » nirait avec une charge de 4,25 à peu près les trajectoires les plus avantageuses. » Cet auteur presume que la vélocité initiale est comprise entre 450 et 470 mètres, vitesse égale S ga 25 1 debe ; peg a celle que l’on déduit par le rapport SSA a table genérale donnée dans mon Mémoire 17 4 de l’année 1866. PAR JEAN CAVALLI. 559 On pourrait amoindrir les chiffres précedents à l’avantage de la legèreté des munitions, en retenant la charge de 4 grammes pour tirer le projectile de 16 grammes massif, bien entendu avec le fusil transformé pour faire le chargement par la culasse, en réduisant autant que pos- sible le poids pour s’approcher de celui minimum de 2,77 seulement necessaire à sa stabilité (17). 12° En réunissant les considérations diverses qu'on vient d’exposer, et qui regardent les avantages du chargement par la culasse des armes portatives, il reste à ajouter peu de choses au résumé donné par C. S. Fackers à la page 24 de son ouvrage déja cité, et qui fut éerit avant la grande expérience de la guerre recente, guerre où les prévi- sions de ce pratique et érudit écrivain ont été confirmées pustement, là où il disait à la page gr: «Il résulterait de cette faculté de tir propre » au fusil à aiguille prussien, que 300 hommes munis de cette arme » peuvent lutter contre un bataillon de 900 hommes armés du fusil » ordinaire. » L’auteur et nous-mémes ne nous trompions pas non plus en oppo- sant à l’objection trop répandue, que le soldat épuiserait trop facile- ment ses munitions; car à la page 25 il dit: « De tels arguments ne » sont plus admissibles aujourd'hui, puisque la réduction du calibre » permet de doubler à poids égal la quantité de cartouches à porter (17) Il est intéressant, à propos des fusils suisse et prussien , de reproduire ici l’opinion émise par L. PLENNIES depuis 1862, page 424 de l’ouvrage déjà cilé, opinion qui est conforme è la nòtre ( Voir la note 3). « Pour le calibre de 10,5 millim. on pourrait bien adopter une balle de la forme fig. 10 à la » pl. 9 (cylindro-ogivale massive, moins le creux postérieur, où l’on propose de placer la boule » fulminante), qui pèserait environ 18 grammes, et dans l’évidement de laquelle pourrait s’insérer » la boulette fulminante ....... Dans l’état actuel des choses le fusil percutant prussien, dit à » aiguille, est encore la seule arme se chargeant par la culasse, dont la convenance en pratique « ait élé completement constatée sur une grande echelle........ En effet les remplacements et » réparations du fusil sont complétement assurées. Or on a heureusement réussi à obtenir les plus » hauls effets du feu (sans parler de la rapidité d’exécution) par des moyens simples et à la portée » de l’industrie privée..... » On lit encore au $ VII, pag. 270, concernant l’équipement du soldat: « Une coiffure lourde » suffit déjà pour réduire à un minimum la précision du feu d’un corps de troupe; affranchir le» » soldat de son lest est donc la première nécessité indiquée par la science des armes aussi bien » que la condition d’une tactique rationnelle dont le caractère est la mobilité.,.. . » pag. 283: « L’infanterie confedérée ne peut que se féliciter de posséder dans le nouveau fusil de ligne du » calibre de 10,5 millimètres une arme qui occupe incontestablement le premier rang parmi tous » les fusils européens qui se chargent par la bouche..... » 560 APPENDICE SUR LE MEILLIEUR TYPE DE FUSIL, ETC. » par le soldat et à transporter par les caissons ». Nous ajouterons ce que déjà nous disions dans une note précédente, qu'avec l’instruction et la discipline on rendra le soldat assez prévoyant pour ne pas briler inutilement ses cartouches en vidant sa giberne; ce qui en effei se con- firma dans cette glorieuse campagne des Prussiens; où il n'y a pas eu manque de munitions, quoiqu'elies ne fusseni pas plus lésères que les anciennes; mais au contraire leur consommation fut bien plus petite que pour toutes les autres iroupes armées du fusil se chargeant par la bouche. Ce grand résultat, d'un effet incomparable du feu de leurs armes avec une consommation de munitions minime, prouve que l'armée Prus- sienne, composée de toutes les classes de citoyens, tous plus cu moins bien élevés, a acquis la meilleure discipline, celle qui provient surtoui de la confiance réciproque qui surgit de la longue connaissance et de l’estime de l'inférieur pour son supérieur: quoique ceite armée soit com- posée dans sa plus grande parte d'individus resiani chex eux, qui ne sont réunis et exercés que pendant peu de jours de l'année près de leurs foyers; et sans que la partie d'ordonnance de l’armée soit eniretenue à grands frais pendant irop d'années dans les casernes en garnison, système qui autrefois se pratiquait è peu près aussi dans les États des Ducs de Savoie. ll faut certainemeni dans ce sysiéme de la pari du gonvernement et des officiers plus de diligence, d’activité et de vigilance, ainsi que cela se praiuque en Prusse avec cette admirable organisation (que j'ai toujours pronée) tant militaire que civile, si bien identifiée au point de faire disparaître la funeste distinction des ciloyens civils de cenx militaires; tous citoyens valables éiani militaires, sans quiau fond cetie organisation soit plus onéreuse que toutes les autres, et certainement sans quielle puisse éire entachée d'injustice ei d'éire aussi préyudiciable sous plu- sieurs rapporis que la loi de la conscription pour l’enireiien des plus fories armées permanentes. Revenant de ces dissertauons à notre sujet spécial, d'après les exa- mens faits pour le choix du meilleur iype de fusil rayé se charseant par la culasse, il faut déterminer le choix des cartouches, les formes desquelles substantiellement se réduisent toutes è deus sortes. Dans la première se classent les cartouches où la balle n'est pas ensaboiée, où elle est d’abord cirée et puis enveloppée du papier de la cariouche meme, le tout lubrifié d’un gras composé de suif ei de cire, comme PAR JEAN CAVALLI. 561 on l’a prescrit dans les programmes anglais. La deuxième sorte de car- touche est celle où la balle est ensabotée, c’est-à-dire , est enfoncée dans un sabot préférablement de carton assez souple, qui en augmente notablement le diaméètre, et la rend ainsi presque indépendante du calibre du canon du fusil, où l'ensemble est aussi enveloppé par le papier de la cartouche, laquelle seulement est un peu lubrifiée de suif. Pour ces deux sortes de cartouches on exige qu'elles contiennent l’amorce fulminante d’une manière à assurer l’explosion de la charge de poudre dans l’îame du canon du fusil, mais jamais en dehors du canon méme. Puisque avec la deuxième sorte de cartouches cette condition est bien remplie, elle paraît déjà préferable, surtout si l’expérience confirmait la présomption fondée de pouvoir òter le peu d’infériorité du tir due à la cartouche prussienne, moyennant celle modifiée de la colonne n° 11 de la table VIII, infériorité qui du reste n’existe que sur les résultats du meilleur fusil suisse 1863, où l’on fait nécessairement usage d’une cartouche de la première sorte. De plus, moyennant le susdit sabot, on eviterait l’abondant graissage de la cartouche, embarrassant par soi- méme, et parce que dans les fortes chaleurs il fond et coule jusqu'à l’interieur, endommageant la poudre des cartouches. On obtient encore avec l’usage du sabot l’avantage d’écarter la possibilité méme de l’usure de l’àme et des rayures du canon de fusil et de tout autre dégàt et souillure du plomb mème du projectile, en obtenant évidemment un plus parfait nettoiement de cette àme. A l’appui du choix de la deuxième sorte de cartouche, qui a pour elle l’expérience favorable d’une grande guerre, nous ajouterons que lors méme qu'il résulterait encore une infériorité dans la justesse du tir, telle qu'elle est rapportée à la page 14 de la Revue militaire suisse de Vannée 1865, ce tir ne pourrait plus étre d’une tension inférieure, vu l’accroissement de la charge de poudre relatif au poids réduit de la balle; infériorité du reste qui peut dispa- raître en se réduisant très-probablement à moins encore que celle qu'on a trouvée dans les expériences comparatives citées: Aux distances en pas de ........... {oo Goo 800 1000 Rayon de la meilleure du fusil prussien 27 46. 69 96 moitié des coups en centim. ) N SIISSe 299 007 81. En presence de cette infériorité douteuse, que du reste l’expérience peut résoudre en peu de temps, il y a encore l’incertitude qu'il puisse Serie II Tom. XXIV. Si 962 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC surgir des inventions de nouvelles armes mèéme avec des cartouches sans sabot, où l’amorce, ou la boule fulminante, soit placée d’une manière aussi rassurante que dans le sabot prussien, et qu'elle soit d’une explosion également certaine, avec un engin mecanique au moins aussi nouveau, simple et efficace que l’obturateur prussien. Mais il n'est guère probable que la transformation de l’ancien fusil au nouveau système puisse se faire aussi facilement qu'à celui prussien moyennant la cartouche à sabot: et quand méme on aurait un nouveau type de fusil avantageux, vu que pour en pourvoir l’armée il faudrait trop de temps et de dépense, il peut étre bien plus convenable de commencer par la transformation des fusils existants, qu’on peut effectuer avec peu de temps et d’argent. Quelquefois dans l’engin obturateur de la culasse du canon de fusil, pour obtenir une parfaite fermeture simple et d’une manière facile, il faut interposer un corps ductile et élastique, pour lequel, jusqu'ici, on a préféré la gomme dlastique ou le feutre imbibé de graisse qu'on place derrière chaque cartouche, ou devant l’obturateur lui-méme, de manière qu'alors il n'est plus nécessaire de le renouveler à chaque coup. Une pareille garniture pourrait bien étre appliquée aussi au fusil prussien , si les avantages compensaient l’embarras qu’apporte une telle addition ant à la cartouche qu'à l’obturateur; ce qui ne paraît pas encore résolu. 15° On est enfin conduit aux conclusions générales suivantes: 1° Que la cartouche avec la balle ensabotée peut, comme celle sans sabot, fournir des tirs satisfaisants; et que, pour les cartouches sans sabot, il y a encore lieu de chercher un autre moyen d’amorcer et d’en assurer le bon effet par une experience plus soigneuse que celles ordinaires; ainsi que de chercher un meécanisme pour charger l’arme par la culasse, et pour en faire partir le coup; le tout meilleur que le fusil prussien. 2° Que la charge de poudre nécessaire à produire le tir le plus tendu ne doit pas étre inférieure à celle de '/, du poids de la balle, y compris le poids des accessoires lancés en méme temps que la balle , s'ils sont d'un poids qui n'est pas négligeable. 3° Que la densité de la balle, quoique de forme cylindro-ogivale, doit étre la plus grande possible , et conséquemment que la balle doit étre massive, avec des proportions telles que son poids soit de 1,5 à 1,75 fois le poids de la balle sphérique de méme diamétre et densité. (ui . . 4° Qu'on peut tirer les nouvelles balles dans le fusil rayé, avec PAR JEAN CAVALLI. 565 des cartouches ne pesant que la moitié du poids des anciennes ou peu de plus, puisque l’on peut produire l’effet utile nécessaire jusqu'è la distance de 600 métres, effet ayant pour mesure la seule épaisseur de la cible nécessaire à l’arréter , épaisseur qui arréterait aussi l’ancienne balle sphérique de 27 grammes tirée avec la charge de '/; par le fusil lisse à grand vent. i 5° Qu'avec la reduction du poids des cartouches on peut aussi réduire le poids du fusil, comme on le voit à la table IX; réduction praticable sans difficulté sur les armes à construire , qu'on a déduite d’après la condition, que la vitesse d’impulsion que le fusil recoit du tir soit égale à celle moyenne des fusils ordinaires, avant et après qu’'ils ont été rayes. 6° Que la plus grande réduction possible à obtenir sur le poids total porté par le soldat, meme en augmentant de 4o à 100 le nombre de ses cartouches, resulte seulement de 2,72 kilogr. sur 28,18 poids de sa charge; différence entre le fusil ordinaire transformé et le fusil nouveau du plus petit calibre et poids qu'il soit possible de bien faire; reduction de poids qui pourrait bien étre faite , et méme plus grande sur les autres objets composant l’équipement total du soldat; ce gain en poids de 2%, 72 n'est encore possible qu’avec des balles de 16 grammes seulement; et déjà avec la balle de 22,5 grammes, il n°y en aurait presque plus, car il se réduirait à 0,5 kilogr. pour le fusil ordinaire transformé et refait à neuf, 7° Enfin pour les États qui possèdent déjà un fort approvisionne- ment de bons fusils ordinaires, leur choix d’abord doit tomber sur le fusil transformé désigné dans la table VIII àè la colonne n° r1 avec la réduction du poids de la balle jusque à la limite, s'il est possible, pour laquelle la charge du soldat serait de kilogr. 28,14. Ainsi le fusil transforme d'’après le système prussien , aurait déjà pour lui l’experience de la guerre, avec l’avantage principal, le seul essentiel, d’un charge- ment par la culasse facile, acquis par une transformation qui peut se faire en beaucoup moins de temps et avec beaucoup moins d’argent que n’en exigerait un renouvellement complet, alors seulement conve- nable qu'il s’agirait d'un modéle de fusil bien meilleur que tous les autres, remplissant les conditions de la colonne n° 8 propres d’un fusil entièrement neuf, avec la charge du soldat réduite au moins à 25, 28 kilogr. ; alors il pourra convenir peut-étre de renouveler complétement 564 APPENDICE SUR LE MEILLEUR TYPE DE FUSIL, ETC. l’approvisionrnement des armes, en réfléchissant encore, que si ce fusil neuf aura l’avantage de la légèreté, l’effet de ces balles de 16 grammes au moins serait à peine suffisant; tandis qu'au fusil réduit il resterait l’avantage d’un plus grand effet, qui, quoiqu'il ne soit pas absolument nécessaire, n'est pas non plus tout-à-fait inutile; comme on peut le dire aussi des avantages accessoires d’un fusil nouveau tels qu'ils peuvent ‘ètre , fusils soi-disant à répétition, avantageux, si ce n’est pour les troupes de ligne, peut-étre pour les chasseurs.. Les expériences qui restent à faire pourraient donc étre limitées à quelques types de fusils des deux sortes, c’est-à-dire pour la première sorte sur deux modéles semblables de fusils ordinaires, qu'on tirerait avec la méme cartouche, l'un étant le fusil ordinaire transformé au charge- ment par la culasse et l’autre semblable serait construit entièrement à neuf avec toutes les réductions alors possibles, jusqu’au poids de kilogr. 4,28 donné à la table IX, pour lequel le pas des rayures ne 0, 01375 fa o, 003054. 2 Y 2 ? Pour la deuxième sorte de fusils il’ suffirait serait pas supérieur à mèétres 1,592 ni inférieur Cl o8o=_0 089, 30045. 2 V2 aussi de n’expérimenter strictement que deux seuls autres modéles, tous deux de calibre plus ou moins réduit, pour tirer, avec la méme charge de poudre, la méme balle; mais dans l’un avec la balle ensabotée, et dans l’autre seulement enveloppée du papier de la cartouche. La cartouche pour les deux modéles de fusil de la première sorte (pl. HI, fig. 2), serait semblable à la cartouche prussienne (fig. 1), mais non égale; la charge de poudre ayant été augmentée jusqu'à '/, du poids de la balle réduite à 22,5 grammes, et à la forme cylindro- ogivale massive avec un diaméètre égal, ou plus grand que celui de la balle ovale prussienne de 13,75 mill. Le sabot de papier màché pourra étre aussi réduit, autant que sa resistance permet de bien transmettre la rotation à la balle; et à cet effet, sil était nécessaire, on ferait la surface cylindrique de la balle méme striée, pour empécher le glisse- ment; et pour en faciliter le dégagement de son sabot, on pouwra y faire plus des quatre fentes qu'ont les sabots prussiens, et les couper plus profondément. Les cartouches (fig. 3) respectives appartenant aux deux modéles de fusil de la deuxième sorte susdite, qui sont peut-étre trop près de la limite de légèreté praticable , contiennent la méme PAR JEAN CAVALLI. 565 charge de poudre de 4 grammes, et la méme balle cylindro-ogivale de 16 grammes et de rr,66 mill. de diamétre : ce diamètre devient de 15 mill. pour la balle ensabotée prise sur le sabot; de sorte que les calibres respectifs de ces deux modéèles de fusils rayés, en retenant la rayure faite à dents de scie, résulteraient de 14 et 11,42 mill., car le pas de ces rayures doit étre compris entre les limites, déduites de celles des bonnes armes en usage, ainsi qu'il fut fait ci-dessus. Dans ce Mémoire on ne s'est pas occupé des carabines spéciales ou de rempart, telle qu’est la carabine francaise de 1842, pour la raison méme rapportée par le Geénéral Prosert dans son Zraite d’artillerie, publié à Paris en 1845, pag. 114: « Comme ce n'est qu’accidentellement » que cette grosse carabine forme l’armement des hommes, on a pu » dépasser le poids du fusil d’infanterie ». Pourtant le poids de cette grosse carabine se chargeant par la bouche n'est que de 4*, 94 sans baionnette-sabre, et de 5%, 69 avec ladite baionnette; mais comme on tire un projectile de 45%,5 avec la charge de poudre de 6,25 qui peut lui donner une vitesse initiale de 340 métres, son impulsion dans le recul ne résulte que de 1,3 fois environ celle du fusil ancien d’un poids un peu inférieur, tirani la balle de 27 avec la charge du tiers. Or, d’après la Gazette d’Augsbourg, le fusil à grenade de DreysE va tout de méme ètre adopté en Prusse. La cartouche en est très-semblable, par la forme, à celle adopiée pour le fusil è aiguille, sauf qu'elle porte l’amorce explosive au fond dans une sorte d’entonnoir en papier, sur lequel peut agir une aiguille è mouvement court; è cause que cette cartouche est longue de 85 millim., avec un diaméètre de 22,8 et pèse 99 grammes, c’està-dire 10,5 pour la charge de poudre et 88 pour la grenade en fer de forme ovale longue de 53 millimétres, et de 19,5 de diamétre, laquelle contient 2,5 grammes de poudre fine. On voit done que cette arme est aussi spéciale, et ne peut étre substituge aux fusils en usage. i (SA) Db Dì PROJET DE RÈGLEMENT des épreuves mécaniques pour la réception des bouches à feu d’artillerie en fonte de fer et de bronze. Di Des épreuves mécaniques de la fonte de fer des canons. 1° Les épreuves mécaniques sont faites à la flexion et à la compression sur des prismes recoupes d’un disque detaché autour de la masselotte tout près de la tranche de la bouche de chaque jet de bouche à feu, et elles sont effectuées par le moyen d’une machine qui en trace sur une bande de papier tous les résultats grossis (comme celle qu'on voit PI. I de mon Mémoire 1863). 2° Ces prismes auront des dimensions proportionnelles à la force de la machine, et pour celle susdite l’épaisseur des disques sera com- prise entre 18 et 20 millim. De chacun de ces disques on découpera avec soin au moins deux prismes grands, un de chaque còté de l'em- placement de l’àùme du canon, ayant 32 à 35 millim. de largeur, et deux autres petits du disque restanti, aussi aux deux còtés de l’ame; les premiers pour l’épreuve à la flexion, et les seconds pour celle à la compression. Outre la longueur de 105 à 110 millim., nécessaire au moins pour la partie fléchie, ces grands prismes auront encore 50 milli- métres au moins du bout le plus sain pour la partie retenue, et 5 millim. en plus de l’autre bout, pour la rainure faite du còté le plus sain de la largeur à angle droit dièdre, où s'appliquera l’aréte du crochet fléchissant. Dans le méme plan, passant par cette aréte sur les deux còtés au milieu de l’épaisseur, on creusera un petit trou conique, où l’on attachera l’ar- ticulation à tracer les mouvements agrandis du bout du prisme en essai. Les petits prismes auront le còté de la section droite carrée de 10 à 11 millim., et 27 à 28 de hauteur. Autant qu'il sera possible ces prismes, grands et petits, coupés du méme disque, auront respectivement les mémes dimensions. PAR JEAN CAVALLI. 567 3° Sur le milieu d'un còté de tous ces prismes on tracera légère- ment au burin trois numéros, le millésime à gauche, celui méme d’ordre du jet de la bouche è feu, lautre à droite, le numero d’ordre de ces mémes prismes; 1 ou 2 pour les grands, et 3 ou 4 pour les petits. 4° Les données et résultats pour la fonte de fer pris à la limite de stabilité élastique seront enregistrés conformément à la table X. A la suite des numéros d’ordre susdits viendra le poids du mètre cube du prisme, ses dimensions précises avant l’essai en millimétres , et les résultats à déduire du tracé sur la bande de papier suivant les instructions annexées à la description et usage de la machine. > Seront acceptes les Jets des bouches à feu pour lesquels on aura obtenu des résultats moyens peu différents de ceux normaux; c’est-à-dire que d’après la fonction établie on obtiendra une vitesse du boulet sphé- rique non moindre de */, que celle 116”, 5, prise pour normale. Les jets des bouches à feu qui ne satisferont pas à cette condition, seront rebutés de suite, sans que la fonderie ait de réclamation à faire valoir. 6° En cas de reéclamation sur le rebut d’un jet de canon d’après l'article precédent, provisoirement, et tant que la densité des prismes d'essai résulte comprise entre 7,135 et 7,315, la fonderie pourra pro- céder au percement de ces jets, en attendant la decision supérieure. Cette faculté cessera dès que les résultats obtenus en auront démontré la convenance, ainsi que d’élever la limite susdite de tolérance. 106 Des épreuves mécaniques du bronze des bouches è feu. 1° Les épreuves mécaniques se font comme celles pour la fonte de fer sur des prismes recoupés des disques pris de la méme maniéère de chaque jet de bouche è feu. Leurs dimensions seront aussi proportionnées à la force de la machine, excepté qu'ici le plus grand còté de la section est mis debout, et peut avoir de 39 à 4a millim., et l’autre, mis à plat, n°en aurait que 15 à 16 avec la longueur méme des prismes en fonte de fer. 2° Ces épreuves mécaniques seront faites seulement dans le cas que le titre du bronze ne serait pas compris dans les limites prescrites, ou que pour toute autre cause il y aurait lieu de douter de la ‘résistance 568 PROJET DE RÈGLEMENT POUR LA RÉCEPTION DES BOUCHES À FEU ETC. du metal d’une bouche à feu. Les données et les résultats pris è la limite de rupture élastique seront enregistrés dans la table XI, du reste conforme à la table X. ò° La vitesse du boulet sphérique deéduite avec la fonction de ces coefficients mécaniques, pris ici à la limite de rupture élastique, sera au moins d'une fois à 1,4 fois celle normale de 116",5, calculée d’après l'épaisseur des parois du canon è l’endroit de la charge de "|, ou un calibre respectivement. Ces limites devront étre élevées dès que les épreuves faites en démontreront la possibilité. II. Des épreuves mécaniques pour le cas eaceptionnel d'avoir è faire une fois pour toujours le choix des bonnes bouches d feu en fonte de fer parmi celles existantes d'une provenance et résistance incertaine. 1° Quand on aura à faire une fois exceptionnellement, parmi beau- coup de bouches à feu en fonte de fer existantes, le choix de celles bonnes afin d’exclure du service celles d’une résistance vive insuffisante, comme une telle insuffisance peut résulter de suite du défaut de ténacité et de densité, sans besoin d’autres épreuves mécaniques plus précises, on pourra limiter les épreuves à la mesure directe de la ténacité et de la densité de la fonte de chaque pièce, en extrayant à la tranche de la bouche un ou deux cylindres appropriés au but, moyennant un trépan creux convenablement monté, de facon à pouvoir l’attacher à la bouche des canons sans les enlever de l’endroit où ils sont. Avec ce trépan on fera des trous cylindriques parallèlement à l’àme, qu’après en avoir extrait les cylindres on bouchera avec de la tournure fine de fonte de fer mouillée avec de l’eau saturée de sel ammoniaque bien frappé dedans. 2° Ces prismes d’essai pourront avoir 24 ou 34 mill. de diamétre au moins, et 5o cu 140 mill. ceux plus gros; pour le cas qu'on voudrait en recouper des prismes pour faire les autres épreuves plus exactes ;' prismes qui pourront encore avoir 12 pour 20 mill. de section. Pour mesurer directement la ténacité avec ces plus petits cylindres on en réduira le diamètre au milieu à 20 mill. sur une longueur de 30, afin de former les tétes aux deux bouts pris dans les tenailles appropriées à cet objet. PAR JEAN CAVALLI. 569 5° Les bouches à feu en fonte de fer que l’on reconnaîtra ainsi avoir une ténacité inférieure à 18 kilogr. par mill. carré, et une densité moindre de 7,135, seront retirées du service, et pour celles qui ré- sulteraient avoir une densité notablement supérieure à 7,315, on les soumettra à l’épreuve mécanique complete. Les limites de réception de ce projet de rèéglement pour la fonte de fer sont prises les plus larges possibles, d’après l’expérience acquise, en partant de la moindre ténacité de 18 kilogr. par mill. carré, qui résulte avoir été la moindre limite inférieure prise en Suède et aux États-Unis d’Amérique. i De l'ensemble des épreuves mécaniques qui ont été faites, il résulte aussi qu'on doit réduire environ au tiers cette ténacité de 18 à 16 kilogr. pour la resistance à la limite de stabilité, et de méme à la limite de rupture ; la resistance à la compression de cette fonte de fer la plus ductile admissible étant de 48 kilogr., elle ne sera plus que de 16 à la limite de stabilité; coefficients, ceux-ci, qui sont seulement les */; de ceux appartenants à la bonne fonte de fer; lesquels, avec les vitesses d’im- pulsion de ce metal méme de 12",93 à l’extension, et de 25",86 à la compression, donneraient aux canons la résistance vive normale cor- respondante à la vitesse du boulet de 116", 5, qu’effectivement il regoit de la charge de poudre du tiers; vitesse qui se réduit aux 5, de 116", 5, ou à 87°, pour ladite limite inférieure provisoirement choisie. Serie II. Tom. XXIV. : SZ i pad ju o Di RITIRO ESTTICA NOR: GALAN 047 Mi DR dina defi wa VO sr sp solai “i ef ur , Soteaga Tila sodtitortnonoe. EGs DAI FACA Sn barinst ua 1 prttrerottrta POETI i ì & des [agg + 4 di è POCA, è: } I a, di ti PAPI r' ita t i CATALA it 4 $ ‘ vi RIA, Nea ist SAT i of nigi ° Leti in saba Hr lt Sete ipo SI alsoit dl L + Dia feurio i ssap i ‘001 i one mi ù } ; nre fiala rantatizionst ptt dg ppi Foti Lia no TIST ray al ir Vpiserols MORI V ESC NARI e Vi ABITI Teo "mig; pr: Mb 8 «Amano ba EOGISE “piob ta sof 6° Air lb Sadr bitte Ki i i gt fanne Penta et (E ac La stò lea ci e 204 g sog n tl “ebalina agli Li (3 pv paga fia iis oi va Dea farab Urpsa da oBvatiait Fini CU aa ben ai "St af micot srai Ri acriebb de LIA LI cr Pole ia sa si9. ago 38 (EA k age al ii bian MERE ‘ab enni Laghi fp AE Pesi stra pg ai dal niet ate RE cm p cfr PITOTO siti | ig to or rose sp cl cpr n prio “it Porgeont, de trà he cagna dg Vee Li Airneto Plnera valso dust pote Men 20 RA ut Pi) pi di £ du mA Cai w Pe MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. PAR JEAN CAVALLI. 571 TasLe I RESULTATS des tirs de coté avec les canons à ame lisse de 16 cent. 1 longs. = Observations: employé par le pendule Distance i =- du point de culasse au point frappé Vitesse initiale Quantité de mouvement du canon Projectile ‘ du petit projectile Corde parcourue N Bi x my? _— -—__ | N° d’ordre des tirs (>) kilogr. ilogr. | mètres | mètres i {5 kilogr. Boulet , 025] 0,48 | 3,03 | 808, 463] 2 1666, 48| Les causes considérdes par De ANTONI suffisent pour 0.48 | 3.01 | 813,835 FA 1688, 71| expliquer l’irrégularité de È 2 3 7 2 ces résultats: et cependant de leur ensemble il ressort 0,48 | 3,055] 801,848] 2, 4 | 1639,30| suffisamment qu'on doit retenir à peu pres comme 0,70 | 3,03 589, 943 b 1774, 73| constant et maximum le travail de la poudre opéré 0,67 | 3,03 | 564,660| 2 1625, 88| sur un, quel qu'il soit, de ces petits projectiles. 0,685] 2,99 | 585,024] 2,9832 | 1745, 24 0,85 | 3,06 | 473, 296| 3,6202 | 1713, 42 0,63 | 3,04 | 434,115) 4,23 1847, 80 0,70 | 3,04 | 321,861| 4, 1584,80 Tage HE RESULTATS des tirs de coté avec le canon rayé de 16 cent. 4 long. Distance S- du point de culasse Observations par le pendule au point frappé Vitesse initiale Quantité de mouvement Force vive Projcctile du petit projectile Corde parcourue a) N | N° d’ordre des tirs kilogr. kilogr. mètres 3 kilogr.[Obus du poids| 0, 025| 0, 2,97 | 584,230) 1, 48956] 870, 211 Le) grande impulsion causée dela me paniere ar Ce trai ne e Dod e fusi qui enfin 5 5 ,40 | 3,06 | 667, 114| 1,70090|1134, 689| £°Ete rompu. A cette cause sont dues les plus ersudes È irrégularités de ces résul- » 41) | 3,06 | 683,793| 1,74341|1192, 130| irréeuanitée de ces rel carleut pas trop dans leur » ,48 | 3,05 | 803,162| 2, 04780|1644 710| ensemble de ceux précé- - demment obtenus avec le tir à boulet. ( 2,95 | 363,565| 1,85392| 674,010 ———————___ ‘soqpnoq ty Y 39 a9g1d U[ op sg1d usseo JISNJ Op uouto AT ‘aqonoq V] op 01jgu “topp Un Y Essto JISnJ Op UOUuLd 9'] 08 ‘8/88 ‘C0g1|49 ‘cos|ogo “€ 00 ‘4/99 ‘4881|1Y ‘809/086 ‘G 09 ‘GIGI ‘O6LT|1S ‘@6€|090"£ 00 “G|E8 ‘E881|V6 ‘069/000 ‘£ 00 ‘04 "PI PI 09 ‘4 U Bo] 0E *p oaputo 009 MEMOIRE SUR LES EÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. ‘somQuigiu 4 Qp questI99,s sa}u9y boro uo essto qenoq o] sietu ‘opioo op meo9 -199 un sapnoolotd xnap se] 01} UT ‘[DI SL Op 19jnogg J 19 *190|D] 06 Op capa ‘PI ‘PI ‘PI ras rra teo 190|1] 08 op equo} op oipui *‘aSo[n] GI ap q9nog ‘op 09 PI ‘Soy €y ‘PI serate AS0D] 00 op 9quoy ap 9aputko) *'180[b] GL Op 70|nog "DI ‘PI ‘PI PI 1901] Gy op owrduro9 o|qes 0 0jiSae;porpuiXo J ‘PI "‘ado[bi GI Op 10Mog 1/90 13011 09 9 (17280) OLL ‘0 oIL'0 <69 ‘0 00 ‘eieL ‘9802/00 ‘#£9|066 ‘@ 00 ‘9/68 ‘GI13|89 ‘999/090 ‘€ 00 ‘c| LG ‘0181/8 ‘C66/0%0 00 ‘| 1 ‘LIBI[G6 ‘966/096 ‘@ Le ‘0 0gL‘°0 coL 0 790 c8‘G/01 ‘eve1|00 ‘GGP |SL6 ‘© 09 ‘9/88 ‘7601/61 “119|090 ‘£ 00 ‘916 ‘1603/67 ‘ovg|oco ‘© 00 ‘c|96 ‘8401/07 ‘995/096 ‘€ co‘ (SCHRO) 0780 0640 (IASCO) 084 ‘0 08 ‘(01 ‘8907/66 (CEO|eLO ‘€ 08 ‘8/00 ‘8601|96 ‘evy|ovo ‘£ 00 ‘8/00 ‘L094|10 “GTL/000 ‘€ Oprun ce “GOL ‘ELEL|VS ‘108|096 ‘@ « 07 |a ‘0I81|E8 ‘C69|060 ‘£ « |00‘0861|ce ‘19/060 ‘€ 989 ‘0 0040 soIIQuI 08 ‘lv ‘SyLI|TO ‘C8e/066 ‘6 09 ‘ele ‘VLLI|Y6 ‘688/080 ‘£ semQu sues 060 ‘0 ‘190 008 ‘4e 11901 C. à IS d - sIQ p_ mao È ENEIRAE]®) qa empuad a] 1ed MAOTANO ITILOTIOUA ST sUuOYDasasqo sp sap ez ela v10ddey JInonsuoT amoafo1d al SULS NO 29IAF 29ueI ampuad np aSIego el èp È. 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TasLe VW TABLEAU des coordonnées des courbes relatives à la poudre brisante (de Wetteren 1850, Belgique) pour les bouches à feu en fonte de fer, représentant la loi des vitesses du boulet, des tensions des gaz enflammes et des temps écoulés pendani la course du boulet dans le canon. o 9 10 -—1 © I CI 19 IC rS 15,50 31,00 62, 00 90, 00 116,00 141,50 166,00 189,00 207, 50 224,00 238,00 249, 00 258, 00 271,00 279,00 285, 00 290, 50 298, 00 303, 50 308, 00 312,00 315,50 330, 50 343,00 353, 50 361,50 378,00 390, 00 399, 20 407, 80 415, 80 2655 10621 13926 16666 19940 22475 24022 21215 19761 17680 15792 13544 9734 6167 4725 4415 3088 2306 1914 1724 1525 1370 1185 1126 799 574 428 338 323 306 0",000373 186 tti 81 65 54 33 0",000063 61 59 58 0”,000116 ili 109 107 105 516 495 47 466 0"”,001353 1302 1268 1240 1213 423, 20 430, 03 (1)426, 28 442,13 447,778 453, 23 458,48 (1)463, 54 468, 15 472, 20 475,75 479,05 481,99 484, 60 486, 90 489, 05 490, 90 (1) 492, 43 493, 85 495, 13 496, 28 497,35 (1)498, 28 499, 05 499,75 500, 405 501, 000 (1)501, 550 LILLO DOPU. dedi de dm mm mmm 9 _@ 0 0 w So Sw ww [es & pub i a n La DO ao (ns i TOTAL Jusqu'au maximum de tension (1) Vitesses trouvées par expérience avec le pendule balislique. 0,0397487 0", 000918 0,0010018 0,0009998 9986 9965 | (Sad PAR JEAN CAVALLI. . 57 Tasce VE TABLEAU des coordonnées des courbes relatives @ la poudre des pilons ordinaire, que les bouches à feu en fonte de fer peuvent à peine soutenir, représentant la loi des vitesses du boulet, des tensions des gaz enflammés et des temps écoulés pendant la course du boulet dans le canon. x 5 (O) 4 | t | x 5 (o) d t 0 0 30925] » 0 110/,50 | t/a, | 25725 | 838at.|0”,000163 RE 7,85 | 170at.|0”,001472 115 id. | 260,15] 833 161 2 id. 15,70 681 736 1Cal°| id. 263, 00 826 160 3 id. | 23045 | 1004 432 ii | ik | 278,55| 796 621 4 id. 31,05 | 1304 308 AR3/E id. 283, 55 775 598 5 id. 38, 50 | 1585 241 I SY id. |(:)292, 50 723 579 6 id. 45,80 | 1848 _ 198 LATE id. 300,70 | 681 562 1 id. 52,90 | 2076 169 TO sa 308,30 | 656 547 i) id. 59,80 | 2387 148 2 id. 315,50 | 628 542 9 id. 66,50 | 2462 132 dA id. 322, 30 605 523 10 id. 73,00 | 2622 120 DIG id. 328, 70 581 512 ii id. 79,50 | 2856 109 2, id. 334,70 | 555 502 12 id. 86,00 | 3089 101 3 1/o 351,00 527 0'”,001459 13 id. 92,40 | 3268 93 3,5 id. {(1)364,00 | 435 1399 14 id. 98, 60 | 3338 87 4 id. 376,00 | 415 1352 15 id. 104,70 | 3468 81 4,5 id. 887,00.| 392 1311 16 id. 119,70 | 3670 viel 5 id. 397, 50 384 1275 17 id. | 116,50 | 3734 73 55 | id. | 407/50| 375 1242 18 id. | 122.00 | 3708 70 6 id. | 417.00] 365 1913 19 id. 127,20 | 3655 67 6,5 id. 426,00 | 353 1186 20 id. 132,10 | 3577 64 vi id. 434,50 | 340 1162 9 id. | 136/70 | 3474 62 7,5 | id. | 14250) 396 1149 292 id. 141,10 | 3430 60 8 id. 450, 00 297 11921 23 , | id. | 14530 | 3359 58 8.5 | id. | 45700] 294 1104 24 id. 149,30 | 3300 57 9 id. 463,50 | 277 1087 25 id. | 153/10 | 3215 55 9,5 | id 469,50 | 259 1068 26 id. 156,70 | 3112 54 10 id. 475, 00 240 1058 27 id. 160,20 |:3098 53 10,5 id. 480,00 | 211 1048 28 id. 163,60 | 3075 5i 11 id. 484,50 | 201 1036 29 id. | 166,90 | 3043 50 11,5 | id. | 488750] 180 1027 30 id. 170,10 | 3007 49 12 id. 492,00 158 1022 35 1/;, | 183,00 | 2609 |0”,000236 12,5 | id. | 49500| 137 1013 40 id. 193,50 | 2245 291 13 id. 497, 60 119 1008 43 id. | 202.00 | 1892 21 13,5 | id. | 49985| 104 1004 50 id. 209,50 | 1736 i 203 14 id. 501,85 93 999 55 id. 215,50 | 1429 196 14,5 id. |(:)503, 65 84 995 60 id. |(x)221,00 | 1343 191 15 id. 505, 25 75 993 65 id. 226,00 | 1249 187 15,5 id. 506, 65 66 987 70 id. 230,50 | 1146 183 16 id. 507, 85 56 985 m5 id. | 923450 | 1036 179 16,5 | id. | 50885| 47 984 80 id. 238, 25 987 176 17 id. 509, 67 38 983 85 id. 241,75 947 174 17,5 id. 510,35 32 982 90 id. 245,10 907 171 (EEE PA, 95 id. | 248,95 | 863 169 Do 100 id. | 251,30 | 847 167 Torat...|0",046878 105 id. 254,30 843 165 Jusqu’'au maximum de tension’ | 0,0045377 (1) Vitesses trouvées par experience avec le pendule balistique. 576 MÉMOIRE SUR LES ECLATEMENTS DES CANONS, ETC. TasLe VEE TABLEAU des coordonnées des courbes relalives à une poudre inoffensive pour les bouches à feu en fonte de fer, représentant la loî des vitesses du boulet , des tensions des gaz enflammes et des temps écoulés pendant le parcours du boulet dans le canon. 4 1a - 189,38 | 5602t.|0",002546 217,15 2153 241790 1900 264,30 1729 284 85 1579 303, 91 1480 321,40 1394 337 85 1321 353) 40 1261 368, 10 1213 389, 10 1161 395, 40 1121 408, 00 1085 || 419,90 1053 431,10 1023 164 441,60 | 42 998 155 | 451,40 975 147 id. | 460,50 955 141 ; id. | 468,50 938 iù 475,00 | © 923 10 481,00 913 so 486, 25 900 io id. | 490,50 392 no _ | id | 49625 885 E, id. | 497,50 876 tt id. | 500,50 871 10, id. | 503,95 868 da id. | 505,25 867 ni id. | 507,00 3 860 642 |0",000373 id. do 55 de 629 352 10: ORE, È ._ | 510,90 850 607 334 id. | 510,85 849 114,00 | 580 |0",001488 130,00 | 575 1277 ToraL...|0",055111 144,25 | 568 1136 157,25 | 565 1005 Jusqu’au maximum de tension |0",009725 » 0 421. | 0",002963 1481 868 619 485 399 339 297 266 243 219 201 187 175 (°Li (S1I (514 (314 NoXJeNe ie ASUS Herero \A SITO TO (213 qu au a Les coordonnées de ces trois tableaux présentent encore des irrégularités, qu’avec plus d’un calculateur on aurait pu faire disparaître; car le calcul numérique qu’il faut faire par supposition, dépendant des trois courbes, est tres-pénible; mais ces résultats, tels qu’ils sont, suffisent déjà bien au but. 977 CAVALLI. PAR JEA (0+5) £ Suez (9-+ 8) nos A 6 uos (9 s00—1) e] op 2110213 3uawraAnoI np atuoAoId quod uarssnid {rsnz np 9)mpap 09ue]sIsp1 opueis sn]d 07)90 onb quessigogypi ua mozms * ° PRE i quos — DZX O[CIO E] ap 99UEIsIp E] ]80 v no ‘oquesggns uonewixoIdde,p sonurtoy so] 99AV SAPMO]EI 919 quo sapuuopioo9 so) (£) ‘sfuo]. do1 39 xno1ò sopnoafoxd sino] ans une,] op o0ueIsIspi opueiS snjd oun # nor] souuop issne qnod ossins JIsny o] onb 30 “afeao aleq Di spAno1) e uo,nh sprodder so] uns afqusuas a9Man]yurp sed e,u e[a0 sie ‘Li‘o g or‘ ap owuio9 Imoripdns aAn017 2] uo ‘uarssnad gisny. np sq sop s}e{so1 sop qmppp of uo Is ‘mad dor 10 pAr1 uouE9 NPp_am np qmppp mpoo v [esp sud e uo,] anb ‘ite, ap 29UEISIs9I E] ap qua19gjooo a] anb amoso g IMpur Pod :sa0770)40d nof v sap ‘mamovag sed #7 «Sed ef gr spuuop xnv9 ge sInojIpjur nod sed quos ou sa]Sue soy (t) *SaSsI] s]IsnJ sap 911003 uo omenrpio 337a,] anod sorstogo e uo,ub sapano1) so1putow sap 359 94% ap ar[od :9Irug quoa un Imnod 21[qe}? otps E[ ap so}uepuodsa1Iod sa][99 % ‘217?,] JUAATOP SOT[® auttI09 *so1morIpyuI quos sossoNia s0) (1) lor Ls "'AÙ=A'Ò LL * quam poexa Uoa Is *quowoanewrordde 359 NO 240) = (4) KA 9L0 ‘K “88 ‘0 gg*d ‘gggi 2410/97 I MOA G8£ VALLI VG 00) 0001 | SUOYDALISZO o‘tog | o‘zos CJAICA #'10€ 96° 1° 1660 tk8%0 €91 696 ‘0 Lia 4 886 ‘0 CIAD ; Va °4 Y68‘0 018 ‘0 £83 10% ol (c) ,Y ok 000Kk VARA 186 06 G8£ 8E EM ok| Mok (7) L,8600) £906 0005p = |000KK 99° | 4% GL (1) yer [Hoy o‘ore] ose MG 00 |G 01 8‘Lie| +‘sce cos {ec [ore 6L‘6 0160 IsL‘0 669.‘0 990 varo 09 ‘0 860% 0260 ; 0180 166 ‘0 14E6%0 606 ‘0 L9K 19€ 0€ IVASIONS È 000£ Fed? 164 ot G ok 0001} cL' VELA LA GV op 19 06 0004 ez 184 0£ aLiG of 000. cL Ver ‘524924 009 9P 00unISIP D) % 19 spad ap sqm) su ssaa sp. s/yv DIEA (0 4 E! 7 ; ooo) ofeIe| v‘61e| 1" > Sh Y8K 68 166 08 | (RG 06 Ot 06 | MX ok 8006 |000Kk y £ 1 ST_| 056 o'9e | 0° OG :LE |OL'9I 08 “LE [08 ‘4 * dIIUI Op o][onsia UT ans ostid InOneY | 99A8 90UU)SIA | (1) AIN rvetee*1*801]0UI UO 0110] -99fe1) e] Op queuttumno quiod np anoneH ‘750.191 _009 ® Senti sod) (i EROI; ** Solgio Sop sepIe]uo somIed sop suofea sop sproddey ‘" S919QU1L009 V ‘**SspId op so][eq so] 10]g1Ie inod soares -5909U Sofqro sop sInossiedo sop sp1iodde ‘’Soljouu uo o[moofo1d ne 9juezso1 ASSANTA serate *ajmoofoad np o,nqo op o1duy Sa ‘a1) Np uoNvAo9P. 915UY ttt SQUIAVIATO]M ud ajppoford np onbiqno gun ep SspIiod si sneteeeseeet.*‘oq]gueIp owgQui dp sonbriogds soleq uo opnoafo1d np spiog *’S01}QUI UO O[UIQIUT OSSONA **salleg uo eIpnod op eSaego vr ep SpIiogd sowie uo oapnod op 93109 el ep Spiog titre SQUWIIS UO o][uq ©[ OP SPIOT do "pi Oleg | Op 2a QUeI( ***S0MQual[jiua uo JISNJ NP [ewwdOU AI?) sopsoddns no s0A1)99]J9 SoWIO SsOp MUCHO, CA SOVSINANN duoo SIVITASHY LT SHANNOA Serie II. Tom. XXIV 978 MÉMOIRE SUR LES ÉCLATEMENTS DES CANONS, ETC. Tape EX DONNÉES diverses pour les armes respectives. Aux colonnes suivantes de la table VII des n9s Poids de 100 cartouches Poids du fusil avec baionnette Poids total de l’armement (1) Charge totale du soldat en guerre (2) Réduit à kilogr. | 28, 00 5 26,20 | 27,86 avec 100 cartouches et équipement ) pncore plus réduit | 25,04 | 21,52 | 23,34 | 24,90 (1) Le poids du fusil nouveau de la 8° colonne a été réduit d’après la condition que la vitesse d’impulsion S 1 o : L qu'il recoit du tir fùt de 5 (4,02-+5,42) —=3,77 mètres par seconde, moyenne de celles respectivement im- primées au fusil ordinaire lisse avant et après avoir élé rayé. Ces vitesses d’impulsion ont été calculées comme il suit, avec la formule du Général ProBERT; de méme que les poids que devraient avoir les fusils réduits , le n° 9 suisse, le n° 44 italien, et le n° 40 prussien. 2 12. la vitesse 4°, 020 = 446 ni 027 GIGA si + (08 nre O) 4,800 ) \46,7 446 0, 036 AT:ZN®, 4 420 m 2 Bas +— SSR 4,800 41732 8 (03 355) | 0,016 4 120 3%, 033= 404-272 | A +4-(05+77)| 0, 0187 420 377 i ; “als 0, 0343 420 k = È 4k, 234 = 378 3,77 i ++-(08+ CS) » id. 43, 280 = 464 3052 | 4A 13) (1) Avec 40 cartouches seulement la charge réduite d’ordonnanee en 1866 pour le soldat italien en guerre ne serait que de 235,6 kilogr. au lieu de 28. Ici tous ces poids ont été déduits pour 400 cartouches et les armes supposées telles qu’elles sont: et on a retenu, à la première ligne, la réduction susdite d’ordonnance en 1866 de l’équipement; tandis qu’à la seconde ligne on a supposé une plus forte réduction de cet équi- pement, qu’on peut bien faire sans difficulté relativement à l’importance de celle qu’on voudrait faire sur l’armement, fusil et cartouches. 2k, 867= 434 002% QQ - alLeg‘6= 20] 80] 3 e Legs PARE E È 2 A lati 74 CU al 4 049 009) DITE i GTYI ‘oummesSo[ 1] 9] 79 2I1]QU1 o] quos oinseu op SQuum so[ mo ‘saqueAIns so] quos 10} op 0]uoj uo noj e saonoq sa[ Inod e7Ijiqe]s ep ejruti e[ e s}ej[nsoa sop [no]ro e| anod so[nuaoy so] | alleanza pani o L981 i =Sait = \|I_|__|_|_—|[==|% (96681 |-mnuso 68 6p uomo È —_ —_ 0 || sull E cLaa=ls= = = wp È -}_ SE Ele = ce 9981 < ser So =È fa ini init | morini lince || SPESA 946 | 00% |"taguoo gx op uouen (Si n i 06 2 -=s===E=\ z - (a ||| ,’ n LÀ n Y die eee i È 1 ”» © s e ti El [mn (SA a) la ; «An | BS esta] SI È È o| È a E S o | È di 3 | ES E Ist Scozia fe UE Bellona inS4Ma o È E SSA © F S: 2 E È SISSI 5209/46 op fo L=; SO QI ® E ® L=) ce | BP È E EI BG E © Z SEDE | 3 5 FA oe pis) Ù E E E Prà Le) E È © DR bei CI SOI Paso |a 5 PrelaS2\EG | Rec aio SS 5 Sal so 8 53% |S2t E Bor |EZslca ESE EP | ga Se 99 | 8 S zogr|Eoe___—__—_-|&5gG esige (=> =—| SÈ ge RE Sg | &2 z ©) noj ? sorponoq ESEE|CRE PARI) FS8 | 2| 510 | que)sispi ousnd |FSE|® | fu qUVISISPI Sg Ri “Ba c|43 ompuiiu {°& | El np © |EE| Az | ousnd np onaed Fi S| E n sop 535 |Be ed ie DI E sOqOuII|| IU uo IS “e |©8 CI Op [(C) = ai ri Feo |Be Q0ULISIS9U E SUE SUO[SUIMU[T E È © | sopugiuuo |EE| © | 8 QUqHUD 19 992087 Hi Ga SUOJSUQUI CARO ì © i o , uoIssaiduo9 v| © UOIXA]} VI ® VATI IVITASTI li o È È ui STCUIII\I i ALICI: SINDINVONE STAOMIAY SIG SITANOG. | SINDINVORI STANIMAA. STO STANNOd STIVUINYO. STIMNOA ‘anbyso]? p]Y1qDIS D) ep au Dj v af ap 2juof uo no) n s2yonog sap sanbiunopw sasmaudp sap s1v)pnspa $0p 12 SoQUUOP SIP IUVI, XK M'IAV ] MÉMOIRE SUR LES ECLATEMENTS DES CANONS, ETC. 580 *X 0JqE} E] Op samurioy so] 99AL È) 2 7 9p sIMofea soy domo]eo elmod uo ‘aLt09qI ef aLd sostUupe so]Mut] so] SUEP s9}IMP9I ISUIE 7UE}SOI SUOIA]} S9] 39 :Quotuo]371 ap Jofo1d np III $ MP £ gU ne sainpop ‘jo[noq np ojewiou assoniA e] stoy 4 “1 R-1 Op soMiur so] 09uanbosuoo ua 10gipow w qreIne UO sIo]e ‘ dnconEAq 01puroI]saI 9] op utuoauo? Nesmod | quepuodo”y 66 ‘6 ‘arpsns 2302902) E[ op 099 2p oxfue,] ommofetu ou mod snjd ne a1owpe Iroanod mod afquey zosse 210909 359 InD assolra : 0xg1wua1d amutu oun SUCp samguI[u 6 op no Le op INCH Hit 3 anh qresos 9u of[opt 21129 92 *somgungru 60W=% "n OP WEIOIMSII AIPuesde aquessI]oa]f 0S1eTo e] ap ossozta E] ‘somgugmu 1g6 op Inanfuo] es ammo) solgrward sojnutu 6) uo uoarata quemooIed apurq 999 IsuIy “apuoSur) opp99 aed Jorded op Apueq e] ap ossona e] quergjdinu uo ‘uotxof; 0)]99 quepuod asmhor oSiego ef ap auuafow assalti ©] op morssoIdra | qreme no tessa.] ®p quod 99 y ‘olrpsns aufif E] 2942 9ILI} Mowwa][991 Sie, ] ap @pi09 EI 21]u9 Ie affue,] ap o)uosue} E] © [esa ISIOTI resso un suep 9AnoI) *19-1n]a9 ‘“Lioddrer ‘5/6 eipurofa1 “na sed qreag,U Uotra]} 97}a9 18 UoAe1o a] nimooIed preme, nb oHoIp QUSI] E] 9aAr UoIX2]} 2199 ep quodder a[ ‘ttt99]y R queamsinod 39 quawragqe)s sn]d queuanos ej au 2121}ua aSieyo es ndal JIOAB sgide ‘ressa uo owrstid of onbsio] ‘03g[dw09 sed q10s ou a][a,nb ToALLE assnd fnbronh ‘armdni e[ not] ItoAr su[d ne EIpuorjor uo aZUOIq a] QWWI0I SO[monp-sg1} xnejpur sa] INOg RM ZI) e Ne) = ATUI TRACgInA DE lulbe tag A Sag ‘aurea S0]1] 0] 79 0179 0] quos c GETZ —'0 Toda QINSOUI Op SpIIUN SO] no ‘s9JucAINS so] quos ‘ozuosq uo noy e saonoq so] anod eImdna op onu] e] v ‘sjenso1 sop [nojro a] anod sojnwioy sot si uU —_ | —_- [| __-_ [| — | —- [| — —— Vv | Cecieclcale=e=ile=Sie=% 4 0g ; 8981 "===> li fa 87 | SEI [06801] 06 | ‘'Umueo G ep uouen —_— (e) —_lel|==1 alal {al —_ [| —— == ne > => — y — [i_-|-|-|—-|--|—- ESE 0981 ‘ a E lea ni ica] a a 09 | OS] |EGFFI| 68 |'WU}uoo I 2p uoue) pass 0 Î allea ao | n 5 essa = — I n | mnn | un ——— — Il a) A d Hd Y YI T A x d Y 2 T a L YU -—————____ ______________ _— ——_ ____yY—P —t— tl Ò@ tfr COSE EA tt ess ass) | = = = = E (DI la) la) ti a) H De) sonbiur99w si | S| è È 2 "a > | È Ss _|Fos 3 S| ouuISA ru Ù pE pio D. dà Da pa o=| E L de E =loez S51| 55 ES > È È s]u9191]p909 a e Sg a | a n 3 ca dvisa zie Miei Rife it E120 ssi Sid NE NENZ EZ = IZ ta) [e] la E & (NA Da (21 Ha £ Hi (CS u=Mi=] Z| (Sr — DIAL sOp BS Gol e n È Sco 5 | pro9 È po £ salsa scles|se E ; T Ei Boe = 5 5 = BIS. | Zio 5 E} Bet |a] 28 2 2 A uomnIuoy ca [2g =| 6 Eisine: © Bioglas ZA GI Ss no Ss 00 ‘anbripgds E He [252/82 —_—_/_T_—_-|Il 8 IE E, | 2 __—PT—— ag | ES SAS S noy L_ soqonoq nomoq np { #os |#Ed| 3 |19%sisp: owsnd np] #58 | #8 | #3 [oyuvisisprowsad np] #3 | Fo | E°|E5|°=| s ; ape |3°8 E ‘ se |Ss| Sè amaed vr] 9p 35 | go Fsias | sap EOLO 2a, |a_® SE SO MRO IUISTO DE g3|IE z SOI ud o | 8 È SE |S5|5 5 | da 5 8 Sa IIQUIITII w THA; 2 mi CGS 2 Ca Ja |a Belzdge|Soles5|a QIqueo 39 99281] OSSONA È S 5 SUO[SUITII È © SUO:SUAA:A HEas 2 È È ; n D [lens ( YTEE® CT _-oae@"Wr—_eow=a=s_ "<=; Re ""_-—R>y<=_ =_= e60805 n |_ Ln — _—T em ì [euy uoIssaIduIo9 VI E UoIX9]J tI © TIVIAN N i IVIINSIU | SINDINVORIE SFANIUAI SIG SIANNOO | SIMDINVONE SHAMAN STA StgNNOA SMMMELLA) SEGUI ‘onbysoro a4mpdna 9] ap ajuwi vv azuosg uo na) v sayonoq sap sanbrunopgui saanoadp sap squynsai sap 10 soguuop s0P_AIIVI, EX MIT TABLE DES MATIÈRES PREFACE!S SERRA ROVAIDI OI RIT 1 MRI OOO EST TIRR TORE SOMMATRENDES: CEAPITRESEASI SIAT II CHAPITRE I. Des éclatements remarquables des bouches à feu en Belgique et ailleurs Id. Td. IL III. IV. VI. VII. VII. à cause des poudres brisantes .............. Sete ROVATO SETT SIT IaEtI Du mode de chargement et autres causes qui contribuent puissamment SMAU PtULedeSRBOUCHESFAME RR IATA Ne N Sur la détermination par l’expérience directe des charges d’un égal effort transversal contre les bouches à feu lisses et rayées; difference inappréciable d’effort causée par la rayure et le plus grand poids COS IPLO]CCUMESBITAA LIO PI ORA UNTO De la recherche expérimentale des vitesses acquises successivement par le projectile dans l’àme des bouches à feu dues aux poudres trop vives ou brisantes et à celle des pilons; avec déduction de ces mèmes vitesses. dues è une poudre inoffensive, ainsi que la déduction des tensions et des temps écoulés et des conditions de la réception la plus rationnelle de la poudre à canon, dans le but d’assurer un effet balistique suffisant et de limiter l’intensité de l’effort contre la bouche è feu... 9.0. SIRIO LEA RA A St Préliminaires et dissertations sur la détermination des épaisseurs du métal depuis le fond de l'àme jusqu’à la tranche de la bouche des CANON SERE II dovdsdUtOodona ODI LRondtan deo do Analyse théorique expérimentale des cas où il importe de savoir cal- culer la résistance vive des bouches à feu; détermination de leurs épaisseurs successives en rapport avec celui plus fort à la culasse et calcul de leur résistance vive transversale et longitudinale ........ Sur les épreuves en usage de réception des bouches à feu sur l’épreuve des tirs, de celle du canon long de 8 francais et autres, et des épreuves rationnelles è établir pour chaque bouche è feu...... cono Digression sur les métaux à canon, sur les progrès métallurgiques de leur fabrication et choix du métal préférable, en rapport è la qualité de la poudre et aux charges du plus grand effet, avec résumé des conclusions auxquelles on est parvenu................0-.-..-- NOTE sur la manière d’attaquer les places-fortes avec les canons rayés, et sur la composition des parcs avec beaucoup d’artillerie de campagne et un petit nombre de très-gros canons de siége.................. SUE a (Sag 445 CS DD (ee) 506 582 APPENDICE sur le meilleur type de fusil d’imfanterie et sur l’application du nouveau principe du choc au choix de ses projectiles.....................= Page 536 PROJET de règlement des épreuves mécaniques pour la réception des bouches à TABLE I. Id. II Ida. IMI IG IN Id. V TASMVA: Id. VII. Id. VII IGL IDG Hob 98 Gb Ddl fen d’artillerie en fonte de fer et de bronze ...................... Résultats des tirs de còté avec les canons à ame lisse de 16 cent. "/, longs Résultats des tirs de còtéè avec le canon rayé de 16 cent. 1 long... . Résultats du tir de còté du canon de 16 centimètres à ame lisse. .... . Résultats du tir de còté du canon rayé de 16 centim. et 1 long..... 7. Tableau des coordonnées des courbes relatives è la poudre brisante (de Wetteren 1850, Belgique) pour les bouches à feu en fonte de fer repré- sentant la loi des vitesses du boulet, des tensions des gaz enflammés et des temps écoulés pendant la course du boulet dans le canon .. Tableau des coordonnées des courbes relatives à la poudre des pilons ordinaire, que les bouches à feu en fonte de fer peuvent à peine soutenir, representant la loi des vitesses du boulet, des tensions des gaz enflammés et des temps écoulés pendant la course du boulet CLI SME RCIDODEEEA se IAN ONE SORIA Tableau des coordonnées des courbes relatives à une poudre inoffensive pour les bouches à feu en fonte de fer, représentant la lois des vitesses du boulet, des tensions des gaz enfiammés et des temps ecoulés pendant le parcours du boulet dans le canon ............. Données et résultats comparatifs des divers tirs faits de près et à la AIStANCERA CAVO MELE SERRE IE Données diverses pour les armes respectives ....................... . Table des données et des résultats des épreuves mécaniques des bouches à feu en fonte de fer à la limite de la stabilité élastique........... . Table des données et des résultats des épreuves mécaniques des bouches à feu en bronze à la limite de la rupture élastique ............... » 974 DID 980 583 PLANCHES Planche E. Relation entre les distances en calibres parcourues par le boulet dans le canon, les vitesses acquises en mètres, et les tensions en atmosphères des charges embrasées de la poudre brisante (de Wetteren, 1850, Belgique, experiences de 1852 et 1855), des pilons ordinaires (experiences 1856 et 1857 rémont) et de celle inoffensive. Planche II. Tir de coté par le canon de 40 (30. franc.). Planche MI. Resultats des essais à outrance par les tirs forcés et continus d'un canon de 32 (24 franc.) se chargeant par la culasse: (Syst. Cavalli) faits par l’Artillerie piémontaise en 1842. Planche IV. Cartouches pour fusils se chargeant par la culasse quatre fois plus grands que nat. —__SMNU—_ Ù RO: (CO . «hi che da nana” ì dia È = ua î ML) i Uy Na ni: Di ° | va bai ol di Aa $ 3 i f Lao e SIVE x Ri ti ù Ure — gn SUDATO NE degl » DA aa) Met ie Rei Bay ae: istante, 46, DA ghe n Ai: ko h st A Rene” ma e, o Mia NL, RE a STO DMC, rata È Mery i JE adorati È " ° tea gcha Li DL É sp pata i spit 00),,08- ol tono ‘DE ari 00 S o hi si Dt La sii A ego 9 n ami IE Slan «> A É topo EL) eta [SE SE sb og var ST lo site api dl si cogatuo, è sa na agi tici uipisioi nabadic.i “iNAb' (HlarRO. tey2)” svanita: sl: si at: TIE ano der Papa tana pin Berta r Vu dui sA14 LEQ IR TL Tn, RNTORI MN IV Tir ULI ont z "e ;3: SI ee MM ù TRO TE USI +4 SG Mor a” du) kh si to) stlanp ansi # di “inanio n di n » N Li i la Ù i i i Il i DI a - A 1 $ 3 v ire ASVATTI ca io pn A ed PPT PARATI n è Po È è ni - È - ri pui = i ne li 7 ' N“ x i è % . " î \ 7 i | 019® r , NXTIV (75M Oo o A 6 Vere 8° Lo. Ma { F, i CUCCO. (O) (I HbL giue, e olterer 1850. Bi 7 14 Yes embrasees de la powdre brisante (de Hi ‘ eres des char tres, ct les tensions cr atmosph x STAI acguises em me CRÒ ANALE fo peudule balistique) 05 Al METTA VE osta Lrouwveeo peo des G O) ISTUE. 37 ltemont }) et de celle in d ti v calibres /@ l Cchelle de # pont le 19°) dd ARE IAZ4A SZLT boulet du centre Ace [ue n) N le Ò U Ple bd: » Ò felation entre les distances er calibres parcouriwes par le bowlet dars le canoni, les vites uencos SSIO 0 SS A Per TANA 7 el 1855 ,) des pilors ordina: 19 3: sv de 18. aper Merce 2) (@ (O) i - N = ma IS | | RAEE ade a ce === -c==ne = = = ceri cc tetta nosso | I | | SEIN EE [Alt 2 SARO SSL = RS cr pecasta ns niepess ze Re - Ì | I | io RES SII ISO Soccer uliernoe ta —— = IN cosucrotracenee= 23 Aa Ì hh | e SS OSE SE SOLI GER, AES ont e Ù Ì | Ni | I È erosione ete = EEE = son = annie —rrireztroricce E _.lay ESE N ' | I n] È | | ita a RAS SITU e _ — — __ __v poi 10 (8 ] | I l I == ee rione — — — — cc Vasnarto aniznnsi aa Il | | ! ii PR MARE PISA ARIA I NE 3 | | [| I] i Sil Sil il S| “ei. ce”é wie Si] ci pio! asi 9l n0ro-c==== Sso—a= - A = == "ins RN lix 3 8SSI SISI dI eStcgl è ASS si = x Set == SEIN —_cccotcrrrlo ces sosl o ditolio nu | il \ Ì > \ \ \ 2 \ Sete ae Ra Li Laa WR ;, ae od del È, \ 2 \ Ci DA \ i‘ = “i i“; NI PPRENEREN NE — _° \— Leg es pune 2 | lar) La er Si FIORINO ea ETNA 0 E PI I ONE O IA (4 Aezisniziiboiini A Q00LG dP 2//9409. 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    x n x = È ' 5 » - » I] ti % 4 y 5 “ Doo ; Ul ll n 5 DI DIRI A î Cal n ù Z % PMI. UR andy E calano par Les lio forces ell continuo d'uv Canon de CALI fans.) , X SEA de chargeart por fa cilasse Eyst. Covalli)faito por LArtillerio CRONO eu 1842. ao L i = Eratico inforicuneo de Lo Luniira ralée 6; = ‘2 S 7 i D fig. Canina ti pirieres à 07*01 a or 01 à 0% DIS AI a fi TX A) tai Cifasse QERIENANAN apizo 568 Coupo PI > e apro 568 Coupo DI 37 ti | apro 985 Coupo 4 EER SZ pae apato 975 Coupo 750 ve: __—_—_—=— Fig 10 ed f1 sun L'A da Vo Les autres sun Lebale De grasadiue nalunell IG Lil K----------197 ni Cartonches pourfusils se chargeant par la culasse quatre fois plus grand que nat. lié1. Cartonohe du fusil prussien. -="=" pods de la balle... gr: 51 potds dela charge > A:9 pords totali... xv 40T Fig.2. Cartouche dufusil ordinaire transformé. posds de la balle gr 225 poids delacharge > 4,5 potds total... SIEIL Fig.5. Cartouche des fusils de calibre réduit.. poids de la balle... gr19 potds dela cartouche 4. pords total : . EZGI _ 4,77 | __°1° n- -o»— _ 1 EA il tn _— Ò \d Ù Ì Ò N = SS _Î Ù__ÀÌÌ ÙÌ è ZZAAANTAUÌÌÌÌ N ly me a) | Diametre avec le 5 \'Czlibre de l'ioime n UA ci | Dramétre aufonddes ragures RIGIEO i te e B 7, 3 ; i TABLE des données et résultats des tirs comparatifs pour les bouches è feu de méme poids B, recevant la méme impulsion V CHARGES, poids en projectiles................ VITESSES initiales en mètres par 1"...... ..... CALIBRES des bouches è feu diamètre des projectiles POS en kil. des projectiles.............00.. 0 0 0 0 0 0 00 0000080 LEURS QUANTITES de mouvement .............. Ù Diamètres des projectiles en mill. ........ x — aa Pénétrations en mill. ..... pe du 90 = ) Percussion | Épaisseurs | Mupture. . . .... sa È = normale limite de { stabilité ...... dn = _ 900 Ser = 6,,=30 0 Bpaisseurs | rupture ALDO > . à la SUA = Oblique limite de ( stabilité. ..... îf Diamètres des projectiles en mill. ........ = 0=90° Penétrations en mètres, . ... ba = Ah) sola 7 = ) Percussion Y Bpaisseus mupfure. ...... o en mill. ARA = normale à la limite de ( stabilité. ..... | ni — 922 x . S o) Îipalsseurs 0 rupture Dod 00 —» . en mill. oo = Oblique à la limite de ( stabilité...... if Diambtres des projectiles ............ Bc xe Penetrati ; La CNEVAMON SA do E Oe= 1900 e . È ° = ) Percussion Y Bpaisseurs | Iupiure. ...... > en mill. a 2 normale |, i umite de stabilité ...... = = — 2N2 PHENIO S 0,,=30 Fpaisseurs 0 IUPiOrO. a I . en mill, no = Oblique à la limite del stabilité. ..... i Diamètres des projectiles .............. x Penétrati : — on CNOUAMIONSI Sr 2 | 6,=% (el . 7, ù, = Percussion Bpaisseurs 0 rupiure ...... > en mill. ul Zal normale à lalimite de ( stabilite... .... nd = — 900 aa ; S 6,,=30 Ppaisseurs IUpiare .. 0... SB , en mill. PEITNRI = Oblique (aralimite ae | stabilit6...... (méme produit BV, d’après les séries établies, étant B = 3125%, 547 1,0294 12,78 "12,6 146,2 7189 150,8 301,6 106,6 213,2 116,1 1,252 149,6 299,2 105,6 211,2 101,3 1,640 130,4 260,8 99,2 184,4 92,1 1987 118,6 237,2 83,9 167,8 i È) 502 1,0292 15,70 803,5 156,6 776 154.1 309,4 109,4 218,8 124,2 1,232 153,2 306,4 108,3 216,6 108,5 1614 133,5 267,0 944 188,8 98,6 1956 121,8 243,6 86,1 172,2 464 1,0290 18,16 858,9 164,3 751 156,1 319,2 110,4 220,4 130,4 1,193 154,7 309,4 109,3 218,6 113,9 1562 135,1 270,2 95,5 191,0 103,5 1999 122,9 245,8 86,9 173,8 431 1,0289 20,37 895,0 170,7 722 403 1,02875 22,44 922,5 176,3 690 156,2 319,4 110,4 220,8 140,0 1096 154,7 309,4 378 1,0286] 1,02845 i] 26,37 24.4 940,6 181,3 DISTANCE DE PRÈS 356 957,0 186,1 628 154,8 309,6 109,5 219,0 147,1 997 153,4 306,8 108,4 208,8 129,0 1307 133,9 267,8 947 189,4 117,2 158,3 121,8 243,6 86,2 179,4 336,5 1,0287 28,26 969,4 190,4 600 154,1 308,2 108,9 217,8 154,1 981 152,6 305,2 107,9 215,8 1320 1247 133,3 266,6 94,3 188,6 120,0 1509 121,3 242,6 85,8 170,5 319 1,0282 30,12 "79,4 194,5 571 153,2 306,4 151,8 303,6 107,3 214,6 134,9 1188 132,6 265,2 93,7 187,4 122,5 144,0 288,5 1,0279 33,67 981% 201,3 517 150,8 301,6 106,6 213,2 159,7 820 149,3 298,6 105,6 211,2 139,5 1075 130,5 261,0 | 92,2 1844 126,0 1301 118,7 237,4 83,9 167,8 do 15 255 1,0275 38,94 1012 211,9 458 149,2 298,4 105,6 211,2 168,2 1 20 215,5 1,0268 46,94 1033 225,5 379 146,1 292,2 103,3 206,6 1790 601 14477 289,4 102,4 204,8 156,4 787 126,4 252,8 Met) Fa (Pi 25 30 35 187 | 165,6 149 1,0261] 1,0254) 1,0247 54,772 | 6263 | 69,76 1043 1055 1060 237,3 | 247,9 | 2573 317 271 235 1433 | 1406 | 138,6 286,6 | 2812 | 277,9 1013 | 995} 980 202,6 | 1990 | 1960 188,4 | 1967 | 2043 504 430 372 1419 | 1394 | 137,2 283,8 | 278,8 | 274,4 1003 | 986 970 201,6 | 197,2} 1940 1646 | 1719] 1784 660 563 487 123,9 | 1217} 1199 247,8 | 2434 | 2398 876] 861| 848 175,2 | 1722] 1696 1495 | 1569] 1621 s00 | 682 | 591 1128 | 1106 1091 295,6 | 221,2 | 218,2 798) #80) #1 1596 | 1564 | 1542 1065 265,1 209 136,9 273,8 97,8 195,6 210,4 381 135,5 271,0 95,8 191,6 183,8 434 118,4 236,8 83,7 167,4 167,0 526 107,6 215,2 76,1 159,2 1,0228 94,62 1078 284,7 150 132,8 265,6 94,4 188,8 225,9 237 131,6 263,2 93,5 187,0 197,4 310 115,0 230,0 81,7 TaBLe I. Sid: psi tin pal $ VA fd ‘a ri si VA sN ig dpi 10h } Li | i 4900 TAI Matex Nine ne % hi Ùia sua i Ala, n A fig Se pesi Sissi id n di or TR o VELI IL deg Li ste ETA a pdgia. son I Fatal TA È puoi A delos ia muegi e i da h | [S Votalo da pitt: ni LI bi di pur: D) Alida. o 13 snlvntg vb. ICE i 4, pio, alti muti Valais ai sd) Li SRI xi Hi] Di È p tifo nE stag M o a, pic Hi ati U È di leo pei È ti LAME ate 1 te {i * TETI 7° È DIO i « ibn î dame More DL (RERTAI MILLI e riga) È fil Do pani 1) Li mimo VEL AA DR NO rad : si ca) Gs LI sosia { Ltliy. an Ù ara : PROJECTILES SPHÉRIQUES K=1 2 PROJECTILES CYLINDRIQUES K 3 PROJECTILES CYLINDRIQUES X TasLe IL TABLE des données et des résultats des tirs comparatifs pour les bouches à feu de méme poids B, recevant la mème impulsion V ) IE d_ CHARGES, poids en projectiles..............-00.. z= Angle D'elevation du tir....... ORiDa sur l’horizon ) De chute ...... FE “180—0= Vitesse ' Restante en mètres ..... SIRIO Ì Choc normal ir Pénétration mur de briques en mill... e = 2 Ppaisseur cuirasse de fer en mill. ...R= But horizontal | Comp'° nor. de la quantité de mouvement = 9,==180°—0 | Epaisseur cuirasse de fer en mill. ...h= Bat incliné | Compt® nor. de la quantité de mouvement = 0,=2100—6 ) Épaisseur cuirasse de fer en mill. ... R= But vertical | Compt© nor. de la quantité de mouvement = 9,= di Ppaisseur cuirasse de fer en mill. ... h= Angle D'elevation du tr.......... = sur l’horizon O De chute. .... ” 18o—0= Vitesse. %Restante en mètres............ = Total de la quantité de mouvement ..°= Penétration mur de briques en mill... e = Epaisseur cuirasse de fer en mill. ...hR= Comp'° nor. de la quantité de mouvement = Lpaisseur cuirasse de fer en mill. ... h= Comp'° nor. de la quantité de mouvement = Choc normal ij 90° But horizontal 0,=180°— 0 But incliné 0,,=210°—0 But vertical 6,,==270°— 0 Comp'° nor. de la quantité de mouvement = Epaisseur cuirasse de fer en mill. ...h= surl'horizon Me uhute an 18o—0= Vitesse } Restante en mètres ............ u= Total de la quantité de mouvement . .2£= Penétration mur de briques en mill.., € = Fpaisseur cuirasse de fer en mill. ... h= Comp'° nor. de la quantité de mouvement = Fpaisseur cuirasse de fer en mill. ... hR= Comp: nor. de la quantité de mouvement = Bpaissen cuirasse de fer en mill... n= Comp'© nor. de Ja quantité de mouvement = Fpaisseur cuirasse de fer en mill. ...h= Angle EE (eno o DE Choc normal 0, — 90° But horizontal 0,,=180°—0 But incliné 0,=210°—0 But vertical 6,,== 270°— 0 DI Total de la quantité de mouvement. . 2°= Fpaissenr cuirasse de fer en mill. ... h= 10/961 SO Dl! 287,4 3744 379 109,2 16,00 29,9 192,0 81,4 357,2 109,2 10 4! 1° 12! 460,0 599,3 1052 136,9 12,55 19,9 310,4 986 599,1 136,9 19 9! 1° 2! 476,1 621,0 1437 102,5 12,28 14,4 321,1 73,1 620,9 102,5 4 1° 4915] 10 57! 2° 39/5] 303! 264,2 489,1 372 117,8 36,02 27,6 266,7 86,9 466,4 117,7 10730! 1° 40! 397 735,0 1003 143,0 21,36 24,4 385,8 103,6 134,6 143,0 1° 99! 1° 30! 429,8 795,7 1403 107,5 20,83 17,4 415,7 76,7 795,4 107,4 (mème produit BY, d’après les séries établies étant B=3125%, V=3#,72) DISTANCE DE /000 mÈETRES 1 1 IL al 90, ala i al dI dI 50 al DI Da i 1 1 1 La distance pour cette dernière co- tn roi T] 8 9 10 12 15 20 95 30 35 40 45 50 55 60 60 DEA de 967 metres au lieu | 2° 10'| 2° 26'| 2° 50'13° 74'| 30 21'| 3° 43' | 4° 96’ | 5° 39' | 7° 50’ | 10° 121 12° 55’ | 150 55'119° 12/[ 22° 58'|27° 19310 44' » 45° 3° 20'| 30 401] 4° 0" | 4° 12" | 40 32/| 4° 57' | 5° 45" | 7° 13' | 9° 42! | 120 8! | 15° 24'| 18° 34' [22° 24/5] 26° 30'| 31° 3’ | 350 3g/ » |49° 40' 254,0 | 244,7 | 235,7 1 226,5 { 218,7 | 210,2 | 197,0] 178,7 | 154,5 | 138,7 | 127,0 | 117,6] 109,2 | 103,0 707) 93,4 » 91,7 527,4 [560,1 {586,5 [609,6 1 630,0 f 646,3 | 666,4 | 709,3 | 741,0 | 775,4 | 807,1 | 836,3 | 848,6 | 866,0 | 882,8 895,2 » 939,9 369 | 359 | 349 | 338 | 327 315 291 249 220 192 172 154 138 129 121 115 110 120,1 {121,7 |122,8 | 123,6 | 124,2 | 124,5 | 124,6 | 124,8 | 123,8 | 123,4] 123,2 | 1230 | 1222 | 121,7 | 121,5 121,1 122,7 30,67] 35,82] 41,01] 44,65] 50,16] 55,7 67,07) 89,11j 124,8 | 162,6 | 214,3 | 263,3 | 323,5 | 386,4 | 434,9 | 521,5 » 715,8 29,4 | 30,9 | 33,0] 34,04 35,6 37,2 40,1 45,1 51,7 57,0 64,6 70,7 76,7 81,4 87,3 92,4 110,4 285,8 [310,5 [328,0 | 342,7 1357,5 | 370,2 | 391,1 | 429,0] 473,3 | 519,0 | 574,7 | 627,0 | 6724] 7221| 772,5 | 815,5 » 923,7 89,0 | 90,6 | 91,9] 92,7 | 93,6 94,3 95,2 97,1 98,9 | 101,1 | 104,0 | 106,6 | 108,8 | 111,2 | 113,7 | 115,6 1217 526,6 [559,0 [585,5 [608,0 { 638,0 | 643,9 | 665,9 | 705,3 | 730,4 f 716,4 | 778,01] 792,3 | 784,5 | 775,0 | 756,3 | 727,6 » 607,7 119,9 [121,6 {122,6 [123,4 [124,01 124,2 | 124,3 | 124,5 | 1229] 1223 | 1210] 1198| 117,5 | 115,2] 1125] 1192 98,7 1°40'4| 10.56] 2° 9' | 2° 24'12°38"| 2° 55’ | 3° 30' | 4037’ | 6° 35' È 80 40' | 11° 2'5| 130 33’ 116° 26'5| 19° 30' | 230 35' | 27° 57/|32° 57'1 45° 1088 metres au lieu de 1000. 1°51'2] 2° 8' {2° 21'} 20 36/f 2° 55'f 3° 10' | 3° 47! | 4° 54' | 6° 58! | 90 10' {11°31'5] 140 17"| 17° 7’! | 20° 46'| 25° 25'|30° 40'| 340 40'|46° 12'5 372,4 | 351,6 | 333,8 | 317,3 | 302 288,4 | 264,8 | 233,4 | 196,7 | 173,8 | 154,7 | 140,8 | 130,1 | 120,8 | 113,5 | 107 101,3 | 101 773,3 {804,8 [830,6 {853,0 1 870,0 | 885,5 | 908,9 | 926,5 | 943,4 | 969,4 | 987,7 | 1000 | 1011 1018 1026 1052 1037 1034 967 | 931 893 | 860 | 825 797 724 636 520 441 384 338 302 273 250 230 211 144,0 | 144,5 [144,7 | 144,8 {144,5 | 144,3 | 143,0) 141,8 | 138,3 | 136,2 | 1346 | 133,6 | 131,8 | 130,0] 129,2 | 128,0| 1278] 127,5 24,97) 29,96] 34,06 38,68 44,27) 48,92] 59,97] 86,771 114,4] 1544] 1973] 247,0| 297,6 361,1) 4404| 526,3 | 590,0] 746,5 25,9 | 27,9 | 29,3 | 30,0 | 32,6 33,9 36,7 43,3 49,2 55,0 60,2 66,4 71,4 77,4 86,6 91,9 96,3 | 108,3 408,1 | 437,1 | 444,5 {450,8 | 472,8 Î 484,4 | 505,4 | 530,1 | 5673 | 612,3 | 6547 | 698,9) 740,4 788,8] 844,7 | 899,5 937,5 | 1004 104,5 {105,4 {105,9 | 106,3 {106,5 | 106,6 | 106,8 | 107,3 | 108,1 | 109,0| 110,0| 111,4 | 112,8 | 114,4] 116,6 | 118,9 121,4] 125,8 772,9 {804,3 {829,9 | 852,1 [868,9] 884,1 | 906,9| 923,1 | 936,4] 957,0] 967,7 | 970,1] 966,4] 952,2] 926,7 | 887,6 | 853,1 | 730,9 143,9 | 144,4 | 144,6 [144,7 |1444{ 144,2 | 142,7 | 141,5 | 137,8] 1354] 133,3 | 131,6] 128,8 | 125,7 | 122,8] 119,8] 116,0] 106,1 1° 33' [1° 47!| 2° 4' | 2° 20'12°33'| 2° 55’ | 3038’ | 4° 33! È 6° 30' | 8° 35’ [10°51'5| 13° 20'[16°18'5] 19° 10'|220 47 |27° 30'|32°29' 5Î 45° 4096 métres au lieu de 1000. 10 42'|1° 57'|2° 14'|2°30/|2° 43'| 3°0' | 3°35' | 4° 45' | 6055'È 9°0' [11°17'5] 13° 43'f 16° 45' [19° 36’ | 23° 13' [ 28° 12’ [33° 38" 5] 45° 47” 393 | 371 3,01] 332 315 | 298,5 | 271,7] 238,4| 201,7] 175 157,3 | 143,5 | 131,5 122 114,5 108 102,2 f 102 816,0 {849,2 {871,4 {892,5 [907,5 | 916,5 | 9264| 946,3 | 9674] 976,2] 9996 | 1020 1022 | 1026 1035 | 1040 | 1046 1045 1360 | 1303 | 1252] 1197 | 1144 | 1088 992 857 710 603 517 451 404 365 333 306 280 103,2 | 108,8 {109,3 {109,6 { 108,5 | 107,9 { 106,5 | 105,1 | 1029 100,9 99;2 98,5 97,6 96,4 95,8 95,0 94,3 94,2 24,21] 28,90] 33,96 38,93 43,01) 47,97] 57,76) 78,36] 113,7 | 152,7] 1955 | 2440 2945 | 3441 | 407,9] 491,3 | 593,2f 748,7 18,6 | 20,1 | 21,6| 22,71 23,6 24,7 26,6 30,2 35,3 39,9 44,1 48,2 52,4 59,9 60,1 65,3 70,2 79,8 428,8 | 449,4 [464,8 [479,5 {490,5 | 499,2 | Di1,1 | 539,4 | 578,8 | 6143 659,6 | 705,2 | 744,3 | 781,1 828,6 | 883,5 | 959,5 1012 78,0 | 784] 78,7] 790] 790 79,0 7952 79,3 79,6 80,0 81,1 82,2 83,5 84,2 85,7 87,6 89,3 92,8 815,7 [848,7 {870,7 [891,6 | 9064] 915,3 | 922,4 | 943,1 | 9606 | 9641] 9802 991,3 | 978,5 | 966,3 950,8 | 916,2 | 891,5 | 728,9 108,1 {108,7 | 109,2 {109,5 | 108,4 f 107,8 | 106,4 | 1049| 1026 | 100,5 98,8 97,5 95,5 93,6 92,0 89,2 86,1 78,7 PE É 1 "i ii (pago i ste drolleada ReNita sla wa tia 18 Saiort gut) qangra SA È ; anilostng ip after MILO | E ui tp 0 A o e OE dg les] rta de ut roodi *3%8 anti Rue: sue |» TEL va 312 A dii n perte da dt nt n sa di 90 vst 9 is To N 34 sini da d Pa, 41 HA) sip on de Rab] ti faut Re vedi "n PE eli ' : x pagar | det) sarn1 Ge sd: Ù ip he Mb Age08 | Lal ARI | A fiat wi % ì A 9 Ly (a li, su topi Ti inte SC aria Là: i n'ai Mr visi ini o RR : Ù A IO o dt de gh Di2 0 adi Ro ai cid i poi NITÀ snob 5098} tit sedi 10‘ pad 2 i bi (hi Van (E I] vat F él pg dpr pan MrRO. ni ia si dg Di afgani SIAT. ansi pd Fatta he Si Ò Paini 06h a7n | dtt] It ab IOZIOI * p*R ti VER | ip î) A) beta nf SOT Pai gici «bada dA | perdi NITTO usi 9 SÈ (4 If TRAI Lieder ieri sprof 0, di dr DI RUI LAI O ae ‘np care sl abitati Ni) A pt de palauaginl chi dome miti i [ten quer silos 208 07 3aeivt monenienie f s it hi tiv a ì arilbagal dti ina i ne NR, 3° Ala po db prnerilo tonici 1 nd ss ubi fa oh ot ati, tan Hi: iti Ul aree DSi * a TABLE ; RE CRA CHARGES, poids en projectiles...........-.... n VITESSES initiales en mètres par 1" ........... v= CALIBRES des bouches è feu l Ci ele diamètre des projectiles ER dj POIDS des projectiles en kil. ............-..+ p= , v LEURS QUANTITÉS de mouvement.........-..... va — | Diamètre des projectiles en mill. ......... a S — 09° Pénétrations en mill. ..... = = i) Pesa DMI E |) Percussion 4 Lpaisseurs 0 rupture ...... h= = al pa PZ normale limite de ( stabilité...... h,= ni = = 30° Ppaisseurs rupture Dorato ti== ZI 6 al È = Oblique limite de ( stabilité. ..... h,= î Diamètre des projectiles en mill. ......... d,= = Pénétrations en mill. ..... 3= ce o=90° Z Percussion Lpaissenrs | rupture ......f %= = à 1 aL Z noranale limite de | stabilité...... n= = D . = die 30° | Lpalsseurs rupture ala Ala tate ly= > . à Il È = Oblique limite de ( stabilité...... h,= îÌ Diamètre des projectiles en mill. ......... = = fa Pénétrations en mill. ..... ==: = 6+=%) = ) Percussion 9 Lpaisseus rupiure . ..... oe . a] È = normale limite. de stabilité ...... = = S do. 30° o Ppaissenrs tupiure da dota ibh= = È à ] sa = Oblique limite de | stabilité. ..... = IT Diamètre des projectiles en mill... ....... d,= si Pénétrattons en mill en = o =900 A GRSIALONO Z } Percussion Ppaisseurs Iupiwre . ...0, n= S à 1 SE - normale limite de l stabilité...... pi Z| 6,=3% | fn 3 ne Ù Bpaissenrs O rupiure ...... pe= S : à la = Oblique limite de | stabilité.,.... k= di 3 502 1,0202 340,20 17386 436,0 2163 431,2 862,4 304,9 609,8 ( méme produit BV, d’après la série établie , étant Bai 1 4 464 1,0201 5) 431 1,0200 392,88 441,13 18583 457,1 2092 19381 475,7 1012 435,8 871,6 308,2 _616,4 377,5 3194 431,6 863,2 305,1 610,2 329,8 4187 amo. _754,0. _266,6. 5938 299,8 5669 1 6 403 1,02985 485,86 10960 491,3 1923 435,2 870,4 307,7 615,4 DISTANCE DE PERÈES 1 Di 378 1,0197 529,11 20388 505,4 1835 433,7 867,4 306,6 613,2 401,2 2913 429,4 858,8 303,6 607,2 350,5 3817 375,1 750,2 265,3 530,6 318,4 1 8 356 1,0196 571,13 20727 518,5 1 9 336,5 1,0195 612,13 20998 530,6 1670 429,5 859,0 303,7 607,4 se 10 319 1,0194| 1,01915} 1,0188 "33,03 843,78 652,54 21219 542,0 1593 21558 550,6 1448 423,3 846,6 298,6 597,2 437,0 2379 418,2 836,4 296,3 592,6 381,8 3011 363,4 726,8 258,3 516,6 346,9 3648 339,2 664,4 237,8 469,6 1 15 255 21933 590,5 1275 416,1 839,2 294,2 588,4 468,7 2023 412,0 824,0 291,4 582,8 418,0 Li 20 215,5 1,0182 1017,3 22348 628,5 1054 407,1 814,2 287,9 575,8 498,8 1673 403,0 806,0 235,0 570,0 444,9 2191 352,2 04,4 249,1 498,2 395,9 2654 1 25 187 1,01765 1186,0 22603 661,4 885 399,1 798,2 282,2 564,4 525,0 1464 395,2 790,4 279,4 558,8 468,2 1819 345,3 690,6 244,2 488,4 416,6 2229 313,7 627,4 221,8 443,6 V= om 00 3m, 72 1 30 165,6 1,0171 1350,0 22788 690,6 756 ) E 35 149 1,01655 1509,7 22930 716,9 654 387,9 775,8 2743 548,4 569,0 1036 387,6 775,2 271,7 543,4 507,4 1359 335,6 671,2 237,3 4714,6 451,6 1646 303,0 606,0 215,7 431,4 Re. 40 137 1,0160 1618,2 23018 738,1 581 381,3 162,6 269,6 539,2 585,9 922 377,6 755,2 266,9 533,8 522,5 1208 329,8 659,6 233,2 466,4 465,0 1464 299,7 599,4 212,3 424,6 1 45 127,2 1,0156 1786,6 23165 758,2 523 377,4 754,8 266,9 533,8 601,8 830 373,8 747,6 264.2 528,4 536,7 1087 326,5 653,0 230,9 461,8 4709, 1317 296,7 593,4 210,2 420,4 55 112 des données et des résultats des tirs comparatifs pour les bouches a feu de méme poids B, recevant la méme impulsion V 50000 k 67200k * 60 105,5 1,0145 2175,6 23397 809,7 362 367,0 734,0 259,5 519,0 642,7 575 363,5 727,0 257,0 514,0 573,2 Tasce III. de: > x - “ » 4 Xi “I i Sia lapuh ' bh iu t 5g unite Li Mi ba fut Ile ta | di Lil ‘a an til Desa rivalta pit ae Ma aria st ih A at ago mderitrt | I 6 ì A" 5) da CRETA TZ carenze mini 1 vm A AC VERI di RA "E 104. S0R0M0A, Vie fon DI) ia È A ie da Ph TT, MET TOSO È Wp) $146 [RS n Di poeti Ai hi th ni fi rigira Piana, pen ira d 484 3 | LAS Ara Malin A dep Tk nidi a 1 Ue jo = er dana n] ip Te JT 1 A ‘ re Pal RNA SIT IE) DI 1 HA inc ù i d A di QUI dose d dog ha RR ag 1 Polato li, da sro 9 hi, | son 14 | z Tasce IV. TABLE des données et des résultats des tirs comparatifs pour les bouches à feu de meme poids B, recevant la méme impulsion V (50000k ,, {5,00 ( méeme produit BY, d’après les séries établies, étant B= ) 67200 v=) dana DISTANCE BE ST AR GI 055, MIRINO 10 AT RE METRES (LORIS ME: PRA (a 1 1 1 1 | 1 1 i “ee er eee A A 1 1 1 1 1 1 1 | CHARGES, poids en projectiles. ............... ..3=| 3 | 3 7 5 E CRA er O 00 TI 1a 5 n) 3h » 35 7 E 5 5 co | {Angle DOEAIIR IT Eo no Q=| 108! | 1° 20'|1°31'|1° 44) 1° 58/ i 2° 23'|20 30'|2° 47°] 3°6' | 30 44° | 4° 46! | 6° 27' | 8° 45' | 11° 177) 1404 | 17° 1 [20° 121] 230 51f a80 op 34° 50! | sur l’horizon ) De chute .......... ....180—0=|10 99|1°32|1°43"| 2° 1' | 90 17129 37|2° 55/39 16'| 3° 34' | 4° 33! | 50 53! { 7° 29' | 9° 20’ | 11° 55'|140.46'|17° 47°] 21° 0' | 24° 47] 29° 95/| 3609 IT Vitesse | Restante en mètres. . ... Bo 006 È uZ|411,2 | 396,4 | 372,8 |352,0 | 333,5 | 316,3 300,4 {285,6 | 272,6 | 2480| 221,0) 191,4] 166,7] 148,8] 1350| 125,7] 1170] t105| t040| 9866 Di Total de la quantité de mouvement . 7 11582 | 13729| 14932|15829! 16516 ]17060]17489117821 |} 18133 | 18580 | 19003 | 19849 | 20151 | 20600 | 20775 | 21230 | 21308 | 21594 | 21674 | 21875 Ss Choc normal ) penétration mur de briques en mill. .. £=| 1629 | 1675 | 1635 | 1584 | 1529 | 1469 | 1407 | 1344 | 1287 | 1168 | 1029 | 872 | 729 | 628 | 550 | 498 | 449 | 414 | 379 | 350 = Ma Fpaisseur cuirasse de fer en mill. . ..X#=|364,3 |382,8 [390,0 [393,8 [395,9 1396,7 | 396,6 {395,7 | 394,9 | 391,6 | 387,4 | 383,7 | 376,9 | 371,8 | 367,6] 3646 3620| 360,1 | 3569) 3549 £ But horizontal | Comp'e nor. dela quantité de mouvement =|277,3 |367,4 |4560 |557,0 |658,1 [778,9 [889,9 |1003,1 {1128,0 |1357,2 | 1733,8 [2585,0 |3368,0 |4228,8 [6295,4 |6427,4 [76360 [90520 | 10545 | 12869 2 |, = 180°—0 | Epaisseur cuirasse de fer en mill. ...X=| 56,25] 62,6] 682] 739] 790 | 84,8] 89,6] 945) 985] 1103] 120,5] 138,5) 1520] 1690| 185,6] 2015] 2168| 2332] 250,1| 2733 = | But ineliné f Comp'® nor. de la quantité de monvement = |6028,7 | 7180, | 7857,2 |8392,0 {88220 [9193,5 | 9504,0 |9744,3 | 1002,6 | 1041,4 |1097,4 |1207,8 {1277,2 |1376,2 | 1459,6 |1564,2 | 1656,1 |1764,2 |1823,4 | 19990 S | 0,==210°— 0 Ppaisseur cuirasse de fer en mill.. .. . *#=|262,8 | 276,8 | 282,9 | 286,8 {289,4 {291,2 | 292,3 [293,1 | 293,7 | 294,9 296,6 | 299,3 | 3000 | 3008 | 308,5 | 313,6 | 319,54 325,5] 331,2] 339,3 = | But vertical Comp! nor. de la quantité de ai =|11577|13724|14923|15815| 16504 | 17042] 17467 17793 18098 | 18482 | 18930 | 19680 | 19884 | 20038 | 20089 | 20034 | 19892 | 19605 | 18880 | 17634 \ 9,=270°—6 Îipaissenr cuirasse de fer en mill.....fh=|{3649 [3827 | 389,9 | 393,7 | 395,8 (396,5 {396,3 | 395,4 | 394,5 | 391,0 | 386,5 | 382,0 | 374,4 | 367,8 | 361,4 | 355,8 | 3498 | 343,1 | 333,1 | 323,9 {Angle DERRiOA (h basano P=|0° 59'|1° 10] 1° 201|1°32/]1° 471 2° 0' 12° 161f2° 31" 2° 50' | 3° 26! | 4026" | 6° 13! | 8° 20! { 100 46'| 13° 8' | 16° 1'{ 19° 0' {22° 1811 06° 16|31° 37 | Gi | sur l’horizon o Dexchute: ana 18o—0=| 1° 9' |1°12'| 1° 99'|1° 35/410 51'| 2° 4' | 20 191/20 35'| 2° 53! | 3° 30 | 4° 52’ | 6° 20' | 8° 28' | 11° 8' {13° 24] 16° 14'|19° 13'|22° 35'|26° 32/3105 Il Vitesse 5 Restante en mètres ............ u=|513,8 | 473,4 | 441,5 [409,5 |383,6 {367,4 342,9 325,3 | 309,4 | 281,5 | 247,9 211,9| 183,7} 1608] 1460| 1344| 1250] 116,8] 1101] 1039 > SENO Total de la quantité de mouyement. . La 14472 | 16396] 17690 | 18414119053! 19450 19824 | 20122) 20428 | 20743 | 21211 | 21675 | 21860 | 22133 | 22356 | 02582 | 02764 | 22824 | 22945 | 23037 ZIA da, Penetration mur de Driques en mill. ..£=| 3279 | 3272 | 3178 | 3010 | 2881 | 2769 | 2652 | 2539 | 2429 | 2220 | 1943 | 1629 | 1370 | 1140 | 962 | 891 801 728 | 667 | 612 Ss di Bpaisseur cuirasse de fer en mill... ./A=|{407,1 |418,3 | 424,3 | 424,5 424,7 | 424,5 [423,7 [422,3 | 4207 | 417,4] 4103 | 403,77 | 395,6 | 387,2| 3822 li 374,1 | 370,2] 3673 | 364,2 = \But horizontal Comp!e nor. de la quantité de mouvement =|261,0 | 343,4 | 421,7 | 508,8 \G15,1 {701,4 | 803,5 {907,0 |1027,2 | 1266,3 Si. 2380,0 |3218,6 { 4274,0 { 5179,8 | 6308,0 |7493,0 | 8765,4 | 10250 | 12163 z e e cuirasse de fer en mill. ...R=| 547| 605] 65,6| 70,6} 764 80,7] 85,3} 897] 944] 1031 1195] 1341 | 1518 | 16901 1846 1996 2146 | 229,5 | 2455] 2647 = But incliné Comp! nor. de la quantité de mouvement = 7461,0 | 8493,4 | 9203,4 | 9644,0 {1005410326 10600 | 10837 | 11087 | 11449 | 12126 | 12783 | 13598 | 14560 | 15357 | 16295 | 17237 | 18128 | 19140 | 20316 = | 0,=210°—0| Epaisseur cuirasse de fer en mill. ...#=|293,1 |301,1 | 306,2 |307,4 1308,9 ‘309,4 |309,8 {309,9 | 310,0 | 310,1} 310,2 | 310,8 | 3120] 3140 3168] 3208 | 325,6] 3300] 3354] 3420 | But vertical | Comp'e nor. de la quantité de mouvement =|14470]|16392|17676 | 18407 {19043 119437|19807|20103| 20395 | 20704 | 21135 | 21444 | 21622 | 21717 | 21742 | 21665 | 214,96] 21075 | 20529 | 19566 \ 0,==270°—0 | Epaisseur cuirasse de fer en mill... .. h=|407,1 |418,2 | 424,2 |424,3 1 424,5 {424,3 [423,5 {422,1 | 420,5 | 4170] 4095 | 4096] 3934] 3835 3770] 36991 369,5] 355,8] 3474] 3357 / Angle DICIEYation ie P=|0° 58] 1°9' 11° 18"|1° 30" 1° 46' 11° 58/| 2° 14112099! 90 471 | 3933" | 40931] 6° 10" | 8° 17 {10° 34'| 130 6’ {15° 53] 18° 50'|220 13/1 26° 8' | 31° 07? Zi Mona EGNOS ESSA SS85 180—0=| 104 |1°11'[1°21,| 1° 33'| 1° 49] 200 | 2° 177 2° 33/f 00511 3037 | 40281 | Go 16" | 8° 94 | 10° 49/1132 177] 1607 | 190 5' | 220 08"| 26,28|31° 42 Li Vitesse 4 Restante en mitres ............ u=|520,8 | 479,9 | 446,3 | 413,7 [389,0 {365,5 [344,0 [3260 | 309,0 | 2800 | 218,0 | 209,3 | 182,0 | 163,8 | 1496 | 136,1 | 125,5 | 1178 | 110,5 | 1042 ZAN I Total de la quantité de mouvement . ua 14669 | 16621 | 17862 | 18603 | 19266119714|20028}20342! 20554 | 20922 | 21330 | 21705 | 21990 | 22240 | 22468 | 22654 | 22855 | 23030 | 23028 | 23116 = OR Penétration mur de Driques en mill. .. e=| 4350 | 4306 | 4171 | 3989 | 3838 | 2667 | 3489 | 3335 3 3177 | 2590 | 2546 | 2094 | 1760 | 1540 | 1370 | 1194 | 1061 | 968 | 881 | 807 S 0) Épaisseur cuirasse de fer en mill. n 358,1 |368,0 [372,6 [373,0 |373,5 {372,6 [370,7 [3693 | 3673] 3635] 3385 | 3505] 3439] 338,5 333,9 | 334 | 328,2] 3249] 3214| 318,7 = But horizontal o Comp'° nor. de la quantité de mouvement =|260,5 | 343,3 [420,8 [503,2 | 610,8 {699,5 {797,9 [905,0 {1 1022,0 | 1259,0 | 1661,2 |{2368,2 {3212,7 | 4135,6 | 5162,6 | 6295,3 | 7472,4 {8801,0 | 10263 | 12146 co [0,=180°—0 Bpaisseur cuirasse de fer en mill. ...h=| 477] 599] 372] 613) 668) z0e] s40| 90 si 9 892] 1000] 1158] 13154 1460| 1601 | 1741| 1873] 2008] 2146| 2340 = | But incliné | Comp! nor. de la quantité de mouvement =|7339,0 | 8606,0 {19293,0 | 97340 10157 {10456 | 10697 10945 | 11149 | 11533 | 12071 | 12838 | 13661 | 14508 | 15405 | 16346 | 17271 | 18262 | 19196 | 20352 Ss 0,=210°— 0 | Epaisseur cuirasse de fer en mill. ...h=|257,0 | 264,8 | 268,8 269,8 {270,0 | 270,8 | 271,3 [271,7 | 279,1 | 272,6| 273,1 | 2739] 2748] 275,6| 2770] 280,5 | 2847 | 2893 | 293,5 | 299.1 | But vertical Compte nor. de la quantité doi = | 14667 |16617|17857|185961]19256|19929|20012/20322| 20528 | 20884 | 21266 | 21572] 21757 | 21853] 21867 | 21787 | 21600 | 21281 | 20615 | 19667 0,=2700— 0 ) Épaisseur cuirasse de fer en mill... .h=|358,1 |367,9 [372,2 |3729 373,2 |372,4 [370,5 [369,1 | 367,1 | 3631] 3580| 3495] 349,1) 3355 | 3294] 3239] 3184] 3124] 3041] 2940 oi Ù (e, DI) piprrtertt de bea Pigna {resse mp et cpr ssi pr a preci Aire RIPA A) UA PI Rap a ento dra muri deg die i rat pi drei et E di 1227 PE: sil I porter ‘sot; n) Fifort: DI i gta ie Muli sH{ ETTETLR, più Ty ppi cei Iutcenit iena. ici paifiatae rig apra wa se; ireoe, vinte pupi Pa ) 1 negcii COrot 4390 opt; orata: get |; @nan] Pd: eso fr MESI lezto annbuldetti tato 7 È pal a ib: i pal i fasi Aiaapo porteird LA «a Figa ti sf ea USNULI ‘att atitn ROSE LA) vin if la ripagoni Lavagii > "STAI! irpuiga tte oli da pap. A ob Sato) feto iaia: cd d| rg deza «Miano to: spità sb: lm goitcti Metti saber 9 it N È A "Ge Foo Hpe gui a forio coi si Y qanitt DEA dif cd il PR fa hott cari iii POPE peroni cdot 0 amatida dit sa: % nispaio sica pi VA: Lg | n site pr > cf 10 ni 1290 ali passano 3 aggio aa reed sa , PRO i i pra aa VI3 LI snai i Bin , si mpitassi'8 | old Debon ae Pn ppt; ah molle 04 fa dd Li, obo dl meio: i pro antro ndr ig PR n esa Aprica Guai | deo gibt freni Lepupfi arr i Agi agora all sibioiagn ai ohi inte e {LORO ig tu Pi ui [pl | 1 At n agpit a sì pa muitcatdudi Furini da i pitt petiiggot sh ti i he ® pi ah dano atstzisgli ), i{&4%0 Ra AAT EA dedi aiitaseptatob sid gps } Ino ff } TA SNC Soi 8 dol ali doantito pisiaiogli f'a = c0Rk=< 81 Mar val ò sirocot5l pf ma squat | delfani si 1 nba I ala di at daranno ndbgatigi } n — ig i i pregi dii ott Seo 11 ghost si - ine ch 23 af cal vst suoscagl jean —————_os- Rei des 2 284 _ 284 Pour les canons de 50 è 67 tonn. DS 176,47 ,610; 337,57 1,196; 239,6 > 1,094 Rapports 0,56 0, 56 0, 56 I DZ ea DI 2 I a = Pour les canons de 3 '/; tonn... E 0,20 ,80; 0,583 0,96; 0,59 0,95 quantités de RO aa LO ON Pour les canons de 50 a 67 tonn. mini | E T00 = 2,91; 11,97 1,04; Til” 1,05 4,320; 1,120; 1,012 Produits de ces rapports ..... 4,685; 1,240; 1,149 50 a 67} 328,5 237,5 38° 14 31° 31' 166,2 178,3 3, 244 160, 3 Verticale 114,0) 89,5] 109,6] 100,8 120,8] 97,6| 117,4| 105,1] 130,7 [feta 303,3] 355,9' 259,6] 341,7| 328,2] 397,1 TagLe VI. À 3000 MÈTRES DE DISTANCE 37° 9g' 30° 56! 40° 46! 32° 9g 162,2 e _ 13 5 = Q Ss Ss Sid fai < D > > 3 38 | 0,927] 0,583| 0,868] 0,728] 0,705 0,591 GrERiCGEl 0,751] 3,188| 0,526/ 0,727 0,711] 0,201] 0,515| 0,682 50 a 67} 21,51] 11,27] 18,95] 18,38 20,87| 1,11] 19,24] 17,67 1947] 4,076] 13,24| 19,04] 19,26] 4,043] 12,05] 18,83 65,3] 109,4] 128,6] 136,6] 74,6] 116,3] 133,g 181,7| 327,5] 392,8 434,7] 199:2| 343,8] 430,0 } È su0x = ku per: mry ud ti CORESTIlIO) do pi an È Mibaoti kb abi toc n 0 piùd wr È SCIENZE MORALI STORICHE E FILOLOGICHE Wie bag Jagld Miani p vp # e a ‘ n Fd LT eo LAST SARAI. bn ti ad Foto gt IL Mano, e) sai i di i "3 A AINROND saline ani ANKAID8 34 dA | previo “ alinot Sn trenta A "dani da AR i Vitt. seri anita x li real } hi iau 4 da EUNCATÀ i mdinotz | th avra Snrndle Duo Ù ta DE o NE IE : ; li LN age 3 x id Vle PREPARATE TAR i consone a Die NIE Me | REST ii, Soratte a ] i pate (dd ESSE PTTAO pat rn Ana dle SEO Moi pages apt casio salva. 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Archivii del nostro Stato , il che mi obbligò almeno a riscontrare la copia coll’originale. Nel leggere tale scrittura 10 mi imbattei in alcuni fatti, che narrati con somma confidenza dall’Autore mi parevano destituiti d'ogni probabilità; eppure quelli stessi stavano registrati come Serie II. Tom. XXIV. I 2 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA irrepugnabili verità nella Storia di Carlo Botta. Stupito della sua cre- dulità ne volli conferire con lui che pure stava in Parigi, e, dacchè con argomenti dedotti dal criterio politico io non persuadeva l’amico, ricorsi agli Archivi di quel Ministero degli affari esteri. Entratovi una prima volta, e chiariti con pieno mio vantaggio i pochi punti storici contro- versi coll’illustre Storiografo , io rimasi sedotto dall’ abbondante messe che io raccoglieva or di notizie a noi ignote, ed ora di disinganni di tradizionali nostri errori. Allettato così dalla conquista di nuove verità, e dalle scene interessanti dell’ avviluppato dramma della Reggenza, io volli inoltre consultare nella Biblioteca Imperiale parecchi volumi mano- scritti, formidabili per molte e molte centinaia di pagine, ma ricchi di lettere, di note, di appunti, di trattati originali relativi a quel tempo. Poi reduce a Torino presi a leggere le carte dell’epoca della Reggenza, che si conservano nei nostri Archivii dello Stato, ed acquistai nuovi lumi. Compilai allora una mia prima scrittura, che nell’anno 1837 letta in questa Classe Accademica facilmente comunicai manoscritta a parecchi studiosi di cose patrie, e so che di essa fu tratta copia oltre le alpi (1). Se non che per tranquillare la mia coscienza di storico restava ancora ch'io soddisfacessi ad un mio desiderio. Fra i protagonisti del miserevole periodo della Reggenza io non conosceva bastantemente i due Principi fratelli, dico il Cardinale Maurizio ed il Principe Tommaso; con questi io tanto più desiderava di far intima conoscenza, quanto più la storia ufficiale di quell’epoca fu iniziata e quindi continuata in loro disfavore. Bensì si hanno a stampa i loro proclami e parecchie lettere alla Cognata, ma ben si sa che gli uomini, dovendo comparire su un gran teatro, studiosamente si abbigliano, si azzimano, talora si camuffano e prendono sempre una postura favorevole. Scrivendo poi alla Cognata i Principi erano bastantemente educati per usare con lei frasi degne di gentiluo- mini ben costumati. Io desiderava di conoscerli nel loro intimo carteggio fra sè, e coi loro ministri, agenti e famigliari, e massimamente in quei momenti di loro disavventure, nei quali lo sviscerarsi reca sollievo, e gli (1) Come io leggendo in Parigi i documenti francesi rimasi colpito, vedendo che la storia della Reggenza era un tema da rifarsi, così la mia prima scrittura colpì a prima giunta que’ miei uditori, che stimavano essere codesto un argomento poco meno che esausto. Ma non tardai a rinfrancarmi grazie all’autorevole giudizio, che ne portò il €. Cibrario nelle sue Origiri e Progresso delle Insti- iuzioni della Monarchia di Savoia, parte 1, p. 180. DD) PER A. PEYRON. S) intimi pensieri sbottano spontanei. A tal mio desiderio soddisfece il col- lega Cav. Domenico Promis, annunziandomi che la Biblioteca del nostro Sovrano possedeva le carte del Conte Messerati. Questi intimo ed atti- vissimo agente dei due Principi fratelli nei loro negoziati politici, poi esule dal Piemonte dopo il loro aggiustamento colla Cognata, si ridusse necessariamente in Milano con tutte le sue carte. Morì, il suo casato si spense col tempo, e le sue carte gelosamente conservate trapassarono in altra famiglia milanese. Il Cav. Promis scaltro nello scovare ogni specie di patrii documenti, instancabile nel tracciarli, e destro nel farne acquisto li ebbe da codesta famiglia, e ne arricchì la biblioteca degnamente da lui governata. I gentili suoi modi ed il zelo nel promuovere gli studii delle cose patrie, delle quali è benemerito illustratore, mi dispensano dal dire ch'egli pose in mia facoltà le dovizie del suo acquisto. Poichè il mio desiderio fu così appagato, io mi fermai di correggere la prima mia scrittura (1), e di ampliarla ricorrendo anche nuovamente agli Archivii del nostro Stato. Ritroso a copiare quanto altri rettamente scrissero, io suppongo conosciuta la storia della Reggenza, quale si legge nei libri che volgarmente corrono fra noi; io mi limito ad emendarne gli errori, le infedeltà, i giudizi, a supplirne le omissioni, ed a porre in evidenza la politica allora professata, ed i caratteri dei primari attori del dramma. Imperocchè le storie dettate dal Guichenon, dal Castiglioni e da altri contemporanei furono tutte più o meno comandate dalla Du- chessa, e per ordine di lei rivedute e corrette da cortigiani, che avevano con lei pari interesse a corrompere la verità con esagerazioni, reticenze e calunnie. Cotali storie, mirando a celebrare l’Eroina, miracolo del secolo, dovevano deprimere i due Principi Maurizio e Tommaso, mostrandoli ingiusti, ambiziosi e sleali assalitori, e deprimere ancora il Cardinale di Richelieu, mostrandolo gran maestro d’ inganni, ma deluso e gabbato dalla sagace Reggente. (1) A codesta io più non pensava, quando il sig. Augusto Bazzoni mi significò che egli intendeva di illustrare questo periodo di storia. Io ve lo confortai, ma a patto che recatosi a Parigi vi con- sultasse quei documenti, che gli indicai esistere non solo negli Archivii di quel Ministero degli affari esteri, ma ancora în parecchi codici della Biblioteca Imperiale. Vi andò, e tornato con opime spoglie pubblicò la Reggenza di Maria Cristina Duchessa di Savoia con nuovi documenti. Torino 1865. Ed ora godo di proclamarla come la prima sincera storia di questo periodo venuta alla luce. Egli compilò accuratamente la storia dei fatti inserendovi qua e là giudiziose osservazioni. Io, che in questo mezzo tempo attendeva a consultare le Carte Messerati, mirai piuttosto alle cause dei fatti, innestandovi quegli anecdoti, che servono a qualificare i caratteri della politica e de’ personaggi. NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA La storia così preoccupata dagli scrittori contemporanei trapassò per tradizione co’ suoi vizii nelle generazioni seguenti. La riverenza al ramo Ducale imperante non permetteva di sollevare certi dubbii, e di con- traddire a ciò che tornava a suo onore; gli Archivii del nostro Stato non somministrarono per gran tempo se non le carte propizie all'alta fama della Duchessa. Noi abbisognavamo di sentire le discolpe degli accusati, ed ora a ciò provvedono le Carte del Messerati ed il carteggio diplo- matico degli Archivii di Francia. Pel confronto di questi nuovi documenti coi nostri avverrà, che i Principi del sangue ricupereranno il dovuto onore, il gran Ministro di Francia non sarà più un politico avventato, e la Duchessa perderà bensì alcuni raggi di quell’aureola, onde la fre- giarono gli smaccati e venali adulatori, ma gli adulatori della sua am- bizione di regno, colpevoli di aver abusato della debolezza al suo sesso inerente. serviranno, io spero, per ottenerle pietà non che perdono di varii errori, che non furono suoi. S2 La Vita di M. Cristina compilata dal Guichenon scoperta, descritta e giudicata. Ma dacchè un nuovo documento venne da me somministrato nella Vita della Duchessa Cristina, scritta dal Guichenon, io darò un giudizio critico di questa scrittura, come preambolo al mio argomento. Il Guichenon nella sua Histoire Genealogiqgue conchiuse il suo articolo biografico del Duca Vittorio con queste parole: Nous esperons dans guelgue temps, suivant le commandement que nous en avons de cette A. R. (la Duchessa Cristina), de faire l’histoire entière de sa vie, qui passera pour un miracle du siècle. La scrisse in fatti, e si conserva manoscritta nella Biblioteca dell'Arsenale di Parigi nel codice segnato col numero 117, ed ha per titolo Ze Soleil en son apogée, ou l’Histoire de la vie de Chrestienne de France Duchesse de Savoye par Samuel Guichenon. Sulla prima carta del codice una mano dello stesso secolo, ma diversa, scrisse bensì Manuscrit original, ma non mi potè ingannare. Oltrecchè la scrittura del codice nulla ha che fare con quella del Guichenon a me notissima, v'ha di tali argomenti intrinseci che dimostrano questa essere una copia tratta dall'originale, la quale non fu riveduta dall'autore. Infatti l'ortografia francese pecca per errori troppo frequenti; le iscrizioni latune PER A. PEYRON. 5 i ivi registrate accusano un amanuense ignaro di tal lingua; un sonetto italiano manca d'un verso nella seconda quartina; i nomi ‘de’ personaggi, delle città, delle castella del Piemonte, ed anche talora della Savoia , essendo ad ogni tratto stravolti, dimostrano che giungevano nuovi al copista. Consimili e cotanti errori accusanti un tavolaccino di poca levatura non sarebbero stati tollerati dal Guichenon, se questo esemplare fosse per poco caduto sotto i suoi occhi; e siccome non v' ha segno alcuno di correzioni e di supplementi, però affermo che il codice neppur fu veduto dall’Autore. A chi mai lo attribuiremo ? Premetto che il Guichenon verso il fine dell’opera riferisce la morte di Cristina avvenuta addì 27 dicembre 1663; sappiamo poi che egli morì a Bourg en Bresse li 8 settembre 1664. Egli pertanto , avendo cominciato a dettare questo suo ultimo lavoro mentre la Duchessa viveva, lo terminò dopo il decesso di lei negli otto mesi che le sopravvisse; poi morì lasciando il suo originale non riveduto, e certamente tribolato da cancellature, da aggiunte, da postille e simili, cioè a mala pena leggibile. Come gli altri manoscritti del Guichenon furono acquistati da varie biblioteche di Francia, nelle quali tuttavia si conservano, così lo zibal- done della Vita di Cristina trapassò nella biblioteca dell’ Arsenale di Parigi. Questa ne volle un esemplare pulitamente scritto e facilmente leggibile, e l’odierno è quel desso, sul quale il bibliotecario scrisse Ma- nuscrit original, il che viene a dire che Voriginale fu distrutto come inutile. Venendo ora all’opera stessa dico, che al fastoso titolo Ze Soleil en son apogée corrisponde la prefazione, nella quale il soggetto è magni- ficato come te/lement vaste et riche, que, quand les plus scavants historiens et orateurs de l Europe s'y seroient appliqués, il ne seroit qu'ébauche et non pas épuisé, perchè la Duchessa si può chiamare sans complaisance l’ouvrage du ciel, l’effort de la nature; 'honneur de son sèxe et le mi- racle de son siècle. Egli però intitolò il suo libro Ze Soleil en son apogee, perchè essa incomparable et heroique obscurait la splendeur des autres. Il titolo degno del secento, e le sformate lodi degne del più curvo e grossolano adulatore bastano per qualificare la biografia, e toglierle ogni valore storico. Se non che, poco oltre la metà del libro, l'Autore, dovendo narrare i maneggi per dar moglie al docile figliuolo Carlo Emmanuele, prende a discorrere i primi otto matrimonii proposti, e con insolita schiettezza 6 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA li riconosce studiosamente rotti dalla madre, gui vouloit encore regner quelques années, ben prevedendo che, introdotta una nuora in casa, elle se verroît réduite ou à se retirer en Savoye......ou à se jetter dans un couvent. Il matrimonio, per cui il Card. Mazarini intendeva di elevare al trono Sabaudo la sua nipote Ortensia Martinozzi, promettendo che il Delfino avrebbe impalmata la primogenita sorella del Duca, è riferito con tal fedeltà , che i caratteri delle persone spiccano insigni. Insigne è la risposta del giovane Duca, il quale all’udir tal connubio s’emporta de colère, et dit......qu'il ne se resoudroît pas à voir entrer dans sa maison une fille, qui à peine etoit demoiselle. Le nozze colla Principessa Gioanna Battista di Savoia Nemours, poi le altre colla Damigella Sovrana di Dombes già erano intese, quando l’ufficioso Card. Mazarini le ruppe amendue , significando alla Madre, qu'elle devoit se resoudre de bonne heure à sortir par une porte de Turin, pendant que Mademoiselle entreroit par lautre. Instava bensì il figlio, e corrisposto dalla Damigella di Dombes manteneva frequente carteggio con lei, donz M. R. fut pleine- ment informee et eclairée par des paquets interceptes, qui lui donnèrent d’étranges inquietudes, ma ella seppe sventare carteggio, amori e matri- monii con arti non sempre oneste. Finalmente, trascorso qualche anno, e morto il sollecito consigliere Mazarini, si conchiuse il maritaggio colla Damigella di Valois. La madre sopravvisse ancora dieci mesi, ne’ quali, frequentando il Monistero delle Carmelitane da lei fondato, sperava con esorbitanti ed avvilitivi esercizii di pietà di scontare le passate di- vagazioni. Se ella avesse letta questa lunga e sceneggiata narrazione degli otto matrimonit guasti da lei, crediamo noi che avrebbe tollerato questa evidente rivelazione della sua gelosia, della sua tenace ambizione di regno, e delle sue arti poco onorate? Ben ella poteva distesa supina per terra a traverso il limitare del coro invitare le accorrenti Suore Car- melitane a calpestarla, ma questa scena di famiglia avrebbe ella accon- sentito che si esponesse sopra un gran teatro? Io credo perciò che questa ultima parte del libro sia stata scritta dall’Autore dopo la morte di lei. Il sole dall’apogeo era tramontato, ed a Carlo Emmanuele, nuovo sole, il prudente Guichenon consecrava questo capitolo per lui onorevole, e conservatore della lauta pensione di cui godeva (1). (1) On peut dire que jamais auteur ne fut aussi magnifiquement recompensé de ses ouvrages, così l’autore dell’articolo Guicheron nella Biographie de Michaud. PER A. PEYRON. n lo vorrei pure poter lodare come utili documenti storici le lettere dal Guichenon registrate , ed alla Reggente indirizzate dalla real sua madre, dal Re fratello, dal Cardinale cognato, dal Richelieu e da altri, alle quali vanno talora soggiunte le risposte; ma quasi tutte dimostrano che tra le persone alto locate v hanno bensì gelosie, dissensioni ed odii, ma nel loro commercio epistolare regna sempre la civiltà delle frasi. Ma dove si mostra ammirabile la prudenza del Guichenon, si è in una preterizione. Egli nelle prime sue pagine descrisse per minuto le feste per le nozze dei R. Sposi, l'entrata in Ciambery, e l’altra in Torino; poi dal 1619 trapassa incontanente ai primi giorni di ottobre 1637, e con un solo punto a linea divide l’ anno delle nozze dal giorno della malattia mortale del Duca. Probabilmente il biografo disperò di trovare argomenti per far sì che in questi diciotto anni splendido. rifulgesse il suo Sole; io ne lo lodo. Conchiudendo dico, che egli nella prima parte della sua scrittura fu un panegirista svenevole, e nella seconda ci insegnò le arti per iscongiurare Imene, la docilità d’un figlio paziente, e le esor- bitanze d'una tarda pietà. S 5. Fatti anteriori alla Reggenza. (a) Il Duca Vittorio Amedeo I respinge le condizioni di lega propostegli dal C. di Richelieu. - Sua dignitosa e sapiente risposta. Stando ora' per entrare nel mio storico argomento, premetto alcuni fatti anteriori alla reggenza, ma ad essa relativi, i quali o poco noti o travisati dagli storiografi devoti alla Duchessa meritano o di essere col- locati in miglior luce, o rettificati. Correva l’anno 1634, ed il Cardinale di Richelieu invitava il Duca Vittorio Amedeo I a stringere con Francia una lega offensiva e difen- siva contro alla Spagna. Come parte delle conquiste che si farebbero egli offriva al Duca di cedergli l’Alessandrino sino alla Scrivia, il lago Mag- giore, il Novarese sino al Ticino, e l’intero Monferrato, del quale il Principe di Mantova verrebbe compensato con terre Lombarde. Ma ad un tempo voleva che il Duca demolisse il forte di Montmeillan, che riconoscesse la Savoia come feudo dipendente da Francia, e che alla Francia cedesse Cavour, Revello, e tutte le terre, le valli, e la china 8 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA orientale delle alpi, comprese tra Pinerolo e Saluzzo (1). Queste proposte erano consentanee a quella politica, che allora e di poi fu e sarà sempre naturale alla Francia. Ella aspirava ad ottenere la Savoia come suo confine geografico (2), poi ad andar via via allargando quella forte posizione militare, che sempre procacciò di possedere alle radici orien- tali delle nostre alpi; così le alpi, anzichè all'Italia, servirebbero di barriera alla Francia, ed il Piemonte sarebbe il teatro della guerra , ove altri assalire la volesse dalla parte d'Italia. A tali proposte il Duca Vittorio rispose con queste precise parole: Quanto alle riconoscenze (del ducato di Savoia), come che si tratta del principal titolo di sua Casa, il quale non può sottomettersi ad alcun nuovo signore, nè alienarsi senza il consenso de’ tre stati di questa co- rona, e degli interessati che hanno diritto di opporvisi, S. Alt, supplica umilmente $. M. di gradire, che pacificamente lo goda nella medesima forma che l'hanno goduto tutti li suoi predecessori , affinchè possa tra- mandare a’ suoi figliuoli il più nobile ed antico titolo di sua Casa nella medesima libertà che vi è stato per lo spazio di secento anni... . Come poi in luogo de’ grandi avvantaggi, che sì sovente si sono fatti sperare a S. A. ora si tratta di spogliarlo d'una gran parte del suo antico ed ereditario patrimonio , stima Ella molto più profittevole al bene de’ suoi Stati di prendere minor parte nelle conquiste proposte, più tosto che di perdere de' sudditi antichi, affezionatissimi e fedeli alla sua Casa, per averne de nuovi, dei quali non si sa ciò che se ne può promettere (3). Quanta dignità e quanta sapienza in queste parole semplici come il buon senso! Il Richelieu ed i suoi successori, volendo ampliare a Francia la sua posizione militare in Piemonte, sempre ai nostri Sovrani domandarono cessioni dell’antico loro retaggio, promettendo loro in compenso nuove terre in Lombardia ed oltre; ossia sempre mirarono (1) Siri, Memorie, tom. VIII, pag. 247, 59, e Lettres, Instructions du Card. Richelieu, tom. 1V, p. 671. (2) Enrico IV nel trattato di Brosolo 1610, stringendo lega col Duca Carlo Emmanuele promise di dargli il ducato di Milano a patto che si rassegnasse a demolire il forte di Montmeillan. (3) Siri, Memorie, tom. VIII, p. 248, 252. Il Cardinale, sebbene avesse riportato una negativa dal Duca, tuttavia non disperando di piegarlo raccomandava all’Hemery (Zrstruction, 4 adut 1735 presso PAubery, p. 789) essere intenzione del Re d’avoir quelques vallées, terres, et finages depuis ses frontiéres jusqu’à Pignerol, moyennant quoi S. M. cederoit à M. de Savoye la plus grande part de ce qui competeroit à S. M. dans les conquétes du Milanais. Egli procacciava di ottenere per trattato particolare col Duca ciò che non aveva ottenuto ne] trattato di lega. PER A. PEYRON. 9 a svellere dalle terre subalpine l’antico cedro Sabaudo per trapiantarlo in altre più remote della penisola. Tal politica fu coronata dal gran Napoleone. L'Italia cominciò alla Sesia; e la Francia, oltre alle alpi, ebbe un primo suo baluardo nella linea militare che da Alessandria corre a Genova. Ma il Duca Vittorio ed altri suoi successori più che al volume dei rami del cedro, e più che all'orgoglio d’un’alta punta già sperimentato , ed alla profondità delle radici che confortano il tronco facilmente scapezzata, sempre badarono alla qualità del terreno e pullulando figliano. è) La D. Cristina e la sua consorteria francese muovono una minuta guerra al P. Tommaso. - Loro ultimo stratagemma. - Tommaso abbandona il Piemonte per giusti motivi. La lega offensiva e difensiva, che il Richelieu continuò a trattare con noi, era caldamente patrocinata dalla Duchessa Cristina, francese per nascita, per orgoglio e per affetto al re fratello. In tal bisogna , come in altre, ella era coadiuvata da una consorteria di personaggi ragguardevoli, che ella colle sue grazie, collo spirito, e coi favori © conceduti o promessi aveva guadagnati a Francia. Ma il Principe Tom- maso, suo cognato e governatore della Savoia, durava inespugnabile, anzi propenso a Spagna non cessava di consigliare il fratello ad acco- starsi a quella corona, ed a guardarsi dall’infido ministro di Francia, che trarre lo voleva ad una guerra desolatrice del ducato. La consor- guerra di 5 sospetti, di diffidenze, di sfregii, di disgusti, di ripulse e di torti, che teria allora, disperatasi di acquistarlo, gli ruppe una minuta lo offendevano come padre, come sposo, come governatore nell’onor suo, ne suoi affetti e nei suoi interessi. Zedo, così egli scriveva al fratello, che sì desidera di disgustarmi per farmi uscire dalla sua servitù, e per conseguenza da’suoi Stati, per contentar quelli che non amano il suo sangue. Di ciò persuaso teneva per mezzo del presidente Costa secrete pratiche col Cardinale Infante e col conte Duca Olivares per passare al servizio di Spagna. Mentre pazientava e manteneva vive le sue pratiche col Re Cattolico, si offrì a’ suoi avversarii politici l’oppor- tunità di menargli un colpo decisivo. Questi nei primi mesi dell’anno 1634 persuasero il Duca di nomi- nare il fratello ministro plenipotenziario a Parigi per trattare e sotto- scrivere quella lega che il Richelieu avrebbe dettato, e la consorteria Sesie II. Tom. XXIV. 2 10 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA francese gli avrebbe ordinato di sottoscrivere. Tosto egli capì, che per l'una parte lo volevano compromettere con Spagna da lui prediletta, e per l’altra miravano a renderlo complice, sottoscrittore, e col tempo guerriero esecutore d’un trattato, del quale egli respingeva, non che gli articoli controvertibili, ma la sostanza ed il titolo stesso. Tuttavia prudente nel dissimulare le maligne intenzioni altrui ed il fermo suo proposito , egli nelle prime sue risposte al fratello si limitava a rimo- strare che il nostro ordinario ambasciatore a Parigi già aveva introdotta la pratica, e bastava solo a compirla, che la sua presenza in Parigi a nulla avrebbe giovato, e che la provvisione offertagli di sei mila scudi, mentre graverebbe l’erario, non gli basterebbe per sostenere il decoro della Casa, e sarebbe perciò costretto a contrarre nuovi debiti oltre a quelli da lui già fatti per servizio dello Stato. Dacchè a tali ragioni il Duca non si arrendeva, Tommaso il dì 26 marzo gli scrisse ancora queste gravissime parole: Dio sa se, quando V. A. mi richiamerà (da Parigi), : Francesi mi lascieranno tornare, perchè non si può rappre- sentare il servizio di V. A. nè la verità, che non si parli chiaro, il che si sa quanto loro è odioso, e quanti se ne risentono (1). Il Principe, incapace di avvoltacchiarsi nelle lunghe ed ambigue frasi della solita diplomazia, avrebbe da vero soldato parlato tondo, ed offeso il Giove fulminatore della stessa Regina madre, e dello stesso fratello del Re; quindi nel suo avvenire già vedeva il suo esilio dal Ducato, ed un nobile carcere in Francia. Esaurite così tutte le rimostranze, e perfidiando i ministri del Duca a volerlo imbarcato nel viaggio di Parigi, il Principe si appigliò al partito più spiccio e perentorio; fuggì. L'ultimo giorno di marzo, avendo sparsa la voce che si recherebbe con tutta la famiglia a caccia, partì da Ciamberì, e si soffermò in Tonon, d'onde il dì seguente indirizzò al regnante fratello una lunga lettera per partecipargli che abbandonava gli Stati ducali, si era fermato di servire Spagna, e ne adduceva i motivi. La lettera, scrive il venale Guichenon, fu pubblicamente letta in corte, e tutti si accordarono nel vedere combier étaient légers ces sujets de plainte (2). Questo primo giudizio fu la parola d’ordine , la quale si sparse nel ducato, si propagò tosto con lettere diplomatiche alle corti estere, fu di poi comandata alla storia, e la storia (1) Questa lettera e le altre che io sono per citare sì conservano nell'Archivio dello Stato (2) Guichenon, Mist. Gen., p. 575. PER A. PEYRON. II sempre ripetè che il Pr. Tommaso fu un cervellino permaloso da scor- rubbiarsi per un nonnulla. Parecchi dei disgusti enumerati dal Principe nella sua prima lettera, considerati in sè soli, potevano dirsi leggeri, ma considerati nella loro somma, e nella costante assiduità nell’ amministrargli un martirio di punture, di morsi, di trafitte e di piaghe rivelavano il partito deciso di tribolarlo, di stancheggiarlo e di liberarsi di lui. Pià volte si è trat- tato nella corte di Y. A., così diceva nella lettera, delli mezzi come fare che io mi alterassi in qualche cosa per levarmi questo governo, avendo lettere nelle mani, donde si vede chiaramente questo disegno. Diceva ancora: Zedo che V. A. continua a lasciarsi portare ai suoi mali mi- nistri a imbarcarmi in un viaggio di Francia con sei mila scudi, donde io non potrò riuscire a cosa di buono, oltre che vengo accertato da più bande, che in questo vi sieno molti artificiù pregiudicievoli al suo servizio, alla riputazione della Casa, alla mia persona. In altra lettera dell’ 8 settembre scriveva: Una e la principal causa, che mi mosse ad uscire dalla Savoia, fu il servizio di V. A. R., e per mettere î suoi Stati in riposo contro l'oppressione , che le sovrastava dalla violenza delle armi francesi agitate dalla mala volontà del Cardinale di Richelieu. Nell’in- tima sua lettera al fratello Card. Maurizio, scritta da Tonon lo stesso giorno ultimo di marzo così diceva: So che non mancheranno gente che biasimeranno questa mia risoluzione , però, quando si ricorderanno dei trattamenti che ho ricevuti, che qua non posso sperare alcun avanzo per t miei figliuoli, che mi si procura un viaggio così scabroso forse solo per levarmi di qui, e che in somma la mia intenzione, non ostante tutte queste cose, non è altra che di procurare a S. 4. ed a’ suoi Stati qualche appoggio contro quelli che li minacciano ad ogni ora, e metteranno in esecuzione se non saranno impediti, io assicuro che si metteranno alla ragione. Se una e la principal causa della sua determinazione fu il ser- vizio di S. A. R., ed il bene dei suoi Stati, ai quali pericolanti per la mala volontà del Richelieu egli sperava di recare appoggio, per certo 1 suoi motivi erano gravissimi. Che se alla sua risoluzione diede un’ese- cuzione subitanea, vi fu spinto da Torino. Imperocchè, dovendo dare un'ultima decisiva risposta ad una lettera, che lo voleva imbarcato pel viaggio scabroso, egli, anzichè rinnegare il suo convincimento, contraf fare al suo carattere, perdere l’onore, e sottoscrivere la rovina della patria, fuggì commettendosi alle pratiche avviate ed alla fortuna. 12 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Si era già egli indettato coll’Impero? No, solamente il dì 24 maggio il C. di Ognate gli scrisse da Vienna d'aver rassegnato alla Maestà Cesarea la sua supplica di servir l'Impero. Era già forse sottoscritto il suo capitolato con Spagna? Neppure, la Carta di protezione, che con gli annessi vantaggi lo nominava luogotenente generale militare in Fiandra, fu più tardi concertata e sottoscritta in Brusselle. Niuno dica che partì avendo giuoco sicuro in mano. Dacchè la storia comandata dalla Duchessa Cristina calunniò Tom- maso, nè la causa della sua fuga fu giammai rivelata dal Guichenon o da altri storiografi , io giudicai di pubblicare nell’ Appendice (1) le lettere stesse del Principe, che tuttora si conservano nel nostro Archivio di Stato, affinchè tutti ne- possano far ragione. Alla prima sua lettera da Tonon del dì 1 aprile il Duca rispose , ma la risposta io non la trovai nell'Archivio. Essa tuttavia sì può facil- mente ricavare sì dalla lettera dell'8 settembre di Tommaso, che pure pubblicai, e si da due lettere del Duca dell’ 8 aprile e 23 settembre all’Ab. Torre suo agente in Milano. Ravvicinando le parole stesse di queste tre lettere , la risposta del Duca diceva così: Non ci dogliamo del fatto, ma della maniera, cioè dell’assoluto secreto che manteneste con noi, e della gran diffidenza che ci mostraste. Voi così ci rendeste sospetti al re Cattolico, quasi che doveste nascondere a noi ciò che si indirizza per suo real servizio, mentre noi medesimi gli abbiamo altre volte offerto E non solo la persona vostra nel carico che vi è stato offerto, ma quella del Pr. Cardinale e la nostra, onde potevate partecipare a noi questi vostri disegni per avanzarli. Colla Francia poi ci metteste in tanta gelosia, che, se ella era manco occupata altrove, infallibilmente ci avrebbe voltate le armi contro, potendo credere che il tutto fosse seguito di concerto con noi. Inoltre ordinò al M. Forni, suo inviato straordinario a Madrid, di prote- stare a quella corte, che il Duca di Savoia aveva gradito la risoluzione del fratello, stimando suo proprio interesse che servisse S. M., e che, se si fosse lasciato intendere di questo, S. A. non solo non gli avrebbe vie- tato l’esecuzione del suo disegno, ma lo avrebbe sostenuto e protetto (2). Così il Duca parlava nelle lettere ostensibili a Spagna, ma effetti- vamente esterrefatto alla lettura del dispaccio di Tonon, chiamò tosto ) Vedi in fine il n.° 1. ‘ (i (2) Lettera del Duca al Forni conservata nel nostro Archivio. PER A. PEYRON. 13 a corte l'ambasciatore di Francia, e gli protestò di essere stato affatto ignaro dei disegni e delle pratiche di Tommaso. Del che l’ambasciadore, essendo rimasto persuaso, ne scrisse tosto al Richelieu, dal quale ebbe in risposta de rassurer le Duc, et de lui faire connoitre qu'il devoit, au lieu de ses terreurs mal fondees, avoir des espérances très-certaines (1). Il Duca, se cotanto si impaurì sino a temere che Francia gli volterebbe le armi contro, come mai avrebbe approvato ed avanzato il disegno del fratello ? Rimanga adunque dimostrato, che la fuga del P. Tommaso fu ne- cessitata dalle incessanti tribolazioni e dall’ultimo stratagemma della nostra consorteria francese, la quale voleva liberarsi da un incomodo patrocinatore di Spagna, e prevedendo, siccome vedremo, la non lontana fine del Duca Vittorio, preparava alla futura vedova una assoluta reggenza. (c) Il Card. Maurizio rinunzia al protettorato di Francia. - Suoi motivi. - Mal giudicato dal Richelieu. - Suo carattere. - Calunniato abbandona il Piemonte. - Altre prove del suo carattere. Il Cardinale Maurizio guari non tardò ad imitare l’esempio del fra- tello. Egli stava in Roma, quando il dì 23 ottobre 1636 pubblicamente rinunziò al protettorato di Francia presso la S. Sede, ed accettò quello della Spagna e dell’Impero. Per questa disdetta irritato l’orgoglioso Richelieu, oltre alle vendette che tosto ne ottenne dal Duca Vittorio, consacrò al Porporato collega un’acerba pagina nelle sue Memoires lib. XXVII, pag. 55, calunniandolo nei motivi che ve lo indussero. Il vero motivo, che io ricavai dalle sue lettere al Duca fratello, è il seguente. Quanto più il Richelieu spingeva il Duca Vittorio ad una guerra desolatrice del Piemonte, tanto più il Principe Cardinale si alienava da Francia, e si accostava a Spagna, che ci permetteva, anzi ci supplicava di rimanere neutrali. Di tal mutazione d’animo si avvide il gran Ministro, e, venendo a diffidare del protettore del regno, prese a commetterne i varii uffizii ad altri in Roma, talchè nel corso d’un anno non comunicò al Maurizio se non due negozii, e questi ancora dopochè erano pubblici. Il Cardinale si risentì, e giudicò offesa pubblicamente la sua riputazione, (4) Richelieu, Memo:ires, lib. XXV, pag. 545. 14 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA e mal sofferendo (sono sue parole) (1) di restare nella corte di Roma per servire di sola apparenza prese il partito d'ogni uomo d’onore disdi- cendo la protezione di Francia, ed assumendo quella dell'Impero e della Spagna politicamente da lei predilette. Il Duca, come intese la rinunzia del fratello, ordinò al suo amba- sciadore in Roma di troncare con lui ogni relazione di famiglia, che anzi gli staggì in Piemonte il suo appanaggio; ciò è vero, ma non ne consegue che il Cardinale etoît mal avec son frère, che il Duca recut un extrème deplaisir de cette action, siccome disse il Richelieu. Il Duca, per allontanare da sè il sospetto di complicità, e far cosa grata all’adirato Ministro, doveva dare una pubblica testimonianza di disapprovazione , e la diede ma affatto esterna. Imperocchè egli per le sue intime rela- zioni col fratello si servì dappoi principalmente del P. Giovanni d’Agliè Generale dei Cappucini, e per mezzo di lui significò al Cardinale di avere nominato delegati per liquidare i conti reciproci, soggiungendo che, se egli fosse stato creditore, avrebbe dato ordine per la soddisfazione, ed il Cardinale rispondendo pregava il fratello di ripigliare alcuni effetti, che già gli aveva consegnati, în estinzione de’ suoi crediti. Vale a dire nel maggio 1637 i decorsi del confiscato appanaggio non bastavano ad estinguere i suoi debiti verso il Duca (2). V'ha di più: il Cardinale nella sua nota al Presidente Morozzo del 26 dicembre 1637 così diceva: Zo feci rappresentare a S. A. R. di glo- riosa memoria una lunga serie di ragioni, per le quali fui necessitato a lasciare la protezione di Francia, se non voleva lasciar cadere affatto la mia riputazione , e perchè allora furono ben vedute, non occorre ora replicarle. Dunque il Duca aveva approvato le ragioni e la risoluzione del fratello. Il vero motivo della mutazione del Cardinale non poteva essere ignoto al Richelieu, ma il suo orgoglio offeso dal rifiuto andò cercando motivi nel carattere del Cardinale, dicendolo così sgraziato, che in Piemonte ed in Roma era mal veduto da tutti. Alla pagina dettata dalla stizza del vendicativo Ministro io opporrò il genuino carattere del Por- porato, così spiegherò l’intera sua vita. (1) Nota del Card. Maurizio al Presidente Morozzo. Genova 26 dicembre 1637. (2) Lettera del P. Gioanni da Moncalieri al Duca. Roma 17 maggio 1637, conservata nell’Archivio dello Stato. PER A. PEYRON: 15 Il Card. Maurizio aveva un alto concetto della sua casa e di sè stesso, ed a tal concetto corrispondeva la numerosa sua corte, lo sfarzo della sua casa, de cocchi, de’ cavalli, la magnificenza nel corteseggiare (1), ed il farla da mecenate coi dotti e con gli artisti che raccoglieva nella sua privata accademia; quindi derivarono i debiti che sempre lo assediarono, ed il continuo suo bisogno di danaro. Il suo contegno e sfoggio reale poteva bensì ingelosire in Roma alcuni cardinali e principi, rivali nel grandeggiare, ma non mai renderlo odioso a tutti; che anzi la magni- ficenza munifica piace perchè utile a molti. Persuaso delle sue molte e svariate abilità amava di comandare, ambizione questa , che , se gli era comune colla Duchessa e col Richelieu, non lo trasse mai ad usur- pare gli altrui diritti. Egli si limitava a dare, non richiesto, consigli al Duca ed a’suoi ministri. Nella politica esterna raccomandava caldamente amicizia e lega coll’Impero e con Spagna, e sotto la protezione d’amendue una lega dei Principi Italiani. Nell’economia interna, fra gli altri mezzi di ricchezza, proponeva una spezie di banca piemontese con succursale a Roma (dove sarebbe presieduta da un Cardinale, cioè da lui stesso), ed estensiva ai ducati d'Italia (2). Nei negoziati e generalmente nella vita comune aveva il solito difetto degli animi leali ed onesti, quello di credere facilmente pari a sè gli altri. Per questa sua facilità di vagheg- giare disegni giustissimi in sè ma ineseguibili in quelle condizioni del- l’Italia, poi per la sua bonarietà nel confidarsi ad uomini poco degni, avveniva che i suoi consigli non erano approvati, ed egli stesso. poco adoprato nelle cose dello Stato; donde nasceva il suo mal umore contro ai ministri, ed il desiderio di questi di sbarazzarsi d'un incomodo con- sigliere. Col Cauda poi sopraintendente delle finanze lo serezio era tanto più naturale, quanto più l’uno abbisognava di danaro, e l’altro lesinava nello spendere. Stavano in questi termini le condizioni del Cardinale, quando es- sendosi instruito un processo contro una donna, che dicendosi spiritata sparlava del Duca Vittorio come inetto a governare, vennero carcerati (1) Qu: si spende all'ingrosso, importerebbe andar ritenuto e misurato; non c’è rimedio. Le spese di carrozze, di cavalli, di livree, di mobili hanno già fatto fare debiti per più di 25 a 30 mila scudi. Lettera dell’Ab. Vibò al Duca Vittorio, Roma 23 maggio 1636. (2) Proposta degli ordini necessari per far fiorire il Ducato quanto al commercio ed alla ricchezza nel mazzo 26 delle carte Messerati. Questa scrittura è opera del Card. Maurizio, od almeno da lui patrocinata. 16 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA come complici della donna il commendatore Pasero ed il conte Messerati, addetti alla corte del Cardinale; che anzi lo stesso Cardinale cadde in sospetto d’essere protettore della spiritata, ed informato della complicità de’ suoi cortigiani. Egli allora partì per Roma, nè più ritornava, sde- gnato contro ai curiali, che lo avevano offeso nel suo onore e nelle persone de’suoi servidori; e scriveva al fratello: vedo che 7. 4. R. non ha risguardo a ciò che può intaccare la mia riputazione per dar gusto a Cauda (1). A queste parole risentito il Duca lo certificò con lettere di non avere giammai avuto ombra di sospetto, che avesse in qualsiasi modo partecipato all’intrigo della donna; ma lo accertava pure essere cosa indubitata che i principali servidori della corte di lui avevano con molta libertà tenuti tali discorsi, che concordando coi sentimenti della finta indemoniata davano gravi sospetti di complicità, epperò niuna colpa ricadeva sui curiali se il Pasero ed il Messerati erano involti nel processo. Non contento alle lettere, il Duca commetteva al P. Giovanni cappucino si recasse dal Cardinale a dichiarargli vie meglio i suoi fra- terni sentimenti; ed il padre riferiva (2) che il Porporato lietissimo della buona opinione del fratello osservava tuttavia che il processo durava da oltre due anni, ed era omai tempo che l innocenza del Messerati fosse riconosciuta, epperò instava acciocchè la sentenza fosse pronunziata. Vale a dire ei temeva che i malevoli, non trovando colpa nel Messerati, si astenessero dal dare sentenza per tenerlo così in carcere; e questa era la verità. Imperocchè il Messerati tesoriere d’un padrone sempre bisognoso di danaro, ed il Cauda gretto e tegnente capo delle finanze non potevano a meno di essere in mali termini fra loro. Quindi il Car- dinale nella sua citata lettera al Duca diceva: [Von parlo della pazienza che mi è convenuto avere per vivere col mio, e del danno che ho patito per le lunghezze de’ trattati, mancamenti e mutazioni d’ assegnamenti e perdite che ho fatte in varii partiti. Adunque il Richelieu, quando nella sua calunniosa pagina delle Memoires parla della poursuite que l’on faisoit contre un nommé Messerati, son domestique, detenu prisonnier au chdteau de Turin, ed accenna les meconteniemens qu'il prétendoit avoir recus du president Caude, poteva bensì citarli come causa della partenza del Car- dinale da Torino, ma non mai come causa che lo abbia indotto a disdire (1) Lettera del Card. Maurizio al Duca Vittorio, Roma 2 dicembre 1686. (2) Lettera citata del P. Gioanni al Duca. PER A. PEYRON. 17 il protettorato di Francia, nè come prova d’étre mal avec son frère. Egli nel suo frequente carteggio col fratello gli mantenne l’ossequio e l'affetto dovuto, e consigliandolo di accostarsi a Spagna gli offriva i suoi servigii. La spontaneità del suo carattere spiccò evidente in Nizza, dove si insediò dopo aver pacificamente conquistato quella città colla Contea. Leale nel tenerla a nome del nipote pupillo, giusto nell’amministrarla, magnifico nello spendere oltre le facoltà, sî Zevò (sono parole del Mes- serati) a spiriti altissimi, talchè nutriva molie chimere în testa, e parlava in Nizza come un Richelieu in Pinerolo (1). A tali esorbitanze poetiche egli veniva eccitato dagli adulatori, in capo dei quali pongo il Com- mendatore Pasero, uomo di natura biliosa, violenta, vendicativa, simulata, ma lusinghiero e dotato di facondia come d’ingegno (2). A lui contrap- pongo il Conte Messerati, conoscitore acuto degli uomini e delle cose, destro ne’ negoziati perchè d’indole moderata, conciliante, e sinceramente devoto ai due Principi. Il Cardinale posto fra il Pasero ed il Messerati ne sentiva il diverso influsso, ma con questa differenza. Il Pasero, perchè ricusato da Spagna e dai ministri di Lombardia, si era, con un corteo di giovani suoi cagnotti, aggavignato adosso al Cardinale, alle cui spese tutti vivevano; laddove il Messerati, perchè abile negoziatore accettato da tutti, era continuo in volta a Milano, a Madrid, al campo di Leganes, alla tenda del Pr. Tommaso, a Ciambery, a Susa con M. R., a Lione presso il Re di Francia. Dall’ assenza o dalla presenza dell’uno o del- l’altro derivavano oscillazioni nel Cardinale. Ne addurrò un esempio. Nel settembre del 1639 il Messerati in Susa, invitato da Madama a darle una nota delle pretensioni del Pr. Tommaso, rispose che, sic- come il Principe prima di presentarla la vorrebbe approvata dal fratello, la nota tornerebbe da Nizza emendata e rifatta in modo esorbitante , perchè là stava il Pasero; epperò egli avrebbe aspettato l’opportunità che il Commendatore fosse assente. Così fu, e, mentre il Pasero era venuto a Torino, egli corse a Nizza, e persuase il Cardinale ad approvare le condizioni moderate propostegli dal fratello. Al sentire l’esito di tale missione il Pr. Tommaso ebbe a dire al Messerati: 7 fucesti miracoli, ed il Pasero con poco suo gusto lo confessò (3). (1) Relazione dei discorsi tenuti dal Messerati col C. Filippo in Ciambery nell’ ottobre 1639. (Archivii dello Stato). (2) Riguardo al Pasero vedi la mia nota nell’appendice n.° 2, (3) Memorie del negoziato del C. Messerati a Susa con Mad. R. li 8 settembre 1639 nell’ Ar- chivio dello Stato. Senie II. Tom. XXIV. (S0) 18 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Se non che il fratello Tommaso, che meglio di tutti lo conosceva, così da Fiandra il 2 novembre 1637 scriveva alla Principessa di Cari- gunano: /7 est necessaire que j'aille du moins jusquà Milan ...... mais je ne puis le faire sans licence. Le Cardinal mon frère, comme plus près, y peut étre plutòt que moi, mais, comme il est d'un naturel fort soudain et facile, ou qu'il rompra tout dès le commencement, sans considérer qu'il ne le faut faire sans avoir les forces à la main, ou que moiennant quelque argent, ou quelque parti quon lui fasse, il s'accordera à ce quon desirera, et nous laissera peut-étre en arrière. La condotta seguente del Cardinale dimostrerà essere stati veri i suoi impeti subitanei impazienti di calcolare le forze, e vera la sua facilità a lasciarsi tentare da partiti splendidi per oro, per connubii, per titoli, proposti da chi egli facil- mente supponeva sincero e leale; ma dimostrerà pure che egli , facile a subire tentazioni ed oscillazioni temporanee, alla fine nulla mai deliberò senza il consentimento di Tommaso, che stimava ed amava. Il Richelieu poi e l Hemery, che io giudicavano uomo di spirito debole , facile a cedere al male ed al bene secondo le impressioni da altri ricevute, avrebbero dovuto aggiungere con Vittorio Siri, che agli enormi partiti propostigli da’ suoi adulatori egli opponeva la magnani- mità degna del suo cuore e del suo sangue (2). Tal fu il Cardinale Maurizio nelle sue virtù e ne’ suoi difetti. I due Principi, sebbene puniti dal fratello colla confisca dei loro appanaggi, mantennero non di meno con lui un’epistolare corrispondenza rispettosa ed affettuosa, nella quale non cessavano di consigliarlo che si aderisse a Spagna, e respingesse ogni lega con Francia. (A) Il Duca Vittorio negozia con Spagna contrastato dalla scaltra consorte. - Generale della lega bilancia tra Spagna e Francia i vantaggi e le perdite. - Propone a Francia una guerra grossa non accettata dal Richelieu che lo scusa. Mentre i due Principi fratelli apertamente servivano Spagna , il Duca Vittorio teneva con essa segrete pratiche. Noi le conosciamo special- mente per mezzo del carteggio di Mons. Gandolfo vescovo di Alba, che si conserva in questo Archivio di Stato. Egli sin dall'anno 1633 era (1) Relazione dei discorsi tenuti dal Messerati su citata. (2) Richelieu, Mémoires, lib. XXIX, pag. 291; Siri, Memorie, VIII, p. 593, 613. PER A. PEYRON. 19 stato dal Sovrano inviato a Barcellona per ossequiarvi il Cardinale Infante di Spagna, che quindi poi si condusse a Villafranca di Nizza, dove il Duca si recò ad accoglierlo con onori e feste sfoggiate. Checchéè gli altri, scrisse il Guichenon (1), ne abbiano sospettato, quell’abboccamento col Duca finì in meri complimenti e cortesie. Questo non è precisamente vero. Il Gandolfo così scriveva a M. R.: Sua Alt. R. di gloriosa me- moria, conosciuta l'intenzione de’ Francesi di turbar la quiete d'Italia... . andò con prudenza trattenendo le risoluzioni (della lega con Francia) finchè, superate le difficoîtà dell'elezione del Re de’ Romani, si fossero gli Spagnuoli rimessi în stato di potere ed opporsi ai disegni e bilanciare le forze (di Francia). Questo fu ciò che solamente pretese nell’abbocca- mento di Nizza il S. Card. Infante da S. A. R., dimostrandogli quanto S. M. lo avrebbe gradito, in cui nome lo ricercava. Vostra A. R. tro- verà le memorie del detto negoziato fatto da me e scritte di mia mano (2). Da questa lettera e da altre del Gandolfo noi ricaviamo che il Duca significava alla Spagna siccome egli stretto dalla necessità avrebbe dovuto mal suo grado collegarsi con Francia, ma ad un tempo desiderava di attestare il suo rincrescimento e la sua osservanza al Re Cattolico, come anche la sincera volontà di poterlo in qualche modo servire. Infatti egli protrasse la sottoscrizione del trattato di lega sino al 15 giugno 1635, ed in quel torno nuovamente protestava che egli governerebbe la guerra in modo da recare il minor danno possibile alla Spagna, ed avrebbe bilan- ciato gli acquisti e le perdite; ma sperava che in ricambio la Spagna avrebbe possibilmente risparmiato le vite e le sostanze de’ Piemontesi. Oltre al Vescovo d’Alba, il cav. Mondella bresciano risiedeva come agente segreto del Duca in Milano presso quel governatore spagnuolo. E siccome, mentre dibattevansi gli articoli della lega, frequente era il carteggio del Mondella col Duca, e frequenti le sue gite a Torino, la Duchessa Cristina, insospettitasi che l'agente ordisse qualche accordo con Spagna, lo tentò coll’offerta di donativi profusi, e da ultimo unita- mente all’ambasciadore francese Du Plessy-Pralin lo presentò d’un diamante del valsente di 1500 scudi, per risapere da lui qual fosse il negozio che egli trattava. Egli riferì ogni cosa al padrone, il quale gli permise di ritenere il diamante, e gradì che continuasse a spillare dalla consorte (1) Hist. Gencal., p. 897. (2) Gandolfo, lettera dell’ 8 aprile 1638. 20 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA i suoi occulti disegni e maneggi. Ella, nulla potendo risapere dalla bocca del Mondella, tentò altra via col procacciare d'intercettare i dispacci di lui al Duca; questi se ne avvide, e rese avvertito il suo agente di andar cauto nel fargli pervenire le sue lettere (1). Che mai voleva la Duchessa? Respingeva con tutte le sue forze una lega con Spagna, che offender potesse il Re fratello, giacchè da questo sperava di ottenere o la neutralità del Piemonte, ovvero una sospensione generale o particolare delle armi in Italia. Ma sbagliava la giusta via. Imperocchè, per ottenere qualsiasi di questi due intenti; il Piemonte si doveva appoggiare sulle armi del Re Cattolico. Il Duca, dichiarato generalissimo delle armi collegate, prese ad indi- rizzare e condurre la guerra in modo da bilanciare fra i belligeranti i vantaggi e le perdite, siccome avea promesso a Spagna. Il Crequy, ma- resciallo di Francia, volle assediare Valenza, e Vittorio, che per più ragioni giudicava imprudente tale impresa, non si mosse, se non quando l’esercito francese correva gravi pericoli, allora vi andò con buona mano di sue truppe, lo liberò, e, levato l'assedio, lo ricondusse in salvo. Quando l’espugnazione di Valenza, così il Vescovo d'Alba scrisse di poi al C. Filippo, non si potè più conseguire , io dispacciai l'eremita a D. Francisco de Melo in Genova per dirgli, che S. A. R. il Duca Vittorio non voleva che si espugnasse (2). Il Maresciallo , volendosi discolpare dell’esito infelice dell'assedio, prese ad accusare il Duca presso al Ri- chelieu, e il Duca, giustificandosi, accusava il Maresciallo adducendo quelli argomenti , che il Cardinale riferì poi nelle sue Memoires lib. XXVI, pag. 649 sg. Se non che Vittorio, ristucco di quella minuta guerra che era obbli- gato ad esercitare con poco profitto di conquiste, ma con molto danno del Ducato, rimostrò in una sua nota al Richelieu, che, per ottenere una buona pace, è falloit faire trois ou quatre mois auparavant la guerre fortement; sans cela on ne mettroit pas les Espagnols à la raison. Per tal fine proponeva che Sa Majesté et agreable d’entretenir en Italie vingt mille hommes de pied et trois mille chevaux, moyennant quoi il promettoit à S. M. d’en avoir en campagne dix mille hommes de pied et trois mille chevaux, dont il desiroit quelle paydt mille de pied et d {1) Vedi la testimonianza del Mondella nell’Appendice n.° 3. 2) Gandolfo, lettera dell’li1 settembre 1638. PER A. PEYRON. ni doo chevaux, pour lesquels il ne demandoit que six mois de paye .... outre quelques autres conditions pour le pain et les munitions de guerre. Si elle lui accordoit ces choses, il lui répondoit des affaires d’Italie . .... autrement il avoît juste sujet de craindre que S. M. ne fit pas son prin- cipal de la guerre d’Italie, et que ainsi il demeurdt accable sous le faix d'icelle , et à la merci des Espagnols (1). Ma ad wu tempo il Duca rimostrava che assai più d’una guerra od offensiva o difensiva tornerebbe vantaggiosa una sospensione d’armi. Diversi da questi erano i consigh del Richelieu, che consegnò poi nelle sue Memoires lib. XXVII pag. 162 sg. Egli bilanciando fra sè e sè la sospensione d’armi, ed i partiti d'una guerra o grossa, od offensiva, o difensiva, riconosceva, che per esercitare una guerra grossa la Francia dovrebbe somministrare 22 mila uomini e 2500 cavalli, il che impor- terebbe l’annua spesa di cinque milioni. Per la guerra solamente difensiva computava che, oltre al guernire di buoni presidii Casale, Pinerolo , Breme e Nizza di Monferrato , si richiedevano da 6 a 7 mila fanti e 1500 cavalli per campeggiare, e l’annua spesa ammonterebbe a milioni tre. Se non che egli ben prevedeva che, se la guerra si limitava alla difesa, gli Spagnuoli si getterebbero sugli Stati del Duca di Savoia, /equel au méme temps demanderoit pressamment secours de S. M., qui ne lui pourroit peut-étre pas fournir au temps qui lui seroit necessaire, et ce refus de secours et sa crainte pourroient apporter quelque changement CINISOTA ESPriSTANA: et se voyant réduit è une defensive , peut-étre se menageroit avec les Espagnols en sorte qu'ils ne l’attaqueroient pas. Da ultimo nella sospensione d’ armi prevedeva varii inconvenienti , e spe- cialmente che cela assurement porteroit M. de Savoye dans une newtralité et le reconcilieroit aux Espagnols. Per tutte queste considerazioni Sa Majeste se resolut è continuer l'offensive qu'elle avoit commence, et ordonna des troupes suffisantes pour former une armée capable de le . faire (2). Evidentemente il Cardinale sotto il nome di guerra offensiva inten- deva quella, che stipulata nel trattato di lega obbligava la Francia a somministrare 12000 fanti e 1500 cavalli; ma questo smilzo numero di truppe non bastava perchè riunito alle nostre si potesse dividere in due (1) Richelieu, Memoires, lib. XXVI, p. 650, e Siri Memorie, VIII, p. 299. (2) Richelieu, Mémoires, lib. XXVIII, pag. 162 sg. 22 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA corpi, dei quali l’uno più forte entrasse nel paese nemico, e conquistando vi si stabilisse, mentre l’altro corpo minore servisse di riscossa, e con- tenesse le correrie diversive del nemico nel Ducato. Di questa ibrida specie di guerra offensiva l’esercito alleato diede un saggio, quando, essendosi spinto sin verso Arona, fu obbligato a rientrar nel Ducato dal Leganes, che minacciava Gattinara e Vercelli. Il Duca, essendosi persuaso che il Richelieu denominava offensiva quella guerra, che intendeva fosse solamente diversiva da quella che si travagliava in Fiandra e sui confini della Francia, ma in realtà si eserciterebbe nel Piemonte desolandolo, ebbe mille volte ragione di maneggiarla in modo che non offendesse la Spagna, affinchè la Spagna non offendesse il Ducato. Epperò il Richelieu quando scrisse che en Italie les armes du Roi prosperèrent autant qu'on le pouvoit esperer dans la froideur et la crainte du Duc de Savoie (1), avrebbe dovuto incolpare se stesso , che non accettò la guerra grossa e terminativa propostagli dal Duca. Se non che il Cardinale nelle sue Memoires riconobbe la ragione- volezza della froideur e della crainte del Duca, scrivendo che egli con- sideroit la petitesse de ses états, situes entre deux si grands princes, que le moindre échec qu'il pourroit recevoir le mettoit en danger de les perdre entièrement; ce qui l'obligeoit à se ménager, mais lui donnoit un extréme regret, quand il voyoit quon en prenoit sujet de se meéfier de lui, et qu'on attribuoit à infidelite ce qu'il faisoit par prudence néces- SAUNA Il ne put jamais étre détaché des: Espagnols ...... quil ne se vit premièrement abandonné d’eux ..... . à la merci du Roi (de France); ce qui montroit en lui une generosite aussi veritable, que celle de son père étoit apparente. Néanmoins étant d'humeur d’entretenir des Jalousies , et ne V’etant pas de hasarder ses états ni sa personne mal à propos, il en recut ce désavantage qu'il étoit suspect à tout le monde, qui croyoit qu'il fuisoit toutes choses è autre dessein que ce qui parois- soît (2). Così il Cardinale, parlando del morto Duca, scusava e quasi lodava il destreggiarsi del piccolo Sovrano, chiamandolo prudenza neces- saria, che non intaccava la fedeltà. Se il Duca avesse protratto la vita sino allo spirare del triennio della lega, l'avrebbe egli confermata? Il Gandolfo non dubitava di affermare, (1) Richelieu, Mémoires, lib. XXVIII, pag. 162 sg. (2) Lo stesso, pag. 170. PER A. PEYRON. 23 che, se il Duca viveva, si sarebbe aggiustato con Spagna alle stesse con- dizioni e vantaggi de’ Duchi di Sassonia e di Baviera ...... Perchè ristucco de Francesi aveva già aperti negoziati con Spagna, ed aspettava solo il ritorno di D. de Melo di Germania. Così il M. Leganes sarebbe stato mandato în Borgogna , it che avrebbe coperto la Savoia (1). La Duchessa poi affermava, che il Duca defunto pretendeva di non essere più obbligato all'osservanza della lega, perchè gli fallirono le condizioni in essa stipulate. Infatti per la morte del Duca di Mantova gli mancavano le sue truppe, il Duca di Parma si era ritirato, la Valtellina era perduta, gli alleati di Germania si erano riaccostati all'Impero, e la Francia non aveva mandato in Fiandra il forte esercito promesso (2). Ciò era vero, ma la Duchessa non mai soggiunse che il consorte si sarebbe unito a Spagna; ma era pur vero che il Duca nell’ ultimo anno di sua vita negoziava più che mai con Spagna. 8 4. Il Duca cade infermo. - Un sospiro dell'agonizzante destituto di cognizione è al titolo legale della reggenza assoluta di Madama. Negoziava, quando sul finir di settembre 1637 cadde gravemente infermo in Vercelli. Tosto l’Hemery, ambasciadore di Francia presso la nostra corte, ne ragguagliò il Cardinale di Richelieu, e gli chiese con sua lettera del 5 ottobre le opportune istruzioni nel caso di morte, soggiungendo : cependant, si nous etions prevenus avant que d’avoir les réponses des V. Emin., je pense qu'il n°y a rien à faire, que de rendre Madame tutrice de ses enfants et maftresse des places. La morte del Duca avvenuta due giorni dopo prevenne ogni risposta di Francia, e l'Hemery, partecipando al padrone tal grave perdita, così scriveva alli ro del mese: M. de Savoie se confessa si tard, que dès aussi tot perdit toute connaissance ..... Après sa confession je sollicitois son testament quil ne put faire (3), mais on trouva cet expedient, que son confesseur (1) Gandolfo, lettere del 26 e 30 agosto 1638 al C. Filippo. (2) Dispacci di Cristina al P. Maurizio ultimo febbraio 1638. (3) Il Tesauro, Origine, p. 22, afferma di aver veduto la minata del testamento scritta dal Pre- sidente Binelli conforme ai voti del Richelieu, ma non stipulata, perchè la morte prevenne il testamento. 24 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA x lui dit, qu'il avoit toujours temoigne vouloir remettre à Madame le soin des ses enfants et de son état, et que lui avoit dit qu'il vouloit faire un testament, s'il ne demeuroit pas dans cette méme volonte. On voulut ouir qu'il dit en italien si, mais c'étoit un soupir plustot qu’une reponse. L’on prit occasion pour dresser un testament signe de neuf des principaux de la dite court, et ceux qui se font en cette sorte sont authentiques au dit pays (1). Quanto più YHemery, presente alla scena e caldo sol lecitatore del testamento , si illudeva che tal genere di scrittura avesse in Piemonte almeno il valore di un testamento , tanto più riesce cre- dibile la sua narrazione del sospiro. Egli premise tutti i dati annunziatori d'una solenne nullità, poi conchiuse per la validità dell'ultima disposi zione. Ma un agonizzante, che ha perduta toute connoissance, che non parla, che non può far sulla carta un segno di croce, e che sentendosi il timpano intronato da una voce getta un sospiro, e questo di dubbio suono (on voulut ouir un si), costui non può fare un atto umano con cognizione d’intelletto e deliberazione di volontà. Di ciò ben persuasi la Duchessa ed i cortigiani non mai onorarono quella scrittura col titolo di testamento, ma sempre la denominarono dichiarazione , atto e simili; siccome sempre si guardarono dalla schiettezza dell’ambasciadore , che ci rivelò il sospiro ed il miserevole stato mentale del moribondo. Gli stessi Principi fratelli sempre negarono la legalità dell'atto, ma neppur essi conobbero mai quanto l’Hemery confessò. La scrittura non fu mai presentata a magistrato alcuno, nè deposta in alcun archivio; ma, al dir di Valeriano Castiglioni (2), fu gettata in uno sterquilinio , che poi trovata a caso da un borgese fu consegnata al M. di Pianezza (3). (1) Questo brano di lettera fu copiato dal Richelieu nelle sue Memotres lib. XXVIII p. 173. Io lo copiai dall’originale di Parigi. (2) Historia della Reggenza di M. R. Christiana di Francia, che sì conserva manoseritta in questo Archivio di Stato lib. IV, pag. 45. (3) Madama con sua lettera diretta al Senato di Piemonte gli partecipò la morte del Duca, sog- giungendo, che era determinata ad assumere la tutela de’ R. infanti e la Reggenza degli Stati secondo la mente a piena intelligenza dichiarata dalla fu A. R. davanti sufficiente numero di testimoni, ed il Senato interinò la dichiarazione di Madama, che accettava i due carichi. Vedi i documenti pubblicati dal C. Pinelli nelle sue Memorie ragguardanti alla Storia civile del Piemonte, inserite nelle Memorie della R. Accademia di Torino serie II, tom. I, pag. 33 sg. Allora il Bellone presidente del Senato, interrogato da Madama sulla legalità delle sue pretensioni alla reggenza, rispose: Zr tutti i fogli dei libri delle leggi V. A. R. troverà che è la sola tutrice, se ella vuole. Ma egli (prosegue il Tesauro Origine delle guerre civ. pag. 24 a dire) nor parlò poi sempre così. Egli stesso distese il Ma- nifesto per li Principi contro Madama, il quale ho veduto per minuta di sua mano piena di cancellature. PER A. PEYRON. 25 Alla nullità dell'atto si supplì con interinazioni dei senati, con ma- nifesti, con giuramenti di fedeltà, e con partecipazione alle corti straniere. Nell’ instruzione data al barone Pesieux per recarsi in Fiandra a dar parte della morte del Duca alla Regina madre, la Duchessa diceva che il Duca defunto s'est fellement confié en notre affection, qu'il nous a voulu laisser absolue maîitresse de tout l’état, sans aucune restriction ni limitation, declarant publiquement qu'il ne vouloit qu'autre que Nous y ett autorité, et qu'il n’avoit besoin de nous donner aucun avis pour le bon gouvernement, puisque lui méme avoit accoutumé de le prendre de Nous (1). La menzogna e l’impudenza vanno di paro colla millanteria. Con tali auspizii fu iniziata la reggenza di Cristina, e furono esclusi i due Principi cognati. Che per essi stesse il diritto fu con ragioni legali e colle consuetudini della Casa di Savoia dimostrato dal GC. Tesauro (2), e tal parere io vedo confermato dal C. Sclopis magistrato autorevole (3). $ d. Che l'Hemery abbia tentato d'impadronirsi delle persone della Duchessa e sua prole è una sciocca calunnia creduta per oltre due secoli da noî. — Carlo Botta giudicato come storiografo. - Il Duca non morì di veleno. Nel narrare l'agonia del Duca gli storici tutti dal Guichenon al Saluzzo ed al Botta inseriscono un infame disegno dell’ Hemery, che io riferisco secondo la volgare tradizione registrata dal Guichenon nel suo Soleil. In una delle camere del Duca moribondo sedevano vicini l’amba- sciadore Hemery ed il maresciallo Crequy. Alle loro spalle pendeva un arazzo acconcio a coprire un tramezzo di semplici tavole o di tela intelaiata, e dietro il tramezzo stava in orecchi una cameriera di corte. L'Hemery allora, a nome del Richelieu, ordinò al maresciallo di far entrare in città le sue truppe vicine, affinchè con esse, morto il sovrano, si impadronisse della Duchessa e della sua prole. All’udir tal proposta il Crequy, uomo d'onore, inorridì, ma alle instanze del collega, che lo minacciava dei fulmini del tonante, finalmente acconsenti. Già per (1) Archivio dello Stato. (2) Tesauro, Origine, p. 9 sg. (3) Sclopis, Documenti ragguardanti alla storia della vita di Tommaso di Savoia, p. 16. Serie II, Tom. XXIV. 4 26 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Vercelli discorrevano soldati francesi più mumerosi del solito, quando la cameriera riferì a qualche cortigiano il colloquio da lei udito dei due Ministri. Tosto il nostro governatore di Vercelli sgombra la città dai Francesi, ne chiude le porte, ne proibisce l’entrata a qualunque francese, ed introduce in città truppe nostrali. Scongiurato l'imminente pericolo, i cittadini si rassicurano, la Sovrana riceve congratulazioni, il governatore è levato a cielo, e la cameriera avrà ottenuto gli onori ed i vantaggi delle oche del Campidoglio. Che l’Hemery, altrettanto prudente quanto scaltro, abbia scelto per ordir la trama un’anticamera del castello in quell’occasione frequentatis- sima, ed abbia parlato con voce sì alta da trapassare un assito, questo appena si scusa in un classico dramma fedele osservatore dell’Aristotelica unità di luogo. Inoltre tal sorpresa e cattura non sarebbe stata soltanto un crime, al quale in politica poco si bada, ma un solennissimo errore fatale alla Francia, che non poteva cader in mente del gran Ministro e del suo ambasciadore. Infatti, poniamo prigioniera la Sovrana coi figli, tosto, all’udir questo scellerato colpo di mano, le nostre truppe, i borghesi, il Piemonte tutto, che svisceratamente abborrivano la Francia, si sarebbero levati in arme; le vicine truppe spagnuole, forti di 15 mila uomini, tragittata la Sesia, si sarebbero unite a noi; accorso da Roma il Card. Maurizio, popolarissimo nel ducato, forte della protezione di Spagna, certo dell’approvazione dell'Impero, avrebbe legalmente e con universale applauso occupato il trono vacante. Contra i nostri soldati, anzi contra la serrata falange di tutto il Piemonte, che mai avrebbero fatto i Francesi? Dico i 4500 Francesi allora presenti nel ducato? Nell’ottobre 1637 la storia nelle sue pagine avrebbe registrato i vespri Piemontesi. Il ducato sarebbe caduto in mano di quel Pr. Maurizio, che Francia voleva tener lontano persino dai confini del Piemonte; e la Francia, designata all’abbominazione dell’ Europa, avrebbe perduto ogni speranza di dominare su noi. Lo stesso Guichenon, che primo pubblicò questo infame disegno , non dubitò nella sua /istoîre geneu- logique di soggiungere l’execution et été indubitablement funeste aux auteurs. La politica da seguirsi per giungere al dispotico dominio del Piemonte era questa, che lo scaltro ambasciadore nella sua lettera dell’r1 d'ottobre, quattro soli giorni dopo la morte del Duca, suggerisce al suo padrone: Madame est naturellement défiante; il la faut laisser descendre elle mesme, et prendre par le temps et bon traitement...... PER A. PEYRON. 27) Ce quelle fait è present, qui est de tesmoigner plus de confiance aux Piémontais quaux Francois, produit un bon effet; cela la fait recon- noitre tutrice et administratrice sans difficultés ...... Il est necessaire de ne pas tesmoigner tant de chaleur au commencement pour faire venir Madame è ce que l'on voudra, pour ne pas augmenter ses défiances et ‘ses irresolutions. Ed in altra del 1 novembre: Je ne dldme pas le procédé de Madame de faire connottre à ses peuples qu'elle ne s'abandonne pas entièrement aux Francois, par'ceque cela l'affermit, et au fonds Von fera toujours ce que V. Eminence jugera raisonnable. In queste parole io ravviso il vero politico, mentre i nostri storiografi ne fanno un av- ventato brigante. Quando nel ,So/eiZ io lessi la storiaccia della cameriera, buttai il volume esclamando calunnia infame, e quando la vidi ripetuta dal Botta nella sua storia, andai a trovarlo. Mentre io uno ad uno snocciolava i miei argomenti, egli tratto tratto rispondeva eppure tutti narrano così. Irritato da questo ripetio che non mi persuadeva, mi recai al Ministero - degli esteri, ed io, ottenuto il volume Turin 1637, non tardai ad im- battermi nella lettera autografa dell’Hemery in data del 10 ottobre. In essa riferisce al Richelieu che il GC. Filippo nella notte del 7 ottobre venne ad invitarlo a recarsi tosto al castello, perchè il Duca peggiorava, ed ad un tempo gli significò que l'on donnoit à Madame quelque défiance de M. Crequy et de notre armée. Giunto al castello trova che il Duca si confessava, e qui l’Hemery racconta l’affare del testamento colle parole da me riferite più sopra, poi prosegue così: En méme temps que cela (il testamento) fut fait je partis pour m'en aller chez M. le Maréchal de Crequy pour lui donner advis, comme j'avois ete adyerti de bonne part, que les ministres de Madame faisoient glisser des gens de guerre dans cette ville, et quon ayoit assuré Madame qu'on se vouloit saisir de sa personne et surprendre Verceil; qu'on avoit pris sujet de mettre Madame en cette deéfiance de plusieurs discours que l'on faisoit des advantages que le Roi retireroit à la mort de M. de Savoye, s'il vouloit se rendre maistre de ses états. Nous prismes resolution M. le Mar. de Crequy et moi d'aller voir Madame pour lui remontrer le tort. qu'elle faisoit au Roi et à la nation d’avoir ces défiances. Ce quelle répondit — quelle vouloit conserver sa liberté — nous scandalisa fort. M. de Crequy lui dit ce qu'il falloit là dessus ; il ajouta qu'il alloit faire retirer l’armee, bien quelle ne fust là que pour son service, puisqu'elle en avoit défiance. 28 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA M. de Savoye n’étoit pas encore mort, et une heure après nous vismes toute cette ville en armes. Je vous assure, Monseigneur, qu'il a failli à arriver grand scandale. Comme nous étions M. de Crequy et moi seuls engagés chez M. de Savoye; ce bruit de la defiance qu'on avoit des Francois et de l’entrée des gens de guerre s'esleva, il y avoit plus de 5oo officiers et plusieurs soldats de l'armée, dont on faisoit le payement, qui, croyant qu'on vouloit égorger les Francois, proposèrent et presque résolurent de s'en aller à la porte, qui etoît fermée et gardée par 200 hommes, pour faire main basse et s'en saisir pour faire entrer notre armee. Mais, comme nous sortimes de chez M. de Savoye, M. de Crequy et moi nous arrétdmes cette proposition , et l'on fit sortir tous les Francois qui etoient en cette ville. Néanmoins la place ne cessa d’étre gardée jusqu'à ce que notre armée se fust retirée de là, ce qui ne put étre que le lendemain de la mort à cause de la distribution du pain et de l’argent. Ainsi, Monseigneur, ce n'a pas été une défiance passagère , mais qui a durée plus de 24 heures. Le C. Philippe, qui m'avoit donné cet advis en méme temps que les ministres de Madame la persuadèrent, ce fut assez à temps pour nous rendre maistres de la ville, si nous eussions voulu, parceque les gens de guerre n'y entrèrent pas plus de deux heures après. Il me dit que les Marquis Bobe, Ville et Pianesse et le P. Monod avoient rapporté à Madame que les Francois disoient ce que je vous ai écrit ci dessus (1). Se per volontà od espressa od inter- pretativa del Richelieu doveva l’Hemery impadronirsi di Vercelli e della Sovrana, gli avrebbe forse scritto zoî eravamo in tempo di occupare la città se l’avessimo voluto ? Colla relazione dell'Hemery concorda il dispaccio del March. S. Tom- maso, primo Segretario del Duca, diretto al March. di S. Maurizio nostro ambasciatore a Parigi in data del g ottobre. Ze jour du 7, egli scrive, on demanda au Gouverneur (de Verceil) de la part du Duc de Crequy qu'il ordonndt à la porte de la ville qu'on laissdt entrer un sergent et deux soldats de chaque compagnie, qui viendroient prendre leur pain de munition; ce qui introduisit dans la ville pour le moins 400 hommes outre les Francois, qui y étoient déjà en grand nombre. Le Gouverneur eut sujct, voyant cette nouveauté , pour faire fermer les portes, pour (1) Questa lettera fu quasi interamente copiata dal Richelieu nelle Mémoires lib. XXVIII p. 173. PER A. PEYRON. 29 rassurer les habitants, qui étoient extrémement emeux des discours qu'on entendoit faire aux Francois de tous còtes, et si bien on jugeoit que ce ne pouvoit pas étre l’intention de leurs chefs ; toutefois cela n’empéchoit pas que semblables discours ne fissent un très-mauyais effet parmi le peuple. Outre qu'il survint aussi en méme temps par malheur, qu'un nombre de cavaliers de la compagnie de Disimieux sen allèrent aux portes, où on ne voulut pas les recevoir sans ordre. Ce qui mit en telle chaleur les dits cavaliers, qu'ils voulurent forcer le corps de garde, et dirent méme que , si alors on leur faisoit difficulté d’entrer , qu'ils seroient bientòt maîtres de la place, et autres discours inconsideres qui causèrent un veritable desordre...... Ces Messieurs (Hemery et Crequy) qui avoient forme des plaintes de la prévoyance de ce Gouyerneur , ayant seu les raisons qui l’obligèrent à en user comme il a fait, ils sont demeures fort satisfaits...... Après quon les a gueri des soupcons, qu'ils pouvoient avoir pris sans fondement, Mad. R. leur a voulu encore temoigner sa confiance , et méme fait prier le Mar. Crequy de l'accompagner ..... mais il sexcusa sur la marche des ennemis qui vont du coté de Novare. Il Crequy invitato dalla Signora civilmente addusse tale scusa, ma poi in una sua lettera al Cardinale scrisse, che ricusò di accompagnarla, essendo sdegnato contro di lei che li aveva creduti capaci di sì nefando attentato, e gran tempo passerà, ei soggiunse, prima che io riveda tal Signora. Le relazioni dell Hemery e del S. Tommaso collimano nel dire, che il numero straordmario di soldati francesi sparsi per Vercelli, i loro discorsi più insolenti del solito, perchè lieti per la sperata morte del Duca, la quale li liberava da lui generalissimo, poi l'ingresso nella città negato ai commilitoni, il tafferuglio dei cavalieri di Disimieux , e la minaccia di forzare le porte, sparsero nel popolo atterrito la persuasione che l’esercito volesse insignorirsi della città epperò di Madama, e che tutto ciò fosse diretto dai due Ministri. Di tal voce si giovarono i corti- giani presso Madama, e per meglio avvalorarla inventarono il colloquio dei ministri, e trovarono la cameriera che lo attestasse. L'Hemery, avvertito d'ogni cosa dal C. Filippo, primieramente provvede: al testamento , poi col Crequy procaccia di disingannare la Duchessa; ma ella risponde che vuol conservare la sua libertà. A tali parole irritato il Maresciallo ui dit ce qu'il falloit là dessus, poi esce coll’Ambasciatore , calma la sol- datesca, la fa uscire dalla città, e ne allontana il campo. 30 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA In questa lettera del ro l’Hemery scriveva che Za defiance de Madame avoit duré plus de 24 heures, ed in altra del giorno dopo si lagnava ancora della defiance qu'elle (Madame) a eue contre les Francois, qui a passé si avant, que l'on a interdit l’entrée des villes à tous les Francois... . mais cela est accomode. Che l’affare non fosse aggiustato lo riconobbe dipoi l'Hemery, e tre mesi dopo scriveva al Cardinale: Ze P. Monod commenca par l’affaire de Verceil, dont il fut Vauteur avec le M. Bobe et le Comte de Dogliani ...... II donna entendre à Madame que nots la voulions prendre prisonnière et surprendre Verceil et Trin, et Madame le croit encore, et Va dit au sieur de Vignoles (1). Infatti la Duchessa così scriveva al M. S. Maurizio addì 19 ottobre: MNows croyons que vous serez allé au devant des mauvaises impressions, qu'on leur a voulu donner de ce qui s'est passé è Verceil (dell’avere chiuse le porte e negato V'in- gresso ai soldati francesi); ce qui est d’autant plus nécessaire, que, comme les ministres ont failli dans leur dessein aussi auront-ils été les premiers à vouloir-jetter la faute sur nos ministres. Così circa l'affare di Vercelli il S. Maurizio era quasi contemporaneamente ragguagliato dalla Signora, che i due Ministri avoient failli dans leur dessein, e dal S. Tommaso che ce ne pouvoit pas étre l'intention des chefs. Il S. Maurizio a chi mai doveva credere? Finalmente il gran Porporato, al quale i nostri storiografi attribui- scono l’infame disegno od espresso od interpretativo, come mai ‘accolse la relazione dell’ambasciatore affermante che, se avesse voluto, poteva impadronirsi di Vercelli e della R. famiglia? Il Tonante così gli rispose il 21 ottobre: Je ne puis vous dissimuler que je trouve bien etrange la méprise, qui fut fuite à Verceil, au préjudice de la confiance que Madame doit avoir en tout ce qui depend du Roi. La diffidenza di Madama fu pel Crequy un incomportabile insulto al suo onore, laddove pel Richelieu fu une meéprise e questa soltanto etrarge. Quanta differenza tra il soldato ed il diplomatico! Diffusamente io ho voluto confutare questo attentato, perchè allora creduto da tutti trapassò come verità certissima nella nostra storia. Infatti lo stesso sagacissimo C. Tesauro riferì questa vituperevole azione, ma soggiungendo: io non ardirei di scriverla nè di crederla, se gli stessi (i) Lettera del 15 gennaio 1638. PER A. PEYRON. 3t curiali non l'avessero fatta scrivere dall’ Istorico di Francia e di Sa- voia (1), cioè dal Guichenon, del quale citava le parole. Il C. Saluzzo la ammise nella sua giudiziosa Zistoîre militaire du Piemont vol. 4, p. 40, e Carlo Botta la copiò nella sua Storia d'Italia lib. XXI (2). Tuttavia al Muratori bastarono gli argomenti suggeriti dal suo criterio politico, perchè, dopo aver accennata ne’ suoi Annali questa che egli chiama mena, soggiunse se pur non fu un mero sospetto o pretesto. Sia lode al buon Proposto! Io il primo nel 1836 copiai in Parigi la lettera originale dell’ Hemery, e nell’anno seguente ne diedi ragguaglio nella mia prima scrittura letta in una tornata accademica. Il GC. Cibrario fu il primo a giovarsene rigettando come favola il preteso attentato (3). Il Bazzoni, che ha testè pubblicata quasi intera la lettera dell’ Hemery, non potè a (1) Tesauro, Origine, p. 27. (2) Più sopra dissi, che questa favola della congiura per catturare Madama,:narrata pure da Carlo Botta, fu quella che mi impelagò nelle mie indagini sulla reggenza di Cristina. Ora sog- giungo che, quando lessi al Botta i documenti che lo confutavano, ed io lo rimproverava per aver trascurato di cercare quei nuovi e molti sussidii, che gli archivii e le biblioteche di Parigi gli avrebbero offerti per la storia dell’Italia, e principalmente del Piemonte, egli tranquillo mi ascoltava, poi senza adontarsi mi confessava che da pochi libri tutti stampati aveva distillato il suo. Sapendo io poi che egli allora attendeva a compilare la vita di Paolo Sarpi, lo resi avvertito che nella gran biblioteca di Parigi sì conservava un manoscritto ricco di lettere di quello storico, ed egli nuovamenle con gelida indifferenza accolse quella notizia senza più oltre interrogarmi. Allora io mì confermai nella mia opinione che il Botta fu non già un avido e critico indagatore della verità storica, ma un compilatore che voleva servirsi della storia per due suoi fini. Avendo la mente preoccupata da cerle sue idee religiose, politiche e civili aveva preso la storia come un mezzo per diffonderle e dimostrarle; epperò, secondo che i falti più o meno corrispon- devano al suo pregiudicalo sistema, li accetlava o li ometteva , li storceva e li colorava. Infatti l'autore, sollecito di far la dimostrazione, ad ogni tratto comparisce sulla scena con monologi, che sono apostrofi, prosopopee, esclamazioni, sentenze e riflessioni, tolte per lo più da luoghi comuni, le quali non solamente noiose interrompono e raffreddano l’impeto ed il calore della narrazione, ma ancora sono inulili, perchè spontanee si spiccherebbero dalla narrazione stessa, ove questa fosse condotta con giusto disegno e vivace colorito. Di questi storici sistematici disse già il Montaigne {Essais II 10): :/s veulent nous mascher les morceaux, ils se donnent lois de juger, et par conséquent d’incliner, l’histoire è leur fantaisie...... Qu'ils nous laissent aussi de quei juger, et qu'ils n’altèrent ni dispensent par leurs raccourcissements et par leurs choix rien sur le corps de la matière. Il secondo fine, al quale mirava il Botta, era quello di sfoggiare lingua e stile. Quanto alla lingua basti il dire che in tre diverse storie adoperò tre diverse specie di lingua italiana ; la storia gli serviva di argomento per fare esperimenti di lingua. Quanto allo stile, egli per elevarsi al ma- gnifico introdusse aringhe di sua invenzione; amante delle etopee inserì descrizioni poco connesse coi falli umani, così l’intero libro XLIX è dedicato al solo terremoto del regno delle due Sicilie; retore abbonda nell’amplificare una stessa idea con danno del dramma che non cammina. Chi pa- ragoni uno stesso falto de’ tempi francesi, narrato dal Botta e dal Thiers, sentirà a prova la gran distanza ira i due storici. (3) Cibrario, Origini e Progresso delle Instituzioni della Mon. di Savoia, part. I, p. 174. 32 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA meno di ripudiare a pag. 54 questa fiaba. Tuttavia io ho voluto ripetere qui gli argomenti della mia prima incredulità addotti nella mia prima scrittura, affine d’inculcare due verità. Noi nello scrivere la nostra storia siamo stati troppo nostrali, anche quando il solo criterio politico sarebbe bastato per discredere certe nostre tradizioni ed apoteosi dei nostri So- vrani. Noi dobbiamo consultare i documenti delle altre nazioni. Che il Duca Vittorio sia morto di veleno somministratogli in una cena dal geloso Crequy fu detto allora e scritto dipoi. Per ribattere tal calunnia, che , a vero dire, incontrò poca fede presso i più giudiziosi nostri storici, 10 cito due lettere di M. R. al M. di S. Maurizio. Nella prima del 4 ottobre scrive: Ze Duc arrivé à Verceil le 24 septembre fut surpris le 25 d'une fièvre, qui s'est convertie en double tierce comme vous verrez par la relation qu'on vous envoit. Ed in postilla. Ze mal de S. A. Ir. est fort grand, quoique les medecins en aient assez bonne esperance. Nella seconda del 19 ottobre dice: Ze Due n'est mort d’autre chose que d'un sang échauffé dans les incroyables fatigues, qu'il a souffert en ces dernières occasions. Infatti egli nello stesso mese di settembre era corso a Mombaldone, vi aveva dato:la battaglia, poi coll’esercito si era recato a Vercelli appunto nel mese, nel quale per le risaie vi regnano le febbri terzane, e queste per lui rifinito dalle fatiche, essendo divenute ‘doppie e perniciose, lo trassero a morte. Per certo i Francesi, prima di avvelenarlo, gli avrebbero dato a sottoscrivere il testamento desiderato. S 6. L’Hemery diventa l'ordinatore del Ducato, valendosi del C. Filippo d'Agliè favorito della Reggente. - Compra e sempre comperò dappoî aderenti a Francia. Nella stessa notte della morte del Duca l'’Hemery nella sua lettera del 10 ottobre scriveva: Nous nous vismes le C. Philippe et moi parti- culièrement, et demeurdmes cinq ou six heures ensemble. Sceglierono i ministri, i cui nomi furono poi trasmessi, siccome sempre, all’approva- zione del Cardinale , disegnarono matrimonii, ed avvisarono ai mezzi per accrescere ed afforzare la parte francese. Di un solo di questi mezzi io parlerò, perchè sin da quella notte fu proposto e sempre adoperato, ma poi dai nostri storiografi o negato, od occultato, o troppo dimen- ticato nei loro giudizi. PER A. PEYRON. dI Lascio parlare l'Hemery (1): Z. Eminence doit considérer te Comte Philippe comme celui, qui sera le souverain maitre ici. Il ma dit quit supplioit Y. Em. de lui fuire expedier le brevet de l'abbaye de Soissons, et ma ajouté quit ne le faisoit point pour le bien, parceque Madame lui en donnera plus quil n'en voudra. Et de fait elle lui a voulu donner aujourd hui une commanderie de S. Maurice de 12 mille livres de rente. . . Il a refuse à fin quil ne paritt pas en ce commencement que Madame voulitt incontinent faire toutes choses pour lui. Et il a ajoute quil demandoit cette abbaye pour soi: frère, à fin que son oncle et sa famille etant obligee à la France, et la France croyant les avoir obligés, on ne puisse point douter de leur fidelite ...... J'estime, Monseigneur, qu'il seroit bien à propos d'aller au devant de cette occasion, parceque vous nen aurez pas de si long temps capable de l'obliger pour peu de choses; sa fortune ira bien vite ..... Il ma promis de se tenir quelque temps dans la méediocrité ou il est, pour l'interét de Madame; et pour le sien propre. Epperò il prudente ambasciadore si limitò allora a proporre, al Richeliea d’envoyer une bague de 2000 écus au C. Philippe, à fin de commencer à s'appuyer de ce coté tà, ed ebbe in risposta che il dia- mante sarebbe inviato (2). Nella primavera del 1638 Filippo ricusò bensì il grado di maresciallo di Francia, ma in ciò dovette ubbidire alta Sovrana, che glielo interdisse a fine di non attirargli l'invidia della nobiltà Piemontese (3). Possiamo poi congetturare, che egli per altre vie si sia risarcito del gran rifiuto, giacchè il Lavalette certificava il Richelieu che poteva fidarsi del Conte à cause du bien qu'il a en France (4). Inoltre, quando egli nella sua vilissima lettera al Richelieu (5) gli par- tecipava il suo infinito zelo nel gran negozio di aver fatto carcerare il P. Monod conforme al gusto ed al sentimento di S. Emin., allora fattosi più ardito toccò pure di quella generosità che ricompensa a tempo, giacchè questa è la manicra di stabilire ognora maggiormente presso M. R. un cavaliero, che non avrà mai altro bene, che di servire a S. Maestà sotto gli auspici di S. Em. Questa lettera fu dal Richelieu (1) 11 Bazzoni non giudicò di pubblicare questo brano della lettera del 10 ottobre. (2) Lettres, Instructions ete. du Card. Richelieu, tom. V, p. 666 nella Collection de documents inédits sur l’hist. de France. (3) Lettera di Cristina al S. Maurizio 6 marzo 1636. (4) Lettera del 28 novembre 1638. (5) Vedila nell’Aubéry pag. 241. Serie II Tom. XXIV. 5 34 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA fatta stampare, disse il Tesauro, per far vedere la venalità del gran Ministro di Madama (1). Venendo ora agli altri cortigiani, dico che il Richelieu fin dal 22 ot- tobre 1637 significò all’Hemery, che il Re ne plaindroit pas 50, 60, voir 100 mille ccus pour gagner les personnes, dont il faudroit s'assurer pour la conservation des etats à Messieurs les enfants. In altro dispaccio di novembre gli scriveva: ZYavaillez de votre còté à faire accepter (des pensions) à ceux qui sont delà, et je les ferai bien payer (2); ed in altro ancora dello stesso mese gli dava facoltà di promettere pensioni sino a 12 o 15 mila scudi powr acquerir des serviteurs. E Vambasciadore con insolita gentilezza invitò la Reggente a nominargli quai cortigiani ella più bramerebbe fossero graziati con pensioni; ed essa, colto il destro, rispose : St Za France voudroit nous envoyer toutes les années une somme, nous la distribuirions à ceux que nous jugerions plus à propos (3). Ma il suo desiderio non fu esaudito dall’ Hemery, il quale non a lei, ma alla Francia, voleva acquistare gente. Ella respinta dall’ambasciadore si volse al Sabran, che allora, traversando il Piemonte per recarsi in Francia, spesso la visitava, e, conquiso dalle grazie della Signora, le promise di patrocinare presso il gran Porporato il negozio delle pensioni, ed altri favori da lei desiderati. Ma il Richelieu, reso avvertito d’ogni cosa dall Hemery, fece arrestare il Sabran appena giunto ai confini di Francia; poi significò al M. di S. Maurizio, che egli in diplomazia non voleva ce petit brouillon, né giammai a Madama manderebbe amba- sciadori pour galantiser (4). Come poi venne l’anno burrascoso 1639, l’Hemery in una sua lun- ghissima lettera al Richelieu (5), dopo avergli dato un minuto ragguaglio delle cose e delle persone, gli propose di ammogliare D. Felice in Francia con lauto stato, di assegnare pensioni ai Marchesi di Pianezza e Villa, di concedere un'abbazia di tremila scudi annui all’ab.. della Montà, di largheggiare col M. di S. Germano, col M. di Lulin, col M. Boba, ai quali succedono un La Marette , ed il Barone di Tournon. Per tali larghezze l’ ambasciadore abbisognava di 50 o 60 mila scudi (1) Tesauro, Origine, p. 129. (2) Lettres, Instructions etc. de Richelieu, tom. V, p. 1067. (3) Lettera di Cristina al S. Maurizio 29 novembre 1637. 4) Lettera del S. Maurizio a Cristina 16 e 21 febbraio, e 22 ottobre 1638. (5) Conservata nel volume 1215 della bibliot. imper. PER A. PEYRON. 35 annui. Nello stesso anno la Francia voleva che la Duchessa rassegnasse nelle mani del Re molte piazze forti; dacchè ella ricusava, il Richelieu ricorse allo sperimentato spediente delle larghezze, ed io vidi la nota di queste sottoscritta dal Re appunto per ottenere le piazze (1). Vi lessi i nomi Comte Hardouin, le Grand Chancelier, le President Benz, le Marquis Pallavicini, le Marquis Bernez gouverneur de Nice, Gabalcon, Colonet Monty, President Morozzo; e nellAubery p. 260, 814, 812, 815 incontro altre lettere del Richelieu, che spediva. brevetti di pen- sioni, ed anche di feudi nel Delfinato segnatamente pei M. di Pianezza e di S. Maurizio. Al Card. Lavalette, che a nome del suo re offriva anch'egli provvisioni, aveva bensì la Reggente risposto que Zes Piemontais n’en recevront pas, ma questa frase fu smentita dai fatti, che anzi ella stessa, quando intese che l’abbadessa di Fontevaux era ammalata, ordinò al S. Maurizio di supplicare il Re acciocchè desse tal abbazia ad una delle sue figlie (2). Se a ciò noi aggiungiamo che il gran Ministro espressamente voleva que ceux, que Madame choisira pour son conseil, sachent qu'elle en aura demandé avis à S. M. (3), noi intenderemo siccome ministri ,. i quali ben sapevano che delle loro cariche, poi delle loro provvisioni, andavano debitori alla Francia, divenissero docili esecutori degli ordini francesi. Se poi alle largizioni di Francia aggiungiamo ancora la dissoluta liberalità di Madama verso i suoi cupidi favoriti, noi intenderemo eziandio siccome i nostri patrizi si corrompessero per fame dell'oro, e spudorati ottenessero dalla Reggente di essere dispensati essi soli da quel tributo di guerra, che il Duca Vittorio aveva ugualmente imposto su tutti. Inten- deremo finalmente siccome codesti patrizii revisori del Guichenon abbiano approvato quel vile epiteto, che egli appiccò al Duca Vittorio, quando scrisse che il Duca nel compartire doni e riconoscenze était chiche, ce x qui fit dire de lui qu'il était meilleur à ses peuples, qu'à ses serviteurs (4). (1) Conservata nel volume citato al foglio 133. (9) Lettera di Cristina 21 dicembre 1637. (3) Aubery, p. 866. (4) Queste parole del Guichenon, Hist. Ger., pag. 9it1, degne di quella tirannica aristocrazia, che sorta affamata sotto la reggenza dettava i biasimi e le lodi al venale Guichenon, ispirarono al C. Tesauro la bella sua pagina 73 dell’Origize. Egli, dopo avervi lodato il Duca perchè non impo- veriva il popolo per trasricchire alcune case private, afferma che il Duca Vittorio guiderdonava i suoi servitori secondo il loro merito, ma eziandio secondo le forze dell’erario sostentato dal popolo. 36 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Riz Il P. Monod. - Inviato a Parigi, conspira contro al hichelieu. - Vuol essere ministro della Reggente. - Avversato dai cortigiani. — Protetto dalla Duchessa. - È carcerato. Tra i personaggi favoriti daila Reggente si annoverava il P. Monod gesuita, il quale da confessore di lei si sollevò pur troppo al grado di eminente uomo di Stato. To ne toccherò alcuni particolari o nuovi 0 controversi, anche per porre in evidenza il carattere di Madama. Si scrisse che il P. Monod si fosse recato a Parigi per ordine del D. Vittorio, a fine di ottenere per lui il titolo reale, e per li suoi ambasciadori gli onori delle guardie e del tamburo. Tal asserto è ne- gato dal Duca nella sua lettera del 15 giugno al S. Maurizio: Nous n'avions donné nulle charge au P. Monod de faire instance en France de ce traitement, ne saremmo stati bensì contenti, mais quant à nous, nous n’aurions eu garde d'en importuner S. M. en ces conjonctures. W viaggio del Padre non fu che una coniugale condiscendenza alla con- sorte, che non si adagiava al titolo di Serenissima, e mirava col tempo a liberarsi dall'obbligo di baciare il Maresciallo Créquy, e gli altri cugini del Re che venissero di Francia. Ceci m'est fort è cour, così ella scriveva al S. Maurizio 25 ottobre 1637, ni Za naiîssance, ni la bienséance ne permettent pas que je continue, etant seule fille de France quì en use de la sorte; mes seurs ne le faisant pas comme reines, ni ne pretends pas d'étre moindre qu'elles pour n’en avoir pas le nom (1). Anche dalla Spagna pretendeva le si desse il titolo Reale, al che il De Melo rispondeva che nella lingua spagnuola non si stilla il titolo di Altezza Reale, il quale non si dà neppure al principe erede di Spagna (2). Il Monod stando in Parigi aveva cospirato col suo confratello il P. Caussin contro il Richelieu per balzarlo dal seggio ministeriale. Il Duca Vittorio, come ciò riseppe, temendo di esserne creduto complice, ne diede avviso al Cardinale, il quale glie ne rese grazie vivissime (3). Questi (1) Vedi Richelieu, Memoires, lib, XXVIII, p. 176. (2) Lettera del Gandolfo al C. Filippo. (3) Il Bautru così scriveva al Richelieu 1 settembre 1638. Je discis à Madame que V. Emin. ne croyoit pas, hors les obligations qu'il a à S. M, en avoir jamais tant eî à prince du monde, qu'il PER À. PEYRON. 97 tre punti, la partecipazione del Monod alla trama del Caussin, l'avviso del Duea al Cardinale , ì ringraziamenti del Gardinale al Duca, erano tre fatti certissimi e notonii; lo stesso Guichenon li pubblicò dipoi come verità storiche nella sua Zistoîre, e quindi tutti li ripeterono. Or bene, quando il Richelieu irato contro al gesuita voleva che gli fosse dato nelle mani, Madama pigliandone le difese can una sfacciatezza di bronzo negava tutti e tre questi punti, ed ordinava al suo ambasciadore a Parigi di negarli. Questi si schermiva rispondendo che lo stesso P. Caussin aveva confessato di aver avuto per complice il Monod; ed ella di ri- mando gli scriveva: Quoigue le P. Caussin aie avoue ce que vous ecrivez, toutefois il n'y a pas de l’apparence è le croire, puisque le P. Monod le nie absolument, et qu'il produit des justifications (1). Che anzi ella stessa scrivendo al Richelieu (2) qualificava il Padre come Ze plus grand serviteur que jaie entre touts mes sujets, et qui a temoigné autant de passion pour la France et pour votre service particulier, que s'il cit ete naturel francois. In leggendo le parole pour votre service particulier, il Richelieu che mai avrà detto! Da ultimo, stretta con vigorosi argo- menti in un dialogo col Bautru, ella si smorì, poi sdegnosa rispose, che le erano tutte ciancie nate dopo la morte del Duca. Ella, perfi- diando così nel negare la luce del sole, qual credito, qual fede poteva mai ottenere? Non tutti si piegavano a rassegnarsi fra i suoi adulatori, o fra gli adoratori delle sue grazie. Si disse, e sempre si ripetè, che l'odio del Richelieu contro al gesuita era nato da un latino poemetto intitolato PraesuZ Galeatus, nel quale l’autore anonimo, che era il Monod, aveva posto in canzone un yescovo , che aveva cambiato la mitra col cimiero. Ma il gran Porporato non era uomo di vanità meschine e d'ire volgari, egli stava troppo in alto perchè a lui arrivassero i lazzi d’un verseggiatore. Glorioso per avere acquistato Pinerolo, lasciava al gesuita il facile compenso de’ suoi giambi, e non considerava in lui se non Y uomo politico da essere en avoit à feu M. de Savoye, de lui avoir decouvert le perfide Monod et son monopole. Il n’oublieroit jamais cette gratitude, qui V’obligeoit eternellement à honorer la mémoire de ce Prince. Madame pdlit, et me repondit seulement que l’on avait jamais parlé de cet avis de M. le Duc de Savoye, quaprès sa mort. Pai appris depuis de M. V Ambassadeur, qu'il n'y a quun mois de temps entre Vavis donné et la mort du feu M. de Savoye. (1) Lettera al S. Maurizio 10 gennaio 1638. (2) Leltera del 1 marzo 1638. È 38 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA guadagnato a Francia. Quindi scriveva all’Hemery qu'il etoit necessaire de le gagner, s'îl se pouvait, et chercher touts les moyens, qui pouvoient convenir à sa profession, et compatir à son humeur (1), giacchè il étoit - également difficile de s'en passer, et difficile de s'y fier. Epperò l’Hemery ed il C. Filippo, sin dalla notte del 7 ottobre, presero il partito di lu- singarlo, dandogli speranza che avrebbe qualche parte nel ministero. Fondato su tali lusinghe, il buon padre addì rg ottobre significava al Richelieu, che la Reggente lo aveva scelto per confidargli une partie de ses interets. Poi abbandonandosi alla sua natura ardente ed impetuosa, era in quei primi tempi 7 Atlante degli affari (2), e lHemery così scriveva: Le P. Monod aura toujours grand part aux affaires, il ctouffe Madame de raisons, et aussi elle est bien aise de donner un peu de jalousie du P. Monod au C. Philippe. ..... A cette heure il accable ces gens ici de raisons, scavoiîr s'il marchera de bon pied ow non, je n'en scais rien (3). Per questo suo predominio, quasi dissi monopolio dei negozii, inge- lositi i cortigiani rivali, presero a screditarlo presso la Sovrana, e cer- tamente egli vi contribuì co’ suoi modi non sempre assegnati; tantochè nel dicembre egli era scaduto dall’animo della Duchessa, e l'Ambasciadore così scriveva: Madame fait des vers contre le P. Monod sur le sujet des amours, qu'il a en cette court. Elle le traite en faquin tant en paroles qu'en effets, néanmoins elle le conserve. L’autre jour, lorsqu'on lui faisoit connottre l’extravagance de son procédé, elle répondit quelle ne lui donnoit plus de part que des affaires de France. Ce qui me confirme dans la créarice, que j'ai toujours eue, qu'elle le gardait contre nous, sachant les bonnes intentions de cet homme contre la France.... Phi- lippe ayant fait voir à Madame une lettre qu'il écrivait au Baron de Tournon en Savoye, Madame de sa main ecrivit au dessous de la lettre - Baron, quand tu auras à invoquer S°-Chrestienne, ne t'adresse-point à St-Ignace (4). Di questo tempo si valse l’Ambasciadore per attuare il seguente mezzo diplomatico , da me letto nel suo carteggio e confermato in parte dal Tesauro (5). Egli si domiciliava le due ed anche le tre ore nel cabinetto (1) Richelieu, Meémozres, lib. XXVIII, p. 175. (2) Tesauro, Origine, p. 25. (3) Lettera al Richelieu 10 ottobre. (4) Lettera al Richelieu 23 dicembre 1637. (5) Tesauro, Origine, p. 17. PER A. PEYRON. 39 di Madama, dove contraffacendo i gesti, la rauca voce, il tragittar delle mani e l’alzar degli omeri del Padre, faceva sì che la Sovrana scoppiasse in effuse risa, e dalle risa passasse a narrare storielle di lui. Il buffone allora vieppiù la solleticava , poi trapassando alla galanteria la adulava per l'ingegno , pel senno, e per le qualità che il sesso anche ai sette lustri si arroga. Così il riso, la piacenteria ed il singolare fenomeno d'un severo diplomatico trasformato in giullare la inducevano ad aprir il varco a nuove confidenze. Con tal arte l’Ambasciadore riseppe da lei che il Duca Vittorio ristucco del Monod lo volle una volta cacciare di corte, ma la consorte stornò il colpo. Altra volta il Gesuita, entrato da lei con un messale sotto le ascelle, ricusò di confidarle una notizia im- portante, se ella prima sul vangelo non giurava di mantenere il secreto. Egli, appena morto it Duca , aveva sollecitato il Cardinale Maurizio a recarsi in Piemonte. Egli assicurava la Duchessa che i Principi cognati non avrebbero mai impugnate le armi contra lei. Egli aveva scritto a Roma che /e C. Philippe faisait ici le Marechal d’Ancre. Quindi VAmba- sciadore conchiudeva che Madame a dans le fond une haine et une mauvaise opinion du P. Monod, qui ne cesse point; il che era falso. Madama in qualche lunata di mal umore, ovvero per esercizio d’ingegno e di parlantina, potè mettere in canzone il reverendo, ma non mai lo odiò. Che anzi, quando l’Ambasciadore proponeva il modo di arrestarlo, la Signora acconsentiva, purchè non comparisse qu'elle y fit melée (1); poi per mezzo del Cancelliere o di altri ne rendeva avvertito il Padre, affinchè non cadesse nei tesi lacci. Il Richelieu, ragguagliato dall’Hemery delle imprudenti confidenze di Madama, se ne serviva per detiare lettere rabbiose contro al Monod avverso alla Francia e patrocinatore del Cardinale Maurizio. Ella allora si avvide de’ suoi sventati colloquii coll’Ambasciadore, e scriveva al S. Maurizio: Je crois que Hemery s'est avancé plus que ce que je lui ai dit sur le P. Monod, et il a mis avec ses fausses propositions une mauvaise affaire en train (2). Poco stante inviava a Parigi il C. Cumiana, ordinandogli di dire che: Sebbene discorrendo io col sig. d'Hemery egli abbia potuto scorgere in noi qualche sospetto di poco momento contro al P. Monod...... egli nondimeno si è troppo avanzato, perchè noi, (1) Richelieu, Meémo:res, p. 271. (2) Lettera 14 gennaio 1638. 40 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA sincerata delle rette intenzioni del Padre, si svanirono i deboli sospetti (1). Mentre andavano e tornavano da Torino a Parigi e viceversa ambasciadori straordinari delle due corti pel solo fine della cacciata del Gesuita, la Duchessa negoziava con Roma per impetrargli il vescovato della Mau- rienne, ma invano; volle procacciargli un rifugio nella Baviera, ma inutilmente. Quanto più ella si incocciava nel salvare il Gesuita, tanto più il gran Ministro le precludeva ogni via, anzi ricusava di provvedere a qual si fosse domanda del S. Maurizio, se prima non gli fosse anmun- ziata la cacciata del Monod. Venne il giorno 22 di febbraio 1638, nel quale si pose nel consiglio ducale in deliberazione la lega sollecitata da Francia; il P. Monod la combattè gagliardamente , e quindi a sei giorni partiva per ordine di Madama relegato a Cuneo. Già prima egli le aveva detto alla presenza di Filippo essergli ben noto, che la cabala per rovinarlo era stata ordita in Torino, il che produsse tale screzio, che la Duchessa cacciò dalla sua camera Filippo, chiamandolo traditore e criminoso. Ma quando già stava per avviarsi a Cuneo, il Padre alla tout botte voir le C. Philippe pour lui donner, lui dit-il, un avis de frère. Cet avis étoit de n'aller jamais en France, et de ne se laisser point persuader à cela, comme un coup de sa ruine, pour étre très-mal en France, et en danger de n'en plus revenir s'il y alloit, et ne lui dit autre chose (2). Guari non andò che egli, colto il destro, fuggì da Cuneo, ma raggiunto fu condotto a Montmeillan in carcere senza colloquio. Tuttavia trovò modo di cor- rispondere co’ suoi Gesuiti; ma D. Felice governatore della Savoia non venne mai a capo di scoprire il manutengolo (3). Per le reiterate istanze (1) Istruzione al €. di Cumiana, 10 gennaio 1638. (2) Questo ragguaglio fu dall’Hemery mandato al Richelieu, il quale lo copiò nelle sue Memoîres, lib. XXIX, p. 273, soggiungendo che il P, Monod jgugeoit bien que, si le €. Philippe voyoit le Car dinal, il se lieroit d’affection pour la France à ne la jamais perdre, et qu'on parleroit de lui et de ses mences et pratiques. A questa falsa interpretazione del Cardinale, suggeritagli dall’ immenso suo amor proprio, io sostituirò la vera. Il Monod ben sapeva, che l’Hemery, il Cardinale e sopra tatti il Re erano irritati contro a Filippo per la scandalosa sua intimità colla Duchessa, poco onorevole per la corona di Francia, e volentieri lo avrebbero allontanato da lei, se motivi politici non vi si fossero opposti. Questi motivi andavano tanto più cessando, quanto più la Francia acquistava nuovi e fervorosi aderenti fra i cortigiani di Madama, e ne scarlava i partigiani dei Principi e di Spagna. Epperò il sagace Gesuita, prevedendo che tempo verrebbe, nel quale la Francia più non abbiso- gnerebbe di Filippo, lo avvertì di non lasciarsi indurre in un viaggio in tal contrada, dove sarebbe stato trattenuto. (3) Lettere di D. Felice nell’Archivio di Stato. PER A. PEYRON. To del Richelieu fu quindi trasferito al castello di Miolans, dove indebolito nel fisico e nello stato mentale morì. Per giudizio del C. Tesauro , il P. Monod fu la miglior testa del consiglio di Stato (1). Egli sin dal primo mese della reggenza aveva consigliato la Duchessa di accogliere nello Stato il Cardinale Maurizio, che si sarebbe facilmente accontentato di qualche titolo di appariscente autorità, e ciò sarebbe bastato per fermare il Pr. Tommaso in Fiandra (2). Richiesto almeno per due volte de’ suoi consigli dalla Sovrana, egli dal carcere le rispondeva predicendole Za totale perdita dello Stato, se non st accordava coi Principi. Il suo carattere incorruttibile, saldo nelle sue ponderate opinioni, e vigoroso ne’ suoi modi, non gli permetteva di simulare e dissimulare; epperò era certa la sua ruina nella corte di Madama ; ed il GC. Filippo, che sempre aveva sotto via cooperato per rovinarlo, come ebbe ottenuto l'intento, se ne vantò in una vile sua lettera al Richelieu, domandandone la ricompensa (3). Il Richelieu nelle sue Memoires, dopo aver versato il suo fiele sopra il Gesuita, esclamò : Jusqu'où l'ambition ne va-t-elle pas, quand'elle s'est rendue maîtresse d'un esprit religieux! Il Porporato parlava per propria esperienza. Io ho voluto discorrere il negoziato relativo al P. Monod, per dare un primo saggio del modo, col quale la Sovrana assumeva e sosteneva impegni, senza calcolare la probabilità di riuscita, e senza risparmiare menzogne troppo evidenti. S 8. Il Cardinale Maurizio parte da Roma. — È respinto dal Ducato. Ritorno ora ai principali fatti del dramma, sui quali posso gettar miglior luce. Il Duca Vittorio non era ancora sfidato dai medici, che l’Hemery il 5 ottobre scriveva al Richelieu: Ze Prince Cardinal recherchera Ma- dame pour venir en ce pays......]je Vempécherai autant qu'il me sera possible; e siccome tal partito fu approvato a Parigi, avvenne che il C. (1) Tesauro, Origine, p. 49. (2) Lettere di D. Felice. (3) Aubery, p. 241. Serie II. Tom. XXIV. 6 42 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA AO Taurizio, prima che si partisse da Roma, era già sbandito dal Ducato. Partì, e si disse dal Siri e dal Muratori, che egli nel viaggio avesse dichiarato al Duca di Modena la sua intenzione di farsi Duca di Savoia. Tal calunnia fu già confutata dal C. Sclopis (1), ed io aggiungo che il Mazarini in una sua lettera del 17 ottobre, indirizzata da Bagnaia al M. di S. Tommaso, attestava che il Cardinale passando a Viterbo lo assicurò di non avere altra volonià, che quella di M. R., senza alcuna relazione agli Spagnuoli. Giò appunto egli significava nella sua cortese lettera alla cognata, e lo dimostrava poi col fatto rispondendo così al GC. di Cu- miana: Col venirmi a porre nelle forze di M. R. i Francesi debbono restar sicuri che io non ho altro pensiero, che di seguire puntualmente i sensi di M. R. senza altra considerazione che del suo gusto e del ser- vizio di S. A. R...... epperò sono soverchie le minaccie di mandarmi contro le loro truppe, non potendo avere maggior sicurezza, che di vedermi nelle mani di M. R. (2). Egli non pretendeva altro che la sim- plice assistenza alla tutrice, e, se fosse stato accettato, il Pr. Tommaso non si sarebbe mosso di Fiandra (3). Dei consiglieri di Stato gli uni opinavano, così ella scrisse al S. Maurizio il 25 ottobre, gue nous devions le voir...... les autres qu'il falloit procurer de le faire avec le con- sentement des Francois, et y disposer M. d'Hemery. Nous aurions bien desire de donner ce contentement à mon dit frère , et cette consolation à nos sujets, c'est pourquoi nous fimes agir sous main le Nonce wers M. l'ambassadeur Hemery, qui-persista à s'opposer formellement à cette entrevue. Questi in vero aveva ricevuto dal Richelieu per istruzione che, st le Card. Maurice entre dans l’etat, Madame doit trouver bon que le Roi le fasse arréter et ammener en France (4); ma tosto il gran Ministro meglio avvisato gli riscrisse: Après y avoir pensé, on ne juge pas qu'il soit aisé d'exécuter le dessein d’arréter M. le Cardinal de Savoye, si lextréme neécessité y contraignoit; une telle résolution augmenteroit la haine du pays contre les Francais et contre Madame (5). L’iracondo ed assoluto Porporato non era ricondotto a consigli di prudenza, se non (1) Sclopis, Documenti ragguardanti alla Storia di Tommaso di Savoia, p. 32. (2) Risposte del Pr. Card. ai capi espostigli dal C. di Cumiana in Genova 23 ottobre 1637, nell'Ar- chivio di Slato. (3) Tesauro, Origine, -p. 35. (4) Aubery, p. 867. (5) Lettres, Instructions, etc. du C. Richelieu, tom. V, p. 883. PER A. PEYRON. 43 dal timore della nazione piemontese evidentemente avversa a Francia ed a Madama. Respinto dalla Cognata, il Cardinale si volse agli Spagnuoli, e fece loro quelle proposte, e ricevette quelle risposte, che riferite dal Tesauro (1) sono confermate dal Gandolfo, il quale scriveva: Z Ministri di Spagna in Genova, avendo trovate le proposizioni e le promesse del P. Cardinale senza fondamento, hanno procurato rinviarlo da Genova (2). Lo rinvia- rono anche perchè avevano ottenuto da Madama la promessa, che, se essi la liberavano dal cognato , ella li ricambierebbe lasciandoli ricon- quistare il castello di Breme. Il Pr. Cardinale si ricondusse a Roma. 8 9. Madama acconsente alla lega con Francia, ma solamente difensiva. Spera di potere, come il Duca, destreggiarsi tra Francia e Spagna; ma le mancano le tre condizioni necessarie. Il Leganes più malizioso del C. Filippo. La Sovrana, liberatasi così dell’ incomodo cognato , dovette tosto pensare alla lega con Francia; essa spirava nel prossimo luglio , ed il Richelieu vivamente instava affinchè fosse rinnovata. Noi desideravamo di rimanere neutrali tra le due corone belligeranti , ed alla neutralità ci sollecitava caldamente la Spagna; ma il Richelieu ricisamente si opponeva, volendo che il Piemonte fosse ou ami à tout faire, ou bien ennemi (3). Noi, per conservarci neutrali, avremmo dovuto accostarci a Spagna, accettando la sua offerta di assisterci colle armi, ove la Francia ci assalisse. Ma a questo partito ripugnava la Duchessa, sì perchè avrebbe dovuto romper guerra, ove d’uopo, al fratello, e sì perchè i due cognati al servizio di Spagna si sarebbero facilmente introdotti nel Ducato. È inutile il dire che l’avviso della Reggente era avvalorato dal consenso dei cortigiani, che miravano a regnar soli con lei. Per cura di questi comparve allora fra noi alla luce una lettera di un Gentiluomo dedicata al C. Filippo, la quale, dopo aver confutata la neutralità, dimostrava che dovevamo collegarci con Francia. Il dì 22 febbraio 1638 il partito (1) Tesauro, Origine, p. 54. (2) Lettera al C. Filippo 9 febbraio 1638. (3) Richelieu, Mémoires, lib. XXIX, p. 275, 44 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA della lega fu posto in deliberazione nel consiglio ducale, ed il P. Monod fervidamente perorò per la neutralità e per la nostra adesione a Spagna. Ma il C. Filippo parlò in favore della lega difensiva con Francia, e trasse dalla sua il voto del consiglio, il quale protestò ad un tempo di non potersi impegnare nell’offensiva, perchè questa, invece di recarci qualche vantaggio, ci riuscirebbe gravemente dannosa. L' Hemery al ricevere tale comunicazione volle anzi tutto che il Monod fosse allon- tanato dalla corte, ed il Padre, sei giorni dopo, per ordine della Sovrana partiva relegato a Cuneo; poi comunicò la deliberazione al Richelieu. Questa fu dal gran Ministro giudicata si deraisonnable, quelle ne powvoit avoir eté portee, que par des personnes ou peu intelligentes, ou très- malicieuses (1). Ella era maliziosa, ma fondata sopra false speranze. Infatti il C. Filippo, professando la massima che nor conviene tener lo Stato appeso ad un solo filo (2), non aveva mai cessato di mantenere vive pratiche con la Spagna. Le protestava la sincera volontà di man- tenersi con essa in pace; ove poi fosse costretto ad acconsentire ad una lega con Francia, ne prolungherebbe a tutto potere il negoziato , la farebbe solo difensiva e per due anni, non concederebbe ai Francesi se non il minor numero di truppe possibile, ma non mai li lascierebbe invernare nel Ducato, od occupare piazze forti, procaccierebbe insomma di rendere inutili i loro sforzi (3). Egli così si illudeva di poter imitare il sistema del Duca defunto, che alleato con Francia seppe così destra- mente governarsi da non romperla con essa, e da offendere il meno possibile Spagna. Ma per continuare in questo sistema, mancavano a Filippo le tre condizioni del Duca. Primieramente il Duca, siccome generalissimo, poteva a suo arbitrio indirizzare, spingere e frenare la guerra; poteva eziandio attraversare le imprese volute da Francia; laddove Filippo e consorti non solamente non avrebbero avuta autorità ed influenza sulla guerra, ma sarebbero stati passivi e soggetti ai capricci ed ai soprusi dei marescialli francesi. In secondo luogo, il Duca, al dire del Tesauro, n0n aveva consiglieri di grande autorità e privanza negli affari politici, portando egli nel petto (1) Richelieu, Memoires, lib. XXIX, p. 274. (2) Lettera di Filippo al Gandolfo 26 agosto 1638. (3) Tuttociò si ricava dal carteggio attivo e passivo del Conte col Gandolfo, col Mundella, col Rovida, coll’Olgiati e con altri suoi agenti presso Spagna. PER A. PEYRON. 45 il suo consiglio (1); il secreto è di assoluta necessità per chi voglia navigar fra due acque. Ma qual secreto potevasi mai sperare nella reg- genza? La Sovrana, gelosa della sua autorità, tutto volendo sapere e tutto ordinare, adoperava troppi consiglieri di parti contrarie, e troppo parlava siccome donna vivacissima; così che il Monod per farle tenere credenza giudicava necessario il giuramento. Adoperava pure troppi agenti con gli Spagnuoli. Se ne avvide l’Hemery, e vivamente ne la rampognava, ma ella arditamente negava di tener pratiche con Spagna, ed ordinava al suo ambasciadere a Parigi di negare. Quando poi il vigilantissimo Hemery intercettò i dispacci degli agenti, e li mandò a Parigi, allora il S. Maurizio, dovendo calmare la collera del gran Por- porato , e conjurer le mauvais temps (2), umilmente lo supplicava di porre in dimenticanza il passato, e far per l'avvenire conto nuovo; poi scrivendo alla Duchessa le inculcava prudenza. ] Ma ella poco stante diede la seguente causa di più vive lagnanze. Il Commendatore Pasero ed il C. Messerati) amendue notissimi come fervidi partigiani di Spagna, fuggirono da un mite carcere, dove aspet- tavano la loro sentenza, e si ricoverarono nel Genovesato. Lascio par- lare l'Hemery: Je pressois Madame de chdtier Pasero pour avoir rompu ses prisons, et pour avoir negocie avec l’ambassadeur d'Espagne. Elle me fit prier par ses ministres de trouver bon qu'elle lui pardonndt , et qu'il revint dans la prison d’ou il s'étoit sauvé, ce que je lui accordois. Le jour d'après elle-méme me pria de trouver bon quelle le fit revenir en sa cour et en sa charge; à quoi je m’opposois. Per inspirare fondati sospetti bastava già la prima instanza di ristabilire senza castigo il fug- giasco nella sua prigione troppo libera. Ma con qual vocabolo qualifi- cheremo noi la seconda di rintegrare il Pasero in corte, e nel suo primo uflizio di segretario di Stato? Epperò l'Hemery a buona ragione pro- seguiva a scrivere: cela m’a donné une preuve certaine du doute que favois de sa négociation (3). E siccome l’ambasciadore , avendo fatto codiare i due fuggiaschi, e risaputo ogni loro passo e portamento, ne aveva per ordine e per filo scritto a Parigi, però il Re sdegnato chiese (1) Tesauro, Origine, p. 7. (2) Lettere del P. Maurizio a Cristina, 27 marzo, 7 giugno, 18 e 27 giugno 1638. (3) Lettera dell’Hemery al Richelieu ultimo d’agosto 1638. Questo brano fu copiato dal Richeliew nelle sue Mémoires, lib. XXIX, p. 288. 46 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA all’udienza il S. Maurizio , e gli disse: Essere afilittissimo nel sentire che la Sorella, seguitando i cattivi consigli, proseguisse a trattare con gli Spagnuoli ora meglio che prima. Sapere che ella, non avendo trovato il Leganes disposto a dar ascolto alle sue domande , ella stessa aveva mandato a Madrid un agente, che si era imbarcato a Genova. La fuga del Pasero essere stata concertata, giacchè egli si recò in luogo dove lo aspettavano l’ab. di Verrua, l’ab. Soldati ed alcuni Spagnuoli. L’ab. Soldati avere in tasca un salvocondotto della Reggente per entrare negli Stati ducali, e lo aveva mostrato in Genova. A questo rovescio di argo- menti particolarizzati il povero S. Maurizio rispose come meglio seppe e potè. La Sovrana allora irritata più che mai contra l’Hemery, che tutto scopriva e tutto riferiva a Parigi, ordinò al suo ambasciadore di procacciare che egli fosse richiamato in Francia. E l’ambasciadore le riscriveva che, avendone conferito col Guerapin, ne ebbe questa risposta: Madame vent mal à l'Hemery, parce qu'il donne avis des negociations quelle a avec les Espagnols. Voudroit-elle que l’Hemery se ruindt? IL n’en écrit pas toutes les fois qu'il en a sujet, car encore maintenant Madame a des traites avec eux. Ed il severo Cardinale soggiunse che on n’enverrait pas des personnes en la cour de Y. A. R. pour galantiser. (1). Oltre alla secretezza che presso noi mancava, mancava ancora la terza condizione richiesta per destreggiarsi, siccome fece il Duca defunto, tra le due corone belligeranti. La Sovrana non poteva nè a Francia né a Spagna inspirare o timori o speranze. Non a Francia; imperocchè primo e supremo suo fine era quello di conservarsi reggente assoluta. A questo grado da lei usurpato contra- stavano i Principi cognati, l'Impero, la Spagna, e, dicasi pure, il Pie- monte, che a lei anteponeva i Principi del sangue; solo suo sostegno al:emondo era la Francia, e questa le avventava il dilemma od ubbi- direte a’ miei comandi, o vi abbandono. A tale intimazione , che la annientava, ella cedeva. Litigò per conservarsi il P. Monod, litigò per non rinnovare una lega offensiva, litigò per non rassegnare a Francia piazza alcuna, litigò per altri meno importanti negozii; ma da ultimo, al sentirsi minacciato l'abbandono, sempre cedette; cacciò in carcere il Monod, sottoscrisse piangendo la lega offensiva, consegnò le fortezze, (1) Lettere del S. Maurizio a Cristina 11 e 22 ottobre 1638. PER A. PEYRON. 49 e si acconciò agli ordini di Francia, coll’ aggiunta di lettere di scusa 5 > 5 poco dignitose. Solamente in Grenoble resistette e vinse, ma ne vedremo il perchè. Questo perpetuo litigare con Francia e poi cedere sempre partorì per il Ducato e per la Duchessa pessimi effetti, che diremo. Neppure a Spagna poteva la Sovrana inspirare timori e speranze. I SEE lp ministri spagnuoli ben sapevano che ella ligia a Francia non mai si collegherebbe colla loro corona, e che da lei non dipenderebbe l’offendere od il risparmiare la Lombardia. Frattanto i ministri mantenevano vive pratiche con lei per ottenere piazze-forti, per ingannarla e tradirla. Ò D) Infatti il Leganes, volendo nel marzo 1638 riavere il castello di Breme negoziò con Madama affinchè si astenesse dal soccorrerlo, ed avvalorò il negoziato minacciandola che, se ella sturberebbe quell’impresa, egli caccierebbe tutta la sua armata nel Vercellese e nel Biellese a’ suoi danni (:). Madama non solamente si astenne dal venir in aiuto dei Francesi là assediati, ma ancora la polvere da lei somministrata ad essi , p era marcia. Ma gli Spagnuoli, appena riconquistato Breme, ricusavano di andarne debitori a Madama (2 oi l’ingannarono andando a sor- 285, 5 prendere Vercelli. Lascio parlare il C. Filippo nella sua lettera del 9 agosto 1638 al Gandolfo: Z M. di Leganes ripigliò il suo stile cortese quando per appunto doveva giù aver minutato l'assedio di Vercelli, e dando mille speranze, aprendo la via a mille proposizioni. .... andava p. n YO POLSO], incantando M. R., a segno tale che tre o quattro giorni prima che ponesse l'assedio a Vercelli, mostrò con una sua eziandio di contentarsi che M. R., avendo riguardo alla positura de’ suoi Stati, stesse unita con (1) Lettera del Mondella al Messerati 16 giugno 1640. (2) Durante Vassedio di Breme non passò giorno, che o Crequy mentre viveva, o d’Hemery non abbiano sollecitato M. R. per dar loro le sue truppe...... il che sempre sî è negato sotto varii pre- testi, portando le cose in lungo, dal che riuscirono effetti favorevoli..... I Francesi si lagnarono che la polvere loro data era marcia. Lellera di Filippo al Gandolfo 3 aprile 1638. Ed in altra allo stesso del 9 agosto: Madama nor volle dare alcun soccorso ai Francesi quando (gli Spagnuoli) eraro sotto Breme ...... ed il M. di Leganes conosceva benissimo quanto importasse pe’ suoi fini questo negozio, epperò scriveva lettere cortesissime, mandava proposizioni in apparenza vantaggiose con compimenti mclatt.. Ma, subito che Breme cadde, mutò registro, mostrandosi superbo ed orgoglioso ...... come tutte le sue lettere ne fanno ampia fede. Inoltre l'Olgiati nella relazione dell’abboccamento che nel maggio 1638 ebbe in Genova coll’Ab. Vasquez, riferisce, che avendogli rimostrato la benemerenza di Madama nel facilitare al Leganes l’acquisto di Breme, ne ebbe in risposta dall’Abate: Mor dubitare della buona volontà di S. A., e sperare che la dimostrerà in altre occasioni di maggior importanza che quet che ha fatto in Breme, la quale impresa ebbe tali fondamenti, che non dipendeva da questi accidenti (nell’Archivio dì Stato, Tutele e Reggenze, mazzo 3, n.° 14). 48 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Francia, ma che procurasse che i suoi soccorsi fossero deboli, e non eccedessero i tre mila fanti, e che si rendesse infruttuoso almeno ogni tentativo de’ Francesi contro lo Stato di Milano. Questo timore e facilità era artificio indegno per procurare che M. R. restasse disarmata, che non facesse venire gran gente di Francia, come più volte ne avevano fatto instanza, sotto finto zelo che i Francesi non si impadronissero delle sue fortezze, sicchè quelle restando senza guernigione potessero più facil- mente espugnarsi..... M. R. andava producendo il negozio (della lega con Francia) con mille pretesti non senza il proprio danno, per lasciar passare la stagione infruttuosa, procurando in questa guisa di trattenere i Francesi di lù dai monti, perchè così aveva promesso a’ Spagnuoli di fare, avendole essi promesso in contraccambio di non attaccare i suoi Stati. E, a dirla più chiaramente, quali crede V. S. I. che sieno le scuse apportate dai Francesi della perdita di Vercelli, toltone le lunghezze di M. R., gli ufficii fatti acciò non venisse maggior nervo di gente, le sue diffidenze nel non aver posti Francesi nelle piazze , ed i trattati secreti tenuti cogli Spagnuoli? Gli Spagnuoli, non contenti di avere ottenuto Breme e Vercelli, abbisognano ancora di due piazze di V. A. R., così il Gandolfo scriveva alla Duchessa 13 agosto 1638, all’espugnazione delle quali il De Melo ed il Leganes si porterebbero con grossa armata. V. A. R. difendendole colla sua gente, si asterrebbe di provvederle conforme al bisogno di munizioni da guerra e da bocca, onde in pochi giorni possano cadere. Essi terranno le dette piazze a nome di S. A. R., e così i redditi e la giurisdizione correranno per conto suo. Se V. A. R. rigetta questo partito, essi con correrie rovineranno tutto il Piemonte. Il Leganes, mentre prometteva alla Reggente di lasciarle le entrate e la giurisdi- zione delle due piazze desiderate, abbatteva in Vercelli gli stemmi sabaudi, vi sostituiva quelli di Spagna, esigeva dai cittadini il giuramento di fedeltà al Re, e poco stante pretendeva di estendere a tutto il Vercel- lese ed a Biella il dominio spagnuolo. Da ultimo, oltre all’ ottenere piazze e ad ingannare la Duchessa, gli Spagnuoli si servivano dei nego- ziati per tradirla (1). Il navigare fra due acque fu e sarà sempre il partito de’ piccoli Stati posti in mezzo tra due potenti nemici; e tal fu il partito del Duca (1, Zeramente non si può negare, come apertamente me l’ha significato il sig. di Schiabena, che li Spagnuoli stessi vanno scoprendo ogni cosa (ai Francesi). Lettera dì Filippo al Gandolfo 4 settembre 1638. PER A. PEYRON. 49 defunto, il quale per eseguirlo aveva i tre mezzi necessari, il comando supremo della guerra, la secretezza e la possibilità di inspirare timori a Francia non meno che a Spagna. Ma, osserviamo, tal maliziosa navi- gazione non può rimanere a lungo inavvertita ed occulta agli ingannati rivali; quindi è che il Duca Vittorio, toccando omai al fine del triennio della lega con Francia, negoziava con Spagna affinchè gli guarentisse contro Francia la neutralità. Per lo contrario a Madama mancava la suprema autorità nel maneggiare la guerra, mancava la secretezza dei consigli, mancava la volontà e la possibilità di aderirsi a Spagna (1). Frattanto Filippo continuava a destreggiarsi tra le due rivali potenze. Conviene, così scriveva il 2 maggio 1638 al Vescovo d'Alba, per una parte far conoscere alla Francia, che ogni cosa si fa di buon cuore, portati più dall’affetto che dalla necessità, ed agli altri che appunto la forza astringe ad abbracciare amorevolmente quello che non si può sfug- gire senza irreparabil danno. Ma perchè a lui ne mancavano i mezzi , e perchè i ministri di Francia e di Spagna non erano citrulli, la dop- piezza non poteva protrarsi a lungo, e doveva, come al solito, ricadere sull’ingannatore. In prova ne arreco la perdita di Vercelli, deplorata da Filippo nella citata sua lettera del 9 agosto. S 10. Mentre la Duchessa spera di ingannare Francia e Spagna, l'Hemery ed il Leganes ingannano lei. — Pentimento del C. Filippo. Sin d'allora si seppe; e noi ora dai documenti sappiamo, che la lega con Francia era stata nel nostro consiglio di Stato decisa sin dagli ultimi giorni di febbraio; ma noi, riconoscendola dannosa ai nostri inte- ressi, e volendo ingannare Francia e Spagna, colla prima andavamo litigando , affinchè , protraendosi la sottoscrizione , quell’anno almeno scadesse esente da guerra; a Spagna poi dicevamo che, necessitati a far lega, la limiteremmo ad essere difensiva. L’Hemery allora, ristucco delle (1) Madame disoit que le feu Duc son mari avoit raison de vouloir toujours balancer entre la France et ’Espagne, ne considérant pas qu'il y avoit grande difference entre la force du gouvernement d’un homme et la faiblesse de celui d’une femme. Richelieu, Mémoires, lib. XXIX, p. 272. Serie II Tom. XXIV. - 510) NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA nostre lungaggini , le troncò colla seguente malizia. In un giorno del- l’aprile nell’uscire dal gabinetto della Duchessa si appressò con una carta in mano al nunzio Caffarelli, dicendogli ecco abbiamo finalmente la lega sottoscritta (1), poi con lettera comunicò la stessa notizia. all’ambascia- dore di Francia a Roma. Il nunzio, appena intese quelle trionfanti parole, le tramandò al Card. Barberino, questi le riferì al Papa, il Papa al M. di Castel Rodrigo residente di Spagna, e questi tosto ne ragguagliò il M. di Leganes; la sottoscrizione del trattato era tanto più creduta da tutti, quanto più veniva confermata dal residente di Francia, che mostrava la lettera dell’ Hemery (2). La novella subito sulle ali della fama volò a Fiandra, ed il Pr. Tommaso la riseppe sul finir dell’aprile. Lo stesso D. Felice governatore della ‘Savoia credette. sottoscritto il trattato e denunziato anzi tempo dall’Hemery, giacchè il ro maggio così scriveva a M. R.: Qui giunta sarà una lettera del sig. Pr. Tommaso al sig. di Pesieu, che fa conoscere che il sig. d’ Emery non è solo a pub- blicare quel che si dovrebbe tener segreto. Ma non è da meravigliarsene, poichè la Francia stima, per mio credere, necessario di levare a M. R. ogni mezzo di trattare con Spagnoli, e nol può fare meglio che col pubblicare che ella ha fatto un nuovo trattato con loro. ...... il che necessita V. A. a non sperare d'essere sostenuta da altri che dalla Francia. Agli avvisi del Castel Rodrigo ed alla voce sparsa in Europa come mai il Leganes avrebbe negato fede? Egli stimandosi doppiamente ingannato , perchè noi gli davamo a credere la lega essere solamente difensiva e non sottoscritta, non aspettò più oltre, e, preparata secreta- mente ogni cosa, scese improvviso contro Vercelli , la assediò ed espugnò. Per tal sorpresa irritato il C. Filippo strillava , e scrivendo a Monsignor Gandolfo così si scatenava contro a Spagna: Ora non devono gli Spa- gnuoli negare di non avere finalmente ingannato M. R., poichè fintamente mostrarono di essere molto soddisfatti di lei .....per introdurre qualche trattato per varie vie benchè infruttuosamente .....per non altro fine (1) Castiglioni, Mistorza, lib. II, p. 34. (2) IZ M. di Leganes fu avvisato da Roma dal M. di Castel Rodrigo siccome M. R. aveva secreta- mente sottoscritta la lega, la qual cosa non solo era stata pubblicata dall’ambasciatore di Francia colà residente, il quale ne mostrava lettere di M. d’Hemery, ma S. Santità l'aveva confirmato al medesimo Castel Rodrigo, ed il Card. Barberino gli aveva fatto vedere lettere di codesto Monsignor Nuncio, il quale affermava di aver veduto in mano dello stesso Emery la detta lega sottoscritta. Lettera di Mons. Gandolfo al C. Filippo 26 luglio 1638. PER A. PEYRON. 5I che per metterla in sospetto della Francia. Ella però ...... mantenne vive pratiche col M. di Leganes ......e per esse M. R. ebbe disgusti notabili. colla Francia, che ne penetrò i motivi. ... Ad ogni modo non st sono mai troncate quelle vie, per le quali ci pareva poterci non solo non render odiosa alcuna delle corone, ma in certo modo obbligarci quella di Spagna, come si vide nel non aver voluto dare alcun soccorso ai Francesi quando erano sotto Breme ....... Volesse il cielo che sin d'allora si fosse preso esempio, poichè l'inganno non sarebbe andato più in lungo, nè M. R., allettata dal sommo desiderio di aver la pace e da sì false speranze, avrebbe tanto tardato ad unirsi strettamente coi Francesi! .... Signor mio, è gran tempo che troppo è conosciuta l'arte spagnuola, nè si sarebbe errato se non ci fossimo dipartiti dalle norme (CENCEGIO N Il tutto dunque si dee credere riuscito per inganno , e la perdita di Vercelli ne può far fede, onde, benchè tardi ravvisati. . . . non ci lascieremo più incantare da false lusinghe. Don Francesco de Melo non ha melo che possa più in alcun modo addolcire le nostre amarezze. . . Si vede chiaramente che nel consiglio di Spagna hanno deliberato di opprimere questa Principessa, mentre vi vedono maggior facilità che altrove .....per rifarsi qua delle perdite che hanno fatto altrove. .... Circa poi alla lega, se mai V. S. I. mi credè veridico, se ne contenti questa volta, poichè io gli giuro per quel Dio, che dee giudicarci tutti, che M. R. non aveva nè in secreto nè in altro modo signato trattato alcuno, anzi a bell’arte andava producendo il negozio con mille pretesti non senza il proprio danno ..... Sicchè, per concludere questa diceria, non pare che debba essere accettata per buona regola l’aver trattati in piedi con Spagnuoli (1). i In questa lunga lettera di pentimento il C. Filippo confessava impli- citamente di aver errato lusingandosi di potersi, come il Duca defunto, destreggiare tra le due corone. Ma il pentimento poco durò , giacchè egli continuò a negoziare colla Spagna, insino a che questa prese aper- tamente a proteggere i Principi del sangue. A qual partito si sia egli allora appigliato, lo vedremo fra breve. Dissi che la lega con Francia era stata nel nostro consiglio decisa sin dagli ultimi giorni di febbraio. In esso i nostri ministri furono d’avviso (1) Lettera del €. Filippo al Gandolfo 9 agosto 1638. > 32 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA che Madame devoit faire une ligue défensive avec S. M. pour la défense du Piémont et du Montferrat , mais qu'elle ne pouvoit s'engager à une offensive contre l’état de Milan, d'autant qu'elle ne pouvoit recevoir beaucoup de dommage et nul avantage (1). Nel leggere tal deliberazione il Richelieu disse che elle me powvoît avoir été portée que par des per- sonnes ow peu intelligentes ou très-malicieuses; infatti essa lasciava apertamente intravedere la maliziosa nostra intenzione di proseguire a trattar colla Spagna, sulla quale collocavamo speranze, che io testè ho dimostrato essere vanissime. 8 11 La Duchessa con invitti argomenti dimostra che la lega offensiva rovinerebbe il "Piemonte, ma vi acconsente se così vuole la Francia. - La soltoscrive piangendo. - Niuna riconoscenza della Francia. L’ultimo giorno di febbraio la Reggente inviò al suo ambasciadore a Parigi lo schema di lega difensiva, accompagnato con una diffusa instruzione, nella quale così gli ordinava: Voi non presenterete lo schema del trattato , per non sembrare che noi vogliamo dettare la legge, ma lo terrete per vostra norma. Prima di negoziare voi rinnoverete le instanze per una sospensione generale o particolare; non già che speriamo d’in- durvi i Francesi, ma solo per disporli a contentarsi d’una lega difensiva. Ils nous voudront engager en une guerre offensive contre V’état de Milan. Vous direz que nous devons conserver nos forces pour la défense de l'état; que nous leur donnerons le passage libre, et non aux Espagnols; que nous defendrons le Moniferrat, et méme en attaquerons les places. Rimostrerete che la casa d'Austria è ora assai più potente che non al tempo del trattato di Rivoli. Direte che Za guerre offensive est contraire aux desirs de nos sujets. Que feu Monseigneur ne voulut jamais se resoudre à une ligue offensive, qu'il n'et vu au préalable dix mille hommes dans la Valteline, qui fermoient le passage aux AUlemands, et quon ne lui elt donné parole que le Roi feroit entrer une puissante armée dans la Flandre auparavant qu'il fit aucune rupture. Qu'il avoit (1) Memoires de Richelieu, lib. XXIX, pag. 274. PER A. PEYRON. 55 expressement capitulé qu'il ne seroit point obligé de sortir en campagne, que les autres confederes d'Italie n’eussent mis sur leur pied leurs forces. Epperò , se vogliono obbligarci ad una guerra offensiva, noi vogliamo le stesse condizioni, cioè diecimila uomini nella Valtellina , i Principi confederati d’Italia pronti a combattere, e le aderenze di Francia in Allemagna e nell’Alsazia così potenti come allora. Che se tuttociò manca, cessino di citare l'esempio del fu Duca. Che anzi egli allo spirar della lega intendeva di rappresentare queste stesse cose al Re, a fine di prov- vedere al servizio di S. M. con altri mezzi più sicuri di quelli dell’ultimo trattato. Noi confidiamo che queste ragioni indurranno la Francia à ne pas nous engager dans une formalité de ligue offensive, qui ne leur sert en effet de rien, puisqu'ils peuvent avoir les mémes effets de la ligue que nous faisons pour le Moniferrat. Alla lunga serie di questi e di altri argomenti succedeva la seguente conclusione, che annullava l’instruzione intera: Noi vi diamo tuttavia autorità di aderire ad una lega offensiva nel solo caso qu'un refus absolu dit apporter quelque rupture et non autrement...... La passion que nous avons pour le service du Roi, et la confiance que nous nous pro- mettons de l’amitié de M. le Cardinal, nous fait passer sur toutes ces considerations pour faciliter les desseins de la France. Ben disse il Siri, che la Reggente, dopo aver esposte tutte le considerazioni contrarie , conchiuse che l’Ambasciadore dovesse far quello, che trovassero a pro- posito il Re ed il Cardinale (1). Nello stesso giorno la Duchessa indirizzava al suo Ambasciadore un altro dispaccio, relativo all’annunzio che il Richelieu le avrebbe mandato un forte esercito. Stupisco, ella vi diceva, che il Re ora mi voglia mandare 18 mila fanti e 3 mila cavalli, senza manifestarmi le sue intenzioni, come si fa tra sovrani indipendenti. Giacchè, se vengono per una lega offensiva, la casa di Savoia non è obbligata per alcun trattato a farla, e, facendola senza dichiarazione , le conseguenze sarebbero perniciose. Se pai vogliono farla difensiva, bisogna intenderci sulle spese della guerra. Il mandarci poderoso esercito, senza prima dichiararci le sue intenzioni, ci dà gravi sospetti, sebbene il Re ci sia fratello. L'esempio di Tolanda sorella di Luigi XI ci mette paura; il Re si impadronì dei due principi (i) Siri, Memorie, tom. VIII, p. 575. 54 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA pupilli, e mise presidii francesi nelle migliori piazze. Per altra parte Pinerolo e Casale ci mostrano che la ragione di stato prevale al sangue. Noi intendiamo di mantenerci nell’amicizia e nel servigio del Re di Francia, ma desideriamo che il Re in prima ci dia riposo con una sospensione. Qual credito potrei io avere presso i sudditi continuando la guerra? Imperocchè, la Francia non potendo far qui uno sforzo rag- guardevole , la guerra sarebbe difensiva e gravosa per noi, essendo i Francesi ad ogni instante mancanti di danaro, di munizioni, di artiglierie, di carri e di cavalli, ed incolperebbero noi. Tuttavia noi non faremo sospensione alcuna senza l’approvazione del Re. Per la guerra offensiva contro la Lombardia noi nulla guadagnammo per lo passato , quando eravamo favoriti dai confederati d’Italia, e dall’invasione della Valtellina. Tuttavia, quando il Re persistesse a volerla offensiva, l’affezione nostra per il Re faciliterebbe tutto. Quanto allà difensiva, osserviamo che gli Spagnuoli fanno grandi preparativi per assalire i nostri stati, perché noi ricusammo la neutralità, se non era acconsentita dal Re fratello. Tuttavia noi siamo pronti a soffrire la guerra difensiva anche prevedendo i danni de’ nostri stati, anzichè opporci alle intenzioni del Re. La guerra sarà dispendiosa ed incomoda alla Francia, senza altro risultato che di aver rovinato il Piemonte ed il Monferrato. Anche in questa lettera la Sovrana ragiona bene, ma conchiude male. Noi, dice ella, abbisognamo d’una sospensione, ma non la faremo senza il consenso del Re. La guerra offensiva non ci arrecherà alcun vantaggio, ma l'intraprenderemo per amore del Re. Quella difensiva rovinerà i nostri stati, ma sieno pure disertati e guasti, purchè così piaccia al Re. Così il Piemonte veniva dalla Duchessa immolato in olocausto al Re, affinchè egli, compiaciuto ne’ suoi arbitrii, compiacesse poi lei nel mantenerla reggente assoluta. a risposta di Francia non poteva esser dubbia. Il Re protestava che la avrebbe abbandonata, se non accettava la lega offensiva, e se continuava a trattare con Spagna. Il S. Maurizio poi si schermiva dall’eser- citare la facoltà di discernere quando fosse il caso di aderire alla offensiva, e domandava muove instruzioni; queste non tardarono a giungere. Imperocchè erasi in questo mezzo la Duchessa imaginato che, per essere stato il P. Monod relegato a Cuneo, la Francia professar le ne dovesse una gratitudine immensa, ed in contraccambio, non che lusingarsi di ottenere miti condizioni per la lega, sperava e chiedeva nuovamente il PER A. PEYRON. 55 titolo di Altezza Reale, e gli onori delle guardie e del tamburo pel suo ambasciadore. Ma, quando seppe che il Richelieu, non facendo alcun conto del mite esilio in Cuneo, voleva carcerato il Gesuita, re- spingeva il titolo reale, ed imperiosamente le ingiungeva la lega offensiva; allora ella, sono parole del Siri, vomì l’atra sua bile nel dispaccio del 29 marzo al S. Maurizio, ordinandogli di soprassedere dall’esercitare la facoltà conferitagli, e di menare per le lunghe il trattato di lega, insino a che gli significasse le sue precise intenzioni (1). Da questo sistema indugiante che mai ne derivò? Alle importune instanze del Crichi e dell'’Hemery, così scrisse il Tesauro , concertate con li curiali, la Sovrana rispondeva più con lacrime che con parole, cercava indugi, non con- cedeva nè negava, proponeva partiti mezzani, epperò più pericolosi; ella era in guisa d'una fortezza che non si rende ma parlamenta (2). La Duchessa , dopo essersi ridotta a questo misero stato fisico e morale , fu doppiamente ingannata. La ingannò l’Hemery, il quale pubblicò come già sottoscritta la lega, e così le troncò ogni suo trattato con Spagna. La ingannò il Leganes scendendo improvvisamente contro Vercelli e la espugnò. Ella da ultimo sottoscrisse il 3 giugno la lega offensiva, sì e come le era stato intimato da Francia, e sottoscrisse il trattato bagnan- dolo con lacrime che non cessarono tutto quel giorno (3). Qual rico- noscenza riportò da Francia? Il Richelieu ricevette il trattato come un debito rigoroso, che la sorella pagava al fratello protettore , poi disse al S. Maurizio: conosco tutti i negoziati del Monod con Spagna, con- dotti da un frate. So che la Duchessa aveva promesso agli Spagnuoli di non far lega offensiva con Francia, epperò la tirava in lunga; aveva pure promesso di far uscire tutti i Francesi dai presidii, e per tal fine aveva soldati Svizzeri per sostituirli nelle piazze. So che lascia assotti- gliarsi i tre reggimenti francesi, che stanno al soldo’ di lei, a fine di introdurvi Savoiardi (4). Così ella, invece dei ringraziamenti che aspettava da Francia, ne riceveva nuovi rimbrotti. Due partiti stava il Duca Vittorio ponderando fra sè, o aderirsi a Spagna per ottenerne la neutralità negatagli da Francia, od unirsi a (1) Siri, Memorie, tom. VIII, p. 590. (2) Tesauro, Origine, p. 81. (3) Ivi pag. 86. (4) Lettera del S. Maurizio a Cristina del 7 giugno. 56 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Francia, ma obbligandola a fare una guerra grossa e terminativa, por- tandola nello Stato di Milano. Dal primo partito, che avrebbe ricondotti i Principi del sangue nel ducato, sempre abborrì la Reggente. Al secondo, che avrebbe introdotto nel Piemonte numerose forze francesi, sempre ella contrastò, perchè diffidava di Francia, insino a che non ebbe perduta una gran parte degli stati. Si appigliò pertanto alla lega puramente difensiva. Ma il Pr. Tommaso sagacemente le osservava, che, se ella concedeva passaggio e domicilio nel ducato all’esercito francese per assalire la Lom- bardia , il Leganes non aspetterebbe di essere assalito nel suo stato, ma assalirebbe il nemico nello stato di lei, e lo porrebbe a soqquadro. Queste avvertenze tornavano inutili a chi, per mantenersi reggente assoluta, altro mezzo non rimaneva, che il buttarsi abbandonatamente nelle braccia e nell’arbitrio di Francia. Il Richelieu volle offensiva la lega, e tale la sottoscrisse la Sovrana piangendo; ma pianse poi ben più il ducato. Così fu condotto il negoziato della lega firmata con Francia il 3 giugno 1638. $ 12. Al Duca Giacinto, che muore, succede il Duca Carlo. — Il C. Maurizio partito da Roma rientra nel ducato con-intenzioni pacifiche. - L’Hemery vuole arrestarlo. - Madama lo salva, ma lo respinge dal ducato. Sottoscritta la lega, il rimanente dell’anno trascorse senza alcun rilevato fatto. d'armi, ma fu dolorosamente segnato per la morte del Duca Giacinto, al quale succedeva l’unico fratello Carlo Emanuele di anni quattro. AI ricevere tal novella il Card. Maurizio non tardò a partire occul- tamente da Roma, ed a ricondursi nel Genovesato. Egli nuovamente voleva abboccarsi colla cognata , confidando di trovare in essa il ricambio di quella tenera propensione, che egli sempre sentì verso di lei; dise- gnava pure di offrire la sua mano alla vedova, e troncare così ogni discordanza sulla reggenza. Per annunziare poi queste sue pacifiche in- tenzioni , entrò nel ducato, e si condusse insino a Chieri, accompagnato da sole cinque persone di sua corte. Io tralascio i particolari di questa sua corsa, diffusamente narrati dal Tesauro (1), e dico che nel nostro (1) Tesauro, Origine, p. 109 sg. PER A. PEYRON. o] consiglio di stato parecchi opinarono, che il Cardinale fosse arrestato, ma altri rimostrarono che si incontrerebbero le censure di Roma, che carcerato in un castello del Piemonte difficilmente vi sarebbe custodito, che il rassegnarlo ai Francesi sarebbe viltà, che i sudditi inaspriti nel sentirlo prigione si solleverebbero contro la Sovrana francese (1). Tuonava frattanto l’ Hemery volendolo carcerato, e Madama finse di aderirvi. Scrisse al Lavalette, che stava in Casale, di recarsi a Chieri per intra- prendere il porporato, ma tosto mandò il commissario Gabaleone con sue truppe a Chieri per atterrire con minacce i cittadini e indurre il cognato a fuggire, Egli partì corteggiato da molti illustri Cheriesi , e scortato volontariamente dai soldati stessi di Gabaleone, che protestavano avrebbero data la vita per difenderlo dai Francesi. Il Lavalette giunse tardi. Le ripetute sue lettere al Richelieu, nelle quali procacciava di scusare la sua tardanza, mi dimostrano che rifuggiva dall’arrestarlo. Egli era amico di Maurizio, egli conosceva le censure di Roma, che nell’arresto dei Cardinali Borboni, Lorenesi e Guisi non la perdonò alla Francia, egli stesso era Cardinale, epperò frappose maliziosi indugii , probabilmente suggeriti dalla Duchessa, che voleva salvo il cognato. Così credo si debba spiegare il garbuglio di Chieri. Il Cardinale da Chieri avviatosi ad Annone di là si recò a Loano, terxicciuola imperiale della riviera di Genova, e l’accanito Hemery non mi di rinnovare l’instanza per arrestarlo. Lascio parlare il Lavalette, che in una sua lettera in cifra così scriveva al Chavigny nel dicembre 1638: Madame me chargea hier de vous mander, qu'elle a eu avis que le Cardinal de Sayoye s'en alla demeurer à Loan, et quelle souhaiteroit bien que le Roi et M. le Cardinal voulussent essayer de le faire prendre ce quelle tient fort aisé avec trois galères. Elle desirerait qu'on les donndt è commander au Baron d'Allemagne qui est è elle, et qui scait fort bien le pays. Elle desire que la chose soit extrémement secrète, et méme que son ambassadeur n'en sache rien; mais elle ne veut pas y contribuer rien, ni que personne sache qu'elle y ait eu aucune part. C'est au Roi maintenant et à M. le Cardinal à se resoudre. Qui vedo nuovamente la Duchessa piegarsi alle instanze dell’ambasciadore, ma ravviso pure lei ed il Lavalette contrarii all’impresa. Ella propone che (1) Castiglioni, Mistoria, lib. III, p. 42. Serie II. Tom. XXIV. $ 58 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI' MARIA CRISTINA. le truppe sieno francesi, ma ubbidiscano ad un suo fido, che sarebbe da lei indettato, ed il porporato cedendole ad un piemontese rifugge di bel nuovo dal porre le mani addosso al collega; anzi meglio ancora opina, che se ne debba interrogare il. Re ‘ed il Richelieu. In questo intervallo, come ognuno ben intende, il Card. Maurizio, reso avvertito dalla cognata, tranquillamente sloggiò da Loano. nr Maurizio in Chieri aveva detto che più dei Francesi temeva i mi- nistri della Reggente (1), ed io temo che egli avesse ragione. Infatti questi avevano preso a calunniarlo, e sparsa anche voce che in Genova com- prasse veleni; e la Sovrana sel credeva, e passava giorni agitatissimi. Eppure ella ben sapeva che Ze Cardinal est amoureux d’elle, et la veut epouser, ou bien sa fille, et lui temoigne de n'étre pas éloigné de s'ac- commoder avec la France, siccome il Lavalette il 13 novembre scriveva al gran Ministro; ma poi, temendo che tal nuova potesse turbare i sonni del suo padrone, così riscriveva il 27: Pour le mariage du Cardinal et de Madame ne vous mettez pas en peine, car il n°y a pas d’affuire plus impossible que celle-tà. Je la tiens très-éloignée de consentir pour qui que ce soit, excepte que pour M. le Comte. La galante proposta del cognato era talmente pubblica, che la Sovrana con una sua lettera autografa al Re fratello , da me letta in Parigi, volle certificarlo , che ella, dopo aver condisceso a sposare un piccolo Duca regnante, non si abbasserebbe ad unirsi con un principe cadetto , mentre le sue sorelle erano regine. S 15. Maurizio si volge agli Spagnuoli. — Sottoscrive in Alessandria un capitolato con essi. - Tommaso giunto da Fiandra ricusa di sottoscriverlo. - Male ‘accolto dal geloso Leganes. - I Principi fanno conquiste. Maurizio ributtato per la seconda volta dalla Duchessa, si rivolge di nuovo agli Spagnuoli. Con essi venne a trattato in ‘varii convegni, ma quello di Alessandria fu il principale, anzi il solo che incontrai sempre citato nelle carte Messerati, perchè in esso si commisero alla carta (1) Tesauro, Origire, p. 117. PER A. PEYRON. 59 alcuni articoli. Vi si assegnavano al Cardinale 25 mila scudi al mese, affinchè mantenesse quattro mila fanti e mille cavalli per guerreggiare contro ai nemici del Re Cattolico. Le città , che otterrebbe per libera dedizione, o colle forze proprie, sarebbero sue. In quelle oppugnate. colle truppe di Spagna il presidio sarebbe spagnuolo , ma l’autorità governativa ed utile rimarrebbe al Duca sotto la tutela degli zi. Il Re , al solito, protestava. di non voler ritenere un palmo del terreno ducale , e tutto sarebbe da lui restituito senza pretendere risarcimento di spese (1). Il capitolato fu scritto di pugno degli Spagnuoli, ma sottoscritto dal solo Cardinale. Così egli impegnava la sua parola e l'onore, mentre i ministri si mantenevano padroni di nulla eseguire di quanto avevano scritto. ma non firmato. Quindi a picciol tempo giunse da Fiandra il P. Tommaso. Si disse che i due fratelli fossero discordi fra loro; la verità è questa. Maurizio, geloso della sua prerogativa di primo principe del sangue, e persuaso che egli solo basterebbe come diplomatico e come capitano ad ottenere i suoi diritti in Piemonte, desiderava che il fratello non si movesse di Fiandra (2). All’incontro Tommaso temeva che il fratello come bonario e vanitoso si lasciasse nei negoziati abbindolare , e come capitano si appigliasse a subitanei partiti senza averne le forze (3). Ma i fratelli , appena entrati in guerra, contro alla Cognata, lasciata ogni gelosia , andarono sempre d’accordo, e Maurizio ai consigli degli adulatori sempre antepose quello di Tommaso. Il Guichenon , p. 925, scrisse che gli Spagnuoli offrirono ai due fratelli toxte sorte de secours et d’assistances, afin de les obliger d’entrer en Piemont. Le larghe offerte sono in qualche parte vere quanto al Cardinale Maurizio ,, che gli Spagnuoli speravano di maneggiare a loro arbitrio con lusinghe e con inganni; ma non così quanto a Tommaso. Infatti il Leganes, come intese che il Principe instava per venire in Italia, indirizzò a Madrid una nota sottoscritta dai membri del consiglio secreto, nella quale rimostrava l’inconvenienza di tal venuta (4). Giunto poi il Principe, lo accolse così freddamente, che per venti giorni non (1) Lettera di Tommaso al €. Boetto, 13 settembre 1639. Tesauro, ecc. (2) Tesauro, Origine, p. 56; e nella nota manoscritta al Guichenon, p. 925. (3) Vedi la sua lettera alla Principessa di Carignano citata più sopra pag. 18. (4) Lettera del Gandolfo al C. Filippo, 19 febbraio 1638. 60 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA lo provvide nè d’alloggio, nè di viveri, e neppur gli regalò un bicchier di vino (1). Come gli fu presentata la capitolazione d'Alessandria, egli ne approvò gli articoli, eccettuato quello nel quale i Principi si obbligavano a portar le armi contro tutti i nemici del Re indistintamente. Già prima che partisse di Fiandra gli era stata inviata da Madrid una carta di pro- tezione, che obbligava lui ed i suoi figliuoli nati e nascituri a servire il Re contro a tutti 1 suoi nemici; egli l’aveva respinta rimostrando doversi eccettuare il caso di portar le armi contro alla propria casa, salvo che per introdursi negli stati paterni a fine di cacciarne i Fran- cesi (2). Tal eccezione non essendo stata ammessa dall’Olivares, Tommaso in Fiandra ricusò di ratificare la carta, ed in Lombardia si astenne dall’apporre il suo nome al capitolato di Alessandria, anche perchè non firmato dagli Spagnuoli. Altri congressi si tennero in Melegnano, in Novara ed altrove, ma inconcludenti, seppur non miravano a tastarsi a vicenda; il solo, che sempre vidi invocato dai Principi contra Spagna, fu quello di Alessandria. Impaziente omai di profondere il tempo in vane parole, il Pr. Tommaso cominciò ad operare, e Chivasso, Ivrea, Masino, Agliè, Biella, la valle d'Aosta ed il forte di Bard non tardarono a cadere in mano de Principi. Poco stante si insignoriva di Moncalvo, di Trino, di Asti, e sorprendeva la stessa Torino, mentre il Cardinale fratello assai più col gran suo eredito, che non colle armi, si impadroniva di Revello, di Fossano, di Saluzzo, di Mondovi, di Dronero e di Nizza colla sua contea. Giunta a questo apogeo la stella de’ Principi, cominciò a tramontare, insino a che s'arrenderono a Francia e si accordarono colla cognata. Questi fatti storici siccome notissimi io li tralascio, e preferisco di esporre le cause per le quali caddero vinti i Principi. Esse furono due, la politica di Spagna traditrice dei due fratelli, e la politica di Francia sostenitrice sempre più vigorosa della reggenza di Madama R. I nostri storiografi, principalmente intenti a celebrare le lodi di lei, troppo condannarono la Francia, troppo poco la Spagna, e troppo scusarono, seppur non tacquero, i torti della Reggente, a fine di aggravare i Principi: io spero di raddrizzare i loro giudizii, e comincio dalla politica di Spagna. (1) Relazione di un Vassallo di Spagna all’Olivares, nelle Carte Messerati. (2) Lettere di Tommaso al C. Boetto, 13 e 20 settembre 1639, PER A. PEYRON. 61 S 14. La politica di Spagna. - Il Re effeminato. - L’Olivares governa il regno, il Leganes la Lombardia. - Due governi diversi, dai quali î Principi sono pal- leggiati. — Disegni della Spagna sul Ducato. Sin dall’anno 1635 il marchese Forni, inviato straordinario del Duca Vittorio a Madrid, così gli scriveva: / ministri tengono il Re effeminato, e gli fanno passare la maggior parte del tempo alla pilotta in musica, e comporre musica, poesie e donne, e sono uniti in fare che non penetri nell'intimo dei negozi, aggirandolo con consigli secondo i loro interessi, e dove inclina il Conte Duca nissuno osa contraddirgli .... Il Re è il più rubato ed assassinato principe del mondo, essendo il Conte Duca e suoi parenti uniti a depredare le entrate del regno ...... Il Conte Duca fa liberare tutti i banditi, e sopire i processi mediante danari (1). L'Olivares, detto per antonomasia il Conte Duca, era il primo ministro, e, come dicevano gli Spagnuoli, il Privado del Re, ossia il suo primo favorito. Egli, occupatissimo nel procurare nuove ed incessanti divagazioni allo scioperato sovrano, e volendo pure godersi la vita, non altrimenti go- vernava la vasta monarchia che per mezzo de’ suoi favoriti, ai quali concedeva estesi poteri, infallibilità nelle loro deliberazioni, e sicurezza contra chiunque ardisse di accusarli. Ne addurrò un esempio. Il Card. Maurizio aveva da Nizza reso avveruto il conte Sirvela governatore della Lombardia, che il Principe di Monaco aveva ordito una trama con Francia per sottrarsi alla dominazione spagnuola; poi avendo saputo che il Sirvela non se ne dava punto pensiero, spedì D. Alonso di Villanova con sue lettere a Madrid dirette all’Olivares, affinchè od egli stesso vi provve- desse, ovvero scuotesse l’inerzia del ministro lombardo. Il Conte Duca, appena seppe che D. Alonso era giunto accusatore del favorito Sirvela, ricusò di ricevere lui e le lettere, ed affinchè il messaggiere non divolgasse oralmente le accuse, lo fece sostenere prigione (2). Codesti proconsoli, riparati sotto l’egida del primo ministro, mentre a man salva soddisfa- cevano tutte le loro cupidigie di danaro e di tirannia, ripagavano poi la monarchia zelandone ad oltranza gli interessi e le intenzioni latenti. (1) Lettera del Forni conservata nell’Archivio del Regno, (2) Siri, Memorie, tom. Il, p. 364. n 602 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Due pertanto erano i governi, coi quali i Principi trattare dovevano, quello di Lombardia e quello di Spagna. Sedeva governatore in Milano il marchese di Leganes, uomo altiero , crudo , anzi villano che no, e capitano mediocre. Due altri ministri sovente intervenivano nei negoziati, l'Abate Vasquez, ed il Conte di Sirvela. Il primo , sofistico maligno , sapendo nelle altrui innocenti parole scoprire malizia ed inganni, eccelleva nel commetter male. Il secondo talmente si infinse protettore de’ Prin- cipi, che questi coi loro voti lo invocarono successore del Leganes, ma poi lo provarono niente meno loro avversario. Il Leganes ed il Vasquez aspreggiavano i Principi, il Sirvela interveniva paciere. Ma in questo uffizio era superato da D. Francisco de Melo, dolciato , rugiadoso e veramente melato mediatore. Nel giugno 1639 il Messerati , argomen- tando dai fatti del Leganes le maliziose sue intenzioni, lo assalì vigo- rosamente in un colloquio per tirarlo ad esplicite dichiarazioni; ne partì talmente accorato, che caduto in un cupo abbattimento non pronunziava parola, e neppure apriva il suo animo ad un amico che stava da lui aspettando i dispacci da recare ai Principi. Il Conte già stava per con- sigliarli a disperare di Spagna, ed a venire ad un onorato accordo colla Reggente , quando si arrese alle instanze dell’amico che lo esortava a conferir prima col de Melo. Il mellifluo ministro , mostrandosi pietoso de’ Principi, calmò l’esacerbato Conte, poi lo consigliò ad appellarsi a Madrid, anzi di recarvisi di persona, chè là dal gran senno e dall’equità del Re e del Conte Duca, amendue propensissimi ai Principi fratelli, avrebbe ottenuto non solo giustizia, ma favori. L’amico, che era vassallo di Spagna, epilogò in una sua scrittura i torti del Leganes. Munito di questa (1) e di commendatizie del de Melo , il Messerati partì per Madrid; ed allora cominciarono le frequenti sue gite a quella capitale. Là giunto, il Messerati si dava attorno presso i vari consigli, e si arrabattava presso i ministri maggiori e minori, ma specialmente presso il massimo Olivarez. Il solito avversario che vi incontrava era la torpida inerzia di quel governo , che fidando sull’oro portato dall’America , e sulla fama di sua gran potenza, si era abbandonato al dolce far niente, che anzi aveva sollevato la pigra lentezza al grado di sapienza politica. Accolto da tutti coll’onoranza compossibile colla grandigia Castigliana, (1, Questa si conserva nelle carte Messerali, intitolata: Relazione d'un vassallo di Spagna diretta al €. Duca, 25 giugno 1639. Il nome del vassallo è ignoto. PER A. PEYRON. 63 non ebbe mai a dolersi di rustiche accoglienze; dovunque gli si. davano buone parole, lusinghe, speranze e promesse di provvisioni, ma:ad un tempo veniva avvertito, che per l’ intricata macchina della vasta ‘mo- narchia la finale deliberazione soffrirebbe qualche ritardo. IH Messerati ne partiva pieno di: fiducia, che procacciava poi di trasfondere nei suòi padroni; quindi tornato a Milano annunziava al Leganes gli ‘ordini che riceverebbe. Ma questi non giungevano. Allora egli insospettito che il 5 governatore dissimulasse di averli ricevuti, instava presso il governo di Madrid, affinchè fossero trasmessi direttamente ai Principi (1); il che non ottenne giammai. Quando poi il governatore confessava che gli erano giunti, allora cominciava la divergenza nell’interpretarli, e la difficoltà e la lentezza nell’eseguirli, e ricominciavano eziandio le pratiche edi viaggi dell’attivissimo Messerati. Posta l’esistenza dei due governi identici nel fine, ma diversi nelle forme esterne per ‘arrivarvi, ne avveniva che i due Principi erano letteralmente palleggiati da Milano a Madrid, e da Madrid a Milano, con grave discapito della guerra che esercitavano. Ma che cosa voleva la Spagna? Voleva che il Piemonte servisse. di antemurale alla Lombardia, epperò sempre instava perchè noi ci man- tenessimo neutrali, promettendo che avrebbe colle sue armi e con sussidii sostenuta la nostra neutralità e l'integrità del ducato, compresa la Savoia. Quando poi per la nostra lega offensiva con Francia , e per la venuta de’ Principi, scoppiò la guerra, allora la Spagna mirava a conquistare per sè le piazze forti, a fine di avere nell’occasione d'una pace generale di che rifarsi delle piazze perdute in Fiandra. Sopra tutte le provincie del ducato mirava a quelle che più confinavano colla Lombardia, e ad alcune altre che mantenevano libera la comunicazione tra Alessandria e Finale, dove sbarcavano i sussidii provenienti dalla madre patria; quindi il Leganes non mai si indusse a portar. la guerra entro il cuore del Piemonte e verso Cuneo. Che. anzi la. Spagna col tempo giunse al punto di disporre liberamente di noi. Infatti tre ministri di Lombardia, D. Diego Saavedra, il M. di Leganes ed il C. di Monterey avevano sottoscritto una scrittura, per la quale si obbligavano ‘a nome di S. M. Cattolica di ripigliare per forza d’armi e restituire alla Prin- cipessa di Mantova le terre già da lei. possedute,.e pel trattato. di (1) Lettera di Tommaso al €. Boetto, 13 settembre 1639. 64 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Cherarsco cedute al Duca di Savoia, il quale già ne aveva ricevuto dall'imperatore l'investitura. Di tale scrittura secreta i due Principi fratelli già si erano altamente lagnati a Madrid, dicendo : Mon si può negare, che alcuni de’'suoiî ministri d’Italia non cerchino tutte le oeca- sioni di maltrattare questa casa (di Savoia), e di far apparere totalmente diversa l'intenzione della M. S. da quella benignità, che è propria det suo animo regio. Ma sul finire del 1641 commisero al Messerati di instare, affinchè la scrittura fosse dichiarata ru//a. Qual fu la risposta ? Il ministero di Madrid a prima giunta propose si rispondesse che il Re no tiene notitia del tratado echo con la Duquesa de Mantova ...... det Y en caso que per sus Ministros se aya echo alcuno, le declara nullo; ma poi avendo risaputo che il caso era vero, e che ai ministri lombardi non garbava di essere disapprovati, cangiò la prima in questa risposta : Su Magestad no tiene intencion de prejudicar en nada a la Casa de Saboya,y a si se vee y se vera e nel efecto (1). Questo serva di maggior prova per dimostrare l’esistenza dei due ministeri della monarchia Spa- gnuola. Al ministero lombardo io attribuisco pure la spudorata proposta, colla quale l’ab. Vasquez offrì al Richelieu che Spagna e Francia si dividessero fra loro l’intero ducato (2), offerta che fu sdegnosamente ribattuta dal Cardinale. S 15. Contese fra la Spagna ed i Principi cirea al comando della querra, ai sussidii di truppe e danaro, ed all'occupazione delle piazze. — Perfidia di Spagna. Dacchè la Spagna ed i Principi differivano nelle loro mire, non potevano a meno di sorgere fra essi rivalità e contese. Io le riduco massimamente al comando della guerra, ai sussidii di truppe, a quelli di danaro, ed all'occupazione delle piazze. (1) Nel mazzo n° 30 delle carte Messerati si paragoni il n° 4° col 5°. Vedi anche il mazzo n° 28. (2) Da buon luogo sono avvisato, che questo Ab. Vasquez ha in mano un trattato con Francesi per la divisione di questi Stati tra le due Corone, proposizione a me non inaudita, perchè sino da Fiandra, e dacchè sono in Piemonte, ne ho sentito più volte mormorare. Lettera di Tommaso al fratello Maurizio, 23 agosto 1639. Ed in altra del 29 agosto al C. Boetto: LAB. Vasquez propose al Card. La Valette che dovessero le due Corone aggiustarsi fra loro, senza curare gl’interessi nostri e di questa Casa. Anzi sî dice, e vi sono lettere intercette, che gli proponesse qualche divisione delle piazze. Vedi anche Castiglioni, Historia, nell’Appendice al libro VI. Sin dai tempi del Duca Carlo Emanuele, il genovese Spinola, generale di Spagna, aveva proposto a Francia di dividersi fra loro il Ducato. Vedi Brusoni, p. 156. PER A. PEYRON. 65 Tommaso capitano generale di Spagna in Fiandra avrebbe dovuto a miglior ragione ottenere il supremo comando della guerra in Italia , ma a ciò si opponevano le mire politiche di Madrid, e la gelosia dei ministri di Lombardia. La patente, che gli si offriva, era quella di qualanque volgare generale Spagnuolo, ed offendeva la doppia sua qualità di vassallo e di tutore del Duca; egli però sempre la respinse. Ma respingendola rinunziava a possedere un titolo ed un'autorità uffiziale sulla condotta della guerra e sulle truppe spagnuole, riducendosi o ad operare da sè solo con poche truppe piemontesi, ovvero a dipendere dal beneplacito del Leganes per ottenere sussidii militari. Il Leganes poi gli fu sempre avverso, non solo per gelosia di mestiere e. per man- tenere intera la sua autorità, ma ancora perchè si ricordava di essere stato rimosso dall’esercito di Fiandra ad instanza del P. Tommaso. Epperò Tommaso, riverito a parole come un principe, fu sempre in effetto tenuto dai ministri lombardi in conto di capo di partitanti e di condottiero di masnade utili per sollevare il paese a guerra civile. Ogniqualvolta egli inalberava pretensioni militari, sempre’ gli si opponeva il suo rifiuto di ratificare la patente di generale, e gli si soggiungeva che quanto gli veniva conceduto, tutto era di pura cortesia. Sebbene nei primi congressi di Alessandria e di Melegnano i Ministri di Lombardia fossero stati larghi nel prometteré ai Principi vigorosi sussidit di truppe spagnuole, tuttavia queste furono sempre poche per più ragioni. Sufficienti per esercitare la piccola guerra, nom dovevano bastare per far una giornata campale, o per un regolare assedio , è per altra rilevante impresa, che i generali spagnuoli avrebbero voluto immediatamente capitanare. Inoltre Tommaso! era dai ministri giudicato capitano impetuoso ed arrischievole; essi all'incontro tanto più ricu- savano di cimentare le loro truppe, quanto più riusciva loro difficile il levarle in altri regni e trasportarle in Lombardia. Per questa gelosia di risparmiare le soldatesche avveniva che gli ufficiali spagnuoli, eccitati da Tommaso a partecipare a fazioni militari, ricusavano rispondendo di avere ordini contrarii; altre volte si mostravano cotanto timidi che avvilivano eziandio l'animo dei soldati più generosi (1). Premeva loro assai più di tener ben presidiate le piazze già conquistate ,, che non (1) Leitere di Tommaso al Messerati, 7 settembre 1640, 8 giugno 1641; al Card. Maurizio 4 agosto 1639, 24 maggio 1641. i Serie Il. Tom, XXIV. 9 66 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA avventurare i soldati per correre ad incerte conquiste, massimamente se lontane dalla Lombardia. Le poche truppe concedute a Maurizio padrone di Nizza, ed a Tommaso assediato prima in Torino, poi in in Ivrea, erano assai più spie vigilatrici che gente soccorritrice. Il danaro, se in ogni tempo venne considerato come nerbo della guerra, lo fu massimamente in quella intrapresa dai due Principi di Savoia. Privi dei loro appannaggi, altro danaro non possedevano che quello assegnato da Spagna all’uno come cardinale protettore, ed all’altro come generale in Fiandra; oltre a questo, altro danaro sperare non potevano per esercitare la guerra, fuorchè da Spagna; imperocchè non dovevano taglieggiare il Piemonte già disertato ‘dalla guerra. Preceduti dal prestigio del loro nome, e dalla fama di liberatori del Ducato dal- l'oppressione di Francia, facilmente raccolsero milizie eccedenti quelle stabilite nel capitolato d'Alessandria; con queste, e mediante le intelli- genze che mantenevano nel Ducato , conquistarono quasi senza spargi- mento di sangue una ragguardevole parte del Piemonte, ed avrebbero pure tirato a sè le truppe nazionali che, miste all’odiato esercito di Francia, servivano la poco amata Reggente; ma il danaro loro mancava. Bensì nella scrittura d'Alessandria erano loro stati promessi 25,000 scudi al mese, ma guari non andò che la promessa fu ristretta a scudi 20,000, e dopo ventun mese il Messerati dimostrava, che del credito, il quale sarebbe ammontato a scudi 420,000, i Principi non avevano riscosso che soli 70,000 (1). Al che il Ministero di Madrid rispondeva , essere cosa notoria che la carta d'Alessandria fu fatta senza ordine e cognizione di S. M., nè fu sottoscritta da alcun suo ministro, epperò non meritava il nome di trattato ; essendo stata una semplice conferenza sopra. pre- supuestos, che non ottennero effetto (2). Neppur gli assegnamenti personali di Cardinale protettore di Spagna, e di Generale in Fiandra erano regolarmente pagati ai due Principi. Imperocchè il Re dei due mondi facilmente sottoscriveva patenti di pensioni, allogandole sopra una determinata gabella o tasso, od altro definito introito di qualche provincia; ma rimaneva che il pensionario risolvesse due somme difficoltà, quella di far riconoscere la sua patente, e l’altra di palparne gli scudi. Aveva il Re assegnato a Maurizio una (1) Provvisioni necessarie per i Principi. Carte Messerati; mazzo 30, n.° 3. (2) Copia del Papel dei punti accordati da S. M. Carte Messerati , mazzo 30, n° 5 ecc. PER A. PEYRON. 67 pensione di 21,800 scudi sopra gli introiti di spogli e frutti delle chiese vacanti nella Castiglia; ma di Castiglia si rispose che la cassa di tali introiti era già creditrice di molte migliaia di scudi spillate dal Re stesso. Una seconda patente trasportò la pensione sopra il patrimonio reale del regno di Sicilia; ma da Sicilia si rimostrò che gli introiti annuali di tal patrimonio appena bastavano alle più indispensabili spese di quel regno. Che fa allora lo zelante Messerati? Scartabella i volumi delle finanze siciliane, e addita due altri introiti, supplicando che la terza patente ordini espressamente, che ele annualità sia senza eccezione alcuna pre- ferita a qualunque assegnazione fatta o da farsi tanto a mercadanti , quanto per qualunque altra causa etiam onerosa, non ostante qualunque ordine regio o viceregio dato o da darsi. Munita delle clausole derogatorie e rivocatorie la patente fu bensì accettata, ma le lettere del Messerati al vice-re di Sicilia attestano la somma difficoltà di riceverne a_ quando a quando qualche centinaio di scudi (1). Il danaro da Sicilia e da Spagna arrivava a Genova, ma lì si incontravano nuove difficoltà. ZL mio tesoriere è a Genova, così scriveva il Card. Maurizio, e dispera di aggiustare le partite de’ 16,000 scudi, e dei 40,000, e neppure dei 12,000. Queste stravaganze mi affligono per modo che, se non avessi riguardo al pubblico bene, rischierei di fare qualche risolutione notabile e risentita (2). Frustrati del danaro di guerra promesso, e mal soddisfatti ne’ loro annui assegna- menti, i Principi, sul finire del 1641, rimostravano a Spagna, che furono costretti a pagar cambii per più di 200,000 scudi, oltre gli argenti e le gioie loro proprie e dei loro servidori (3). In tanta mancanza di danaro per pagare le loro truppe, e talora anche le spagnuole (4), quale specie di guerra i Principi potevano mai esercitare ? (1) Arrivato a Nizza ho trovato il serenissimo Cardinale sì esausto di denari, che malagevolmente dai suoî tesorieri viene somministrato il necessario sostegro della casa, non che per la manutenzione e mu- nizioni de’ presidit...... Non ha mai lA. S. avuto cosa alcuna delli 4,000 seudi delle mesate accor- (Aedodacie nè tampoco restano compite le sue pensioni di Napoli e di Sicilia. Lettera del Messerati al vice-re di Sicilia, 20 dicembre 1639. Il Messerati nel 1643 ottenne bensì dal Re di Spagna una pensione, ma, siccome le mancavano le clausole rivocatorie e lo stesso suo nome di Baltassar, dovette ad una ad una pagare le formole mancanti, e frattanto battere per due anni il dente asciutto. (2) Lettera di Maurizio al Messerati, 28 aprile 1641. (3) Provvisioni necessarie ai serenissimi Principi, nelle carte Messerati, mazzo 30. (4) Abbiamo circa 3000 cavalli e 4000 fanti, che il Leganes ha promesso di pagare e traitarli come suor, ma sono sempre a spese nostre e dello Stato. Anzi dovemmo pagare del nostro il soccorso ordi- nario alla gente di S. M., che si trova in Torino. Lettera di Tommaso al C. Boetto, 7 novembre 1639. 68 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA La quarta delle principali contese sorte tra Spagna ed i Principi era l'occupazione delle piazze forti; ciascuno le voleva per sè. 1 Principi rimostravano che, venuti per rivendicare il Piemonte al Duca, ne dovevano occupare le piazze come tutori del pupillo; laddove, se Spagna se ne impadronisse, essi perderebbero il seguito dei popoli, i quali direbbero che la guerra tendeva solo a scambiare il dominio di Francia con quello di Spagna. Soggiungevano che i ministri di Francia, muniti della neces- saria autorità , si offrivano pronti a sottoscrivere la restituzione delle piazze da essi occupate, purchè Spagna ne facesse altrettanto; instavano però acciocchè i ministri di Lombardia accettassero tale offerta; ma questi sempre ricusarono (1). Che ne avvenne? I Principi andarono sempre più riservati nel far progressi e nell’assalire le piazze forti (2). Tommaso non altrimenti giudicò di doversi impadronire di Torino che per sorpresa, aiutato da secrete intelligenze, e colle poche sue truppe. All’udir tale sorpresa il Leganes tosto accorse coll’esercito, voleva la città per sè, ed, ove si espugnasse la cittadella, voleva, sono parole di Tommaso, che restasse a nome del re di Spagna con una porta della città (3). ll Principe respinse sdegnoso questa intimazione, ed il generale spagnuolo ricusò di cooperare colle sue truppe all’assalto della cittadella, che sa- rebbe stata nei primi giorni facilmente espugnata. Più tardi Tommaso, avendo praticato una mina sotto un bastione, sperava di impadronirsene, e significava al Leganes che non la farebbe scoppiare, se egli prima non avesse con una sua lettera speciale eccitato i pigri ed indocili uffiziali spagnuoli assediati in Torino ad eseguire vigorosamente quanto ordi- nerebbe per l'assalto; inoltre voleva che per iscritto si obbligasse a (4) Lettere di Tommaso a Messerati, 23 settembre e 2 ottobre 1640. (2) Za arrivando (in Piemonte) il P. Tommaso, si cominciò ad operare, e, dopo acquistate alcune piazze, non volsero i Spagnuoli più consentire alla capitolazione (di Alessandria). Per :l che i Principi dappoi andarono riservati nel far maggiori progressi. Scrittura del Card, Maurizio nell’ Archivio di Stato Tutela e Reggenze, mazzo 40, n° 53. (3) Li conipasti, prosegue Tommaso a scrivere al Cardinale fratello il 4 agosto 1639, /urozo grandi per malte ore, cd a segno che il Marchese era affatto risoluto di ritirarsi con iutta la gente.... Fui costretto di consentire al seguente temperamento, cioè che la città ci resterebbe libera ed a totale? nostra disposizione, e che nella cittadella si metterebbero Svizzeri, e sotto loro name, con, tre nazioni sotto gli ordini nostri. Però per trattato particolare la guarnigione della cittadella sarebbe a nome del re di Spagna come le altre piazze, ricevendo gli ordini da noi sino a che se ne abbia la dichiarazione dal re. Ogni giorno poi siamo in altri contrasti .... Sin tanto che possiamo avere forze proprie, questi ministri ci trattevanno a modo loro. PER A. PEYRON. 69 mettere nella conquistata cittadella un presidio ed un governatore svizzero cattolico a spese del re di Spagna, il quale giurasse di rassegnarla nelle mani dei Principi come tutori di S. A. R., fra il più breve tempo pos- sibile. Avendo il Leganes rigettate amendue le condizioni, Tommaso non appiccò il fuoco alla mina, e la cittadella fu risparmiata (1). Lo stesso avvenne altra volta, quando, essendosi concertato che il Leganes con tutta la sua gente soccorrerebbe la città dalla parte del parco, egli scrisse al Principe di attaccare la cittadella, chè egli poi il giorno seguente si sarebbe avanzato al soccorso della città. Conobbe S. A. che il Marchese aveva per fine di avventurarla în questa impresa, e che, non riuscendo di importarla, egli non sarebbe passato avanti al soccorso della città. Si offerse non di meno di far l'attacco per diversione con parte della gente, e di andargli incontro con il rimanente. Non piacque la risposta, ed instò che si facesse con tutte le forze. Veramente S. A. in altro tempo aveva proposto questa impresa, e desiderato che nella cittadella si met- tesse presidio e governatore svizzero, i quali gli giurassero di rimetterla poi a S. A. R. nelle mani de’ suoi tutori alla pace unigersale, ovvero fra due anni non concludendosi prima; ed ora riconsentì, considerando alla proposta del S. Marchese, il quale disse di non avere Svizzeri confidenti da mettere in quel presidio. Replicò S. A. che si contentava che fossero alemanni sudditi dell'imperatore, e, non essendosi questo approvato, mas- sime colla restituzione del tempo, si può dubitare che abbia il Marchese da ciò mendicata l'occasione di non soccorrere (2). Così per la reciproca gelosia di occupare le piazze, la cittadella non fu presa, la città dovette arrendersi, non si facevano nuove conquiste, e la causa comune andava in rovina. Da queste quattro principali cause di dissidi derivava l’infelice con- dizione dei Principi, che Tommaso esprimeva così: Moi siamo qui incerti della mente di S. M., e sottoposti ai capricci altrui, che vogliono e disvogliono a piacer loro; ora affermano ed ora negano; scrivono quel che par loro a S. M. conforme alle passioni che li conducono , e noi (1) Biglietto di Tommaso al Messerati 31 agosto, e risposta di questo al Principe del 7 set- tembre 1640. (2) Scrittura per Spagna fatta lì 26 settembre 1640 a nome del Pr. Tommaso, nelle carte Messerati. Il Torino assediato e nor soccorso, che forma gran parte dei Campeggiamenti del Pr. Tommaso, pub- blicati dal C. Tesauro, pone in piena evidenza che il Leganes, per aver ricusato di soccorrere il Principe, lo obbligò ad arrendere la città. 70 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA siamo sempre al buio, trattati come schiavi, e ricevendo aggravi molti- plicati in luogo di ringraziamenti ..... Non ci danno assistenze, nascon- dono gli ordini di S. M., che pure hanno alle mani; ci astringono a servire come semplice soldato senza comando contro la mente di S. M., ci occupano le piazze privandoci d'ogni autorità in esse. Non si osserva il capitolato d'Alessandria, che, sebbene non fu sottoscritto, fu non di meno fatto da loro, e deve sottoscriversi ed osservarsi. Non ci lasciano venire le vostre lettere e della Principessa mia, e nel medesimo tempo non vogliono che trattiamo di aggiùstarci con Madama ..... Conosciamo benissimo il fine di questi ministri, che è di ridurci a necessità di abban- donare il servizio di S. M. per sostenere i concetti, che falsamente e con maligne intenzioni hanno scritto a codesta Corte; ma si ingannano, perchè risolutamente vogliamo che S. M. conosca la nostra costanza e la perfidia loro...... Dite liberamente che nelle imprese fatte sinora dalle sue armi non è così poca la parte che vi abbiamo noi, e l'affetto di questi popoli, che debbano essi ministri attribuirsene tutta la gloria, e che sarebbero anco molto maggiori, se fossimo stati creduti..... Essi st fanno lecito di abbattere i castelli di questo Stato senza dircene motto. Entriamo noi nelle piazze, ma essi vi mettono i governatori, î presidii, e ne prendono le entrate per soddisfare alle grosse contribuzioni che vi pretendono , e col danaro che ci danno (che è molto poco) vogliono obbligarci a pagare le munizioni da guerra, ed a mantenere la gente di S. M...... Fate sapere a S. M. tutto questo, e la supplicherete a non permettere che î suoi ministri restringano in sì fatta maniera gli ordini e le liberalità sue (1). (1) Lettera di Tommaso al C. Boetto, 19 aprile 1640, PER A. PEYRON. I 8 16. La perfidia di Spagna continua dopo la resa di Torino, e Tommaso si aderisce a Francia. - Lusingato da Spagna colla promessa d'un trattato, disdice la sua adesione. - Il trattato è scritto, ma il Re non lo ratifica. - Il Messerati va a Madrid per ottenere la ratifica e nuove concessioni. - È baloccato dall'Olivares. - I Principi stomacati di Spagna, si aggiustano con Madama e con Francia. - L’Olivares antidata di dieci mesi la ratifica e la nominazione di Tommaso. - Questi la respinge, e volta le armi contro la perfida Spagna. Dove andò a finire codesta perfida politica di Spagna? Ricadde sui perfidi. e Infatti, perduta Torino, Tommaso si era ricoverato in Ivrea coll’animo esacerbato contro al Leganes, il quale, anzichè concedergli il dominio della città e della cittadella di Torino, preferì che amendue cadessero in poter de’ Francesi. Egli però ricusava di vederlo , ed il Leganes, temendo che a sè sarebbero addossate le conseguenze di tanta perdita , fece agire il Sirvela (1). Questi più volte corse ad Ivrea, e per rappat- tumare il Principe gli offeriva: Gli si darebbe il dominio di Vercelli , affinchè di quello, colle condizioni che si intenderebbero , si formasse per lui uno Stato sino alla pace generale. La Principessa consorte ed i figli verrebbero a convivere con lui in Vercelli, a condizione che non uscirebbero dalla città. In perpetuo poi riceverebbe per sè e per la prole un principato nel regno di Napoli, con un’entrata di 50,000 scudi. Egli avrebbe a nome del Re un esercito per ricuperare le piazze occupate dai Francesi (2). Ma quanto al restituire le piazze il Sirvela , coartato dal Principe a dare una risposta certa, sempre tergiversò, e da ultimo confessò di non avere autorità sufficiente per prometterlo (3). Tommaso allora spediva il Messerati a Madrid per rimostrare la sua meschina condizione, i suoi meriti, i torti ricevuti dal Leganes, ed i danni che ne derivavano alla Corona. Si affaccendava bensì il Conte per far persuaso di queste verità l’Olivares, a fine di ottenerne le provvisioni (1) Lettera di Tommaso a Messerati, 15 ottobre 1640. (2) Rappresentazione al Pr. Tommase, nelle carte Messerati. (3) Apologia del Pr. Tommaso, nelle carte Messeralti. 7} NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA necessarie; ma da quel ministro indugiatore per sistema non riceveva risposta alcuna. Quanto più questi tardava a rispondere, tanto più l’at- tivissimo Mazarini iva e rediva da Ivrea, sollecitando il Principe anche con minaccie ad aderirsi a Francia; nè ristette insino a che il Principe, abbandonato da Spagna e costretto da Francia, sottoscrisse il 2 dicembre 1640 la carta, per la quale, rinunziando alla protezione di Spagna, accettava quella del Re cristianissimo. Per questa determinazione di Tommaso l’Olivares finalmente si riscosse, e rispose: Assegnerebbè al Cardinale Maurizio 2000 fanti, 500 cavalli e 80000 scudi all’anno ; ed al Pr. Tommaso 6ooo fanti, 2000 cavalli pagati dal Re; rivocherebbe il Leganes, sostituendogli il G. Sirvela nel governo di Lombardia; resti tuirebbe le piazze al Duca, ma sotto la reggenza dei Principi. Questi a prima giunta si rallegrarono della rivocazione del duro e maligno governatore, ma non tardarono a risapere che dovrebbero ancora soffrirlo come secondo plenipotenziario nel trattato che determinerebbe i loro diritti e doveri verso la Spagna. Inoltre osservavano che la restituzione delle. piazze ad essi promessa era illusoria , giacchè i Francesi, non potendo acconsentire che si escludesse la Reggente Sovrana, non avreb- bero più eseguita la restituzione delle loro, epperò ognuno avrebbe ritenuto il suo. Se non che, lo stabilire come massima che in due reggenze si dividerebbe il ducato, ciò produrrebbe scisma, discordie, tumulti e guerre scandalose (1). Stavano in questi termini le cose, quando da Madrid giunse il Mes- serati latore di seducenti speranze , ed indusse Tommaso a disdire la sua adesione a Francia. Si iniziarono allora le pratiche per divenire: ad un trattato; che stabilisse i vantaggi ed i doveri tra Spagna ed i Principi, giacchè insino a questo tempo: si era proceduto per rimostranze e per risposte verbali od epistolari. Il trattato, detto. Capitulacion, fu dai Principi sottoscritto in Nizza il 5 marzo 1641, e dal Sirvela in Milano il 12 dell’aprile seguente. Esso conteneva nulla più, che quanto potevano e volevano concedere il duro Leganes e l’ipocrita Sirvela. Il Re: doveva fra sei mesi ratificarlo. 7 Mentre si aspettava da Spagna la ratifica, i Francesi andavano ricu- perando Cuneo, Revello e varie terre del Piemonte, senza che il Sirvela (1) Apologia del Pr. Tommaso, nelle carte Messerati. PER A. PEYRON. 73 si movesse in aiuto dei Principi. Egli bensì si era coll’esercito accostato ad Ivrea vigorosamente assalita dal nemico, e vi aveva introdotto poca sua gente; ma egli ayeva ricusato di far giornata per rompere le linee d’assedio, e la gente da lui introdotta, essendo sollecitata a cooperare ad una spedizione, ricusò di sortire, dicendo di avere erdini contrari. Tommaso, irritato da un tale procedere, così scriveva al Cardinale fratello il 24 maggio 1641: 4 mio stento a muovere questi ministri ad incamminarsi alla volta d'Ivrea è indicibile, tanto meno di arrisicare un combatto, e di perdere la gente ..... Vedendo io che si tratta dell'im- possibile di vivere e di operare con capi inesperti, e perciò tanto timidi, che avviliscono eziandio l'animo de’ soldati i più generosi, per non vedermi più in sì fatta confusione, ho voluto sapere la finale risoluzione del sig. C. di Sirvela, se vuole rimettermi la gente che dee essere a carico mio, e compire a tutto il restante del concertato , con protesta di non voler più sortire in campagna, se prima non vedo l'uno e l’altro effettuato. E 18 giugno così ordinava al Messerati: or ci saressimo mai creduti che il C. di Sirvela ci avesse trattati di questa maniera, che è un bur- larci manifestamente. Perciò voi ritirerete tutti gli ordini delle cose con- certate ..... 0VVero (riporterete) una negativa assoluta per sapere come governarmi; nè pensi il C. di Sirvela di amusarmi con promesse, perchè siamo risoluti di non sortire in campagna, che questo non sia fissamente stabilito, e gli ordini sieno chiari. Anche il Cardinale si lamentava delle pretensioni del ministro spagnuolo, e scriveva così al Messerati: Ze scritture mandate qui dal C. di Sirvela al Conte della Rivera, acciocchè le faccia firmare da noi, dovevano essere rigettate da voi..... Da esse si vede il fine che hanno di renderci soggetti non solo a S. M., ma ai ministri medesimi. Questo ripugna tanto alle qualità che portiamo im- presse nel sangue, e tanto contrarie alla convenienza ..... Intendiamo che ci tratti da principi liberi come siamo, e come vogliamo essere (1). Il Principe, mentre si riposava dalle armi, spingeva le pratiche d’ac- cordo colla Cognata, ma non si induceva ad abbandonare la Spagna, mentre pendevano i sei mesi stabiliti per la ratifica del trattato. Il quinto mese era prossimo a scadere, e la ratifica non giungeva. Allora egli , che in questo mezzo aveva riconosciuto a prova siccome il Sirvela era (1) Lettera 8 aprile 1641. Serie II. Tom. XXIV. 10 74 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA tinto della stessa gelosia ed invidia del Leganes, si fermò di ricorrere immediatamente al Re. Schiccherò di suo pugno in un foglio, che tuttora abbiamo, gli appunti di quelle maggiori concessioni che desiderava di ottenere , oltre ai 31 articoli convenuti nella capitulacion ; consegnò il foglio al C. Messerati, il quale addì 8 settembre partì per Madrid, accom- pagnato dal Vescovo di Nizza confidentissimo del Pr. Cardinale. Il Conte distese gli appunti ricevuti in forma di nota diplomatica , che intitolò Provvisioni necessarie ai Ser" Principi di Savoia per gli affari d'Italia, e vi aggiunse due appendici. Nell’ una esponeva la convenienza che la città di Vercelli fosse rassegnata ai Principi; nell’altra rimostrava che la formola del giuramento da prestarsi dal Pr. Tommaso, come generale di Spagna in Italia, doveva attemperarsi alle due sue qualità di Principe vassallo e tutore del Duca nipote; alle Provvisioni aggiunse un Sunto, che in 20 articoli epilogava le domande di quanto i Principi abbiso- gnavano oltre la capitulacion. Il 25 novembre il Conte presentò queste carte (1) all’Olivares , ed il 28 dicembre così scriveva al Marchese di Grana ministro imperiale presso il Re Cattolico: Oggidì sono scorsi tre mesi del mio arrivo, ed in questi nè anco si è spedito un corriere di quelli, che il sig. C. Duca tante volte ha promesso di spedire d'un giorno all altro con qualche buon aiuto ..... Eppure sollecito tutte le ore le risposte. .... Il Conte Duca mi disse che io assicurassi i Principi della partenza delle galere e dei vascelli con gente e provvisioni in soccorso del Seren” Pr. Car- dinale ..... ma sono partite le galere ed i vascelli non solamente senza gente nè altro per le Altezze loro, ma senza provvisioni. Lo stesso ripeteva il 1° gennaio 1642 scrivendo così al Pr. Tommaso: Zo scrissi più lettere a V. A., e non ricevo risposta alcuna. Chiamai la permissione di spedire corrieri, e me la negano. Qui m'intercettano le lettere, e non ho mezzo di far pervenire a V. A. le mie..... In tre mesi non ho potuto avanzare in sostanza la negoziazione in parte alcuna ..... Ho preparato la mia Scrittura Grande (la Nota intitolata Provvisioni ecc.), la quale fu letta tre volte nel Consiglio di Stato, ed il M. di Leganes le contraddisse (2). (1) La Capitulagion del 5 marzo e 12 aprile 1641, e le altre carte qui citate si conservano tuttora nelle carte Messerati, nel mazzo 30. (2) Il C. Nicolis così da Madrid il 31 dicembre 1641 scriveva al P. Tommaso: // C. Messerati non tralascia diligenze, non trascura i mezzi, esclama, si dibatte, ma sinora non ha cavato frutto pro- porzionato al suo desiderio. PER A. PEYRON. 79 Vale a dire, l’Olivares, quando volle abbonire i Principi, rimosse bensì il Leganes dal governo della Lombardia, ma lo lasciò in Milano, affinchè, come secondo plenipotenziario, cooperasse al trattato del 12 aprile. Sot- toscritto il trattato, lo chiamò a Madrid per valersi dei suoi consigli in tutto che concernesse i Principi; cosìche questi nuovamente soggiacevano alla malefica influenza del loro avversario. Ma a lui vivamente contrastava il Messerati, dimostrando i danni del maligno procedere dei ministri lombardi, ed i sommi vantaggi che la Corona ricaverebbe dal tener contenti i Principi fratelli. Mosso da tali rimostranze l’Olivares gli promise: Manderebbe ai Principi un sussidio di 75 mila ducati, con ordine fossero loro saldate le pensioni decorse, e pagati puntualmente per l’avvenire i sussidi pattuiti. Formerebbe a Tommaso un esercito di dieci mila uomini a libera sua disposizione. Provvederebbe al Cardinale fratello le munizioni da bocca e da guerra necessarie per un anno nei castelli di Nizza e della contea. Terminava col dire, che se per lo passato le cose si fossero trattate come al presente dal Messerati e dal Vescovo di Nizza, i Principi avrebbero già prima provati gli effetti della buona volontà del Re (1). Il Sirvela, persuaso che gli ordini di Madrid non derogavano a quella sovrana autorità, colla quale i governatori degli Stati annessi disponevano delle cose, rispose al Conte Duca con una lunga relazione, nella quale dimostrava essere imprudente il confidare in qualsiasi tempo ad un Principe di Savoia un esercito per operare nel Piemonte, ma imprudentissimo ora che la fede di Tommaso vacillava; consigliava che il Principe fosse chiamato nella Spagna come generalissimo delle forze da operare contro al Portogallo; protestava che i Principi avevano già riscosso tanto danaro regio da essere debitori di grosse somme verso la Tesoreria di Milano; epperò mentiva il Messerati facendoli creditori di 300 e più mila scudi. Per tale smentita risentitosi il Conte, ottenne che tal discrepanza fosse giudicata da una Giunta; e questa assolvette bensì i Principi dall'essere debitori, convincendo di falsità ed impostura la relazione del Sirvela, ma nulla pronunciò sulla cifra del credito de’ Principi. Non ostante questo smacco, il Sirvela continuava a porre in non cale gli ordini regii, e si adoperava per far rientrare in campagna il Principe; assentiva il Principe, ma (1) Siri, Mercurio, tom. H, pag. 362, e lettera del Messerati a Tommaso, 13 febbraio 1642. 56 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA rincarando sempre più le sue pretensioni di sussidi pecuniari, d'un forte esercito assolutamente suo, e di cessione di piazze forti. Così egli si dava gio per concertare unitamente al fratello il loro aggiustamento eolla cognata e con Francia; questo dopo molte pratiche fu finalmente con- a venuto e sottoscritto il 14 giugno 1642. Già prima il Sirvela non aveva cessato di far avvertito il Conte Duca della probabilità ognora più crescente che i Principi fossero per voltarsi a Francia; ma il ministro, secondo il suo costume, menava le cose per la lunga, nè dava risposta al Messerati. Finalmente, stimolato dal pericolo imminente, provvide a tutto anche con mala fede sciocca. Il dì 20 giugno, cioè sei giorni dopo che i Principi avevano stipulato l’accordo, Olivares manda al Messerati le risposte al Suo dei 20 articoli statogli presentato sette mesi prima (1). Nel preambolo accenna per modo di preterizione que el tratado hecho entre los SS. Principes y Conde de Siruela se tiene ya ratificado desde los 13 de agosto del ano passado de 1641; ad un tempo gli trasmette il trattato medesimo sottoscritto e ratificato dal Re colla stessa data del 13 agosto 164r, munito del reale sigillo (2). Questa fu 'antidata. Infatti il Castiglioni narra che il trattato fu ratificato dal Re alla presenza del residente Riceardi, del Messerati e del Vescovo di Nizza nel mese di giugno 1642, con antidata per ridurre la ratifica al tempo convenuto, che era sotto tanti di settembre (3). Inoltre il residente Riccardi, volendo purgare i Principi dalla taccia di avere violato il trattato del £2 aprile, rimostrava che il trattato esser doveva ratificato dal Re entro sei mesi; e siccome nor o fu se non dopo scorso un anno e mezzo, anzi în tempo che i Principi già si erano aggiustati con la Duchessa, però, trascorsi i ser mesi senza ratifica, + Principi si crederono ed erano liberi (4). Ed infatti i Principi stessi nel loro Ma- nifesto, che sparsero in Europa, accusavano i ministri spagnuoli delle dilazioni date alla ratificazione promessa di rapportare da S. M...... non mai potuta conseguire dopo li sei mesi limitati, il qual termine spirato, restarono essi signori Principi liberi (5). (1) La data della trasmissione sta così segnata in fine delle risposte: en Madrid a veynte de iunio de mill y seicentos y quarenta y dos anos. (2) Questi documenti originali si conservano fralle carte Messerati nel mazzo 30. (3) Castiglioni, Mistoria, lib. VIII, dopo la pag. 40. (4) Castiglioni, ivi, IX, 58. (5) Manifesto dei Principi presso il Siri, Mercurio, lib. IT, pag. 641. PER A. PEYRON. agi Terminato il preambolo, viene in una colonna il Surto del Messerati distinto in venti articoli, ai quali nella colonna laterale corrispondono le risposte del Re. Nel rispondere il Re fu largo di lusmghiere speranze, ma in realtà non concedette ai Principi nè un maggior numero di truppe, nè maggiore autorità, e molto meno un esercito a loro arbitrio. Profes- sandosi propenso a favorire Tommaso, desiderava di restituirgli la Prin- cipessa ed i figli, ma per decidersi aspettava qualche swa risposta. Circa alle piazze da restituirsi alla pace generale,.i Principi in un articolo segreto annesso al trattato avevano proposto che, se la pace fosse differita oltre sei anni, dovesse la Spagna depositarle tutte, eccettuata Vercelli, nelle mani dell'Imperatore; a tal proposta il Re non si degnò di rispondere. Quanto al danaro domandato per ristorare i Principi ed i fidi loro ser- vidori delle perdite sofferte , il Re rispose con proteste di sua buona volontà, ordinando che le relative note fossero rassegnate al Governatore della Lombardia. Fra le venti domande del Messerati la sola, che sia stata in qualche parte esaudita dal Re, fu quella di aumentare l’asse- gnamento del P. Cardinale; l'aumento promesso nelle risposte al Sunto fu di 1,700 scudi cadun mese. Dacchè tutte le altre domande erano state depellite, il trattato sot- toseritto dal Re fu nulla più che il testo medesimo della Capitulacion, senza che vi si aggiungessero 1 1,700 scudi mensili pel Cardinale. Così questi, per essere una semplice promessa fatta al Conte, ma esclusi dal trattato, non sarebbero poi stati pagati dai ministri di Lombardia. Non vha dubbio che il Consiglio di Stato avesse già prima stabilito le risposte da farsi dal Re agli articoli del Sunto , e che avesse pure opinato in favore della ratificazione del trattato ; ma il Conte Duca nulla aveva eseguito, e nulla comunicato al Messerati, continuando a baloccarlo, sebbene sapesse che i Principi erano vivamente tentati da Francia. Donde mai una resistenza cotanto pertinace? L'orgoglio spagnuolo non gli per- metteva di rinunziare al sistema di considerare i due Principi come vassalli al servigio e stipendio del Re, il quale non doveva venir a patti con essi, quasi fossero indipendenti. Inoltre un trattato lo avrebbe vin- colato, mentre il sistema di relazioni e promesse verbali lo manteneva nella piena libertà di lusingare e di disdire; così egli aveva potuto disdire la capitolazione di Alessandria. Finalmente egli confidava che i Principi non abbandonerebbero Spagna, od anche, dopo essersi aggiustati colla Reggente e con Francia, sarebbero facilmente richiamati al loro dovere, 78 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA siccome un anno prima era stato richiamato Tommaso. Ma si ingannò. Infatti il Sirvela, come intese sottoscritto l'accordo coi Principi, tornò alle solite arti, e presentò a Tommaso il trattato colla ratificazione, le risposte del Re al memoriale, e la patente di Generale in Italia. Quanto a questa il Castiglioni scrisse che il Sirvela l’aveva tenuta segreta per lo spazio di sette mesi (1); io per me credo che l’Olivares l’aveva spedita in giugno coll’ antidata di mesi sette. Il Principe, stomacato delle arti spagnuole, rifiutò codeste carte, e tosto prese a voltar le armi contra Spagna. L'Olivares allora, voltosi al Messerati, lo spedì in Italia con tali seducenti offerte, che il Conte da Saragozza così scriveva: Yo în Italia caricato di tutti i rimedi per riunire i Ser Principi a questa Corona (2). I rimedi uscivano senza dubbio dalla farmacopea del Conte Duca, ma tornarono inefficaci, perchè i Principi, ristucchi di essere baloccati da Spagna, la avevano risolutamente abbandonata. Affinchè la politica di Spagna meglio si rappresenti in tutto l’orrore della sua mala fede, io in una breve ricapitolazione ravvicinerò i fatti e le date di questo negoziato. Dopo la resa di Torino il Leganes ed il Sirvela continuano ad illudere 1 Principi con promesse di sussidi. Per ottenere che queste sieno con- fermate dal Conte Duca Olivares, il C. Messerati va a Madrid. L’Olivares, al solito, dà parole e indugia. Frattanto Tommaso, costretto dal Mazarini, sottoserive il 2 dicembre 1640 la sua adesione a Francia. A tal annunzio l'Olivares si scuote, promette sussidi, e ne spedisce gli ordini al Leganes. Munito di questi il Messerati ritorna in Piemonte, persuade il Principe a rientrare sotto la protezione di Spagna, ed allo stesso tempo negozia un trattato col Leganes e col Sirvela. Tommaso sulla fiducia di questo disdice l’ultimo dì di febbraio 1641 la sua adesione a Francia; ed il 5 marzo sottoscrive col fratello la sua Capitulacion con Spagna; i due ministri di Lombardia la sottoscrivono il 12 aprile; il Re doveva rati- ficarla fra mesi sei, cioè prima del r2 ottobre. Fidando sul sottoscritto capitolato i Principi ripigliano le armi, ma non sono assistiti dai ministri lombardi, i quali vogliono aspettare la ratifica da Madrid. I Principi , destituti dei necessari aiuti di truppe e di danari, vanno ogni dì più perdendo città e provincie, e deliberano di spedire a Spagna il Messerati (1) Castiglioni, ZFstoria, IX, 58. (2) Lettera del Messerati al suo segretario Garretto, 4 settembre 1642. PER A, PEYRON. 79 per ottenere sì la ratifica della Capitulacion, e sì nuove concessioni per sottrarsi alla mala volontà del Leganes sempre più evidente. Il Conte parte in settembre. Giunto a Madrid fa instanza per la ratifica, presenta al Conte Duca una nota, nella quale espone le provvisioni necessarie per la buona riuscita della guerra, e la compendia con un Sunzo con- tenente in venti articoli le nuove concessioni desiderate. Passano tre mesi senza che riceva risposta alcuna. In questo mezzo tempo il Conte Duca, quasi che voglia abbonire i Principi, richiama a Madrid il Leganes, commettendo al Sirvela il governo della Lombardia. Il Leganes, giunto a Madrid, siede nel Consiglio di Stato, e continuando ad opporsi ai Principi, contrasta alle loro domande e vince il partito, per il quale i venti articoli del Sunto sono rigettati, e la ratifica della Capitulacion sottoscritta il 12 aprile è puramente e semplicemente proposta al Re, senza che vi si inchiuda l'aumento di 1,700 scudi mensili promessi al P. Cardinale. Questa determinazione del Consiglio è mantenuta secreta, l'esecuzione è differita, perchè Spagna nelle sue relazioni coi Principi vuol persistere nel sistema di comunicazioni verbali, epperò rifugge dal vincolarsi con essi con un preciso solenne trattato. Mentre il Conte Duca continua a baloccare il Messerati, i Principi, poco ottenendo dal Sirvela, e niuna ratifica o risposta da Madrid, stomacati di Spagna, si accordano con Madama e con Francia, e sottoscrivono il 14 giugno 1642 il loro aggiustamento con amendue. Come l’annunzio del deciso e pros- simo aggiustamento giunge a Madrid, tosto l’Olivares comunica al Mes- serati il dì 20 giugno le risposte del Re al Sunto, la ratifica del trattato coll’antidata del 13 agosto 1641, e la patente di Tommaso nominato Generale di Spagna in Italia colla stessa antidata. Manda ed ordina al Sirvela di presentare le tre carte a Tommaso. Tommaso sdegnato le respinge , e volta le armi contro Spagna. L’Olivares allora ricorre al Messerati, e lo spedisce in Piemonte coi rimedi necessari per richiamare i Principi sotto la protezione di Spagna; ma invano. Così la politica di Spagna, rustica, acerba ed operosa in Lombardia, lusinghiera, inerte ma connivente in Madrid, e concorde nell'orgoglio, nella cupidigia, nella slealtà e nelle male arti, ricadde a danno della Spagna medesima. Per lei la Spagna perdette l’agognato Piemonte; per lei, assai più che per le armi francesi, i Principi caddero vinti; e per lei la monarchia si avviava al suo decadimento. 80 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA La politica del Card. di Richelieu. - In quali casi egli ammettesse od escludesse i Principi dal Ducato, ed anche dalla successione, affinchè questa trapassasse in una figlia, che sposando il Delfino unisse il Piemonte alla Francia. — Voleva cessione di piazze con promessa di loro restituzione. - Dubbi su questa. - Voleva il Piemonte cu ami è tout faire, ou bien ennemi. Per una politica diversa la Francia si avviava a conquiste. Entrando ora a parlare di questa, io la considererò incentrata, siccome era infatti, nel Cardinale di Richelieu, e ne riferirò le sole sue relazioni col nostro Ducato. Carlo Botta, prendendo a parlare dei tempi della Reggenza di Cristina, stabili come massima che il Richelieu odiava Za Casa di Savoia (1). Io per me stabilisco che gli odii e gli amori del Cardinale erano governati dal solo interesse politico, e non da simpatie od antipatie di famiglie to) di persone. Mirava egli ad annullare la Casa di Savoia? L’ avrebbe annullata solamente in parte, e nel solo caso seguente. L’ereditario Duca Carlo, ancora infante, gravemente infermava nel 1638, ed il Cardinale il 6 dicembre così scriveva al Lavalette : Za mort du Duc metiroit la Duchesse dans des étranges embarras. Si par malheur elle arrivoit , elle doit dès à present songer fortement à ne laisser pas de se maintenir dans son autorite, et d’essayer de conserver pour ses filles la meilleure partie de ses états, sur desquels leur» naissance leur donne beaucoup de droits C'est un dessein qu'elle doit tenir caché, parce que, s'îl étoit decouvert, il la rendroit odieuse, et lui aliéneroit le cour de ses peuples. Proseguiva dicendo che nel caso di tal morte egli offriva di ammogliare il Delfino colla figlia primogenita di Madama, quoique leur dge soit inégal, consi derant que les mariages des rois se font par raison d'état....... En trois mois elle en recevra un acte d'assurance de S. M., ensuite duquel acte le Roi recevra très-volontiers sa fille en France pour la faire nourrir et entretenir aux depends de $. M..... Le hoi fera mettre une autre (1) Botta, Storia d’Italia continuata, lib. XXI, pag 28, ediz. di Parigì, 1832. PER.A. PEYRON. Si de ses filles dans l’abbaye de Fontevault, quand elle voudra, pour ly élever dans lesprit de réligion, et lui en accordera dès à present la coadjutorerie (1). Conforme a tal disegno il Cardinale aveva fatto pub- blicare colle stampe in Parigi un opuscolo, il quale pretendeva dimostrare che la miglior parte del Ducato non andava soggetta alla legge Salica (2). A questo suo intendimento egli alludeva quando parlando coll’Ab. Soldati gli disse in nube, che, se moriva il Duca infante, mentre i Principi zii aderivano a Spagna, egli dubitava che Spagnuoli e Francesi avrebbono fatto per sè (3). Qui non posso dissimulare che il disegno del Porporato era già stato precedentemente suggerito alla Duchessa. Infatti il Lavalette, scrivendo al Chavisny il 27 novembre 1638, gli diceva: J'avois pense de confirmer Madame dans les sentiments, ou je l'avois vue, de preétendre la succession de la meilleure partie de ses ctats pour les filles, à l'exclusion du Car- dinal...... Et cela etant, j'eusse ete d’avis de traiter avec elle du mariage de M. le Dauphin avec sa fille ainée, comme elle ma quelquefois temoigne de le desirer. Poi succedono queste per noi consolanti parole: Madame a lesprit si léger et mefiant, qu'on ne se peut assurer des choses jusqu'à ce qu'elles soient executees. Voglio credere che Madama in una delle sue frequenti oscillazioni abbia dato retta ai suoi consiglieri di parte francese, e voglio sperare che non abbia tardato a smaltire il suo mal umore, e si sia ricreduta; ma ad infamia dei consiglieri soggiungo che essi non facevano da burla. Infatti, nelle carte Messerati trovo che lu Sovrana (voglio credere i consiglieri) aveva fatto scrivere in ine sopra tal esclu- sione. E siccome la Francia non poteva essere talmente dotta delle nostre leggi e consuetudini da improvvisare un libercolaccio sul nostro giure Salico o non Salico, io sospetto che l'opuscolo stampato in Parigi sia stato opera di qualche nostro venale leguleio, trasmesso poi dai con- siglieri al gran ministro, che ne ordinò la stampa. Adunque il Richelieu avrebbe, mediante un matrimonio , aggregato alla Francia la miglior parte del ducato, se il Duca ereditario moriva, mentre i Principi Maurizio e Tommaso aderivano a Spagna. Quindi pure intendiamo che il gran ministro avrebbe esclusi i due (1) Il Cardinale compilando le sue Mémozres non vi registrò questo suo disegno. (2) Tesauro, Origine, p. 104. (3) Capi di risposte fatte in Parigi dal C. Richelieu all’Ab. Soldati sul fine del 1640, fralle carte Messerati, mazzo 24. Serie II. Tom. XXIV. JeE 2 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Principi dalla successione e da ogni ingerenza nel Ducato, se duravano ostili a Francia; ma li avrebbe ammessi se a Francia si fossero accostati. Infatti egli, sentendo essere la Duchessa caduta inferma, così scriveva all’Hemery: ‘2 faudroit que Madame supplidt le Roi d’étre tuteur de ses enfants, et de prendre la protection de ses etats, et le soin de les leur CONSErOEr . ..... Sil mesarrive de Madame, le Roi ne plaindroit pas 50, 60, voir cent mille écus pour gagner les personnes, dont il faudroit sassurer pour la conservation des eétats à Messieurs ses enfants (1). Escludeva adunque i Principi se avversi a Francia; ma che li ammettesse, se amici, lo prova la costante sua sollecitudine per guadagnarli con seducenti offerte. Per tacere di tutta la sua corrispondenza, io citerò solamente le risposte che egli diede all’Ab. Soldati andato a Parigi per trattare gli interessi del Card. Maurizio. IZ Principe Cardinale, gli disse, conosce le qualità dell'animo mio, che è avidissimo di gloria, e questa di unirlo al partito ed al servizio di S. M., io la stimerzi oltre modo. Ma le sue pretensioni sono impossibili e direttamente contrarie all'autorità di Madama, ed al fine di S. M., che è di sostenerla assolutamente. Mi piacerebbe di staccare il P. Tommaso da Spagna, ma non me ne fido, giacchè i fini di lui sono diversissimi da quelli del fratello. Egli solo intende la disunione della casa, e la continuazione della guerra, non avendo che perdere menire vive il fratello. Protesto che il Re si stime- rebbe infame (la parola è precisa), e che io sarei il più iniquo e scel- lerato ministro del mondo, quando si pensasse di voler opprimere e non di conservare lo Stato al Duca di Savoia, e così al Card. Maurizio come primo principe e successore (2). Adunque egli riconosceva o negava ai Principi il diritto di succedere, secondo che ciò tornava utile alla Francia; ossia il loro diritto non era cosa obbiettiva ed assoluta, ma relativa all'interesse dello Stato. Egli inoltre protestava che il Re sarebbe infame ed egli stesso iniquo, “se mai mirassero ad opprimere il Duca, e dispossessarlo. Rinnovava tal protesta, quando , ben vedendo che le nostre piazze sarebbero cadute nelle mani di Spagna e dei Principi, perchè noi non potevamo difenderle, esigeva che noi le affidassimo a Francia, con promessa di ristorarne a sue spese le fortificazioni, di difenderle dal nemico, e di conservarle e (1) Lettera del Richelieu all’Hemery, 22 ottobre 1637. (2) Capi di risposte citati. PER A. PEYRON. 83 restituirle al Duca. Come pegno di tali promesse egli sottoscriveva con noi il trattato del 1° giugno 1639, e deponeva nelle nostre mani lettere da lui indirizzate al Papa ed ai principi italiani, le quali confermavano tal sua intenzione. Avrebbe egli mantenuta la parola? Le restituzioni sempre si promettono nei trattati, ma nel processo della guerra quasi sempre intervengono circostanze imprevedute per le quali lo Stato protettore , allo strignere de’ conti, adduce pretesti per domandare compensazioni al debole protetto. Niuna nazione sacrifica mai sangue e danari per un'idea astratta, o per un impulso estetico degno d’un idillio; l’utile sempre governò e governerà le relazioni inter- nazionali. Ciò premesso, rispondo che il gran ministro sin dall'anno 1638 commetteva all’Hemery di significare alla Duchessa siccome il Re, powr désinteresser en quelque fucon les frais ..... po la protection (extra ordinaire) que Madame demandera , le domanderebbe alla sua volta le valli d'Angrogna, di S. Martino, di Lucerna, e le terre di Revello , Bricherasio, Cavour ed altre & zitre de change, pension, ou quelque autre moyen (1). Quando poi nel 1641 le sorti della guerra volgevano favorevoli a Francia, ci restituì Cuneo; poco stante morì. Il suo successore Ma- zarini andò così a rilento nel renderci le piazze, che solamente nel 1656 riavemmo la cittadella di Torino. Quindi a tre anni si fermò la pace dei Pirenei, nella quale la Francia, obbligando la Spagna a restituirci Vercelli, si sdebitò verso noi della data parola di guarentirci l’integrità del Ducato. Ma, nel liquidare i suoi conti con noi, poteva ella o ritenersi o do- mandarci alcuna di quelle piazze, che sempre agognò nella Savoia e nel Piemonte? Nol poteva, perchè nulla- avendo conquistato in Italia sulla Spagna, niun ricambio poteva dare a noi, che meritavamo compensazioni per li danni in guerra sofferti, e saremmo stati iniquamente e contra la data parola spogliati di una parte del territorio. Se non che, il Mazarini, dolente di aver perdute molte delle valli che dal Delfinato mettevano in Piemonte ed in Italia, ci propose che cedessimo a Francia la fedelissima Nizza, accettando in iscambio la riottosa Ginevra. Questa impudente proposta, che noi rigettammo, basta per lasciarci presagire quelle cessioni di territorio, che la Francia ci avrebbe imposte, se, conquistatrice in Italia, fosse stata in grado di darci nell’Alessandrino, nel Novarese ed oltre compensazioni anche generose, ma mal fide ed incerte. (1) Aubery, pag. 258; vedi pure pag. 789. 84 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Ciò che voleva il Richelieu da noi egli stesso lo espresse con queste assolute parole: Je vera le Piemont ou ami à tout faire, ouw bien ennemi (1). Nemici avrebbe voluto rovinarci. Infatti fin dal 1629 signi ficava al Duca Carlo, che il Re Cristianissimo avrebbe con mille modi beneficato la Casa di Savoia, ma, se non fosse stato da lei corrisposto, il Re si sarebbe servito dei mille modi per rovinarla (2). Amici, egli esigeva che noi mettessimo a sbaraglio persone ed averi per servire ai suoi disegni, riserbandosi a rimeritarci largamente, ma secondo gli interessi dì Francia, che differivano dai nostri. Egli, siccome dissi più sopra, avendo calcolato quanto în uomini e danari occorresse per eser- citare in Italia una guerra grossa e conquistatrice, non si sentì da tanto, epperò si limitò ad una piccola guerra, che servisse a divertire le forze spagnuole da Fiandra, dove intendeva di fare conquiste. Così, per volontà di lui, il Piemonte divenne lo scacchiere della guerra, fu desolato, nulla conquistò , ed alla pace de’ Pirenei non ottenne alcun guadagno. S 18. JI Richelieu nell'esigere tutto dal Piemonte era prudente nei mezzi, perchè temeva la nazione. - ‘Fu prudente in Grenoble. - Fu violento nel far rapire il C. Filippo, perchè nulla temeva da alcuno. - Adonestò il rapimento. - Scandalosa intrinsichezza del Conte con Madama. La Duchessa, i suoi consiglieri, e quindi gli storici nostri supposero in lui ora violenti partiti arrischiati, ed ora meschine astuzie e simula- zioni; calunniarono il suo carattere politico. Egli, capacissimo di appigliarsi alla violenza, non vi ricorreva se non all'ultimo, dopo avere sperimentate le vie della persuasione, ed avere prudentemente calcolate le conseguenze. Già vedemmo che il disegno a lui attribuito di impadronirsi in Vercelli della vedova Duchessa e della prole, è storicamente falso. Senza ricorrere a tal colpo violento , che avrebbe sollevato il Piemonte, egli era certo di governare, come infatti governò, a suo arbitrio la Duchessa. Quando venne col Re a Grenoble per abboccarsi con Madama, nuovamente gli si attribuì l'intenzione di (1) Richelieu, Memoires, lib. XXIX, pag. 275. (2) Journal des Savants, marzo 1864, pag. 140. PER A. PEYRON. 85 impossessarsi con un colpo di mano del forte di Montmeillan, del Duca, e, come alcuni aggiunsero , della Duchessa e de’ suoi consiglieri per trasportarli a Parigi. Che egli desiderasse di occupare quella forte rocca, e di educare in Parigi il Duca ereditario , tutte le sue istruzioni al- l'Hemery e ad altri lo attestano, ma tutte soggiungono pure che egli richiedeva il consentimento della Sovrana. Che egli avesse in animo di conseguire anche colla violenza questi suoi intendimenti, ciò è una calunnia, perchè sarebbe stato un grave errore politico. Infatti, poniamo il Duca e la madre detenuti in Francia, il Ducato sarebbe stato vacante, epperò deferito ai due Principi prediletti dai sudditi, ed allora trionfanti. Che se il solo Duca fosse stato detenuto contra la volontà della madre, che mai sarebbe avvenuto? Quando i sudditi avessero veduto nel ritorno da Grenoble la madre in lacrime pel rapito figlio , la tutrice inetta a conservare il pupillo, ed i ministri vergognosi per li passati loro consigli , allora alle sette provincie che spontanee si erano già date ai Principi, si sarebbero aggiunte le altre, imitandone l’esempio. Le truppe piemontesi di Madama sì sarebbero unite a quelle degli zii, e tutte assistite dalle spagnuole si sarebbero concordemente avventate contra le francesi ab- borrite. La Duchessa ed i suoi cortigiani erano l’unico sostegno della prepotenza del Porporato in Piemonte, e questo sostegno già gli aveva fallito in Grenoble; che se inoltre alla madre avesse strappato il figlio, alla tutrice il pupillo , ai cortigiani il Sovrano , egli avrebbe spinto la reggente, i consiglieri e tutti ad abbandonare la Francia, giacchè il popolo non li avrebbe più sofferti. Egli era rabbioso bensì e vendicativo , ma prudente politico non avrebbe giammai commesso un sì grossolano spro- posito. Ben so, che il Lavalette alcuni mesi prima lo aveva consigliato à se saisir de la personne du Duc et de Turin (1), ma egli non diede retta a quel collega Porporato, del quale la prudenza politica era pari alla poca perizia militare. Egli ben sapeva che i danni della guerra avoient fait monter jusqu'à tel point l’aversion des Piemontais contre les Francais, que , pour peu qu'ils fussent animés, il étoit impossible qu'il n'arrivdt pas quelque étrange scandal (2). Egli conosceva il Piemonte, e vi temeva il solo popolo, non la debole Sovrana, non i consiglieri o timidi o venali. (1) Aubery, pag. 240. (2) Richelieu, Mémoires, lib. XXVIII, pag. 178. 86 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA L’arresto del G. Filippo d’Agliè, che venne dopo la conferenza di Grenoble, è la giusta misura del carattere del gran ministro irritabile ad un tempo e prudente. Egli, avvertito per tempo dall’Hemery della scandalosa famigliarità del Conte colla Duchessa (1), lo tollerò finchè ligio ubbidiva ai suoi comandi. Ma quando si avvide che insinuava nella Duchessa diffidenze contra Francia, e contrastava a’ suoi disegni, allora a nome del Re fratello invitava lei a rompere cotanta intimità che le alienava i sudditi, e proponeva al Conte di andare ambasciadore ducale a Roma od anche a Parigi (2). Amendue ricusarono. Venuto poi il: Conte a Grenoble, molto cooperò a mantener la Sovrana salda nel respingere le proposte del fratello. L'ira del Cardinale nel vedersi deluso toccava al sommo , e già lo consigliava di punire il Conte ed i suoi colleghi , ma diyerses considérations empéchèrent le Roi de les chdtier (3). 1 barbari stessi rispettano le sacre leggi dell'ospitalità, e la prudenza consiglia di far cadere sopra un solo il castigo meritato da molti. Da tre mesi taceva l'ira dell’Olimpio , quando ricevette dal. Mazarini una lettera, che lo ragguagliava siccome il Pr. Tommaso già stava per sottoscrivere il trattato di sua adesione a Francia, quando voltosi a lui, Monsignore, gli disse, qual sicurezza poss'io avere dell'osservanza de’ capitoli, se il C. Filippo, tanto mio nemico, ha tanto credito con M. R., che muta le cose a suo modo, e quello che oggi si è accordato, domani è rotto? .....e sopras- sedette a sottoscrivere (4). Al ricevere tal lettera il Cardinale, che aveva (1) L’11 ottobre 1637 l’Hemery così scriveva al Richelieu : 7 serozt è deésirer que Madame rompît intelligence avec le C. Philippe par la crainte des maux et du scandal, qui en peuvent dériver, mais cela n'est pas à esperer, et il est très-périlleua, et de très-grande consequence d’en hasarder le conseil, et principalement moî..... Je revolierois le C. Philippe contre la France, qu'il regarde comme son secuurs et son support. Il Richelieu nella Succizte Narration, pag. 345, scrisse: La mauvaise conduite de Madame lui ayant fait perdre en peu de temps l’estime et la reputation, qui lui devoient étre plus chères que sa propre vie, du meépris ses sujets passèrent à la haine, et de la haine à la revolte. In Grenoble era pure stato rimostrato alla Duchessa, che fosse obbligata a menare una vita sì esemplare, che si rimettesse nel concetto dei popoli. ..... e che la verità attraesse sopra di lei la benedizione del cielo, così il Siri, Memorie, pag. 749. (2) Siri, Mercurio, tom. I, p. 180. (3) Richelieu, Suc. MNarration, p. 346. (4) Trascriverò l’intera Nota manoscritta del Tesauro alla pag. 950 del Guichenon: La vera ragione (dell’arresto del C. Filippo) fu questa, che stando il P. Tommaso colla penna in mano per sottoscrivere 1 capitoli proposti dal Mazarini, si voltò a lui, e gli disse: Ma, dicami Monsignore, qual sicurezza posso io avere dell’osservanza dei capitoli, se il C. Filippo tanto mio nemico ha tanto credito con M. R. che muta le cose a suo modo, e quello, che oggi si è accordato, dimani è rotto ? Quanto a me io non posso sottoscrivere questi capitoli, finchè mi resta questo grande oggetto, perchè niente sarà sicuro; PER À. PEYRON. 87 spedito in Piemonte il Mazarini al solo fine di guadagnare Tommaso alla Francia, scorgendo in Filippo un forte ostacolo alla conversione del Principe, risponde al Mazarini ordinandogli di trovar modo di arrestare il Conte e mandarlo in Francia. Ed il Conte l’ultimo dì dell’anno 1640 fu arrestato dopo un banchetto nella casa d’un generale francese, e mandato a Parigi. Nell'arresto del C. Filippo, io ripeto , sta ritratto il vero carattere del gran ministro. Egli sempre aveva disapprovato la intrinsichezza di Madama con Filippo, ma, mentre la tollerava siccome utile a Francia, ammoniva pure Madama, e procacciava di allontanare Filippo da lei. In gni maniera di favori aveva fra i nostri to) primari personaggi conquistato muovi aderenti a Francia; e ben sapeva che questi, invidiosi della potenza e delle crescenti ricchezze di Filippo (1), questo mezzo tempo egli con o avrebbero goduto in cuore della sua caduta. Inoltre ben sapeva che gli stessi membri della famiglia di Filippo discordavano da lui, e che egli stesso si riconosceva talmente scaduto dalla primiera onnipotenza, che supplicava la Duchessa o di dargli maggior credito ed autorità, ovvero di nominarlo colonnello del reggimento dei Lorenesi, e di dargli così un onorato congedo dalla corte (2). Stando le cose in questi termini, allora solamente il gran ministro sfrenò la sua ira da tre mesi rattenuta, avventò il fulmine, e colpì il Conte. Poi conscio di aver violato il diritto internazionale, volendosi pur- gare davanti la storia, scrisse un periodo dettato dalla rabbia, che frenata dall’orgoglio si compensa collo sprezzo ritroso a declinare il nome del miserabile piemontese. Ecco il periodo: L'insolence d'un malheureux piémontais, aussi présompiueux que liche, n'ayant pu étre réduite aua: termes de son devoir par divers avertissements de votre part (cioè del Re), par les prières de ses propres parents et de tous ses amis, enfin par les clameurs de tout un pays irrité contre sa mauvaise conduite , vous fiites contraint de l’éloigner de la personne de Madame (3). Il Richelieu, e così soprassedette a sottoscrivere. Il Mazarini scrisse subito per un espresso queste parole al C. Richelieu, rimostrandogli, che questa era l’unica ed ultima difficoltà; e tanto stette a venire l'ordine della prigionia del Conte, quanto la lettera ad andarci. Questo racconto io ho udito dalla bocca propria dell’ îstesso P. Tommaso. Vero è che già il Richelieu aveva mal animo verso il Conte, e prese volentieri quella occasione. (1) -Philippe eltoit envié jusquà Vextrémité, Richelieu, Mémoires, lib. XXVIII, p. 174. (2) Aubery, pag. 826. 13) Richelieu, Succinete Narr., p. 351. 88 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA riconoscendosi colpevole come ministro politico, che fece? Ricordatosi di essere vescovo e cardinale, ricorse al sesto comandamento del decalogo, e dichiarandosene zelante paladino, volle coonestare il rapimento e la prigionia del Conte. Io ho voluto parlare alquanto diffusamente del Richelieu, non già per difenderne la politica o la morale, ma per ritrarre il vero suo carattere stato dai nostri storici calunniato. Essi gli affibbiarono simulazioni, astuzie, malizie, vie coperte; mentre egli, oltre all'essere non una volpe ma un lione, si sarebbe vergognato di usare squisiti artifizi con una Duchessa debole, e con cortigiani da lui conquistati. Gli attribuirono disegni vio- lenti e criminosi; ma egli prudente non si appigliava alla violenza, se non dopo aver tentate le vie oneste almeno in apparenza, e gran ministro temeva assai più le colpe politiche che non i crimini. Lo accusarono di amori e di odii, mentre il suo cuore, non meno della mente, era posseduto dalla sola passione di render grande e potente la Francia, ed essere di cotanta grandezza e potenza egli solo l’autore. $ 19. La Duchessa Cristina. — Venuta in Piemonte vi portò la leggerezza francese. — Si formò una consorteria. - Agente di Francia. — Reggente, volle mostrarsi pie- montese, ma levò di sè acerba fama. Per preservare il Piemonte dal prepotente arbitrio di cotanto ministro, il Duca Vittorio si era appigliato al partito di destreggiarsi, mantenendo la sua indipendenza; ma tal non poteva essere di Madama. A lei man- cavano , siccome dimostrai più sopra, le tre condizioni necessarie per bordeggiare; ella, che sempre aveva promosso gli interessi francesi nel Ducato, divenuta poi reggente, non poteva a meno di abbandonare se stessa e lo Stato in balia di Francia. Infatti, venuta in Torino sposa appena irilustre, non tardò ad eseguire i consigli ricevuti dal Richelieu d’infranciosare a tutto potere il Pie- monte, comprese le foggie del vestire (1). Gentile, vivacissima e spiritosa, prese colla festività del suo ingegno e coll’incanto delle sue maniere a (1) Nel codice S. Germanese, n° antico 989, sta al n° 18 un foglio dettato dal Richelieu col titolo: Choses nécessaires pour le service du Roi à faire par Madame, lorsqu'elle sera en Piemont. PER A. PEYFRON. $9 trasportare mella nostra corte quella leggerezza, che affrancandosi dal- l’ipocrita gravità del rito spagnuolo, mentre va con nuovi piaceri, intrecci e casi creando un nuovo orbe sociale éd una nuova economia di vita, insinua pure seducenti simpatie. La Duchessa così acquistando ammiratori per sè, blandamente formava una consorteria che chiamerò francese. Come sorella prediletta del re Luigi XIII lo suocero la mtrodusse nei negoziati politici, adoperandola sovente nelle relazioni con Francia; ed ella docile scriveva quanto le si dettava (1), ma talora faceva sottovia pervenire al fratello altre lettere per disdire o temperare le prime (2). In queste confidenziali liberamente si lagnava dello suocero, che sospettava la fedeltà coniugale di lei, e la privava della corte francese seco condotta da Parigi. Il Duca consorte negoziava con Spagna, ed essa, siccome dissi più sopra pag. 20, tentava di corrompere l’agente Mondella, od almeno di intercettarne i dispacci. Di cotanta devozione a Francia il Richelieu la ringraziava con lettere, e da ultimo la rimeritava volendola reggente assoluta. Assunta al grado di reggente, ella bensì sin dai primi giorni sì era proposto di professarsi pubblicamente piemontese, del che fu lodata dall’Hemery e dal Richelieu (3); ma poco coerente a sè tosto volle , che in cima de’'suoi editti l’inutilissimo titolo di sorella del Re Cristia- nissimo, stampato con lettere cubitali, trionfasse su quello di Duchessa di Savoia e Reggente, che umilmente succedeva annunziato con amo- destissimi caratteri. Così ella su pei canti pubblicava quel sentimento, che io lessi da lei espresso in una sua lettera al fratello, essere stata una somma sua degnazione l’aver impalmato un piccolo duca. Anche noi, sebbene abitatori del piccolo paese posto al piè delle Alpi, sen- tiamo gli appulsi dell'orgoglio nazionale. Inoltre ella desiderava popolarità, e si affliggeva per li danni d'una guerra desolatrice ; ma discordante da sè dispensava il solo ceto nobile dal pagare la tassa di guerra_già imposta dal Duca su tutti i sudditi , e la lasciava pesare sui soli borghesi. I meno agiati fra questi, non potendo più sopportare nè le straordinarie nè le ordinarie gravezze , abbandonavano i loro piccoli poderi; ed il nobile patrizio od il (1) Richelieu, Mémoires, lib. XXI, pag. 203, 207, 221, 222, 274, etc. (2) Cousin, Nouvelles Relations de Mazarin et de Richelieu nel Journal des Savants, dicembre 1864, pag. 771. (3) Vedi sopra pag. 27. Serie II Tom. XXIV. go NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA danaroso cittadino, che sottentrasse nel coltivarli e nel. saldarne le tasse, era riconosciuto legittimo acquisitore. Mentre i sudditi gemevano così oppressi, e ridotti al verde, la Duchessa ergeva templi e monasteri ad onore di Dio, ville e villette per darsi sollazzo, magnificamente lar-. gheggiava coi prediletti cortigiani, nè lasciava che nella sua corte man- casse ogni maniera di. feste. A questi errori, atti ad indisporre gli animi della più gran parte dei sudditi, ella aggiunse il massimo ,. dico 1’ improntitudine del suo vivere libero. I costumi della nostra corte, sebbene non sempre edifi- canti, tuttavia nei loro errori si coprivano con un velo, che era un omaggio alla virtù. Da questo omaggio si era affrancata Maria de’ Medici in Francia, e la figlia in Piemonte somministrò tali motivi di novellare di lei, che il volgo giunse ad attribuirle imprese ed arti degne d’una Circe. Cotanto acerba era la fama che suonava di lei, e suonò dappoi insino a noi. Invano il Re fratello con lettere da Parigi e con parole in Grenoble la rimproverava, invano il pio Richelieu la ammoniva che, per conciliarsi le benedizioni di Dio, doveva emendare la sua condotta (1). Che ne avvenne? Lo dirò colle parole del Richelieu: Za mauvaise con- duite de Madame lui ayant fait perdre, en peu de tems, l’estime et la reputation, qui lui devoient étre plus chères que sa propre vie, du mépris ses sujets passèrent à l’haine, et de la haine à la revolte (2). Tempe- rando i vocaboli di sprezzo e di odio, affermo che la nostra nazione disistimava, nè guari amava la Duchessa, riserbando i suoi affetti ed ardenti voti per li Principi del sangue. (1) Les mauvaises impressions qu'on a données de la vie et de la conduite de Madame, ont été le vrai fondemeni de sa ruine. C'est à elle à faire une vie si exemplaire, que les apparences la remettent dans l’esprit des peuples en la réputation qu'elle doit ètre, et que la vérite attire sur elle la benedicivon de Dieu, sans laquelle tout secours des hommes lui sera inutile. Così il Richelieu, in un suo Advis donné è Madame, pubblicato dal Bazzoni, pag. 382. In altro, ivi, pag. 374, seg., parla pure dei sospetti che correvano sulla legittima nascita del figlio. Un opuscolo stampato alla macchia, col titolo Les Amours de Chrestienne Duchesse de Savote, è un nulla a fronte d’un manoscritto di 170 pagine incirca, conservato negli Archivi del mini- stero degli affari esteri di Parigi. L’Autore anonimo, prendendo ad esporre la sola biografia ga- lanie della Duchessa, narra il vario suo errar negli orti del piacere, nominando le famiglie e le persone, ed usando colori troppo vivaci nel dipingere le arti e le imprese. Scritta con sapore di lingua italiana, e con uno stile brioso e snello, è indirizzata ad un contemporaneo piemontese , qualificato Eccellentissimo, e stretto d’amicizia colle nostre primarie famiglie. Nè dell’Autore, nè dell’Eccellentissimo mì venne fatto di raccapezzare il nome. So che dopo la mia partenza da Parigi il manoserito fu involato da una sciocca spia savoiarda. (2) Richelieu, Succ. Narrat., pag. 345. PER A. PEYRON. 9I Per la sua mal dissimulata diffidenza di Francia la Reggente neppur si conciliò il Richelieu, che la sprezzava. — In Grenoble si mostrò forte. - Vi fece promesse con animo di non osservarle. Infelice nel cattivarsi l’amore e la stima del Piemonte, la Reggente ebbe pure la stessa sorte con Francia. Il collegarsi con Francia , solo suo sostegno per mantenersi reggente, era per lei una necessità , il diffidarne era prudente, utile pure il rimostrare; ma la pertmacia nel resistere ad ordini assoluti e ripetuti da ambascierie speciali, anche solo per salvare il P. Monod; ma il perpetuo sospettare non coperto da alcun velo; ma lo spingere la diffidenza sino ad attribuire al Richelieu disegni criminosi, che sarebbero stati errori politici; ma lo spudorato negare negoziati, dei quali le carte le erano state intercette; ma il contrastare lungamente e finir sempre col cedere accompagnato da umili scuse, questo fu il vero metodo per irritare l’irritabilissimo autocrate di Francia. Nel suo carteggio diplomatico egli rattenne la sua ira, con- tentandosi di usar frasi, che rivocavano in dubbio l'idoneità politica di lei (1); ma quando compilava le sue scritture destinate alla posterità , allora, disfogando lira repressa, versò sulla Reggente un diluvio di squisiti oltraggi, che la avviliscono al grado di volgare femminuccia (2). Ella, avendo fatto assegnamento su quella potenza del bel sesso , che, al dir d’Anacreonte, vince anche il ferro (3), procacciava di ammorbidire la durezza del gran ministro, scrivendogli lettere piene d’un affetto poco dignitoso, quasi di amante all'amico, ma egli la ricambiava (1) Ure des choses, dont la Duchesse se plaint le plus, c'est de la mauvaise opinion que vous avez de sa capacité. Lettera del Lavalette al Richelieu, $ gennaio 1639, net Codice S. Germanese, 1215, e nell’Aubery, pag. 240. (2) Nella sola Succizete rarration il Cardinale qualificò Madama coi titoli di prudente, fuible esprit, obstinte en son aveuglement, incapable de bons conseîls, extravagante, misérable femme, indigne de son sang. Gli odierni editori delle lettere del Cardinale (Collection des documents. Lettres du Car- dinal Richelieu, tom. V, pag. 903), stupiti a cotanto sprezzo, notarono: Il auroit di cpargner ((ce mepris) st non à la seur de Louis XII, du moins à la fille d Henry IV. (3) Quest’arte le giovò con altri. Ella, nel 1630, otteneva dal galante Duca: di Montmorency il libero rilascio di molti prigionieri piemontesi, senza che noi lo contraccambiassimo (Richelieu, Mémoires, lib. XXI, pag. 254). Nel 1638 aveva conquìso il diplomatico Sabran, come narrai più sopra. g2 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA severo; poi, dovendo comunicare al re fratello tali lettere talora comi- moventissime, gli premetteva il monito, che in certe occasioni è bontà e giustizia lo sprezzare le lacrime di una donna (1). Solamente in Grenoble ella oppose una forte e giusta resistenza al Cardinale. Ella vi si era recata avvertita da più parti, che it Cardinale la richiederebbe di dare in deposito al Re le rimanenti piazze del Pie- monte, quelle della Savoia e massimamente Montmeillan ; inoltre di rassegnare nelle mani del fratello la persona del giovane Duca, per essere allevato in' Parigi col Delfino. Un dispaccio del Cardinale del r5 settembre le confermò tali pretensioni. Alcune lettere aggiungevano che il Cardinale, ricevendo una negativa, erdinerebbe che a viva forza, o per inganno, fosse Montmeillan espugnato, e trasportato in Francia il Buca ereditario e forse. anche le sorelle, la madre ed alcuni consi ghiert; gli alloggi si dicevano già preparatt in Parigi La Sovrana, prestando piena fede a tali avvisi, prevenne ogni dolosa sorpresa, dando al governatore del forte gli ordini opportuni, e si fermò di resistere. Come giunse il di 27 settembre im Grenoble, tosto si parlamentò , ed | ministri franeesi, indettati da un'apposita lunga scrittura del Richelieu, domandarono le piazze del Piemonte e della Savoia, come anche la persona del Duca, ripeterono gli incalzanti argomenti della scrittura, e conforme ad essa terminarone col minacciar la Duchessa di essere dal fratello abbandonata alla sua sorte (2). Dopo avere così tastato il terreno, e ricevuta una negativa circa alla cessione di Montmeillan e del Duca , it Cardinale fece al domani presentare dal Re alla sorella una scrittura, succinto compendio dell’istru- zione precedente, nella quale le domandava /e depost des etats qui lui (1) Richelieu, Succ. Narrat., pag. 351. (2) Il Bazzoni, pag. 374, pubblicò uaa serittura intitolata: Avis dorné à Mad. la Duchesse de Savvya par le Card. de Richelieu, a Grenoble, le..... de septembre 1639, conservata. nell'Archivio degli affari esteri di Parigi. Questa scrittura, fedelmente tradotta in italiano, era già stata inserita dal Siri nelle sue Memor:e, tom. VIIT, pag. 742 sg., sino alle parole: Après que Mad. de Savoye aura ete., come fosse un Dispaccio di Richelieu a Madama del 15 settembre 1639, stato dal ©Cardi- nale consegnato al M. di S. Germano, quando, andato a Lione per ossequiare il Re ed il Cardi- nale, stava per ritornare im Savoia presso la Sovrana. Ma il Cardinale aveva pur dato copia della stessa scrittura ai suoi Ministri subalterni, affinchè servisse loro di norma per trattare coi nostri in Grenoble; ed in essa fece aggiunta cominciante dalle parole: Après que Madame de Savoye aura etc., acciochè gli stessi suoì Ministri avessero pure una regola ed un limite nei casì emer- genti nel parlamentare. Tal copia data ai Ministri è quella pubblicata da) Bazzoni. PER A. PEYRON. 93 restent, protestando che tal deposito sarebbe plus d'apparence que d'effect. D. Felice continuerebbe a governare la Savoia, ed il M. di S. Germano ad essere comandante di Montmeillan, ma il presidio si comporrebbe di Svizzeri e di Francesi del Re; da truppe francesi del Re sarebbero pure presidiati tutti i castelli della Savoia di qualche importanza. L'entrata della valle d'Aosta sarebbe difesa da due reggimenti, l'uno det Re, l’altro di Madama, sotto gli ordini d'un maresciallo di campo di lei (*). La scrittura non parlava del Duca. Nel giorno seguente 29 la Duchessa rispose per iscritto (2), che il forte di Montmeillan per le cautele prese non correva pericolo alcuno; ma, se ella lo cedesse, pericolerebbe la Savoia di sollevarsi, e la Spagna per centraccambio occuperebbe il castello di Nizza. Soggiungeva che, per essere tutrice e reggente , non poteva, fuori del caso di urgente necessità, disporre delle piazze senza it consentimento dello Stato. Nei giorni seguenti si parlamento. Il dì 9 ottobre it Re presentò alla sorella lo schema del trattato del deposito: delle piazze. Esso, quanto alle condizioni e guarentigie, era affatto simile a quello del 1° giugno, quando demmo a Francia in deposito le città di Carmagnola, Cherasco e Savigliano. A queste, nello schema, sì aggiungevano quelle di Suse, Yeillane, Cavours, les forts des Gravères et de Scalas, Eauset, Chivas et Fossan; venivano dopo gli articoli relativi a Montmeillan ed alle altre piazze della Savoia , come pure ai due mila uomini che dovevano stanziare all'entrata della valle di Aosta (3). Nel discutere questi articoli i nostri ministri ricusa- vano di escludere dal forte di Montmeillan le truppe della Sovrana, e di rassegnare a Francia tutte le piazze domandate. Ed i ministri francesi acconsentirono di ammettere nel forte alcune truppe della Duchessa , purchè fossero savoiarde e non piemontesi, anzi instavano pel reggi- mento del S. Martin, composto in gran parte di Francesi, e da gran tempo al soldo del ducato ; ridussero pure il numero delle altre piazze 1) Questa scrittura intitolata : Copie d’escriture remise par le Roi à Madame à Grenoble, le 28 septembre 1639, si conserva nel nostro Archivio di Stato. (2) La risposta si conserva pure nel nostro Archivio, e fu pubblicata dal Bazzoni, pag. 383. Correggansi solo i seguenti errori: porro: mésarriver, invece di pourroît m'arriver — ce que ma personne, invece di ce gu’une personne — luy démeurast, invece di luî demeurant — encore usé, invece di ercore ose. (3) Lo schema di trattato si conserva nel nostro Archivio, Tutele e Regg., mazzo 4, n° 6. 94 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA domandate. Poco stante le due parti si separarono, obbligandosi a ri- durre quanto prima in trattato i loro accordi più verbali che scritti , detti Conventions. Il Re si condusse a Lione, la Sovrana ritornò in Savoia, nè guari andò che partì per Lione D. Felice come plenipotenziario per conchiudere il trattato. Nell’istruzione a lui data il 18 ottobre, la Duchessa si scolpava di non avere ancora introdotto in Montmeillan il reggimento S. Martin, perchè a lei necessario in Alba, poi soggiungeva: Et parce que les demandes que nous firent les ministres de S. M., de mettre dans toutes les places de la Savoie des troupes de S. M.; nous y consentimes seulement pour le regard du fort de Charbonières, en exemptant les autres places, toutefois nous pridmes le Card.\de Richelieu de nous laisser libre ledit fort, vu que nous offrions de remettre en Piémont les villes d'Albe et de Fossan, et ledit Cardinal nous ayant promis d’en parler à S. M., vous scaurez de lui les réponses; et au cas qu'on insiste d’avoir le chdteau de Miolans, vous supplierez M. le Cardinal de ne point changer ce qui a été concerté à Grenoble (1). Posta questa instruzione, D. Felice nulla conchiuse. Nell'anno seguente l’ab. Mondino si recò a Parigi con una nuova instruzione, nella quale la Duchessa si scusava di non avere introdotto in Montmeillan soldatesca francese , perchè ella in Grenoble, sono parole dell’instruzione, stava nelle forze loro, dove poteva dubitare di qualche incontro, quando avesse ricusato di fare le promesse (2). Nell'anno 1641 adduceva altra scusa del non aver eseguito le promesse fatte in Grenoble (3). Questo sincero ragguaglio della conferenza di Grenoble ci insegna più cose. Il Richelieu bensì desiderava di avere in Parigi il Duca, e ne fece la proposta sin dal primo giorno, ma respinto nella sua domanda volse ogni pensiero ad assicurare la persona del Duca da ogni sorpresa o moto rivoluzionario. Lo stesso nostro ambasciadore a Parigi aveva suggerito al Cardinale di guardare l’entrata in Savoia dalla parte di Aosta (4); i due Principi mantenevano in: Montmeillan persone loro devote (5), e molte erano state le defezioni dei comandanti di piazze e (1) Instruzione pubblicata dal Bazzoni, pag. 384. (2) L’instruzione sta nel nostro Archivio, Tutele e Regg., mazzo 4, n° 8. (3) Zrnstruzione all’Ab. della Montà inviata a Parigi, nel nostro Archivio di Stato. (4) Aubery, pag. 275. (5) Il Card. Maurizio nella sua lettera del 6 gennaio 1641 al Messerati gli ordinava di mardare qualche somma di danari per mantenere ed assistere: in Savoia quella piazza e gli amici che vi abbiamo. PER A. PEYRON. 95 dei reggimenti piemontesi; epperò i timori e le cautele del gran ministro non erano vane. Egli, per consiglio dell’Hemery, si fidava di D. Felice e del M. di S. Germano (1), ma non così delle loro truppe. Dapprima le volle tutte svizzere e francesi, poi accondiscese che alle francesi fossero miste le nostre, purchè savoiarde, e specialmente il reggimento di S. Martin. Così la cosa rimase conchiusa in Grenoble, e vi furono pure designate le fortezze di Savoia da essere consegnate a. presidii francesi. Madama promise, poi nulla eseguì, e da ultimo allegò per massima, che le promesse fatte per timore di qualche incontro sono nulle. Vedremo fra breve, che ella non menò buona al Pr. Tommaso questa massima. La condiscendenza del Richelieu ad ammettere in Montmeillan un presidio misto di savoiardi e di francesi, tutti sotto gli ordini. del M. di S. Germano fidissimo alla Sovrana, dimostra abbastanza che egli non intendeva di strappare a viva forza il Duca allo Stato ed alla tutrice. Il trasportare in Francia il Duca ereditario , senza il pieno consenso della madre e de’suoi consiglieri, sarebbe stato, come dimostrai più sopra (pag. 85), un gravissimo errore politico. Egli aveva sempre sperimentato la tutrice debole e cedente ai suoi ordini, ma quando ella credette che le sarebbe tolto l’ultimo simulacro di sovranità, rima- nendo reggente senza ducato e tutrice senza pupillo, allora si mostrò donna forte, ed a fortificarla concorsero unanimi i suoi consiglieri, antichi complici della sua debolezza e de’ suoi errori. S 2. I cortigiani colpevoli d'una parte degli errori di Madama. — Resisterono ‘a’ let desiderosa di abboccarsi col P. Cardinale. — La spinsero alla lega offensiva con Francia. - Calunniaiori. — Consiglieri d'una politica non eseguibile. - La Reggente aspirava a dare in isposa al figlio la Infante di Spagna. Dacchè per amore della storica verità ho esposto i principali falli di lei, giustizia vuole che io ne addebiti in parte i suoi cortigiani. Mi ristringo al solo errore principale. Chiamata la Duchessa dalle nostre consuetudini a governare lo Stato, (1) Aubery, p. 268. 96 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA i cortigiani la vollero reggente assoluta (1); tale pure la volle il P. Monod, perchè sperava d’indurla a richiamare i Principi, ed a commettere a Maurizio qualche alta carita: s’ ingannò , giacchè, siccome scriveva il Lavalette , Philippe sera toujours contraire à tout accommodement de Madame avec le Pr. Cardinal (2). Epperò mentre il protettore del Car- dinale già si credeva di diventar ministro, il C. Filippo coll’Hemery cominciò ad ordire la sua rovina, che poi compiè e coronò colla vilis- sima sua lettera al Richelieu (3). La Duchessa, come intese che il Cardinale cognato era partito da Roma per entrare nel ducato , si rallegrò e desiderava di abboccarsi con lui; così attestano gli storici e le lettere stesse di lei (4). Ella ben conosceva la bonaria arrendevolezza del Cardinale; ben sapeva che in lui covavano ancora (5) vezeris vestigia flammae, che gli si era accesa quando, come procuratore del fratello, la disposò in Parigi, e la ac- compagnò a Torino, ed infatti il cognato intendeva di offrirle la sua mano (6); ben era persuasa che nulla perderebbe della sua plenipotenza , anche concedendone un vano simulacro al suo assistente nella reggenza. Ma chi feroce e minaccioso vi si oppose fu l’Hemery. Egli sin dal 5 ottobre aveva scritto al Richelieu che, se il Duca moriva, fe Pr. Car- dinal recherchera Madame pour venir en ce pays .....je Vempécherai autant qu'il me sera possible. A tal risoluzione era anche incitato dal (1) Ai nostri cortigiani si aggiunga il Mazarini, il quale ambizioso della protezione di Cristina, per rendersi accetto al Richelieu nell’ambito posto di Internunzio a Parigi, così scriveva ai nostri: Madama R. è atta a governare il mondo, in ciò mi confermai in tuito col parere del Card. Richelieu. Con altra ridicola iperbole esclamava: Nor ha forza di uccidere il dolore, mentre vivo dopo l'avviso della morte di S. A. R. Queste lettere di condoglianza del Mazarini del 17 ottobre 1637 si conservano nell’Archivio dello Stato. (2) Sua lettera al Chavigny, 27 novembre 1638. (3) Aubery, p. 241. (4) Al primo asviso della partenza del Cardinale M. R. si rallegrò, Tesauro nella sua Nota mano- scritta al Guichenon, p. 919. Castiglioni, I, p. 20, c. Nous auriors bien idésiné donner ce contentement àa mon frère (di riceverlo), et cette consolation à nos sujets; lettera di Cristina al S. Maurizio, 25 ottobre 1637. (3) Guichenon nel Soleil. Madama R. sapeva molto bene che il Principe Cardinale la venerava ed amava teneramente , così il Tesauro nelle Notes et observations de M. le:G. Tesauro, manoscritto conservato nella biblioteca del Re. (6) Il buon Cardinale si ingannava. Infatti il C. Morozzo, inviato dalla Sovrana a Genova per indurlo a ritornare a Roma, ‘ebbe bensì ordine dai Curiali.di recargli buone speranze di quelle ‘nozze reali...... Ma il Morozzo...... sotto il medesimo secreto gli diede il disinganno, scoprendogli che, sebbene Madama infingeva di morirne di voglia, se ne rideva con le persone più confidenti. Tesauro, Origine, p. 60. PER A. PEYRON. 957 C. Filippo e da altri cortigiani, che temevano di avere una volta a scadere dalla somma autorità alla quale aspiravano (1). Per vincere la durezza dell’ambasciadore la Duchessa si rivolse al Crequy, che disap- provò la ruvidezza del suo collega (2), interpose il Nunzio, scrisse al suo ambasciadore a Parigi, affinchè intercedesse presso il Re, tutto fu invano (3), giacchè il Richelieu, preoccupato dalle calunniose relazioni del suo ministro, ne aveva approvato la condotta. Ciò premesso , egli è probabile, siccome dirò più sotto, che, posta la propensione di Madama ,. e l’arrendevolezza del Principe, e posta la mediazione del P. Monod, che molto poteva sull’animo di amendue,. si sarebbe inteso un aggiustamento di famiglia. A questo il P. Tommaso avrebbe , anche mal suo grado, aderito, nè sarebbe più venuto di Fiandra, siccome lo attestò il Tesauro al Cardinale, e lo confermò dalla sua prigione il Monod (4). Per lo contrario egli è certissimo, che l’aver ributtato il Principe fu la prima e principale cagione della guerra civile che conseguito. Ora del villano rinvio chi fu l’autore ? L’ Hemery. Ma chi lo propose , lo caldeggiò, lo spinse ? Il C. Filippo ed i suoi consorti. Adunque non cotanto su Madama, quanto sui suoi consiglieri ricader deve la colpa gravissima della guerra civile. (1) Castiglioni, 1 20, b. Tesauro, ecc. (&) Il Creguy opinò così: Dacchè il Principe sacramenta che le sue intenzioni sono pacifiche, e tutte in servigio di M., entri pure nel ducato; se poi i fatti non corrispondessero alle parole, noi facilmente lo faremo prigione, inerme qual’è, e senza danaro. Castiglioni, Historia, lib. I, p. 20, c. (3) La Duchessa medesima così narra la cosa nella sua lettera del 25 ottobre al S. Maurizio: L’ Abbé Soldati nous fit instance de voir au moins notre frere pour sauver sa réputation. Nous primes sur ce point l’avis de nos principaux ministres, qui furent fort partagés en leur opinion, les uns estimant que nous devions le voir, ...... les autres qu'il falloit procurer de le faire avec le consentement des Francais, eé y disposer HM. d’Hemery. Nous aurions bien desiré donner ce contentement è mon dit frere, et cette consolation à nos sujets: c'est pourguoi nous avons fait agir sous mains le Nonce vers M. Vam- bassadeur d’Hemery, qui persista à s'opposer formellement à cette entrevue.... De facon que d’Hemery continuant ses protestes, et Vl Abbé Soldati nous faisant instance d’un autre ebté de nous aboucher avec mor dit frere, nous Îui avons fait connoître gue nous ne le pouvions pas entreprendre, sans préjudicier grandement aux intéréis de cette maison. Mais que nous Passurions bien que nous vous dépécherions prompiement un courrier, afin gue vous fissiez office de notre part auprès du Roi, et que vous procu- rassiez que S. M. trouva bor ‘que je le visse. (4) Tesauro, Origine, p. 53. L’Ab. d’Agliè nella sua lettera del 1 giugno 1639 da CLiambery ad alcuno della sua famiglia gli significa, che D. Felice governatore della Savoia aveva visitato il P. Monod nella sua prigione di Montmeillan, e che il Padre gli esagerò sopra tutto la perfidia del Richelieu con infiniti esempi, la mala condotta del Fudiparo (Madama Reale) 2 over negata ci Fiumi (1 Principe Cardinale) la semplice riverenza che pretendeva un tempo di farle, cosa bastante a fermare 1 Monti (il Pr. Tommaso) ix Fiandra, predicendole la totale perdita dello Stato, se non si accordasa cor Principi. soprannomi sono così spiegati in margine. La leitera si conserva nell'Archivio di Stato. Serie IL Tom. XXIV. 13 i 98 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Alla ripulsa data al P. Maurizio si aggiunga la lega offensiva con Francia, che la Duchessa segnò con mano tremante, e bagnò con lacrime un intero giorno. Diremo noi che ella fosse debole? La debolezza era inerente al suo! sesso, e tanto più perdonabile , ‘quanto più incolpar se ne dovevano i cortigiani. In Grenoble la sua determinazione di nulla cedere era con- fortata dal consentimento di tutti i cortigiani unanimi nel loro voto degno di veri piemontesi; e la Sovrana si mostrò fortissima contra le seduzioni dell’amato fratello, e contro la malizia dell’imperioso ministro. All’incontro nel deliberare su altri negozi la lotta fra i suoi consiglieri diversamente opinanti ingenerava in lei sospensione ed incertezza. Im- perocchè gelosa del suo potere voleva su tutto deliberare, ma, sentendosi insufficiente a tanto impegno, tutti interrogava, ed anche gli estremi, dico il: C. Filippo ed il P. Monod. Dovendosi poi risolvere, accettava quel mezzo termine, che la malizia ed il poco senno di alcuni consiglieri le proponeva. Così la Sovrana , ritrosa ad ammettere che la lega con Francia sarebbe offensiva , sottoscrisse tal vocabolo, indotta da chi le disse, che l’offendere Spagna sarebbe parola scritta, ma in fatti si neghe- rebbero a Francia le truppe ed i mezzi per offendere la Lombardia, e che alla peggio i vantaggi e le perdite si terrebbero in bilico tra le due nazioni belligeranti, cosicchè il finale risultato riuscirebbe ad essere una neutralità armata. Virile quando nel suo parere si sentiva confortata dalla maggior parte de’ suoi consiglieri, ella necessariamente cadeva accasciata , quando questi divisi in vari pareri, e volendo ciascuno tirarla alla sua parte, la assediavano a gara, e per espugnarla si servi- vano de’ mezzi termini, vere proroghe d’una difficoltà. Si servivano pure di mal fondati sospetti avvalorati da calunnie. Che la parte francese con mentita benevolenza avvisasse Madama, che il P. Maurizio im Genova comprava veleni finissimi, che il P. Tommaso voleva spenti i figliuoli di lei, e che il P. Monod godrebbe nel vederli soffocati, ciò non reca maraviglia. Ma che la stessa parte francese , dopo aver necessitato la Sovrana a buttarsi abbandonatamente nelle braccia del Richelieu , si unisse alla spagnuola per amministrarle ogni dì sospetti gravissimi contra il medesimo Richelieu, questo, se fu un sistema utile per la regnante consorteria, fu per la Sovrana già diffidente per natura un continuo martirio. Non potendovi più reggere interrogò il S. Maurizio, se egli riconosceva nei Francesi disegni perniciosi al Ducato , ed egli PER A, PEYRON. 99 le rispose: Je proteste que je n'ai rien reconnu de semblable, et que je les ai vu se fier tout è fait à V. A. R., n'avoir pour dessein que de garantir ses états de l’oppression des Espagnols et des messeigneurs les Princes. Je crois bien qu'ils pretendent de se servir des états et des forces de V. A. R. pour fuire une diversion à leurs affuires, mais toujours en l'assistant et la defendant...... Je dis ceci pour ce que je vois V. A. R. dans des extrémes apprehensions, et que son esprit est grandement travaillé; ce qui me fait craindre que Von ne travaille à lui donner toutes ces appréhensions pour la porter proche du precipice . .... . Je supplie très-humblement V. A. R. de ne me croire ni francois ni espagnol..... et de rejeter touts les soupcons qu'on lui peut donner, qui embarassent son esprit et sa sante (1). La protesta dell’ ambasciadore tornò vana, e la Duchessa continuò sempre a diffidare, seguendo, come ella diceva, l esempio del Duca defunto. Ma, oltrecchè il Duca sapeva dissimulare la sua diffidenza , e la riserbava per i negozi più importanti, egli mantenne sempre la sua indipendenza; dovecchè la Duchessa, per mantenersi reggente assoluta, si era appesa al solo filo di Francia, e poi con Francia usava anche nei menomi affari una sguaiata ed aperta doppiezza. Nella morale dei gabinetti la doppiezza politica non fa torto, seppur non è lodata, ma si incolpa chi non sa dissimularla , e non ne ha i mezzi; tal fu della Reggente. Infatti il Richelieu gran maestro di politica rimpianse la morte del Duca Vittorio, che pur altalenava ira Francia e Spagna, ma quanto alla Duchessa scrisse queste giuste parole: Madame disoit que le feu Duc son mari avoit raison de vouloir toujours balancer entre la France et l’Espagne, ne considerant pas quil y avoit grande difference entre la force du gouvernement d'un homme et la fuiblesse de celui d'une femme (2). La differenza comparve evidente nella seguente circostanza. i Il Duca, quando si senti offeso dal Richelieu nel suo onore, quasi che fosse alleato infedele, gli rispose: Datemi 20 mila fanti, io ne ag- giungerò 10 mila; la Lombardia sarà nostra (3). La Duchessa, quando si sentiva in ogni dispaccio accusata dal Richelieu, rispose ella mai, o poteva ella rispondere come il Duca? No. Temendo che un grosso corpo (1) Leitera del S. Maurizio a Cristina, 9 febbraio 1633, nel nosiro Archivio. ) Richelieu, Memorres, lib. XXIX, p. 272. (3) Vedi sopra pag. 20. IOO NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA di milizie francesi stanziato in Piemonte fosse una maliziosa occupazione militare , ella a poter suo lo teneva lontano. Dirò meglio. Il più delle volte respingeva i soccorsi militari di Francia, ricordando l'esempio di Jolanda, benchè il Re le fosse fratello, e si contentava di soli 1500-Fran- cesi. Ma come sentiva che gli Spagnuoli si rinforzavano in Lombardia, invocava truppe proponendo qu'on fasse passer dans le Dauphiné, Lyonnois et autres provinces frontières force troupes, que nous puissions appeler en aide quand il sera temps (1). Al che le si rispondeva da Francia, che i soldati francesi non erano corvi, che ad ogni ora e stagione potessero prontamente traversare le alpi. Tanto meno la Reggente avrebbe sin dal primo anno proposto di fare con un grosso corpo francese una guerra grossa e terminativa in Lombardia. Conchiudendo questa parte dirò, che la reggenza di ii fu un ignobile vassallaggio verso Francia. Ella beènsì procacciava di attenuarlo con mezzi termini, ma questi servirono solo ad irritare vieppiù l’Olimpio, ministro inflessibile come il fato, ed a raggravare il giogo. Ma di tutto ciò la colpa ricade in massima parte sui cortigiani, i quali, ambiziosi di dominare, scartarono e vilipesero i due Principi consiglieri legittimi, e così gettarono la Reggente, lo Stato e sè stessi sotto il giogo del gran Cardinale. Nel render conte del Soleil $ 2, dissi che il Guichenon vi aveva riferito otto matrimonii del giovane Duca sventati dalla madre. Giustzia vuole, che io in parte la scusi dicendo, che ella si era fitto in capo di dare per isposa al figlio la infante di Spagna , che poi divenne moglie di Luigi XIV. Sin dal 1645 Madama aveva secretamente commesso al Messerati di significare a S. M. cattolica ed a’ suoi ministri, che il Duca suo figlio si allevava con prosperità e speranza di rendersi degno d'essere considerato da S. M., come fu l’altro Carlo Emanuele (2). Toccando poi il Duca alla maggiore età, la madre volle di proposito iniziare con Spagna il matrimonio desiderato, e sin dal maggio 1648 commise a D. Paola Cristina di Masserano , monaca in Vercelli, e per mezzo di lei al P. Sigismondo Gaudio d’Agliè, minor osservante in Vercelli, di indurre il Messerati a recarsi a Madrid per negoziare il matrimonio. Questi, schi- vando il viaggio, promise di conferirne in Milano col M. di Caracena; (1) Lettera di Cristina al S. Maurizio, 3 gennaio 1638. (2) Lettera del Messeratiì al Re di Spagna. Milano, 12 marzo 1645. PER A. PEYRON. IO: ne parlò, ed invitato a darne il suo parere, io commise alla carta: protestando che egli non entra a considerare la convenienza o la pro- babilità di tal connubio; neppur esamina, se per parte di Madama sia sincera la domanda. Dubita tuttavia che la Duchessa così miri a con- ciliarsi la parte piemontese favorevole a Spagna. La suppone eziandio irritata, perchè ron solamente non siano state al Duca restituite la cittadella di Torino e le altre piazze dai Francesi contro la data fede, ma ancora con insolenza intollerabile pretendono i Francesi l’allargo dei confini di Pinerolo per la distesa di sette miglia, nelle quali vi re- sterebbero comprese le grosse terre di Vigone, di Cavour, di Bricherasio e molte altre di gran conseguenza , oltre il forte castello dell’ istesso Cavour; pretendendo di più la piazza di Carmagnola, ed i castelli di Susa e di Verrua in perpetuità di dominio, mediante la restituzione della cittadella di Torino. Ma, checchè sia dei motivi della signora, il conte consiglia il marchese di ammettere occultamente in Milano il frate Gaudio, e di trattare con lui a parole, di prefiggere alcuni articoli, e di mantenere viva in lei la lusinga del matrimonio, a fine di scoprire 1 suoi disegni politici. Ella si era altresì raccomandata ai buoni uffizi del M. di Grana ambasciadore cesareo a Madrid, ma ebbe in risposta che tal uffizio eccedeva le sue attribuzioni, e che dubitava il Re Cattolico mirasse a più alto genero. Ciò nondimeno ella, persistendo nel suo proposito , ordinò al C. di Buronzo che così scrivesse il 30 gennaio 1655 al Messerati in Madrid: Z’unico desiderio di S. A. R. (il Duca) è quello di vivere e morire umile ed obbediente servo di S. M., e-quando ella gli fucesse la grazia grande di accettarlo per figlio e genero, potrebbe disporre della persona, dei Stati, e di tutti i suoi interessi a suo intiero arbitrio, ordinando tutte le cose conforme piacerebbe e vorrebbe la Maestà Sua. Quando poi nell’anno seguente conferì col Messerati, venuto a Torino per suoi affari, si lagnò con lui dell'insolenza francese, e di alcuni dei suoi servidori pensionarii di quella corte, che le stavano attorno non per altro che per osservarla attentamente. Inoltre gli disse che, guardo la M. S. si fosse degnata di considerare il Duca suo figlio capace di aspirare al matrimonio della signora Infante, con darsene la sola parola al Pontefice, si sariano poste in braccio della clemenza di S. M. le persone, le piazze e gli interessi loro tutti, essendo cosa fucile il sor- prendere la cittadella di Torino d'improvviso , e indilatamente applicarsi 102 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA a maggiori imprese (1). Il liberarsi dalle branche di Francia per gettarsi in quelle di Spagna non è un navigar a due vele, e prova l’inettitudine della Reggente. Adunque frai motivi, che inducevano la madre a scon- certare i matrimonii del figlio, vuolsi pure annoverare il tenace proposito di lei di dargli in isposa l’infante di Spagna. $ 22. I due Principi del sangue — Dopo la morte del Duca, il Card. Maurizio, geloso del fratello , vuol fare da sè, e viene nel Genovesato. — Tommaso serive da Fiandra lettere non sediziose; più tardi viene in Italia. - Conquista provincie, mal suo grado sottoscrive una tregua per trattare un accordo. - Il negoziato si pro- lunga per le malizie nostre. — Schiettezza del Richelieu. Vengo da ultimo ai due ‘principi Maurizio e Tommaso. Amendue tendevano allo stesso scopo di aver parte nella reggenza, ma differivano nella via da prendersi, perchè differivano nel loro carattere. Maurizio nella prima sua venuta in Piemonte confidava di venir a capo del suo intendimento per via di mezzi pacifici, anzi di nozze, siccome dissi nel $ 8. Della seconda sua passata a Genova diede appena contezza al fratello in Fiandra, scrivendogli in nube di avere un'impresa grande per le mani, della quale gli darebbe poi ragguaglio. E Tommaso, appena letta l’epistola, me Za mostrò , scrive il Tesauro , dicendomi : questa sarà qualche vanità. Egli; per più ragioni, era geloso del suo germano. Primieramente per gelosia impressagli da’ suoi ministri (ed è cosa certissima) non voleva che (Tommaso) venisse (in Piemonte), per- suddendosi di poter fare ogni cosa da sè. Imoltre perchè era geloso della sua prerogativa di primo principe del sangue, e sapeva che Mad. R. non aveva genio per la Principessa di Carignano (2), la quale poteva recare qualche impiglio all’aggiustamento, che egli in estremo desiderava colla Reggente. Ma il P. Tommaso, conoscendo per lunga consuetudine il genio delicato del fratello , non solamente si guardava di dargli la (1) Nota presentata dal Messerati al sig. D. Luis de Haro, 10 maggio 1656. Questa e gli altri documenti sin qui citati, si conservano fralle carte Messerati. (2) Infatti il Principe così scriveva alla sua consorte il 15 agosto 1639: Madame commence à vouloin se mettre à la raison. Mais ce qu'elle apprehende le plus c'est votre venue (a Torino), et de quilter le C. Philippe, de qui on parle ici assez librement. PER A. PEYRON. 103 menoma sospizione di far pratiche per togliere a Madama la reggenza, e dividerla con lui, ma ancora, mandando il C. Tesauro in Italia a conferire col Maurizio, gli inculcò di certificarlo, la sua intenzione non essere di venire in Italia se non commendato da lui per servirlo colla sua persona come e dove la giudicasse opportuna (1). Così il Card. Maurizio nel primo suo viaggio in Piemonte nulla ot- tenne, e nel secondo venne sino a Chieri nuovamente tentando le vie di pacifico aggiustamento colla cognata, mentre i suoi due ministri Pasero e Messerati confidavano, ma invano, di ottenere per tradimento la piazza di Carmagnola e la cittadella di Torino. Respinto dal ducato si volse al Leganes, domandogli un nerbo di otto mila tra fanti e cavalli sotto il suo comando al soldo del Re Cattolico. Al che lo spagnuolo, ridendo, rispose lui essere ecclesiastico e non soldato. Punto da queste parole, replicò, sè essere soldato per nascita, meglio che il Card. Triulzio. Come poi il Sirvela gli dava speranze, che il fratello Tommaso verrebbe di Fiandra ad assisterlo, rispose, che 7 suo fratello non farebbe niente più di quello che egli farebbe, se avesse aiuto (2). Il buon Porporato si stimava gran capitano. Ma Tommaso, non giudicandolo tale, e te- mendo qualche sua imprudenza , giunse da Fiandra nel marzo 1639. Prima però di considerarlo come vindice de’suoi diritti in Piemonte, debbo purgarlo dalla taccia di sedizioso appostagli dalla Duchessa. Il P. Tommaso, dovendo rispondere alla cognata, che gli aveva partecipato la morte del Duca, le inviò il M. Ippolito Pallavicino latore di una lettera di condoglianza, nella quale, dopo le solite frasi , diceva così: L'on voit evidemment que les guerres continuent présentement plus pour la conservation du Card. de Richelieu, que pour l’agrandissement du Roi votre frère et de son royaume. La connoissance que j'ai des diligences que fera ledit Cardinal pour avoir des places .......me fait prendre la hardiesse de lui representer ces choses (3). Il Marchese portava eziandio lettere del Principe a D. Maurizio di Savoia, al C. di Moretta, (1) Io ricavai queste notizie da yarie scritture del C. Tesauro, confidentissimo dei due Principi, e ne conservai in carattere corsivo le parole stesse. Oltre alla stampata Origize delle querre civili, le scritture sono le sue note manoscritte apposte in margine all’esemplare del Guichenon, Mistozre Geneéal., conservato nella Biblioteca del Re ; pos le Notes et Observations du C. Tesauro sur les lettres etc., publices par Aubery, manoscritto ivi pure conservato. (2) Tesauro, Origine, pag. 56, 63. (3) Lettera di Tommaso a Cristina. Bochain, 4 novembre 1637. 104 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA al M. di Dogliani, al M. Villa, al M. di Pianezza e ad altri ; queste lettere si conservano ancora oggidì, raccolte in un fascio, nel nostro Archivio di Stato. Io le lessi tutte, e, quanto alla politica, vi trovai la sola raccomandazione a tutti di non cedere piazze ai Francesi; quanto alla persona di Madama non vi ha verbo. La lettera la più esplicita di tutte è quella diretta a D. Maurizio di Savoia, suo fratello naturale e partigiano. In essa, dopo la solita raccomandazione di non cedere piazze a Francia, osò scrivere :.Zo, dal canto mio, mi porterò » sendo necessario, dove converrà per ovviare: a sì pericoloso accidente (1). Or bene sentiamo come ella ne giudichi nella sua del 16 dicembre 1637 al M. di S. Maurizio suo ambasciadore a Parigi: Zes /ettres du Pr. Thomas aux principaux gentilhommes de cet éiat sont fort sédi- tieuses..... . Il dit que nous sommes cause de la guerre, et que, si nous ne gouvernions pas, l’état jouiroit d'un profond repos. Non si può credere che il Principe in questi primi giorni di concordia non ancora violata abbia scritto tali lettere sediziosissime , quali neppure scrisse quando , nel furore della guerra, dovendo Madama partire per Grenoble, supplicò lei, D. Felice, i d’Agliè e tutti i consiglieri dello Stato a non cedere Montmeillan a Francia. Queste lettere, che io pur lessi, sono tutte dignitose, rispettose e degne d’un capitano che guerreggiava colla spada, non con gli insulti, e neppur con frasi mordaci. Oltrecchè a tali lettere si opponeva il carattere del Principe, si opponeva eziandio la più volgar prudenza, per la quale ben prevedeva che le sue epistole ‘cadrebbero, come infatti caddero , nelle mani della Reggente. Se non che la cosa si può spiegare mediante quel notissimo detto: - Del vostro nemico datemi scritta una parola sola, io ve lo manderò al patibolo. - Fra i molti vocaboli i curiali ne appuntarono uno, e lo stirarono sino a trovare nelle sue sillabe un invito sediziosissimo, e come tale il Principe fu denunziato ai sudditi. To tralascio di riferire, perchè notissimo, quanto egli, giunto in Pie- monte, abbia operato come guerriero. Dopo aver acquistato molte provincie, ed occupato per sorpresa la stessa città di Torino (2), fu (1) La lettera fu stampata dal C. Scelopis nei Documenti della Storia del P. Tommaso, pag. 54. (2) Il Principe aveva appena occupato la città di Torino, che il Lavalette, volendo riacquistarla, preparò una vigorosa sortita dalla cittadella, e comandò a 400 soldati scelti d’attaguer la vieille ville à l’entrée de la nuit, et y allèrent avec des ffambeaux: così serisse il Guichenon, ist. Gercal., pag. 937, lasciando sospettare che Je fiaccole servirebbero nella zuffa a diradare le tenebre. Ma nel Codice S. Germanese dell’Imp. Biblioteca di Parigi, io trovai un foglio intitolato Ordre dozné PER A. PEYRON. 105 nell'agosto 1639 costretto a sottoscrivere una tregua, nella quale si iniziarono pratiche d’accordo. Nel garbuglio di questi negoziati, che sarebbero lunghi a discorrersi, chi costantemente si condusse in modo schietto ed aperto fu il Richelieu. Egli sin dai primi mesi del 1639 aveva proibito alla Duchessa di tener pratiche coi Principi, tranne per guadagnarli a Francia, nel qual caso aveva dato facoltà all’Hemery di offrir loro pensioni, matrimoni, cariche e quanto contribuir potesse al desiderato fine (1). Inoltre esigeva che i Principi riconoscessero la Duchessa come reggente e tutrice assoluta, e, volendo domiciliarsi nel Ducato, si contentassero di cariche onorifiche, le quali si accordassero colla piena sicurezza di lei e del suo pupillo. Posti questi due articoli primari di adesione a Francia e di sudditanza alla Reggente, pare che le pratiche avrebbero dovuto ben presto © riuscire ad un accordo, o rompersi. Ma così non fu. Imperocchè i Principi per l’una parte simulavano di volersi accomodare con Francia, e per l’altra parte, concedendo alla cognata di essere reggente e tutrice, doman- davano il grado di assistenti; poi venendo a specificare le loro pretensioni o trasmodavano, oppure le accomandavano a parole maliziosamente am- bigue ed elastiche. Così ad esempio scrivevano: - la Duchessa sia reggente - per inferirne poi che prima non lo era. Accettavano il titolo di assistenti, perchè il Bellone presidente del senato li aveva accertati che equivaleva a quello di contutori. Frattanto Madama consultava tutti, compreso il P. Monod carce- rato (2), ma i suoi cortigiani erano o divisi od ambigui. Filippo , sia par le Card. Lavalette pour l’attague de la ville de Turin le dernier juillet 1639, nel quale lessi così: Chaque picquier poriera une botte de paille pour mettre le feu aux maisons. Plus sera fourni è 140 picquiers douze grands flambeaux pour briler les mazsons. Così era stato deciso nel precedenie consiglio di guerra, presente la Duchessa, la quale solamente raccomandò fossero preservate le chiese e le case delle sue dame e de’ suoi ministri e cavalieri (Castiglioni, Historia, nelle aggiunte al libro V, pag. 11). Era questa la figlia di quell’Enrico IV, che non interdiceva i viveri all’asse- diata Parigi? Le fiaccole servirono appunto a rendere le truppe francesi più visibili ai nostri, che protetti dalle tenebre, ne fecero macello. (1) Aubery, pag. 260. (2) Il Discours du P. Monod, pubblicato dal C. Sclopis nei Documenti, pag. 117, sg., è appunto un consulto del quale il padre fu richiesto dalla Sovrana. Altra volta ella lo interrogò se poteva allargarsi a dare ai Principi il titolo di ‘assistenti; vedi la lettera del C. Filippo al M. di S. Ger- mano governatore di Monimeillan, 22 ottobre 1639, nel nostro Archivio di Siato. Non aveya dun- que torto il Richelieu, quando si lagnava che la Duchessa conservava il Padre in Monptmeilian per consultarlo. Serie II. Tom. XXIV. 14 7 100 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA da quando aveva consigliato che non si cedessero a Francia le tre piazze di Carmagnola, di Cherasco e di Savigliano, si era inimicato l’Hemery dopo un caloroso alterco (1); poi in Grenoble si era meritato l’odio del tonante ministro. Nella sua opposizione a Francia egli era confortato da Tommaso (2), e si dubita che per mezzo di lui maneggiasse qualche accordo con Spagna per controbilanciare la Francia. Checchè sia di ciò, egli è certo che il Richelieu lo annoverava fra coloro, che assai più temevano i nemici di Madama, di quello che amassero lei; poi, persuaso che i Principi molto si promettevano della debolezza di lui, lo voleva allontanato da Cristina (3). Il Conte vedendosi scaduto dall’antico suo credito supplicava di ritirarsi dalla corte, e di consecrarsi alla sola guerra (4). All’incontro il M. di S. Germano suo fratello parteggiava pel Richelieu, dal quale sperava nuovi favori (5). Mentre da Parigi il gran mi- nistro tuonava imponendo nuovi sacrifizi al ducato che poco soccorreva, ed allo stesso tempo Tommaso da Torino regnava su buona parte del Piemonte, e Maurizio da Nizza su tutta quella contea sino a Cuneo, egli era natural cosa che molti cortigiani, volendo aspettare gli avvenimenti per decidersi, si appigliassero al partito di logorare il tempo litigando sugli articoli d’accordo proposti dai Principi. La stessa Sovrana non ardiva di dar loro incontanente una franca ripulsa, ma ne incaricava il Richelieu, al quale trasmetteva gli articoli. E questi rispondeva, e faceva anche rispondere immediatamente dal Re, che bisognava esser cieca , nemica di se stessa, ed aver perduto il senso comune, per non respingere proposte ridicole, impertinenti e traditrici, per le quali i Principi mi- ravano a prendere respitto in guerra aspettando soccorsi da Madrid, ed a versare su di lei l’odio dei popoli travagliati dalla guerra civile. Epperò ordinava alla Sovrana di rompere que’ bei negoziati, di allontanare da sè i negoziatori, e di fare una corta dichiarazione , nella quale (i) Siri, Memorie, VIII, pag. 731. (2) Varie leltere di Tommaso a Filippo e ad altri. (3) Siri, Memorie, VIII, pag. 704, 709. Aubery, pag. 817. (4) Aubery, pag. 826. (5) I cortigiani di Madama avevano in Grenoble ricevuto regali dal Re, eccetto il S. Germano, il quale se ne lagnava ; ed il Richelieu gli fece significare così: Je ne scaurois assez m’étonner de ce gu’ il ne reconnoît pas lui-méme, quion l’a fait exprès, de peur de le rendre suspect, et pour ne donner pas moyen à ceux, qui vouloient traverser son établissement, de le pouvoir faire. S'il croît que les liberalites du Roi soient racourcies, il a grand tort. Aubery, pag. 805. PER A. PEYRON. 107 protestasse, che voleva anzi tutto essere ristabilita nell’autorità e nel possesso di prima (1). Colla stessa perentoria franchezza rispondeva ai Principi, che simula- vano di voler comporre con Francia. Nell'ottobre del 1640 VAb. Soldati andò a Parigi per trattare l’accordo del Cardinal Maurizio col Re; ritor- nato quindi a tre mesi, rese conto della sua ambasciata così scrivendo al padrone: 7 Card. di Richelieu disse risolutamente, che le pretensioni di V. A. erano impossibili e direttamente contrarie all'autorità di M. R., ed al fine di S. M., che era di sostenerla assolutamente. Che, in caso della mancanza di Madama, se V. 4. non fosse unita con S. M., non si sarebbe mai cavato il ducato dalle mani del Re. Che gli piacerebbe di staccare il P. Tommaso da Spagna, tuttavia non si fidano in modo alcuno. Dicono che i fini di lui sono diversissimi da quelli di V. 4., che solo intenda la disunione della Casa e la continuazione della guerra, non avendo che perdere, mentre vi è V. A. Che deve V. A. in ogni modo unirsi e dipendere dal patrocinio di S. M. Che, se il Duca muore in questi frangenti, dubita che Spagnuoli e Francesi avrebbono fatto per sè. Che il Re si stimerebbe infame (questa parola precisa), ed egli il più iniquo e scellerato ministro del mondo, quando si pensasse di volere opprimere, e non di conservare e mantenere lo Stato al Duca di Savoia (2). 6.23. Che il Richelieu abbia offerto ai Principi di dar loro l'autorità di reggenti, lasciandone a Madama la sola apparenza, è una ciancia. - Origine di essa. - I due fratelli perseverano uniti nel negoziare. Dacchè in questi negoziati regnò per parte di Madama e dei Prin- cipi la simulazione e la mala fede, i nostri storiografi vollero farne anche parte al gran Ministro, attribuendogli il disegno d'un abbomi- nevole tradimento, e scrissero così: Ze C. de Richelieu, irrité contre (1) Aubery, pag. 805, 820. (2) Capi di risposte fatte in Francia all’ Ab. Soldati, foglio che si conserva fralle carte Messerati. In questi capi si compendiano i dispacci del Conte Solaro, nostro ambasciadore, pubblicati dai Bazzoni, pag. 387, sg. 1 108 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA M. R., offrit aux Princes, s'ils voulaient s'attacher à Louis XIII, toute l’autorité de la regence, dont la duchesse ne conserverait que les apparences, en se retirant en Savoie (1). Che tal fiaba allora si spar- gesse fra noi lo attesta L'Ab. d’Aglièé, così scrivendo nella sua mistica lettera del 1° giugno 1639: gelsomino (M. R.) non si trova ancora al termine, che il P. Monod gli pronostica, che i raggi (Richelieu) lo metteranno in un monastero, levandogli Torino e Momelliano (2). Ma ai nostri storici sarebbe bastato un mediocre criterio politico per giudicare che il gran Ministro non avrebbe mai commesso un tale errore. Egli era sopra modo irritato contro la Duchessa, non v'ha dubbio, ma virilmente la sosteneva, non già per rispetto a lei, ma perchè Ze Roi avait interét et d'honneur et d'étut è sa conservation, et les Princes lavoient à sa perte (3). Bensì talora la minacciava di ab- bandonarla ai suoi cognati, ma scriveva all’Hemery: Z'ous pouvez croire que S. M. ne veut pîîs venir à cette extrémité (de se decharger de sa protection) aimant ‘Madame comme un autre lui-méme (4). Come mai il Cardinale avrebbe disonorato il Re nella sua cara sorella, e commesso l'onore e gli interessi di Francia a due Principi, dei quali egli non si fidò giammai, ed ordinava alla Duchessa di non fidarsene ? Io rivelerò l'origine di tal ciancia. Il P. Tommaso, addì 13 agosto 1639, così scriveva alla Pr. di Carignano a Madrid: Ze Duc de Lon- gueville me fit dire dernièrement, et M. la Comtesse me l'a fait scavoir aussi, qu'en cas que nous ne trouvions notre compte avec les Espagnols, qu'on me fera touts les partis que je voudrois en France, qu'on mettra Madame dans un monastère, et méme le Card. mon frère, quion l’obli- gera de se tenir à Rome, pour me laisser le gouvernement libre. J'ai répondu en bons termes, car ce ne sont que des artifices pour nous decrediter partout. Madame commence à vouloir se mettre à la raison, mais ce qu'elle apprehende le plus, est votre venue, et de quiiter le C. Philippe, de qui on parle par ici assez librement (5). il Duca di Longueville, desideroso di acquistare a Francia il suo cognato Tommaso, avrà ripetuto ad altri quanto significato gli aveva, la voce ne corse, e (1) Saluces, Hist. Milit. du Piemont, tom. IV, cap. 52, pag. 105. (2) Conservata nell’Archivio dello Stato. (3) Richelieu, Mémoires, lib. XXIX, pag. 268. (4) Aubery, pag. 871. (5) Lettera conservata nell’Archivio di Stato. PER A. PEYRON. 100 la cosa fu attribuita al Richelieu. A ciò contribuì pure il semplicetto Lavalette. Imperocchè, mentre Tommaso, nell’ agosto, presentava al Senato di Torino il diploma cesareo, che lo instituiva tutore, e ne otteneva, il dì 29 dello stesso mese, l’interinazione, ed ai 2 di settembre la iussione ai sudditi di ubbidirgli come a tutore (1), il Messerati aveva dato a credere al buon Lavalette, che il Principe si sarebbe aggiustato con Madama, contentandosi di segnare, non come tutore, ma come consultore nelle cose importanti, e di dimorare in Torino. Ed il Lava- lette, lieto di tal annunzio, lo significò con sua lettera del 30 di tal mese al Richelieu, opinando che tutti i patti proposti dal Principe meritavano d’essere accettati, giacchè, circa al grado di consultore, quando Tommaso non lo desiderasse, i Francesi glielo dovrebbono proporre, essendo impossibile che il Piemonte si potesse governare da Madama e suo consiglio; ed assistendovi il P. Tommaso, gli assicurava della fedeltà de’ popoli e de’ soldati (2). Anche il Lavalette, che osava dare tali consigli al Giove di Francia, li avrà ripetuti fra i suoi e fra i nostri, affermando che Madama, incapace di governare, sequestrar si doveva in qualche monastero. Terzo si aggiunga il Messerati, il quale, bazzicando con tutti, avrà pubblicato sui canti la ciancia, a fine di intimorire il Leganes, e piegarlo a concessioni verso i Principi. Frattanto, qual era il giudizio che il Richelieu portava dei Principi e della loro sincerità? Egli stesso poco stante lo manifestò scrivendo così alla Duchessa: 7 n'est pas aisé de s'accorder avec les Princes, parce qu'ls n’en ont pas la volonte, et que, quand ils l’auroieni, ils desirent des conditions qui ne s' accordent pas avec la sireté de Madame (3). i Meno probabile è il Castiglioni, il quale, nella sua 7istoria, VII, 7, colloca queste disorbitanti offerte del Richelieu come fatte da jui, in Lione, al Messerati. Infatti, come mai egli, dopo avere, il 28 settembre, detto alla Duchessa che i Principi non ‘avevano volontà alcuna di far accordo, e, quando Vavessero, trasmodavano nelle loro domande; come mai, quindici giorni dopo, avrebbe proposto da sodo e da senno al Messerati un partito, che di gran lunga eccedeva le loro pretensioni? (4) Castiglioni, Historia, lib. VI, pag. 23, sg (2) Siri, Memorie, VIII, pag. 719, sg. (3) Copie d’ecriture remise par le Roi à Madame le 28 septembre 1639, già citata, 110 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Il Cardinale probabilmente avrà col Messerati usato qualche frase lusinghiera per li suoi padroni, ove questi si accostassero a Francia; ed il Conte, tornato a Torino, se ne valse, elevando la frase al grado della voce che già correva, di annullare Madama e d’insediare Tommaso nel governo. In tutto questo maneggio io non so veder altro se non che un'arte continua di trappolarsi a vicenda; ma vedo ad un tempo il Tonante di Francia mantener sempre lo stesso programma. Più forte di tutti, non abbisognava cotanto di sottili malizie. A questa arte si riferiscono i conati, coi quali la Sovrana e la Francia procacciavano di disunire i due fratelli, offrendo loro partiti separati conformi alle loro individuali convenienze. Ma giunsero essi a separarli? Così ci darebbero quasi a credere gli storiografi, ma non seppero discernere la verità dalle simulazioni. I negoziatori avevano preso principalmente a tentare il C. Maurizio, siccome spirito debole, geloso del suo grado di primo principe del sangue, desideroso d’uno stato apparentemente magnifico, ed impaziente di scambiare la porpora con una sposa, e segnatamente colla sua nipote Ludovica. Ma, appunto per questi stessi motivi, Tommaso non cessò giammai di invigilare sopra di lui e di corroborarlo all'uopo con lettere, con messaggi, e con visite personali. Così, nel marzo 1640, mentre i negoziatori ten- tavano Maurizio, l’Argenson riferiva che il Porporato, dopo avere più volte protestato di voler procedere d’accordo con Tommaso, finalmente si era indotto a trattare all'insaputa di lui (1); che anzi correva già voce che egli avesse conchiuso .il suo accordo colla cognata. Ma la voce mentiva, e l’Argenson o troppo si vantò, ovvero non capì la simula- zione del Principe. Infatti, Tommaso, commosso da tal diceria, spedì a Nizza il M. di Bagnasco, accertò la cosa, ed il 23 marzo così scriveva : Non si può negare che non sieno grandissimi gli artificiù che accom- pagnano le negoziazioni di M. R. Tanto manca che il signor Principe Cardinale abbia conchiuso il trattato di aggiustamento e di matrimonio, che anzi, sospettito dalle importunità che gliene ha fatio l'Ab. d'Agliè, Io ha licenziato con la risoluzione di non voler determinare cosa alcuna, salvo unitamente con noi, ed avutone prima il parere (2). Io potrei citare (4) Aubery, pag. 806. (2) Conservata nelle carte Messerati, PER A. PEYRON. IIi molte altre lettere, nelle quali i due fratelli protestavano a vicenda di non separarsi; potrei allegare Memoriali a capo, nei quali l'un fratello comunicava all’altro gli articoli d’un aggiustamento per averne il parere. Che il Cardinale abbia patito, o finto di patire passeggiere oscillazioni , non lo negherei; ma in fatti non mai si disgiunse dal fratello, che stimava ed amava. 8 24. Finita la tregua, si torna alle armi. — Tommaso arrende la città di Torino. — Suoi sentimenti. — Ricusa di abboccarsi col Leganes. — Doppiezza del Sirvela. I negoziati intrapresi durante la tregua, essendo tornati vani, si ripigliarono le armi. Tommaso fu stretto d’assedio in Torino, e, dopo averlo sostenuto con molta perizia e pari coraggio, non essendo soc- corso dal Leganes, fu costretto a capitolare (1). Aveva il Richelieu caldamente raccomandato al C. di Harcourt, qu'on n’oublie rien de ce qui se pourra pour avoir la personne du Prince Thomas avec la ville, ed in tal avviso concorrevano i MM. Pianezza e Villa (2). Ma l’Harcourt, sentendo che stava per giungere il Mazarini come plenipotenziario, e temendo che egli fosse per rapirgli l’oncre di terminare gloriosamente il lungo assedio, accelerò la conclusione del trattato, che fu sottoscritto il 22 settembre 1640, con facoltà al Principe di ritirarsi in Ivrea. Pochi giorni dopo il Mazarini giunse coll’ordine del Richelieu di far prigione Tommaso, ed indispettito contra il generale perchè avesse accelerata la capitolazione, gli comandò di arrestare il Principe, che colle sorelle si era soffermato a Rivoli, essendo la Dora minacciosamente ingrossata per le cadute pioggie. Ma l’Harcourt ne lo rese sotto via avvertito, e Tommaso tosto ne partì, traversò con grave pericolo il fiume, e, postosi in salvo, si avviò colle sorelle ad Ivrea (3). I sentimenti del Principe, nel sottoscrivere la capitolazione della città di Torino, non si possono meglio conoscere che da due sue 1) L'assedio fu minutamente descritto dal Tesauro nel suo Torio assediato e non soccorso. (2) Aubery, pag. 821, 829. 3) Così narra il Tesauro nelle sue manoscritte Motes et Observations sur les lettres etc. d’ Aubery. 112 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA lettere indirizzate al confidentissimo Messerati immediatamente dopo la resa. Nella prima, del 23 settembre, gli scriveva così: Direte al sig. Marchese (Leganes) che î Ministri di S. M. Cristianissima offeriscono la restituzione delle piazze che hanno occupato ..... purchè S. M. Cattolica ne faccia altrettanto, e che per questo ne hanno già l'autorità conveniente. L'offerta è veramente avvantaggiosa per noi, ma non meno considerabile alla Maestà Sua ..... Pregherete il sig. Marchese di concorrere în questa reciproca restituzione.....e, se egli vi dirà di non avere autorità, soggiungerete che siamo risoluti di mandare in Spagna ..... e che per tal effetto abbiamo capitolato con i Francesi, che ci daranno tempo conveniente. .... Gli direte ancora, che, avendo io provato la poca volontà che egli ebbe di soccorrere il P. Cardinale in Cuneo, dove lo lasciava perdere, e come ha trattato me in questa città, ho stimato bene di aggiustare con î Francesi che non attacchino le nostre piazze, per non sottomettermi di nuovo al rischio di essere abbandonato ed esposto alla discrezione de’ nemici. Ed in altra del 29 settembre da Torino gli diceva: Si è andato trattenendo la negozia- zione sino all’estremità, e sino a tanto che si vedesse a che si risolveva i sig. M. di Leganes; e finalmente, vedendo che non occorreva più sperare soccorso, e che dall’altro canto il sig. D. Antonio Sotello mi disse che la sua gente si moriva, e che sforzatamente conveniva pigliarvi qualche temperamento, non avendo altro medio, mandassimo di sua partecipazione a serrar il trattato della reddizione sotto le migliori condizioni che è stato possibile per le genti di S. M., e così noî ci impegnassimo di parola per non poter far altro. Sinora si è contrastato sul punto di render la piazza al Duca e non al Re di Francia. A nessuno tocca più questo capo che a noi, e perciò non si è omessa alcuna diligenza; sendo stati costretti di consentirvi sotto questa mo- derazione, di lasciare la piazza nelle mani det C. d° Harcourt per rimetierla poscia a M. R. Quanto al vederci col sig. Marchese (di Leganes) in questa uscita, il dolore è tanto aspero per adesso, che, non ammettendo lenimento per questo tempo, stimerei doversi più esa- cerbare la piaga il vedermi così presto con il sig. Marchese, che di riceverne consolazione. Subito che le signore Infanti (le sorelle del Principe) saranno in luogo della loro residenza, dove siamo obbligati condurle, potremo abboccarci prima con il sig. C. di Sirvela e con vot. Alla vostra venuta ne concerteremo il luogo ed il tempo per farglielo PER A. PEYRON. I13 poi sapere. E se intanto sentiste” parlare che quei signori volessero venire ad incontrarci e vederci în strada, procurerete divertirli, perchè sarebbe, oltre le ragioni suddette, di grandissimo disturbo ed impedimento ed incomodità agli uni ed agli altri, dovendosi negoziar in luogo di riposo. IL che tutto farete sapere al sig. Marchese ed al sig. C. di Sir- vela liberamente, Il Principe, conforme a ciò che aveva scritto nella prima sua lettera, tosto fece compilare, e mandò a Madrid, una lunga sua rimo- stranza, intitolata: Scrittura per Spagna fatta li 26 settembre 1640 (1). In essa, dopo aver dimostrato che il Leganes, ricusando di soccor- rerlo, fu quegli che lo costrinse ad arrendere la piazza, riferisce che i Francesi sono pronti a restituire le piazze, purchè il Re Cattolico ne faccia altrettanto. Quindi dimostra che tal partito è pure somma- mente vantaggioso a Spagna, e supplica il Re a restituire al Duca le sue. È inutile il dire che a Madrid non si tenne conto alcuno della Scrittura. Frattanto Tommaso, in Ivrea, persisteva ricusando di abboccarsi col Leganes, ed il Messerati, da Milano, così scriveva il 15 ottobre al suo padrone: /Z C. di Sirvela mi ha pigliato due volte alle strette questa mattina, dicendomi che per amor di Dio supplicassi con le mani giunte V. A. di vedersi col sig. Marchese, e di non lasciare presso a° Francesi ed al cospetto del monilo l'impressione dei disgusti che passano, ma che si compiaccia di vederlo, e poi fare in Spagna il fatto suo, soggiungen- domi cento altre cose. Ed anche: Dopo il fatto il pentir non giova; ciò avviene al Marchese, il quale ier sera, travagliandosi di non aver creduto in tempo gli avvisi di V. A., che per mio mezzo le diede, esortandolo di acconsentire, anzi di cooperare all’ aggiustamento di V. A. R. con Madama R., si disperava conoscendo che dal Re e da intia la monarchia saranno addossate a lui tutte le perdite e tutte le rovine della Corona. Queste erano le solite lustre dei due Spagnuoli insigni per doppiezza. Il Lesanes fingeva di pentirsi, il Sirvela simulava di condannare il collega, amendue procacciavano di abbonire il Prin- cipe; e l'Olivares, terzo fra cotanta doppiezza, leniva Tommaso con lusinghiere parole, pronti tutti e tre a nuovamente tradirlo. (1) Si conserva fralle carte Messerati. Serie IL Tom. XXIV. (ni 114 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA S 25. Tommaso in Ivrea è costretto dal Mazarini a sottoscrivere il trattato di sua adesione a Francia. - Lo disdice. - Sua apologia. In questo mezzo era giunto a Torino monsignore Mazarini. Egli , avendo riacceso nel Richelieu la perduta speranza di conquistare i Principi a Francia, aveva ottenuto da lui di venire per tal fine in Piemonte. Giunto, iniziò le pratiche col solo Tommaso, e cotanto lo sirinse, che lo indusse a sottoscrivere il 2 dicembre la sua adesione a Francia, da tenersi segreta sino all'ultimo dì di febbraio. Venuto questo giorno , il Principe mandò a significare al Mazarini il suo recesso dal sottoscritto trattato ; poi, volendo giustificare il suo mancamento di fede, ordinò che si compilassero scritiure apologetiche. Due di queste furono pubblicate dal Siri nel Mercurio, tom. I, pag. 210 sg.; una delle quali si conserva tuttora nelle carte Messerati; due pure ne con- serva l'Archivio dello Stato. Ma le carte anzidette ce ne somministrano una terza, che comincia colle parole Durante la tregua colla dedizione di Torino, oltre a varii schizzi di discolpa (1). Diverse nel dettato e nell’ampiezza dei fatti narrati e delle ragioni addotte, concordano tutte nelle cose principali. Di queste io soggiungo un sunto, attenendomi spe- cialmente alla terza più lunga e più particolarizzata di tutte, che parvemi la più sincera nel rivelare le mene e l’animo di Tommaso. Ne conserverò le parole e le frasi più significative, cangiando soltanto la terza persona nella prima. Mentre si trattava la resa di Torino, i ministri francesi mi proposero che restituirebbero al Duca , sotto la reggenza di Madama, le piazze da essi occupate, purchè gli Spagnuoli ne facessero altrettanto. Che se ricusassero, io dovessi accostarmi a Francia, con condizioni a me ed ai figli vantaggiosissime. Io accettai la proposta, sperando che, venendo pure la restituzione accettata da Spagna, io non sarei obbligato a di- scostarmi da lei. Dichiarai inoltre che, volendo io prima inviare nella corte di Spagna a chiedere la restituzione della Principessa e dei figli, ®) Queste scritture stanno raccolte nel mazzo n° 29. PER A. PEYRON. 115 la nosira negoziazione dovesse tenersi segreta, affinchè , risaputa in quella corte, non ritardasse od impedisse la restituzione della consorte e famiglia. Poi tosto significai ai ministri di Lombardia e di Madrid l'offerta restituzione delle piazze, instando acciocchè fosse da essi ricam- biata. Ma il Sirvela, venuto in Ivrea, mi offriva un esercito per ricu- perare le piazze dei Francesi, e mi prometteva la restituzione della Principessa ed altri avvantaggi, purchè io perseverassi sotto la protezione di Spagna. Oltrecchè tali proposte non mi parevano sincere, egli, sol- lecitato da me a dare una risposta certa sul rimettere le piazze, andava tergiversando, e da ultimo confessava di non avere sufficiente fucoltà di promettere. Per altra parte il Mazarini urgentemente pressava perchè io facessi una dichiarazione, ed accompagnava le parole con dimostrazioni vigorose e poco men che minaccevoli. La città, nella quale io stava, mal fortificata , sprovveduta di combattenti e di munizioni, non avrebbe retto contra gli insulti francesi. Dagli Spagnuoli io non poteva, per le prove già fattene, promettermi nè vivi nè sicuri soccorsi. Trovandomi io così mal parato, e volendo sottrarmi alla sovrastante rovina, non trovai miglior riparo, e fui costretto sul principio di dicembre a sottoscrivere le seguenti condizioni. Mi metterei sotto la pro- tezione di Francia. Passerei per tutta la metà del prossimo gennaro personalmente a Parigi. Manderei nella corte di Spagna a chiedere la moglie, i figli e la restituzione delle piazze. Non compiaciuto nelle mie domande, servirei il re Cristianissimo in Italia contro Spagna. Compia- ciuto , sarei libero dall’obbliso di guerreggiare contra Spagna, ma dovrei rimanere sotto la protezione di Francia. All'incontro il Re si obbligava a mantenere nei maschi della Casa di Savoia la successione degli Stati; a restituire le piazze da sè tenute al Duca sotto la reggenza di Madama, purchè Spagna restituisse le sue. Oltre ad altre agevolezze , prometteva pensioni a me, alla consorte ed ai figli, a conto delle quali mi fu sborsata una benchè piccola somma. Restava però come prima appuntata la se- gretezza della convenzione, e la tregua fu prorogata sino a tutto il mese di febbraio. Inoltre a parole, non in iscritto, io promisi di consegnare ai Francesi il castello d'Asti. Di tutte queste cose convenute non mi fu permesso di darne parte al fratello Cardinale, tanta fu la premura colla quale questo trattato fu conchiuso. Ma quanto era stata grande la violenza meco usata, tanto maggiore era in me la renitenza circa l'osservanza ed esecuzione delle cose accordate 150 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA (queste parole della terza apologia sono precise). La consegnazione del castello non ebbe effetto. Venuto il tempo, non mi curai di partir per Parigi, anzi mi recai a Nizza per trattar col fratello delle comuni occorrenze; e tosto vi giunse pure il Mazarini per sollecitar me ad osservar l'accordo, ed il fratello ad entrarvi. I Ministri spagnuoli, avendoci finalmente risposto che erano pronti a restituire le piazze al Duca, ma sotto la reggenza de’ Principi, noi comunicammo al Mazarini tal risposta. Egli, stomacato, qualificò la risposta come ridicola, incre- dibile, e da noi procurata. Noi gli rimostrammo non essere ridicolo che, siccome Francia restituiva al Duca per mezzo di Madama, così Spagna restituisse al Duca per mezzo di noi. Francia, ricusando tal proposta, dichiarerebbe che non si fidava di noi (1). Noi tuttavia lo pregammo a proporre qualche temperamento, col quale si potesse tirar avanti la negoziazione, essendo noi pronti ad abbracciarlo. Ma non giovarono le nostre instanze, perchè I Ambasciatore ritornò in Piemonte. Per la partenza di lui sembrandoci rotta ogni pratica, tanto più deliberammo di rimanere nell'aderenza di Spagna, quanto più dal Mes- serati ritornato da Madrid ricevemmo partiti di molta nostra soddisfazione, oltre all'annunzio che il Leganes era rivocato dal governo di Lombardia, e surrogato dal C. di Sirvela molto grato a noi e confidente; così cessò la nostra diffidenza rispetto ai ministri spagnuoli. Per altra parte, essendo partiti per Francia il Mazarini, il d'Harcourt, l'Argenson e molii altri capitani, epperò indebolite le loro forze, era cessato in me quel timore che mi aveva forzato a capitolare, e noi potevamo con maggior libertà e sicurezza disporre di noi medesimi. Pensammo ai casi nostri, e risol- vemmo di star uniti a Spagna. Volendo poi dipartirci dagli accordi convenuti con Francia, pigliammo occasione dalla notizia da noi ricevuta, (1) Così sta nell’Apologia pubbiicata dal Siri. Ma nella terza conservata fralle carte Messerati sì dice soltanto che i Principi gli risposero .su/ficieziemente; poi viene la, seguente giudiziosa esser- vazione: Chi sinceramente vorrà il fondo di questo negozio penetrare, troverà la proposta degli Spa- gnuolì essere stata in tutto contraria alla convenzione stipulata, mella quale sì trattò che le piazze fossero da tutti consegnate al Duca sotto la reggenza di Madama, ma non che Pun re sotto la reg- genza dî Madama, e l’altro sotto quella de? Principi restituisse; la discrepanza era tale e taria, che impraticabile ogni temperamento rendeva. .... Ciò produceva uno scisma nello Stato, discordie, tumulti e guerre, più delle passate, scandalose. Dunque la proposta degli Spagnuoli, bella în apparenza, an- lando a dare a termini rovinosi, non era capace di alcun-moderamento allo.stato delle cose convenevole. PER A. PEYRON. 1Ì7 che i Francesi avevano nella corte di Spagna pubblicamente da per iutto divulgato i patti dell'accordo, donde era derivato il rifiuto di Spagna di rendermi la consorte ed i figli. Noi sospettammo che tal divulgazione fosse stata una malizia dei Francesi, affinchè io, irritato pel rifiuto, mi alienassi maggiormente da Spagna, e mi aderissi costante a Francia. Inoltre, quanto a me, io mi lagnai che il Mazarini, volendo impa- dronirsi della mia persona, mi aveva teso insidie nel ritorno ch'io feci da Nizza in Piemonte, Soggiunsi che l’Argenson giù prima aveva ricevuto tal ordine, siccome raccolsi da un'instruzione da me trovata nelle carte di lui fatto prigioniero sotto Casale. Che il Richelieu, al sentire la dedi- zione di Torino, dimostrò maggior noia ch'io fossi uscito libero dalla città, che non allegrezza per averla conquistata. Mi atterriva ancora la fede incerta del Richelieu, acerbissimo nemico di mia casa, e di quanti resistessero alla grandezza del Re, perseguitandoli con odio implacabile, nè tralasciando mezzo alcuno per vendicarsene. Per questi motivi mi era sembrato di aver giusta ragione di non andar nella corte di Francia , conforme alla convenzione passata col Mazarini. I ministri di Francia, come intesero da noi non essere più luogo alle capitolazioni accordate , perchè avevano violato il segreto pubbli- candole, si sdegnarono altamente, e sopra tutti it Mazarini, il quale sî era nella corte dato vanto di avermi finalmente fatto venire nelle parti del Re, ed ordinò ch'io fossi assalito neliu città d'Ivrea, affinchè scacciato dalla mia residenza mancassi d'ogni rifugio. In que tempi il M. Villa comandante delle truppe francesi espugnò il castello di Moncalvo, ma il castello se non si fosse così presto arreso, sarebbe stato soccorso dal C. di Siryela. Così termina ia terza apologia , che pareva avviata a warrare altre iazioni di guerra, ma la narrazione fu troncata. Per render compiuto il racconto di questo maneggio, io rammento Ja nota .del Tesauro da me allegata pag. 86, nota 4. Il Mazarini, impaziente di espugnare il Principe, gli presentò più volte gli articoli della conven- zione, affinchè sottoserivendoli impegnasse da sua parola, ed il Principe una volta, non trovando più modo di schermirsene, stava già colla penna in mano, quando soprassedette dicendo che il C. Filippo, suo gran nemico onnipotente presso la Sovrana, avrebbe renduto vano ogni accordo. Questo fu un pretesto. Imperocchè egli, stretto dall’urgente Mazarini , 118 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA. sottoscrisse il 27 novembre privatamente l’accordo (1); poi due giorni dopo spedi a Nizza il C. di Mussano con una lettera al fratello, nella quale diceva: Forzato, io ho signato le scritture. Sono però in stato poco men libero di prima. .... Vediamoci, ponderiamo lo stato delle cose... .. poi determiniamo di gettarci da quella parte che giudicheremo migliore. Ed il Cardinale da Nizza gli rispondeva il dì 9g dicembre: Zo vado trat- tando col Moneti......e tirando avanti il negozio per dar tempo al tempo di accomodare le cose nostre, e per non rompere prima che siamo ben provvisti, caso che ci risolvessimo di accostarci agli Spagnuoli. Per le cose sin qui discorse rimane evidentissimo, che il P. Tommaso dapprima con vari pretesti eludeva le stringenti instanze dell’amba- sciadore; poi forzato firmò il 27 novembre in forma privata l'accordo, e ciò non di meno si credeva poco men libero che prima; da ultimo il 2 dicembre sottoscrisse il trattato colle forme diplomatiche, ma con animo di romperlo. Lo violò in fatti, ricusando di partir per Parigi a mezzo gennaio, non osservò la verbale promessa di lasciare che i Francesi espugnassero il castello d’Asti , ed al finir della tregua disdisse solen- nemente il trattato , allegando che Francia, violando la data fede , Io avesse divulgato anzi tempo in Madrid, donde derivò che Spagna ricusò di ridonargli la Principessa e la prole. Questo pretesto, quanto più è frivolo e falso, tanto più aggrava la causa del Principe. Imperocchè la sola andata di lui a Parigi, che non poteva rimaner occulta nè al Piemonte nè agli Spagnuoli, sarebbe stata bastante perchè tutti ne inferissero che l'accordo era o sottoscritto, od almeno inteso. Inoltre egli non ignorava che il Mazarini gli aveva scritto così: I viaggio di V. A. in Francia fu forza di pubblicarlo, perchè, avendo S. M. desiderato che ella fosse straordinariamente onorata nelli suoi regni, e credendo che partirebbe alli 15 gennaio, spedì alli 7 corrieri espressi alli governatori di Lione e del Delfinato, per ordinar loro di ben servirla nel passaggio (2). Adunque il Principe, quando sottoscrisse la sua andata a Parigi, sottoscriveva pure che l'accordo fosse divulgato sin dal gennaio. La Spagna poi ricusò allora di restituirgli la Principessa ed i figli, perchè anche per l’addietro aveva sempre respinto tal sua domanda; e, quando volle fingersi cortese, aveva apposto la condizione (4) Questa scrittura sì conserva fralle carte Messerati. (2) Lettera del Mazarini a Tommaso, da Torino, 16 febbraio 1641 PER A. PEYRON. 119 che la madre ed i figli risiederebbero in Vercelli, a patto di non uscirne. Quindi il Principe ben sapeva che come ostaggi della sua fedeltà era la sua famiglia gelosamente tenuta in Madrid. Finalmente l’articolo quinto, del trattato stabiliva che, sebbene il Re di Spagna non acconsentisse alla restituzione della Principessa e della prole, ovvero il loro ritorno per qualunque motivo o pretesto non si recasse ad effetto entro tutto il mese di febbraio , il Principe nientemeno rimarrebbe nella parte di Francia, e dovrebbe inoltre servire il Re in Italia contra gli Spagnuoli (1). L'anticipata divulgazione dell’accordo , e la ritenzione della Principessa in Madrid , furono due conseguenze, che necessariamente derivavano dagli articoli maliziosamente dettati dal Mazarini, a fine di arreticare il Principe, e precludergli ogni scampo. Quindi a lui, per violare il trattato, altra apologia non rimaneva che dire, il timore gravissimo mi costrinse a sottoscriverlo. Per tal mancamento di fede alte lagnanze si elevarono in Parigi. Ma che la Sovrana ed i suoi cortigiani abbiano allora acerbamente declamato , ed ingiunto ai venali storici di declamare contro a Tommaso, questo è intollerabile. Anche la Sovrana in Grenoble molto aveva pro- messo al Richelieu, ma, quando le promesse ratificar si dovevano , ella da Ciambery le ritrattò, dicendo che, stando in Grenoble nelle forze di Francia, poteva dubitare di qualche incontro, se non prometteva (2). Ora, se il solo dubbio d'un cattivo incontro basta per ritrattare la fede data, quanto più la certezza. Nè a lei, nè alla sua consorteria si aspet- tava di lanciar la pietra contro al fedifrago. S 26. Tommaso ritorna alle armi; perde — Si rinnovano i negoziati per un aggiusta- mento. — I Principi vi ripugnano. — Lo sottoscrivono. - La riconciliazione è solo apparente. Tommaso, come ebbe disdetto il suo trattato con Francia, tornò alle armi. Quali perdite abbiano fatte i Principi dopo il febbraio 1641, come sieno stati delusi dal Sirvela, ritroso a somministrar loro armi e 1) Il trattato di Tommaso fu pubblicato dal Siri nel suo Mercurzo, lib, II, pag. 190, sg. 2) Vedi sopra pag. 95. 120 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA danaro, è come si sieno rivolti a Madrid, iò lo esposi più sopra S 16. Stava Tommaso inerte iti Ivrea in evidente pericolo di esservi sorpreso dai Francesi, e Maurizio in Nizza non altrimenti si difendeva da Francia che col minacciarla che assalito arrenderebbe a Spagna la città ed il castello (1). Posti in questa misera condizione, si mostrarono più pro- pensi a calare ad accordo colla Reggente e colla Francia. In questi negoziati molti personaggi furono adoperati dalla Duchessa, c molte sono le loro relazioni. Oltre a quelle, chie si conservano negli Archivi dello Stato, io avverto che la Biblioteca Reale possede il car- teggio di Monsignor Cecchinelli, Nunzio della $. Sede presso noi appunto negli anni 1641-44, e possede inoltre copia delle carte del Canoniéo Giulio Cesare Bergera, Vicario capitolare della diocesi di Torino, che dal novembre 1641 in poi si recò sovente in Ivrea per ordine della Duchessa a trattare l'accordo con Tommaso. Lungo, noioso ed inutile sarebbe il riferire i particolari di queste pratiche, clie condotte per nove e più mesi, il Cecchinelli a buòna ragione le chiamava simbolo d'un labirinto. lo dirò solo in generale: che le pratiche si prolungarono sì per la diffidenza reciproca tra le due parti, e sì per puntigli d’onofe. Che niuno dei due Principi non sottoscrisse mai carta alcuna, salvochè colla riserva del consentiniento dell’altro. Che Francia, sebbene irritata contro a Tommaso, tuttavia mantenne sempre a favore di lui e del fratello gli stessi vantaggiosi partiti , che prima del recesso aveva loro profferti. Finalmente il 14 giugno 1642 i Principi sottoscrissero il loro aggiustamento colla Duchessa e la loro adesione a Francia; poi in un Manifesto dichiararono all’ Europa i motivi che li indussero ad abban- donare Spagna (2). Che il Principe Tommaso, sagace qual era, abbia durato gran tempo a separarsi dalla perfida Spagna, non dee recar meraviglia. Anzi tutto egli odiava la Francia. Imperocchè egli, giovane ancora, aveva offerto i suoi servigi alla Francia, ma furono respinti dal Richelieu. Accasatosi colla Pr. Maria di Soissons, divideva coi nuovi parenti lastio di famiglia contro al gran Cardinale. Principe del sangue, contrastava a quel predominio , che la Francia per gli intrighi della cognata acquistava ogni dì più sul ducato. (1) Siri, Mercurio, tom. I, pag. 210. (2) Il manifesto fu pubblicato dal Siri, Mercurio, tom. 11, lib. 2, pag. 696. PER A. PEYRON. 12I Per questa sua opposizione, obbligato ad esulare dalla patria, offrì i suoi servigi alla Spagna, che volentieri li accettò. Nominato generalissimo delle sue truppe in Fiandra, entrò talmente innanzi nella stima e nella confidenza del Gardinale Infante e della Regina madre di Luigi XIII, che divenne l’intimo consigliere di amendue, et, ce qui est rare, c'est qu'il fut favori et presque premier ministre, sans qu'il en etit le moindre soupcon (1); così nella Fiandra, sia per dovere, sia per antipatia, osteg- giava la Francia. La riputazione colà acquistata gli conciliò la stima e la benevolenza del ministero spagnuolo. Fondato su questa egli venne in Italia nel 1639. Contrariato a prima giunta dal Leganes sperò di vincerlo con forti fatti e con pronte conquiste di città e di provincie; ma ciò appunto accendeva giustizia in Lombardia, si volse a Madrid, così consigliato dal De Melo e dal Sirvela vieppiù la gelosia del governatore. Disperatosi di ottenere mediatori ipocriti, e speranzoso di ritrovare nel Conte Duca Olivares quel ministro che aveva sempre sperimentato benevolo; ma si ingannò. L’Olivares professava quell’ urbanità, che, senza negare, sapeva non esaudire. Egli, giovandosi delle angustie della lunga trafila uffiziale , godeva anzi tutto del benefizio del tempo, poi a grande suo agio rispon- deva verbalmente, annunziando ordini già dati ed altri da irasmettersi, e condiva l’annunzio con tali blandissime parole, che insinuavano in altrui speranze vie maggiori. Le sue lettere ostensibili ai Principi non impegnavano mai la sua parola, ma erano olle podride di adulatorie frasi nauseanti. Lo stesso Messerati, che nei primi mesi del suo arrivo a Madrid, impaziente degli indugi, scriveva lettere sconfortanti, finiva sempre per partirne soddisfatto e conquiso dal lusinghiero diplomatico. Tornato in Piemonte, riconfortava il Principe già esitante. Egli fu che, giunto da Spagna , contribuì ad indurlo a recedere dal trattato con Francia; e, se Tommaso definitivamente nel giugno 1642 abbandonò Spagna, ciò avvenne mentre il Conte stava da nove mesi in Madrid (2). La longanimità del Principe nel soffrire le onte di Spagna è in parte dovuta ai consigli del suo prediletto agente. Finalmente a mantenere i Principi nel loro primo proposito contribuì (4) Memoires de la Duchesse de Nemours, 3° partie. (2) Se il Messerati si fosse trovato in Piemonte, i Principi non si sarebbero accostati a Francia. Lettera del M. del Carretto al C. Galasso, 2 settembre 1642. Serie II. Tom. XXIV. 16 122 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA la ripugnanza che provavano di riconciliarsi colla autrice del loro esilio, colla cognata di riprovevole condotta, colla madre di prole creduta almeno dubbia, colla usurpatrice dei loro diritti alla reggenza, e colla scialacquatrice del pubblico danaro per arricchire i suoi favoriti, e per elevare pubblici monumenti a sè. Se non che il Pr. Maurizio, in grazia della sposa sospirata, perdonava facilmente alla suocera che sacrificava la figlia. Ma Tommaso, a modo del malato che ratta ingola la pillola amara, parti improvviso a cavallo da Ivrea, accompagnato da due soli servitori, inaspettato colse Cristina a diporto presso Torino, balzò a terra, le baciò la mano, e la sorpresa somministrò tema e vivacità alle accoglienze. Poi ripartì per un consiglio di guerra appuntato coi generali francesi (1). La riconciliazione non fu che apparente , del che molte cause ad- durre si potrebbero, ma il nunzio Cecchinelli le rivocava tutte ala gelosia della Reggente. Ambiziosa di comando , ristringeva il governo in sè sola, assistita dai docili suoi favoriti, nè chiamava a consiglio i cognati, od altrimenti mostrava di tenerli in conto. Epperò Maurizio , vedendosi ridotto al grado di semplice privato, e negletto nel suo palazzo , che tutti evitavano per non cader in sospetto , si fermò di domiciliarsi in Nizza, dove esercitava un’ombra di comando. Tommaso, voltosi alla guerra, trovò nelle armi la prediletta sua professione , e nella stima è nel riverente affetto dei generali francesi trovò il compenso del superbo disdegno della Reggente e degli aulici. Che anzi il Re Cristianissimo lo aveva accolto in Parigi con singolari dimostrazioni di affetto, e lo aveva investito del Tortonese come di feudo. Se non che gli onori de’ Francesi erano acute trafitte al cuore della gelosa Duchessa. Ella, sentendolo nominato generalissimo delle armi di Francia in Piemonte, ardì di lagnarsene, rimostrando che Tommaso era suo vassallo e dipendente. Ma, anzichè compendiare ed unire , siccome fo, varii brani del car- teggio diplomatico del Cecchinelli (2), io citerò le sue parole del dispaccio del 7 ottobre 1642 al Card. Barberino: Continuano le diffidenze fra la sig” Duchessa e li sig." Principi suoi cognati. Io non ho mancato di fare più volte uffizii di buon servitore colla Duchessa . ...ma invano, perchè si conosce, che S. A. vuol esser sola nell'esercizio del comando. . . (1) Casliglioni, Zstoria, supplemento al lib. IX, pag. 35; e Siri, Mercurio, tom. 3, lib. 2, p. 636. 2) Lettere del 31 dicembre 1642, 1° luglio ‘e 8 dicembre 1643. PER A. PEYRON. 123 ella mi rispose con concetti dimostranti diffidenza grande. E che questa Principessa sia pessimamente consigliata, apparisce ciò anche nel governo medesimo , perchè colletta, disperde e dissipa senza meta, onde è tanto mal veduta da tutto il Piemonte, che pubblicamente dicono, che non avranno mai bene sino che essa governerà, e, se non avessero speranza di qualche moderazione col mezzo delle negotiationi in Francia del P. Tommaso, direbbero peggio. Ma i consigli di Francia, massimamente se suggeriti da Tommaso, sarebbero stati delusi dalla Reggente, e dai suoi favoriti cospirati a regnare con lei. Regnavano. Ma quando il C. Filippo, rilasciato dal Card. Mazarini , stava per rientrare in Piemonte, allora, parla di nuovo il Cecchinelli: il suo muovo accesso mise più in pubblico le cose occulte, e fece apparire le disunioni dei favoriti, es- sendosi fatta una fazione contro la Casa d’ Agliè dal conte Tana (1). Questi trionfò del suo predecessore, e si mantenne nel godersi i su- premi favori della Sovrana, perchè alla bassezza deil’adulazione accoppiava la galanteria. * 8 27. Conclusione. Giunto al termine delle mie Notizie le chiuderò con qualche osser- vazione e consiglio. La Duchessa Cristina, ambiziosa di passare rinomata in aeternitate temporum, fama rerum, aveva comandata la storia della sua reggenza al Guichenon ; e non contenta che nella storia genealogica il suo nome accompagnasse come satellite gli articoli intitolati al marito ed a’ due figli, volle che come pianeta rifulgesse in una speciale biografia. Ml Guichenon ubbidì , e scrisse il Soleil dans son apogee, ma fu un sole che neppure spuntò sul balzo d’oriente ; imperocchè la sua scrittura , appena nata, andò ad intanarsi in una straniera biblioteca, rimanendovi ignota per due secoli. Non l’avessi io mai trovata, chè queste notizie non sarebbero nate! Miglior sorte toccò alla Mistoire Genéalogique, grazie al Marchese di Pianezza. Questi, complice ed esecutore della condotta politica della (1) Lettera del 4 novembre 1643. 124 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Reggente, aveva non solo interesse a difenderne gli atti, ma ancora mirava a rifletterne sopra di sè la gloria principale. Per tal fine egli, dopo la morte del P. Tommaso, aveva dettato una /struzione agli historici, nella quale non risparmiava il Card. di Richelieu, e gettava a piene mani il vitupero sui Principi e massimamente sopra Tommaso. L’ Istruzione fa da lui comunicata al Guichenon e ad altri per loro regola. Come poi seppe che un ab. Manzini disegnava di entrare nell’ar- ringo degli storici, sollecito gli mandò la sua Verrina. L’Abate, scanda- lizzato d'una malignità così evidente, la portò subito al P. Maurizio, il quale ne fece fare una copia, e la consegnò di propria mano a me (C. Tesauro), per concertare una condegna risposta. Così narra il C. Tesauro (1), soggiungendo che il Manzini partì risoluto di scrivere per Za verità, ma la morte troncò il suo disegno. La risposta comparve anonima col titolo: Z fasti bugiardi del M. di Pianezza contro la sempre riverita memoria del sig. P. Tommaso di Savoia; non vha dubbio che il Tesauro ne fu almeno il principale inspiratore. Egli è pure un fatto storico, che in calce dell’ultimo volume d’un'edi- zione degli Annales Ecclesiastici di Enrico Spondano si legge un’infame aggiunta di poche linee intitolata Romae Sabaudiae iniquitas, la quale ha tanto che fare col libro, come Enea con S. Antonio. Gli annali ter- minano coll’anno 1600 , e l’aggiunta parla del 1639; quelli riguardano i soli affari ecclesiastici, e questa le vendette degli aulici piemontesi. Chi comandò l’inserzione di tale stravagante appendice, che eccitò poi il Tesauro a confutarla nella sua Origine delle guerre civili? Parimente si stampava, credo in Torino, nel 1639 la latina Epitome del Torsellini ad uso dei ragazzi studenti di latinità, ed in calce a questa si aggiunse pure l’intero testo dello Spondano. Chi mai ordinò tal innesto? L'antica consorteria. Questa, dopo avere tribolato Tommaso vivente, si industriava con ogni arte a denigrarlo morto. Tralascio l'influenza, che il Marchese e suoi complici abbiano eser- citata sul Brusoni, sul Capriata, sul Castiglioni e su altri, e dico che il Guichenon si sottomise vilmente all’istruzione, siccome attesta il suo contemporaneo Leger, scrivendo: Je scaîs de certaine science que Gui- chenon n'a pas osé coucher dans son livre une ligne, qui n’ait éte criblee (1) Nelle sue note manoscritte sull’/ist. Gerealogigue del Guichenon: e nella Prefazione all’Ori- gine delle querre civili. PER A. PEYRON. 125 et recriblee à Turin, ni pu refuser d'y fourrer tout ce que répondoient les oracles du marquis de Pianesse et du president Trucquis; et j'ai en main de quoi le prouver (1). Io non dubito che il Guichenon nel primo abbozzo de’ suoi articoli relativi alla reggenza si sia allargato in calunnie amplificando l'istruzione; ma il Marchese , riflettendo che le troppe esorbitanze tolgono fede all’autore , crivellò e ricrivellò la scrittura per modo da obbligare l’adulazione e la calunnia ad osservare la probabilità morale. Così la menzogna incredibile nel Soleil riuscì, grazie al crivello, credibile nella /istoîre. Questa storia fu essa creduta? Sparsa largamente nel ducato, impu- gnata da pochi, costretti, come il Tesauro, a stampare all’estero le loro confutazioni, compendiata pecorilmente da molti, rifatta da pochi riguar- dosi nel contraddire alle celebrità del regnante ramo di Savoia, non mai confrontata con abbondanti documenti esteri, ottenne facilmente credenza presso il volgo dei lettori. Ma per lo contrario presso le classi minori della nazione si levò contemporanea una acerba fama contra la Duchessa. Il popolo oppresso da una guerra sterminatrice delle persone e degli averi, condannato a sopportar solo il tributo che la sostentava, sdegnato perchè il povero erario era dissipato in edifizi fastosi, in feste insultanti, e nel sollevare a ricco stato esosi adulatori, ma sopra tutto scandalizzato per la pubblica condotta della Reggente, prese , disse il Richelieu, a sprezzarla, e quindi ad odiarla. Io dirò che il popolo verso di lei, come sovrana, si contenne paziente, riserbando la sua stima, i suoi affetti ed i suoi voti per li Principi del sangue, e, come donna, ne sparlò libe- ramente fino a farne una maga, ed a scambiare le sue ville in castelli incantati. Quando poi comparvero alla luce le postume scritture del Richelieu, allora ella, stata sublimata al carro del sole nel suo apogeo, fu dall’irato Olimpio precipitata, come Icaro, nelle onde del Po. Cotali (1) Jean Leger, Histoire générale des Églises évangéligues des Vallées, parte 2°, pag. 68. Lo stesso Autore ci insegna che il Guichenon est né lui-méme et a été nourri dans la religion ré- formée, et il a fait ses études avec le susdit Léger (collo zio Antonio principale ministro valdese), dont il s'était montré gran camarade, comme le méme sieur Léger me l’a dit de sa propre bouche. Mais, depuis, pour parvenir aux honneurs où il est maintenant, il a tournée cazaque, et renie la vérité pour embrasser la messe, prenant pour sa divise le proverbe italien: Guelfo io fui e Gibellin m’ap- pello; a chi più mi darà volterò il mantello. Wul ne doute que qui vend son Ame pour du pain.... ne puisse bien louer sa langue et sa plume à dire et écrire tout ce que veulent ceux dont il est le mercenaire. 126 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA esagerazioni del gran ministro e del nostro popolo sono la giusta puni- zione che incoglie a coloro, i quali per libidine di fama la comandano solleciti agli artifizi altrui; mentre la fama è come l’ombra, che spon- tanea tien dietro a chi passeggia al sole. Anche i nuovi documenti da me pubblicati invitano la Duchessa a scendere tanto più dal grado usur- pato, quanto più questo si innalzava sui due Principi depressi. Sui loro diritti alla tutela variamente disputarono i dotti giurisperiti, commen- tando scientificamente l'autentica Matri et Aviae; io per me dico, che, per dimostrare praticamente la somma convenienza di ammettere come assistenti alla tutrice e reggente i Principi del sangue, basta la storia veridica della reggenza di Cristina di Francia. PER A. PEYRON. 127 APPENDICE N° IL Lettere del Pr. Tommaso al Duca Vittorio suo fratello regnante conservate nell'Archivio di Stato Lettera Prima. - Da Thonon, 4° aprile 4634. Ser®° sig. fratello. - Dopo la morte di S.A. di glor. mem., mi persuasi che con la mia osservanza et servitù fedele aquistarei in V. A. R. la stessa affetione et protetione, che da tanto buon padre mì era concessa, et che in ogni caso quella di buon fratello non era per mancarmi come Ella m'havea promesso; ma, ancora che dal canto mio habbia sempre procurato di far conoscere la sincerità della mia fede verso la sua R. persona et tutto quello li tocca, non ho potuto impedire mille mali incontri che mi sono stati procurati da suoi mali ministri per disumirci et per loro prevalersene come han fatto sin adesso, perchè sanno che io non potevo patire né le loro male et diaboliche qualità, nè il mal trattamento che ogni giorno più fanno al suo servitio. Con tulto questo ho voluto tolerare il tutto con la modestia che ognuno ha visto, et ben spesso mostrato di non accorgermi delli tortìî che facevano a me et a miei servitori, per aspettare che V. A. R. vi rimediasse, o che Dio mi dasse impiego tale che potessi accettarlo con mia riputatione, e con l’avantaggio del servitio di V. A., senza volerla mai disgustare. Di modo che havendo patientato l’affronto fatto alla Principessa mia, levando alla sua dama d’honore quella preminenza che li toccava ; visto che nell'istesso tempo con novità inusitata V. A. tolerava che l'ambasciatore di Francia non ci rendesse li honori accostumati da tutti. — Che, quando la Principessa mia volse passare 1 monti, V. A. voleva in ogni modo che lasciasse costì î miei figliuoli, senza che io lo sapessi, come per ostaggio della mia fede. — Ed ultimamente, havendo V. A. accordato il baldacchino a Mad. di Nemours, mi ha mandato il parere de’ suoì ministri, mel quale dichiarano che non deve essere tirato in consequenza per altri. Et, havendone io domandato a V. A. l’esplicatione per quello mi concerne, mi rispose che si haverebbe havulo risquardo, l'occasione presentandosi. Questi termini mi hanno fatto veder chiaro, 0 che V. A. non mi estima suo fratello, o che vuole pregiudicare alla grandezza della sua casa, 0 che desidera di disgustarmi per farmi uscir dalla sua servitù, e per conseguenza dalli suoi Stati , per contentar quelli che non amano il suo sangue. Quest’ ultimo punto pare il più accertato , 128 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA perchè V. A. ha mostrata tanta diffidenza, senza haverne mai havuto un minimo soggetto, havendomi considerato et esaminato sino nelle minime cose, et fattolo far da’ suoi ministri et particolarmente dal Cauda et Montolivet, e con tanto sprezzo, che tutto il mondo stupiva della mia bontà et patienza, havendomi tutti î suoî ministri alterato più volte la mia giu- risditione tanto delle terre come altre cose del mio apanaggio. Et, seben si sieno date molte memorie, mai si è potuto havere risolutione alcuna. Ma perchè vedevo che il Pr. Cardinale sopportava quasi gli stessi incontri, io sono andato sempre palientando. Et i suoî ministri, per mostrar maggiormente îl loro mal talento, hanno sempre dato pochissima soddisfatione a quelli che mi servono de’ loro trattenimenti, ritenendoli a molti, perchè si fermavano apresso di me. Le paghe della mia guardia ogni anno sono state sminuite a segno che mi conveniva o licentiare i soldati, o non tenerne che la metà, per tener gente atta al servitio. Per il carico della cavalleria e reggimento de’ Loreni il mondo sa come sono stato trattato, et i discorsi che sì facevano. Non ho potuto mai haver soddisfatione di un debito così privilegiato, come quello delle mie perle, essendo V. A. che le ha havute et donate. Per quello che mi era dovuto del tempo che Francesi occupavano il Stato, V. A. sa come sono stato trattato, e pure Ella ha dato a molti altri ricompense, come se io non fossi stato in campagna et speso il mio; dal che ne derivano molti debiti per non haver havuto da V. A. alcun soccorso, ma nè anche il mio. Havendomi l’alteratione delle sue monete messo in punti, che li rediti che ho in Piemonte non mi vagliono la metà. Non ho mai potuto agiustar li rediti del mio apanaggio. Anzi ultimamente voleva V. A., per compiacere al Cauda, per la metà manco Caselle, et ne passò l’espeditione in profitto d'altri, senza ch'el prezzo ne fosse contato. Più volte si è trattato nella sua Corte delli mezzi come fare che mi alterassi in qualche cosa per levarmi questo governo, havendo lettere nelle mani, donde si vede chia- ramente questo disegno. Ma io ho sempre con la mia modestia ‘et patienza sopportato sin adesso, che vedendo che V. A. continua a lasciarsi portar a’suoî mali ministri a imbarcarmi in un viaggio di Francia con sei mila scudi, donde io non potrò riuscir a cosa di buono, oltre che vengo accertato da più bande, che în questo vi sieno molti artifici pregiudicievoli al suo servilio, alla riputazione della casa, alla mia persona, et forse per haver campo è miei nemici d’haver questo benedetto governo che li da tanti mali di testa, et a V. A. tanti sospetti. Ho creduto dunque obedirla quitandoli il detto governo, senza che li artifici de nostri nemici ci portassero a delle rotture, amando io meglio cercar fortuna altrove per piciola ch'ella sia, che di mancar all'osservanza che devo a V. A., et che mai dar occasione a nostri nemici di prevalersi delle nostre male intelligenze per far quello con nostra colpa che vogliono fare senza alcun soggetto, se da la man d'Iddio il colpo non vien riparato. Mi ritiro dunque fuori delli suoî Stati con la fede che do a V. A. che da per tutto io la servirò con l’amore di fratello et con l’obedienza di suddito, sperando che il Signore me ne darà i mezzi. Et all’hora V. A. potrà conoscere il vero, se si degnarà comandarmi, sup- plicandola con ogni affetto che, poichè cedo volontariamente a tutto quello che mi sono imaginato che V. A. potesse desiderare, che mi faccia gratia che nelle cose mie, de' miei amici et servitori, di dar testimonianza con effetti di gran Principe e di buon fratello. Così seguendo, V. A. vedrà che la mostra unione a me gioverà molto, et a V. A. non sarà pregiudicievole, perchè io tralascierò sempre tutti imiei interessi per congiongermi al suo PER A. PEYRON. [29 servitio ogni volta che l'occasione se ne porgerà. Deve dunque esser lodata la mia ritirata, essendo per dar gusto @ V. A., procurarmi qualche honesto impiego et a' miei figliuoli, et haver mezzi proprii per poter maggiormente servire V. A. Et, se io mon ne ho prima domandata la permissione a V. A., è stato giudicando di dover così fare per levar l’ombraggio a qualsivoglia principe, che volesse considerare la mia partenza, et far vedere che questa risolutione da me stesso l'ho tolta, senza haverne voluto parere d'alcuno, perchè chi vuole ad ogni modo far una cosa non deve haver altro consiglio che il suo proprio. lo finirò dunque di fastidirla, baciandole senza fine le mani. Di V. A. R. Humil° et hubbid® fratello et servitore TOMASO. Lertera Seconpa - Da Brusselle, li 8 di settembre 1634. Serro sig” fratello. - Mi sarebbe sempre di grandissimo disgusto ogni minimo che ricevesse V. A. R. per causa mia. Fui per questo in ogni tempo circospetto in tutte le ationi mie per levarne il soggetto, et particolarmente nella deliberatione della mia uscita dalla Savoia, come tutte le circostanze lo chiariscono, ‘et gli effetti ne daranno prova perpetua et indubitata. V. A. R. mi faccia perciò gratia di credere che to osservarò sempre il dovuto alla sua R. persona come mio Signore, ‘et la ‘riverirò con amore sincero come mio fratello, et in questa conformità signalerò sempre la lontananza della mia persona quando vi si incontri il suo servitio 0 il suo comando. Non supplico V. A. che lo metti in prova, perché tengo per cosa certa che Ella non dubita ‘punto di questa mia sincera volontà. Una et la principal causa che mi mosse d’uscire dalla Savoia fu dl ser vitio Tdi S.A. R., e per mettere è suoi Stati in riposo contro l'oppressione che le soprastava dalla violenza delle armi francesi, agitate dalla mala wolontà del Card. de ‘Richelieu. Di questo punto credo doverne ‘restar d'accordo con ‘V. A., et per li miei fini ne chiamo Iddio in testimonio , ‘et quanto ‘ho fatto ‘negotiar ‘in Spagna, et quello che va su questo seguendo. Per la lettera di V. A. delli A5 luglio vedo ‘che il mio viaggio nor sarebbe stato da Lei disapprovato, se gliel’havessi comunicato, perchè l’haver inaccostamente fatto negotiar in Spagna, dice V. A. che posso havere insospettito quel Re contro VA. V. per havere mostrato poca confidenza con Lei, et data maggior gelosia a’ Francesi, potendo credere che il tutto fosse seguito di concerto. Dichiaro în questo il mio senso essere stato altrimente, et così ne sono seguiti gli effetti. Perchè feci dir in Spagna che non compiva al servitio di V. A. di ‘saper all’hora questa negotiatione. Che però facendo S. M. quelle cose, che sono venute alla notitia di V. A., che sì poteva promettere la sua assistenza. Così fu accettata in Spagna la propositione, come può vedere dagli effetti, et non starà che a ‘Lei di godere della prosperità di casa d'Austria, et far i fatti suoi secondo che le congiunture et ‘il tempo lo permetterà a V. A., come sin dal Serie II. Tom. XXIV. 17 P; 130 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA principio le ho fatto penetrare; per il che la pace di Genova fu da me particolarmente raccordata, come ancora tutte quelle altre cose che giudicai honorevoli et utili al suo servitio. Dunque in Spagna non si accrebbero i sospetti, anzi si levarono, et si ridusse quel Re a procurare le prime buone intelligenze con V. A., et con li maggiori vantaggi che ‘mai si negotiò. IL Vasques, che deve essere costì, doverà farne fede, oltre che S. M. mi preme con sun lettera delli 6 del mese passato di procurare che V. A. pigli parte ne’ suoi interessi, el sopra questo ne farò una scriltura a parte. Quanto a Francesi io non potevo levar meglio i sospetti, che di usarne effettivamente come ho fatto, perchè la verità ha una gran forza, et non potevo colorire meglio la mia partenza senza la saputa di V. A., che con qualche doglienze, et meno lo poteva fare che lodandomi (come faccio el farò sempre) della molta sua confidenza et amorevolezza, e dolendomi de’ suoi ministri, et in cose vere, le quali però non mi levano, meno leveranno, da quell’os- sequio et ubbidienza che devo a V. A. R. Onde si vede in effetto che Ella è al presente più stimata et considerata in Francia, che quando io me ne parti dalla Savoia; et in Spagna sommamente desiderata da quel Re, col quale prima non correva quella buona intelligenza, che si sarebbe forse desiderata. E perchè ho dello che io mi proposi di metter colesti suoî Stati in riparo contro la mala volontà del Cardinale, mi pare poterlo verificare dalla mia speculatione fattane prima che di partire, e dall'alto pratico delle cose che oggidì si veggono. Perchè quell'ambitione così grande del Cardinale, congiunta ad una avidità mordace, non poteva frenarsi che col con- irapeso delle forze di Spagna, meno quelle si potevano muover, che con quelle ragioni, che colà si addussero, nè in aiuto et favor di V. A. et de’ suoi Stati, che col haverle sotto il dominio d'un suo fratello et suddito, et tanto affezionato come son io alla sua persona et al suo servito. ì Se queste mie ragioni si verificano dagli effetti, voglio credere dalla benignità di V. A., che, quando io mon ne meriti lode, che almeno non mi deve esser ‘imputato biasimo alcuno. Dio si appaga della buona volontà et non delle apparenze, et ognuno stima più î fatti che le parole, et perciò conformandomi a questa verità protesto a V. A., come pur ho fatto far im Spagna verbalmente, et da qui in scritto, che mai mi trovarò dove si tratti cosa alcuna contro il suo servitio. Et mì faccia questa grazia che di considerare le mie ragioni, pesar î miei fini, bilanciar le cose del mondo, veder la situazione de’ suoì Stati, mirar il mio posto, et giudicar con quella sua prudenza che gli è naturale, et per il suo particolar amore verso di me, se io potevo sacrificarmi col resto della mia famiglia per servilio della sua Corona in tempo più opportuno, in megotio più degno , et con appoggio più honorevole el necessario, et con manco suo interesse. Perchè, se sì fosse aspettata la vittoria dalla banda della casa d'Austria, come sì spera in breve dalli buoni successi d’Al- lemagna, sarei slato ributtato come sospetto, o riputato timido col raccorrere da persone, che prima non erano confidenti alla nostra casa. Ma della maniera ed in quel tempo si è obbligato il Re di Spagna, et l'Imperatore ancora, avendoli esibita la mia persona in tempo che ne havevano di bisogno. Et non si è disobligato il Re di Francia, perchè V. A. non ne fu consapevole, anzi resta sempre nelle sue mani di valersi delle congiunture presenti dove et come lo richiederà meglio îl suo servitio et de’ suoi Stati. Queste ancora sono le ragioni PER A. PEYRON. ISI che m'hanno ritenuto di scriver a V. A., et mandarle a diritlura come passavano le cose, sendo stato costretto di confidar alla fortuna, per non aver alcun indirizzo sicuro, quel tanto che Le ho fatto penetrare degli occorrenti presenti. Supplico pertanto V. A. R. dî volermi continuar volontieri li suoi favori et benevolenza, che saranno da me contracambiati dalla mia fede et osservanza, che le conservarò perpetua et incorruttibile. Mentre per fine faccio a V. A. R. humilissima riverenza. Di V. A. R. Humil° et hubbid®° fratello et servitore TOMASO. N° IE. Documenti di Francia e le Memoires du Card. de Richelieu. - Le Carte Messerati, alle quali si premettono cenni biografici su lui, e sul Comm. Pasero. Dacchè queste mie Notizie si fondano su speciali documenti da me consultati, io ne darò, almeno dei principali, un breve ragguaglio. Comincio da quelli di Francia. Nell’archivio del Ministero degli affari esteri di Parigi si conservano i carteggi altivi e passivi diplomatici distinti per Stati, come Spagna, Inghilterra, Torino ecc. Le carte d’ogni Stato sono ordinate per anni, ed ogni anno suol formare un volume ed anche più, nel quale per ordine di mesi e di giorni le lettere e carte scritte e ricevute dal Ministero stanno legate senza differenza di negozii o di persone massime e minime. Le lettere ricevute sono le originali stesse; quelle del Richelieu sono le minute scritte per comando di lui dai segretari, e corrette di suo pugno. Così nel volume Turin 4637 stanno raccolti quanti negozii furono tra Francia e noi trattati in quell’anno, e senza ricorrere ad altri volumi o mazzi il lettore assiste all'intero dramma di tal anno. Il carteggio attivo del Richelieu si sta bensì ora stampando in Parigi, ma questo non basta, si richiede anche il passivo, e massimamente quello degli ambasciadori. Imperocchè un ambasciadore, siccome narratore di quanto avviene nello Stato di sua residenza, somministra non solamente la storia ne’suoi particolari ed i caratteri delle persone, ma ancora annunzia le probabili conseguenze, le speranze ed i timori, e così suggerisce le necessarie provvisioni. Per certo, se le lettere del Richelieu con- tengono ordini assoluti per il Piemonte, posso affermare che i motivi di questi stanno nei dispacci dell’ambasciadore Hemery. Alla mancanza del carteggio passivo suppliscono in qualche parte le Mémoires du Card. de Richeliew, che videro la luce in questo secolo, ed io raccomando agli 132 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA storiografi (1). Imperocchè egli, quando si accinse a compilare tal opera, tolse davanti sè questi volumi, e percorrendo le lettere sue ed altrui segnava sui marginì con una matita sgraffe, che comprendevano quei brani che intendeva di inserire nelle sue Mémoires; così egli trapiantò talora ne’ suoi libri colle stesse parole degli ambasciadori intere narrazioni di fatti, od i motivi che lo mossero a deliberare. Avverto poi, che nelle linee non segnate da sgraffe stanno talora registrati quei più maliziosi suoi disegni, che o per non essere stati neppure iniziali, o perchè andarono falliti, il Richelieu ricusò di rivelare al pubblico. Così egli, al sentire che il nostro infante ereditario gravemente infermava, e prevedendo il caso di morte, significò bensì con lettera all’ Hemery il suo disegno ed i mezzi per far passare nella linea femminina il dritto di succedere nel ducato, ad esclusione degli zii paterni viventi; ma, siccome l’infante Carlo risanò, e viveva felicemente al tempo che compilava le Mémoires, però lasciò sepolto nel carteggio questo suo criminoso disegno. Oltre ai volumi del carteggio diplomatico conservati nell’archivio del Ministero deglì affari esteri, si incontrano molti documenti nei codici storici della gran biblioteca imperiale di Parigi, e segnatamente nei S. Germanesi, Harlay, Letellier ecc. Prima del Richelieu i ministri reduci dalle legazioni ritenevano per sè le loro carte, che, dopo la loro morte rimaste nelle famiglie, furono poi acquistate e legate in volumi dai primarii amatori delle cose patrie, e dai gabinetti degli amatori passarono o per dono o per compra ad arricchire la gran biblioteca. Ma, dopochè il Richelieu ordinò che le carte diplomatiche dei ministri appartenessero allo Stato, l'acquisto di esse fu difficoltato ; tultavia gli amatori riuscirono di ottenere talora autografi stessi del mi- nistro, e copie almeno di altri documenti. Questi codici, preziose miscellanee storiche, meritano di essere consultati. Venendo ora alle carte Messerati, premetto alcuni cenni sulla sua vita. Baldassare Messerati, Conte di Casalborgone, Cameriere del Duca Vittorio Amedeo th ed Economo generale delle finanze e de’ redditi del Pr. Cardinale Maurizio, fu con palenti del 15 giugno 1633 nominato Generale delle poste degli Stati, in grazia della sua continuata e fedele servitù, e come discendente da famiglia benemerita dello Stato (2). La nominazione a tal delicato uffizio non poteva piacere ai Francesi, i quali, ben sapendo siccome il Conte, caldo promotore degli interessi di Spagna, aveva nell’anno 1632 procacciato di sommuovere i Pinerolesi contro Francia, seppero indurre il Duca Vittorio a consigliarlo di rassegnare la sua carica. La rassegnò infatti, rice- vendo la promessa che sarebbe provveduto di altra uguale o maggiore. Egli stava aspettando i favori del Duca, quando si trovò involto nel garbuglio seguente (3). Nell'anno 1634 un frate domenicano, per sottrarsi ad un meritato castigo, indusse una donna sua nipote a fingersi spiritata; e questa, siccome nelle (1) L’edizione delle Mémoires, da me sempre citata, è quella della Nouvelle collection des Mémoires pour servir à l’Histoire de France par MM. Michaud et Poujoulat. Paris 1838. (2) Galli, Cariche del Piemonte, tom. I, pag. sli. (3) Le carte sì conservano nell’Archivio dello Stato. PER A. PEYRON. 133 sue accessioni sparlava deì ministri del Duca e del Duca medesimo, venne in un col frate cacciata nelle carceri dell’arcivescovato. Nè guari andò che l'Arcivescovo indusse la donna a confessare la verità, epperò la malizia dello zio. Frattanto il presidente Benzo in una sua lunga scrittura si era ingegnato di provare, che quello spiritamento tendeva ad esautorare il Duca siccome inabile a governare. Quindi il frate e la nipote furono dalle miti carceri dell’Arcivescovo trasferiti nelle ducali; in queste il frate, non reggendo più ai mali traltamenti dei carcerieri, chiese ed ottenne di parlare al presidente Benzo, col quale si concertò la seguente calunnia (1). Il frate deporrebbe che egli a nome del Card. Maurizio aveva proposto alla nipote di fingersi spiritata , e di sparlare deì ministri e del Duca; che essa a ciò invitata aveva risposto di volerne conferire col Cardinale, e che il Cardinale le confermò la proposta. Siccome poi ella dicevasi inesperta nel fingersi inspirata, il Cardinale promise che il &. Mes- serati ed il Commendatore Pasero, indirizzandola al P. Inquisitore e ad aliro domenicano, le avrebbero procacciato valenti maestri. Per questa deposizione della donna il Mes- serati ed il Pasero furono carcerati, e perchè involti in un processo di sacrilegio , vennero consegnati alla giurisdizione ecclesiastica. Amendue vollero bensì declinarla, ma il Duca loro ordinò di sottoporvisi. Spediti che furono a Roma gli atti del processo, quel tribunale d’inquisizione condannò la donna alla meritata pena, ma nulla statuì quanto ai due complici; la sentenza fu eseguita in Torino quanto alla donna, ma non pubblicata ; il Conte ed il Commendatore rimasero in prigione. Vi stavano ancora, quando in novembre 1637 il Cardinale, venuto da Roma nel Genovesato, intercedette presso la Duchessa affinchè il suo Messerali fosse restituito a libertà. Già prima il Richelieu, che mirava a conciliarsi il Cardinale, aveva con sua lettera fatto suggerire un tal consiglio alla Reggente (2); ma i cortigiani le proposero la via del mezzo, facendo assegnare per prigione al Messerali la sua casa in Torino, ed al Pasero il castello di Saluzzo. Indispettiti per non essere giudicati, si indettarono fra loro, e nel seltembre 1638 fuggirono. Ricoveratisi in Loano del Genovesato, indirizzarono alla Duchessa una supplica (3), lagnandosi che la sentenza romana non fosse stata pubblicata, e chiedendo di essere ristabilili nel possesso dei loro beni stati sequestrati e nel loro primi diritti; quando poi ella giudicasse non essere conveniente la loro stanza in Loano, protestavano che si sarebbero trasferiti dove ella stimerebbe. Poco speravano e nulla ottennero. Il Pasero non tardò a scrivere al M. di Leganes, offrendogh i suoi servizii, ed il Marchese ne interrogò il Conte Duca Olivares, ma questi non gradi l’antico primo segretario del Duca Vittorio, perchè nel carteggio con Spagna usava uno stile acerbo e mordenle (4). Infatti 11 Pasero era indomito di volontà, rubesto, veemente, (1) Il Messerati in una sna nota diretta al de Melo, oltre al Benzo, incolpa il presidente Cauda di aver condotto tutto il negozio della spiritata, a fine di malcontentare il Card. Maurizio, e farlo partire dal Piemonte, come infatti poco stante parti per Roma. 2) Awbery, pag. 865, e Mémoires, lib XXVIII, pag. 875. (3) Si conserva fralle carte Messerati. 4) Castiglioni, Mistoria, nelle aggiunte al Îib. III, pag. 1. 154 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA vendicativo. Vivente ancora il Duca Vittorio, aveva tentato di fuggire dalla prigione, ma non gli venne fatto. Disperatosi allora di ottenere altrimenti la libertà, si volse ai Francesi, promettendo di servirli, ma per la sua ardente natura disadatta a simulare non potè ingannarli (1). Per consiglio di lui il Messerati partì per Roma a fine d’indurre Maurizio ad accostarsi per la seconda volta al Ducato. Venne infatti, e quindi ad alcuni mesi giunse in Lombardia Tommaso. D’allora in poi il Messerati fu per amendue il fido ministro, l’agente attivissimo presso il governatore della Lombardia, l'inviato straor- dinario a Madrid, l’orditore di trame per fare incruente conquiste in Piemonte, e lo scrittore di note diplomatiche robuste e prudenti. Negoziò coi ministri di Lombardia e con quelli di Madama R., con Richelieu e coll’Olivares. Lottava contro al Pasero, il quale inspirava al C. Maurizio pretensioni stimate esorbitanti anche dal P. Tommaso. Nel settembre 1641 partiva per Madrid a fine di ottenere la restituzione della Principessa di Carignano, la ralificazione del capitolato sottoscritto dai ministri lom- bardi e dai Principi, e nuove concessioni, siccome dissi al $ 16. Vi stava ancora nel 1642, quando intese che i Principi si erano aggiustati colla Reggente e con Francia, a condizioni che egli disapprovava, perchè troppo confidava sulla Spagna, e giustamente diffidava della Duchessa e de’suoi consiglieri. Ai capitoli dell’aggiusta- mento andava unita una nota di quelli fra gli aderenti de’ Principi, che la Duchessa avrebbe riammessi nella sua grazia, o solamente tollerati ; il Messerati non compreso fra questi rimase così esiliato. Ciò avvenne per ordine dei ministri francesi, irritati per varie lettere credute sue e state inlercette. In queste lo scrittore parlava con poca riverenza dei ministri e generali di Francia e dello stesso Richelieu ; il D’Argenson le mandò a Parigi, volendo per ogni modo tentare strada di farne fare penitenza all'autore, il quale poteva ben servire è suoi Ser. Principi, e non offendere cotanto quelli, dai quali non aveva avuto che favori (2). Per l’accordo dei Principi il Messerati, lasciata Spagna, venne nel settembre 1642 a Genova, e di là indirizzava alla Duchessa una supplica, nella quale si lagnava di mon avere mei pubblici patti ottenuta grazia, e di essere anzi stato fulminato da una lacrimevole sentenza, e privato della patria, dei beni, della vita e dell'onore. Più tardi in una leltera ad un amico scriveva: In Piemonte sì sono distribuiti è miei feudi e le mie facoltà che non sono poche; anzi la stessa dote di mia nuora, che importa più di 140 mila scudi, è ritenuta e distribuita da Madama R. di Savoia a persuasione de Francesi. E di più sono perseguitato con processi ed insidiato nella persona, perchè non mi sono separato dal servizio di S. M.,.e che non ho voluto accettare i partiti, che m'hanno offerti con la restituzione intera del mio, e delle due anche mie principali cariche del Piemonte (3). Il Conte, non avendo ottenuto dalla Duchessa l’implorata grazia, e dovendo prov- (1) Castiglioni, ivi, pag. 16. (2) Lettera del P. Bartolommeo da Carignano al Messerati, 11 agosto 1642, Dubito che codeste lettere fossero del Pasero. (3) Lettera ad un amico spagnuolo da Milano, 6 settembre 1643. n PER A. PEYRON. 135 vedere alla moglie ed a cinque figli, si rivolse al Re Cattolico, e come arra della sua sincera volontà di servirlo offrì di fare a sue spese una leva di mille fanti alemanni (1), proposta gradita dall’Olivares, ma non eseguita. Il Re annuì alla supplica del Conte, e con patenti del 31 dicembre 1643 volendo rimunerare fidem ac praeclara in magni ponderis belli pacisque occasionibus inter Nos Galliaeque regem ad nostrum provehendum servitium in Italiae praecipue partibus Lombardiae oblatis nuper gesta del diletto C. Messerali, il quale non perdonò nullo nec labori, nec vitae discrimini, nec bonorum suorum egre- giorum, quibus in Pedemontana regione et Sabaudiae curia frucbatur, munerum iacturae, noì gli assegniamo duorum millium et quingentorum scutorum auri annuam pensionem , nominandolo: R. Consigliere nel Supremo Consiglio del R. Patrimonio in Madrid. Ma tra perchè alla patente mancavano alcune formole materiali, e perchè era già assor- Dito l’introito di quel ramo, sul quale era assegnata la pensione, il Messerati dovette per un anno e più baltere il dente asciullo. Egli avrebbe desiderato il titolo di ministro regio, poi feudi, ma non fu esaudito; ottenne un canonicato della Scala in Milano per uno de’suoi figli, ma gli fu negato il possesso, perchè forestiero; gli fu promesso un diamante, ed un aiuto così detto di costa, ma nulla ebbe, giacchè il promelter largo e l’attender nullo era la solita lattica di Spagna. Nel suo ritorno da Madrid così scriveva: Vo in Italia caricato di tulti i rimedii per riunire è Seri Principi a questa corona, e penso tutto quel più che si possi sperare per conseguir questo fine (2). Ed infatti, sì allora come di poi, nel suo carteggio col P. Tom- maso non cessò mai di esortarlo a ritornare sotto la protezione di Spagna, e di far sì che la Duchessa, abbandonata la Francia, si accostasse al Re Cattolico. Altre volte gli proponeva di riunire i principi italiani in una lega protelta dalla Spagna, a fine di cacciar i Francesi dall’Italia. Ma i suoi padroni non dividevano più con lui la troppa sua fiducia nell’Olivares, e la troppa sua avversione al Richelieu. i Taluno scrisse che egli pagato da Spagna tradisse i Principi. Di tal perfidia io non irovai il menomo indizio nelle sue carte, ed essa non si può conciliare con quella perpetua ed acre sua opposizione al Leganes, per la quale come il Leganes ricusava di più oltre soffrire il Conte in Milano, così il Conte in Madrid’ implorò ed ottenne che il Leganes fosse rivocato dalla Lombardia. Nuovamente si incontrarono amendue in Madrid, e tosto ricominciò il contrasto. Ora come mai l’Olivares avrebbe rimune- rato colui, il quale sempre contrastava a quei ministri lombardi, che egli connivendo proteggeva? Inoltre come mai i Principi non si sarebbero tosto 0 tardi avveduti del traditore, ed avrebbero continuato ad amarlo e rimunerarlo anche dopo il loro accordo con Francia? Come il C. Filippo, poi i due Principi fratelli furono per qualche anno ingannati da Spagna, così lo fu pure il Messerati. I primi si ravvidero, e la abban- donarono. Ma egli sbandito dal Piemonte, e spogliato de’suoi averi, doveva per neces- sità rimaner unito a Spagna, e profferirsi pronto a servirla. Egli fu esaudito dal successore dell’Olivares scaduto, il quale riconobbe, che il Conte, servendo i Principi 1) Due lettere del Marchese del Carretto, 2 settembre 1642. 2) Lettera a Garretto suo segretario da Saragozza, 4 settembre 1642. 136 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA e consigliando Spagna a proteggerli efficacemente, aveva pur lealmente servito il Re cattolico contro Francia. La Principessa di Carignano fu la sola, che abbia dubitato della fedeltà del Conte, quando, smaniosa di ritornare in Italia, pretendeva che egli, postergati i gravissimi interessi dei Principi, unicamente promovesse la sua liberazione, e cooperasse alla sua fuga da Spagna. Per assolvere il Conte da quella taccia basta leggere quel paragrafo che il Siri giustamente intitolò Bizzarrie della Principessa di Carignano, confermate dal Castiglioni (1). Dalle poche carte, che rimangono di lui, posteriori al suo esilio, ricavai che nell’anno 1645 egli stava ancora in Milano (2). Ritornato solo a Madrid vi adempiva ai doveri di Consigliere del regio patrimonio, quando nel 1655 si ricondusse in Lom- bardia, donde, siccome egli scrive, con permissione del M. di Caracena venni in Piemonte per esitare il poco reliquato delle doti di mia moglie, che restavano solo avanzo del pa- irimonio di mia casa.... Il Marchese mi impose di veder la Duchessa, e rimostrandole l’ingiusta ritenzione delle piazze, e le continue violenze de’ Francesi, invitarla a riumirsi al Re cattolico. Ma la Duchessa voleva anzi tutto che il Re annuisse a dare la Infante in moglie del duca Carlo figlio di lei (3). Nel restituirsi a Madrid condusse seco la moglie, e forse i figli. L'ultima sua lettera, che abbiamo, è in data di Madrid 17 luglio 1656. Nel dicembre dello stesso anno era già morto. Il Commendatore Gioanni Tommaso Pasero, che sovente nominai nella mia serit- tura, era stato dal Duca Carlo nel 1625 nominato suo primo segretario (4), ed in tal uffizio continuò sotto Vittorio Amedeo. Devoto a Spagna, tradì il suo padrone, svelando al Principe Grimaldi il disegno de’Francesi, che d’accordo col Duca inten- devano di sorprendere la città di Monaco. Poco perito delle cose militari egli ordiva cospirazioni per far cadere con tradimenti le piazze del ducato nelle mani de'Principi. Ardente, bilioso, vendicativo, suggeriva ai Principi, e specialmente al GC. Maurizio, pretensioni eccessive contro alla Reggente; e, perchè incontrava nel Messerati un op- positore, prese a calunniarlo. Il Conte; dopo aver conferito ‘in Lione col Re di Francia, in Ciambery col Conte Filippo, ed in Susa colla Duchessa, era ritornato in Piemonte regalato da essi; dei regali si valse il Pasero per accusarlo di avere svelato a Francia ed a Madama i disegni de’Principi. Accompagnato da un corteo di giovani stava pre- feribilmente in Nizza, dove co’suoi cagnotti campava a spese del buon Cardinale. Sul fine del 1644 si recò ad Ivrea per indurre il P. Tommaso ad abbracciare la parte - Francese, ma poco stante morì (8). Premessi questi cenni sul C. Messerati e sul Com. Pasero, vengo alle sue carte. (1) Siri, Mercurio, lib. II, cap. II, pag. 680. Castiglioni, ZHistoria, lib. IX, 31, X, 14, e nelle aggiunte. (2) Vedi sopra $ 21. (3) Nota presentata dal Messerati a D. Luis de Haro, 10 maggio 1656. (4) Galli, Cariche, tom. III, pag. 43. (5) Vedi Castiglioni, Historia, lib. III, pag. 16-57, ed aggiunte, pag. 1, lib. V, pag. 15, lib. VII, pag. 26, IX, pag. 37. PER A. PEYRON. I 37 Esse si conservano nella biblioteca del Re, e stanno ordinate in mazzi contenenti più fascicoli.I mazzi sono 40, dei quali 25 contengono le corrispondenze epistolari. Quella passiva ed attiva del Messerati, dall'anno 1629 al 1656, è la più copiosa, ed è distinta per anni. Meno abbondante è quella del P. Tommaso, che si stende dal 1633 al 4644; vha una sola lettera del 1647, ed un’altra del 1650. Molte di esse appar- tengono al tempo, nel quale il Principe era assediato dentro Torino; e meritano di essere citati i biglietti, che durante l’assedio erano lanciati dentro cave bombe ai posti avanzati Spagnuoli, dove stava il Messerati — Più scarsa è la corrispondenza del C. Maurizio dal 1630 al 1641 — Poche sono le lettere della Duchessa Cristina, e dei figli naturali di Savoia. Alle corrispondenze succedono le carte Riguardanti il €. Maurizio, come a dire le proposte a lui fatte da Francia, e le sue risposte — La relazione del secondo suo viaggio da Roma — Consulti sulla tu- tela — Risposte del Richelieu all’Ab. Soldati. Riguardanti il P. Tommaso, così le carte di protezione di Spagna — Le rimo- stranze presentate a nome di lui ed anche del fratello ai ministri lombardi, relative ai sussidi necessari — Quelle presentate ai ministri di Madrid per accusare quelli di Lombardia. Il mazzo 29 contiene quanto concerne l'adesione di Tommaso a Francia, e due sue apologie. D Nel mazzo 30 stanno le carte dei negoziati con Milano e con Madrid, posteriori al febbraio 1644, che il Messerati condusse per ottenere le provvisioni necessarie . affinchè i Principi, rimanendo sotto la protezione di Spagna, potessero continuare la guerra contro Francia, e riuscire ad un trattato ratificato dal Re cattolico. Il mazzo 36, intitolato Cose Militari, contiene avvisi di mosse di truppe — pro- poste di imprese da farsi — relazioni di assedii, di combaltimenti ecc. Tutte ragguar- dano il P. Tommaso, e le sue relazioni militari coi generali spagnuoli, alle quali si uniscono alcune loro lettere. In altri mazzi sono raccolte le carte relative all’aggiustamento dei Principi colla Cognata, ed al matrimonio del P. Maurizio — Quelle tendenti a ricondurre Tommaso alla protezione di Spagna, a formar una lega coi Principi Italiani — La relazione della spedizione navale capitanata da Tommaso nel 1646. Nei mazzi intitolati Varia collocai — Pareri — Capitolazioni — Negoziati del C. Buronzo colla Spagna nel 1649, e pel matrimonio del Duca Carlo coll’Infante di Spagna — Testimonianza del Cav. Mondella — Le carte speciali del €. Messerati. Serie II. Tom. XXIV. 18 bi (SC) (e) NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA N° HE. Il Cav. Ottavio Mondella, e la sua testimonianza legalmente rogata in Milano li 20 giugno 4640 , originale, conservata fralle carte Messerati. Ottavio Mondella, bresciano di nascita, aveva servito il Duca Carlo Emanuele I come suo negoziatore colla Spagna, e, regnando il Duca Vittorio, risiedeva in Milano come suo agente secreto presso i ministri di Lombardia, godendo della provvisione di dodici mila ducatoni d’oro assegnati sopra terre della Novalesa. Morto il Duca, ricusava di servire la Reggenle, ma indotto dal M. Lodovico d’Agliè, che a nome di lei gli fece larghe promesse, ritornò al suo uffizio a Milano. Madama per rimeritarlo lo creò Cavaliere Mauriziano con una commenda in Savoia. Tralasciando quanto il Mondella racconta nella sua testimonianza, io soggiungo ciò, che egli stesso riferisce in due sue lettere (I). Il M. di Leganes, disegnando di riconquistare il castello di Breme, protestò al Mondella che, se Madama prestando un valido soccorso ai Francesi, lo impedisse dall’espugnare il castello, egli volterebbe le sue truppe a’ danni del Vercellese e del Biellese ; ove poi col dare o niuno o minimo aiuto agli assediati gli lasciasse prendere la piazza, egli risparmierebbe i suoi Stati. Il Mondella tosto con due lettere ne rag- guagliò la Reggente, consigliandola ad astenersi dal somministrare truppe ai Francesi; ed ella infatti non avviò a Breme se non tardi ed inutilmente poche centinaia di cavalieri (2). Ma, quando investita vigorosamente dall’Hemery, che le chiedeva conto di tale slealtà, procacciava di scolparsi, allora trasse fuori le due lettere del Mondella, e le mostrò all’irato ambasciadore. Questi se ne impadronì, le mandò a Parigi, e pren- dendo a tener l’occhio alla corrispondenza dell’agente, intercettò, quindi a poco tempo, altri dispacci di lui diretti alla Reggente, che rivelavano i suoi negoziati col Leganes, li lesse, e li inviò a Parigi, donde giunse l'ordine alla Sovrana di punire il Mondella. (1) L'una del 16 maggio 1656 diretta da Brescia a Madama R., conservata nell'Archivio dello Siato, nel mazzo delle Lettere particolari. L’altra del 16 giugno 1640 diretta al C. Messerati, e conservata nelle carte di esso. (2) Per compiere la narrazione soggiungo, che il Mondella, mentre consigliava la Reggente a lasciare ai Francesi tutto il carico della difesa, desiderava pure che il castello non cadesse nelle mani degli Spagnuoli. Epperò avendo seguitato il Leganes all’assedio, gettò nella fossa del castello una lettera diretta al comandante Montgaillard per assicurarlo di un vicino soccorso. Così riferisce il Castiglioni, Hist., lib. II, pag. 24. PER A. PEYRON. 1309 Ed ella obbedendo gli sequestrò la provvisione déi ducatoni e gli tolse la commenda, senza rendernelo avvertito. Quindi ad otto mesi il Cavaliere, ignaro della punizione, spedì il suo servitore alla Novalesa per riscuotere i decorsi; ma quattro Francesi armati di bastoni lo accolsero dicendo, che, non potendo battere il cavallo, battevano Ja sella. Allora solamente il Mondella riseppe l’infelice sua sorte. Durante gli otto mesi il Mondella non aveva cessato di servire la Sovrana, avver- tendola per tempo con sue leltere, che il Leganes stava per assalire Vercelli, e la consigliava a tenere la città ben fornita di truppe, di munizioni e di vettovaglie. Ma il latore di due di queste lettere venne colto dagli Spagnuoli, e tosto fucilato; nè @ ciò. contento il Leganes ordinò l’arresto del Mondella ; non avendolo grancito gli se- questrò 3000 doppie, dote di sua madre, inscritte sul banco di Milano. Sbandito dal Piemonte e dalla Lombardia, il Cavaliere si-ricoverò in Genova, ma colà giunse da Parigi l'ordine alla Repubblica di arrestarlo e: mandarlo in Francia; del che egli av- vertito, fuggì e andò ramingando. Venduto il diamante ricevuto, come dirà nella testi- monianza, dal Du-Plessis, solo gli rimaneva un podere in Barge. Di questo si era impossessato il Marchese Pallavicino, ajo del Duca Infante, e per riaverlo; il Cavaliere non cessò con sue lettere dal 1642 al 1656 (1) di invocare l'intercessione della Du- chessa, ma sempre inutilmente; l'usurpatore era personaggio di alto affare, superiore alle leggi di giustizia. Conchiudo. Disgraziata la sorte di coloro, che avevano l'onore di servire tal So- vrana! (2). i i La testimonianza del Cav. Mondella, originale e munita del sigillo del Gollegio dei Notai milanesi, conservata fralle carte Messerati, è la seguente: Conoscendo di quanto rilievo possa essere al servitio di S. A. R. di Savoia, ed ai SS. PP. Cardinale e Tomaso loro legittimi tutori, l'intera cognitione delle più importanti cose, che toccano l’interessi più intimi della Casa di Savoia, ho stimato necessario di far la presente scrittura di mia propria mano segnata e corroborata dagli infrascritti testimoni , potendo e dovendo io per verità da me conosciuta e toccata dire con invariabile e provato fondamento ciò che mi costa, spronato dalla propria coscienza come Cavagliere della S. Relig. de SS: Mauritio e Lazaro, et come zelante, fedele et obligato servo di quella Casa Reale; per essere stato io honorato dalla gloriosa memoria dei Duchi Carlo Emanuele, e Vittorio Amedeo, da Madama Reale, e da alcuni ministri francesi, principalmente dal sig. amba- (4) Si conservano nell’Archivio di Stato fralle Lettere di Particolari. (2) A que’ tempi grande era il numero degli agenti politici massimi e minimi, pubblici e secreti. Il Richelieu ridendo scrisse, che il nostro Duca Carlo Emanuele I avoît quatre ambassadeurs de Savote en Espagne, auxquels on avoîit donne, par risce, le nom des quatre evangelistes; le pere Gayetan, qui etoit le premier, l’evéque de Vintimalle, le president de Monton et Vabbé Scaglia. Lun ne savotit pas ce que l’autre traîtoîit, et chacun d'eux avott ses ordres particuliers. Così nelle Memotres, lib. XX, pag. 97. 140 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA sciatore Conte di Plesis Prelin, negli impieghi gravi et importanti negotit; perciò come informatissimo Primieramente dico che nell'anno A634, soprapreso il Duca Vittorio Amedeo da una infirmità pericolosa di canerena sopra l'estremità del filo della schiena, per to troppo cavalcare nella caccia; prevedendo Mad. R. da quel morbo et da altre indispositioni la brevità della vita del marito, disegnò în tal caso di occupare ella sola l'intero governo degli Stati, e di escluderne con qualsivoglia pretesto, e con l’aiuto de' Francesi i Ser. Principi suoi cognati. Che però quando si conferì a Torino Vabb. di S. Anastasia, all’hora chiamato Don Alonso Vasquez, temendo Madama che Vittorio Amedeo trattasse qualche lega con la Corona di Spagna, o qualch'altra cosa pregiuditiale a’ suoi fini et a quelli de' Francesi; tentò di scoprire segretamente per mio mezzo, essendo to spesso col detto abate così comandato dal Duca, che mi honorò della partecipatione di questi interessi, quello che si trattava; lo stesso operando l’ambasciadore Plesis, offerendomi l'una e l'altro donativi profusi. Ma non riuscì loro per l’obligo, che mì costringeva a conservare il segreto del padrone e dell'amico; onde. scopersì in più modi gli animi loro concertati al fine del governo et esclusione de’ Principi che destinavano praticare. Mi honorò alcun tempo dopo VA. R. di Vittorio Amedeo con impiego appo il Duca di Feria e degli altrì ministri di Spagna in Milano, e sopra tutto mì avvisò che andassi cautelato nel ricapito delle lettere, acciò non ne capitasse alcuna in mano di Madama, havendo egli scoperto non so che, onde li conveniva celar a lei ogni cosa, dolendosi che non potesse in quei tempi rimediarvi rispetto allarmi di Francia vicine et internate nel Piemonte et in propria casa, dove era oppresso dal Duca di Chrichì e dal sig. Conte di Plesis Prelin, e tormentato da Madama, accrò acconsentisse a cose contrarie alla sua volontà, et firmasse la lega. E perchè fu noto a Madama et allo stesso ambasciadore di Plesis, che i0 strettamente trattavo negotti segreti ed importanti con S. A. R., e che di comandamento di quella mi ero più volte poriato a Milano et a Venetia dal sig. Conte della Rocca, ten- iarono più che maù di scoprire da me è medemi secreti; e per corrompermi, «e perchè tacessi ciò che sapevo dei disegni dei Francesi, di Madama e dei partiali loro a dannî della Casa R. di Savoia, mi diedero un anello di diamante di valore di scudi mille e cinquecento, come benissimo sa il sig. Conte Baronis, qual anello mì fu dato dalle mani del detto sig. am- basciatore, dicendomi che me lo donava per parte del suo Re; nè sì tosto l’ebbi ricevuto, che °1 feci vedere al Duca Vittorio, quale mi disse che haveva fatto bene a pigliarlo, ma che d'ogni modo avvertissi di non confidar loro cosa alcuna, come osservai. Seguì dipoî la morte di Vittorio Amedeo, della quale se ne sono fatti molti giuditii, quali, come contrarii alla pietà, sì stimano poco veri. Madama R., considerando che î Ser. Principi suoî cognati, o per via amichevole, 0 per quella della forza, con li aiuti delle armi di S. M. Cattolica, haverebbero voluto venire alla casa data loro da Dio e dal mondo, pensava î mezzi di tenerli lontani, ed essendogli pre- sentata l'occasione della mia venuta a Torino con negotiî e propositioni del sig. D. Martino d'Aragona, che gli persuadeva la neutralità et il ricevere î Principi suoi cognati in Piemonte per essere servita et honorata dalle AA. loro, e per vivere unitamente quieta con essì (il che aneh'io con tuita la debolezza del mio spirito procuraì di rappresentare in voce et in PER A. PEYRON. I4JI îseritio con lettere efficacissime), non volle ella accettare è partiti, ma ben mi rimandò a Milano dal sig. Marchese di Leganes, dal quale, e dall'A. S. R. andai e ritornati più volte per rappresentare da parte di Madama, che a lei si rendeva impossibile di non passare ad una lega con il Re suo fratello , ma che gli aiuti suoî sarebbono stati deboli, e che si sarebbe affatigata di far che le armi di Francia e sue nom fossero poderose @ danno dello Stato di Milano, purchè il sig. Marchese et î minîstri impedissero la venuta in Piemonte de Ser. Principi Cardinale e Tomaso, a’ quali però offerse di dar gli apanaggi che ritenne loro il Duca marito. Da parte del sig. Marchese rappresentai a S. A. R. che l'Eccellenza sua havrebbe provato la volontà di lei nel soccorso di Bremi, per l’aiuto del quale la pregava a non affaligarsi , trattandosi massime di ripigliare una piazza propria di Si M. Catt., e medesimamente non havesse mostrato il calore sudetto, nè che fucesse lega pregiuditiale, promettendogli a nome del suo Re di non infestarla mai negli Stati del Duca pupillo. Suggeriù a Madama tutte le ragioni sudette, e con tutta la vivacità possibile la pregai a non voler firmare questa nuova lega per la rovina che ne prevedevo. Ma siccome i fini erano invecchiati e radicati negli animi de’ consiglieri della casa d' Agliè per impadronirsi, come gli era stato persuaso da’ Francesi, di tutto il maneggio, e d'ingrandirsi nello Stato, aggiungendo loro profuse promesse, le quali li potessero condurre all’ effetto dei rovinosi disegni della Casa Reale di Savoia, le mie instanze riuscirono vane, dal che ne seguì la conferma della conclusa lega, la quale fu segretamente sottoserilta (come di sicuro seppi) da Madama Reale li sedici d'aprile A637 (A). La chiarezza delle mie negotialioni costa per iscritture, instruttioni e lettere delle loro AA. e di Madama R., quali appresso di me sono, et ho fatto vedere aì ministri dei Ser. Principi. Ho voluto fure questa testimonianza acciocchè ’l mondo tutto sappia la giustitia della mossa delle armi delle AA. loro, e che questo fuoco in Italia è stato acceso dai conseglii e daì ministri piemontesi parteggiani di Francia. - Milano, li 20 giugno 1640. Jo Don Ottavio Mondella affirmo et altesto quanto di sopra. Io D. Leone da Napoli attesto essere stato presente alla letiura dello scritto e confirma del Cavaghere. Io Xfforo Carcano affirmo essere stato presente alla lettura dello serito, et hauer visto a sotto scriver il sud S. D. Ottavio Mondella di sue proprie mane Ego Franciscus Robatus f. q” Ioseph P. O. P. Sé Raphaelis Mini pubs Apostolica Im- perlig. auctoritatibus Mni not" attestor vidisse fieri preceden. subscrip® a suptis D. Octavio Mondella M. R. et Pre Don Leone a Neapoli et D. Xphoro Carcano, qui se sua manu propria subscripserunt die et anno subtis, et pro fide. (4) Sbagliò l’anno, doveva scrivere 1638. Nel Manifesto del Pr. Card. Maurizio diretto alle Potenze estere così sta detto: La Duchessa rinnovò la lega (con Francia) e fu signata, come si sa dî certo, sotto lì 18 aprile. Anzi la stessa deliberatione di far la lega Madama già aveva mandato a notificarla al sig. March di Leganes col mezzo del Cav. Mondella, se bene ella negasse poi d’averla firmata prima dell'attacco di Vercelli, per dar ad intendere che ne era stata costretta dalla mossa delle armi di Spagna contra quella città. 1/42 NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA Nos Hieronimus Fratricius et Ferrandus Talgius abbates ven. collegi not Mini fidem facimus et altestamur retroscriptum Franciscum Robatum fuisse et esse publ" legalem ae fide dignum Mini Not” eiusque seripturis ab eo sic ut s° subtis plenam semper et indubiam adhibitam fuisse in diesq. adhiberi fidem in iud° et extra. In quorum ete. Mino die vigesima runti A6LO. CaroLus Manus Mapronus not et di colleg. cancells Quanto il Mondella qui attesta con uno stile pacato, si riscontra pienamente coll'ambizione della Duchessa. Ella, vivendo il marito, si inframmelteva nei negoziati politici per condurli a favorire la Francia, e si preparava la via per arrivare, morto lui, al dominio assoluto. 1 ministri di Francia la assistevano‘coi consigli e’ con ‘danari. i _ È UTI UD VZ£] Wi dI UNI Î. Dj 3% S n PER A. PEYRON. INDICE Occasione e motivi di questa Scrittura. — Carte del C. Messerati. - Storia MERA TT BAZZONI ENO AME MV RRRA RRO GRNCA O I CO ente so: La Vita di M. Cristina compilata dal Guichenon, scoperta. descritta e GIACICOLA NEAR SANI RRSSAA RE OSE TTI E DE IROROTANIA TREE EV TRA O RS Ao Fatti anteriori alla Reggenza a) Il Duca Viltorio Amedeo I respinge le condizioni di lega propo- stegli dal C. di Richelieu. - Sua dignitosa e sapiente risposta . ...... b) La D. Cristina e la sua consorteria francese muovono una minuta querra al P. Tommaso. - Loro ultimo stratagemma - Tommaso abban- TRITATA IL I bio i olo c) IL Card. Maurizio rinunzia al protettorato di Francia. - Suoi molivi. - Mal giudicato dal Richelieu. -' Suo carattere. - Calunniato, abbandona il Piemonte. - Alire prove del suo carattere >. .......... d) I Duca Vittorio negozia con Spagna ‘contrastato dalla ‘scaltra consorte. - Generale della lega, bilancia tra Spagna e Francia i van- iaggi e le perdite. - Propone a Francia una querra grossa non accettata dalRichelieWwWdCheNtONSCUSA PINNA. MENSA: VIVI SES SICA Il Duca cade infermo. — Un sospiro dell’agonizzante destituto di cognizione è il titolo legale della reggenza assoluta di Madama............... Che l'Hemery abbia tentato d'impadromrsi della Duchessa e sua: prole è una sciocca calunnia creduta per oltre due secoli da noi. - Curlo Botta giudicato come storiografo. - Il Duca non morì di veleno... ........ L’Hemery diventa l’ordinatore del ducato, valendosi del C. Filippo d'Aghié favorito della Reggente. - Compra e sempre comperò dappoi aderenti a TIMOR DPI RI RIAD RANE SPIA, PA e Il P. Monod. - Inviato a Parigi, conspira contro al Richelieu. ‘- Vuol essere ministro. della Reggente. - Avversato dai cortigiani. - Protetto dalla Duchessa. - È carcerato | \..00.0 L Madama acconsente alla lega con Francia, ma solameme difensiva. - Spera di potere; come il Duca, destreggiarsi trà Francia e Spagna; ma le mancano le tre condizioni necessarie. — I Leganes più malizioso del CiSFilppo RINO, NOOO RO RIO TUE SE SR0TA 0409, SB SRIo Menire la Duchessa spera di ingannare Francia e Spagna, VHemery: ed i Leganes ingannano lei. — Pentimento del €. RPS. . pag. 4 >) Li 32 36 LA - 43 UT UD (eri 8 20. 12. 821. NOTIZIE DELLA REGGENZA DI MARIA CRISTINA La Duchessa con invitti argomenti dimostra che la lega offensiva rovinerebbe il Piemonte, ma vi acconsente se così vuole la Francia. - La sot- toscrive piangendo. - Niuna riconoscenza della Francia............ Al Duca Giacinto, che muore, succede il Duca Carlo. - Il C. Maurizio partito da Roma rientra nel ducato con intenzioni pacifiche. - L'Hemery vuol arrestarlo. - Madama lo salva, ma lo respinge dal ducato ..... (Segnato 441 per errore). La politica di Spagna. - Il Re effeminato. - L’Olivares governa il regno, il Leganes la Lombardia. - Due governi diversi, dai quali i Principi sono palleggiati. — Disegni della Spagna SULACAGAIO: RO ASA IRE 0 Il seguente $ avrebbe dovuto essere segnato col n° 14, ma per isbaglio lo fu col n° 415, e l'errore continuò. Contese fra la Spagna ed i Principi circa al comando della guerra, ai sussidio di truppe e danaro, ed all'occupazione delle piazze - Perfidia D'ASPORRE ETTORE RR AE o) CIS La perfidia di Spagna continua dopo la resa di Torino, e Tommaso si aderisce a Francia - Lusingato da Spagna colla promessa d’un trattato, disdice la sua.adesione. — Il trattato è scritto, ma il Re non lo ratifica. - Il Messerati va a Madrid per ottenere la ratifica, e nuove concessioni. - È baloccato dall’Olivares. - I Principi stomacati di Spagna si aggiu- stano con Madama e con Francia — L’Olivares antidata di dieci mesi la ratifica e la nominazione di Tommaso. - Questi la respinge, e volta le armi contro la perfida Spagna... i... La politica del C. di Richelieu. — In quali casi egli ammettesse od escludesse i Principi ‘dal ducato, ed anche ‘dalla successione, affinchè questa tra- passasse in una figlia che, sposando il Delfino, unisse il Piemonte alla Francia. - Voleva cessione di piazze con promessa di loro restituzione. - Dubbi su questa. - Voleva il Piemonte ou ami è tout faire, ou hien GMAT] a sio gus iogdoscì I BIRO ORIO O E DIGLO CIAIOIA ORRE Ton E Rio o Meteo Vovioee Il Richelieu nell’esigere tatto dal Piemonte era prudente nei mezzi, perchè temeva la nazione. - Fu prudente in Grenoble. - Fu violento nel far rapire il C. Filippo, perchè nulla temeva da alcuno. - Adonestò il rapimento. - Scandalosa intrinsichezza del Conte con Madama. ...... La Duchessa Cristina. - Venuta în Piemonte, vi portò la leggerezza francese. - Si formò una consorteria. - Agente di Francia. - Reggente, volle mo- . strarsi piemontese, ma levò di sé ‘acerba fama. .......:........... Per la sua mal dissimulata diffidenza di «Francia la ‘Reggente neppur si conciliò il Richelieu, che la sprezzava. - In Grenoble si mostrò forte. - Vi fece promesse con animo dî non osservarle..............-....- I cortigiani colpevoli d'una parte degli errori di Madama. - Resisterono a lei desiderosa di abboccarsi col .P. Cardinale. - La spinsero alla lega offensiva con Francia. - Calunniatori. - (Consiglieri d'una politica pag. 92 56 61 6L 80 84 88 94 PER A. PEYRON. non eseguibile. - La Reggente aspirava a dare in isposa al figlio AIN IAN ASA S 22. I due Principi del sangue. - Dopo la morte del Duca, il C. Maurizio, geloso del fratello, vuol fare da sè, e viene nel Genovesato. - Tommaso scrive da Fiandra lettere non sediziose: più tardi viene in Italia. - Conquista provincie, mal suo grado sottoscrive una trequa per trattare un accordo. - Il negoziato si prolunga per le malizie nostre. - Schiettezza del:Richeliob ARE SE I ART AIN ERE $ 23. Che il Richelieu abbia offerto aî Principi di dar loro autorità di reggent, lasciandone a Madama la sola apparenza, è una ciancia. - Origine di essa. - I due fratelli perseverano uniti nel negoziare ............. $ 24. Finita la tregua, si torna alle armi. - Tommaso arrende la città di Torino. - Suoi sentimenti. — Ricusa di abboccarsi col Leganes. - Dop- PDICZZON AI SMI OI IAA SRI AI $ 25. Tommaso in Ivrea è costretto da Mazarini a sottoscrivere il trattato di sua adesione a Francia. - Lo disdice. - Sua apologia ....... Bo $ 26. Tommaso ritorna alle armi; perde. - Sì rinnovano è negoziati per un aggiustamento. - I Principi vi ripugnano. - Lo sottoscrivono. — La riconciliazione è solo apparente «............L0 000 RA. SOT. Conclusione: a xp eater doge APPENDICE. N° I. Lettere del P. Tommaso al Duca Vittorio suo fratello regnante, luna da Thonon A° aprile 1634, Valtra da Brusselle 8 seltembre A634..... N° II. Documenti di Francia, e le Mémoires du Card. de Richelieu. - Le carte Messerati, alle quali si premettono cenni biografici su lui e sul Commendalore: PASerORa te e N° III. Il Cav. Otiavio Mondella e la sua testimonianza legalmente rogata in Milano li 20 giugno 1640, originale, conservata fralle carte Messerati Alla pag. 52, lin. 3 invece di ne pouvoît si corregga en pouvoit. Serie II. Tom. XXIV. » » » 145 107 AAA ALE 149 423 137 LO, visi De cha si È vie IPA PTT ii fine VI o io neo sad della (Ù BI pri ds der seni aan > Lai send ERRE ILE Medal. DI ei i i panane da VE / gti na; A 4 1 i 3", varprateiitga ge Lana irta) stra quolete o SI i PE: corona separati) ip aspirati dica tiv vo: ug ni i s SMANARI sic pani ib, Airone goth e : spino. » pesi ra i ! i Tot ‘a Hpbiga Padoa ‘n anintasonat; Bait ia omar hard siii e TT sibi alipi nuot dis got I ‘ha! Lera sgonia to, invagbie i, gii nt 96 da gi VIA fi RETTO dit dr MOTI o 2) Geco mali i aisitionglton i iningaoii, ab olio 8 dasiì tà ptt ga psi neque, puiD: i saltaiboaie piani kai ng ate na CT lino: Riebpongie de dinsagernire fi 4a mm LARA Di rn ts 2 pio) da i MIRATA ne: (pa “i sali vt: prat o MZ ri ABRE 3a nia ti priore di pera Varini (Ass a pf < TAR AE al ARAN dre ARTI delle | Ano MM TI si Li LU ; Da A ? vie Lig Pi Si ot PERI O DÌ get Late LULA Ò pi N Ù La n i d ui * #* cai to” ro AV x rerisogi 1A | n Ei Le SCUT Lv st ‘ i} sd MI Î UA Mar N pi "AO ti 2 A A "II 1 THOMAE VALLAVRII ANIMADVERSIONES IN DISSERTATIONEM FRIDERICI RITSCHELII DE PLAVTI POETAE NOMINIBYS Approvata nell'adunanza del 14 aprile 4866 r——_1n—c——pw stanan singulari Sarsinatium benignitate publice illorum civitate sum donatus, et M. Accium Plautum me iuvat civem meum appellare, opus iamdiu inchoatum Plautinas Comoedias illustrandi (1) alacriore animo mihi profligandum putavi; et, si per vires licebit, me aliquando perfecturum confido. Quum autem propositi tenax, in criticas scriptiones studiosius inquirerem, quae de hoc poéta proxime apud Germanos pro- diere, incidi in quaestionem, quam haud ita pridem invexit Fridericus Ritschelius, collega noster, doctor olim decurialis et magister a bibliotheca in athenaeo Bonnensi. Eruditissimus hic vir, de litteris latinis optime meritus (2), abhine aliquot annos animum appulit ad evulgandas fabulas Plautinas eo. prae- sertim consilio, ut emendatissimae, quoad eius fieri posset, in manus hominum venirent. Constat enim inter omnes, nullum fortasse ex Romanis scriptoribus fuisse pluribus mendis deformatum, quam Umbrum poétam. Itaque diu multumque in manibus habuit Ritschelius Plautinos codices, (1) Quatuor iam comoediae editae fuerunt cum hoc titulo: M. Attii Plauti Aulularia, Miles gloriosus, Trinumus, Menaechmi ad recentiores editiones exegit, animad- versionibus auxit et scholasticis praelectionibus accommodavit Thomas Vallaurius. Aug. Taurinerum, ex offic. reg. ann. M. DCCC. LHI - LIy - LV - LIX, in-80. (2) Hanc sibi laudem multis nominibus vindicat Bonnensis professor, praesertim vero ob priscae latinitatis monumenta epigraphica, quae Berolini evulgare aggressus estiam inde ab anno M.DCCC.LsII, ad archetyporum fidem exemplis lithographis repraesentata. 148 THOMAE VALLAVRII manu exaratos ; eosque praesertim; qui adservantur Romae in bibliotheca Vaticana, et palimpsestum, quem Angelus Maius invenit Mediolani in bibliotheca Ambrosiana, quique, si fides Niebuhro est adiungenda, pertinet ad saeculum quintum christianum. Qua quidem in re ita est versatus Bonnensis professor, ut complures locos Plautinos, apte sapienterque emendatos, in pristinum nitorem restitueret. Attamen (ut ingenium est doctissimorum, quibus multa acuta et subtilia veniunt in mentem) sibi liberius interdum indulgens eo processit, ut Plautum non tam emendare, quam ad libidinem fingere videatur. Sed antequam Sarsinatis comoedias in vulgus ederet (1) Ritschelius, anno huius saeculi quinto et quadragesimo Parerga in Plautum (2) emisit, in quibus fusius disserit de Plauti poétae nominibus deque eius aetate, de Plautinis fabulis, quae Varronianae vocantur, de Plautinis didascaliis, de veteribus Plauti interpretibus, alilsque id genus, ex quibus studiosi uberes sane fructus percipiant Vix cum hae Ritschelii disputationes in vulgus manarunt, in omnium ore atque sermone prima illa esse coepit, quae inscribitur de Plauti poétae nominibus. Siquidem clarissimus hic vir confirmare aggre- ditur, Sarsimatem poétam, non Marcum Accium Plautum (quod nomen iam inde ab exeunte saeculo quintodecimo omnes Plauti editiones constantissime praeseferunt), sed Titum Maccium Plautum esse appellandum (3). Huic Ritschelii opinioni suffragati sunt apud Germanos Lachmannus atque Hertzius, acerrime vero adversatus est Geppertus, excellentis in- geni et doctrinae vir. Apud Gallos Ritschelianum commentum insectatus est G. Boissierus, professor in Parisino lyceo, cui nomen a Carolo Magno est factum (4). Naudetus autem vir cl. nec adfirmare nec refellere ausus, rem in medio relinquit (5). Ceterum praeter nonnullos Germanos, in (1) 7. Macci Plauti Comoediae ex recensione et cum apparatu critico Friderici Ritschelii..... Bonnae, H, B, Koenig. An, Mm pccc xLvm, in-8. (2) Parerga zu Plautus und Terenz erster bund von Friederich Ritschl. Leipzig, 1845, in-80. {(Rarergon Plautinonum Terentianorumque vol. I scripsit. Fridericus: Ritschelius. Lipsiae, apud ene An. M: Dccc Xv, in-8°). (3) Iam anno m pece xLu Ritschelius: soripserat in Museo Phzlologico, se Plautinas fabulasi vidisse in radepioro Ambrosiano, 7. Macci Plauti, nom M. Atci Plauti appellatione donatas. (&) V. Journal général de, l’Instruetion publique , vol: 28, n° 39 et 41; tt et 21 mai 1859. (5). « Qu'il se soit appolé. M: A4ocius ou Attius Plautus, comme le portent les édi- » lions de ses ceuvres imprimées, ou que lon ait nommé 7. Maccius Plautus, comme DE PLAVTI POETAE NOMINIBVS 149 quibus Fleckeisenus (1), neque apud Britannos, neque apud Italos, neque apud alias gentes, politiore humanitate excultas, quispiam hactenus fuit, qui Plautinas fabulas Ritscheliana appellatione evulgaret, si excipias in Gallia Aemilium Benoist, amicum meum, eundemque spectatissimum litteraram latinarum doctorem in lyceo imperatorio Massiliensi; qui abhine quatuor annos Cistellariam, et anno insequenti Rudentem edidit, Ritscheliano titulo donatas (2). Haec breviter de doctissimis viris, qui Plautinam praenomen et nomen, a Ritschelio nuper procusum; aut recipiendum aut repudiandum existi- marunt. Quum autem fusius et diligentius in rem ipsam esse inquirendum putarem, ab illorum tamen seriptionibus evolvendis omnino abstinere decrevi, qui aut pro Ritschelio stetissent, aut in diversam sententiam discessissent; ne forte aliorum auctoritate potiusquam rationum momentis impelli viderer. Quapropter marte meo rem expediens, multis praeter- missis, quae habet Ritschelius in Parergis (3) suis ad Plautum, summa tantum argumentorum capita expendam, quibus tota nititur Bonnensis professoris disputatio. Quo facto, meas aninadversiones in medium ad- feram, quas acerrimo vestrum iudicio propono, collegae clarissimi , qui abhine aliquot menses vestrorum studiorum socium et consortem, pro vestra humanitate, adsciscendum putastis. Primum omnium ait Ritschelius, in nullo ex codicibus Plautinis, manu exaratis, legi praenomen et nomen auctoris, sed omnes ad unum, excepto palimpsesto quodam Ambrosianae bibliothecae Mediolanensis, hoc titulo esse donatos: Plauti Comoediae, vel Plauti Comici » la prouvé le savant Ms Ritschl dans une dissertalion de quarante pages, dont Mr Lachmann » adopte les conclusions contestées par Mr Geppert, et défendues par Mr Martin Hertz dans un » memoire de 32 pages in-8°, etc. Nauper, Nouvelle Biographie generale, publiée par Mrs Firmin » Didot frères. Paris, Didot, Mm pccc Lx. tom. 40me ad vocem Plautus. (BT. Macci Plauti Comoediae ex recensione Alfredi Fleckeiseni. Lipsiae, sumtibus et typis B. G. Teubneri. Mm pecc L. (2) Titi Macci Plauti Cistellariam recensuit varioramque notis illustravit E. Benoist. Lugduni, 1863, in-8°. Praeposita est huie editioni politissima galli doctoris praefatio. — Titi Macci Plauti Rudens « Le Cable, Comedie de Plaute, revue sur les principales éditions » et publiée avec une. préface et des notes en frangais par E. Benoist, ancien élève de VEcole » normale, agrégé pour la classe supérieure ete. Paris, Auguste Durand, 1864, in-8°. » Ibidem in notis, pag. 79, scripsit E. Benoist: « Je crois avoir en France mis poor la première fois en » léte d’une Comedie de Plaute cette désignation: 7. Macci Plauti. (3) De Plauti poétae nominibus Disserlatio I, pag. 3 - 43. — Die Plaulinischen Didaskalien. Disseriatio EV, pag. 297. ; (o) 1950 THOMAE VALLAVRII Comoediae; vel demum Plauti Comici poétae Comoediae. Praeterea vetustiores omnes editiones Plautinae, arte guttembergia evul- gatae (veluti quas Alexandrinus Merula adornavit iam inde ab anno M. cccc. Lxx1 et anno m.cccc.LxxxI1 ) hoc solum titulo gaudent: Plauti Comoediae (1). Quibus positis concludit Ritschelius, praenomen illud et nomen (Marcus Accius), nullo nixa fundamento, perperam ab antiquissimis Plautinarum fabularum interpretibus (2) Sarsinati poétae fuisse adficta, pro eo quod est Titus Maccius; quae postrema nomina ipse testatur legi in palimpsesto Mediolanensi (3), quem supra memoravi. Quum autem huic Ritschelii sententiae refragentur loci non- nulli ex Varrone, Festo, Frontone, C. Plinio Secundo, A. Gellio atque ex duobus prologis Plautinis deprompti, horum auctoritatem summa ope convellere conatur Bonnensis philologus. Et primo quidem Varronianum locum adfert a libro vm petitum de lingua latina (4), cuius haec sunt verba: Omnia fere nostra nomina virilia et muliebria multitudinis, quum recto casu fiunt, dissimilia, cum dandi, eadem : dissimilia, ut mares T'erentiei, feminae Terentiae ; eadem in dandi, viris Terentieis, et mulieribus Terentieis. Dissimilia Plautus et Plautius, et communia huius Prauri ET Marci Prauri. Deinde locum alterum exscribit ex eiusdem Varronis libro vu (5), ubi legitur : M. Accius in Casina (II, 3, 49) in fringuilla: Quid fringutis? Quid istuc tam cupide petis? Praeterea Varroni comitem addit Festum grammaticum (6), cuius exstat mutilus quidam locus, quem Paulus Diaconus dicitur in hunc modum:-supplevisse : Ploti appellati sunt Umbri, pedibus planis quod essent, unde soleas dimidiatas, quibus utuntur in venando, quo planius pedem ponerent, vocant semiplotia, et ab eadem causa M. Accius poéta, quia Umber Sarsinas-erat, a pedum planitie initio Plotus, postea Plautus coeptus est dici. (1) Est apud me.anliquissimum et pretiosissimum Plauti volumen, Parisiis editum italicis lit- terarum formis apud Guillelmum Le Rouge, impensis Dionysii Rocii, bibliopolae, ubi legitur in fronte : Secunda pars Plautinarum Comoediurum; deinde Plauti Comicè festivissimi Menaechmus ... Plauti Sarsinatae Miles ete. Ad calcem vero libri: Fizis Plautinarum Comoediarum. (2) Omnium primi feruntur Umbrum poèétam M. Accii Plauti nominibus donasse Sara- cenus et Pius, qui comoedias ediderunt ab an. M cccc xc ad annum mM D xXx. (3) Pag. 372:07. Macci Plauti Casina explicit. Item pag. 112: 7. Macci Plauti Menaechmi etc. (4) 2 36 Muell. pag. 419 Speng. (5) 104 Muell. pag. 381 Speng. (6) Sex. Pompeii Festi de verborum significationé lib. XX. Mm p Lxxv. Vide pag. cLavu. DE PLAVTI POETAE NOMINIBVS LOSE Gravissimum sane argumentum ex allatis locis eruitur adversus Ritschelianam sententiam. Siquidem planissime disertissimeque tum Varro, tum Festus memorant Marcum Accium Plautum poétam. Sed difficultati occurrens Ritschelius, scribit, primum Varronis locum cor- ruptum, ita esse emendandum, ut legamus : DissimzZia Plautus et Plautius, et commune huius Plauti: ut et Marci. Quae Ritschelii emendatio eo spectat, ut legentibus suadeat, Varronem hoc significare voluisse : vide- licet nomina //awtus et Plautius communem habere casum genitivum Plauti, haud aliter ac nomina Marcus et Marcius communem habere casum genitivum Marci. In altero autem loco Varroniano ait Ritschelius, litteram M ita coniungendam esse cum insequenti vocabulo Accius, ut legatur Macaus. Item ad Festum quod attinet, contendit, hunc locum vel a Paulo Diacono, qui Festum in epitomen redegit, vel ab aliis fuisse adulteratum ; atque in vetustioribus Festi codicibus legi tantummodo ... us poéta, non Accius poéta. Unde iam patet, ipsum poétae nomen desiderari, et propius fortasse ad veritatem accessurum, qui interpretetur [comic]us poèta. Ceterum probabile non est, pergit scribere Ritschelius, Festum appellasse Sarsinatem nostrum tantummodo Accium, quin addito praenomine , ipsum distingueret a celebri Zucio Accio poéta ; ergo, con- cludit, scribendum fuerat certe M. Accius. Qua posita lectione, non conficitur, hanc litteram M habendam esse tamquam praenomen, ibique legendum Marcus Accius potiusquam Maccius. ì Postquam Ritschelius difficultatem dissolvere conatus est ex Varronis et Festi locis profectam, venit ad quandam Frontonis epistolam (1), ubi haec perspicue leguntur: Mire hoc genus verborum Accius Plautus ... Hic autem doctor Bonnensis nihil plane adversus sen- tentiam suam erui posse arbitratur ex hac Frontonis epistola, quam Angelus Maius primum evulgavit ex palimpsesto bibliothecae Ambrosianae. Fieri enim potuit, ait Ritschelius, ut negligentia librari duplicata non fuerit littera M, hoc est praetermissa fuerit haec littera, quae erat con- iungenda cum insequenti nomine Accius, ita ut legeretur Maccius. Fortasse etiam Angelus Maius, non bene perpenso Frontonis loco, et vulgatae opinioni indulgens, scripsit Accius pro eo quod est Maccius. Ad eundem plane modum pugnat Ritschelius adversus triplex, idemque firmissimum argumentum petitum ex C. Plinio Secundo, qui in elenchis (1) Vide Palimpsest. Ambros. bibliothecae pag. 251. — De orat. III, pag. 180. Romae, 1846. 152 THOMAE VALLAVRII librorum xrv, xv et xix Historiae Naturalis (8), Sarsimatem poétam èton- ceptissimis verbis appellat M. Accium Plautum. Extrito enim puncto, quo littera M discriminatur a voce Accrus, ecce tibi, ait noster, germanum Plauti nomen existit Maccius. Quam quidem sententiam studet confirmare animadvertens, Plinium in elenchis, quos supra memoravimus, perraro praenomen, nomen et cognomen singulorum scriptorum con- iunxisse. Haec perfunctorie admodum Ritschelius de Frontoniana epistola et de elenchis Plinianis. Neque vero magnopere laborat de prologo Asi- nariae, ubi legimus: Nunc quod me dixi velle vobis dicere, Dicam: huice nomen graece Onagost fabulae , Demophilus scripsit: Marcus vortit barbare : Asinariam vult esse : si per vos licet. aut de prologo Mercatoris, ubi exstat hic versus: Eadem latine Mercator Marci Accu. Namque ad Asinariae versum quod spectat, ait a vulgata lectione recedere codices praestantissimos, in quibus legitur Macrus, vel M. Accius, vel demum Maccus; ibique legendum omnino : Demophilus scripsit, Macciu” vortit barbare. In versu autem Mercatoris, manibus pedibusque obnixus ut senten- tiam suam tueatur, contendit Ritschelius, vocem Accii abhorrere a grammatica Plautinae aetatis, quae non reciperet casum patrium, desi- nentem in duplex iota; animadvertit, in omnibus codicibus legi vel Mactici, vel Mattici, vel demum Martici; Bothium ipsum, offensum exitu illo genitivi casus in ii, reposuisse Marci Attici (9); postremo hanc unam lectionem idoneam videri : Eadem latine Mercator Macci Titi. (8) C. Plinii Secundi Hist. Nat. Aug. Taurinorum, M pccc xxix. tom. I, pag. 74, 77, 90. (9) In parisina Plauti editione Guillelmi Le Rouge, quam supra memoravi, legitur tantummodo : Eadem latine Mercator Marci. - DE PLAVTI POETAE NOMINIBVS 153 Hactenus de nomine Maccius, quod Ritschelius contendit tenendum pro eo quod est Marcus. Restabat, ut germanus philologus ‘alicunde erueret praenomen Titus, quod nescio quomodo suspicatur latere in versa Mercatoris. Cupidius autem quaerenti Ritschelio se se offert locus, quidam A. Gelli (1), ubi wvulgatae omnes ‘editiones habent : M. Aquilii; codices vero manu scripti praeseferunt M. Accii Titi, vel M. Acutici (2), vel M. Acuitii, vel demam M. Hatrutici. Ex corruptis huiusmodi vocibus conatur Ritschelius, divina veluti virgula, exsculpere Macci Titi, animadvertens, in hoc loco, uti interdum fit apud scriptores latinos, nomen Macci praepositum fuisse praenomini Titi. Quo facto arbitratur Ritschelius, se tam certis testimoniis lectionem palimpsesti Mediolanensis munivisse atque firmasse, ut nemo sanus fidem illi audeai derogare. Haec ferme sunt argumenta , quibus nixus Bonnensis professor novum Sarsinatis poétae nomen excudit. Quae quidem in universum aestimanti non est dubium, quin ab ingeniosissimo et doctissimo viro profecta videantur. Siquis autem singula studiose intueri, atque ad obrussam coeperit exigere, nae illi Ritschelianum commentum ‘patebit levi tantum- modo niti coniectura, et plus habere acuminis quam veritatis. Equidem aio, me Ritschelio fidem adiungere testanti, Plautinos codices manu scriptos, quotquot hactenus ‘innotuerunt, poétae prae- nomine el nomine carere, si unum excipias palimpsestum Ambrosianmum. Quod quidem et ipse, abhine annos quatuor, Italia universa peragrata, oculis usurpavi in singulis bibliothecis, praesertim vero in Vaticana, quae, prae ceteris italicis, Plautinis codicibus pretiosissimis abundat. Do etiam Ritschelio, Plautinas editiones vetustissimas uno Plauti cogno- mine exornari. Sed aperte profiteor (pace quod fiat viri eruditissimi ), me a Ritschelio penitus dissentire, quum lapidem omnem movei, ut gravissimum testimonium refellat ex Varrone, Festo, Frontone, C. Plinio Secundo, A. Gellio et Plautinis prologis depromptum. Et revera quisnam (4) Marcus autem Varro in libro de Comoediis Plautinis, primo actu; hacc ponit: Nam nec Gemini, nec Leones, nec Gondalium, nec Anus Piauti, nec Bis Compressa, nec Boeotia unquam fuit, neque adeo &yp2‘05, neque Commorientes: sed M. AquiLi. In eodem libro Varronis id quoque scripium est, Pl/autium fuisse quempiam poétam Comoediarum, cuius quoniam fabulae Plauti inscriplae forent, acceptas esse quasi P/autinas ; quum essent non a Plauto Plautinae, sed a -Plautio Plautianae. A. GeLLIUS, Noct. Att. III, 3. = (2) Ita legitur etiam apud A. Gellium, editum Lugduni apud Seb. ‘Gryphium, an. 1542. Serie II Tom. XXIV. 20 154 THOMAE VALLAVRII illius sententiae subscribat, nullo prorsus argumento affirmantis, priorem Varronis locum, quem supra memoravimus, vitio laborare, atque ita esse emendandum, ut expuncto cognomine Plauti, vox Marci ha- beatur tamquam profecta a nomine Marcius? Quorsum, quaeso, spectant Varronis verba? Huc nimirum ut doceat, nomina latina, quae in recto casu exeunt in 75 et in us communem habere exitum in casu patrio numeri singularis. Qua lege posita fit, ut et Plautius et Plautus habeant casum genitivum communem Plauti. Hoc perspicue, mea quidem sententia, significavit. Varro, quum scripsit: Dissimilia sunt (in casu recto) Plautus et Plautius, et communia (in ‘casu genitivo) huius (1) Plauti et Marci Plauti. Ecquid igitur causae erat, quamobrem Ritschelius incorruptam Varroniani loci integritatem calum- niaretur, verbaque ad libidinem immutaret ? Responsum in promptu est. Nempe Ritschelii maxime intererat invisum Marci praenomen quovis pacto abolere. Quod quidem praenomen pariter expungit ex altero loco Varroniano, coniunctis litteris in unam vocem Maccius. Quo facto veretur Ritschelius ne forte argutari et hariolari iudicetur. Ego vero neque argutari, neque hariolari doctissimum hominem dixero, qui postquam falsam sibi alicuius rei persuasionem induit, omnia facit, quo propositum assequatur. Hic autem absurdum profecto Bonnensi philologo videri non debuit, Varronianum locum per coniecturam sic interpungere, ut duae voces in unam coalescerent (2); quum praesertim in libris vetustioribus, manu exaratis, litterae nullis saepe punctis distin- ctae, uno tenore scribi consueverint. Neque alio argumento, quam coniectura ductus affirmat Ritschelius, omnem plane auctoritatem esse detrahendam adulterato, uti ait, Festi loco, quem in medium attulimus. Ego sane non video, cur ibi cogitandum sit de voce Comicus, potiusquam de voce Accius ; non video, cur Festo necesse fuerit (uti contendit Ritschelius), nomen. aliquod. praeponere voci Accius, ne videlicet ambigerent lectores, utrum ipsius verba ad Lucium Accium , poètam tragicum spectarent, an ad Plautum, comoe- diarum scriptorem. Quum enim in allato Festi loco memorentur Umbri (1) Supervacaneum arbitror monere, pronomen huius poni a Varrone tamquam signum casus patri, pro eo quod esset Graecis arliculus où. (2) Exemplum instauravit Rilschelius veterum philologorum, qui auctorem Noctium Atticarum Agellium non Aulum Gellium falso appellandum esse contenderent. DE PLAVTI POETAE NOMINIBVS 155 et Sarsinates, qui a pedum planitie P/oti vel Plauti appellarentur, iam illud patet apertissime, veteris grammatici verba ad Lucium Accium Pisaurensem referri non posse. Quamvis autem Ritschelio concedamus, in vetustis codicibus litteram M, probabili omnino coniectura praecessisse nomen d4ccius, anne quispiam hinc colligat, necessario legendum esse Maccius, potiusquam Marcus Accius? Hanc tamen lectionis necessitatem mordicus tuetur Ritschelius vel in Frontonis loco, de quo supra memoravi; eo usque progressus, ut Angelum Maium, singularis ingenii, doctrinae et diligentiae virum osci- tantiae criminari non dubitet, propterea quod in describenda Frontonis epistola, de Accio Plauto, non de Maccio Plauto cogitanit. Qua quidem in re Angelum Maium falso a Ritschelio accusari apertissime patet ex Frontonis palimpsesto, quem sedulo nuper inspexi in bibliotheca Ambrosiana. Siquidem vox verborum versum claudit; nomen vero Accius legitur initio versus insequentis hoc modo : 119/080.) one hoc genus verborum Accius Plautus . . . Ceterum si res vel una auctoritate sit dirimenda , Angeli Maii scriptionem Ritschelianae emendationi longe praetulerim. Italus enim philologus, nullo instinctus studio, non antecapta persuasione impulsus, Frontonianum exemplar descripsit. E contrario hoc unum Bonnensi doctori erat pro- positum, ut ex Frontonis epistola placitam, sibique unice probatam lectionem erueret. i Quamquam nihil iam nobis opus erat, ad controversiam diiudicandam, recentiorum scriptorum auctoritatem in medium adferre. Nulla enim hac de re inter aequos sapientesque aestimatores contentio iam esse potest, qui Plinianos modo elenchos inspexerint, in quibus Umber poéta haud semel, sed iterum ac tertio, expressa M. Accii Plauti appellatione donatur. Nec facit quod scriptor historiae naturalis, in auctoribus com- memorandis, uno ferme aut duobus nominibus contentus, perraro tria usurparit. Cur enim Plinio in L. Atteio Capitone (1) etin Cassio (1° C. Plinii Secundi edit. Taurin. tom. I, pag. 38. 156 THOMAE VALLAVRM Severo Longulano (1) designandis, triplicis nominis gratiam facias, in M. Accio Plauto non facias? Nempe oportet contrariis, ilsdemque certissimis indiciis nitatur qui pervicaci animo Plinianae huic lectioni repugnet, quam incorruptam. testantur, praeter cetera argumenta, ipsi prologi Plautini Asinariae et Mercatoris. Hic vero, te, Ritscheli, rogo, vir doctissime, ut ne graveris per- cunctanti mihi ex tui animi sententia respondere. Tute fateris, apud praestantissimos codices manu scriptos in Plautinae Asinariae versu, de quo supra dietum est, legi vel Macrus, vel M. Accius, vel Maccus. Dic igitur, sodes, nonne variae huiusmodr codicum lectiones, etiam spectata litterarum similitudine, propius et verius ad vulgatam (Marcus) accedunt, quam illa tua emendatio (Macciu’), qua ingeniose quidem et acute difficultatem dissolvere studuisti ? At minus feliciter, pace tua dixerim, rem expedivisti in prolego Mercatoris, ubi versum carpis, quod recedat a grammatica ratione Plautini aevi, quae exitum repu- diaret genitivi casus singularis in ii; ideoque tamquam vitiatam expungis vocem Accii. Patere, sis, Ritscheli, me tuis armis adversus te pu- gnare ; illa videlicet usurpando, quae ipse passim tangis in Parergis (2), quaeque nuperrime confirmavit Diatzkus (3) in disputatione sua de pro- logis Plautinis et Terentianis. Nimirum romanas comoedias, quae semel in theatro actae stetissent, plausuque fuissent a spectatoribus exceptae, histrionum greges praesenti pecunia a poéta mercabantur, easque pro arbitratu suo immutabant ut spectantium ingenio et voluptati obseque- rentur (4). Quas quidem comoedorum adulterationes atque interpolationes apertissime testantur Plautinarum fabularum prologi, ubi de rebus in- terdum sermo est, quae longe post Plauti obitum evenerunt (5). Ecquis vero tibi assentiatur, contendenti, hunc Mercatoris prologum a Sarsinatis nostri aetate, vel longo intervallo distantem, genitivum illum Accii recipere non potuisse? Ecquis certam huiusce interpolationis (1) Op. cit. tom. I, pag. 147. (2) Dissert. III, VII, VIII, IX. 5 (3) De Prologis Plautinis et Terentianis. Bonn., 1864. — Cf. Osann., Analecta critica, pag. 150, 442, 444. (4) Huc nimirum spectant Horalii versus 174 et seq. in epistola prima libri secundi, in quibus poètas carpit, quod lucri tanlum et mercedis causa comoedias suas scriberent: Gestit enim (posta) nummum in loculos demittere - Post hoc securus, cadat an recto stet fabula talo. (5) Sit exemplo prologus Casirnae, quem patet a Plauli ingenio non esse profeclum. DE PLAVTI POETAE NOMINIBVS 157 aetatem audeat definire ? Equidem cum. Sverdioeo arbitror, Osannum (1) rem acu tetigisse, quum suspicatus est, hunc prologi versum fuisse aliena manu superinductum ; siquidem neque cum superioribus versibus, neque cum insequentibus apto sententiarum nexu continetur. Ceterum, neminem , credo, aut perpaucos sane tibi adeo morigeros invenies , quibus facile persuadeas, ex. variis hisce codicum lectionibus (Mactici, Mattici, vel Martici) sponte fluere emendationem tuam (Macci Titi), qua pristinam vexatissimo versui faciem te instaurasse existimasti. Ita nimirum natura est comparatum, ut quemadmodum nullo negotio homini fidem adiungimus, a quo relatum audiamus quod magnopere expetimus ; ita ex scriptionibus, librariorum inscitia corruptis, tinea exesis, vetustate pene oblitteratis, coniectando facile illa extundamus, quae in animo nosùro iam penitus insederunt, quaeque illine abesse doleret. Quod quidem Ritschelio nostro contigit, qui omni mente in ea cogitatione curaque versatur, ut Titum Maccium. suum odoretur et per- vestiget non modo in allato Mercatoris versu, sed in loco etiam A. Gelli, ubi neque optimae editiònes, neque corruptissimae codicum lecitones eam litterarum similitudinem exhibent, ex qua exoptatus ille Titus Maccius tandem excitetur. Et revera quaenam Maceio Tito est similitudo cam M. Aquilio, M. Acutico, M. Acuitio et M. Hatrutico? Ritscheliano commento videtur prima fronte suffragari lectio Gedicis Regii et Rottendorfiani., ubi scriptum est M. Acciî Titi. Sed. qui vetustiorum codicum lecuioni assueverit, statim perspiciet,, facillime factum fuisse, ut, qua tempestate littera e locum obtineret litterae 9, Romanis adhuc ignotae, vox Aguiliù abiret: in corruptas pariter voces dccii Titi, vel Acutici vel Acuitii. Neque ad abolendam vocem Aquilii satis. erit notare, inauditum esse apud Romanos Aquilium, comoediarum scriptorem. Quot enim veterum poétarum non modo opera, sed nomina quoque, temporis iniuria aut plane interciderunt, aut semel iterumque a grammaticis tantummodo memorantur? Huc accedit,, quod Ritsche- lianam emendationem tum in prologo Mercatoris tum vero in Gelliano loco minus probabilem facit inversus verborum ordo, quo praenomen Titi nomini Maccii postponitur. Quamquam enim non desunt apud Latinos perturbati huiusce ordinis exempla; adeo tamen infrequens illoram est usus, praesertim apud solutae orationis scriptores, ut inde (1) Op. cit. pag. 172. 158 THOMAE VALLAVRII nihil ferme ponderis accedat Ritschelianae coniecturae. Quae quidem coniectura magis magisque a veritate recedere videbitur consideranti, praenomina a Romanis ferme fuisse conscripta per litteras singularias, non per consequentias litterarum. Venio nunc ad argumentum omnium gravissimum, quo praesertim nititur Ritschelius, quodque videtur causam ei dedisse acerrimi ingenit sui vexandi, ut Varronis, Festi, Frontonis, Plinii, aliorumque locos ad sententiam suam, coniectando, detorqueret. Venio videlicet ad palim- psestum . Ambrosianae bibliothecae, cuius considerandi gratia abhince aliquot dies Mediolanum sum profectus. Ut primum hunc palimpsestum diligenter evolvi, mutilum, hiantem, miris modis deformatum, cuius plurima folia, iniuria temporis perforata, decolorata, vix ullum osten- dunt vetustioris scripturae vestigium, equidem sum miratus, quod Ritschelius huiusmodi reliquiis tantum tribuerit, ut in Plautina sua editione, saepe ne latum quidem unguem ab iis recederet. Profiteor tamen, in pagina trecentesima, secunda et septuagesima, evanidas quasdam litteras oculorum aciem exacuenti satis apparere, ex quibus haec verba eruuntur: T. Macci Plauti Casina explicit. Hoc unum notabo, dubitari posse, utrum littera T, quae praecedit nomen Macci, puncto sit distincta, necne; teste etiam Antonio Cerianio, un viro Ambro- sianae bibliothecae moderandae, cuius doctrinae atque humanitati plurimum debeo. In reliquis palimpsesti locis, ubi Ritschelius testatur, se legisse haec tria nomina T. Macci Plauti, litterae vetustate sic eva- nuerunt, ut nullo prorsus pacto sincerum inde nomen liceat exsculpere. Sed demus quidem Ritschelio, Plautina haec nomina iterum ac tertio scripta fuisse in palimpsesto Mediolanensi. Anne hinc manat, Ritscheli sententiae esse acquiescendum, qui hoc uno nititur testimonio ? Anne dicendum, unum hoc exemplar tantum auctoritatis habere, ut fides omnino sit detrectanda Plautinis editionibus, quae ad hanc diem pro- dierunt, quaeque Plautum Marci praenomine et Acciî nomine donarunt? Anne dicendum, toto coelo errasse doctissimos viros, qui usque ad nostram aetatem in Varrone, in Festo, in Frontone, aliisque vetustioribus scri- ptoribus concordes legerunt Marcus Accius, non Maccius? Quid, si librarius palimpsesti Ambrosiani, vel inscitia, vel negligentia, uti fit, hanc litteram T invexerit, quae in nullo alio ex codicibus Plautinis occurrit? Ergone unius, et rudis fortasse aut oscitantis librari mendum pro germana lectione accipiemus ? DE PLAVTI POETAF NOMINIBVS 159 Ceterum, ut quae hactenus dicta sunt, unum sub adspectum redi- gantur, iam illud primum patet, Ritschelii omnia argumenta huc demum recidere, ut ostendat, locos omnes Varronis, Festi, Frontonis aliorumque scriptorum, quos supra expendimus, aut fuisse adulteratos, aut ubi ex- stat M. Accius, legendum esse Maccius non Marcus Accius. Deinde constat, praenomen Titus nulla alia niti auctoritate; quam evanidis quibusdam litteris palimpsesti Mediolanensis, quem. insigniter deformatum diximus. Quapropter ne, rem ad vivum resecando, forte videar pertinacius in mea sententia perstare, concludo, in tam alto codicum silentio, nihil plane certi hac de re posse in medium pròferri. Quum autem tum vetus Plauti appellatio, tum nova a Ritschelio nuper inducta, coniectura pariter fulciantur, ars critica praecipit, ut illam potissimum amplectamur, quam ad hoc tempus constantissime tenuerunt omnes Plautinae editiones, quae ubique in publicum prodierunt ; eo vel maxime quod gentile nomen Accius fuit apud Romanos usitatum ac tritum; quum e contrario rarioris omnino usus fuerit nomen Maccius. Quandoquidem vero studium veritatis me impulit, ut fusius agerem de Ritscheliano commento repudiando , patiamini, quaeso, collegae clarissimi, me arrepta occasione , Italos monere, ut etiam atque etiam caveant a libidine illa, quae Germanos praesertim recentiores , veluti tabes, invasit, complura novandi in illis, quae pertinent ad archaeo- logiam, ad philologiam atque historiam. Non negaverim profecto, maiores nostros in multis errasse ; artis criticae facem, vetustioribus libris ad- motam, plurimos passim errores dispulisse ; nonnullos scriptores sedulo fuisse emendatos a viris doctissimis, qui vera a falsis, nativa ab insititiis discernerent. At non sum equidem nescius, subitariam quorundam recen- tiorum industriam multa perperam in vetustis quibusdam operibus immutasse, quae ita commacularunt (utar hic verbis clarissimi magistri mei Caroli Boucheroni (1)), ut interdum subeat dubitare, an aliquid usque- quaque sincerum occurrat. Quare dum Aristophanem Byzantinum et Aristarchum apud antiquos laudamus, qui corrupta Graecorum volumina scite emendarunt; dum post renatas litteras merito honore et grato animo prosequimur Guarinum Veronensem, Georgium Merulam nostrum, Scaligerum, Casaubonum, Heinsios, Burmannum, Drakenborchium, (1) De Thoma Valperga Calusio. Aug. Taurinorum, an. M Dccc xxxvII, in-8°, pag. CLXXXVII et seg. 160 THOMAE VALLAVRII Wyttembachium aliosque recentiores, qui operam suam in veterum emendationem studiose contulerunt, quique multa sapienter in iis decla- rando, bonarum artium sospitatores iure feruntur; acerrime nonnullorum contentionem improbamus, qui non tam inquirendae veritatis gratia, quam gloriolae captandae studio, rebus novis inventis, multa ad arbitrium penitus finxerunt. Ad Sarsinatem vero poétam quod attinet, ut eo re- vertatur unde huc declinavit oratio, sì iuxta mecum sentire velitis , collegae humanissimi, non Titum Maccium Plautum, quod nomen Ritschelio viro cl. adrisit, sed Marcum Accium Plautum pergetis appellare. =_= 2) ©4414 _____ LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED; IL SOVRANNATURALE UNU CONTINUAZIONE dell’Appendice € sulla trasformazione della specie E quanto sia incerto il criterio che altri ha voluto trarre dalla scoperta di fossili ossa umane, per argomentare l’antichità dell’umana razza, ce lo dimostra la famosa contesa intorno all’età ed all’apparienenza de’ crami trovati l'uno nella caverna di Engis presso Liegi, l’altro in quella di Neanderthal (cioè della così denominata parte della vallea della Diissel presso. Diisseldorf), paragonati così fra loro, come con altri trovati in un tumulo a Borreby nella Danimarca. Il Professore Huxley che istituì codesto paragone, mentre ammette come ceria ed esagera eziandio l’antichità del cranio di Engis relativamente a quelli di Borreby (!) e lascia incerta quella del cranio di Neanderthal, supponendolo per mera ipotesi giu- sta Lyell, potrebbe essere più recente (8); confessa tuttavia schiettamente contemporango di questi ultimi @®), ma non però più antico, laddove, (1) Questi sono da Jui assegnati al periodo della pietra nella Danimarca, e considerati come con- temporanei od anche posteriori ai Kj0kkexmodding, o, con altre parole, posteriori agli ullimi grandi cangiamenti avvenuli nella condizione fisica dell'Europa, e contemporanei dell’uro e del bisonte, laddove il cranio di Engis lo sarebbe stato dell’elefante primigenio, del rinoceronte ticorino e della jena delle caverne (Lecture delivered by Professor T. H. Huxley, F. R. S. at the Royal Institution, on Friday evening 7 february 4862; vedine un estratto nella Literary Gazette, n° 190, 45 febr. 1862, e Lyell, op. cit., pag. 81-89). Ma il Lyell (ib. p. 90) riconosce che quel cranio trovossi accompa- gnato da avanzi non solo di specie estinte, ma altresì di sopravvissute e tuttavia viventi, onde nulla si può inferire quantoalla sua relativa, e molto menoquanto all’assoluta sua antichità. V, sopra pag. 427 e seguenli. (2) Huxley, op. cit., pag. 85. (3) Lyell, op. cit., pag. 78. . Serie II. Tom. XXIV. 21 162 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE che il cranio di Engis, la cui antichità reputa certa e probabilmente di quella degli altri maggiore, non divaria punto dal tipo moderno europeo, qualora se ne prenda la media proporzionale, e potrebbe aver appartenuto così ad un filosofo, come ad uno stupido selvaggio (1). Ed implicitamente viene a confessare la stessa cosa di tuiti gli altri, non escluso quello di Neanderthal, detto da lui il più brutale e scimiatico fra tuîti i cranii umani ®; sì perchè, se l’idiotaggine è compatibile colle più svariate forme e capa- cità del cranio, nessuna di queste da lui conosciute ha la menoma rasso- miglianza con quella del cranio di Neanderthal, ed egli non ci vede che un estremo grado di quella degenerazione reputata da lui condizione natu- rale di certe razze umane ($); sì perchè fra i vari cranii di Borreby, gli uni dagli altri notevolmente diversi, ne trovò alcuni, ed uno segnatamente, molto rassomiglianti a quello di Neanderthal (4, e così pure fra vari cranii australiani dell’età presente, potè rinvenirne uno avvicinantesi moltis- simo a quello di Engis, ed un altro accostantesi poco meno a quello di Neanderthal (9). Onde gli fu forza conchiudere la simile o diversa misura e capacità di cranio non essere di per sè un sicuro criterio d’identità o distinzione di razza (8), e quindi, a nostro avviso, nemmeno di antica o di recente età; la somiglianza o diversità nella conformazione del cranio essendo indipendente dall’identità o diversità di capillizio, di colore, di linguaggio con che si sogliono distinguere od assomigliare le razze; è tanta la discrepanza fra cranii di una medesima razza, e tanta l’affinità degli antichi coi moderni, che torna impossibile l'argomentarne con sicurezza la medesimezza o diversità di razza (”), e per conseguenza non se ne può S nemmeno inferire un’antica o più recente età. Così difatti conchiude logi- (1) Op. et loc. cit. Cf. Whitmore, op. cit., pag. 217. V. anche Huxley, Evidence as to Man's place in Nature, pag. 156. (2) Huxley, Lecture ecc., pag. 84. (3) Ib. pag. 85. (4) Mr. Busk drew my attention. .. to the resemblance between some of the skulls taken from tumuli of the stone period at Borreby in Denmark, of which Mr. Buslk possesses numerous accurate figures, and the Neanderthal cranium. One of the Borreby skulls in particular . . . there is, without doubt, much resemblance in character between ihe two skulls (Ib.). (5) (Ib., pag. 85-86). (6) « Cranial measurements alone afford no safe indication of race ». Così egli conchiude dopo aver paragonato il cranio di Engis con due australiani e quello di Neanderthal con un cranio inglese qualificato come di tipo caucaseo nel catalogo di Hunter, per decidere la quistione molto agitata se il cranio di Ergis avesse appartenuto ad una razza superiore od inferiore, ed il risultato otte- nuio si fu che poteva attribuirsi egualmente all’una che all’altra (Ib., pag. 86). (7) Ib., pag. 88-89. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 163 camente il Lyell, confessando candidamente che gli avanzi umani trovati nelle caverne del Belgio misti ad ossami di mammoth e di altri mammi- ferì di specie estinte non accennano nè nella conformazione del cranio, nè in quella delle altre membra ad un tipo umano diverso da quello di alcune razze viventi (!); restrizione che non ha fondamento, dappoichè egli stesso riconosce coll’Huxley @® essere il cranio di Engis vicinissimo al tipo caucaseo ($). E quanto a quello di Neanderthal, di cui ammette la non ispregevole capacità @ e la troppo incerta età per argomentare da alcuni suoi caratteri anomali ed arieggianti al tipo scimiatico la proba- bilità che vieppiù a questo s’accosti il tipo umano, quanto più si risale nell'antichità ©); qualora avesse considerato che tale capacità non solo è superiore di gran lunga al maximum di quella del gorilla, ma altresì alla media proporzionale dei due estremi del cranio umano (6); e che V’irre- (1) Zhe human skeletons of the Belgian caverns, of times cocval with the mammoth and other extinet mammalia, do not betray any signs of a marked departure in their structure, wether of skull or limb from the modern standard of certain living races of the human family (Op. cit., pay. 375). (2) V. sopra pag. anteced., note i, 5, 6, 7. (3) Lyell, op. cit., pag. 89. (4) The Neanderthal skull, although in several respects it is more ape-like, than any human skull previously discovered, is, in regard to volume, by no means contemptible (Op. cit., pag. dI). (5) As to the remarkable Neanderthal skeleton it is at present two isolated and exceptionalij and its age t00 incertaîn, t0 warrant us în relying on its abnormal and ape-like characters, as bearing on the question whether the farther back we trace Man in to the past, the more we shall find him approach in bodily conformation to those species of the anthropoid quadrumana which are most akin to him in structure (Op. cit., pag. 375) (6) Giusta il calcolo del Professore Schaaffhausen, riprodotto dall’Huxley, il n2i2imu7 della capa- cità di quel cranio vuol essere ragguagliato a quello di 75 dita cubiche inglesi di acqua; ora sic- come la maggior capacilà sinora osservata in un cranio normale europeo si è di 114, la menoma circa di 59, e secondo lo Schaaffhausen, in alcuni cranii indiani, circa di 46; mentre la massima capacità sinora misurata del cranio di un gorilla non contiene che 34. 5 dita cubiche, gli è chiaro che la capacità del cranio di Neanderthal non solo raggiunge prossimamente la media proporzionale fra i due estremi del cranio umano, come falsamente conchiude PHuxley: « The Neanderthal cranium stands, therefore, in capacity, very nearly on a level with the mean of the two human extremes, » ma la sorpassa quasi d’un terzo, come pure non solo è molto maggiore, ma più che doppia di quella del marimum antropoideo (very far above the pithecoid mazimum). @p. cit., pag. 84. Il De Filippi, a dimostrare l'affinità dell’uomo colla scimmia, ora confronta l’angolo facciale del giovane orarg-outang, ora il cranio del ch:mpanzè della prima età col rispettivo dell’adulto Australiano (Luomo e le scimie, pag. 20-28); paragone che rella migliore zoologia De Filippiana non proverebbe nulla, e nella duora niente affatto; perchè se quella ammette la possibilità di due virtualità affatto distinte in due organismi affatto simili (V. sopra, t. xx11, pag. 379, 382,383); questa, ad esser buona, deve raffrontare, ordinare, e raggruppare i tipi animali nello stato loro adulto, compiuto e normale e non secondo il fetale o giovanile loro svolgimento. Ma se da questo giovanile riscontro si potesse cavar qualche costrutto, sarebbe la condanna della teoria Darwiniana; giacchè se le antropoidi tanto più sì scostano dal tipo umano, quanto più crescono e si perfezionano nel proprio, laddove l’uomo tanto 164 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE golare conformazione perde ogni valore caratteristico di specie o di razza, attesa la perfetta proporzione umana delle altre parti di quello scheletro, più loro si avvicina, quanto più digrada e traligna; ove fosse possibile una specifica trasformazione, non sarebbe quella di scimia in uomo, ma di uomo in scimia, unico progresso possibile nel sistema De-Filippiano. E tuttavia il cervello umano non è meno disforme da quello della scimia nello stato adulto, di quello che lo sia durante lo svolgimento fetale. Udiamo il Gratiolet: « C?est ze loi sazs exception, cn histoire naturelle, que le semblable se developpe d'une manière semblable; l’ordre du deve- loppement serial des espèces est conforme à l’ordre du développement embryonnaire dans une méme famille naturelle. Toute exception à cette règle constitue une anomalie sans exemple, un véritable prodige. Or ce prodige est réalisé par homme. Le cerveau de l'homme adulte, avons-nous dit, est semblable à celui du singe, et cependant il se developpe à certains égards d’une manière toute differente. Ainsi, par exemple, les plis dans le cerveau des singes apparaissent d’abord sur les lobes inférieurs, et en dernier lieu, sur les lobes frontaux. Dans Vhomme l’invers a lieu: les plis frontaux apparaissent les premiers, les plis inferieurs sont les derniers. IL en résulte des differences perpetuelles pendant la vie fetale, et homme, à cet égard, se présente comme une irrésoluble exception. Ainsi, à aucune cpoque, ce cervecau humain semblable typiquement au cerveau du singe, n'est un cerveau de singe. Il echappe à la rèégle commune. On ne peut fure, de l'homme matériel, nî un règne, ni un embranchement, ni une classe, ni ur ordre, ni une famille l'un ordre. IL est à part des étres qui lui sont le plus semblables. Il apparaît, passez-mo? le mot, aux yeux du naturaliste, qui le rangerait parmi les singes, comme une anomalie » (De l'homme et de sa place dans la création. Conference de M. Gratiolet. - Soirces scientifiques de la Sorbonne. - Revue germanique et francaise, tom. xx1x, 1864, pag. 36). Del resto, quand’anche durante lo stato fetale e giovanile, il cranio umano non si differenziasse di molto da quello di un antropoide, tale diffe- renza, apparentemente minima, si dovrebbe supporre implicitamente massima, argomentando da quella del successivo spiegamento che è per molli rispelti grandissima, segnatamente riguardo al peso del cervello ed alla craniale capacità. Lo stesso Huxley confessa che mentre il gorilla adulto pesa quasi il doppio, dice Bosjesman, di questa o quella donna europea, il maggior peso del cer- vello del più grosso gorilla non eccedette mai le venti oncie, laddove niun cervello di uomo sano ed adulto risultò mai minore delle 34 o 32; come altresì la capacità cubica del cranio di un uomo adulto non fu sinora, per quanto egli sappia, trovata minore di 62 dita cubiche, il più piccolo dei misurati in ogni razza da Morton, essendone capace di 63, laddove il più capace di un gorilla non ne conliene che 34,5; ma poniamo pure che il mri72u22 di capacità nel cranio europeo sia disceso sino a 55, ed in qualche cranio indiano, giusta lo Schaaffhausen, sino a 46, questa sarebbe tuttavia maggiore d’un terzo della scimialica (Vedine i brani riprodotti dal Whitmore, op. cit., pag. 204; Lyell, op. cit., pag. 84). Ma l’importanza di questo raffronto si raddoppia, qualora si osservi la differenza fra la capacità craniale infantile e quella dell’adulto, massima nell’uomo, mepoma nelle antropoiti; e così, giusta il Duvernay, se nell’uomo di razza caucasea la differenza è da 115 nell’infante a 170 centilitri nell’adulto, nel gorilla si è da 50 a 40, nel chimpanzè da 37 a 33 o 30, nell’orang-outang da 46 o 47 a 34 0 33. Quindi egli conchìude: « Ces comparaisons de la capacité cranienne, suivant l’dge... démontrent que chez l'homme cette capacité va grandement er augmentant, de l’enfance (113) à ldge adulte (170). Elles font voir que, dans les singes superieurs, au contraire, cette augmentation est très-faible, ou n’a pas licu, et qu'il y a méme quelquefois une dimi- nution (Archives du Muséum d’histoire naturelle, Paris, 1835-1856, tom. vi, pag. 170-172). Aggiungi ancora la sproporzione e l’incremento in senso inverso del peso del teschio vuoto e delle craniche capacità. Questa (giusta il raffronto fatto dal Bianconi fra l’uomo e l’orang-outang) nell’infante trienne è di gr. 1090, 46, nell’adulto 2086, 70, differenza 996, 24; per l’orang-outang giovane 512, 40, adulto 587, 86, differenza 75, 46, e così la differenza nell’aumento della cavità cefalica nei due periodi suecessivi fra l’uomo e l’orang-oulang è circa di 1000 ad 80. Al contrario la differenza di PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 165 come a dire delle ossa del braccio e della coscia, accennanti ad una forza e sviluppo, quale si ravvisa, sebbene in minor grado, nelle ossa di quei peso pel teschio vuoto, che dal primo al secondo periodo riesce a soli gr. 431, 10 pel teschio umano, in quello dell’orang-outang sale a 944, 30; lo svolgimento si fa dunque in senso contrario, nell’uno sì ottiene ingrandimento della cavità cefalica, mell’allro aumento della parle ossea; l'uno accenna all’ampliamento per le facoltà cerebrali, l’altro per gl’istinti viventi e brutali. Ma siccome questa divergenza di svolgimento presuppone nel germe una proporzionale implicita diversità, radice e ragione del successivo esplicamento, quindi è che l’uomo e la scimia possono bensì mostrarsi, ma non essere più diversi fra di loro che non lo fossero sin dal momento della concezione: a quel modo che niuno forse sarebbe in grado di discernere differenza alcuna nelle cicatricule dell’uovo non incubato di un falco, ed in quello di un’anitra; ma la funzione della evoluzione, quando intervenga, non può avvenire che in un determinato senso, producendo cioè il falco nel primo caso, e l’anitra nel secondo. Le cicatricule dunque differivano fra di loro quanto differiscono un falco da un’anitra (Bianconi, op. cit., pag. 24-28). Dal quale esplicamento cefalico in senso inverso, germinante dalla radicale diversità dell’uomo e della scimia ,, resta pure chiarito l'inganno di chi si pensa o vuol dar a credere che l’embrione di un tipo più perfetto assuma svol- gendosi le singole graduate forme dei tipi inferiori; illusione o fallacia che ha per unico fonda- mento l’apparente rassomiglianza degli embrioni dei vertebrali, constando tutti dapprima delle slesse ed in apparenza somigliantissime parti, cervello, midollo spinale, cuore, intesiino, senza alcun indizio però di un anteriore svolgimento appartenente ad altro tipo inferiore, come ad esempio dall’infusorio al mollusco all’anelletto (v. Fluegel, op. cit., S. 76, e Bischof in Liebig’s Chemi- sche Briefen, 1, S. 374). Locchè basta di per sè solo a dimostrare che la rassomiglianza embrio- nica dei vertebrati non è che apparente; giacchè se il trapasso di uno in altro lipo non è comune a tulta la serie, non si può provar proprio di nessuno; e ben sel sanno e lo confessano i più logici fra i Darwiniani (v. De-Filippi, op. cit., pag. 44), i quali lo assumono come un principio, senza che sia riuscito loro il comprovarne con un sol fatto la verità. E fra i molli naturalisti e fisiologi di chiara fama, sulla di cuni autorità ci potremmo appoggiare, ne allegheremo due soli; e sia il primo, Henry Martin: «dès les premières cpoques de son développement, il y a déja en lui (Vembryon) non pas, il est vrai, les caractères apparents, mais les propriétes cachees de son espèece, qui se mani- festeront un jour. Au-delà de ce que V’observation peut atteindre, il y a dans Verbrycn la faculté pré- cise et determinée de se developper de manitre à devenir un animal de telle espece, a Vexclusion de toute autre espece. L’embryon humain, aux diverses époques de la gestation est toujours un homme plus ou moins imparfait, et ressemblant par son imperfection mème à des vertebres inferieurs ; il n'est à aucune de ces epoques un arliculé, un mollusque, un rayonné (Philosophie de la Nature, Paris, 1849, t. 1, pag. 346-347. Vedi anche le testimonianze di Isidoro Geoffroy Saini-Hilaire, De Quatrefages, e Cheyreul ivi citate) ». A questo aggiungiamo Milne Edwards (PAysiologie et anatomie compare, Paris, 1857, tom. 1, pag. 32-33):a /Von; un mollusque ou un annelide n'est pas plus un embryon de mammifere arrété dans son développement organique, que le mammifere n'est un poisson perfectionne. Chaque animal porte en lui, dès son origine, le principe de son individualité specifique, ci le dévelop- pement de son organisme, conformement au tracé general du plan de structure propre à son espèce, est toujours pour lui une condition de son existence. Il n°y a jamais parité complète, nî entre un animal adulte et un embryon d’autre animal, ni entre un de ses organes et Vétat transitoire du méme organe er vote de formation, et la multiplcité des produits de la création ne saurait s'erpliquer par une parcille trarsmutation des espèces. Mais nous verrons par la suite que dans chaque groupe zoologique compose des animaux qui semblent étre des dérivés d’un type fondamental commun, les diverses espèces ne pre- sentent d’abord entre elles aucune difference appréciable, mais ensuite se distinguent peu à peu par des particularités de structure de plus en plus nombreuses. Or chaque espèce acquieri ainsi un caractère spe- 166 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE robusti selvaggi che, come i Patagoni, indurano sotto un clima rigoroso, onde non può esser dubbio (e ce lo confessa egli collo Schaaffhausen e coll’Huxley) che, come quelle ossa sono perfettamente umane e non di un essere intermedio fra l'uomo e la scimia, così pure non d’altri che d'uomo abbia potuto essere quel cranio (!); la cui anomalia riesce quindi cial qui la sépare de toute autre espèce en voie de développement, et chacun de ses organes devient diffé- rent de ce que sont les parties correspondantes chez un embryon quelconque; mais les changements que l’organe ou l’étre tout entier éprouvent après qu’ils se sont déviés ainsi de la forme generique commune, sont en genéral d’autant moins considérables que animal est destiné à acquérir une structure moîns parfaite, et par consequent il conserve souvent quelpue ressemblance avec ces formes transitoires. » Ciò riesce a dire che la rassomiglianza fra le forme transitorie e le permanenti è in ragione inversa della perfezione del tipo, escludente però sempre l’identità, ripugnando assolutamente che lo sta- bile ed il passeggero, il provvisorio ed il definitivo, il semplice ed il complesso siano egualmente condizionali; e per altra parte la condizione stessa dell’implicito importando una proporzionale interiorità tanto meno penetrabile quanto più profonda, ne consegue pure che fra germi ed embri- oni di diversa più o meno intensiva e complessa potenzialità, paragonati seco stessi o con organismi della medesima od anche di diversa specie, può correre una cotale rassomiglianza, la quale però vien chiarita apparente e non reale dal non essere gli uni del pari che gli altri suscettivi di un medesimo finale risultamento; compiendosi nel processo fisiologico durante il tempo un fenomeno analogo all’ottico a traverso dello spazio, per cui può avvenire che due torri ad una certa distanza rassomigliaptisi, vedute più dappresso si dissomiglino, e l’una sia quadrata, rotonda l’altra. Ora, come la prossimanza scuopre l’illusione che non lasciava distinguere la ritondezza apparente della torre, così la diversità di due frutti maturi imporla e chiarisce pur quella più o meno implicita dello svolgimento e del germe; l’iniziale, l’evolutivo, ed il terminativo essendo ire momenti di una sola e identica virtualità, che si suppongono a vicenda, perchè l’uno dall’altro condizionato o risul- tante come lo sono il principio, il mezzo ed il fine; o non vi ha dunque svolgimento possibile, o questo debb’essere correlativo e proporzionale all’inizio ed al termine. Chi poi nei vari tipi orga- nici non riconosce che il graduale sviluppo di un tipo unico preesistente nel germe primordiale svolgenlesi in una serie indefinita di organismi sempre più perfetti, quegli dovrebbe dar ragione della continua parallela persistenza dei meno perfetti, costanti a perpeluarsi senza mai trascendere il proprio, non sappiamo se necessario o libero, limite, arrestandosi di tratto sul punto di varcarlo, più solleciti di abortire che di raggiungere un grado ulteriore di maturità, per tema forse che ciò sia per nuocere all’armonia universale, alla quale, meglio che noni parti più perfetti e maturi, possano per avventura conferire, se non anche essere necessari, tutti quegli aborli o sconciature; chè tali hanno a dirsi tutti quei tipi comparativamente, non escluso l’umano, il quale non sarebbe nemmeno esso supremo, ma una sconcialura meno distante dall’infusorio suo antico progenitore, che non da un tardissimo, chente che si voglia essere, suo nipote, del cui rimotissimo antenato già sin d’ora l’umanità, giusta l’ipotesi Lamarcko-Darwiniana, si troverebbe, sebbene inconsciamente, in gesta- zione; cioè, d’un sott’uffiziale di bell’aspettazione, per adoperare lo stile di Edmondo About, che qualificò l’uomo primitivo: ur sous-officier d’averir dans la grande armee des singes (Le Progrès, Paris, 2° édit., Hachette, 1864, pag. 21)! E come conciliare questo progresso Darwiniano col placito Hegeliano del culto razionalistico ora dominante ? (1) Zn no sense then can the Neanderthal bones be regarded as the remains of a being intermediate between men and apes (Huxley, Mar?s place in Nature, pag. 157). Hence, even in the absence of the bones of the arm and thigh, which according to Professor Schaaffhausen, had the precise proportions found in Man, although they were much starker than ordinary human bones, there could be no reason PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 167 al tatto relativa, parziale, individuale, e compatibile accidentalmente, come fu pure testè dimostrato (!), con qualsivoglia razza umana; non si sarebbe dovuto contentare d’inferire, come ha fatto @®), che dallo scheletro di Neanderthal non si può argomentare in favore della primitiva origi- naria identità del tipo umano e scimiatico; ma dando a questo argomento non già dubbio ed incerto, ma negativo, tutto il valore che gli compete dal non essersi sinora, ed egli stesso ce lo afferma, trovato nessuna prova geologica che le razze inferiori della specie umana abbiano sempre pre- for ascribing this cranium to anything but a man; while the strength and development of the muscular ridyes of the limb bones are characters in perfect accordance with those ealibited, in a minor degree, by the bones of such hardy savages, exposed to a rigorous climate, as the Patagonians (Huxley, ap. Lyell, op. cit., pag. 85. V. sopra pag. 162, nota 3). - Professor Schaaffhausen has pointed out that... the Neanderthal skeleton does not differ from the ordinary standard, so that the skeleton by no means indicates a transition between Homo and Pithecus (Lyell, op. cit., pag. 91-92). (1) V. il Rapporto del Dottor Garbiglietti intorno all’opuscolo intitolato: Ze Neanderthal skull its peculiar conformation explained anatomically by I. B. Davy, D. M. (Giornale deil’Accademia Medica di Torino, n° 2, 1865), le cui conclusioni sono le seguenti: « Non altro essere (il cranio di Neanderthal) fuorchè un esemplare semplicemente innormale, ed essere la sua forma particolare dovuta alla sinostosi delle ossa craniali, avvenuta prima che il cranio avesse raggiunto il suo com- piuto sviluppo. — Tale sinostosi aver impedito lo sviluppo e l’incremento dell’osso frontale, dando così origine alla straordinaria depressione ed appiattimento di quest’osso. — Incontrarsi anche oggigiorno fra le razze umane moderne cranii sinostotici della stessa conformazione. — Incontrarsi spesso un consimile sviluppo innormale patologico in maggiore o minor grado anche in altre razze che non sono le barbare, variando considerevolmente sia nel grado, sia nella modificazione, a seconda delle varie e particolari combinazioni delle suture che sonosi precocemente ossificate. — Del resto, questo cranio non iscostarsi dal tipo medio del cranio umano e non potersi confondere con quello della scimia (v. Lyell, L’ancierneté de l'homme, pag. 9), e nulla sinora indicarci la discendenza del- l’uomo dalla scimia. (Pruner Bey, Bulletin de la Société Anthropologique, tom. 4, 1863, pag. 322). Dopo ciò il lettore può apprezzare il valore della sentenza pronunciata contemporaneamente a questo proposito da un altro Dottore nell’Appendice della Gazzetta di Torino, 30 gennaio 1865, n° 30, avente per titolo: Seconda lettura pubblica di madamigella Royer — Le origini dell’uomo — Eccone il tenore: « I crazii poi di Borreby in Danimarca e Neanderthal in Germania mostrano un graduato avvicinamento al tipo bestiale pronunziatissimo in quello di Neanderthal, e vengono così in appoggio dell’ipo- tesi di un'origine comune all'uomo ed alla scimia». Più reciso ancora e solenne si è il pronunziato del Professore De Filippi: « Vor devo però passare sotto silenzio la maravigliosa scoperta fatta nel 1858 in una piccola grotta a Neanderthal presso Dusseldorf di alcuni avanzi di uno scheletro umano assai probabilmente contemporaneo dell'elefante velloso (E. primigenius), e che sarebbero rappresentanti di un tipo umano affatto pileciforme, veramente bestiale; il cranio è segnalato dalla forte sporgenza del- Vorlo superrore dell'orbita, dalla grande depressione del fronte obbliquo all'indietro, dall’occipite obbliquo al davanti, dalla grossezza delle pareti. Anche alcune ossa lunghe, solo residuo del tronco di quello sche- letro che andò in gran parte disperso, si distinguono per la grossezza delle pareti, e per le scabrosità molto pronunciate degli attacchi muscolari. Basti ora la nuda esposizione dei fatt. A quali conclusioni essi trascinino la mente ritrosa è quasi inutile che i0 dica » (Op. cit., pag. 40, 41). Quanto alla ritrosia, v. sopra t. xxIl, pag. 384 e 435 in nota. (2) V. sopra pag. 163 nota 5. 168 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE ceduto le altre cronologicamente; da questa mancanza assoluta di prova avrebbe dovuto conchiudere essere dunque al tutto chimerica e priva di fondamento la presunzione che il tipo del cranio umano tanto debba essere più inferiore quanto è più antico. Laddove con evidente paralogismo e circolo vizioso egli la giudica tanto solida e fondata, quanto la teoria dello svolgi- mento progressivo su cui si appoggia ('), mentre questo abbisogna pur esso di prova e di dimostrazione. Anzi egli ed il suo collega con invidiabile sicurezza, e con un raziocinio lupigno (®), sono così sicuri del fatto loro, che trovano nel cranio di Neanderthal, qualunque ne sia l’antica o la re- cente età, un argomento del pari concludente in favore della teoria Darwi- niana e dell'ipotesi Lamarckiana; giacchè, se il cranio è antico, la sua conformazione si è appunto quella che gli compete giusta una tale ipo- tesi e teoria; chè se lo si attribuisce ad una razza comparativamente moderna, e si considera tale conformazione come un tralignamento, si avrà un esempio di ciò che i botanici chiamano azavismo, cioè la ten- denza delle varietà a rinvertire ad un tipo anteriore (3), e la teoria ne verrà così confermata, anzichè contraddetta. (1) The expectation of always meeting with a tower type of human skull, the older the formation in which it occurs, îs based on the theory of progressive development, and it may prove to be sound; nevertheless we must remember that the appearance of what are called the inferior races of mankind has always , preceded in chronological order that of the higher races (Op. cit., pag. 90). (2) Fables de La Fontaine, liv. 1, fable x. Cf. Atocizov piSo:, Fabule Asopice, fab. c1, ed. De Furia, Florentie, MDCCCIX, pars 1, pag. 168-170. (3) Zhe direct bearing of the ape-like character of the Neanderthal skull on Lamarck®s doctrine of progressive development and transmutation, or on that modification of it which has of late been so ably advocated by Mr. Darwin, consists în this, that the newly observed deviation from a normal standard of human structure is not in a casual or random direction, but just what might have been anticipated if the laws of variation were such as the transmutationists require. For if we conceive the cranium to be very ancient, it exemplifies a less advanced stage of progressive development and improvement. If it be a comparatively modern race, owing its peculiarities of conformation t0 degeneracy, it is an illu- stration of what the botanists have called atavism, or the tendency of varieties to revert to an ancestral type, which type, in proportion to its antiquity, wowld be of lower grade (Lyell, op. cit., pag. 92) ». Consente l’Huxley, ma si mostra più riguardoso ed assegnato; perocchè, secondo lui, le ossa di Neanderthal provano a/ più l’esistenza (202 già di una razza, ma) di un uomo il cui cranio si può dire che rinverta alquanto al tipo scimiatico: « The Neanderthal bones ... at most ... demonstrate the existence of a man, whose skull may be said to revert somewhat to the pithecoid type ». E con- chiude genericamente che « i fossili avanzi dell’uomo sinora scoperli non gli sembrano additare menomamente quel tipo inferiore scimiatico dalla cui modificazione derivò probabilmente l’umano: « the fossil remains of man hitherto discovered do not seem to me tv tale us appreciably nearer to that lower pithecoid form by modification of which he has probably become what he is (Man?s Place in Nature, pag. 157-159). AI contrario, il Canestrini ponendo per dimostrato ciò appunto che è in questione, la scioglie come Lyell con questa petizione di principio: « Qualunque sia la spiegazione che sì voglia dare del cranio Neanderthalese, la nostra ipotesi relativa all’origine dell’uomo non PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO r69 Pare incredibile che si possano condensare in sì breve periodo e da persone di singolare dottrina ed ingegno tante contraddizioni e tanti spro- positi; prova lampante di quanto sia capace la tirannia di un pregiudizio, od il voler accarezzare l’opinione corrente! Lasciando anche in disparte la necessità di supporre come provato ciò che è tuttavia in quistione, vale a dire la verità dell’ipotesi Lamarcko-Darwiniana, per inferirne l’antichità del tipo cranico Neanderthalese, sia il cranio stesso antico oppur moderno; e quindi il circolo vizioso voluto appunto evitare dall’Huxley (4) di provare cioè l’una cosa per l’altra; lo scarso anzi nessun valore di questo cranio in appoggio di quell’ipotesi non poteva esser meglio dimostrato da chi riconobbe e confessò la notevole capacità di quel cranio, conforme al tipo prettamente umano di tutte le altre parti di un medesimo scheletro, sicchè non vi può esser dubbio che queste ed il teschio appartenessero ad un tipo schiettamente umano (2); e considerò quella parziale anomalia di cranica conformazione comune ad alcune razze (8), ma propria di nes- suna esclusivamente (4), siccome un carattere, non già di razza, ma d’individuale degenerazione (5) , senza alcun peso quanto al decidere, vuoi la supposta, ma non mai sinora geologicamente provata anteriorità delle razze inferiori umane alle anteriori (9), vuoi l’egualmente supposta, ma non meglio dimostra e tuttavia creduta e dichiarata probabile derivazione della forma umana dalla scimiatica, alla quale, sebbene niuno de? fossili avanzi umani finora scoperti sensibilmente si avvicini, tuttavia il cranio di Neanderthal sî potrebbe dire accostarvisi alquanto e per Jegge di aza- vismo rinvertire (©). Degenerazione ed atavismo che cozzano insieme e contraddicono manifestamente alla vagheggiata ipotesi Darwiniana, non ne può essere che rafforzata. O sì risguarda il cranio — come normale per quei tempi antichi ed in allora ci presenta, insieme col cranio d’Engis, una fase dello svolgimento dell'organismo umano; o si risguarda come patologico ed in tal caso va messo in una categoria coi cranii degli idioti — il cui sviluppo non sì compie interamente, per cui accennano a specie inferiori alle umane attuali, e forse s’accostano alle intermedie tra lo stipite dei Primati e le umane d’oggidì ». Origine dell’uomo per Giovanni Canestrini, Milano 1866, pag. 113, 106. Che dire? Nient'altro che ripetere col Lyell «l’idiotaggine essere compatibile con assai varie forme e capacità di cranio ». V. sopra, pag. 162, nota 3. (1) V. sopra, pag. 162, nota 5. 3 (2) V. sopra, pag. 163, note 4 e 5, pag. 166, nota 1. (3) V. sopra, pag. 162, nota 3. 3 (4) V. pag. 167, nota 1. (5) V. sopra, pag. 168, nota 3. (6) V. ib., nota 1. (7) V. pag. 163, nota 4, e pag. 168, nota 3. “Sense Il Tom, XXIV., «i x79. LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE potendosi chiamare propriamente una degenerazione individuale o speci- fica il riprodurre le sembianze dello stipite da cui si discende, quando lo scostarsene è appunto un divenire degenere e tralignare. Nè è meglio conciliabile cotale degenerazione ed atavismo coll’ipotesi di un continuo progressivo sviluppo congiunto con un'illimitata ed illimitabile varietà, per cui, dopo una più o meno lunga serie di generazioni, gli ultimi ram- polli non ritrarrebbero più nulla del ceppo antico, ed ai remoti discen- denti non perverrebbe pur una gocciola del sangue avito, un briciolo di avita eredità (!). Ma quand’anche degenerazione ed atavismo, regresso e progresso fossero compatibili colla vagheggiata ipotesi, non se ne vantag- gierebbe niente niente la sua credibilità. Perocchè la possibilità della degenerazione e del regresso non essendo determinata e° circoscritta a questa o quella schiatta, e più a questo che a quell’intervallo nella lunga serie di generazioni e di secoli, il regresso avrebbe potuto aver luogo sin dalla prima generazione e continuarsi di poi, o per lo meno alternare; epperò nulla osta a che il cranio di Engis possa essere più antico di quello di Neanderthal, ed il tipo a cui questo rinvertirebbe più antico dell'uno e dell’altro, ed una degenerazione da un tipo anteriore eguale, se non forse superiore, a quello stesso di Engis, da cui si sarebbero l’uno e l’aliro più o meno scostati. Posta insomma la possibilità del tra- lignare e del rinvertire, crolla tutto ledifizio Darwiniano, perchè manca il fondamento per istabilire l’anteriorità dei tipi inferiori ai superiori, ed il criterio per inferirne la rispettiva età; mancanza che da noi sinora dimostrata vera in tutta la sua generalità, venne pure dal Lyell ammessa per quanto riguarda alle varie razze umane, a giudicarne dai fossili avanzi ®), e dalla maggior parte della fauna mammifera che dal periodo postplioceno fu loro contemporanea. E siccome questa lo fu pure delle specie estinte, ma perdurò sinora specificamente identica e conforme alla fauna della presente età, ne conchiude non essere a far le meraviglie che eguale costanza nei caratteri osteologici si osservi negli avanzi fossili dell'umanità, e che questa contemporanea pur essa di quelle specie estinte, come lo prova il cranio di Engis fra i loro avanzi commisto, siasi trovata fin da quel rimoto periodo distinta nelle due varietà del tipo caucaseo ed austra- (4) V. sopra, Tom. XXII, pag. 338, nota 1, (2) V. pag. 168, nota 1. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO TW7M liano (i). Il che riesce a dire che le specie durano costanti, e quando non possano più perdurare si estinguono, ma non si trasformano, e che le varie razze umane viventi od estinte non presentano tali caratteri di diversità, da non potersi ad una medesima epoca attribuire, e tutte da un medesimo ceppo originariamente derivare. Doppia inferenza che ci debb’essere consentita, la prima da chi confessa che le varie razze umane, quali ora sì trovano, tali hanno potuto coesistere sino dalla più remota antichità, nè potersi il contrario geologicamente dimostrare (?); la seconda poi, da coloro che le vogliono considerare come una mera scimialita varietà, tornando molto meno difficile, a dir poco, il derivare tutte le varietà umane da un solo stipite umano, anzichè da un molteplice od unico stipite belluino. E data pure questa bestiale origine, se unico si fu il tipo belluino, unico’ altresì potè essere il derivato umano; fonte delle successive varietà di razze; che se quello si suppone molteplice, vorremmo un po’ sapere quale sia a mo’ d’esempio la razza umana che non potuta derivare con altre da un medesimo umano stipite, anzi nemmeno da una stessa antropoide (puta l’orang-outang od il chimpanzè), la siasi potuto meglio dal gorilla (3) originare? E mentre queste sono tra di loro affatto sterili (4), saremmo curiosi di sapere per qual legge fisiologica abbiano potuto comunicare alle rispettive prosapie una proprietà ad esso loro negata, cioè la promiscua ed indefinita fecondità; proprietà, la quale, essendo la caratteristica, od almeno, per dirla col De Filippi, il principal requisito della specie (5), ci porge il più sicuro criterio per attribuire a coloro che (1) «As to the Engis skull, we must remember that although associated with the elephant, rhinoceros, bear, tiger and hyena, all of extinct species, it nevertheless is also accompanied by a bear, stag, wolf, fox, beaver, and many other quadrupeds of species still living. Indeed many eminent paleontologists, ad among them Professor Pictet, think that, numerically considered, the larger portior of the mammalian fauna agrees specifically with that of our own period, so that we are scarcely entitled to feel surprise if we find human races of the post-pliocene epoch undistinguishable from some living ones. It would merely tend to show that man has been as constant in his osteological characters as many other mam- malia now his contemporaries». Quindi egli aveva premesso che le due varietà rappresentate dal cranio di Engis e di Neanderthal possono probabilmente aver coesistito, sin dal periodo postplio- ceno, nell’Europa occidentale: « zs very probable, that both varieties coexisted in the post-pliocene period in Western Europe (Op. cit., pag. 90)». (2) V. la nota precedente, e qui sopra pag. 168, nota 1. (3) V. pagina seguente, nota 1. (4) V. Tomati, op. et loc. cit. (5) « Il principal requisito della specie è quello della produzione di una prole i/limitatamente feconda dallo accoppiamento spontareo degl’individui dei due sessi. — Il solo fatto della fecondità della prole risultante dall’incrociamento depone per l’unità di specie dei genitori ». Il Diluvio Noetico, pag. 33, SI. I72 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE 4 la posseggono, o ne difettano, medesimezza di specie ovvero diversità. Onde conseguirebbe che da tre stipiti specificamente distinti sarebbero originati individui tutti di una medesima specie, diversa da quella dei loro progenitori, della quale tuttavia non sarebbero che una mera varietà; attalchè i pro- generati non potrebbero ‘essere più simili tra loro, qualora discendessero tutti da un medesimo stipite; nè più diversi da quello ad essi assegnato, qualora derivassero da un altro specificamente diverso, e questo non già belluino, bensì umano. Ma la possibilità di un solo umano stipite, fonte primaria di tutte le umane razze, non potrebbe esser meglio chiarita fuorchè dal modo stesso con che viene dai vari avversarii impugnata, lasciandosi gli uni e gli altri in una quistione fisiologica governare scientemente o nescientemente da un mero pregiudizio antireligioso, quello cioè di contraddire al dato storico tradizionale rivelato di una primitiva coppia da Dio creata, sostituendo alla creazione di getto la generazione spontanea e successiva trasformazione; all’unità dello stipite la sua moltiplicità; alla natura umana la belluina; concentrando in questi presupposti, nè dimostrati nè dimostrabili, tutto il momento scientifico; poco o nulla curandosi, od inutilmente, di definire od i limiti di quella pretesa moltiplicità di stipite umano o belluino, e nemmeno il tipo particolare di quella bestia spiritosa o fortunata che per elezione naturale a sciente o per caso si sarebbe umanizzata. E la ragione di tale più impotenza che trascuranza sì è, che fra i tipi belluini non è nè naturale nè ragionevole la scelta, essendo tutti troppo disformi dall’umano, e quelli che lo sembrano meno, troppo fra loro rivali (4); e parimente troppo incerti e mobili, perchè arbitrari, i limiti con che si tentò definire (1) « Ammessa la derivazione primitiva dell’uomo dalla scimia, quale sarà il nostro più prossimo parente fra le attuali scimie antropoidi? Io ho cercato di mostrarvi che nessuna di esse ha titoli assoluti di preminenza sulle altre due: che se l’una sembra prevalere per un carattere, decade poi per l’altro; che se per i caratteri del cervello, per la distribuzione del pelo, l’orang-outang vince le scimie rivali, per la forma del capo, per le proporzioni delle estremità, per il minore sviluppo delle saccoccie laringee, il chimpanzé vince alla sua volta l’orang-outang; che se il gorilla è l’ultima delle scimie antropoidi pei caratteri del cervello e del cranio, e per la complicatezza dei sacchi laringei, è poi superiore a tuite pei caratteri osteologici del tronco e delle estremità. Mi pare che da tutto ciò derivi chiaramente la conseguenza che noi non dobbiamo cercare in alcuna di queste scimie antropoidi il nostro stipite primitivo, bensì in una forma perduta nelle epoche preumane; in altre parole: che le scimie attuali sono il ramo cadetto, e noi il ramo principale del comune tronco genealogico (De Filippi, L'Uomo e le Scimie, pag. 44-45)» . A noi pare che se le scimie attuali antro- poidi 0 no, sono il ramo cadetto, e noi il ramo principale del tronco comune genealogico, questo dovrebbe denominarsi dal ramo principale, e non dal cadetto, e dirsi umano, non già scimiatico; quindi con- PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 173 e circoscrivere delle umane razze la supposta primitiva ed originaria diversità. Ondechè, se i Darwiniani, i più logici singolarmente, i quali, non che far derivare tutte le scimie da uno stipite comune, assegnano a tutti gli animali uno stipite solo, anzi da una sola cellula primor- diale originano tutta quanta la creazione (cioè irasformazione orga- nica) (!), mentirebbero troppo manifestamente a se stessi ed alla loro teoria, qualora esitassero a preferire (quasicchè sia luogo a preferenza, dove, giusta la loro teoria, vi è ineluttabile necessità!) 4 derivazione delle razze umane da uno stipite unico alla derivazione distinta da più trariamente a quanto prestabilì il De Filippi, le scimzie, essendo #/ ramo cadetto, nella successione crono- logica degli esseri viventi, invece di trovarci dopo tanti anni all’istesso punto che il Lamarck, quello cioè di supporre una derivazione dell’uomo dalla scimia (ivi, pag. 41), ci troveremmo al punto opposto di supporre la scimia derivata dall’uomo. Illazione non meno assurda che l’altra, se s'intende di una vera derivazione e trapasso dall’una all’allra natura; non così però se si restringa a significare il massimo possibile avvicinamento di due distinte ed incomunicabili nature; sovrabbondando pur troppo gli esempi di umano imbestialire, mentre non ve n’ha alcuno di.un umanarsi bestiale, anzi nemmeno di uno spontaneo ammansire e dirozzarsi degli umani divenuti selvaggi ed efferati; e come per trasumanarsi si richiede una virtù più che umana, così per umanarsi non può bastare al certo un cieco islinto ed una bestiale virtù. Ad ogni modo, se è cosa vana ed illogica il voler rintracciare il nostro tipo primitivo nelle scimie attuali, essendo le stesse antropoidi, tuttavia da noi troppo disformi; molto più illogica e matta impresa sarà il cercarlo o supporlo nelle anteriori, quanto più antiche tanto più da noi dissomiglianti. Infatti, se 7 gorilla è un babbuino perfezionato, il chimpanzé un macaco perfezionato, Vorang-outang un gibbone perfezionato (ivi, pag. 15); se la perfe- zione, siccome prodotto del tempo, si trova nel ramo più recente e terminale, anzichè nei laterali del ramo, stipite (ivi, 16); gli è chiaro che se il babbuino, il macaco ed il gibbone ci sono meno simili delle antropoidi, che ne sono il rispeltivo perfezionamento, quanto più risaliremo su pel ramo scimialico verso il tronco, tanto più ci scosteremo dal tipo umano, crescendo la dissomiglianza in ragion diretta della presunia maggiore prossimità del grado di parentela. Nè ci si dica che il ramo umano è pur esso un ramo stipite scimialico, ma tanto diverso dal rispettivo delle antropoidi, quanto queste lo sono tra di loro, e ciascuna come ramo termizale si differenzia dai laterali che nel mede- simo ramo slipile s’innestano; imperocchè, se « lasciando da parte le scimie americane che for- mano un gruppo separato, e relativamente inferiore, le altre scimie si possono aggruppare in modo da coslituire tre serie, terminanti ciascuna alla sua propria specie antropoide »; e così, se i babbuini si legano al gorilla, i macachi al chimpanzé, i cercopiteci, i semnopiteci, i gibboni all’orang-outang; non ci resta più zell’emisfero orientale proprio delle antropoidi, in quell’emisfero nel quale è pur da riniracciarsi la culla del genere umano (ivi, pag. 14-15), nessun gruppo scimiatico, nè vivente nè fossile, da costituirne una serze terminante nella specie umana. E siccome questa non si può nemmeno derivare dalle antropoidi, nè con esse direttamente aggruppare; il volerle tuttavia assegnare una origine ‘scimialica di forma perduta, e quindi ignota ed inescogitabile, è un confessare la propria ignoranza e caparbietà, è un quissimile dell’esopiano giudicato lupigno, che riesce a dire: se del tipo scimiatico-umano non c'è nè yesligio, nè ricordo, ci è dovuto essere (v. pag. 168, nota 2); così richiede la scienza di cerli scienziati che combattono i pregiudizi semitici e spezzano i ceppi del hbero pensiero. î (4) De Filippi, op. cit., pag. 17, 43, 67-68. V. sopra, Tom. XXII, pag. 336, 384, segg. 174 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE stipiti (1); quando poi, risalendo su per l’albero genealogico di ramo in ramo pervengono al scimiatico, triforcuto-in tre rami stipiti di cui ciascuna delle antropoidi sarebbe il serminale @, ben lungi di essersi approssimati alla meta, se ne trovano vie più lontani, cioè nell’impossibilità di deri- vare il tipo umano da una di queste; e poichè non havvi:nè vivente nè fossile, verun’altra serie scimiatica, di cui l’uomo possa dirsi il ramo ter— minale, sono costretti a supporla esistita (cioè inventarla di pianta), attri- buendole una forma ignota e del pari onninamente perduta (8), per sottrarsi alla necessità di considerare il tipo umano come originario e primordiale; conseguenza la sola logicale e la più ovvia e naturale, chi non abbia da un pregiudizio o da un segreto o pubblico impegno l’animo o la mente preoccupata. Nè meno arbitrario ed illogico sì è il procedere dei poligenesisti i quali, considerando le varie razze umane come specie originali ed autoctone, le fanno derivare da altrettanti stipiti vuoi umani, vuoi belluini. E fra i fautori di quest’ ultima origine basti citare il più famoso, Carlo Vogt, il quale ammette la pluralità delle specie del genere umano e l’origine autoctona delle specie stesse. Ora, partendo dalle tre serie (scimiatiche) di Gratiolet, egli ammette pure che ciascuna specie abbia prodotta la sua propria razza (o specie) umana; e così sieno derivate dall’orang-outang una razza primitiva brachicefala, dal chimpanzè e dal gorilla due razze dolicocefali. Resta una gravissima difficoltà, l’uomo dello emisfero occidentale; ma a questo propo- sito Vogt esclama: e perchè mai non faremo noi derivare dalle scimie ame- ricane le diverse specie di uomini americani? (4) Così d’un tempo solo —_ e (1) De Filippi, op. cit., pag. 60. (2) Ivi, pag. 15-16, col. 43. V. sopra , pag. 172, nota f. (3) V. la nota testè citata. (4) Ci pare che nel sistema poligenesistico scimiatico di specie umane auloctone la grandissima difficoltà non sì dovrebbe incontrare nell’uomo dell'emisfero occidentale, ma nell’australiano; giacchè se al De Filippi torna difficile il far derivare direttamente dalle scimie americane le diverse specie di uomini americani, come vorrebbe il Vogt, da quale specie di scimie farà questi discendere l’uomo dell’Australia dove non se ne lrovano di sorta alcuna? E così, proprio agli antipodi, dove la razza umana pare discesa all’infimo grado di suo abbrutimento, cioè il bruto, secondo la teoria Darwi- niana, si mostrerebbe tuttavia nel primo stadio di sua umanazione, l’australiano selvaggio tanto scostandosî nello sviluppo di sue psichiche e ‘morali facoltà dall’uomo sociale, quanto nell’organismo più si accosta al tipo bestiale e scimiatico, ivi non dirò della specie, ma nemmeno del genere dei pretesi suoi progenitori, cioè di nessuna generazione di scimie, quante ne abbraccia l’intiera fa © miglia scimiatica, trovasi vivo o fossile vestigio alcuno. Ma e che perciò? Se si proponesse al Vogt cotale difficoltà, ossia argomento ad hominem, egli sgattaiolerebbe di tratto, rispondendo con un cotal PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 179 pone la quistione, e la tronca con un punto interrogativo. « Io mi ricordo con vero piacere (così continua il De Filippi) della circostanza nella quale quest'idea multilaterale delle razze umane venne a balenare nella mente di Vogt. Eravamo insieme lo scorso autunno, in un lieto convegno di amici, in una delle più pittoresche valli della Svizzera; ed il luogo, l’ora, la cordiale intimità degli interloquenti, spogliavano la disputa d’ogni rigore pedantesco, risolino: « perchè non faremo noi sguizzare l’australiano dalla tasca di un marsupiale? Nè questa seconda maniera di sciogliere e porre ad un tiempo stesso la quistione con un punto interrogativo, sa- rebbe per verità meno trionfante della prima. Nè io mi so che cosa ci potrebbe trovare a ridire il De Filippi; giacchè se la matura fa salli, è tutto naturale che li faccia badiali. Che se è illogico e gratuito accagionarla di salti, non lo è meno attribuirle immediati trapassi, tutti appartenenti a forme perdute; onde l'impossibilità di rappresentarcele e stabilirne il numero, per determinar quindi neì superstiti organismi il più o meno prossimo grado di lor parentela; quindi attenendosi al tronco dell’albero genealogico belluino, tanto fa che uno s’appigli a questo come a quel ramo; gli è peggio che giuocare a mosca cieca, perchè trattandosi di forma perduta si può sbagliar sempre, ma non sì può indovinar mai. Epperò non saprei chi dir più fortunato a questo giuoco, fra il De Filippi che va in traccia del proprio slipite primitivo, ed il Vogt che presume d’aver trovato quello del- l’uomo dell’emisfero occidentale. Perocchè, vedi disdetta! se nell’Australia, dove l'umanità si mo- strerebbe nel primordiale suo stato, cioè a mala pena discizziata, manca affalto la linea dei presunti suoi ascendenli, cioè l’intiera famiglia delle scimie; all’opposto dove queste si sarebbero al possibile umanizzale tanto da esser dette antropoidi, o mancano del pari tutti gli ascendenti o collaterali, come nella patria dell’orang-outang, cioè nell’Arcipelago asiatico dove non si scoperse sinora alcuna scimia fossile; o manca almeno del pari, come nell’Africa, la metropoli del chimparzume, non sola- mente il tipo quadrumano delle trascorse età, ma proprio quella forma perduta nelle epoche pre- umane, che sarebbe stata l'immediato passaggio dal scimiatico al lipo umano; cosicchè i due estremi limitrofi, cioè il penultimo od antipenultmo scimiatico, ed il primo o secondo umano, scambio di essere se non contigui, prossimani, si troverebbero quasi agli antipodi l’uno dell’altro, e nell’impossibilità che se ne provi legalmente la strelta attinenza o loro consanguineità. « The distribution of the fossil forms of monkeys,from which man may be supposed to claim a genetic relation, entirely baffles our at- tempis to associate existing races of man with any of the species beneath lim. In the Asiatic Archipe- lago, the land of the orang, no evidence whatever of any fossil monkey has yet been oblined; in Africa the metropolis of chimpanzeedom, again ihe quadrumanous type of past ages is absent. AL the antipodes where the human race has reached its lowest level, whether by elevation or degradation, and where the besotted Australian savage grovels on unconscious of most of those mental processes which have been thought to be distinctive of humanity, and where man’s physical structure approaches nearest to that of the infe- rior mammals, no monkeys exist, either in a recent or fossil state. (Edinb. Rev., 1863, vol. cxvII, pag. 544-545) ». Mancando dunque assolutamente la forma d’immediato trapasso dal tipo scimiatico all’umano, come pure quella del trapasso immediato delle singole varietà: specifiche scimiatiche o di qualsivoglia altra serie belluina, non essendoyene alcuna la di cui continuità assoluta, anzichè presunta, sia dimostrata (vedi infra, pag. 203, nola 3); tanto vale il supporre fra l’uomo e la scimia una forma mediana, quanio l’inserirvene parecchie, o passarsi di tulte. E come non costa più alla fantasia il far cavalcare un abisso con un ponte imaginario, o varcarlo d’un salto; così non riesce più difficile alla scienza l’umanare una bestia di lancio o per insensibile trapasso; due modi egual- mente ipotetici, e per difetto di prove, indimostrabili. Ma l’incertezza del modo nulla toglie alla certezza scieztifica del fatto di quella bestiale umanazione, essendo questa una di quelle verità che da certi scienziati sì sentono e s’intuiscono, ma non si dimostrano. gr 176 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE e la rendevano colorita e vivace quanto mai. Ecco ora quell’idea tras- ferita nella grande arena della scienza, con tutta la naturale sua gravità. Vogt è certamente lontano dal pretendere che essa passi indiscussa, e che altri non trovi tutta intiera la difficoltà di connettere l’uomo ameri- cano ad un tipo locale di scimie. Le belle ricerche di Gratiolet, così giustamente apprezzate da Vogt, mettono in piena evidenza la grande in- feriorità del tipo delle scimie americane, e le considerazioni degli altri ordini di carattere confermano pienamente questa conclusione. È tale questa inferiorità, che il vero posto sistematico delle scimie del nuovo continente è nel grande intervallo che separa le scimie del continente antico dalle marine. — Chi è seguace della dottrina di Darwin non deve provare alcuna contrarietà a convertire questi rapporti sistematici in veri rapporti genealogici, ed allora si va lontano dall’idea di far terminare la serie delle scimie americane anche soltanto ad una forma antropoide. E la portata di questa considerazione va sino ad intervenire nella qui- stione più generale dell’origine delle razze umane, ed a far preferire la loro derivazione da uno stipite unico alla derivazione distinta da più sti- piti (5) ». Ho riferito al disteso questo lunghissimo brano, siccome chiaro esempio del come si sogliano, ed, a parer mio, si debbano trattare simili quistioni, cioè porle ad un tratto in una brigata d’amici e troncarle con - un punto interrogativo. Metodo spicciativo e cavalleresco, quindi franco e sicuro; ma come simposico, si può anche dir filosofico, anzi stretta- mente dialettico; giacchè sia esoterico od essoterico l'insegnamento; gene- ralmente l’uditorio ne è già più persuaso che lo stesso maestro, e non si tratta che di dedurre una conseguenza da premesse già accettate, ovvero ridurre a forma di sillogismo una sentenza vagheggiata e consentita; quindi affatto inutile, se non anche, perchè illusoria, pericolosa la discussione proposta dal De Filippi. Di vero, a che pro fur terminare la serie delle scimie americane anche soltanto ad una forma antropoide, se poi fra questa e l’uomo non c'è connessione, e rnoî non dobbiamo cercare in alcuna di queste scimie antropoidi il nostro stipite primitivo, bensì în una forma perduta ®? Con questa discussione nulla ci guadagna la logica e tutto ci perde la fantasia; niuno diffatti non giungerà mai, non dirò a figurarsi, ma nemmeno a riputare possibile, non che imaginevole, (1) Op. cit., pag. 59-60. (2) V. sopra, pag. {72, nota f. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 17 NI x o reale, una forma la quale, essendo scimiatica, ma non antropoide, sia però antropomorfa, ma non umana; non derivi da una delle tre antropoidi, anzi non s’ingradi con nessuno dei gruppi scimiatici, e sia scimiatica non pertanto incontestabilmente; e somigliantissima più che’ ogni altra mai al tipo umano, se ne scosti tuttavia e sì debba riputare perduta nelle epoche preumane (!), cioè anteriormente all’origine del tipo umano che ne sarebbe una postuma derivazione! Invece di condurci sin quasi al limitare della porta e poi chiuderci per cilecca l’uscio in faccia; meno scortese e più assennato mostrasi il Vogt, il quale pone ad un tratto la questione del possibile originamento delle diverse specie di uomini ame- ricani dalle scimie americane, e la tronc n un laconico e perchè no ? senza entrare in altri particolari; lasciando alla fantasia libero il campo a supporre una più o meno lunga, ma indeterminata serie di trapassi e trasformazioni, da rendere apparentemente meno ripugnante ed assurda tale derivazione; a quel modo che certi filosofi riescono a persuadere sè od altrui che un remotissimo passato od avvenire, se indefinito, equi- valga all’eterno, ed un numero indefinito sia realmente infinito. Laddove lo scegliere fra le forme scimiatiche le più arieggianti all’umana, e pian- tandole dinanzi alla fantasia intimarle che le squadri per benino e poi dirle secco secco « lasciate, monna mia, ogni speranza di trovare fra queste il tipo del mio stipite primitivo, cercatelo piuttosto in una forma perduta nelle epoche preumane; e poichè vi riuscirà forse difficile il trovarlo, immaginatevelo di per voi stessa tanto dissimile da quello delle antropoidi, quanto è necessario che sia per riuscire somigliantissimo , non però identico all’umano, altrimenti sarebbe già bell'e trovato »; non è egli evidente che madonna Fantasia, punta sul vivo nel veder eccitata ad un tempo e delusa la femminile sua curiosità, risponderà stizzita: « messer lo naturalista, se fra le antropoidi e l’uomo non vi ha, come voi ben dite, continuità, tocca a voi il cercarne il valico, e provare, non già supporre, quella continuità preumana ». Ma se a questo gioco ci perde la fantasia, non ci trova neanco il conto suo la logica; perocchè se fra due termini corre un abisso non valicabile, chi vi si trova sull'orlo non è più prossimo a toccar l’opposta sponda di chi ne sia le mille miglia lontano; epperò noi siam di credere che la derivazione immediata degli uomini americani (1) V. sopra pag. 172, nota 1. Serie II. Tom. XXIV. 23 178 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE dalle scimie americane non sia nè più anormale, nè più difficile, nè meno provata verisimile e credibile che quella dell'uomo dell'emisfero orientale dallo stesso stipite che le scimie del continente antico; essendo stato ne- cessario, per farnelo derivare, supporre una forma primitiva perduta, Il che riesce a dire che la trasformazione del tipo scimiatico nell’umano non ha potuto avvenire in nessuna delle forme scimiatiche a noi conosciute; im- possibile quindi il supporla avvenuta in questo 0 quell’emisfero, a meno di ricorrere a forme ignote e perdute; ed allora tanto è logico il passarsi di tutte, ed ammettere trasformazioni per saltum, quanto inventar a fusone forme ibride e tramezzanti, a norma del capriccio del naturalista o del bisogno di sua caldeggiata teoria. E questo bisogno non ha limiti, 0 per meglio dire, tanto si estende quante sono, giusta la frase darwiniana, le varietà divenute specie, di niuna di queste essendo osservabile o reperibile vivo o fossile lo stipite od il tipo primitivo; giacchè il tempo invido e maligno quasi volesse mettere alla prova la darwiniana credulità, mentre non ci concede tanto spazio di vita da essere spettatori di una consimile trasformazione; quanto alle varietà da quindi addietro specificate, ne distrusse inesorabilmente e ci furò tutte le forme immediate e primitive (« Natura il fece e poi ruppe la stampa »)) dandoci in cambio degli esemplari, mere copie di copie, cosicchè in tutta la serie zoologica non abbiamo che varietà-specie di supposti col- laterali o nipoti, senza mai incontrare nessun padre, e talvolta nemmeno l’avo. Locchè, se non nuoce alla legittimità quando è altrimenti certa la genealogia; non così, quando la si suppone, o la si vuol dimostrare dando arbitrariamente un valore genealogico al canone arbitrario solito adoperarsi nella tassonomia. Imperocchè, noi siamo pienamente d’accordo col De Filippi nel riconoscere che i caratteri fisici, sui quali si appoggia la distinzione delle specie, propriamente parlando non sono che caratteri empirici (!), i quali possono comprovarla, ma non istabilirla, se manca il principal requisito della specie, che è quello della produzione di una prole illimitatamente feconda dallo accoppiamento spontaneo degl’individui dei due sessi (®); che perciò, nel caso pratico, quando non si può ricorrere a quel su- (1) I caratteri fisici suì quali si appoggia la distinzione di quelle specie (cioè del cammello e del dromedario, dell’asino e del cavallo) propriamente parlando non sono che caratteri empirici e devono venire in seconda linea (I Diluvio Noctico, pag. 34). (2) Ivi, pag. 23. V. sopra, pag.171, nota 5. Cf. t.xx1r, pag. 376, 377. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 179 premo criterio, si è sovente nell'impossibilità di distinguere con precisione ciò che è razza da ciò che è specie, fra due specie, primitivamente molto bene distinte, scoprendosi molto sovente, troppo sovente per la comodità delle determinazioni sistematiche variazioni intermedie (i). Ammettiamo parimente che « quegli assembramenti sistematici sempre più complessi che i naturalisti chiamano ... generi, famiglie, ordini, classi, sono creazioni della nostra mente » ; che « l’estensione di ciascuno di questi assembra- menti è arbitraria , e regolata dalle vedute particolari di chi li compone, da ragioni che ognuno valuta a suo modo », che « di ciò hanno sempre convenuto i naturalisti », ma neghiamo che quanto è detto di questi assembramenti sistematici sia egualmente e senza alcuna restrizione appli- cabile alle specie e varietà, e che solo per riposare sur di un assioma siano î naturalisti convenuti in questo : che le specie esistono in natura; anzi abbiano fatto di più : abbiano reso più complicato e solenne l'assioma, traducendolo con questa frase divenuta tradizionale e come sacra nelle scuole: tante sono le specie, quante in origine furono create @). E la ragione di quel nostro negare sta appunto nel vedere consenzienti e costanti, nel distinguere le varietà dalle specie, coloro stessi che differiscono nella classificazione dei vari generi, famiglie, ordini e classi; e ciò perchè si governano in questa col solo criterio, spesso insufficiente e fallace, de’ carat- teri fisici; laddove, per distinguere le varietà dalle specie, hanno sovente in pronto il più sicuro ed infallibile dell’i/Zimitata promiscua fecondità, a cuì i caratteri fisici, cioè empirici, sono così subordinati, che ove, difettando essa, basterebbero per caratterizzare un genere, non che una specie, posto il di lei intervento, non servono che a distinguere le varietà ©). Se dunque semplici razze e varietà si distinguono talora fra di loro per (1) L'Uomo e le Scimie, pag. 13. (2) Ivi, pag. 12-13. (3) Così scriveva nel 1855 il De Filippi nel Diluvio Noetico, pag. 31-32: « Cos'è che dimostra la differenza specifica dei genitori? Prendiamo il caso considerato dal sig. Vogt del cammello e del dromedario, e si ammetta per un istante che dal connubio del maschio dell’uno colla femmina del- l’altro nasca una prole feconda. Da una parte tutte le differenze ben note fra questi animali che sì chiamano l’uno cammello, l’altro dromedario, deporrebbero per la loro differenza specifica: dal- l’altra il solo fatto della fecondità della prole risultante dal loro incrociamento depone per l’unità di specie dei genitori; da qual lato propenderà la bilancia? Vi ha forse un carattere morfologico od anatomico di un valore così assoluto che valga per se solo a pronunciare definitivamente la dife- renza specifica fra il cammello e il dromedario, e che non permetta di considerarli come due razze di un’unica specie? Certamente no. Questi due animali non differiscono tra loro più di quanto si 180 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE caratteri di importanza almeno uguale, sovente maggiore di quelli su cui sono fondate le distinzioni dei generi non che delle specie; non perciò sarà libero al De Filippi il conchiudere che una determinazione fisiologica delle specie è impossibile, nè che ormai non possiamo più parlare che di specie sistematiche, di specie di convenzione (!); imperocchè al difetio di una precisa delerminazione fisiologica supplisce nelle specie la serie ge- possa dire del Bue comune in confronto del Zebu, che pur sono da tuiti.i zoologi considerati come - semplici varietà di una sola specie. E poichè si venne a parlar del Bue, insisteremo su questo esempio per mostrare appunto quanto possano variare quei caratteri stessi dei quali i zoologi fanno il maggior calcolo nella distinzione delle specie. Senza dubbio fra i più importanti di questi caratteri sono quelli che si desumomo dalla considerazione dello scheletro, e, per esempio dal numero delle coste che nel caso concreto del Bue comune (Bos taurus) è di 13 per lato. Ora accade talvolta che nascano in questa specie degl’individui con una 142 costa rudimentale, ed anche individui con una 142 costa completa, colla corrispondente vertebra dorsale soprannumeraria. Non è a dubitarsi che con una coppia di tali individui si possa fondare una razza permanente di buoi da 14 paia di coste ... Già riferimmo più sopra come D’Azara sia stato testimonio della nascita d’una razza di buoi senza corna nell'America meridionale. Supponiamo ora che una razza simile siasi formata in una remota isola del Pacifico, e poscia la razza cornuia originaria vi sia stata distrutta. La prima spedizione scientifica che fosse approdata in quell’isola non avrebbe esitato un istante a far di quei buoi ben più che una nuova specie, un nuovo genere di ruminanti, un genere 4ceros, per supposto, e più tardì si sarebbe trovato con gran meraviglia che i bastardi del genere Aceros e del genere Bos sono fecondi! Ed un esempio di quesle prepostere meraviglie ce lo fornirebbe lo stesso Darwin (vedi sopra, pag. 378, nota 2). Nè punto diversamente si esprimeva la sera dell’ 11 gennaio 1864, e stampava nel 1869 il De Filippi intorno al distinguersi alcune razze fra di loro per caratteri di importanza almeno eguale, sovente maggiore di quelli sui quali sono fondate le distinzioni delle ‘specie (v. sopra, pag. 376, nota). Se non che, ricordata di nuovo la razza, tuttora vivente in America, di duo? scorzuti derivata da un toro nato accidentalmente senza corna, soggiunge: « Noi diciamo che questa è una razza e non una specie, perchè siamo siati noi slessi testimonii della sua origine. Senza questa circostanza, quale naturalista, incontrando de’? buoi senza corna in qualche remoto angolo della terra, esiterebbe a farne una specie affatto particolare, od anche più che una specie, un genere? (op. et l. ivi cit.) ». Noi rispondiamo che per non cadere in siffatto errore non è necessario essere stati teslimoni del- l'origine di quella razza, basia sapere che l’incrociamento di essa con quella del bue comune, riesce promiscuamente ed illimitatamente fecondo; questo è il crilerio più ovvio e sicuro, laddove chi fosse stato testimone della nascita e non dell’accoppiamento, mal saprebbe sé il parto non fosse per av- ventura ibrida prole di due genitori specificamente distinti. E ciò è sì vero, che il De Filippi stesso, il quale vorrebbe ora sostituire quesl’altro criterio quasi unico e decrelorio a quello già da lui pre- dicato nel 1855 come solo decisivo, s’attiene tuttavia pralicamente e tacitamente a quel primo; e ce ne dà la prova, continuandosi coll’esempio delle varie razze di colombi, la cui variabilità tocca veramente il meraviglioso, non essendovi più un carattere che tenga fermo fra quelli che sono di maggior valore come distintivi delle specie ornitologiche; eppure, egli conchiude, mon possiamo a meno di rico- noscere la derivazione di tutte queste razze da un’unica specie, che è il colombo torraiuolo. E perchè? Le ha forse tutte vedute nascere? Oibò. La ragione ce la fornisce Darwin, e questa si è la promiscua loro fecondità non osservabile in individui di diversa specie (v. sopra pag. 377 379); ragione che contraddice alla costui teoria, ed è perciò dal De Filippi dissimulata; nel che se questi si chiarisce più logico, quegli dimostra maggiore ingenuità. \1) E°Uomo e le Scimie, pag. 13. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO ISI nealogica, cioè alla fisiologia del naturalista quella della natura, all'apparenza la realtà; non essendovi dubbio che siano fisiologicamente affini i consan- guinei, laddove sovente.male si argomenterebbe dei gradi di parentela dalla morfologica rassomiglianza ed affinità; potendo benissimo accadere che due gemelli non si rassomiglino, e due Menecmi non siano nè parenti nè connazionali (1); sano riuscire morfologicamente più diversi tra loro, che non da quelli appunto come individui di una medesima specie pos- di una specie distinta, se non anche di altro genere @). Siccome però le più strane diversità morfologiche non sono sempre negli individui si- curo indizio di specifica o generica diversità, e perdono ogni valore di specifica o generica distinzione quando la medesimezza di genere o di specie è comprovata dalla promiscua, limitata o continua fecondità; così fra individui non accoppiabili o non generatori di prole promiscuamente e continuamente feconda, la maggiore morfologica rassomiglianza non potrà mai essere valevole argomento di generica o specifica identità e deriva- zione comune da un medesimo stipite. Si dovrà dunque dire col De Fi- lippi, che una determinazione fisiologica delle specie è impossibile? Non già, bensì diremo col medesimo che i caratteri morfologici od empirici 5 debbono venire in seconda linea, ed-essere subordinati al naturale ossia x fisiologico per eccellenza, quale si è. appunto il generativo (3); carattere essenzialmenie specifico, giacchè nel generante non è così l’individualità (1) V. t.xx11, pag. 375-377. (2) V. ib. pag. 376, nota. «Za comparaison de la ressemblance des individus, di Buffon, n'est qu’une idee accessoire et souvent independanie de la première (la succession constante des individus par generation) car lane ressemble au cheval plus que le barbet au levrier, et cependant le barbet ci le levrier ne font qu’une méme espèce, puisqu’ils produisent ensemble des individus qui peuvent cux-mémes en produire d'autres, au lieu que le cheval'et line sont certainemeni de diverses espèces puisqu'ils ne pro- duisent ensemble que des individus viciés et inféconds. » (Histoire de l’ane. Flourens, Examen du livre de Mr. Darwin sur lorigine des espèces, pag. 35). Ma non solo i caratteri osteologici possono essere o parere identici in animali di diversa specie, come nell’esempio testè prodotto, e così: « Cuvier n’a jamais pu trouver un caractère ostéologigue qui distingudt V’dne du cheval (Flourens, Ontologie naturelle, Paris, 1861, pag. 13) »; ma ciò pur si osserva talora in animali di genere diverso; ed il Flourens reca ad esempio la volpe ed il cane: « Z7 y @ des especes très-vvisines qui n’ont méme pas cette fécondite bornée (qui accuse le mème genre). Je cite pour exemple le chien et le renard. Dans le squelette de ces deux animaux, il n'y a aucune difference: le cràne et particulièrement les dents sont les mémes (Ibid., pag. 30)». E tuttavia: «Bu/for avait déjà constaté que le rerard ne s'accouple point avec la chienne. Mes experiences ont confirmeé celles de Buffon. Jamais le renard n'a voulu s’accoupler avec la chienne, ni le chien avec la renarde. Je suis méme convaincu que leur accouplement, s’il.a jamais lieu, sera sans effet. (Flourens, Ecamer, ete., pag. 106). » E così il cane volpino si dovrà dire con- sanguineo coll’alano e nemmeno affine colla volpe. (3) Linnée disait avec une sagacité profonde: Nature opus semper est species et genus; culture sepius 182 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE che genera, come la specie individuata; ond’è che al generato sono tal volta trasmesse non le fattezze del padre, ma quelle dell’atavo o del- l’avo, connaturatesi colla specie e con essa perennanti. Una pertanto ed identica in tutte possibili varietà è la virtù specifica (4); "4 varietas; artis et nature classis et ordo. Er effet, l’espèce et le genre sont toujours l’aeuvre de la nature, la variété est souvent l'euvre de la culture; et la classe et l’ordre sont à la fois l’euore de Dart et de la nature: de la nature qui donne aux espèces les ressemblances et les differences, et de l'art qui les juge et les apprecie. Au milieu de tous les autres groupes de la methode, l’espèce et le genre se distinguent en ce qu'ils ne se fondent pas seulement sur la comparaison des ressemblances, mais sur des rapports directs et effectifs de génération et de fécondité. — On cherchait le caractère du genre; où le trouver? Il est dans les deux fecondités distinetes. La fécondité continue donne l’espèce; la fécondité bornée donne le genre. Buffon avait donc bien raison quand il disait: « L’union des animaux d’espèce differente est le seul moyen de reconnaître leur parenté. (Flourens, op. cit., pag. 111, 114-115). » Ma se queslo è il carattere più sicuro ed infallibile, non esclude però l’esistenza ed importanza del morfologico, anzi la presuppone, essendone un effetto; e serve appunto a farla più facilmente riconoscere ed accertare; laddove senza questo ‘criterio potrebbe rimanere, se non ignota, trascurata. E così lo stesso Flourens, dopo aver collocato nella fecondità continua o limitata il carattere distintivo del genere e della specie, e conchiuso che il cane e la volpe non appartengono allo stesso genere, perchè nemmeno capaci di limitata fecondità, sebbene osteologicamente simili (V. la nota precedente); cerca tuttavia Quale sia il carattere morfologico che li distingue, non solo specificamente, ma generi- camente: « quel est donc le caractère qui les distingue et les sépare, non pas seulement spécifiquement, mais geénériquement, e méme plus profondément encore, puisquils les empéche de produire ensemble? Ce caracière se trouve dans la forme de la pupille, le chien a une pupille circulaire, tandis que dans le renard la pupille est en fente verticale; et ce caractère tout léger qu'il paraît, est très-important, car il touche à l’instinct. Le renard est un animal nocturne et le chien un animal diurne (1. cit., pag. 30-31). Ed altrove: Des animaux qui different par quelque caractère marqué, soit dans les dents, soit dans les organes des sens, ne sont plus du méme genre. Le chien a la pupille en forme de disque, le renard a la pupille allongée; le chien est diurne, le rerard voit mieux la nuit que le jour. Avec une telle diffe rence, et relative è un tel organe, il ne peut y avoir unité de genre. Le chien, le loup, le chacal ont touie leur structure semblable; la forme de leur pupille est la méme. Aussi le loup et le chien, le chien et le chacal produisent-ils ensemble (Examen, ete., pag. 107). » Oltimamente; ma questa possibile od impossibile fecondità si fu appunto quella che fece conoscere l’importanza di quella diversità morfo- logica per una distinzione di genere, non già un’inferenza dedotta da quella prestabilita morfolo- gica diversità, osteologicamente non indicata. Come dalla sola osteologia non è nemmeno presumi- bile, o solo imperfettamente, l’esterior forma di parecchi animali, e molto meno le varie loro alti- tudini e costumanze. E così la rotondità delle vertebre caudalì della foca non accenna per nulla all’appiattimento della sua coda; nè dalle depresse ossa facciali della balena viene indicato il con- torno rilevato del di lei capo, come dalla rassomiglianza dello scheletro dell’erme!lino, della puzzola e della lontra non si presumerebbe mai la diversità di loro abitudini, e niuno dal mero aspetto osteologico o formologico giudicherebbe il mergo o l’ippopotamo eccellenti nuotatori. (Cf. C. B., Geology in its relation to revealed religion, pag. 272). (1) L’espèce est d'une fécondité continue, et toutes les variétés sont entre elles d’une fécondité con- linue, ce qui prouve qu'elles ne sont pas sorties de l’espèce, qu'elles restent espèces, qu’elles ne sont que l’espèce qui s'est diversement nuanece. Au contraire, les espèces sont distinctes entre elles, par la raison decisive qu'il n° a entre elles qu’une fécondité bornée. Jai dejà dit cela, mais je ne saurais trop le redire. (Id. op cit , pag. 35-36) PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 183 ma perchè nei singoli individui variamente atteggiata, e perciò appunto da niuno adeguatamente e comprensivamente espressa e specificata; queste varietà morfologiche, quanto più riescono acconcie a contraddistinguere le razze o le individualità, tanto meno ci porgono un sicuro criterio per argomentarne l’identità della specie e sua stabilità, la quale si potrà forse congetturalmente indi presumere, non già dimostrare (!). Al contrario, la virtù generativa comprendendo e contemperando colla sua fecondità il duplice elemento specifico dell’identico e del vario, correlativi e limite l’uno dell’altro; ci offre il vero criterio distintivo della specie e delle varietà, le quali hanno a dirsi specificamente identiche se promiscuamente e perennemente feconde; diverse di genere, se non accoppiabili; di specie, se sterile è l’accoppiamento, o solo limitata la fecondità. Fecondità e sterilità che sono come i due poli positivo e negativo della specie: per l’uno esplica questa, accidentalmente varia, l’implicita sua virtù; per l’altro, impedita dal tralignare , essenzialmente identica e stabile perdura, e può bensì perire, ma non si trasforma (®. Di che, se è naturalisti erano convenuti in questo: che le specie esistono in natura, e che tante sono le specie, quante in origine furono create; tion fu già solo per riposare su di un assioma, rendendolo ancora più complicato e solenne; bensì l’assiomatica sua verità fu la causa di tal convenzione, ed è tuttavia così evidente ed efficace da essere seguìta praticamente da chi l’impugna teori- camente, ed è così ardito da pronunziare che il famoso assioma è andato a far compagnia ad altri spezzati ceppi del libero pensiero; laddove i ceppi sono proprio fabbricati dai naturalisti inventori delle specie darwi- niane od incipienti, i quali s'arrabattano inutilmente a ridurre le specie a mere varietà, col convertire queste in ispecie, qualora le siano ben definite e sovrattutto sanzionate da un'origine lontana ®). Criterio sofistico, fallace ed inconcludente: sofistico, perchè non determina nè quanto debb’essere rimota l'origine perchè si debba dire lontana, nè quanto distinta la varietà, perchè si possa dir der definita; fallace, perchè se gli stessi darwiniani, e nominatamente il De Filippi, riconoscono che modte di quelle che siamo abituati a chiamar razze o varietà, ed essi chiamano specie incipienti, si distinguono fra di loro per caratteri di importanza almeno uguale, soventi maggiore di quelli sui quali sono fondate le distinzioni delle (1) V. sopra pag. 18! nota 3. @) V. sopra, t.xxII, pag. 376-377. (3) De Filippi, L'Uomo e la Scimia, pag. 12-13. 184 LA CRITICA ,SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE specie (1); l'essere una varietà ben distinta, cioè ben definita, non sarà mai un titolo sufficiente per essere qualificata siccome specie. E se non è tale da bel principio, nol diverrà mai, perchè la lontananza dalla sua origine nulla aggiunge alla primordiale ed originaria spiccatura di quella varietà ben distinta, la quale non cominciò già e continuò a variare, ma perseverò in quella sua subitanea, accidentale e tuttavia spiccatissima singolarità; come veggiamo in quella razza o varietà ben distinta o definita ®) di buoi scornuti che, perdute ad un tratto le corna, non le riacquistò più mai, ma non perdette altro, ch'io mi sappia, e quale si è ora, tale, perdurando le stesse condizioni, può rimanere sino alla fine dei secoli; per il che una consimile razza o varietà, potrà bensì chiamarsi varietà costante, non già specie incipiente. Fallace quindi ed inconcludente debbe dirsi quel criterio 0, se vuolsi, concludentissimo per inferire, non già il va- riare o trasformarsi delle specie, ma la possibile perduranza di alcune varietà; e che la costanza del carattere specifico può talvolta competere anche all'individuale, ma alla condizione altresì di essere circoscritto dal proprio limite, nè poterlo trapassare. Ondechè, come il carattere di una specie non si può ad un’altra comunicare, od il tentativo rimane fru- straneo e tosto o tardi colpito di sterilità; così una varietà den distinta ne potrà altre progenerare, purchè la sua progenie non s'innesti con altra da lei den distinta varietà, chè allora perdurando il carattere specifico, cesserà il proprio particolare; e così non si avrebbe che ad accoppiare successivamente individui di una razza bovina cornuta cogli scornutì ame- ricani per vedere riapparire ad un tratto a poco a poco le corna avite (8). Una varietà può quindi mostrarsi spiccatissima ed in date condizioni perdurare costante, e per ciò appunto rimarrà sempre ciò che fu da bel principio una mera varietà, e non diventerà mai, anzi non comincerà mai a divenire specie; perchè le specie furono create e perdurano, pos- sono cessare, e molte sono le estinte, ma come non nacquero spontanea- mente, così non rinascono nè si trasformano. Per la qual cosa, se una (1) V. sopra, pag. 180, nota. (2) Ivi. (8) Dicasi lo stesso dì quella razza pecorile detta lontra od ancor (dal greco dyxooy curvatura) riproducente nella curvatura delle gambe i caratteri che distinguono il can bassotto (asset), la quale, nata accidentalmente l’anno 1791 nel Massachusset, sì difluse largamente in tutti i poderi degli Stati Uniti, siccome quella di cui riesce più facile la custodia, non potendo d’un salto valicare lo steccato. (V. De Quatrefages, op. cit., pag. 192). PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 185 varietà ben distinta non può dirsi una specie compiuta, non potrà nem- meno dirsi una specie incipiente o cominciata; e se il distinguersi origi- nariamente dalle altre varietà con caratteri d'uguale e sovente maggior importanza di quelli che distinguono le specie, non basta per dichiararla sin d’allora una specie; perdurando costante, non guadagnerà nulla col tempo, ed ha tutto a perdere ricorrendo alla continua successiva tras- formazione sognata dai Darwiniani; giacchè con questa potrebbe sminuire, non accrescere quella primitiva sua morfologica distinzione ottenuta di lancio e senza verun incomodo, e così spiccata da eguagliare e vincere qualunque altra specifica distinzione. Perchè dunque non chiamarla una varietà der definita, essendo tale di fatto, e specie a dirittura senza l’ag- giunta dell’incipierite, non avendo più nulla da proseguire o da compiere! La ragione dataci dal De Filippi si è che una simile varietà si è veduta nascere (!). Ottimamente; ciò prova che le specie non nascono. Ma se possono nascere, e lo veggiamo (2), varietà così ben distinte fra di loro quanto lo possano essere le der definite che si chiamano specie; ciò prova pure non essere necessario (come non è provato) che queste diventino o si trasformino. La ragione però allegata dal nostro zoologo non è con- sanianea alla teoria darwiniana; giacchè se, accettandola, com'egli fa, in tutto il suo sviluppo, tutti gli animali deggiono essere creduti discesi da un unico stipite () (ed egli ne è così persuaso come se li avesse veduti nascere); la circostanza dell’essere stati noi stessi testimoni dell’origine di una razza o varietà tanto distinta dalle altre quanto lo può essere specie da specie, non è una ragione perchè quella non sia qualificata con questo nome; ed il voler mantenuta tuttavia una distinzione fra le varietà vedute nascere, e le credute nate da un medesimo stipite, chiamando queste varietà ben definite, sanzionate, o specie senz'altro, e quelle razze o va- rietà specie incipienti, si è un dar erba trastulla, studiarsi di illudere od illudersi, è un appigliarsi, almeno apparentemente, al peggior sistema, quello de’ sistemi misti, di quegli ibridi filosofi che si mascherano troppo (1) Noi diciamo che questa è una razza e non una specie, perchè siamo stati noi stessi testimoni di sua origine. (Op. cit., pag. 10). (2) Noi vediamo coi nostri occhi accidentali deviazioni dal tipo originario, direi quasi mostruosità di primo grado, fissarsi e trasmettersi per eredilà, e così aversi una progenie perpetuantesi, la quale è di qualche grado, e talvolta anche notevolissimo, diversa dai genitori. Ivi, pag. 9-10. (3) Op. cit., pag. 43. Sere II. Tom. XXIV. 24 186 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE sovente sotto la speciosa parola di eclettismo (i). Al contrario, persuasi noi pure che le varietà nate da un medesimo stipite, per quantunque dissomiglianti fra loro e dagli stessi geritorî, non possano considerarsi che quali semplici varietà; siamo convinti altresì che le specie non si possono da un medesimo ed unico stipite derivare, nè le une e le altre sempre e sicuramente distinguere; fuorchè per questa loro comune o diversa deri- vazione. La quale debb'essere altrimenti nota o dimostrata, che dalla sola analogia o diversità dei caratteri morfologici; perchè, sebbene questi ne siano una conseguenza, non ne sono sempre da sè soli un sicuro ed evi- dente argomento, e non acquistano tutto il loro valore che dalla certezza di quella derivazione. E vaglia il vero: se i Darwiniani dal veder derivaté da un medesimo stipite diversità morfologiche, anto importanti quanto quelle con che soglionsi distinguere le specie, conchiudono che tutte le specie hanno potuto da un solo ed unico stipite derivare; altri potrebbe con pari dia- letiica conchiudere che tutte le varietà possono derivare ciascuna da un diverso stipite, trovandosi talvolta maggior apparente affinità fra varietà diverse, che non fra quelle di una medesima specie derivate immediata- mente da un medesimo stipite. Che se la rassomiglianza nei caratteri morfologici, per non essere sempre sicuro indizio di identica derivazione, non sarebbe però un buon argomento per non ammetterla mai; parimente, perchè non sempre la medesimezza di origine viene esclusa dalla disso- miglianza di forme, non se ne può logicamente inferire che questa non sia mai nè effetto nè prova di una diversa derivazione. L'unica legittima illazione si è che i caratteri morfologici non esprimono sempre e bastan- temente la medesimezza o diversità di origine e di specie, perchè espres- sione apparente ed inadeguata di una virtù varia accidentalmente ed iden- tica essenzialmente nei singoli, contenuta qual è potenzialmente nella promuiscua loro fecondità, foco dell’identico, principio e limite del vario che in quello s’incentra e lo svolge, ma nol trasforma. Vero caratterismo specifico, adoperato dal De Filippi per considerare come semplici varietà (qualunque sia la morfologica loro distinzione) quelle che veggiamo pro- generate da un medesimo stipite; ma ugualmente adoperabile e conclu- dente per dichiarare vere specie quelle der o mal definite varietà, che non possono essere derivate da una medesima origine, cioè essere frutti (1) Op. et I. cit. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO ° 187 d'una medesima fecondità, non avendola fra di loro promiscuamente e perennemente comune. Locchè suppone una diversità organica ben più profonda ed importante che non l’apparente possibile ad incontrarsi nelle varietà derivate da un medesimo stipite, le quali, se distinte fra loro per caratteri di importanza almeno uguale, sovente maggiore di quelli sui quali sono fondate le distinzioni delle specie, non per ciò smarriscono il privilegio ed il distintivo loro proprio della perenne pro- miscua fecondità; laddove ciò che contraddistingue sovranamente le specie si è la promiscua e costante sterilità loro; questa prova apoditticamente la diversa loro origine, non ostante qualunque morfologica rassomiglianza; quella comprova la medesimezza ed unità di stipite, togliendo ogni impor- tanza a qualsivoglia morfologica diversità. Quindi lo stesso Huxley fu tratto a confessare che la teoria darwiniana rimarrà sempre una mera ipotesi indimostrata ed indimostrabile finchè animali e piante, di cui è altrimenti nota e certa la provenienza da un medesimo ceppo, si mostrano fra di loro promiscuamente e costantemente fecondi (1); perchè sarà sempre questo un argomento per negare anzichè attribuire una consimile deriva- zione a chi non possiede una consimile fecondità, com'è il caso appunto delle specie, non già sistematiche, ma naturali alle quali non compete tale promiscua e costante fecondità. Nè vi è altra ragione perchè pos- sano nascere di tratto varietà distinte fra loro con caratteri morfologici di eguale o maggior importanza di quelli con che si sogliono distinguere le specie, e non pertanto rimaner sempre fra di loro e con ogni altra promiscuamente feconde (locchè alle specie è negato costantemente), se non quest’una concludentissima, che la promiscua fecondità è certo indizio perchè effetto di comune provenienza e di specifica identità; quindi il carattere principale e sicuro che contraddistingue le varietà d’una mede- (1) « Our acceptance of the darwinian hypothesis must be provisional, so long as one link in the chain of evidence is wanting; and so long as all the animals and plants certainly produced by selective breeding from a commor stock are fertile, and their progeny are fertile with one another, that link will be wanting. For so long, selective breeding will not be proved to be competent to do all that is re- quired of it to produce natural species (Ap. Whitmore, op. cit., pag. 203) ». L'ipotesi darwiniana non può essere accettala che provvisoriamente, finchè manca un anello a compiere la catena delle testì- monianze (cioè il vero e decretorio argomento della dimostrazione); e questo mancherà sempre, finchè tutti gli animali e le piante frutto di varietà o razze eletlive di cui è certa la provenienza da un ceppo comune, mantengono esse e la progenie loro una costante e promiscua fecondità, perchè sinallora rimane indimostrato che l’elezione naturale sia da tanto da riuscire a produrre specie naturali (che si cortraddistinguono appunto fra loro pel difetto di questa costante promiscua fecondità. 188 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE sima specie da quelle d’ogni altra; quandochè il morfologico, sovente incerto, gli debb’essere subordinato; il primo non è amissibile ed è certo e costante (1), epperò una varietà non potrà mai divenire specie; il secondo è apparentemente vario ed incostante, quindi una varietà può sembrare una specie, e questa una varietà. Dal sin quì detto risulta che fra l’uomo e la scimia potrebbe apparire minore la dissomiglianza di forme, e non essere minore o valicabile l’in- tervallo, anzi l'abisso che li separa; giacchè se le antropoidi non si diversificano meno fra di loro che dall’uomo di cui contraffanno l’aspetto ed usurpano il nome, e si chiariscono specificamente diverse, nè da un medesimo stipite progenerate, perchè fra di loro sterili ed infeconde; almeno intorno ad esse s'aggruppano, divise in tre serie, tutte le altre scimie (®); laddove l’uomo , specie che non appartiene a verun genere (8), primeggia fra gl’inferiori, regna sui sudditi, ma non conosce nè prossimi, nè uguali; egli è solo, e quando fu creato gli si trassero dinanzi gli ani- mali non perchè riconoscesse il suo casato, ma perchè imponesse loro un nome che ne esprimesse e specificasse la natura (4; classificatore egli stesso pel primo, non già parte di quel museo vivente in cui sarebbe (1) Ciò vuol essere inteso con una certa latitudine eil in generale senza escludero nè il più nè il meno, nè alcuna individuale, locale o temporaria eccezione; questa anzi conferma la regola, e quelle varietà si compensano ed equilibrano a vicenda. Così ad esempio l’inerociamento delle razze, qualunque ne sia la diversità, è sempre e dovunque facile e fecondo, e' se talvolta lo riesce meno, o di meno buoni frutti produttore, tal altra la fecondità, non che agguagliare, supera quella di due individui d’una medesima razza; locchè dimostra che il fecondo può crescere col vario, però sempre nel cerchio d’una medesima specie, e quindi conferma il valore del criterio. Parimente se a Giava i meticci nali da Glandesi e Malesi non si riproducono olire la terza generazione, l’incrociamento di queste due razze in altre colonie olapdesi riesce fecondo indefinitamente; nè del resto ciò pro- verebbe di più che la sterilità di un accoppiamento conlinuato ipalterabilmente fra successivi indi- vidui di una medesima linea. V. t. xx11, pag. 370, e De Quatrefages, op. cit. pag. 249, 324, 326. (2) V. sopra, pag. 172, nota I. (3) Toutes les autres espèces animales en ont de voisines ou de consanguines. Le chien et le chacal, le chien et le loup, le cheval et lane sont des espèces voisines; elles sont méme consanguines à un certain degré, ayant entre elles la fécondité bornée. L’homme seul n'a nulle espèce voisine: il n°a pas d’espece consanguine. Sur ce dernier point, on rougirait d’exprimer seulement un doute; Vhomme est d'une nature propre, exclusive de toute autre... Le privilege de Vexclusivité 2’appartient quà l’espèce humaine; elle erclut les autres espèces, et elle en est exclue... Je dis l’espèce humaine et je fais remarquer en passant que, dans le langage vulgaire, on dit indifféremment espèce humaine ov genre humain — La locution genre humain... or doit la bannir du langage scientifigue. Nous venons de dire pourquoi l'homme ne fait pas genre, et il est le seul de tous les étres connus qui ne fasse pas genre. (Flourens, Ortologie naturelle, pag. 69-70). 4) Gen. 11, 19-20. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 189 stato più tardi egli pure classificato da un zoologo suo pronipote, il quale si sarebbe recato a vanto di spogliarlo dell’onore della creazione diretta, per farlo derivare in un colla scimia da un qualche ignoto rimotissimo universale progenitore. No, l’uomo non trovò fra gli animali nè parenti, nè consanguinei, nè affini, e nemmeno un aiutatore compagno, e per averlo fu d’uopo che gli fosse estratto dal proprio di lui fianco (!). No, l’uomo non è ad altre specie congenere, nè può divenirlo; egli, perchè libero nell’esercizio di sue facoltà, può lasciarle inoperose od abusarle, e quindi imbestialire (; ma non può-assolutamente nè disumanarsi uè imbestiare, perchè non può cangiar natura; e se può sublimandola tras- umanarsi, non è già in virtù di una fecondità trasformatrice, bensì col- l’assomigliarsi, cessata la distinzione di sesso, agli angeli, e ciò per so- grazia l’inferiore non ingrada e non s’innalza, se il superiore a sè nol tragge vrumana e divina virtù (8); chè nell’ordine della natura e della e non se l’avvicina (4. Fosse quindi pur vero che i precisi confini fra (1) Gen. n, 18-24. (2) « The possible human deterioration is an inevitable attribute of the rational, moral, free-agent man; capable of the noblest aspirations, and of wondrous intellectual development, but also with a capacity for moral degradation such as belongs to him alone of all created beings. The one characteristic as well as the other, separates man by an impassible barrier from all those other living creatures that might appear in some respects gifted with erdowments akin to his own ». La possibilità di peggiorare all’estremo è un’appartenenza della razionale, morale e libera natura umana; capace delle più nobili aspirazioni, e di un maraviglioso sviluppo intellettivo, ma altresì di tale (sovrattutto) morale degradazione che non ha esempio fra le altre viventi creature; la è questa una doppia caratteristica che ne lo con- traddistingue, e pone un limite insuperabile fra lui e quanti altri esseri viventi possono apparen- temenle mostrare con essolui alcuna rassomiglianza. (Wilson, Pre-hRistoric Man, pag. 182; Young, op. cit. pag. 171). (3) Matth. xx11, 29-30. (4) Toh. vi, 44. Nell’uomo non si osserva solamente una capacità ossia suscettibilità, ma una pro- clività, un’inclinzzione, una tendenza al deterioramento ed al peggiorare, non raffrenata se non in parte dal debole rattento della civiltà, ed in lutto efficacissimamente dai supernaturale lume ed aiuto della rivelazione e della grazia, abbisognando l’uomo e del vivo esempio della virtù per non ismarrirne od alterarne il concetto, e di un gagliardo e costante impulso per praticarla Quindi il Young (sopra, nota 2 citato) è di credere che quelle degeneri efferate ed abbrutite razze dei Boschimani, dei selvaggi Australiani e degli isolani dell’arcipelago Andaman derivino originariamente da qualche mano di schiavi fuggitivi o di banditi i quali, sfidando l’ira degli elementi per sottrarsi a quella degli uomini, caccialisi in mare e sbalestrati dal vento in varie deserle e remotissime plaghe, seiolti da ogni freno e sprovveduli d’ogni mezzo di agiato e collo vivere, siensi di generazione in generazione vie più imbarbariti, sino a toccar l’esiremo limite dell'umano abbrutimento. « Not only is there in man a capacity for moral degradation; but without the restraints of civilisation, and the still higher restraints of Revelation, there is in man a lendency to moral degradation. In the earlier ages, an occasional band of fugitive slages, or of escaped criminals, furnished by external aid with provisions and a boat, shaping 190 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE l’uomo e la scimia fossero ancora oggi la tortura degli anatomici; e sempre le differenze che si presentano da prima nette e precise, svanis- sero sotto l’analisi; non per questo : fantasma di un’odiosa parentela stuzzicato sorgerebbe più severo ed umiliante (1), giacchè la rassomiglianza di forme non è sicuro argomento e criterio di parentela. Fosse pur vero che stando ai puri caratteri anatomici del cervello, l’uomo non distasse apparentemente dalle scimie più di quanto le famiglie sistematiche di queste distino fra di loro, più di quanto, per esempio, dalle scimie comuni distino gli ovistiti ®; fosse pur vero che l’uomo per la sua compage, per la sua configurazione apparisse appena separato dalle scimie per quella distanza che separa un genere dall’altro in un ordine zoologico; e che nella suc- cessione cronologica degli esseri viventi, le scimie avessero preceduto luomo, l’ultima conseguenza che si presenterebbe da se stessa senza cer- carla, non sarebbe ancora la derivazione dell’uomo dalla scimia; propo- sizione che nessuno avrebbe mai creduto potesse da senno essere soste- nuta un istante; bensì tale mostruosa proposizione, non rabbrividite, sarebbe quanto ci è rimasto della grande lotta che il gorilla ha susci- tata in Inghilterra, cioè una proposizione chiarita non già vera, ma mo- struosa 8). E la ragione si è che le scimie avrebbero potuto avere sul- l’uomo una precedenza cronologica, senz’aver perciò con essolui nessuna genealogica attenenza; non essendo per nulla razionale il far derivare tutti i primati da un unico stipite, unicamente perchè fanno parte di un medesimo ordine zoologico, quando non si è per anco provato che questo sia fondato sull’affinità; anzi dopo aver dichiarato sistematiche e conven- zionali tutte zoologiche classificazioni, e riconosciuto poter avvenire che individui morfologicamente più diversi che non i distinti per ispecie, se non anche per genere, sieno tuttavia più prossimamente affini che non individui considerati come semplici varietà (4). Quindi il conchiudere trion- their course they knew not whither, and driven across the ocean by tempestuous winds, may have iso- lated themselves in various wild and distant places; and freed from all the restraints just mentioned, each successive generation would sink lower and lower in ihe moral and intellectual scale, and such degraded specimens of humanity' as those which the Bosjemans, the Andaman Islanders, and the Australian savages present, might well be the ultimate result. Op. et l. cit., pag. 171-172. V. infra pag. 227, nota 2 ». (1) De Filippi, op. cit., pag. 17. (2) Id. ib. pag. 37. (3) Id. ib. pag. 41. (4) V. sopra, pag. 179-180, 183-184. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO IQI falmente che «l’uomo è una derivazione delle scimie, e queste sono una figliazione del ramo dei lemuri, il quale alla sua volta s'impianta sul ramo delle falangiste, che si collega ad altro stipite, e così via via si discende per l'albero genealogico degli animali fino al tronco, fino ad uno stipite unico per tutti (4) » ; gli è un convertire una fisima in una realtà, la è una mera petizion di principio, supponendo come dimostrato ciò che è tuttora e più che mai in questione. E lo riconosce candidamente l’ Huxley, non meno dotto ma più coerente e rispettivo, il quale, non ravvisando nella struttura dell'organismo umano tanta differenza da quello delle antro- poidi da dover collocare l’uno e le altre in un ordine diverso, sebbene la trovi sufficiente per far dell’uomo una famiglia a parte primeggiante sulle scimie nello stesso ordine dei primati; ne conchiude che or vi sa- rebbe verun ragionevole motivo di dubitare che l’uomo si possa consi- derare quale una graduale irasformazione di un’antropoide, ovvero quali- ficarsi l’uno e l’altra come una derivazione da un medesimo stipite, qualora si potesse dimostrare che luna famiglia scimiatica originò da una graduata trasformazione dell’altra, o derivarono tutte da un medesimo ceppo; ma siccome quel processo causativo per cui sarebbero stati originati succes- sivamente i vari generi e le varie famiglie degli animali gli uni dagli altri o diramatisi da un medesimo ceppo, e che sarebbe più che sufficiente per chiarire l’origine dell’uomo, quel fisico processo è tuttavia da scoprire e quella trasformazione e ramificazione da dimostrare, com’egli stesso con- fessa (®), e nol sarà mai per suo avviso, fintantochè i certamente derivati da (1) De Filippi, op. cit. pag. 43. (2) The structural differences between man and the man-like apes certainly justify our regarding him as consliluling a family a part from them, though, in as much as he differs less from them than they do from other families of the same order, there can be no justification for placing him in a distinct order. And thus the sagacious foresight of the great lawgiver of systematic z00logy, Linnacus, becomes justified, and a century of anatomical research brings us back to his conclusion, that man is a member of the same order (for which the Linnacan term, Primates; ought to be retained) as the apes and lemurs. This order is now divisible into seven families of about equal systematic value; the first, the Anthropini, cortais man alone; the second, the Catarrhini, embraces the old-world apes; the third, the Platyrhini all new-world apes, except the marmosets; the fourih, the Arctopithecini, contains the marmosets; the fifth, the Lemurini, the lemurs, from which cheiromys should probably be excluded to form a sixth distinct family, the Cheiromyini; while the segenith, the Galeopithecini, contains only the fiying lemur, the Galeopithecus a strange form which almost touches on the bats, as the Cheiromys puts on a rodent clothing, and the lemurs simulate insectivora. - If man be separated by no greater struc- tural barrier from the brutes that they are from one another, then it seems to follow that if any process of physical causation can be discovered by which genera and families of ordinary animals have been produced, that process of causation is ampiy sufficient to account for the origin of man /r other 192 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE un medesimo stipite si mostreranno, come sì mostrarono sempre e si mo- strano, promiscuamente fra loro fecondi, e sterili affatto 0 tosto o tardi i presunti discendenti o trasformati (!), com'è il caso per l'appunto delle stesse antropoidi rispettivamente (®); noi abbiamo ogni ragione di credere che quello scoprimento e quella dimostrazione avvenire non possono essere attesi prossimamente nemmeno dall’Huxley, e che il chiamar ch'egli fa la teoria darwiniana un’ipotesî provvisoria, subordinandone la dimostrazione all'accertamento di un fatto sinora inosservato, e per chi non abbia il cervel fuor di calende, non fattibile che alle calende greche, gli è un eufemismo che equivale al proclamarla indimostrata ed indimostrabile. Ma se, quand’anche le antropoidi fossero meno fra di loro distinte per caratteri morfologici, non per questo dovrebbero riputarsi originate da un medesimo stipite, ove non potessero tuttavia le une e le altre imme- desimarsi in quella fecondatrice virtù che dovrebbe essere loro comune, qualora fosse derivata da una stessa sorgente, giusta il noto adagio: que sunt eadem uni tertio sunt eadem inter se; a più forte ragione non pos- siamo accomunare l’uomo e le antropoidi in una medesima origine, distinguendosi anche pei soli caratteri morfologici il primo dalle seconde tanto e più ancora che non queste fra di loro. E ne rechiamo a prova la testimonianza dell’Huxley, il quale riconosce che « ogni osso del gorillo porta impressi i caratteri che lo distinguono dal corrispondente umano », che non vi è nell'ordine presente di creazione nessun anello che congiunga l’Homo ed il Troglodytes, nessun ponte che cavalchi l'abisso che fra l’uno e l’altro si frappone; « che se come non vi è alcun anello fra l’uomo ed il gorilla, non ci è nemmeno alcuna forma tramezzatvice, transitiva, trapassante fra il gorilla e l’orang ovvero l’orang ed il gibbone, nè una meno netta e precisa separazione; l'intervallo però fra questi è un po’ più stretto (3) ». Che se ciò non ostante egli credesi bensì licenziato a words, if it could be shown that the marmosets for example have arisen by gradual modification of the ordinary Platyrrhini, or that both Marmosets and Platyrrhini are modified ramifications of @ primitive stock — then, there would be no rational ground for doubling that marz might have originated in the one case, by the gradual modification of a man-like ape; or, in the other case, as a rami- fication of the same primitive stock as those apes. Z/uxley, Mar’ s Place in Nature, pag. 105, cf. Whitmore, op. cit. pag. 201-203. (1) V. sopra pag. 187, nota 1. (2) V. Tomati op. et l. cit. CÎ. sopra pag. 172, nota f. (3) Let me take this opportunity of distinctly asserting that the structural differences between man and even the highest apes... are great and significant - every bone of a gorilla bears marks by which PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 193 far dell'uomo una famiglia a parte, non però a collocarlo in un altr’ordine da quello delle antropoidi, distinguendosi questo dalle scimie inferiori più che non l’uomo dal gorilla o dal chimpanzè (!»; il suo procedere è fallace ed illogico, dovendosi confrontare non già gli estremi, ad esempio le antropoidi e gli ovistiti, ma ciascun termine coll’immediatamente suc- cessìvo nella serie; potendo gli estremi essere spiccatissimi e non per tanto congiungersi e compenetrarsi così sfumatamente come i colori del- l’iride. Ondechè, sia pure che fra l’uomo ed il gorilla l’intervallo morfo- logico sembri minore che non fra questo ed il lemure; siccome però i termini intermedii fra questi due estremi, chiamateli specie, generi o fa- miglie, sono fra di loro distinti con un intervallo molto minore di quel primo (2; poniamo che il lemure avesse potuto, spiccando alcuni salti, it might be distinguished from the corresponding bone of a man - and that in the present creation, at any rate, no intermediate link bridges over the gap between Homo and Troglodytes. Zt would be no less wrong than absurd to deny the existence of this chasm. - Remember, if you will, that there is no eristing link between man and the gorilla; but do not forget that there is a no less sharp line of de- marcation, a no less complete absence of any transitional form between the gorilla and the orang, or ihe orang and the gibbon. I say mot less sharp, though somewhat narrower. » Id. |. cit. cf. segnata- mente tutto il brano da pag. 54 a 105. (1) The structural differences which separate man from the gorilla and the chimpanzee are not so great as those which separate gorilla from the lower apes. » Ib. Vedi sopra pag. 191,anota 2. Cf. Whit- more, pag. 200-201. (2) Dichiariamolo con un esempio tolto dalla citata Rivista di Edimburgo. Poniamo che il pro- gressivo sviluppo del cervello nell’ordine dei quadrumani possa essere rappresentato all’indigrosso dalla serie aritmetica 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 15, e che il cervello del lemure possa essere in- dicato col numero 1, quello del gorilla col 10, e quello dell’uomo col 15; gli è chiaro che il gorilla numericamente dista meno dall’uomo che non dal lemure; ma gli è evidente del pari che questo maggior intervallo è suddiviso, e se non connesso, ne è agevolato il:varco da tanti piccoli passi quante sono le successive unità, laddove l'intervallo fra l’uomo ed il gorilla rimane quintuplo senza alcun termine intermedio. Questo (vi si conchiude) è il vero aspetto della quistione, e finchè la zoologia o la geologia non ci avranno dimostrata Vesistenza di termini intermedii, noi abbiamo ragione di continuare a collocare l’uomo in una distinta sotto-classe. Si tratta di sapere se le dif- ferenze anatomiche fra l’uomo ed il gorilla siano maggiori o minori che non quelle fra questo ed ogni altro successivo termine nella serie dei quadrumani. — Il Professore Huxley salta dal gorilla al lemure, e ci dà la differenza fra il cervello ed i piedi di questi due termini estremi della serie come una proposizione equivalente in valore alla differenza fra il cervello ed i piedi del gorilla e del negro. « Yhis, we apprehend, is the true aspect of the question; and until zoology or geology shall have demonstrated to us the existence of iniervening links, we are justified in placing man, as he is at present, in a separate sub-class. The question is, whether the anatomical differences between man and the highest ape (gorilla ) are greater or less than between the second and third links (gorilla and chimpanzee ) in the descending scale, or between any two successive links in the quadrumanous series. Professor Huxley plunges from the gorilla doun to the lemur, and puts forward the difference between the brains and feet of these extremes of the series as a proposition equivalent in value to the difference between the brains and feet of the gorilla and negro (L. cit. pag. 549)». Serie II. Tom. XXIV. 55 194 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE raggiungere il confine scimiatico, là pervenuto, vi si sarebbe dovuto ar- restare; perchè, se per diventar gorilla gli sarebbe bastato trinciar tre o quattro capriole, per valicar l’intervallo frapposto fra queste e l’uomo, non l’avrebbe potuto senza un salto mortale, cioè avrebbe cessato di essere gorilla senza poter uomo diventare. Ho detto salti, perchè l'Huxley stesso parla di passi, di gradi, più o mano larghi, ma tutti staccati, non già di anelli di una catena, negando esplicitamente di ravvisarne alcuno, nè fra l’uomo ed il gorilla, nè fra questa ed altra delle antropoidi, nè fra alcuna di esse ed altra forma scimiatica inferiore (!); ora tutti questi salti, qualunque ne sia la relativa differenza, sono tutti assolutamente impossibili, perchè la natura non va balzelloni @), e ripudiati del pari dai Darwiniani che sognano continue graduali ed insensibili trasforma- zioni non osservabili, nè dimostrate, nè, giusta la condizione apposta dall’Huxley, dimostrabili (8). Laonde, non solamente siamo da questo au- torizzati a collocare l’uomo in una famiglia a parte, ma, qualora quegli voglia esser coerente a se stesso, deve pure riconoscere non potersi di- mostrare che veruna delle famiglie, in che egli divide l’ordine dei pri- mati, abbia avuto comune coll’altra un medesimo stipite, non potendosi dimostrare nè che l'intervallo, onde sono distinte e divise, sia stato superato d'un salto, nè che siano esistite e sparite senza alcuna traccia tutte le (1) V. sopra pag. 192, nola 3. Quindi non dimostrasi troppo esatto e coerente quando, conti- muandosi nel primo brano sovracitato (pag. 191, nota 2), soggiunge: « PerRaps ro order of mam- mals presents us with so extraordinary a series of gradations as this, leading us insensibly from the crown and summit of the animal creation dowr to creatures from which there is but a step, as ît seems, to the lowest, smallest, and least intelligent of the placental mammalia. It is as if nature herself had foreseen the arrogance of man, and with roman severity had provided that his intellect, by its very triumphs, should call'into prominence the slaves, admonishing the conqueror that he is but dust ». a Niun ordine forse fra i mammiferi ci offre una serie così straordinaria di gradazioni come questo (dei primati), scorgendoci irsensibilmerte dall’apice della creazione animale sino a tali creature che ci paiono separate solo di un grado dagl’infimi, più piccoli e meno intelligenti fra i mammiferi pla- centiferi. Come se la natura stessa, preveduta l’umana arroganza, avesse pure con romana severità provveduto che l’uomo stesso dovesse nel trionfo di sua intelligenza trarre all’aperto e collocar in bella mostra gli schiavi che ammonissero lui conquistatore non esser altro che polvere ». No, questa ammonizione è fuor di proposito, e l’uomo per rammentarsi che è polvere non debbe badare ad altri che a se stesso, tale essendo la deslinazione della scaduta umanità, come ne fu, per virtù divina, la primordiale ed immediata origine, senza l’intromessa di una scimiatica trasformazione, impossibile in ogni ordine di animali, anche primati, perchè distinti e disgiunti da intervalli, non già congiunti e connessi con conlinue e sfumate transizioni. (2) V. sopra t. xxII, pag. 401-404. (3) V. sopra pag. 187, nota 1. N PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 195 forme intermedie, nè che da un medesimo stipite siano derivabili forme così profondamente distinte da riuscire fra loro del tutto ed a breve andare sterili ed infeconde. E qui ci si presenta comoda l’opportunità di rispondere al De Filippi, il quale dopo aver affermato in principio del suo libro che « i precisi confini fra l’uomo e la scimia sono ancora oggi la tortura degli ana- tomici, e sempre le differenze che si presentano dapprima nette e precise, svaniscono sotto l’analisi (4) »; ci concede in sul finire che « tutto quanto dice il Professore Bianconi della differenza fra l’uomo e la scimia, è perfettamente vero; di più è noto, ammesso, riconosciuto da tutti indistintamente: col compasso e colla bilancia, non c’è a ridire »; che « esistono distinzioni organiche gravi e sicure fra l’uomo e le scimie antropomorfe »; che « tali distinzioni e differenze più emergono salienti ed accertate, quanto più l’analisi è profonda » ; che « sussistono in tutta la loro integrità le antiche divisioni di bimani e quadrumani » ; ma non pertanto nega che «l’uomo sia una creazione a parte, e da sè, indi- pendente affatto da quella degli altri animali ». O perchè? Eccolo: « esistono distinzioni organiche gravi e sicure fra le scimie antropomorfe e le cappucine; tali distinzioni e differenze più emergono salienti ed accertate, quanto più l’analisi è profonda; sussistono in tutta la loro integrità le antiche divisioni di scimie catarrine e platirrine; e nullameno le scimie antropomorfe nor sono una creazione a parte e indipendente affatto da quella degli altri animali (®) ». E la ragione di questo ron ? Di certo la debb’essere curiosa ed ignorata persino dall’Huxley, il quale ci disse pur egli che, qualora tutte le altre famiglie dell’ordine de’ primati si potessero dimostrare trasformate specificamente le une dalle altre o derivate da uno stipite comune, ei non vedrebbe ragione perchè non si dovesse attribuire eziandio agli antropini, cioè alla famiglia umana, una consimile metamorfosi o-derivazione ; ben lungi però dal riputarla cosa dimostrata, ci lasciò capire che non gli sembrava nè si tosto, nè forse mai dimostrabile (8). Di che sorta di dimostrazione dunque si è la favo- ritaci dal De Filippi? « È di una semplicità che innamora, ma di una semplicità che inganna (4) ». Egli sì pensa di essere riuscito a dimostrare che (1) Op. cit., pag. 17. V. sopra pag. 190, nola 1. (2) Op. cit., pag. 63-64. (3) V. sopra pag. 191, nota 2, coll. 167, nota 1. (4) Op cit. pag. 7. 196 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE « ì caratteri organici pei quali l’uomo si distingue dalle scimie, sono di tal natura da potersi derivare da modificazioni sporadiche divenute per- manenti », ove possa « far vedere che differenze, dal punto di vista zoologico, assai più gravi si sono viste nascere per cause indeterminabili, poscia trasmettersi per eredità (4) ». Ma oltrechè non sappiamo intendere come possa riconoscere una gravità relativa chi non ne ammette il fondamento nell’assoluta, e proclamò le varietà, specie, generi, famiglie, ‘ordini e classi, tutti indistintamente assembramenti sistematici e creazioni della nostra mente (®); saremmo curiosi di conoscere quale sia il criterio da lui adoperato per distinguere dal suo punto ‘di vista zoologico la maggiore o minore morfologica gravità ; se 7 compasso cioè o la bi- lancia ®), o l’uno e l’altro assieme; dando sempre il maggior valore alla maggior grandezza, o maggior peso, e così la presenza o la mancanza di un paio di corna, ovvero la parziale o totale della clavicola, possa essere un carattere, non dirò solo di eguale, ma di maggior importanza zoo- logica, che non la forma orbicolare o bislunga della pupilla; e perciò più diverso zoologicamente un toro scornuto dal suo cornato genitore (È, che non il cane dalla volpe 0); ed una razza umana mancante della metà acromiale della clavicola riuscire zoologicamente più distinta da ogni altra razza umana, di quello che per altri distintivi organici lo sia dalle grave dovrebbe 5 talora stimarsi la morfologica differenza di un nato, da non potersi zoo- antropoidi (0). Checchessia di questo criterio, per cui sì logicamente collocare in una stessa famiglia o sotto ordine col genitore, Ti (1) Ibid., pag. 65-66. (2) Ibid. pag. 12. V. sopra pag. 178, segg. (3) Op. cit. pag. 65, 63. (4) V. sopra pag. 179, nota 3. * (5) V. sopra pag. 181, nota 3. (6) « Dalla presenza o dalla mancanza della clavicola, o dalle clavicole perfette od imperfette, si desume in zoologia un carattere di importanza assai più che specifica, perfino più che di genere; un carattere di famiglia o di sott’ordine. Ora in qualche raro caso si è verificato la mancanza totale o parziale di quest’osso nella specie umana. Un caso di mancanza della metà acromiale della cla- vicola fu narrato lo scorso anno dal Professore Gegenbaur di Iena (Jendische Zeitschrift fir Me- dizin und Naturwissenschaft. 1864, Leipzig. Engelmann); e ciò che è più importante si è che tale difetto, originario in una donna, è stato da questa trasmesso alla sua prole di due letli, senza che rimanesse menomamente lesa la piena libertà dei movimenti delle braccia. Di induzione in induzione fondandosi sempre sulla legge fisiologica dell’eredità, potremmo facilmente arrivare a supporre possibile la formazione di una slirpe priva della parle acromiale od anche di tutta la clavicola ». Op. cit., pag. 66-67. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 197 mentre tuttavia chi adopera cotal criterio vuol mantenuta la distinzione di regno fra organismi affatto simili (!); noi che da questo punto dî vista zoologico non ci vediamo più niente affatto, subordiniamo il criterio dell’apparente morfologica diversità o somiglianza a quello della possibile o non possibile promiscua perpetuazione, non già dell’avventizio , che sorto accidentalmente può per accidente sparire o scemare e non perenna che condizionatamente, cioè fra i soli discendenti immediati di una me- desima razza o varietà (®); bensì dell’essenzialmente specifico, inseparabile dalla promiscua e perenne fecondità, comune a quante razze o varietà derivano da un medesimo, ceppo; promiscuità la quale, ancorchè non facesse sparire del tutto od in parte quelle avventizie accidentali diffe- renze, ove però continuasse perennemente feconda, toglierebbe ad esse ogni valore di specifica distinzione; chiarendosi col solo fatto di questa promiscua e perenne fecondità, mere accidentali varietà, quante morfo- logiche differenze, e siano pure apparentemente grandissime (8), sono con (1) V. sopra t. «xi, pag. 350, nota f. (2) V. sopra pag. 179, nota 3, pag. 184, nota 3. Tale si è il caso di quella razza scornuta di buoi, o di arcori, la cui perennità è dovuta al difetto d’inerociamento con altre razze impedito studio- samente, e tale pure sarebbe, qualora ciò fosse avvenuto per naturale sequestramento; tolto il quale, ed avvenuto il promiscuo incrociamento delle varie razze, sparirebbe a breve andare quella accidentale e precaria varietà. Dicasi lo stesso di alcune umane mostruosità più o meno lungamente continuabili, non però promiscuamente e perennemente trasmissibili; tale il testè riferito difetto della metà acro- miale della clavicola trasmesso dalla madre alla sua prole di due letti(V. pag. 196, nota 6); e quelli non meno singolari della famiglia Lambert ne?’ cui discendenti per circa un secolo, la pelle del corpo, trannele estremità, spessa, callosa, screpolata, arieggiava sui fianchi le spine del riccio ; della famiglia Colburn ....nella quale per tre generazioni alcuni dei figli, nipoti e pronipoti ereditarono la poli- dattilia dell’avolo, mostruosità che in una famiglia spagnuola si accrebbe ancora dall’essere ne? poli- dattili, due o tre diti legati l’uno all’altro con una membrana come ne? palmipedi, tutte mostruosità che sorte accidentalmente, tosto o tardi sparirono, ma si sarebbero potute dai difettosi, maritandosi esclusivamente fra di loro, più a lungo perpetuare. Tale pure si è l'origine e la condizionata perpe- tuazione della razza negra, il cui colore ove sia incrociata colla bianca, ora alterna nella prole col colore di questa, rimanendo talora oppostamente colorati due gemelli, o bicolore e dimezzato uno stesso individuo, o solamente pezzato e chiazzato di quella nigredine, ora, prevalendo questa, notan- temente nelle prime generazioni, va poi digradando e sfumando successivamente. V. De Quatrefages, op. cit. pag.309-311, 286-287. Quanto all’ereditaria trasmissione di simili accidentarie particolarità o difformità, V. Prosper Lucas, Trazté de Vhercdité naturelle dans les états de santé et de maladie du systeme nerveux. Paris 1847-1850, 2 vol. in-8°. E quanto al Joro valore in riguardo alla teoria della trasformazione della specie, V. sopra t. xxI1, pag. 373, nota 3. (3) Ma che il valore di queste morfologiche diversità sia più apparente che reale, si manifesta dalla scarsa o nessuna loro fisiologica importanza; e così ad esempio, nel caso testè recato dal De Filippi di mancanza della metà acromiale originaria in una donna, ciò ch'egli vi scorge di più im- portante sì è che tale difetto è stato da questa trasmesso alla sua prole di due letti, senza che ri- manesse menomamente lesa la piena libertà dei movimenti delle braccia»; vale a dire, V’impor- 198 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE essa compossibili; e per lo contrario, vere specifiche differenze quelle apparentemente minori diversità che sì mostrano con essa incompatibili. E per ciò appunto che giusta il De Filippi, maggiori talvolta, od almeno apparentemente tali, si osservano le morfologiche differenze fra razze o varietà che non fra specie o generi, od anche nessuna; talora, fra in- dividui di due distinti regni (1); gli è bensì a conchiudere che il feno- meno morfologico non essendo mai l’espressione adeguata dell’intima e particolare natura dell’organismo così modificato, e della virtualità di di cui questo è strumento, e quindi non presentando di per se solo un carattere di un valore costante, proporzionale ed assoluto, non lo può conferire a tutte zoologiche distinzioni di cui sia unica norma e criterio; ma tal valore non può essere negato alla distinzione specifica, siccome quella che, nella promiscua e perenne fecondità degli individui, ha un carattere costante e sicuro per contraddistinguere gli specificamente ossia essenzialmente simili, dagli specificamente cioè essenzialmente diversi ; e con esso un criterio per apprezzare le morfologiche differenze, e som- ministrare così il fondamento e l’addentellato a tutte le altre zoologiche distinzioni, senza però comunicar loro quel valore assoluto che a lei sola compete, e non può nemmeno essere dalle specifiche morfologiche differenze condiviso per modo, da potersi sempre esattamente definire quale sia il carattere morfologico così proprio di una data specie che tanza di un tal difetto consistere in ciò chele funzioni organiche non ne accusavano la difettosità, la quale si ebbe quindi quell’importanza che una 14% rudimentale o completa vertebra colla corri- spondente dorsale soprannumeraria, quale s'incontra talvolta in alcuni individui del bue comune (bos taurus), anzi in una razza nel Piacentino; ovvero la mancanza delle corna in una razza bovina dell'America meridionale (V. sopra pag. 179, nota 3 ed il Cimento ivi citato, pag. 32); anzi que- st’ultimo difetto è fisiologicamente più importante che gli altri due; giacchè se le corna non sono necessarie alle funzioni della vita, lo possono essere per la sua conservazione e difesa. Per la qual cosa quella zoologia, cui basta la sola preserza di una costa soprannumeraria per costiluire una nuova specie; la mancanza di corna per contraddistinguere un nuovo gezere; e dalla sola presenza o dalla sola mancanza della clavicola, o semplicemente dalle clavicole perfette od imperfette desume un carattere di importanza assai più che specifica, perfino più che di genere; un carattere di famiglia e di sott’ordine; quella per noi non è la buona, nè, peggio ancora, la z2igliore zoologia; la quale se, dieci anni or sono, negando a questo o quel carattere morfologico, considerato di per se solo, un valore assoluto, poneva il principal requisito della specie nella produzione di una prole illimitatamente feconda dallo accoppiamento spontaneo degli individui dei due sessi (V. sopra pag. 179, nota 3); dovrebbe pure, per essere coerente a se stessa, o menar buone le allora allegate ragioni, o mostrarne l’insussistenza, e ,se non altro, rimuovere il sospetto che infemminita di fatto e non sol di nome, segua pur essa Vandazzo della moda, e s’alteggi a norma del novissimo figurino. (1) V. sopra t. xxII, pag. 376, 280, note. " PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 199 sia sempre egualmente comune a ogni suo individuo, e non possa mai oltre un certo determinato limite variare. Quindi la possibilità di non avvertire o di esagerare l’importanza di questo o quel carattere morfo- logico, ed il non raro esempio di non accordarsi nel determinare tutte e singole le proprietà morfologiche caratteristiche di due specie coloro stessi che consentono nel distinguerle specificamente. Locchè non deve recar meraviglia a chi vuol mantenuta la distinzione di regno fra due semplicissimi organismi affatto simili (1); ma siccome basta la diversa funzione, siccome quella che presuppone una diversità di organismo, per collocar ciascuno di essi in un distinto regno, cioè l’uno fra gli animali e l’altro fra le piante @); per simil maniera, il non potersi due più o meno morfologicamente distinti organismi communicar perenne- mente e promiscuamente essi ed i loro discendenti la propria fecon- datrice virtù, è sufficiente e valido argomento per conchiudere che il difetto di assoluta continuità rivela un assoluto discreto. Non già dunque l'apparente maggiore o minore morfologica diversità può di per sè for- nire un sicuro criterio di zoologica distinzione, non essendo scientifico un criterio fondato sulla mera apparenza, e potendo chiarirsi, alla prova, accidentale una massima, ed essenziale una: menoma diversità, tanto più profonda quanto meno apparente; quindi riuscire diversissimi ì generati prossimamente od anche immediatamente da un medesimo stipite, similissimi i derivati da un lontano ed anche diverso. Nè la pe- renne trasmissione di un’accidentaria varietà ai propagginati da essa varrà mai a costituire una specie novella, non allargando nè restringendo il campo dell’ereditaria specifica fecondità; bensì il non poter nè essa, nè le derivate dal medesimo stipite con altre che loro sembrano morfologi- camente affini con perenne reciproca fecondità accoppiare, prova la diversa loro origine, e specifica distinzione. Accertata la quale, quei ‘caratteri morfologici che si possono dimostrare inseparabili da tale di- stinta fecondità ed a tutti i suoi frutti promiscuamente e perennemente comuni, assumeranno valore di specifica morfologica distinzione, senza che però, ove questa per la natura dell’organismo riesce poco o nulla spiccata, se non anche inosservabile, o meno esatta, sicura ed accertata (1) V. sopra t. xxM, pag. 380, nota. (2) Ib. pag. 379-384. 200 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE per difetto di accurata osservazione, o ponderato esame, ne resti perciò distrutta od inforsata la predefinita specifica diversità. Quindi è che V’im- portanza della morfologica diversità vuol essere desunta dalla virtuale, potendo questa essere massima, e quella apparentemente menoma, e per lo contrario apparire grandissima in organismi prodotti da una stessa fecon- datrice virtù; quali sono appunto tutte quelle differenze viste nascere per cause indeterminabili, e poscia trasmesse per eredità, modificazioni sporadiche divenute permanenti, le quali sembrano al De Filippi, dal punto di vista zoologico, assai più gravi che non i caratteri organici pei quali l’uomo si distingue dalle scimie (1); laddove la niuna zoologica, od almeno specifica, importanza di quelle differenze che ora veggiamo coi nostri propri occhi prodursi e perpetuarsi ®, deriva appunto dal non alterar essa per nulla la promiscua e perenne fecondità di cotali novelle varietà con altre qualsivoglia derivate per lo addietro o derivabili per lo innanzi dal medesimo primitivo stipite. Promiscua e perenne fecondità che non essendosi vista mai venir meno, nè perennemente desiderarsi in nessuna razza o varietà certamente derivata da un medesimo ceppo; qualunque ne fosse la loro morfologica differenza, è sufficiente, anzi decretorio argomento per negar loro ed a quante altre si veggono nascere il ‘valore di specifica distinzione, e per attribuirlo al contrario a quei caratteri organici dichiarati dal De Filippi meno gravi, pei quali l’uomo si distingue dalle scimie, siccome quelli che essendo bastanti per escludere quella perenne reciproca fecondità, dimostrano che non possono derivare da un medesimo stipite; giacchè quanti certamente ne derivano, lo possono sempre, ed essi soli, promiscuamente e sotto qual- sivoglia morfologica diversità continuare. E per giovarci, argomentando ad hominem, della stessa conclusione del De Filippi, diremo alla nostra volta: «la questione non s’aggira punto sulla differenza fra il gorilla e l’uomo, ma veramente sulla derivazione di queste differenze. Certo il gorilla non genera che gorilla, e gli stessi più entusiasti darwi- nisti non pensano altrimenti ». Benissimo; ma dovrebbero pure sog- giungere che il gorilla non genera che col gorilla, e quindi generatori e generati non furono e non saranno mai altro che gorilla. Pertanto la (1) Op. cit. pag. 65: (2) Op. cit. pag. 69. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 201 vera questione è assai più generale, e può esprimersi così: se quelle che noi diciamo ora differenze specifiche non abbiano avuta, nella lunga successione dei periodi geologici, la stessa origine di quelle altre diffe- renze che ora veggiamo coi nostri propri occhi prodursi e perpetuarsi e che per ciò solo consideriamo come di varietà o di razze (4), E noi rispondiamo ricisamente che no; imperocchè, e queste, per ciò solo che le veggiamo coi nostri propri occhi prodursi e perpetuarsi, non possono essere altrimenti da noi considerate fuorchè come semplici razze o va- rietà, quali sono necessariamente tutte quelle derivate da un medesimo stipite; siccome però tutte quelle di cui ci è conta ed esplorata tale comune provenienza, qualunque sia l'apparente loro morfologica diversità, tutte sono fra di loro promiscuamente e perennemente feconde, siamo pure per ciò solo autorizzati a considerare come non provenienti da un medesimo stipite, c quindi specificamente distinte tutte quelle che, non ostante una qualunque morfologica rassomiglianza, non si possono pe- rennemente e promiscuamente le une colle altre fecondare. E solo allora verrebbe infermato il valore di questa specifica distinzione, quando la si potesse dimostrare applicabile ad alcuna di quelle razze o varietà che veggiamo tuttodì prodursi e perpetuarsi per naturale accidentalità , od artifiziale elezione; siccome però tale applicabilità è tuttavia un desiderato ‘non dirò della scienza, ma de’ Darwiniani, l’Huxley non si peritò di confessare non potersi per anco accettare definitivamente la per luì sim- patica darwiniana teoria (2). Gli è dunque ad attenersi alla zoologia denominata dal De Filippi la migliore, quella cioè che nel confronto dei vari organismi fa entrare anche la wirtualità, come la sola che decida sul posto di un essere vivente nella natura, finchè la virtualità o potenzialità propria di ciascun organismo non sia tradotta in azione, non potendosi capir nulla della rispettiva loro natura, od almeno non apprezzare compiutamente l’im- portanza della morfologica loro diversità; perchè questa o non sì rivela al nostro sguardo, anche aiutato dal microscopio, come nel caso di due semplicissimi organismi apparentemente affatto simili , e non pertanto attesa la diversa loro funzione appartenenti a due distinti regni (8); o (1) Op. cit. pag. 69-70 {2) V. sopra pag. 187, nola I. (3) Op. cit. pag. 49-51. Serie IL. Tom. XXIV. 26 202 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE non è mai l’espressione adequata e perfetta della diversità virtuale di cui l’organismo è ad un tempo lo strumento e la veste, ned altrimenti che nella funzione manifesta questo la sua proporzionalità, quindi la specifica sua natura e graduato valore. Al che se il De Filippi avesse posto mente, non avrebbe distinta la dora dalla migliore zoologia, as- segnando a quella la parte materiale soltanto, a questa la sola virtualità, nè avrebbe negata ogni distinzione materiale fra due organismi, mante- nendo fra loro quella di due distinti regni, corrispondente a quella delle loro funzioni; quasi che si possa concepire un organismo che non serva a nessuna, ossia egualmente acconcio alle più diverse ed opposte fun- zioni; con che si distrugge il concetto stesso di organismo, e vien meno ogni ragione di morfologica diversità; e pur continuando a riconoscere in questo una maggiore o minore zoologica importanza e gravità, non l'avrebbe misurata a occhio e croce, guardando alla mera apparenza. Epperò, se fra i distintivi organici dell'uomo in confronto colle scimie ci fosse anche la mancanza della parte acromiale ed anche di tutta la clavicola, purchè l’importanza di tale difetto consistesse nel non ri- manere menomamente lesa la piena libertà dei movimenti delle braccia (1), ben lungi dal ron esitare un istante a metterlo in prima linea, ciò ch'egli attribuisce senza ragione al Prof. Bianconi, fors'anco e senza forse avrebbe creduto necessario, non già di scendere, ma di salire con esso lui fino ai caratteri molto più importanti, non già subordinati, delle zanne , dell’arcata zigomatica, del legamento plantare; e nel supposto caso avrebbe avuto molto maggior ragione che non nel caso concreto. Imperocchè, se nessun ordine zoologico è fondato su caratteri organici equivalenti a quelli sui quali il Prof. Bianconi stabilisce l'ordine dei bimani @®); la ragione si è che nessun altro ordine si distingue con uguale importanza e diversità di funzioni, e da queste si deve desumere ed estimare l’esistenza e l’importanza delle organiche diversità. Laonde se la distinzione, non che di ordine, di regno, vuol essere mantenuta fra due organismi affatto simili, qualora la non osservabile, ma profonda loro organica diversità sì riveli implicitamente nella diversissima loro virtualità; conciossiachè torni impossibile ed assurdo il supporre che (1) V. sopra pag. 196, nota 6, pag. 197, note 2 e 3. (2) Op. cit. pag. 66-67. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 203 siano affatto simili due organismi, le cui funzioni sono così diverse da dover essere l’uno collocato fra gli animali, l’altro fra le piante (!); gli è chiaro altresì non potersi rettamente apprezzare e graduare le appa- renti morfologiche diversità, se non se rispettivamente alla loro attinenza colle funzioni organiche ed alla costoro relativa od assoluta importanza. E per andarne capace, basta considerare che l’organismo essendo un mero strumento della virtualità, come ciascun organo della relativa fun- zione, dipendendo l'uno dalla virtualità che ne è il principio organiz- zatore ed avvivatore, l’altro, prodotto pur esso dalla plasmatrice virtù, ricevendo dall’attuale ed abituale funzione la sua condizione, svolgimento e perfezione istrumentale (@); l’organico loro valore sta tutto in quest’intimo (1) V. t. xx1t, pag. 379-380. (2) Torna qui opportuna l’osservazione del citato Duvernoy, il quale riepilogando le differenze essen- ziali che distinguono dall’uomo le antropoidi, da lui chiamate giustamente pseudo-artropomorfe, pone per terza lo scarso svolgimento dall’età prima all’adulta della capacità craniale altrove indicata (V. sopra pag. 163, nota 6); « que l'on jette un coup d’eil sur le tableau que nous avons publié de la capacilé crantenne chez les singes supérieurs, on y verra démontré que, relativement au reste du corps, cette capacité va en diminuant considérablement. Qu'en conclure, sinon que ces differences sont en rapport évident avec l’absence de vie intellectuelle chez ces animaux ? Nous avons vu dans ce méme tableau que la capacité cranienne d’un enfant de quatre ans, n’ayant encore que ses dents de lait, est de 115 centilitres, tandis que cette capacité s'elèse à 170 centilitres chez l’ homme adulte de race caucasique; preuve evidente de la vie intellectuelle de notre espèce, qui entretient une activité permanente, à toutes les époques de Veristence dans l’organe de l’intelligence, y produit une activité de nutrition qui tend à le developper aussi longtemps que le permettent l’ossification et les sutures de la botte cranienne qui le protege (Op. cit. pag. 231-232). Parmi pertanto assennatissima l’induzione del Garbiglietti, il quale da questa verità inconcussa, che gli organi del corpo umano tanto più sì sviluppano ed acquistano maggior forza e vigore e maggiore accrescimento, quanto più sono essi tenuti în esercizio; e così il cervello, quanto più vien messo in esercizio, tanto maggiormente si sviluppa, e cresce così in volume ed in massa, come în forza, fu condotto ad argomentare che #2 questo fatto appunto debba cercarsi la spiegazione della maggior frequenza della sinostosi craniale di alcune antiche razze imbarbarite (Op. cit. pag. 84-85). Ora col minor esercizio delle facoltà intellettuali cresce quello delle istintive, e predominando le tendenze animalesche ed irrazionali, non è a stupire che ne resti alterato il tipo umano, e l’abbrutimento esteriore manifesti l’interna abbiezione per cui, scavalcata di seggio venne assoggettita (per usare una frase di Zaverio de Maistre), ’dme à la béte, la ragione all’istinto. Quindi quel molteplice fisico e morale degradamento che si osserva anche oggidì presso varie tribù, non già rimaste nel primitivo stato, ma scadute, giacchè l’esempio incontestabile di già civili poi im- barbarite è prova che le barbare non si sarebbero di per sè civilizzate mai. (V. sopra pag. 189, nota 2 e 4). Nè deve recarci meraviglia siffatto abbrutimento, veggendo che nelle stesse belve, come ad esempio nelle antropoidi, coll’afforzarsi l'istinto brutale rimane come sopraffalta, smorzata ed istupidita quella vivezza di percezione sensitiva manifestata nella loro età giovanile. Il sullodato Duyernoy ci mette appunto solt’occhio «la brutalité de ces animaux à Vdge adulte, comparée à la douceur et à V'intelligence qu'ils montrent dans le jeune dge. - Dans l’animal le plus rapproché de l'homme lorang, le chimpanzé, faute d’erercice, faute de vie intellectuelle, de parole, de 204 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE loro nesso col principio informante ed attuoso, il quale impenetrabile al nostro sguardo non si rivela che negli atti suoi e proporzionalmente in quelle organiche modificazioni che sì chiariscono ad essi inservienti, attinenti o comechessia coordinate; quindi è che morfologiche diversità apparentemente notevolissime possono essere scompagnate da virtuale diversità, e questa per lo contrario rivelarsi grandissima, senza essere indicato da nessuna, od almeno da un apparentemente proporzionale diversità. Il perchè, quelle distinzioni organiche gravi e sicure, cui il De Filippi riconosce esistere fra l’uomo e le scimie antropomorfe, non vogliono essere considerate singolarmente e separatamente ciascuna in se stessa, senza verun riguardo alla funzione organica ed al conserto di questa con ogni altra cooperante o concorrente all’unità fisiologica dello stesso organismo; ma affinchè quelle differenze emergano tanto più salienti ed accertate, quanto l’analisi è più profonda (!), questa non deve avere per solo criterio del ragguaglio il compasso e la bilancia, ma sì e più encora il valor proporzionale del peso e della misura delle singole parti in ordine alla loro congegnatura, ed all’importanza dell’azione o funzione, di cui l’organo particolare o l’intiero organismo è lo strumento. La quale congegnatura potendo bensì essere accidentalmente guasta od impedita, non già originata; perchè se basta un caso a rompere un disegno, questo non è concepibile senza intenzione, e cessa di essere fortuito ciò che è intenzionale; ne consegue che modificazioni spora- diche divenute permanenti (®), non sostituendo mai un nuovo al primitivo réflection, caracières sensibles ow intimes de cette vie intellectuelle, Vorgane de l'intelligence perd avec age son développement proportionnel; et la brutalité ne tarde pas à remplacer cette lueur passagère de facultés intellectuelles que montre, entre autres, le jeune orang » (Op. cit. pag. 172). Se non che la differenza fra le due età non deriva dal maggiore o minore sviluppo dell’organo, od esercizio della funzione cerebrale, bensì da quello dell’istinto ferino, per cui un grazioso micino ed una micia inuzzolita, un leone satollo od affamato ci paiono un tutt’altro animale, non già lo stesso in una diversa condizione od età; e così pure il divario fra l’uomo ed un’antropoide non è già per difetto di sviluppo organico o di esercizio intellettuale, giacchè l'organo di questa avendo ricevuto tutto il possibile suo svolgimento, il maggiore o minore esercizio della funzione, non ne cangierebbe la natura che è appunto affatto organica, cioè percezione meramente sensitiva; laddove questa nel- l’uomo è sublimata perchè consociata coll’intellettuale, mediante il concetto dell’universale, del- l’infinito che ne irraggia la sua mente, ne attrae la volontà, lume di sua ragione, radice di sua libertà. (1) V. op. cit. pag. 64 e sopra pag. 195, nota 2. (2) Ibid. pag.65-66 e sopra pag. 196, nota 1. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 205 disegno (sì perchè il disegno non può nascere accidentalmente, sì perchè essendo costituito dall'unità, questa non si trasmuta), tali modificazioni saranno sempre accidentali, semplici varietà, non mai specifiche distin- zioni; e questesse, chi le confronti meramente sotto l’aspetto quantitativo col compasso e colla bilancia trascurande il qualitativo, l’ordinativo, l’artifizioso ed istrumentale, cioè veramente organico, potrà trovarle maggiori talvolta fra specie di uno stesso genere che non fra quelle di un ordine diverso, e per lo contrario considerare come differenze di minor conto quelle che per la diversità delle funzioni a cui accennano e sono coordinate, bastano alla distinzione non che di un genere o di una famiglia, di un ordine, di una classe, anzi di un regno. E questo si è appunto l’errore dell’Huxley, il quale chiama rispetti secondari quelli per cui la dentatura dell’uomo si distingue da quella del gorilla, e maggiore la differenza che sotto questo aspetto passa fra il gorilla e il babbuino (cinocefalo); e così pure giudica più differenti le estremità del gorilla da quelle dell’orang-outang che non dalla mano e dal piede umano (1). Tale si è altresì la pecca del De Filippi, il quale mette a paro Ze distinzioni organiche fra l'uomo e le scimie antropo- morfe con quelle che esistono fra queste e le capucine (cappuccine), e reputa così balordo il Prof. Bianconi da mettere in prima linea fra i distintivi organici dell’uomo in confronto colle scimie (qualora per ipo- tesi fosse un costante e particolare suo difetto) la mancanza della parte acromiale della clavicola (se notevole per peso e misura, non però ne- cessaria alla piena libertà dei movimenti delle braccia), posponendogli, se non anche trascurando affatto gli altri ben più importanti caratteri delle zanne, dell'arcata zigomatica e del legamento plantare chiamati dal De Filippi molto subordinati @®; laddove il sapiente Professor Bo- lognese è tutto nel dimostrarne l’organica e teleologica importanza , siccome parti integranti di un sistema, onde l’apparecchio umano si contraddistingue dal ferino. Ondechè, apostrofando contro 1’ Huxley e pretende forse (dice egli) che abbiano lo stesso valore le differenze che passano fra la dentatura dell’uomo e della gorilla, e quelle che passano fra la gorilla ed il cyrocephalus ed il cebus? » Non si è (1) Op. cit. pag. 29. C£. Lyell, op. cit. pag. 476-479. Bianconi, op. cit. pag. 19-21. (2) Op. cit. pag. 64, 67. 206 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE accorto lo scrittore inglese che li canini delle scimie antropomorfe adulte stabiliscono una natura ferina, diametralmente in opposizione a quella dell’uomo, mite ed inerme? E non ha considerato che per quanta im- portanza si dia ai caratteri della dentatura del :cynocephalus e del cebus, non si ha che una stessa natura colla gorilla, natura semplicemente variata, mentre rispetto all'uomo si ha una natura diversa? La zanna della gorilla, dell’orang-outang ha richiesto il grande sviluppo delle forze muscolari e quindi le speciali modalità ossee della parte posteriore della testa, ha richiesto del pari un particolare sviluppo delle forze che uniscono la testa al tronco. È perciò conformata tutta la testa in un dato senso, nel senso stesso cioè del carattere, od istinto dell'animale. L’uomo, non ha quest'arma, le zanne, non ha sviluppo delle forze motrici per far agir le medesime, non ha la testa conformata in questo senso ecc. La natura di questi due esseri l’uomo e la gorilla è pure diversa in ogni conse- guente. La gorilla ha tutto ciò che le compete per la propria conserva- zione, e per la difesa. La conservazione è circoscritta entro certi confini; suo cibo sono i prodotti vegetabili ch’essa debbe raccogliere rampicando perpetuamente in quelle regioni nelle quali i vegetabili sempre producono. Ecco il perchè tutte le scimie abitano sotto la zona calda. La difesa poi è col mezzo delle zanne o canini; con essi combatte contro i rivali, o contro i nemici che minacciano la vita sua o quella della sua prole. Ecco tutta la vita di questi animali. L’uomo viaggia sulla terra, si pro- caccia cibo d’ogni sorta, in qualunque zona, in qualunque stagione. Manca d'ogni sorta d'armi, e si fa con tutto ciò più forte di tutti. Egli agisce sempre per proprio ed intimo vigore, egli domina. La gorilla usa servilmente delle poche e limitate risorse assegnatele dalla natura, le quali però bastano al suo benessere stazionario ed invariabile. Parmi adunque che siano queste due nature ben diverse e lontane, ancorchè esaminate in ciò solo che si attiene alla dentizione e alle conseguenti modalità della testa (1) ». Le quali però assumono ben altro carattere (1) Op. cit. pag. 19-25. Ma gli è a leggersi l’intero capo I Della Testa, pag. 8-28, dove il Bian- coni esamina divisatamente e pone in tutta luce le reciproche attinenze, la mutua dipendenza e la comune cospirazione delle singole parti componenti il capo umano o ferino-scimiatico, e la loro rispettiva diversità di collocamento o di forma conformevole.e proporzionata alla diversa o preva- lente funzione a cui sono nell’uno o nell’altro coordinate. E così « il foro occipitale che nell’uomo tocca il mezzo del diametro antero-posteriore della base del cranio, nelle antropoidi è respinto al- PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 207 ed importanza, considerate in relazione coll’organismo vocale e le fattezze del volto, in ordine cioè all'espressione del pensiero e dell’af- l’ultimo terzo della lunghissima base craniale; per tale eccentricità la testa non più sostenuta in bilico sull’atlante come nell’uomo, gravita necessariamente all’innanzi, e quindi richiede per suo sostegno robusti altacchi di cui l’uomo non abbisogna, cioè quelle corde legamentose e muscolari della cervice, le quali si abbarbicano sulle scabrosità occipitali, e principalmente sulla cresta lambdoidea; attacchi la cui robustezza vuol essere proporzionata al prolungamento sì grande delle mascelle, all’ampliamento generale della massa facciale, alla grossezza dei pezzi ossei stessi. Ora chi consideri di questi la grande mole e solidità, l’altezza, grossezza e convessità delle arcate rigomaliche, lo sviluppo e la forza dei muscoli mascellari, dei muscoli e legamenti cervicali ed il largo attacco che loro offrono le creste sagittale e lambdoidea, insomma l’enorme sviluppo dell’ap- parecchio osteomiologico, motore delle mascelle delle antropoidi in ordine alla sola masticazione, ve loscorgerà al tutto sproporzionato, non impiegandovisi che due decimi di quella gran forza motrice, preso il ragguaglio da quella a tale oggetto dall’uomo adoperata. Ma chi badi alla parte integrante e principale di quell’apparecchio che sono i canini, lunghi, sporgenti, conici, robustissimi, incassati profondamente ne? loro alveoli, e come in ogni altro feroce mammifero più avanzati ed interni gli inferiori, più forti e ad un tempo più esterni e più indietro i superiori, e per ciò e per essere impiaotati nelle ossa della testa capaci di maggiore sforzo e contrasto allo sliramento di dietro innanzi cagionato dalla preda azzannata, immorsata e riluttante; quindi non già denti, ma zanne e morse, non istrumenti da tritare il cibo, ma armi da offesa e difesa, troverà la loro qualità, forza e robustezza analoga e corrispondente a quella dell’apparecchio motore, e questa proporzionale al lungo braccio di leva, quanto più lungo tanto più potente, stendentesi dal punto di presa, che sono i canini, all’attacco della testa col tronco, quindi, traslocata quivi ogni resistenza, si fa chiara per legge di dinamica la necessità della robustezza di tale attacco, delle corde legamentose e muscolari, e così pure le scabrezze circumoccipitali e l’ampiezza della cresta lambdoidea si chiariscono richieste per dare consonanza al giuoco delle forze, ossia per dare la debita resistenza al punto di attacco della testa colle vertebre cervicali. Brevemente, i canini e la maggior parte del grande sviluppo dei muscoli e delle creste ossee ecc. formano un tutto da sè, il quale non è per la maslica- zione, ma sibbene per la presa. Se nelle scimie antropomorfe l’apparecchio motore fosse solo per la masticazione, esso sarebbe qualtro volte minore, e non sarebbervi nè creste cefaliche, nè fosse ed archi zigomatici sì grandi; sarebbe in una parola simile a quello dell’uomo. Ora tutto il di più di questa forza resla a servizio dei canini, ed è per uso di combaltimento e da fiera, ed assume il carattere di un apparecchio da sè e ferino, che manca all’uomo, e questi che ne manca è inermis secondo la definizione giuslissima del Blumenbach ». Quindi l’Owen dopo avere stabilito che i ca- ratteri osteologici premascellari per cui il gorilla troglodite si distingue non solo dall’uomo, ma dalle altre antropoidi, sono caratteri specifici non derivabili da nissuna causa produtliva di varietà; dalla costanza di quelli che caratterizzano l’uomo in confronto colle antropoidi, ne inferisce l’unità della specie umana, anzi l’esser questa la sola nel suo genere, l’unica rappresentante del suo ordine e sottoclasse, e l’impossibilità di derivarla da una qualunque antropoidea: « Vo krowr cause of change productive of the varieties of mammalian species could operate in altering the size, the shape, or the connections of the premazillary bones which so remarkably distinguish the troglodytes gorilla, not from man only, but from all'other anthropoid apes. - The unity of the human species is demonstrated by the constancy of those osteological and denial characters to which the attention is more particularly directed in the investigation of the corresponding characters of the higher quadruman. Man is the sole species of his genus, the sole representative of his order and subclass. Thus, I trust, has been fournished the confutation of the notion of a transformation of the ape into man (Owen, Classification of mam- mals, Appendix B)». V. pag. seg. nola 2. ; 208 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE fetto (!), improntato nell’alta e spaziosa or corrugata ora spianata fronte, dipinto nelle or vermiglie ora impallidite guancie, accennato dalle contratte o dilatate nari; ma raggiante limpidissimo dalle vivissime luci per cui si svela il proprio e si pervade l’altrui animo; ma scolpito dall’articolata e simpatica voce, modulata con isquisitissimo artifizio della laringe, della flessibilissima lingua, dell’eburnea chiostra dentale (®), della volta palatina, e delle purpuree sinuose labbra, su cui freme la minaccia o tremola il pianto , o scherza il sorriso, secondo che da sdegno o da pietà, dal dolore o dalla gioia trovasi agitata o serena la mente, l'animo afflitto (1) Sir Charles Bell, The Hand, London 1860, pag. XXIV, XXX-XXXIII, 164-165. (2) Il dottore F. C. Webb adottando gli argomenti prodotti dall’Owen chiarisce eloquentemente ed esattamente questo aspetto teleologico, mostrando come la dentatura al pari di ogni altra parte dell’organismo umano sia coordinata all’espressione del pensiero, e quanto giovi, nella sua atti- nenza coll’organo vocale, a rendere spiccata la parola ed incantevole il sorriso, e quanto perciò si disformi dall’apparecchio scimiatico l’umano: « Zr the arthropoid apes,in common with inferior members of the group, the purposes for which the teeth are designed differ from those which they fulfil in man. In him, their primary use is, the division and mastication of his varying aliment; and secondly, they subserve the faculty of speech. The unbroken series and equal length of the teeth, the thin crowns cf the moderately developed incisors, the smooth equality of their posterior surfaces, the vertical or nearly vertical implantation, are all provisions in which may be recognised a design in unison with the capacious and complicate brain, the exquisitely organised laryna, and the flexible and highly-endowed tongue. In human organisation, all is rendered subservient t0 the expression and embodiment of thought. In the Great Ape, the dental apparatus is constituted on a different plan, and answers a widely differing pur- pose. Endowed with no power to conceiee or perfect instrument by which he may repel'attack or assert superiority over denizens of his native forest, Nature has fournished his jaws with organs of other moula than those which add enchantment to human smiles, and give distinciness t0 the accents of human elo- quence. V. Edinb. Review, l. cit. pag. 565. V. anche la 564, dove sono riferite le principali differenze che, giusta l’Owen, contraddistinguono la dentatura umana da quella delle antropoidi. Già lo stesso Galeno, dalla prevalenza per forza e per numero dei denti incisivi e molari sopra ì canini, argomentava la diversa natura dell’uomo destinato, non che a primeggiare fra gli animali, a signoreggiarli, non già per vigoria di corpo e di fisiche forze, ma pel dono dell’intelletto e della ragione di cui fu privile- giato: « omo vero unum parte utraque dentem caninum produxit, cum leones, lupi ac canes multos utringue habeant. Verumigmen hic rursus natura certo sciebat se animal mansuetum ac civile effingere, cui robur ac vires essent ex sapientia, non ex corporis fortitudine. Quantum igitur ad frangendum quippiam duriorum erat necesse, id ipsum duo satis erant prestituri. = Proinde incisores jure numero duplo plures effecit quod ipsorum utilitas latius patebat, et his adhuc plures molares, quod ipsorum utilitas pateret latis- sime ». De usu partium lib. XI, c. 9. Ed il Blumenbach, De generis humani varietate nativa, Gottinga 1776, pag. 28: « Dertes @equales magis rotundiores et planiores et uno verbo ita constructi, ut primo intuitu pateat homini marime ad victum mandendum, quodammodo etiam ad loquelam, minime autem armorum loco cos datos esse. Ipsi simiarum dentes longe ab humanorum forma recedunt. Canini ipsis longiores acutiores a vicinis remotiores; molares autem alte incisi, spinis quasi aculissime promi- nentibus horridi. Preter dentes etiam os angustum hominem mitem et inermem demonstrat, quod labiis ornatum est, quibus ipsis etiam a simiis aliisque sibi similibus bestiis differt.» Quanto alla laringe segnatamente, vedi Bell, op. cit. pag. 230. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 209 o giocondato (!). Ed al capo inerme sì, ma sovrano, non già armadura dell’istinto, ma sede e tempio della ragione (), ben s’avvengono e corri- (1) Non sarà discaro il leggere qui riprodotto un eloquente squarcio tolto da una delle Confe- renze del Gratiolet - De lRomme et de sa place dans la création = « Passons maintenant au symbo- lisme de la face, bien plus significatif encore. - Dans la téte du singe, la face Vemporte è tel point sur le crane, que ce dernier, caché pour ainsi dire dirritre elle, ne présente plus de front. Dans cette face les mdchoires predominent; la bouche n'est qu'un rictus, laissant apparaître chez le mdle adulte des dents enormes et des canines enirecroisées, comme dans les animaux carnassiers. Cette face, où la force brutale et la fureur insatiable semblent avoir établi leur empire, est d’un aspect hideux; l’oreille est sans lobule, le nez n'a ni saîllie, ni veritables narines; et les ouvertures olfactives s'ougrent au-dessus des lèvres dans une fosse monstrueuse. Le sourire est impossible è cette bouche; la Ièvre et le mention se confondent en une sorte de valve arrondie s'opposant à la levre supericure, et quand la *bouche est fermée, leurs bords, intimement ajustés, sont droits, plats, et ne laissent apparaitre aucun epanouissement de la muqueuse. On le sent tout de suite; ces lèvres ne parleront jamais (vifs applau- dissements). Za face, ridéee par l’action grimacante des muscles, na jamais la divine expression de la jeunesse, et les ycux qu’aucun front ne surmonte, semblent ne voir que pour le corps et non_ pour l'intelligence. - Que vaconte au contraire la téte humaine ? Le développement enorme du front qui la domine fait intervenir dans Vexpression generale de la face le signe de V'intelligence. L’organe de la force brutale, les machoires s'amoindrissent, et des levres mobiles, sur les bords desquelles s'épanouissent les muqueuses, les dissimulent encore par les oscillations incessanies de leurs courbures; ces frémisse- ments traduisent ainsi les plus sceretes emotions de la vie. L'ail, qui, chez les singes anthropomorphes, était refoule dans le crane, se loge ici dans la face elle-méme pour l’animer, et perd cette eapression lubrique qui le caractérisuit; la saillie du nez semble prolonger le front ct accuse de plus en plus dans cette harmonie la predominance du cerveau organe de Vintelligence. Les narines, devenues indépendantes et mobiles, fremissent léferement et contribuent à l’expression des lèvres, sur lesquels apparaît pour la pre- mière fois le sourire, ce symbole beni de la joie douce et bienveillante. Enfin on voit se développer cer- tains signes de l’ordre de ceux que Blainville appelait les pavillons et les signes de Vétre. Tels sont les lobules de Poreille auxquels il faut joindre ces narines et ce bord épanoui des levres que nous venons déjà d’indiquer. On dira peut-étre que nous parlons eaclusivement de la race blanche, et que cette race n'est pas la seule. Il y a, en effet, des hommes à muscau saillant parmi les nègres et dans certaines races dégradées: ces races formeraient-elles donc un passage entre l'homme et les singes? Non, mille fois non. Leur difformité méme proteste contre une pareille assimilation. Loin de s’amoindrir, tous les pavillons humains s'agrandissent, s'exagèrent encore chez elles. Ce lobule de l’oreille, ces narines, ces lèvres, qui sont les caractères exclusifs de l'homme, se développent jusqu’à la difformité. Et, - admirez l’instinci bizarre des sauvages! - ils ont poùr ces pavillons une passion poussée jusqu'à la folie; ils y attachent des anneaux, des pierres, des dents, des plumes brillantes; ils cherchent, par tous les moyens imaginables, à diriger Vattertion sur eux. Dans toutes les races, l'homme n'est-il pas fier de son front, et n'y a-t-on pas attaché de tout temps le signe de la puissance souveraine? Tout proteste donc dans la face dégradée du nègre contre cette assimilatior impie; les signes de Vhumanité sont en lui: la main libre, et le front, indice du cerveau, commandant aux organes inférieurs de la face (Revue germanique et fran- caise, tom. XXIX, Paris, 1864, pag. 38-40.) » A questo proposito giova avvertire che, nel negro e nell’australiano, la maggior grossezza dei denti molari comparativamente ai premolari incisivi e canini, notata dall’Owen come una delle caratteristiche dentali per cui l’uomo si distingue dalle antropoidi, supera di molto quella che si ravvisa nella razza bianca (V.Edinb. Rev. I. cit.); ond’è che quella razza che si vorrebbe intermedia fra quest’ultima e la specie scimiatica , se ne dilun- gherebbe viemaggiormente per più d’un riguardo. (2) V. la nota precedente, e sopra pag. 206, nota 1. Serie N. Ton. XXIV. 5 \ SI 210 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE spondono in perfetta euritmia e medesimezza di scopo tutte le altre membra , il tronco e le estremità che costituiscono l’uomo il solo bimano e bipede (), differenziandolo grandemente, non pur da ogni altro animale, ma dagli stessi quadrumani, le cui estremità non sono propriamente nè manì nè piedi, ma piedi fazionati a foggia di mani, mani condizio- nate a funzione di piedi. Quindi, quanto a forma, più mano che piede il scimiatico comparativamente all’umano ; e viceversa, quanto a funzione, più piede che mano la scimiatica rispettivamente all’umana; epperò, se sotto quest’aspetto potrebbero le scimie esser chiamate quadrupedì, sotto quell’altro quadrumani, non compete loro perfettamente nè l’una nè l’altra denominazione, e quella di bimani e bipedi vuol essere loro negata assolutamente (?). Imperocchè, ne’ quadrumani del pari che ne’ quadrupedì, conferendo al sostegno del corpo ed alla sua traslocazione gli arti an- teriori non meno, anzi più ancora che i posteriori, perchè più di questi (1) Così Galeno: « Manus homo omnium animalium solus habuit, organa animali sapienti conve- nientia: bipes vero ipse solus inter pedestria factus et erectus quia manus habuit. Quum enim neces- surium ad vitam corpus, ea his partibus, que in thorace sunt et ventre, constet, egeatque membris, idest, cruribus ad gressum: in cervis quidem, canibus, equis, et aliis similibus anteriora crura poste- rioribus similia facta sunt, idque ipsis confert ad velocitatem: homini vero (neque enim propria indi- gebat velocitate, ut qui equum sua sapientia et manibus erat domiturus : fuitque multo melius pro velo- citate, organa habere ad omnes artes necessaria ) anteriores artus manus facia sunt. » Op. cit. lib. III, cap. I, coll. lib. I, cap. 2. Vedi infra pag. 214, nota 1. (2) Blumenbach, op. cit. pag. 25: « Ex dictis fluit alia hominis proprietas manus nempe due quas soli humano generi tribuo, cum simiis e contrario aut quatuor, aut nulle, plane competant, quorum hallux remotus a reliquis pedum digitis iisdem ipsis usibus inservit quos manuum pollices prestant. » Ed il Gratiolet: « La main du singe, et en lui appliquant ce nom, nous avons presque peur de prononcer un blasphème, la main du singe anthropoide n'est qu’un crochet préhenseur. Dans la main d’une guenon ou d'un macaque le pouce n°a aucune liberté, son tendon émanant du tendon qui flechit les autres doigts, les flerions de toutes ces extrémités sont simultanées; mais, à défaut d'indépendance , il a beaucoup de force. Cette liberté qui lui manque chez les petits singes, le pouce l’acquieri-it dans les antropoides ? Le tendon qui le meut, aboutissant à un muscle distinct, va-t-il leur permettre de se mouvoir plus libre- ment? Loin de là ce tendon s’anéantit, et la force du pouce disparaît: il ne se perfectionne pas, il se dégrade; à peine ces longs doigis crochus peuveni-ils, en se recourbant, toucher un à un à l’extremite unguéale du pouce. L’ongle qui les termine est court, difforme, inflexible ; c'est déjà une griffe. Il serait diffi- cile d’imaginer un organe plus mal adapte à Vexercice du toucher. Mais cette main, si imparfaite pour ce but, qui n'est pas le sien, comme elle est admirablement adapice aux besoins particuliers d'un singe arboricole! avec quelle exactitude elle s'applique, en se recourbani dans toutes ses parties, sur des ra- meaux cylindriques! Quelle force dans ce crochet suspenseur! Dailleurs, cette main, s’associant aux mouvements du membre postérieur, n'est, après tout, que l’organe habituel d'une locomotion qua- drupède; les singes sont toujours mal à leur aise sur la terre; leur sol veritable c'est le sol inégal que leur offrent les branches des arbres. En réalité, la main n'est done libre que dans le repos de l’animal, et encore cette liberté se réduit=elle à des mouvements de préhension brutale. » Op. et loc. cit. pag. 37. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 2II poderosi e sviluppati (4), la medesimezza di scopo importa simiglianza ne’ mezzi per raggiungerlo; quindi analogia di forma negli organi della locomozione, i quali vogliono essere strumenti di presa ed impugnatori per chi stanzia sugli alberi, ne discorre i rami, o vi si sospende; di che ad un Rylobate, quale si è la scimia, può tornar più utile ancora una coda pensile che rion un piede umano, vantaggiandosi meglio del proprio più o meno alla mano assimilato, anzi più mano esso talora e questa piede. Attalchè, se la conformazione dei quadrumani si mostra la più acconcia per un quadrupede che a mo’ di cremnobaie ossia funambolo, cammina suì rami; se invece la si confronta coll’umana e collo scopo della medesima, anzichè accostarvisi, se ne dilunga e ci ha più l’aria di una (1) Odasi di nuovo il Blumenbach: « Z?deat quis illa humani sceleti latissima, in angusta ischia inferius desinentia, pelvim brevem, supra valdopere dilatatam, infra ita arctatam ut fetui quidem exitus pateat, uteri autem prolapsui provide prospiciatur ete.; comparet ea cum oblonga recta et quasi cylin- drica quadrupedum pelvi, cum lata eius coxendice, ischiis divaricatis ete.; consideret demum glutaceorum crurisque musculorum nexum ct fabricam in homine et brutis etc. , et tune dicat qualem eundi modum illi convenire verosimile videatur. - Et non potest fieri quin brutum bipes et hominem quadrupedem pro aeque prodigiosis habeat. » Op. cit. pag. 24. Lo stesso ripete il lodato Bell: « /r viewing the human figure, or the human skeleton, in connezion with our present subject (The comparative anatomy of the Hand), we cannot fail to remark the strength and solidity which belong to the extremities in contrast with those of the superior. Not only are the lower limbs proportionably longer and larger in man than in any other animal, but the haunch-bones (pelvis) are wider. The distances of the large processes on the upper ends of the thigh-bones (the trocanters), from the sockets of the hips, are also greater than in any of the vertebrata. Altogether, the strength of the bone of the lower extremitics, the size and prominence of their processes, the great mass of the muscles of the loins and hips, distin- guish man from every other animal; they secure to him the upright posture, and give him the perfect freedom of the arms, for purposes of ingeruity and art.» E tosto dopo aver così chiarito che la maggior forza, ampiezza e solidità delle estremità inferiori nell'uomo è ordinata alla diritta di lui statura ed alla perfetta libertà delle braccia in opere d’arte e d’ingegno; dalla contrapposta effigie del chimpanzè conchiude che, se a questo le estremità inferiori o la pelvi e le anche non consentono, 0 solo per poco, lo star ritto, niuno può negare che per uno slancio od una vigorosa strappata, esso non abbia un poderoso strumento nelle sue lunghe e nerborute braccia: « At the head of this chapter is a sketch of the chimpanzee, an ape which stands high in the order of quadrumana. Yet we cannot mistake his capacities; that the lower eatremities and pelvis, or hips, were never intended to give him the erect posture, or only for a moment; but for swinging, or for a vigorous pull, who can deny the power in these long and sinewy arms (Op. cit. pag. 31-32 coll. 198)? » Locchè è pur messo in chiarissima luce dal sullodato Bianconi: « A chi esamini qualunque delle scimmie antropomorfe ovvero i loro scheletri, presto apparisce che oltre la lunghezza grande delle braccia, le quali per lo meno giungono sotto al ginocchio, vi è ancora una maggioranza di quesle sulle estremità po- steriori, quanto al volume e quanto alla robustezza. Già la metà posteriore del corpo di una di tali scimmie pare atrofizzala a confronto della metà superiore, e se guardinsi separatamente l’una metà e l’altra, pare che la parle addominale non debba unirsi alla toracica; tanto la prima è meschina, e tanto la seconda è ampia, polputa e robusta. Le braccia superano gli arti posteriori 212 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE caricatura (!) e d'una degradazione che non di un progressivo perfezio- ove di un sesto, ove di un quarto per la lunghezza, e vi ha una proporzionale eccedenza anche nella grossezza degli arti anteriori. L’inverso è nell’uomo. Le braccia sono sempre minori delle estremità posteriori, non solo per la lunghezza, ma anche per volume e per forza. Le braccia umane figurano meschine e deboli quando si confrontino colla coscia e colla gamba. - Mor long:- tudo solum, notò già Blumenbach, sed et robur insigne crurum si cum gracilioribus brachiis compara- veris. E simile disparità si legge assai chiara nello scheletro quando siano comparati insieme l’omero ed avanbraccio col femore e la tibia. Queste ullime ossa ‘superano le altre di circa un terzo in lunghezza, e sono altrettanto più grosse e più robuste delle altre. - Forse in nessun altro animale le estremità posteriori raggiungono tanta robustezza e sviluppo quanto nell’uomo, se si istiluisca paragone fra queste e la massa restante del corpo. A un primo sguardo sì vede che troppo me- schine ed inferiori riescono le estremità posteriori del cavallo e del leone, se si confrontano col grande volume del loro corpo. Mal reggerebbero a sostenere a lungo il peso di esso, se sovra di loro dovesse unicamente esser portalo, ancorchè avessero organizzazione appropriata. Ma diviso questo carico colle estremità anteriori, proporzionatissime riescono, perchè le anteriori assumono sopra di sè buona parte dell’azione di traslocare il corpo orizzontale di questi animali. Nell’uomo le estremità posteriori hanno l’incarico di sorreggere il corpo, e inoltre di traslocarlo, e di muo- verlo in ogni maniera. Che esse bastino a quest’ufizio ognun lo vede. E meglio anzi sì comprende quando si consideri che l’uomo cresce volontariamente o necessariamente il carico alle sue estremità posteriori, quando va ad onerarsi di pesi talora incredibili, superanti tal fiata le quattro volte il peso del proprio corpo. In tulto questo le estremità anteriori non prendono parle veruna: laonde se il volume e la possanza delle posteriori sono si notevoli, non lo sono per accidentalità, ma per rispondere ai bisogni dell’essere, anzi di quell’essere cui la condizione di naturale esistenza, l’in- dusiria impone già bisogni tanto più rilevanti. Ora nelle scimmie aniropomorfe le cose sono rove- sciate. Più deboli, come si è notato, e più corti sono gli arti posteriori. La povertà dei loro muscoli e le loro ossa men lunghe e meno grosse mostrano che non potrebbero portare da sole il peso del corpo. Sono adunque coadiuvate dalle estremità anteriori più forli e più lunghe, anzi a queste debb’essere affidata maggior parte del peso da portare. È facile comprendere infatti come nell’ar- rampicare che quegli animali fanno su per gli alberi, o su per le scabrosità delle rocce, debbono le estremità anteriori avere la principale azione sia nello stirare in allo il corpo quando ascendono, sia nel sostenerlo quando discendono, restando una parte minore alle estremità posteriori. Gli arlì anteriori essendo i primi chiamali a questi uflizi in grazia delle regole di slalica, e soddisfacendovi essi interamente, come la ordinaria ispezione dimostra, sarebbe slata una scipita sovrabbondanza il dare alli posteriori maggiore sviluppo e maggior forza di quella che hanno e di quella quindi di cui abbisognano. L’inversione dunque della forza che nelle scimmie antropomorfe è portata sulle estremilà anteriori, è ragionata ed è conforme alle leggi di meccanica. L’uomo doveva avere le estremità posteriori di tanto più forti delle anteriori: le scimmie antropomorfe dovevano avere più forti e più lunghe le anteriori (Op. cit. pag 33-36) ». (1) Ascollisi Galeno: um igilur, o generosissimi sophistae, et acuti naturac reprehensores , vidistis unquam in simia digitum hunc (pollicem), quem quidem plerique homines dyvtiygespa, hoc est promanum, Hippocrates vero péydy, hoc est magnum, nominat ? An eum neque conspicati, neque contemplati audelîs affirmare undequaque similem homini esse? At si hunc vidistis, brevis corte et gracilis et omnino ri- diculus nobis apparuit, guemadmodum ct ipsum animal totum simia. Pulcra certe semper apud pucros est simia, ul ait veterum quidam, nos admonens ludierum esse ridiculum puerorum hoc animal illu- dentium. Omnes crim humanos motus imitari dum satagit et frustratur in ipsis, et ridiculum se exhibet (Op. cit. lib, I, c. 22). Non enim sicut manus eius solum magnum digitum habens curtum, imitatio ridicula monstrabatur humanae manus, ita et pes in constructione unius parliculae cuiusdam vitiatus PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 213 namento, abbassandosi la mano ad uflizio di piede, e cedendogli ancora differt, sed in plurimis diversus est (Op. cit. 1. IMI, c. 8). - Etenim et simiae, ut antea dictum est, ridiculo animae animali, et imperilo imitatori, corpus sic habenti idoneum circumposuit. Omnem enim ossium crurum syntarim eiusmodi cum habeat, quae eam recte stare non permittat, maxime ridiculos retrorsum musculos constructioni adversantes sortita est. Atque igitur in puerorum ludiero velut claudo subsultans, neque ewacte, neque tuto stare recte potest. Sed ut homo deridens ct subsannans alium hominem claudum stat et ambulat et currit claudicans: ita et simia utitur cruribus (Op. cit. 1. III, c. 16) - Nè ci si dica che questa pittura quadra alla scimia comune (magot, inuus acaudatus), non già alle antro- poidi sconosciute a Galeno; giacchè se il ridicolo e la caricatura sta nel contrasto, questo riesce tanto più spiccato, quanto maggiore si è la rassomiglianza di forma e minore o non proporzionata quella dell’intelligenza, di cui la scimia comune, 72agodo, e tutta la restante famiglia dei macachi, per bestia, è fornitissima e docibilissima per sopraggiunta; dovechè il gorilla, se per i caratteri osteo- logici delle estremità e del tronco all’uomo più s’avvicina, se ne allontana però di più non solo per l’aspelto superlativamente brutale, ma per l’encefalo, che non il chimpanzé e lo stesso orang- outang inferiore agli altri due per ogni riguardo, tranne quello del cervello e dell’intelligenza, restando a talti superiore il gorilla per forza brutale e stupidità. « La famille des macaques, dont le magot fuit partie, est susceptible d'une étonnante éducation, et montre que l’organe de Vintelligence chez ces singes, renferme, à ur degré remarquable, les facultés que cette education développe (Duvernoy, op. cit. pag. 234)». - « Les résultats que nous avons obtenu sont assez importants ; ils apprennent que pour lencéphale, l’orang-outang est superieur au chimpanzé, tandis que pour le squelette ... il lui est inféricur. Je vous avoue que je ne m'attendais pas, a priori, à vor que le cerveau du chimpanzé est moîns parfait que celui de l’orang-outang. Mais il suffit de comparer les figures pour s’assurer que cela n’est pas moins vrai! Aussi m'est-il paru que l’intelligence du chimpanze qui a vécu quelques mois ici, élait moindre que celle des orang-oulangs que nous avons eu quelque mois auparavant (Lettre de M. P. Vrolick à M. Duvernoy, op. cit. pag. 233) ». - « Zeur mort (des gorilles) est souvert acce- lérée par la sottise qui caracterise la plupart de leurs actions. Yoyart des hommes porter de lourds . fardeaux è travers la forét, ils arrachent les plus grosses branches des arbres et en accumulent un poids disproportionne avec leur force supérieure (et quelguefois de dents d’élephant), ils s'empressent à Venvi de les porter d'une partie de la forét dans lautre ... jusqu'à ce que la fatigue, le besoin de nourriture, la necessité de reprendre haleine et de manger les cpuisent. Parmi les autres habitudes est celle de construire une hutte, imitation grossiere de celle des naturels, et de dormir dehors ow sur la voùte. //s portent leur enfant mort étroitement serré contre cur, jusqu’à ce qu'il tombe en putréfaction (Bowdich, Mission from cape Coast castle to Ashantee etc. ap. Duvernoy, op. cit. pag. 218)». Sa- remmo curiosi di vedere applicata dal Renan a cotali abitudini la magistrale sua formola: l’orgare fait le besoin, mais il est aussi le résultat du besoin (-Avenir des sciences naturelles, Revue des deux Mondes, 15 octobre 1863); perocchè non riusciamo a capire nè da qual organo possa nascere il bisogno di dannarsi di per sè a) supplizio inventato da Massenzio, nè di costruirsi una capanna per dormirvi sopra o di fuori, nè di falicar senza costrulto, es mourir è la peine; ovvero quale sia l'organo che possa venir creato o svolto da cotale bisogno; mentre la scimia provando quello di scaldarsi s'accosta al fuoco se lo trova acceso, incapace però di mantenerlo vivo, non che d’accen- derlo. Ma chi deriva organo e bisogno simultaneamente l’uno dall’altro e tutti due dal nulla, troverà troppo ingenua (zaîve ) la dimanda e superflua la risposta. Ad ogni modo questo suicidio bestiale per soserchio zelo d'umana imitazione, mentre conferma l’islinto mimico-caricaturistico della scimia, è una solenne riprova che questa può bensì sforzarsi d’imitare l’uomo, ma lo farà bestialmente senza capirlo, ben luogi dal poterlo mai diventare. Questa trasformazione rimarrà sempre un bel Irovato dei sopracciò della scienza, i quali sforzandosi di darne una scientifica dimostrazione, imi- ‘teranno il gorilla e mourront à la peine. 214 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE = in opera di flessibilità (1. Di che si fa vieppiù manifesto doversi desu- (1) Onde si può dire che confuse e commiste le due funzioni, la mano fa l’uffizio del piede, e questo le veci della mano. Così Galeno: « Omnibus vero sanguineis pedestribus, quae mazime hominibus assimilantur, quatuor sunt pedes, omnibus quidem velocitatis et securitatis gratia; ferocibus vero ex abundanti manuum functiones aliquando ipsi pedes simul obeunt (Op. cit. lib. III, c. 2) ». Il simile venne detto al Blumenbach (YV. sopra pag. 210, nota 2). Ed al Bell è avviso che tanto si possa chiamare piede l’estremità anteriore della scimia, quanto mano la posteriore, giovandosene l’animale egualmente per camminare, arrampicarsi e slanciarsi di ramo in ramo o sospendervisi, al qual uffizio non è meno presta ed acconcia in alcune specie la coda. Così con essa spenzolasi, se colpita a morle, la Caraya, ossia la nera urlatrice di Cumana, e slanciasi con più vigore ancora che non colle altre estremità di ramo in ramo la Coaita, o scimia-ragno, così detta dalla straordinaria lunghezza degli arli, e dalle sue movenze; anzi vuolsi che per la pesca Je Ateli servansi della coda, paragonabile, per la sorprendente sua flessibilità, alla proboscide dell’elefante. Di certo in alcune specie le estremità posteriori rassomigliano alla mano più ancora che le anteriori, com’è a vedere appunto nella Coaita ne’ cui arti anteriori il pollice è indistinguibile e celato nella pelle, laddove è distintissimo nei posteriori. Di che giustamente conchiude, tale conformazione guadrumara essere un mero adattamento del piede alla natura del suolo, campo della locomozione e stanza scimialica, non già un’avvicinarsi di quegli arti alla vera condizione e perfezione della mano, come strumento d’arte, d’industria e d’ingegno. « 7he anterior extremity of the monkey is as much a foot as the po- terior extremity is a hand: both are calculated for their mode of progression, climbing, and leaping from the branches of trees; just as the tail in some species is converted to the same purpose, and is as useful an instrument of suspension as any of the four extremities. The following is a sketch of the Coaita, or Spider-Morkey, so called from the extraordinary length of its catremities and from its mo- tions. The tail answers all the purposes of a hand, and the animal throws itself about from branch to branch, sometimes swinging by the foot, sometimes by the fore extremity, but oftener and with a greater reach by the tail. - The Caraya, or Black Howling Monkey of Cumana, when shot, is found suspended by its tail round a branch. Naturalists have been so struck with the property of the tail of the Ateles, that they have compared it to the proboxis of the clephant. They have assured us that they . fish whit their tail. - In many of them the hinder extremity has a more perfect resemblance to a hand than the anterior; in the Coaita, we see the great toe assuming ihe character of a thumb, whilst in the fore-paw the thumb is not distinguishable, but is hid in the skin. In short, these paws are not approximations to the hand, corresponding with a higher ingenuity, but are adaptations of the feet to the branches on which the animals climb and walk (Op. cit. pag. 12-13, 30)». Al qual proposito acconciamente al solito l’assennalissimo Bianconi: « Munite le scimmie antropomorfe di organi prensili ad ogni arlo, è affidato a ciascuno il sostenere e traslocare il corpo. Rampicando, esse si attengono colle due estremità posteriori, ed insieme colle anteriori. Ad una scimmia cui fosser legate le braccia tornerebbe impossibile l’aggirarsi fra il labirinto dei rami. Là non esiste un piano su cui cammi- nare con due sole estremità posteriori, ma occorre il sallo, il trapasso da un ramo all’altro, l’a- scendere, il discendere; in questi casì l’equilibrio non regge senza l’aiuto delle mani anteriori. Egli è dunque necessario per l’ambulazione ordinaria di questi animali Vimpiego contemporaneo di tutte od almeno di lre delle estremità. Lo che vuol dire che l’uffizio delle estremità posteriori non è differente da quello delle anteriori nel loro ordinario servizio. Prensili tulle, sono le une suc- cursali alle altre nel portare il corpo, il quale indifferentemente si affida a ciascuno, anteriori o posteriori che siano. Le mani anteriori dividono dunque colle posteriori ques’incarico; donde emerge questa conseguenza, che le mani anteriori sono discese all’uffizio abbietto delle estremità posteriori, come si ha nel cane, nel cavallo, ecc. e la scimmia per questo lato non differisce pressochè punto dai quadrupedi. Tanto infatti vale camminare con quattro gambe sul terreno, quanto con quattro PER GIUSEPPE GUIRINGHELLO 215 mere dalla funzione il criterio onde qualificar l'organo che è di essa strumento, e nel confronto con altri analoghi valutarne, giusta una tal norma le morfologiche differenze (potendo queste sembrar talora anato- micamente menome, e chiarirsi tuttavia fisiologicamente importantissime), considerandole altresi in attenenza di quelle onde altri organi, per la necessaria correlazione delle varie parti e funzioni di un medesimo or- ganismo, si trovino pur essi corrispondentemente affetti e modificati. L’avere trasandato (non potendosi supporre ignorato) questo canone d'ogni buona (lasciamo star la migliore) zoologia, o più propriamente zootomia, fu causa che l’Iluxley non seppe vedere fra la mano dell’uomo e quella del gorilla nessuna differenza, o non maggiore di quella che si incontra nelle umane varietà; e così pure maggiore la rassomiglianza del piede del gorilla coll’umano che non la diversità, essendo questa di mere proporzioni, di maggiore o minore mobilità, di disposizioni che hanno per suo avviso, un valore secondario, non già fondamentale, e sebbene abbastanza importanti, siccome in perfetta correlazione con ogni altra parte del rispettivo organismo, a considerarle tuttavia ana- tomicamente, gli sembrano molto più spiccate e rilevanti le rassomi- glianze che non le diversità (!) Ora o noi andiamo grandemente errati , o l’anatomia professata dall’Huxley va ragguagliata alla logica adoperata in questo suo ragionamento, parendoci che l’una e l’altra abbiano lo stesso valore. Imperocchè, se le estremità dell’uomo e del gorilla si ras- somigliano siffattamente , che la rispettiva diversità non è maggiore di gambe prensili camminare sugli alberi. In ambi i casi le quattro estremità sono nella stessa con- dizione. Ma nell’uomo il sorreggere e trasferire il corpo è affidato alle sole estremità posteriori; niun bisogno perciò egli ha dell’aiuto degli arli anteriori per l’ordinario e quotidiano esercizio. Quindi è che le mani dell’uomo sono sempre ed interamente libere. Svincolate dall’ufficio servile di portare il corpo, possono consacrarsi totalmente a servizio dell’intellizenza (Op. cit. pag 36, 37) ». (1) Zhe terminal division of the fore-limb (of the Gorilla) presezis no difficulty - bone for bone, and muscle for muscle, are found to by arranged precisely as in Man, or with such minute differences as are found as varicties in Man. - At first sight, the termination of the hind-limb of the Gorilla looks very hand-like, and it is still more so in the lower apes. - It is a prehensile foot, if you will, but it is in no sense a hand: tt is a foot which differs from that of Man in no fundamental character but in mere proportions - degree of mobility - and secondary arrangemenis of its parts. It must not be supposed however, that because I speak: of these differences as not fundamental, that I wish t0 underrate their value. They are important enough in their way, the structure of the foot being in strict correlation whit that of the rest of the organism; but after all, regarded anatomically, the resem- blances between the foot of Man and the foot of the Gorilla are far more striking and importani than the differences. » (Huxley, op. cit.; cf. Lyell, op. cit. pag. 477-478). 216 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE quella che si può incontrare in una delle umane razze od individualità; e se tali differenze, affatto secondarie, sono in perfetta corrispondenza con-tutte le alire parti dell'organismo; la logica conseguenza di tali premesse, non è già di considerare l'uomo, come fece l’Huxley, quale una delle famiglie dell'ordine dei primati (!), bensì di accomunario col gorilla, non solo ad una medesima famiglia, o ad uno stesso genere, ma ad una stessa specie, di cui quest'ultimo sarebbe, al pari di qualunque altra umana razza, una semplice varietà. Nel qual caso, se la derivazione dell’uomo dalla scimia si mostrerebbe possibile, la degenerazione di quello in questa si potrebbe riguardare come più probabile; giacchè la degenerazione fisica e morale, non già di un qualche individuo, ma di un’intiera gente o tribù, razza o nazione, è un fatto in vari tempi ed in vari luoghi più fiate rinnovato, e di cui non mancano viventi esempi (®); laddove l’originario stato bestiale, selvaggio e ferino è tuttora e rimarrà sempre un mito materialistico (3). Ma se il voler Gefinire quale dei due, (1) « For these reasons, Professor Huxley rejects the term « Quadrumam » as leading to serious misconceptions and regards Man as one of the families of the Primates (Lyell, ib. p 478)». (2) Citons ici un cxemple frappant rapporté par le docteur Hall dans son Introduction è l’ouvrage de Pickering. « À la suite des querres de 1641 et 1689 entre VAngleterre et lIrlande, de grandes multitudes d’Irlandais furent chassées des comtes d’ Armagh et de Down dans une région montagneuse qui s'élend à Vest de la baronie de Flews jusqu’à la mer. Sur un autre point du royaume, la méme race fut repoussée dans les comtés de Leitrim, Sligo e Mayo. Depuis cette époque, ces populations ont eu à subir presque constamment les effets désastreux de la faim et de l’ignorance, ces deux grands agents de deégradation. Les descendants de ces ewilés se distinguent aisément de leur frères du comte de Meath et des autres districts où ils n’ont pas été placés dans des conditions physiques de dégradation. Leur bouche est entr’ouverte et projetce en avant; les dents sont proéminentes, les gencives saillantes, les machoires avancees, le nez déprimé. Tous leurs traits portent l’empreinte de la barbarie. Dans le Sligo et la partie nord du Mayo, les consequences de deux sitcles de dégradation et de misère se montrent dans toute l’organisation physique de ces populations, et ont alteré non seulement les traits du visage, mais la charpenie méme du corps. La taille s'est véduite à cinq pieds deux pouces (mesure anglaise; c'est environ 12,54); le ventre s'est ballonné ; les jambes sont devenues cagneuses; les traits sont ceum d’un avorton. » = Tout lecteur quelque peu au courant des caracières qui distingquent les races humaines, aura re- connu dans cette description, à la couleur près, les traits attribués aux populations nègres les plus infé- rieures; aux tribus australiennes les plus dégradéees. L'autcur que nons venons de citer ajoute: « out le monde sait que, dans d’autres parties de l’ile, là cù la popolation n’a jamais subi l’influence de ces causes de degradation, la mème race fournit des exemples parfaits de beauté ct de vigueur physique et morale ». De Quatrefages, op. cit. pag. 227-229. L’opera a cui accenna il De Quatrefages si è: The races uf Man, and their geographical distribution, by Charles Pickering ete., new edition to which is prefiwed an analytical symopsis of the natural history of Man, by John Charles Hall. London, 1854, pag. Lu, dove si trova l’originale racconto tolto dal N° XLVIII del Dublin University Magazine pag. 658, 675 On the population cte., e riprodotto pure dal Richard. 3) V. sopra pag. 189, nota 2 e 4, pag. 203, nola 2, e t. xxif, pag. 444-452. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 217 l’uomo od il gorilla, sia l'ascendente od il discendente, deve parer cosa al tutto prematura allo stesso Huxley, schietto abbastanza per confessare che la derivazione dell'uno dall’altro ‘è una mera ipotesi non dimostrabile; non essendolo in sua sentenza la teoria darwiniana, per difetto di dati non possibili a produrre, e nemmeno a supporre, perchè contraddetti costantemente dalla continua ed universale esperienza (); ondechè egli amò meglio fallire alla logica, che imparentarsi: colle bestie e menarne vanto, come altri fece, con coraggio per certo non umano; a noi pare che tale peritanza e riserbo ispiratogli dal-suo buon senso e dalla coscienza dell’umana dignità, l'avrebbe dovuto avvertire che le considerazioni ana- tomiche, o non hanno veruna importanza in questa questione, o deggiono averla proporzionata; e l’importanza della rassomiglianza degli organi voler essere ragguagliata e subordinata a quella delle funzioni, dovendo queste servir di criterio per giudicare della natura degli organi e del comparativo loro valore. Il fare altrimenti, e comparando due organismi più o meno simili o dissimili, considerarne le singole parti, ciascuna in se stessa, senz’alcun riguardo a tutte le altre a cui è attenenie e coor- dinata nell’armonica unità d’uno stesso organismo; cioè esaminare una parte organica, fatta astrazione da tale sua qualità, ed un organo, astraendo dall’esser esso strumento d’una funzione; può essere questa l'opera di chi trincia per mestiere questo o quell’animale e ne va- luta i pezzi a peso ed a misura, o come altri disse, col compasso e colla bilancia; ma questa non sarà mai la norma estimativa d’un buon zootomo, che fa professione di anatomia comparata. Questi sa che con parti perfettamente omologhe sono compossibili tali modificazioni da renderle stromento di funzioni diverse e distintissime, risultanti non così da un diverso numero di elementi osteologici o miologici 3 Quanto e da varietà di forma, proporzione, disposizione, assestamento (?) se Y 2 (1) V. sopra pag. 187, nota 1. (2) Odasi lo stesso De Filippi: «La mano ed il piede sono parti fra di loro perfettamente omo- loghe, come lo sono tutte le singole parti delle estremità anteriori colle corrispondenti delle po- steriori; là circolo scapulare, qui circolo pelvico; ià omero, poi radio ed ulna, qui femore poi tibia e fibula; là carpo, metacarpo e falangi, qui tarso, mefatarso e falangi (Op. cit. pag. 21-22)». L’analogia fra le ossa del metacarpo e del metatarso è sì evidente che viene espressa coll’adagio pes altera manus. Ma nella sfera di questa omologia, soggiunge giustamente il De Filippi, « è pos- sibile una tale modificazione, per cui la parte terminale di un’estremità si dica mano, quella del- Valtra si dica piede (Ivi) ». - Il piede regge benissimo al paragone della mano, purchè si faccia astrazione da quelle differenze, il cui diverso uso dei due organi rende necessarie ( Hyrll, Handbuch Serie II. Tom. XXIV. 28 218 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE non ama di equivocare ed illudere, non assegnerà mai un valore secon- dario a modificazioni anatomiche che caratterizzano una diversa funzione, pareggiandole , se non anche posponendole, a quelle che non importano una tale diversità. Ben a ragione pertanto il Bianconi a proposito del metodo di comparazione usato dall’Huxley scriveva: «a questo patto » io potrei conchiudere che fossero uguali due chiavi, quando confron- » tando tutto non curassi i tagli o le dimensioni... La comparazione » fatta dal Prof. Huxley prova bensì che quanto a numero di elementi » ossei e miologici sono simili fra loro il piede del gorilla e dell’uomo; » ma le conseguenze non ponno essere spinte più innanzi senza ledere » le regole d'un sano ragionamento. Imperocchè la natura di ognuna » di queste estremità consiste nel numero di pezzi ossei, nelle loro » forme, nelle loro proporzioni, nel loro assestamento, e nel loro fun- » zionare (!). La comparazione d’entrambe le estremità per dedurne der topographischen Anatomie, Wien. V. la traduzione italiana, Manuale d’anatomia Lopografica, Milano 1858, pag. 365)». V. Bianconi, op. cit. pag. 52, nota 1. V. Duvernoy, op. cit. pag. 136-37. (1) « Resta inesplicabile (dice in nota il Bianconi, pag. 55) come il Prof. Huxley non abbia fatto menzione, fra i caratteri distintivi del piede dalla mano, del legamento trasverso, che, come si è delto, abbraccia e lega in uno tulte le cingue estremità dei metatarsi, mentre quattro meta- carpi soltanto ne lega nella mano, lasciandone il pollice affatto libero. E l’imporlanza di questo caraltere è massima nella presente questione di comparazione della estremità posteriore di qua- drumani con quella dell’uomo. » Di fatto il dottissimo zoologo, riepilogando le sue considerazioni intorno alla teoria meccaniea del piede umano ne aveva dedotto « che le forme di un piede per la stazione ed ambulazione bipede, non possono essere che quelle le quali soddisfanno alle con- dizioni volute dalla stalica, e che trovansi applicate nel piede umano .....il cu? pollice insieme colle sue ossa del melatarso e del tarso costituisce la linea primaria di robustezza e di forza del piede, talchè per esso principalmente il piede è fatto base acconcia per la stazione eretta del corpo e all’ambulazione con alternare del passo; - che tutte le parti sono calcolate secondo le leggi di meccanica per guisa, che senza tale assestamento non sarebbe piede atto nè alla stazzore, nè al- V’ambulazione; - che il pollice col suo metatarso è il primo fra le dita per imporlanza di ufficio nel piede, come è massimo per robustezza ed irremovibile per ubicazione (Op. cit., pag. 44, 45). » Ora questa immutabilità di direzione, dalla quale l’alluce unzaro non potrebbe deviare serza porsi in contraddizione coll’ufficio al quale deve servire il piede (ib. pag. 43), è appunto condizionata e determinata dal Zegamerto trasverso il quale rende impossibile la divaricazione o l'allontanamento di esso fuori della sua direzione antero-laterale (ib.) Ed in nota soggiunge: « A viemmeglio valutare l’im- portanza dell’asse pollicare può riflettersi che in alcune occasioni l’alluce quasi solo agisce e sosliene transitoriamente il corpo; e ciò che più merita considerazione si è che la sua ultima parte ante- riore, cioè la punta del metatarso colle falangi, è quella che tutto regge. Ciò accade quando si muta il passo, ed il piede alzato sta per posare a terra. In quell’istante il corpo s’inclina all’innanzi e sì sbilancia verso l'interno. Supposto che il piede alzato sia il sinistro, dapprima il corpo insiste su tulto il piede destro, ma il suo calcagno è obbligato ad alzarsi quando il sinistro già, portato innanzi è prossimo a posare a terra. Allora unica parte che tocca il terreno (benchè transitoria- mente) è la parle anteriore del melalarso, più le falangi. Ogni sforzo dunque è aflidato ad essa PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 219 » eguaglianza di natura, deve non restringersi ad un solo di questi » capi, ma deve abbracciarli tutti, e chi fondandosi sur un solo voglia » argomentare da questo alla parità dell’insieme, prende un equivoco, » e trae in errore quelli cui volesse istruire. Il debito di chi insegna » è di aprire altrui la verità, non d'inorpellare l'errore colle risorse » dell'ingegno. In un confronto di questa fatta, affine di poter conclu- » dere sull’eguaglianza o identità dei due oggetti, il piede umano e » l’estremità posteriore delle scimmie, occorre, quanto alla osteologia, » oltre l'eguaglianza del numero dei pezzi ossei, anche la somiglianza » di forma dei pezzi medesimi, la wniformità delle loro proporzioni » relative, e del loro rispettivo collocamento, ed infine anche le con- » seguenze necessarie del loro assembramento, vale a dire, l’effetto che » inevitabilmente discende dalla loro riunione. Una volta che siano » giusti questi riflessi e questi principii, crolla la tesi del Prof. Huxley. » Che monta infatti l’ugual numero dei pezzi ossei, se alcuni di questi » son sì diversi per proporzione e per forma, che nel gorilla ecc. » costituiscono un pollice breve e sottile, là dove sarebbe richiesto » maggiore per lunghezza, e massimo per grossezza, affine di servire » come nell'uomo alle leggi della statica pella stazione verticale? Che » monta il numero, se la forma dei pezzi è sì differente che il pollice » resta divaricato, sciolto e mobilissimo nel gorilla, mentre è rigido, » steso accanto alle altre dita, e con queste fermato, mercè del lega- » mento trasverso nell'uomo? Che monta se il ravvicinamento, e l’ar- » monica riunione degli elementi ossei è tale che in un de’ casi ne » esce un eccellente organo prensile, e nell’altro una base appropriata » a sorreggere il corpo (1)? » Laonde a chi non sappia quanta parte parte la quale pertanto dev'essere owè, e qual è, cioè anlero-interna e robusta assai. Quella fun- zione non potrebbe essere sostenuta da verum’alira parte; nè da un pollice introverso nè dall’altre dita minori. » Quindi altrove conchiude: « se pertanto le osservazioni recate sul piede umano sono giuste, ne segue che esso non è base acconcia se non quando sia ciò che deve essere, cioè fornito di tutti quegli elementi che abbiamo esaminato; e più precisamente quando abbia il robusto metatarso del pollice a suo posto. Se quest’osso fosse breve od esile o discosto dagli altri, il piede non è più la base adatta al corpo dell’uomo. Tal base adunque dev'essere o tutta e completa, o a nulla vale. Se fosse meno di ciò che dev'essere, l’individuo che sopra vi posa è storpio, ha il piede imperfetto, non può camminare. » Op. cit. pag. 43-44, 47, ed in generale dalla pag. 35 alla 55. V. Gondron, De l’espece, T. II p. 119. (1) « Il piede, dice il Gaddi, anatomicamente studiato nell’uomo, si palesa per una base di sosten- tazione. Consta di ventisei ossa più grosse e robuste di quelle della mano. Esse costituiscono un tripode ; quindi sono disposte in guisa che tutto il peso del corpo per la via di tre punti assai 220 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE abbia il pregiudizio e la volontà nelle premesse e deduzioni di certi scienziati, dovrà parere strano assai ed inesplicabile come l’Huxley abbia potuto dichiarare essenzialmente identica, o per lo meno più simile che diversa, la struttura del piede umano e quella dell’estremità posteriore del gorilla, mentre più diversa che simile ne è la rispettiva funzione, essendo /a stazione verticale e l’ambulazione funzioni caratteristiche del piede umano, come lo è pegli arti posteriori delle antropoidi il prendimento ; attalchè l’Huxley stesso fu costretto a denominare prensile quello ch'egli perfidia a voler chiamare piede, e non mano nel gorilla (1), qualificando come secondarie o pretermettendo affatto () quelle distin- zioni anatomiche che sono appunto il fondamento di tale caratteristica organica e fisiologica diversità, e segnatamente quella maggiore o minore mobilità del pollice, la quale, per suo avviso, può variare indefinita- ". sporgenti in basso, si lrasmelte al sottostante piano, ed è di tal maniera che la stazione sì rende ferma su due piedi, e anche sopra la pianta di un piede solo. » Dimostrazione anatomica intorno alla maggior perfezione della mano dell’uomo confrontata con quella delle scimie. R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Modena, T. VII. (1) V. sopra, pag. 215, hola 1. (2) Tale si è ad esempio quella riguardante il muscolo peroreo, il quale, nelle scimie passa sopra il calcagno, ma non su quello dell’uomo ove sarebbe assai mal collocato, perchè verrebbe di con- linuo compresso in causa della stazione verticale. Laonde ne conchiude il Gondron che il piede delle scimie non ha organizzazione acconcia per la stazione verticale, perocchè in questo supposto” il detto muscolo peroneo sarebbe continuamente compresso fra il calcagno ed il terreno. » Bianconi, op. cit. pag. 53. Tale si è pure comparativamente alle altre dita del piede umano in ordine alla caratteristica sua funzione V’ambulazione, la maggiore importanza del metatarso e delle falangi del pollice, e Vassoluta necessità della speciale collocazione, direzione ed immobilità del metatarso pollicare ». Oltre la linea principale del piede, i metatarsi e le falangi delle altre dita concor- rono senza dubbio ad integrare il piede, ed a formare una più larga e più acconcia base; ma l’im- portanza loro nella costituzione del piede sembra alquanto minore, per modo che senza il metatarso e le falangi del pollice un piede non può servire all’ambulazione, mentre forse potrebbero tuttavia compiersi le sue funzioni, minorata bensì di perfezione, anche senza taluno delle quattro dita. Tolto il metatarso del pollice, è tolto il punto d’appoggio anteriore ed interno del piede. Senza esso mancano la forza e l'equilibrio. La serie diagonale comprendente il pollice è l’asse del piede e tolta essa, o anche spezzata, il piede umano è impossibile. Nè l’alluce umano potrebbe mutare direzione senza porsi in contraddizione al quale deve servire il piede . . . . Un nuovo argo- mento anzi per provare quanto sia necessario il metatarso dell’alluce al luogo e punto preciso nel quale si trova, si trae da ciò, che la testa anteriore del detto melatarso è legata fermamente alle quattro minori dita dal legamento trasverso. Immobile è dunque il metatarso pollicare: e la forte sua estremità anteriore si trova fissata al punto in cui, come abbiamo veduto, è richiesta per la forza e per l’equilibrio del piede. Ma nella mano il legamento trasverso lega bensì fra loro-le quattro dita, ma non il metacarpo pollicare, il quale perciò è affatto sciolto e libero. Ognuno comprende sin d’ora di quanta importanza sia questa osservazione nell'esame che siamo per isti- tuire delle estremità delle. scimmie ». Bianconi, op. cit., pag. 43-44. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 221 mente senzachè la struttura del piede ne rimanga perciò sustanzialmente alterata (1); laddove, a detta de’ migliori Zoologi che ragguagliano l'im- portanza dell’organica diversità a quella della relativa funzione, in questa stessa maggiore o minore, perfetta od imperfetta mobilità e divarica- zione del relativo pollice, e possibile od impossibile, assoluto o limitato suo contrapponimento alle altre dita, vuol essere collocato il costitutivo e distintivo della vera mano e del vero piede (); per cui l’uomo si chiarisce il solo bimano-bipede, e si differenzia organicamente e fisio- logicamente da qual più si voglia animale bipede, o quadrupede, o quadrumano, sia pure il gorilla od altra qualunque delle antropoidi (8). (1) « Zf we desire to ascertain whether the terminal division of a limb in other animals is to be called a foot or a hand, it is...not by the mere proportions, and greater or lesser mobility of the great toe, which may vary indefinitely without any fundamental' alteration in the structure of the foot. » Huxley, op. cit., pag. 90; Lyell, op. cit., pag. 476-477. (2) Sin da’ suoi tempi Galeno diceva dell’alluce umano: « quocirca, primum quidem, non modo tanto major aliis magnus pedis digitus, quanto ille qui est in manu, fuit, sed etiam multo amplius » (op. cit., lib. DI, c. 8); e del pollice della mano: « haec homines dum considerarent dvtiygespa, quasi promarum dicas, vocasse mihi videniur hunc digitum, tamquam ipsis pro tota manu esset acque namque acliones manus sibi ipsis perditas vident, sive ipsi quatuor abscindantur, sive hic solus (op. cit., lib. I, c. 22). » Albinus lo chiamaya marus parva majori adiutrix; ed il Bell, che ne riferisce il delto, come pure la sentenza di L’Aperligny: « l’azimal supérieur est dans la main , l'homme dans le pouce, » ne rileva l’importanza accennata dalla stessa etimologia (poZlex da polleo) risultante dalla sua forza, lunghezza e mobilità contemperata colla squisita morbidezza del polpastrello, e tale da rendere come impotente chi ne fosse privo, recandone ad esempio i settanta re ridotti per tal modo da Adoni-bezec (Jud. I, 5-7) a condizione di cani: » Zt is upor the length, strenght, free lateral motion, and perfect mobility of the thumb, that the superiority of the human hand depends. The thumb is called pollex, because of its strengih; and that strength, being equal to that of all the fingers, is necessary t0 the perfection of the hand. Without the fleshy ball of the thumb, the power of the fingers would avail nothing; and accordingliy the large ball formed by the muscles of the thumb is the distinguishing character of the human hand, and especially of that of an expert workman. The loss 0f the thumb amounts almost to the loss of the hand; and were it t0 happen in buth hands, it would reduce a man to a miserable dependence: or as Adoni-bezek said of the treescore and ten kings, the thumbs of whose hands and of whose feet he had cut off « they gather their meat under my table. » Bell, - The Hand, pag. 74. E quanto all’alluce, scrive l'Owen: « The great toe is more peculiarly charac- teristic of the genus Homo that even tits homotype, the thumb; for the Monkey has a kind of pollex ox the hand, but no brute mammal presents that developpement of the hallux (great toe), on which the erect posture and gait of man mainly depend. » Owen, on Limbs, pag. 37. E Newton dicea del pollice della mano: « 2’existezce du pouce seul suffit.à démontrer celle de Dieu. » Bulletin de la Société Anthropologique, 1863, Tom. II, pag. 471. (3) Noi non sappiamo capacitarci come il De Quatrefages abbia potuto contestare all’ uomo il privilegio dell’eretto suo portamento, sicchè questi lo debba in tutto od in parte condividere colle antropoidi, colle alche e coi germani: « Quelques naturalistes, et parmi cue des hommes éminents, ont adopté et cherché a justifier par des considérations scientifiques opinion si poctiquement exprimce par Ovide. La station verticale sur deux pieds ct le 08 sublime ont élé regardés comme les attributs 222 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVPANNATURALE Perocchè l’impedita divaricazione dell’alluce, mentre si è la condi- zione necessaria alla caratteristica funzione del piede umano, organo extérieurs du rèégne humain. Il est cependant difficile de partager cette maniere de voir. Déjà M. Isidor Geoffroy, faisant pour la première fois une objection qui, par une singulière inadvertance avait éechappé à tous ses predecesseurs, a fait observer que plusieurs oiseaux se tiennent naturellement toul droits. Les pingouins et méme une simple race de nos canards domestiques présentent cette particularité. Là cepen- dant n'est pas l’objection la plus grave à Vopinion dont il s'agit. Sous le rapport du mode de station il ny a de animal à l'homme qu'une difference du plus au moins. Sì la station de la plupart des mam- miferes est horizontale, celle des singes antropomorphes est naturellement oblique. Ces singes prennent assez souvent et tout à fait spontanément une attitude qui rappelle celle de homme. A ce point de vue ils sont en réalité des veritables intermediaîres. Il ny a donc ici chez homme quun pas de plus fait dans une direction déjà nettement indiquee; il n'y a qu’un progrès, mais rien d’essentiellement nouveau. (De Quatrefages, Unrité de l’espèce humaine, pag. 18-19)». E quanto al primo genere di emuli o rivali, odasi il più volte lodato Bianconi: « Confesso che non so comprendere la leggerezza e la superficialità colla quale si toccano certe questioni. Uomini di merito incontestabile hanno ammessa per ferma la seguente asserzione - la stazione erella non è caratteristica dell’uomo, perchè ne gode ancora il pinguino. - Lo che equivale a dire che il portamento eretto dell’uomo è ‘uguale a quello del pinguizo, e che non v'ha in ciò differenza fra essi. Gra è a sapere che il pirguin dei francesi è quell’uccello palmipede detto dai naturalisti e volgarmente al/ca. Eminentemente acqua- tico, le piccole sue zampe sono respinte all’ullima parte posteriore del corpo; donde segue che allorquando è obbligato di venire a terra, lo che accade assai di rado, è costretto di erigersi diritto quanto mai può, affine di far cadere il peso del suo petto, del collo e della testa, che sono tanto eccentrici, sopra l’impropria base di sostegno offerta dagli arli posteriori. Qui è chiaro che la organizzazione di questo uccello, tanto bene accomodata pel nuoto, è mal conformata per camminare sopra il suolo. È a stento che l'uccello quivi si può muovere, ed è soltanto con isforzo che vi sì può soslenere eretto. È un animale fuori del suo elemento, come dice il huon senso comune: e questa proposizione include una sapienza assai maggiore di quello che per avventura apparisca a prima giunta. Un organo dato ha un uffizio da eseguire, uffizio preciso, principale, suo proprio: poi quell’organo slesso può servire ad usì accessori. Il primo si compie con tulta la perfezione delle opere della natura; il secondo si compie di qualche guisa, ma assai imperfettamente. Niun esempio migliore di quello appunto di un uccello acquatico; sia ad esempio l’anitra comune: Se voi obbligate un’anitra a correre celeremente sul terreno, essa vi stramazza sul petto; nell’acqua essa vi nuota perfettamente. La organizzazione del piede è acqualica e serve egregiamente al suo scopo; all’ambulazione sul suolo l’organizzazione non è, non poteva essere ugualmente accomodata, e l’uso ne è imperfetto. L’arto posteriore dell’anitra ha dunque due uffici, uno principale e proprio, il nuoto, un secondo accessorio, l’ambulazione. Ora che la stazione eretta non sia caratteristica del- l’uomo perchè è comune ancora all’alca 0 pinguino, ognuno può vedere quanto sia giusta quest’asser- zione dal poco qui detto, anche senza il moltissimo più che ne sarebbe a dire, assumendo in esame l’arto posteriore dell’uomo e quello del pinguino. Ma in questo esame si giungerebbe ben presto al ridicolo (Op. cit. pag. 49-50). » E basterebbe osservare che quanto a verticalità, l’uomo trova fra le piante rivali ben più formidabili che non fra le alche e le antropoidi, come pure, sotto altro aspetto, certe oscene caricature, ad esempio, l'albero impudico o priapo, certe orchidi ed orchidee, segna- tamente alcuni funghi fa/loidi, che a giudicarli soltanto dalla forma e talora anche dal puzzo, pre- senterebbero i caratteri dell’animalità (V. Menzel, Die Naturkunde, II, 93, 320 321). Del resto, non è vero che le antropoidi assumano sovente e spontaneamente un porlamento che arieggia l’umano, e che a questo accenni e s’avvicini l’obliqua loro positura, di tanto accostandovisi di quanto si allontana dall’orizzontale dei quadrupedì; il vero si è che il reggersi e camminare su due piedi PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 223 dell’eretto portamento e della deambulazione, è nel tempo stesso un impedimento ed un ostacolo insuperabile al perfetto (!) esercizio della torna alle antropoidi malagevolissimo, se non impossibile, e che la posizione eretta è tanto loro innaturale, quanto connaturale si è l’obliqua, condizionata necessariamente da tutte le altre parli dell’organismo, che si è quello d’un cremnobate ed erbivoro, quali sono tutti i quadrumani, e quindi anche per quel solo rispetto molto più vicini ai quadrupedi che non al bipede ed al bimano che agli uni ed agli altri, non solo toto gezere, ma toto regno sovrasta, mostrando nello stesso suo incesso e nel portamento del capo e della persona, che si è quello del comando (l’aztitude du com- mandemert, come lo chiama il Buffon) l’espressione ed il simbolo di sua sovranità. Odasi il Gra- liolet: « car on vous trompe en vous disant que certains singes marchent sur deux membres; à peine peuvent-ils conserver quelque temps cette attitude dans le repos; mais dès qu’ils veulent se mougoîr, ils reviennent à leurs habitudes quadrupèdes (Conference à la Sorbonne, 1. cit. pag. 38). » E il Duvernoy: « Adussi, malgrès les histoîres contraires des voyageurs, ces grands singes, essentiellement arboricoles, marchent à quatre pattes sur le sol. Mais la longueur de leurs extreémités antérieures fait que leur corps conserve une position relevée en avant qui leur donne une grande facilité pour se placer momentanement sur deux pieds ». E dopo riferito il seguente brano di una lettera del sig. D’Aubry Lecomte, in data di Gabon 18 gennaio 1854: « Ze gorille marche comme les animaux. Le chimpanzé adulte marche droit, ce n'est quà la rencontre de l’homme, disent les nègres qu'il se met à quatre pattes; » soggiunge « c'est d’après les recits des nègres plus ou moins incertains ou inexacts, que M. Aubry le rapporte ». Se non che da quest’essa relazione dei Negri si raccoglie che questi o non videro mai il chimpanzé camminare altrimenti che carpone, ovvero che la è questa per esso la posizione più comoda e vantaggiosa. Ognuno dubbio però è rimosso a tale riguardo dal Duvernoy, il quale parlando come testimone oculare del chimpanzé da lui veduto sovente à la Meénagerie du Jardin des Plantes di Parigi afferma: « Jamais ce singe ne marche comme on Va cru, comme on l’a répété souvent, sur ses deux pieds de derrière seulement; mais il s'appuie sur la partie dorsale des doigts de la main anterieure, en fermant le poing, tandis que les mains postcrieures sont un peu inclinées sur le bord peronien ou externe. Cette marche quadrupède, toute particulière dans ce cas, qui sépare de l'homme les singes qui en sont le plus rapprochés par leur organisation, est indiquee par V’arc unique, ousert en avant, que forment ensemble toutes les vertèbres mobiles, c’est-à-dire celles des trois régions cervicale, dorsale el lombaire; ainsi que j'ai pu l’observer et le démonirer dans notre squelette de gorille dont les ligaments inter-vertebraux, et par eux les rapports natuvels de toutes ‘les vertèbres, ont éié conservés (Op, cit., pag. 231, 220, 125, 126). » (1) Abbiam detto perfetto esercizio; imperocchè l’ omologia che corre fra la mano.ed il piede (V. sopra pag. 217, nota 2) importando un’analogia nelle rispettive funzioni, se queste non possono essere perfettamente eseguite se non dall’ organo principalmente ed appositamente a ciò condizio- nato, possono tuttavia esserlo accessoriamente e sussidiariamente dall’omologa parte, sebbene sempre in modo più o meno imperfetto; e così all’ occorrenza la mano far le veci del piede, e questo emular l’opera della mano, supplendo al difetto dell’organo la destrezza o l’abilità di chi lo adopera; come veggiamo tuttodì un perito artefice operar talora cose meravigliose col più rozzo ed inetlo istrumento. Quindi il Bianconi concede al Bory St-Vincent che « il cucire, il tessere, lo scrivere, il dipingere ponno essere prova sufficiente di quante altre opere sia capace il piede umano allora quando è debitamente addestrato ed esercitato. » Ma soggiunge: « Hannovi funzioni principali. o proprie di un organo, e vi hanno funzioni secondarie ed accessorie. Pare che ognuno convenga che in accordo colla conformazione organica del piede umano la funzione primaria e propria di esso sia il sorreggere il corpo. Qual meraviglia poi se questo stesso organo possa essere addestrato ad eseguire in via suppletoria qualche altra funzione mercè dell’alquanto di libertà che è rimasta alle falangi delle dita del piede? Qual meraviglia se un lungo esercizio ha reso possibile a queste 224 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE presa e della digitazione, funzione caratteristica della mano; alla quale funzione, per lo contrario, l'arto posteriore del gorilla trovandosi parti di eseguire quegli uflizi che imitino quello della mano? Chi però prenda a considerare i due accennati uffizi del piede, la stazione e la digitazione, presto si accorgerà che la prima sì eseguisee perfettamente, la seconda assai imperfettamente. Laonde nello slesso modo che la mano può pure in qualche caso servire al traslocamento del corpo, così il corpo può servire ad alcune funzioni di digitazione. Ma impropria è la prima colla sua organizzazione; ed imperfetto l’ufficio che essa produce; ed improprio il secondo colla sua organizzazione, come imperfetta la funzione che ne segue. Quali sono infatti la preensione e la digitazione del piede a confronto di quelle della mano? Mano e piede non sono dunque uno slesso organo: e l’ uomo non può essere detto quadrumano ( op. cit., pag. 30-52). » Locchè viene pure alternativamente confermato e contraddetto dal De Filippi: « I caratteri comunemente assegnati alla mano sono la mobilità delle dita, di tutte e di ciascuno, e sovratutto la mobilità del pollice divergente dalle altre dita, ed a queste opponibile. Veramente quesli caratteri spiccano nelle estremità posteriori delle scimie; ma, come Bory de St-Vincent ha fatto osservare, il piede può acquistare la facoltà di afferrare, quindi il carattere della mano, per la forza dell’esercizio, anche nell'uomo; e Geoffroy di St-Hilaire.è andato più in là, è andato fino a sostenere che originariamente l’uomo stesso era un quadrumano. Nelle stalue antiche, il pollice dei piedi è rappresentato divergente dalle altre dita, indizio della primitiva indipendenza de’suoi movimenti. Con un resto di questa indipendenza si è conservato presso alcune popolazioni, fra le quali non si è propagato l’uso della calzatura. I Charruas, tribù indiana dell'America meridionale, forli cavalcatori, usano in luogo di staffa un semplice anello, nel quale impegnano il solo pollice dei piedi, tenendovisi strettamente; gli Indiani dell’Orenoco, quelli del Jucatan, i neri dell'Australia, possono colle dita dei piedi raccoglier monete dal terreno, afferrare sassi e lanciarli: i Bengalesi sanno servirsi anche dei piedi per menare il remo: infine, quante cose non si fanno co? piedi! » (Pur troppo! ma 20r soro sempre le migliori)! « Ma tutto questo non basta ancora a costituire una mano. Nella famosa lotta fra Gwen e Huxley, quest’ultimo ha dimostrato all’evidenza che la così detta mano posteriore dei quadrumani è 2 vero piede ...... e ristabilisce l’antico ordine de’ primati, comprendente l’uomo e le scimie, non come aveva fatto Geoffroy di St-Hilaire, riconducendo noi uomini al tipo quadrumano, ma invece rendendo bimani anche le scimie (op. cit., pag. 22-23). » Il qual discorso riesce a dire che, sebbene nella così detta mano posteriore de’ quadrumani spicchino veramente i caratteri comunemente assegnati alla vera mano, quella si ha tuttavia a dire uz vero piede; e per lo contrario l'umano, sebbene sia pur esso, non ostante la sua diversità dal scimiatico, incontestabilmente un vero piede, ciò nondimeno fu origi- nariamente una mano, e coll’esercizio ne può assumere il carattere. Insomma ragguagliate l’uomo alla scimia, o questa a quello; diteli bimani l’uno e l’altra, o quadrumani entrambi; e voi vi apporrete sempre ed egualmente al vero; l’errore sta unicamente nel non riconoscerli originati da un solo e medesimo slipite, di specie ignota e perduta, che non si sa se fosse bimana o bipede, o non anzì e forse meglio quadrupede, — Tuttavia il Canestrini, che è di quest’ultimo parere (op. cit., pag. 100), vuol riservata all’uomo la qualificazione di bipede, ed attribuita alle scimie quella di quadrumani, e riferiti i fatti da noi riprodotti, non che le ragioni del Huxley che pel De Filippi equivalgono ad un’epiderte dimostrazione, così conchiude: « Come si vede da quanto fu detto, alcuni fanno quadrumano l’uomo, mostrando la mobilità di cui è capace il piede; mentre altri fanno bimane o bipede la scimia, fondandosi sulla struttura anatomica delle estremità. Non ostante le idee sopra esposte del Geoffroy di St-Hilaire e dell’Huxley, l’uomo non cessa di essere bipede, nè le scimie hanno cessato di essere quadrumani. Le idee addotte dal primo autore provano solo che coll’esercizio il piede possa arrivare a compiere qualche funzione delle mani; quelle messe avanti dal secondo dimostrano l’analogia che esiste tra le mani posteriori della scimia ed i piedi dell’uomo PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 225 de . o ; SIE meglio condizionato ed acconcio che l'anteriore, epperò più di questo (op. cit., pag. 46-48). » Ma il curioso si è che l’Muxley volendo decidere la questione coll’omo- logia, nell’istituire il confronto, omette ciò appunto che costituisce la caratteristica differenza del piede dalla mano umana, cioè il muscolo che rende possibile al pollice di questa l’opporsi perfet- tamente a tutte le altre dita, del qual muscolo speciale ( musculus opponers pollicis), comune al pollice della mano umana ed all’alluce del gorilla, in quelio dell’uomo non trovasi nessun vestigio od indizio, nè anco fra quelli che, qualora ne avessero avuto un rudimento, l’avrebbero di certo col lungo uso ed esercizio potuto svolgere ed afforzare. Onde con tutta ragione 1° Hyrll,, riferito che gli Ottentotti avrebbero, secondo Bory de St-Vincent, un dito grosso opponibile alle altre dita, ed anche i raccoglitori di resina nella Francia meridionale avrebbero un grosso dito del piede opponibile, acquisito per l’arrampicarsi sugli alti e snelli tronchi della pinus maritima, s0g- giunge: « ciò a me pare molto inverosimile, e sembrami poter essere ridotto alla mera possibilità di aumentar la forza adduttrice del dito grosso, e di far concavo il piede, ciò che è certo possibile pel poderoso sviluppo del muscolo trarnsversus plartae (op. cit. della traduz. ital., vol. IT, pag. 383-384 ap. Canestrini, op. cit., pag. 46). » Ed il Pruner-Bey ha sciolto la questione negando recisamente che quella esagerata mobilità, anche in quelle razze in cui l’alluce un po? raccorciato e divaricato si discosta meno dal scimiatico, trovisi coordinata con qualche muscolo o tendine aponeurolico , e molto meno col muscolo opporers pollicis, che comune al pollice umano ed all’alluce del gorilla manca del tulto in ogni alluce umano, per quanto reso da natura o dall’arte più o meno mobile e divaricato. Non sarà discaro al dotto lettore leggere a questo proposito il seguente brano del- l’Edinbursh Review (vol. CXVII, 1863, pag. 550-551): « Professor Huxley says that the civilized great thoe, confined and cramped from chillhood upwards, îs seen t0 a great disadvantage , and that in uncivilized and barefooted peuple it vetains « great amount of mobility, and even some sort of oppo- sability. The chinese boatmen are said to be able to pull an car; the artisans of Bengal to weave; and the Carajas t0 steal fishhooks by its help; though, after all, it must be recollected that the structure of its joints, and the arrangements of its bones, necessarily render its prehensile action far less perfect than that of the Thumb. » — This passage give a totally erroneous motion of the amount of opposability which is possible in the thumb of a few of the lower races of mankind. Whatever truth there may be in such narrative as these, or in those which allege that the Abyssinian horsemen support the stirrup between the great toe and the second toe; or that some of the Indians of Central America conccal small pieces of gold under their toes, and then slily uplifting their feet, hide the product in their clothing, there is one important objection to be made, which was originally suggested by M. Pruner-Bey. He has told us that a shortening of the great toe, often combined with its slight divarication from the other tocs, has been noted in the negro, in some Malay races and amongst the Hottentots, as a constant feature assimilating these nations to the ape. The French anatomist, however, place the question before us in this manner: --- « Is there any muscle, or even any aponeurotic tendon, which coordinates this alleged function? » — The answer îs explicit. The human hand differs from the human foot inasmuch as there is a special muscle (opponens pollicis) the furciion of which is t0 oppose the thumb to the other fingers. This muscle originates from the trapezium, or innermost carpal bone of the thumb. If we turn to the human foot, and examine the answerable bones, we see neither on ile under surface of the bone which we term ertocuneiforme, nor or the metatarsal bone of the great toe, any such surface for the attachment of muscle. This is the true difference between the human foot and ihe human hand — a difference which Professor Huxley entirely passes over. The value of the difference every reader will sce; the hand has a structure by which its internal digit or thumb can be opposed to the other digits: the food has no such power of opposability in its great toe. Granted that the hinder extremity of the gorilla is formed by bones homologous with those of the human foot — granted that the tarsal bones «’in all important circumstances of number, disposition, and form resemble those of man? » nevertheless, the fact of the hind thumb, or hallux, being functionally opposable: in the gorilla is Serie II. Tom. XXIV. 29 226 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE accostandosi per tal riguardo alla mano umana (l!, mano hassi a dire e non piede, ed il chiamarlo prensile tanio lo qualifica e lo distingue, to us decisive of the question. But neither in the foot of the Chinese boatmen, nor in that of the pil- fering Caraja, can the anatomist perceive anything which approaches to a developement of any opponent muscle, by which the great toe can be converted functionally into the semblance of a thumb. » (1) « A riscontro del piede umano esaminiamo ora il preteso piede de’ quadrumani antropomorfi. Esso è una estremità prensile, e Ja preensione si effettua colla opposizione del pollice. Se io indago in questa estremità i principii che abbiamo precedentemente veduti conformi alle leggi di statica nel piede umano, nessuno io trovo che risponda. Prescindo dal considerare ciò che riguarda la colonna vertebrale curvala ad un sol arco, la pelvi, e la inserzione del femore; prescindo dal far caso della obliquità d’inserzione della gamba sul piede, e limito le osservazioni alla sola estremità, al così delto piede. Qui i rapporti delle parti di maggior forza sono invertiti: le tre dita di mezzo hanno le maggiori dimensioni, ed il pollice è il più piccolo di tutti: ne consegue che, dato anche che la pianta dell’orang-outang, o del gorilla potesse stendersi sul terreno, lo che è impossibile, quale linea rigida o di forza si avrebbe nel lato interno, ove è la massima esigenza di base per causa della eccedenza del peso sovrappesto? A questo lato è, come si è detto, un pollice cortissimo e debole; incapace dunque di presentare per questo capo l’asse principale del piede. Poi il pollice stesso giammai può meltersi nella direzione necessaria. Organizzato per opporsi alle quattro dila, e per abbracciare con esse i rami degli alberi, e separato profondamente dalla pianta pel nascere indietro sino alla regione del tarso, il pollice si getta in fuori, e Jontano dalle altre dita. Per tale costruzione il mazimum di forza, che è rappresentato dalle quattro dita, si ha nel luogo ove minore è il bisogno; e mentre nel piede di uno di tali quadrumani sono parti robuste ove esse non occorrono, per l’altra mancano ove esse occorrerebbero per costituire un piede di animale bipede che alterna il passo. L'effetto che sorge da questa organizzazione è che l’orang-outang e consorti giammai ponno stendere piano il piede sul suolo, e che essi qualora siano forzati a slare erelli, posano il margine esterno del piede col dito mignolo sul terreno, e tengono raccolte le dita mediane, ed il pollice sotto la pianta in modo che posano in parte sulle nocche delle dita. Questa estremità perlanto non è piede per la stazione bipede con allernanza di passo; non lo è, perchè non è nè punto nè poco conformata secondo le leggi indeclinabili della meccanica; non lo è con- seguentemente quanto all’uso, percliè Ja sua conformazione sì rifiuta a permettere che essa posi piana sul suolo, e che sorregga il corpo. Non è dunque comparabile col piede umano, e se per piede di un bipede si debbe intendere quell’ organo che serve a mutare il passo, quello de? qua- drumani antropomorfi non è più piede, ma è una mano prensile. » Così il Bianconi (op. cit., pag. 45-46), cui consente il Canestrini (op. cit., pag. 52-53): « Mentre la porzione lerminale delle estremità posteriori dell’uomo è un piede, quella della scimia è una mano. È vero che chi esamina luna e l’altra anatomicamente trova una cerla omologia; ma non perltanlo l’estremità posteriore della scimia ha assunti (saremmo curiosi di sapere il come cd il quando)? Vali caratteri da dover essere risguardala siccome finita da una mano. Il pollice di questa è corto e piccolo e molto discosto dalle altre dita, per cui ben con ragione dice Gaddi (op. cit., pag. 14), che per quello che risguarda l’allonianamento maggiore possibile dell’alluce dagli altri diti del piede, più s'avvicina alla mano dell’uomo il piede della scimia, che la stessa di lei mano. » Locchè trovasi ampiamente confermato dal Duvernoy, il quale istiluito un accurato esame e confronto osteologico e miologico dell’organismo umano con quello del gruppo scimiatico comprendente i qualtro generi troglodite (ichego e chimpanzé ), gorilla, orang e gibbone da lui chiamate acconciamente scimie pseudoantropomorfe, così discorre delle loro estremità posteriori: « l’addueteur oblique et l’adducteur transverse du gros orteil (réunis par une attache mobile)..... dozeent porter avec une grande force le gros orteil dans Vadduction et dans la flerion. Is contribuent à donner à la main de derrière lu PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 227 quanto il chiamare ambilatoria la scimiatica mano, comune essendo agli arti anteriori e posteriori della scimia la funzione ed il modo della loco- mozione, cioè l’impugnare colle dita i rami degli alberi, unica stanza o la meglio accomodata a que’ cremnobdati ed Rylobati, non già il reg- gersi e camminare su due piedi stampando colla pianta sul suolo di tutta quanta la terra l'impronta di chi ne è l’abitatore universale ed il dominatore sovrano (!). Per la qual cosa, se gli organi vogliono essere faculté de saisir les objets et de les empoigner avec energie (op. cit., pag. 114). — Ze pouce, ou le gros orteil s'y trouve articulé par son métatarsien avec le premier cunciforme dans une abduction per- manente. Il y est méme plus opposable aux autres doigts, plus long que dans la main anicricure (ib., pag. 125). — Zl est impossible de ne pas reconnaître dans toutes ces liaisons, dans toutes ces combi- naisons croisces, la nécessité pour tous ces fléchisseurs longs et courts, perforants et perforés, d’une action simultance et dipendante. Les adducteurs oblique et transverse du gros orteil chez le gorille, ont une force ou un developpement considérables, proportionnés aux leviers qu’ils doivent mouvoir avec dénergie, pour saisir et empoigner les objets. Tous les inter-osseua dorsaux sont abducieurs relativement au médius. Tous les plartaires sont adducteurs pour ce méme doigt. C'est une difference très-vemar- quable qui sépare la main postérieure du gorille du pied de homme, où les inter-osseur! sont, les uns abducteurs, et les autres adducteurs relativement è l'indicateur qui est le plus long des orteils chez Vhomme, et celle du médius, qui est le plus long chez le gorille (ib., pag. 135-137). — Zous les os du pied ou de la main postérieure ont une mobilité remarquable les uns sur les autres, qui convient au grimper, maîs qui serait peu favorable à la station sur ces eatremités. Cette mobilité tient à Vam- plitude des capsules articulaires qui enveloppent ces articulations. Elle tient encore particulitrement pour les orteils, aux grandes dimensions des tétes articulaires des os metatarsiens, ct des phalanges, et à la moindre ciendue des facettes articulaires de la base de chaque phalange, qui donne d celles-ci une grande ctendue dans leurs mouvements de flewion et d’extension les unes sur les autres et sur les os mcltartasiens (ib., pag. 127). Cette main postérieure est dvidemment organisce pour empoigner avec energie les branches d’arbres, et pour soutenir au besoin tout le corps de l’animal qui peut étre suspendu à ces branches par une scule de ses extrémites postérieures (ib. , pag. 125). — La transformation du pied en une veritable main, par le mode d’articulation du metatarsien du pouce, qui l’ecarte des autres doigts, et par le mode d’articulation de cette main avec la jambe, est un caractère que ce groupe supérieur de singes partage avec les autres quadrumanres (ibid., pag. 59, coll. 102-103; 108; 112-113; 114; 116-118; 127-130; 221-222; 231). » E queste differenze già le aveva avvertite Galeno: « 70. enim sicut manus eius (simiae), solum magnum digitum habens curtum, imitatio ridicula monstrabatur humanae manus, ila el pes in consiructione unius parliculae cuiusdam vitiatus differt ab humano; sed in plurimis diversus est. Distant enim plurimum invicem digiti et multo sunt ipsius manus digitis maiores; quem autem oportchat maximum esse, aliorum minimus est. Non subiacent vero praeposilis ipsi partibus, quae firmant plantam, neque enim tuta omnino est basis corum ut quae concava magis, ut manuum facia sit. — Velocissime autem prensans ((simia ) obcia manibus ascendit sicut et mures recta et levia, eo quod concavum sortita est pedem et digitos plurimum fissos. Hujusmodi enim constructio circumplicari curvis omnibus corporibus probe cum possit ci undique tuto ipsa comprehendere , idonea est his quae alte perreptare nata sunt (op. cit., lib. III, c. 8). » V. sopra pag. 210-212, note. (1) A ciò alludeva il testè citato Galeno: « ex quibus omnibus manifestum est, ad firmam et tutam stationem amplos et oblongos pedes esse appositos. Ob idque tales potius hominibus ceu ambulationem firmam et tutam basim acquirentibus, quam quadrupedibus fuerunt. Hoc igitur ul bipedibus ipsis inest solum, non tamen jam etiam ut sapientibus; ut talibus enim varietas finmitatis est propria, ambulare indigentibus in omnibus locorum difficultatibus; quod non accidisset, nisi variae fuissent in pedibus N 228 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE qualificati dalle rispettive funzioni, e se la presa e digitazione, funzione caratteristica della mano (!), è del pari comune ed appropriata agli arti dearticulationes. Nam, ut in manibus antea demonstravimus, ex varietale articulorum quae în ipsis est, et cavitale interna factas fuisse accommodas, ut circa omnes corporum figuras circumplicarentur, ita et pedes, quantum mazxime licuit, manus imitati ct dearliculationibus quidem variegati; cavi autem illis partibus, quibus locum aliquem gibbosum calcaturi erant, in omni loco recie firmari possunt. Hoc ipsum igilur est illud ewimium constructionis humanorum crurum, quod antea invenire desiderabamus, cum dicebamus, non ut gressili solum, sed etiam ut rationali animali convenientes ipsi a natura datos fuisse pedes. Uno autem verbo ac summatim maxime quis id compleaus dixerit multiplicem illam fis- suram simul cum ipsa in media cavitate ». Op. et |. cit., c. 5. (1) Il Bianconi, premesso che l’errore di coloro i quali, accomunato l’uomo colle scimie ne fecero un gruppo solo, e gli uni lo chiamarono dei quadrumani, gli altri dei dimani e bipedi, derivò dal z0r essersi intesi sulla natura e sulle differenze della mano e del piede; e riferita da prima Za definizione zoologica che della mano diede il Cuvier, e fu per molto tempo seguìta, cioè « di estremità il cui pollice opponibile alle altre dita può servire a prendere le minime cose, » definizione, che propria eminentemente della mano umana è pur applicabile a quella di molte scimie, le quali hanno un pollice più o meno grande ed opponibile: non però a quelle altre che l’hanno brevissimo o ne sono al tutto sfornite; motivo per cui il Geoffroy S!-Hilaire propose di nominar mano « quell’estremilà che è fornita di dita allungate, profondamente divise, assai mobili, flebilissime, e per conseguenza suscettibili di prendere; » nota pure che questa definizione per essere più comprensiva della prima, riesce meno propria, perchè turba « l’idea antica e naturale della mano, la quale si riferisce pri- mamente a quella dell’uomo, e poi ad ogni altra che a quella somigli, ed ha il difetto di togliere alla mano la più pregevole delle sue qualità, quella di possedere un pollice opponibile. » Quindi continua di questo tenore: « se io non m’inganno, la discrepanza sta nell'avere confuse due funzioni molto diverse, prestate dalla mano; l’una comune a tutte, l’altra propria solo di poche. Prendendo a considerare la mano dell’uomo, io veggo che essa si presta ad un ufficio nel quale tuita la mano agisce in complesso. Se io abbraccio con essa un tronco, le mie quat!ro dita lo fasciano da un lato; all’opposto vi è il pollice, ed intermedia la palma. La presa in questo modo è completa, forte e sicura. Ma posso ancora tenere il tronco colle sole quattro dita premendo contro la palma, e senza alcuna cooperazione del pollice. Le quattro dita agiscono simultaneamente contro la palma: è dunque un’azione complessiva: e ad essa quadra, come è chiaro, la definizione di Geoffroy St-Hilaire; giacchè quest’alto può venire eseguito anche dalie scimie, che hanno mano mancante di pollice. Ma se io prendo un granello di sabbia, o un. piccolo fiore, non adopro la mano nel modo ora accennato, ma valgomi del pollice, opponendolo all’indice o ad altro dito. Ogni opera qui si fa dalle sole dita, ed anche da non tutte ad un tempo. Quesl’ufficio della mano è più libero dell’altro, e soprattutto è variato può dirsi all’infinito, ed è quello che fa della mano dell’uomo quell’organo ammirabile, del quale Cicerone disse: « quam vero aptas, quamque mul tarum arlium ministras manus natura homiri dedit! » È dunque questo un alto parziale di alcune parti soltanto della mano, e nel quale il pollice tiene primaria importanza. Ed a questa azione quadra la definizione di Cuvier. Le quali due azioni della mano, una di complesso, l’altra parziale, rispondono a due uffici veramente diversi e che meriterebbero nomi differenti. Ignoro se vi abbiano appropriati; ma al fine di servire alla chiarezza dirò la prima preersione, e digitazione la seconda. Così dislinta la cosa, si vede che ad ogni mano, abbia o no il pollice, conviene la preezsione, mentre la digitazione è possibile solo a quelle mani che hanno pollice, e pollice in certe deter- minate condizioni colle altre dita. Ora applicando queste considerazioni generali alle antiche dispute intorno ai quadrumani ed all’uomo, si vede che le scimie sono tulte quadrumani nel primo senso (hanno cioè mani per la preersiore); ma non lo sarebbero nel secondo senso, perchè alcune man- cano del pollice, e forse sono assai poche quelle che godono di un pollice appropriato per gli atti PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 229 anteriori e posteriori delle antropoidi, anzi più perfettamente eseguita dai secondi che non dai primi, non solamente non le possiamo con proprietà chiamar bipedi, essendo più manesco il lor piede che non la mano (', ma contrariamente all’Huxley dobbiamo dire che fra il piede umano e quello del gorilla, maggiore, perchè più importante, si è la diversità che la rassomiglianza. Perocchè non di grado soltanto, ma spiccatissima essendo nell’uomo la diversità di funzione del piede e della mano, spiccatissima si deve pur dire la diversità del piede umano dall’arto posteriore del gorilla; la cui-speciale conformazione quanto lo rende più acconcio ad emulare in parte l’azione della mano umana, altrettanto lo rende disadatto ed inetto al portamento ed all’incesso umano; epperò tanto più dissimile dall’umano piede @), quanto più prossimo all’umana, e superiore alla scimiatica mano. della digitazione. L’ ufficio generale e principale pertanto della mano delle scimie è quello della preensione, e ciò ancora in quelle, nelle quali è un pollice opponibile. È un mezzo per prendere ed attenersì ai rami; e per uflicio secondario hanno di cogliere un frutto e recarlo alla bocca, o di forbire i loro piccoli, ecc. L’uomo in cento casì usa anch’esso la mano per la preensione, ma l’ufficio più proprio e caratteristico è la digitazione (Bianconi, op. cit., pag. 29-32). E quanto a questa vedi la nota 2 della pagina seguente. (1) Vedi sopra pag. 226, nota 1. (2) Il Canestrini va sino a chiamare gli arti posteriori delle scimie antropomorfe mari perfette , e, quanto a perfezione relativa, cioè scimialica, non abbiamo che ridire. « Il carallere essenziale dell’uomo è il possesso di due piedi negli arti posteriori; per tale riguardo l’uomo si allontana più dalle scimie antropomorfe, che dalle meno elevate, poichè in quelle gli arti posteriori sono terminati da mani perfette (op. cit., pag. 100)»; ma quanto a perfezione assoluta lo neghiamo recisamente, non essendo nè veri piedi, nè vere mani, ma, come le chiama il Bell, zampe a foggia di mani, così richiedendo il suolo del pensile loro domicilio. « Les quatre mains fortement organi- sées pour saîsir el empoigner avec energie les branches des arbres sur lesquels ces animaur passent la plus grande partie de leur vie, ces quatre mains, dis-je, montrent dans tous les details des os ou des leviers qui entrent dans leurs composition et des muscles ou des puissances qui agissent sur ces leviers, que toutes ces puissances sont liées pour cette action simultance de flexions et d’extensions alternatives. Le reldehement des articulations des os du carpe et du tarse qui donne à ces animaux plus de facilite pour empoigner les branches d’arbres avec Vune ou l’autre de leurs quatre mains, en s'adaptant plus completement à leurs forme arrondie. ... éte à ces parties la solidité nécessaire pour une station sur le sol bien ferme et bien assurée. On irouve chez les singes, et nous Vavons decrit chez le gorille, n muscle singulier dont l'action a été mal appreciée, à notre avis. Ce musele a son tendon supcrieur fixé sur le iendon du granà dorsal, tout près de son insertion à l’humerus. Il descend le long de la face interne et posterieure du bras et va s’aitacher d’autre part au'condyle interne de l’humérus; c'est un dorsc-épitrochlcen. Pour en comprendre Pusage il faut se rappeler que les singes étendent leurs bras pour grimper le long des tronces d’arbres, ou s'élever d’une branche inférieure è une branche supérieure, ct que, dans ‘cette position ils font effort pour fléechir le bras sur Vavani-bras, et soulever ainsi leur twonc suspendu aux os et aux muscles de l’épaule. L’action du dorso-épitrochIéen coincide avec les efforts simultanés des muscles grand dorsal, grand pectoral et deltoide, etc. qui tendent, dans cette position fréquente chez les singes n a rapprocher le trone du bras (Duvernoy, op. cit., pag. 231, 222, 128). Vedi sopra, pag. 214, nota 1. 230 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE Il quale contrapposto quadra appunto al scimiatico organismo, vuoi considerato in riscontro all’umano, di cui si è, non so qual più, contraf- facimento o caricatura; vuoi considerato relativamente alle proprie fun- zioni; perocchè fatto stromento di locomozione, quindi pedestre, quanto all'ufficio, la mano ‘'), e per lo contrario, quanto al modo di compierlo, manesco il piede; non potendo questo altrimenti e meglio eseguire il proprio ufficio che colla digitazione, non è a stupire che divenuta questa appropriatissima per la locomozione, sia al paragone più perfetta @ nel piede che nella mano (@) Ondechè, confusa in una la duplice distinta (1) Vedi sopra pag. 210-215. (2) L’inferiorità della mano scimiatica e la superiorità e perfezione dell’ umana fu riconosciuta in ogni tempo. Il Duvernoy nel suo confronto osteologico e miologico degli arti inferiori delle scimie pseudoantropomorfe colle mani dell’uomo, ne divisa le singole anche menome diversità , facendone notare la relativa importanza. Così ad esempio, parlando del pollice scimiatico : « son articulation avec le trapèze est importante à étudier , pour comprendre la position habituelle du pouce dans labduction, et les mouvements de ce doigt. La faccite articulaire de cet os forme une poulie pro- fonde, concave du còté du mcetatarsien, convere du ché du trapèze, qui permet les mouvements latéraur ou d’abduction et d’adduction, mais qui géne et rend difficiles les mouvements de rotation ou de cir- cumduction. On voit déjà dans cette forme articulaire que la main du singe est faite pour empoigner et nullemert pour pincer (op. cit., pag. 70). » Così pure a proposito della fusione del muscolo Niessore proprio dell’indice e del pollice: « cette liaison, ou plutdt cette fusion du fléchisseur profond de Vindicateur avec le long fléchisseur du pouce, est, à notre avis, une preuve de la dégradation de la main du singe relativement à celle de l'homme. Les contractions simultanées de V’indicateur et du pouce qui en vésultent, démontrent qu'elles sont faites avec les contractions des trois autres doigis, pour em- poigner les objets avec force, et non pour les pincer ( op. cit., pag. 106). » E parimente, quanto al legamento del muscolo abduttore del mignolo col corto suo flessore: « L’abducteur du pelit doigt... m’a paru confondu avce le precedent (le court fléchisseur du petit doigt). — Or saît que dans l'homme Pabducicur veste tel, et conserve une attache mobile, bien distinete de celle du fléchisseur, ..... cette liaison de l’abducieur et du court flcchisseur, qui suppose dans le premier un changement d’action ..... montre que la flexion est l'action la plus necessaire à ces animaua pour empoigner les branches des arbres sur lesquels ils vivent (op. cit., pag. 107-108). — Cette liaison par les parties charnues et par les: tendons, qui détermine Vaction simultance des muscles des doigts chez les singes, ct qui n’ewiste pas chez l'homme, est encore augmenice par l’extension et les productions des aponcuroses palmaire ou plantaire. Ainsi nous avons remarqué, surtout dans l’orang, des brides ligamenteuses très-fortes, extension de l’aponcurose palmaire, qui vont à la face correspondante des métacarpiens, et s’étendent méme au niveau des premières phalanges, en allant transversalement de lune à Vautre, évidemment pour empécher leur écartement. Ces brides contribuent, en tenant les phalanges rapprachées, à former età maintenir la vodie de la main. Il ya d’autre part, des ligaments dorsaux très-foris qui s’étendent ù la base des premitres phalanges, et empéchent de méme leur écartement ( op. cit., pag. 136). Les doigts des singes ont moins d’independance dans leurs mouvements que ceux de l'homme (op. cit., pag. 225). » Questa superiorità della mano umana venne pure chiarita nella già citata dimostra- zione del Gaddi, della quale il Canestrini riporta un saggio nel seguente brano: « che la mano dell’uomo sia ancor più perfetta che quella della scimia, è quasi inutile il dirlo, e fu recentemente dimostrato dal Gaddi, il quale crede con ragione che la perfezione della mano umana stia nella PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 231 funzione della mano e del piede, e questo a quella assimilato, rimane esclusivamente propria dell'uomo la qualificazione di bimano-bipede , esprimente la perfettamente distinta conformazione e funzione delle su- periori ed inferiori estremità dell'organismo umano, e l’incontestabile ed inarrivabile sua perfezione, siccome quella che nella scala animale sua brevità, nella sua larghezza, nella lunghezza del pollice e nel grande allontanamento che questo può avere dalle altre dita. L’allontanamento gli è concesso ampiamente dalla configurazione dell’articolazione metacarpo-falangea, e dalla lassezza dei suoi legamenti, dall’energia dei suoi tre muscoli estensori lungo e breve, e lungo abduttore, datigli dall’antibraccio, e dell’abduttore corto fornitogli dall’eminenza tenare. Non gli è impedito dal muscolo adduttore , il quale, quando il pollice si allontana dalle altre dita, si lascia opportunamente distendere, per ricondurlo poscia al suo posto. Nella scimia invece, il pollice non può allontanarsi che ben poco dall’asse della mano. Egii non ha che un solo e debole muscolo estensore lungo, mancando del corlo estensore e del grande abduttore, e per soprappiù ha il muscolo adduttore corto e robusto, pel che sì lascia ben poco distendere nei movimenti di allontanamento. A ciò aggiungasi la brevità del pollice nella scimia che lo tiene coll’apice suo tanto lontano dall’apice degli altri diti , circostanza questa che rende alla scimia difficile e stentato il movimento stesso di opposizione a segno, che fu da tanli negato. Nell’uomo al contrario il moto di opposizione del pollice è tanio esteso, che il pollice stesso corre, a volere dell’uomo, sulla faccia dorsale e palmare delle dita, non che sulle loro facce late- rali (Gaddi, op. cit., pag. 14). Mentre dunque le scimie hanno talvolta una mano incompleta, priva di pollice ed atta solamente alla preensione, altre volte l'hanno completa, munita di pollice: ed anche atta alla digitazione. L’uomo l’ha sempre completa e più perfetta che Ja scimia. Tale per- fezione è fondata principalmente sul dito pollice, a petto del quale quello delle scimie antropo- morfe è detto da Eustachio e Buffon pollex ridiculus (Canestrini, op. cit., pag. 49-50). » HI simile avea pur delto Galeno (vedi sopra pag. 212, nota 1, e pag. 221, nola 2); e così pure quanlo alla digitazione, al libero e facile ed indipendente movimento delle dita, al perfetto loro contrap- porsi, ed all’artifiziosa ed appropriata loro conformazione: « Mor tamen per se satis est'eam (manum) esse divisam. Quid namque si nullus digitis quatuor, ut nunc habet, opponeretur, sed consequenter omnes quinque in una recta linea essent facti? Nonne perspicuum est eorum tune multitudinem fore inutilem? Quandoquidem quod tuto apprchenditur, aut undique circulo, aut omnino ex locis duobus contrariis comprehendatur, oportet. Id quod pertisset, si omnes in una recta linea uno ordine facti fuisseni digiti. At hoc ipsum, digito uno altis opposito, diligenter servatum est. Qui quidem positione el motu ita habet, ut parva omnino flezione curvatus, cum singulis quatuor opposîtis actionem perficiat. — Non enim simpliciter oportebat duos digitos oppositos, in parvarum rerum venatione suis ipsorum summitatibus operari; sed eos praeterea tales esse, quales nunc sunt, erat necesse, utpote sic molles, sic rotundos, sic unguibus munitos. — Atqui de manibus quidem praecedenti sermone abunde disseruimus, quo loco qui non admiratus est arlem naturae, aut intellectu caret, aut privatim sua quippiam interest; pretium enim operae fucrit mihi Thucydidis dictione uti (la frase, a cui allude, è la seguente: @ &SUyeròs dar, di idla 1i aòré Cvagiper. Thucyd., Hist. HI, 42). Op. cit., lib. I, capp. 5, 6; lib. JII, c. 10. Questa superiorità venne luminosamente dimostrata e ragionevolmente chiarita dal Bell nella sul- lodata sua opera: « Z'his superiority consists in its combination of strength, with variety, extent and rapidity of motion; in the power of the thumb, and the forms, relations, and sensibility of the fingers, which adapt it for holding, pulling, spinning, weaving, and constructing; properties which may be found separalely în other animals, but are combined in the human hand. — Our admiration is increased as we consider the sensibility to various impressions of touch, to varieties in the activities of the muscles, and to changes of posture, possessed by the human hand; and all united to a facility of motion in 232 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE corre parallela colla distinzione delle funzioni (1). Novella prova che queste vogliono essere assunte a criterio del valore e dell'importanza delle organiche diversità onde sono condizionate ; nulla importando che queste diversità siano più o meno apparenti, risultino da maggiore o minor numero di elementi, o soltanto dalla più o meno varia lor forma, disposizione, proporzione, assestamento; non dovendo già questi con- siderarsi disgregatamente ciascuno di per sè, ma collettivamente ed ar- monicamente in ordine all’integrità dell'organo di cui sono parte, ed alla modalità che dall’organo così fazionato riceve la funzione di cui esso è stromento ; e. così pure ciascun organo e funzione particolare, considerarsi nel mutuo loro conserto in ordine alla fisiologica unità the joints, for unfolding and turning the fingers in every possible degree and direction, without abrupiness vr angularity, and in a manner inimitable by any artifice of springs, pulleys, and levers. — But it s the motion of the fingers that is especially necessary to the sense of touch. These bend, or eztend, or expand, or move în every direction, like palpi, with the advantage of embracing the object, feeling it in all its sides, estimating îts solidlity, or its resistance when grasped, moving round it, and gliding over its surfaces, so as to feel every asperity, and be sensible of every slight vibration ( The Hand, pag. 160, 104-195, 156). » Conchiudiamo coll’eloquenie contrapposto che fa il Gratiolet dell’umana alla scimiatica mano: « Quelle difference dans la main de l'homme! Le pouce s'agrandit; il acquiert une force prodigieuse, une liberté presque sans limites; sa pulpe tactile s’oppose, avec une independance complete, simultanément ou tour à tour, aux pulpes de tous les autres doigts. Ceux-ci, recouveris è leur extremité d'ongles élastiques, réalisent ioutes les conditions d’un organ propre è mesurer V'intensité des pressions. La paume de la main du singe ne pouvait s'appliquer qu’à un cylindre; celle de la main humaine peut encore se creuser en gouttitre longitudinale, ou se faconner en coupe, de manière à s'ap- pliquer aux surfaces sphériques. Elle était simplement organe prehenseurj elle devient mesure; elle était crochet, elle devient compas, suivant l’admirable expression de Blainville, et le compas suppose déjà le gcomètre. Elle saisissait jusque là le sol ou l’aliment; desormais, passez=moi le mot, elle pourra saisir aussi des idces (Applaudissemens).» Op. et l. cit., pag. 37-38. (1) In animal lowest in the scale, slightly removed from vegetables, the instruments (organs of loco- motion, of prehension, of mastication) are so fused, by mutual interchange of offices, in to one another, that it is difficult to recognise the identity of each: the prehensile organ will be found acting in the art of the locomotive, and the manducatory;, it may be, in combination with both. But as animals pro- gressively rise in the scale, a-gradual departure from ihat community of office is observed: each organ becomes disembarassed of the duties of the others, and performs its own particular function alone. At length, when the animal organisation has reached its highest point of development in man, we find lo- comotion executed exclusively bi its appropriate instruments-jaws and teeth. And here it may be ob- served, that, when the lower extremities, by ihcir perfect construction as implements of locomotion, have emancipated the upper extremities from sharing in progression, so that the hand and urm are inde- perdent, and available for all acts of prehension, the jaws. and teeth cease to be employed for seizing and holding. The mouth is exempt from performing any other duty but that of mastication. Consequently the bones of the face, jaws and teeth admit of being reduced in dimensions: and the cavity of the mouth adapted in size and form, to be an important part of the organ of voice and speech, in relation to man°s highest endowment-his Mind ». Bell, The Hand, pag. XXIII-XXIV. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 235 dell'intero organismo. Posto il quale complessivo riscontro, anatomiche diversità che considerate di per sè o ragguagliatamente a questa o quest'altra di uno stesso oppur diverso organismo, parrebbero a prima vista di poco o nessun momento, possono rivelarne un grandissimo e tale da essere quella organica particolarità, o condizione essenziale del- l’intiero organismo, od almeno così ad esso connaturale da non potersi senza nocumento o con profitto alterare. Qual pro diffatto ritrarrebbe il gorilla dall'aver fermo e stabile l’in- cesso, eretto il portamento, stia egli in piede o seduto, perfetta la mano; equilibrato il capo, vocale la bocca, sublime la fronte e lo sguardo, se niun conto gli mette lo spingerlo al dissopra od al di là della natia sua foresta, sola stanza a lui accomodata, in cui esso si crogiola e bea, di nulla bisognevole che non gli sia ammannito dalla natura? Se per difetto d'intelligenza, della quale non abbisogna, non avendo nulla da apprendere, nulla da significare, superflua gli riusci rebbe la loquela; ed incapace di ricavare verun profitto o diletto da un qualunque lavorio, a nulla gli gioverebbe il potersi stare a lungo o comodamente assiso (1); a nulla la perfezione della mano acconcia ad ogni più squisito artifizio; a nulla l'indipendenza degli arti anteriori dai posteriori, vantaggiandosi più assai della robustezza e lunghezza dei primi onde ghermire da lungi e stringere, soffocare e stritolare la preda @), e dell’associarli ai secondi onde agevolare ed avàcciare il corso (1) « Solus igitur omnium animalium homo rectus stat, sicut etiam sedere omnium solus demonstratus est. Etenim omnes manuum in opificiis actiones duabus dis egent figuris. Haec enim erecti, hacc sedentes manibus conficimus; nemo autem aut pronus, aut supinus molitur quicquam. Meritoque nullum aliorum animalium quod erectum stare vel sedere posset fabricata est natura; quippequod nihil manu elabora- iurum erat. — Et crurum etiam natura non est omrino recta ad spinam, ut hominibus, neque ipsius genuflerio similis est humanae: perierunt autem omnino ipsis et quae ad ischia sunt carnes, retensum quidem cooperientes et occultanties meatum, excrelionibus superfluitatum destinaium; sedentibus autem super eas commodissimum futurae munimentum adversus subiecta corpora. Quare non modo sedere belle, neque stare, sed ne currere quidem potest simia ». Galenus, op. cit., lib. HI, capp. HI et VIII, coll. XVI sub finem. V. sopra, pag. 243, nota. $ (2) « La puissance musculaire ( du ‘gorille ) est prodigieuse, et egale en force le lion, ... peut-étre il la chasse lui-méme de ses foréts. — On a affirmé, à tort, que le gorille fait usage d'un bdtor comme arme offensive; il ne se sert, contre l’assaut d'un ennemi, que de ses bras, de ses pieds et de ses dents, et c'est bien assez. D'un seul coup de son enorme pied, armé d’ongles courts et recourbés, il eventre un homme, lui brise la poitrine, ou lui écrase la téte. Rien n'est plus dangereux que de manquer ce feroce animal; aussi les chasseurs expérimentés réservent-ils jusqu'au dernier moment leur coup de fusil. La detonation de l’arme irrite cette terrible béte; si le coup ne l’a pas atteînt, le gorille se précipite avec une incroyable violence sur son agresseur, qui n°a pas le temps de recharger son Serie II. Tom. XXIV. 30 234 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE arrampicandosi o discorrendo su per gli alberi di ramo in ramo e spen- zolarvisi e dondolare (); come gli riesce a tutela delle parti più nobili e più vitali la curvezza del dorso, e l’andar chino e carpone (2)? L'uomo al contrario non abbisogna di congenite armi, perchè nel capo di lui alberga, come in sua rocca, di tutto punto armata la simbolica Pallade o Minerva, Dea della sapienza e della guerra, delle scienze e delle arti, celeste scintilla che appresasi in Adamo per irradiamento divino, ed avvivata nel colloquio col suo Creatore, dovea destarsi nella sua prole al materno sorriso, afforzarsi e svolgersi nel consorzio umano. All’uomo , figlio di Dio, non fu dunque nè madre, nè noverca o ma- trigna la natura, all'uomo innocente spontanea e facile, allo scaduto ritrosa e difficile, ma pur costretta ad essere provveditrice ai di lui bisogni, e ministra de’ suoi voleri; a fornirgli ogni varietà di cibo e di stanza, armi e strumenti a sicurezza e difesa, a comodità di letto, ad istruzione e coltura; a rendergli possibile lo scoprire e sfruttare i più riposti di lei tesori, a carpirle i più gelosi secreti, a valersi di quelle terribilissime forze di lei non credute per lo innanzi potersi mai dall'uomo correggere e governare. Nasce questi ignudo, debole ed inerme (8), arme ou de faire un pas en arrière; les enormes bras du singe furieuse brisent è la fois le fusil et le chasseur ». Voyages et aventures dans lAfrique equatoriale par P. de Chaillu 1863; Estratto dall’Année sciertifigue par Figuier. Cf. Bianconi, op. cit., pag. 22-23. (1) « La vie de tous ces animaux (gorilles , troglodytes , orangs, gibbons ) se passant à grimper sur les arbres, à Sy percher, à s’y balancer de branche en branche, il est évident que ceux qui ont les plus longues extrémités ont plus de facilité pour atteindre au loin, avec leurs extrémites antérieures, les branches sur lesquelles ils veulent se porter ». Duvernoy, op. cit., pag. 27. ) (2) Come a proposito delle scimie ed in generale de’ quadrupedi osservò già Galeno: « Quod autem tutius eral ipsis quatuor ambulare cruribus, quam stare rectis super duobus, ita demum intel- lexeris, si consideraveris quanto magis ventris ac pectoris particulae noxis omnibus expositae sint, quam cae, quae sunt ad spinam. Ad haec, quod sic quidem ambulantibus ui nunc ambulant, quae quidem sunt offensis magis obnoxiae; occultantur et custodiuntur-a superiacentibus; expositae autem sunt et obiectae prominent quae sunt patibiles minus. Erectis vero non tectae nec opertae, sed incustoditae et nudae un- dique sunt ventris particulae et laesionibus prorsus expositae. Neque enim manibus el ratione utentia, quemadmodum homo, oppositura erant ventri aut pectori externum aliquod propugnaculum, quod natu- ralem membrorum, quae ibi sunt, imbecillitatem corrigeret. In universum enim, si quod animal manibus recte usurum est, nullum oporiet in huius peciore prominere impedimentum, non solum innatum, sed ne acquisitum quidem. Leporem sane, bovem, canem, leonem et alia similia, ceu nullam tractaiuros artem, ut vanumfuisset habere manus, ita et bipedes esse: quid enim esset plus cis commodi, si duobus quidem perlibus vecti starent, manus vero non haberent? » Op. cit., lib. II, cap. 2. (3) « Omnium animantium unicus homo inermis plane et nudus in hunc orvbem positus esse videtur, nec dentes, nec cornua, nec ungulae, nec tegmina;, nec pellis hirsuta ipsi data sunt ». Blumenbach, op. cit., pag. 27. Il Canestrini intorno a questa qualificazione di irermis data all'uomo dal Blu- menbach e riferita dal Bianconi ( op. cit., pag. 18) scrive: « devesi notare che l’uomo non è il PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 2535 perchè a suo riparo, sostentamento e difesa veglia e provvede , finchè gli basti il preprio , il senno altrui (4); sprovvedutissimo degli animali, riesce per la loro spontanea o sforzata contribuzione e sudditanza il meglio fornito; da essi ritrae cibo, vesti ed armi; per lui vegliano, combattono, lavorano; lui trasportano, lui vettureggiano; dimestici o dimesticati lui per ogni dove accompagnano, o viva vita nomade, o trasporti e fissi altrove per necessità o diletto la sua stabile dimora; chè non confinato, come i vari generi della flora e della fauna, a questa o quella zona o regione, vive sotto ogni cielo, ad ogni clima si natura, e trova o si provvede tetto, indumento e ristoro; e non solo non trova limiti od ostacoli al libero suo corso, ma tutto glielo agevola ed affretta, e ratto qual vento traversa le viscere de’ monti, scorre sul dorso a’ flutti e sale oltre le nubi. Autore di questi prodigi l ingegno, operatrice la mano dell’uomo (®), strumento perfettissimo che ogni altro scusa solo essere inerme tra gli animali; quali armi hanno p.e.le pecore prive di corna? Vedi in pro- posito Vogt, l.c., trad. franc., pag. 172 e seg. (op.cit., pag. 44 nota) ». Ma gli è a notare anzitutto che le corna del montone sono la naturale difesa delle pecore, e che persino tra le fiere Ja femmina è difesa dal maschio. Quindi gli è da osservare che il Blumenbach non distingue i mezzi di offesa da questi di difesa, e fra quegli annovera persino la pelle irsuta. , (1) « Homo nudus, inermis nascitur, nullo munitus instinciu, totus a sociali vita, ab educatione pendens. Haec rationis flammulam sensim suscitat. Quae demum sola corum omnium defectum feliciter compensat, quibus bruta homini praestare videbantur. Homo inter feras educatus , humano consortio destitutus, ferus evadit. Nunquam autem vice versa idem feris contingit inter homines degentibus.. Neque castores et phocae, socialiter viventes, neque domestica animalia, nobiscum familiariter versantes (sic), ratione praedita cvadent ». Blumenbach, op. cit., pag. 21. (2) Ecco in proposito uno squarcio di Cicerone, in cui non sai se più debba ammirare il filosofo o lo scrittore: « Quam vero aptas, quamque multarum arlium ministras manus natura homini dedit! Digitorum enim contractio facilis > facilisque porrectio, propter molles commissuras et artus, nullo in motu laborat. Itaque ad pingendum, ad sculpendum, ad nervorum eliciendos sonos ac tibicinum , apta manus est, admotione digitorum. Atque haec obleciationis, illa necessitatis; cultus dico agrorum, extru- clionesque tectorum, tcgumenia corporum vel texta vel suta, omnemque fabricam acris et ferri; ex quo intelligitur, adinventa animo, percepta sensibus, adhibitis opificum manibus omnia nos consecutos, ut teclî, et vestiti, ct salvi esse possemus; urbes, muros, domicilia, delubra haberemus. Tamwero operibus hominum, idest, manibus cibi etiam varietas invenitur et copia. Nam et agri multa ferunt manu quaesita, quae vel statim consumiantur, vel mandeniur custodita vetustali. Et praeterca vescimur besliis et terrenis, et aquatilibus, et volatilibus, partim capiendo, partim alendo. Efficimus etiam domitu nostro quadru- pedum vectiones: quorum celeritas atque vis nobis ipsis affert vim et celeritatem. Nos onera quibusdam bestiis, nos iuga imponimus ; nos elephantorum acutissimis sensibus, nos sagacitate canum ad utilitatene nostram abulimur; nos e terrace cavernis ferrum elicimus, rem ad colendos agros necessariam ; nos aeris, argenti, auri venas, penitus abditas, invenimus, et ad usum aptas, et ad ornatum decoras : arborum autem consectione, omnique materia, et culta ei sylvestri partim ad calefaciendum corpus, igni adhibito, et ad mitigandum cibum utimur; partim ad aedificandum, ut, tectis septi, frigora, ca- loresque pellamus. Magnos vero usus affert ad navigia facienda, quorum cursibus suppeditantur omnes undique ad vitam copiae ; quasque ves violentissimas natura genuit, carum moderationem nos soli ha- 236 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE o produce (); organo del tatto che nell'uomo è squisitissimo (8), perchè, a così dire, il più oggettivo de’ sensi, quello che ci desta più vivo il sentimento del ron io, che più ci giova a distinguere da noi e fra loro gli oggetti ed a renderceli più noti, a conoscere le proprietà geome-. triche de'corpi, aformarci le nozioni di distanza, di moto, di numero, di tempo e di misura (8), vivo compasso che presuppone il geometra, ma non lo costituisce (), nè solo, come pittorescamente disse il bemus, maris atque ventorum, propter naulicarum rerum scientiam, plurimisque maritimis rebus fruimur atque utimur. Terrenorum item commodorum omnis est in homine dominatus. Nos campis, nos montibus fruimur; nostri sunt amnes, nostri lacus; nos fruges serimus, nos arbores; nos aquarum inductionibus terris foecunditatem damus ; nos flumina arcemus, dirigimus, avertimus; mostris denique manibus in rerum natura quasi alteram naluram efficere conamur ». De natura Deorum, II. 60. (1) « Homini autem (sapiens enim est hoc animal, et solum eorum, quae sunt in terra divinum ) pro omnibus simul defensoriis armis manus dedit, instrumentum ad omnes quidem artes necessarium ; paci vero non minus quam bello idoneum ». Così Galeno, op. cit., lib.I, c. 2, conlinuandosi ad enu- merarne parlitamente, come pur ora abbiamo letti in Cicerone, i singoli uffizi e le comodità. Cf. infra nota 4. (2) Altri animali, dice il citato Bell, ci vincono nell’acutezza della vista, o nella finezza del- l’odorato, o dell’udito, niuno ci supera nella squisitezza tattiva della mano: « 77e find every organ of sense, with the exception of that of touch, more perfecly in brutes than in man. In ihe cagle, hawk, gazelle, and feline tribe the perfection of the eye is admirable ; in the dog, wolf, hyaena, as well as birds of prey, the sense of smell is inconccivably acute; and if we hesitate to assign a more eaquisite sense of taste to the inferior animals, we can not doubt their superiority in that of hearing. But in the sense of touch, seatel in the hand, man claims the superiority ». Op. cit., ch. VII, pag. 220. (3) « Touch is that peculiar sensibility which gives the consciousness of the resistence of external matter, and makes us acquainted with the hardness, smoothness , roughness, size and form of bodies. IV hile it enables us to distinguish what is external from what belongs t0 us, and informs us of the geometrical qualities of bodies, we must refer t0 this sense also our judgment of distance, of motion, of number and of time ». Ib., ch. VIII, pag. 139. (4) L’ingegno dell’uomo è coadiuvato dalla perfezione della sua mano, strumento proporzionale ed adeguato alla sua superiorità, come osserva acconciamente il sullodato Bell ( op. cit., ch. X, pag. 160): « The hand corresponds to the superior mental capacities with which man is endowed. The instrument is capable of executing whatever his ingenuity suggesis. Nevertheless, the possession of the ready implement is not the cause of man’s superiority; mor is its aptness for execution the measure of the attainments. So we rather say, with Galen, that man has a head, because he is the wisest of creatures, than ascribe to his possession of a hand, his superiority in knowledge ». Ed ecco il passo di Galeno a cui allude: « Ita quidem sapientissimum animalium est homo: ita autem et manus sunt organa sapienti animali convenientia. Non enim quia manus habuit, propterea est sapientissimum, ut Anaxagoras dicebat: sed quia sapientissimum erat, propter hoc manus habuit, ut reotissime censuit Aristoteles. Non enim manus ipsae hominem artes docuerunt, sed ratio. Manus autem ipsae sunt artium organa; sicut lyra, musici: et forceps, fabri. Sicut igitur lyra musicum non docuit, nec forceps fabrum, sed est uterque ipsorum artifex, per eam, qua praeditus est, ralionem: agere aulem non potest ex arte absque organis, ita et unaquaelibet anima facultates quasdam a sua ipsius substantia obtinet: efficere aulem ca quae nata est efficere, sine organis potest nequaquam. Quod autem corporis particulae animam non impellunt aut timidum, aut strenuum, aut sapientem fieri, manifeste videre licet, si animalia recens genita consideres, quae quidem prius agere conantur, quam perfectas habeant particulas. Ego enim PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO : 237 Gratiolet (®, afferra le idee, ma qual pantomimo le esprime (, nè le esprime soltanto momentaneamente, ma col magistero dell’arte le perenna. Inutile artifizio, ove manchi l'assoluta libertà della mano e l'indipendenza del braccio incompossibile coll’uffizio di gamba e di piede, nè altrimenti conseguibile che coll’eretto portamento (8). Di qui la maggiore lunghezza bovis vitulum cornibus petere conantem saepenumero vidi, antequam cei nata essent cornua (Cf. Lucret., V, 1033, sq.): et pullum equi calcitrantem mollibus adhuc ungulis: et aprum quemdam perpusillum genis se se tueri conantem, magnos dentes nondum habentibus; et catulum recenter natum, mordere affectantem, teneris adhuc dentibus. Omne enim animal suae ipsius animae facultates, ac in quos usus partes suae polleant maxime, nullo doctore praesentit. Aut cur parvus adhuc aper mordere dentibus exilibus cum possit, his quidem ipse ad pugnam non utitur, quos autem nondum habet, ris gliscit uti? Qua igitur ratione dici potest animalia partium usus a partibus doceri, cum et antequam illas habeant, hos ea cognoscere videantur® — Quapropter caetera quidem animantia mihi, naiura magis quam ra- tione, artem aliquam exercere videntur: - homo autem sicuti corpus armis nudum, ita et animam artibus destitutam habet. Proinde pro corporis nuditate manus: pro animae inertia imperitiaque, ra- tionem ‘accepit : quarum usu, corpus quidem armat, et malis omnibus custodit: animam autem omnibus ornat artibus. Sicut enim si innata sibi aliqua haberet arma, illa ei sola semper adessent: ita et si artem aliquam natura sortilus esset, reliquas sane non haberet. Quia vero ci melius erat, omnibus armis, omnibusque arlibus uti, neutrum corum a natura ipsi propterea datum est. Pulcre igitur Ari- stoteles manum velut organum quoddam ante organa esse dixit: pulcre autem el aliquis nostrum, Ari- stotelem imitatus, ralionem velut artem quamdam ante artes esse dixerit. Sicut enim manus, quamquani nullum sit eorum, quae particularia sunt organa, quia tamen omnia potest recipere, organum est ante omnia organa; ita et ratio nulla quidem ex artibus est particularibus, omnes autem in se ipsas recipere nata est, ob id ars ante artes fuerit. Homo igitur animalium omnium solus, quum artem ante artes in anima habeat rationem, optimo iure organum anie organa in corpore manum possedit ». ©p. cit., 1.I, c. Bet 4. (f) V.sopra, pag. 232, nola 1. (2) « Manus vero, sine quibus trunca esset actio ac debilis vix dici potest, quot moius habeant, quum poene ipsam verborum copiam persequaniur. Nam cacterae partes loquentem adiuvant, -hae, prope est ui dicam, ipsae loquuntur. His poscimus, pollicemur, vocamus, dimittimus, minamur, supplicamus, abominamur, timemusj gaudium, tristitiam, dubitationem, confessionem, poenitentiam, modum, copiam, numerum, tempus ostendimus, Non concitant? inhibent? supplicant? probant? admirantur? verecundantur? Non in demonstrandis locis ac personis adverbiorum atque pronominumobtinent vicem? UL in tanta per omnes gentes nationesque linquae dipersitate hic mihi omnium hominum communis sermo videatur. Et hi quidem, de quibus sum locutus, cum ipsis vocibus naturaliter exeunt gestus; alii sunt, qui res imitatione signi* ficart.......quod est genus quam longissime in aclione fugiendum. Abesse enim plurimum a saltatore debet orator, ut sit gestus ad sensum magis, quam ad verba accommodatus : quod etiam histrionibus paulo gravioribus facere moris fuit ». Quintilianus, /rstitut. Orator., lib. XI, c. 3, nn. 85-89. (3) V.sopra pag.211, nota 1; pag. 233 nota 1, 234 nota 2. « Per vero dire la posizione relta, o ‘esaillamente verticale era l’unico mezzo di attribuire senza molestia alla nostra specie un voluminoso cervello, e la libertà delle mani, stromenti indispensabili per eseguire gli atti e le invenzioni dell’intelligenza, ed ecco la ragione per cui l’uomo è il solo bimarno e bipede. - Le scimie, benchè assai disinvolte, non hanno giammai la facilità dei movimenti che sono propri della nostra mano. In noi poi il radio s’ articola coll’ omero in tal modo, che possiamo con maggiore facilità delle scimie ruolare il braccio in pronazione e supinazione; d’altronde cotali animali avendo bisogno sempre delle mani per arrampicarsi, o per camminare (e gli stessi orangolani, i più prossimi alla specie umana, non puonno andare costantemente relli al pari di noi), da ciò accade che le loro mani non sono mai libere come le nostre, ciò che a noi è di vantaggio sommo ». Virey, Compendio 238 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE e robustezza degli arti inferiori destinati a reggere da soli e trasferire il corpo (!); quindi più pieno, fermo e stabile il piede, meno sciolto e più poderoso l’alluce @), più lungo il tallone, più svolti e raggruppati nel polpaccio i muscoli gemelli e solèo ), più ampia la pelvi, più largo di storia fisica e morale dell’ uomo, traduzione del signor Bergamaschi, Torino 1853, pag. 17, 27-28. V. sopra pag. 226; nota 1 e la nota 2 della pagina seguente. (1) V. sopra pag. 211-212, nola. « Noi vediamo che l’uomo è atio all’incesso eretto: 1° Perla struttura del piede, come fu sopra dimostrato. 2° Per la cortezza e debolezza degli arti anteriori. Questi sono meschini e deboli, confrontati coi posteriori. Se l’uomo volesse camminare con tutte e quattro le estremità, egli batterebbe col ginocchio il tetreno, e pel calibro delle arterie carotidi che portano il sangue al capo sarebbe in pericolo di perire per apoplessia. 3° Per l’ossatura e la muscolatura della gamba. Forse in nessun animale gli arti posteriori sono sì robusti come nell’uomo, confroniati colla massa del restante corpo; e ciò, perchè essi hanno l’incarico di portare da soli il corpo umano. - Nelle scimie la cosa è diversa; vivendo esse principalmente sugli alberi ed es- sendo perciò chiamati gli arti anteriori a compiere un ufficio più grave dei posteriori, vediamo quelli di ossatura e di muscolatura più robusla che questi ». Canestrini, op. cit., pag. 54-55. (2) V. sopra pag. 218-223, 226-27, nole. « Non è che l’uomo solo che ha vere mani, l’unico de- slinalo a camminare relto; imperocchè le scimie, anche le più perfette, non stanno sui loro piedi che oscillando, ed aiutansi colle loro lunghe braccia, non essendo che l’uomo solo fra tutte le scimie, ce gli altri quadrupedi, capace di sostenersi in equilibrio sopra d’un solo piede (Virey, op. cit., pag. 21); » anzi sull’estremità d’un solo dito, cioè dell’ alluce solo, come si vede nel danzatore che sovresso s’aggira e turbina, quasi s’ un palèo. (3) « Il piede dell’uomo ha un tallone più allungato che quello delle scimie, che giammai po- sano sulla tetra; quindi la forza de’? muscoli gemelli e solari che compongono il polpaccio delle gambe nell’ uomo, annuncia evidentemente il loro ufficio, quello cioè di sostenere la massa del corpo, e questo manca alle scimie. — I piedi delle scimie sono quasi mani poste obliquamente : hanno poi un calcagno assai corto, ed il tallone un poco rilevato in maniera che volendo esse sostenersi piane sopra il suolo, cadrebbero in addietro, quindi si sostengono sopra il metatarso, ed anco sul bordo esterno del piede, e non dalla parte del pollice, che, essendo oltremodo corto e rilevato, può opporsi alle lunghe dita del loro piede, come a quelle delle mani. Risulta adunque, che le scimie non camminano, e questi quadrumani sono deslinali a vivere piuttosto sopra gli alberi, e a nutricarsi delle loro frutta; diffatli esse arrampicano meglio dell’uomo, e la stazione dell’orangotano (simia satyrus Lin. ), e del chimpanzè (simia troglodytes Lin.), e delle scimie le più perfette senza coda dell’ antico continente, dee adunque essere obliqua, o trasversale: così questi animali, soprattuto i gibboni (simia lar Lir.), hanno a differenza dell’uomo le braccia in proporzione più lunghe che non le gambe, ciò che loro è di sommo aiuto per abbrancare da lungi i rami degli alberi, e lo stesso rilevasi ne’ maki (/emur); all'opposto nella locomozione dell’uomo voleansi e coscie e gambe più robuste, e meglio conformate che quelle delle scimie; l’uomo ha i malleoli de’ muscoli gastrocnemii assai robusti, e più forti degli altri animali affine di tener relte le gambe, ed avendo le scimie questi muscoli gracilissimi e attaccati meno alti sul femore, sono obbligate a tenere alquanto le ginocchia semipiegate, quindi non sono mai ben ferme sul suolo ; l’uomo d’altronde poggiando il suo piede piano, il calcagno, o il tallone rilirato in addietro, sostiene il peso del corpo, e per una tale disposizione di membra, mentre noi siamo meglio con- formati per camminare, non possiamo in vece così facilmente arrampicarci (Virey, op. cit., pag. 20, 28) ». Quanto ai muscoli gastrocnemii osserva pure il Canestrini ( op. et]. cit.): « Con ragione dice Vogt, ].c., pag. 179: Or peut dire avec parfaite raison que l’homme seul a une cuisse, le singe na quun gigot. De meme, les masses musculaires de la jambe sont rassemblées chez l'homme pour PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 239 il petto, l'articolazione del femore coll’osso degli ilii, mercè d'un con- dilo posto obliquamente, acconcia al maggior sostegno del tronco, o stia l’uomo in piedi o seduto (!), ed a mantenere le estremità inferiori 2 in retta linea colla colonna vertebrale (8), curvabile alternativamente faire le mollet, tandis que, chez les singes, ces mémes muscles sont plus régulièrement répartis relati- vement à leur volume». E quanto al gorilla segnatamente: « Les extenseurs du pied qui se réunissent au tendon d’ Achille, c’est-à-dire les jumeaux et le solaire, ont, chez le gorille, les plus remarquables modifications comparés è ceux de V’homme. Leurs faisceaur musculaires descendent jusqu'à linsertion de ce tendon au calcantum, et ne s'arrétent pas à la partie supérieure et moyenne de la jambe pour y produire cette suillie quon appelle le mollet dans homme. Cette longueur doit leur donner une étendue de contraction beaucoup plus grande que chez Vhomme. La méme disposition se voit dans les autres singes. Nous avons observée plus parliculitrement dans les singes supéricurs et dans le magot, et elle explique V’absence de mollet, signalce depuis longtemps chez ces animaux grimpeurs, comme demontrant qu'ils ne sont pas fait pour la station etla progression sur deux pieds ». Duvernoy, op. et I. cit., $ XVIII. 1) « Il petto largo dell’uomo contrasta pure con quello de’ quadrupedi che è compresso sopra le costole, e le ossa de’ fianchi e del bacino nella specie umana sono più larghe e più appianate che quelle degli altri animali, ciò che accresce la solidità della retta posizione, dando un punto d’appoggio più fermo ai muscoli che vi si attaccano; così l’uomo ha le natiche più grosse, gonfie, e più robuste che i quadrupedì. — Il nostro bacino, che è largo, presenta grande superficie al- l’altacco de’ grossi muscoli; l'articolazione del femore coll’osso degli ilii si fa mercè d’un condilo, o di un capo posto obliquamente; ciò che estende vieppiù cotesta base pel sostegno del tronco, e muscoli glutei solidi e vigorosi mantengono comodamente rette le vssa delle coscie. Da ciò risulta lo sporgimento delle natiche, che non csservasi nelle scimie; quinci, quantunque esse sie- dano, pure ci stanno sempre con fatica. Adriano Spigel trova in questa sorta di cuscinetti naturali per sedersi, una cagione della facilità che noi abbiamo di stare lungamente fermi in riflessione: ciò che non si osserva negli animali. - L’orangotano.... non tiensi mai ritto, ma le sue ginocchia sono sempre in semiflessione, e il camminar suo è vacillante, e sovente è costretto sostenersi con le sue lunghe braccia, che poggia in terra. Generalmente la scimia non passeggia ritla, ma s’a- vanza tenendo le mani alquanto discoste in avanti da lei, e facendo camminare la parte posteriore del suo corpo tutto in un pezzo, alla maniera di un uomo, che non avendo nè coscie nè gambe fosse costretto farsi strascinare : quinci la sua posizione è costantemente diagonale: trovasi pure il bacino dell’orangotano più angusto di quello dell’uomo, imperocchè, non tenendosi ritto, non gli era necessaria una così larga base di sostegno, come a noi ». Virey, op. cit., pag. 20, 29-30. « Mentre nell’ uomo il bacino assume la forma indicata dal nome stesso, nella scimia è lungo e stretto, serve poco pel sostentamento delle intestina ed ha lo scopo principale di dare inserzione alle estremità posteriori ». Canestrini, op. cit., pag. 55. V. sopra pag. 212-213, nola, e pag. 233, nola 1. V. infra la nota 1 della pagina seguente. (2) « Rectus autem solus animalium omnium homo est: soli enim ipsi secundum rectitudinem crurum est spina: quod si ea est, profecto et reliquum omne corpus ad vitam necessarium: nam quaedam veluti carina est spina huius corporis, et ad hane, crura ipsa avibus quidem ut et quadrupedibus angulum rectum efficiunt; solis autem hominibus , una recta linea extenduntur. Talem igitur figuram crura ad spinam habent in quadrupedibus et volatilibus animalibus dum ambulanti, qualem hominibus sedentibus; ob eamque causam paulo ante dictum est, nullum corum unquam stare rectum. - Qui igitur fit ut illa sedere nequeant, sicut homo, ipsis ischiis innitentia ?_ Hoc enim adhuc videtur deesse sermoni, quod oporteat crura ischiis copulata, in femoris ad tibiam dearticulattone retrorsum flecti. Spina quidem ipsa cum femore, dum sedemus, angulum rectum efficit, femur vero rursus, misi ad tibiam alium talem efficiat angulum, nequaquam recte ad terram tibia foret: ob idque securitas sessionis corrumperetur. 240 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE nella triplice sua regione cervicale, dorsale e lombare (1), sormontata non già da un acchiappatoio o ceffo ferino (®), ma dal capo eretto e sublime (3) che sovr’essa, per la mediana posizione del gran foro — Quocirca cum una quidem recta linea sit spina cum cruribus, ad tres differentias figurarum agi animal potest; cum sì ipsam quidem spinam humi reclinaverit, supinum ‘omnrino fiat: si ventrem, pronum: si firmetur pedibus, tune exacte stat rectum: si vero aliquem angulum crura ad spinam fe- cerint, constat nullam carum figurarum exacte esse rectam. Quare iure optimo diximus hominem solum stare rectum ». Galeno, op. cit., lib. INI, cap. 2 e 3. Onde il Gratiolet nella sullodata conferenza (op. et l. cit., pag. 38, conchiuse pur egli: « La station verticale reste donc le privilege de V homme, noble symbole justement celcbré par les poètes, et nous pourrions rappeler ici les vers d’Ocvide, s'ils n'etaient dans toutes les mémoîres ». V. infra nola 3. (1) « Je n’aî pas besoir de rappeler ici les trois courbures principales de la colonne vericbrale dans notre espece, en opposition à la courbure indiquée dans les quadrupèdes; ainsi que toutes les circons- tances organiques des membres et de Varticulation de la ttte, qui les forcent è se maintenir dans la progression sur deux pieds la face en avant. - Cette colonne (vertebrale ) y forme (dans les singes supérieurs) 7 seul ressort en arc qui se tend ou se detend, s'ouvre ou se ferme, comme chez tous les quadrupèdes, pour la station, la marche, la course ou le saut. » (Duvernoy, Op. cit., pag. 231). Vedi sopra pag. 223, nota in fine. (2) Vedi sopra pag. 206, nota (1). (3) Fu comune ed universale nell’antichità la persuasione che l’eretta stazione dell’uomo accen- nasse alla sua origine e destinazione celeste, e la trovi espressa vuoi da filosofi, vuoi da oratori e poeti, greci o latini, così gentili, come giudei o cristiani. Ed eccone in questa ed in altre successive nole parecchi esempi: « Sanctus his animal, mentisque capacius altae Deerat adhuc, et quod dominari in caetera posset. Natus homo est: sive hunc divino semine fecit Ille opifex rerum, mundi melioris origo : Sive recens tellus, seductaque nuper ab alto Aethera, cognati retinebat semina coelì. Quam salus Tapeto, mixtam fluvialibus undis Finxil in effigiem moderantium cuncta Deorum. Pronaque quum specieni animalia caetera terram, Os homini sublime dedit, coelumque tueri Iussit et erectos ad sidera tollere vultus. Sic modo quae fuerat rudis et sine imagine tellus, Induit ignotas hominum conyersa figuras. » Così Ovidio, Metamorph., I, 76-88; e Silvio Italico, XV, 84: « Nonne vides, hominum ut celsos ad sidera vultus Sustulerit Deus, ac sublimia finxerit ora? » E Bentley che allega nelle sue nole il cilato brano di Ovidio, soggiunge ; « Zrde homo Graecis 4ySporos dicitur. » E così pure era paruto a Lattanzio, il quale similmente, dopo allegati i tre surriferiti versi di Ovidio 84-86, prosegue: « Hire utigue &v3pwrov Graeci appellarunt, quod sursum spectet (Div. Inst.; II, 4); » cioè, come leggesi nell’ Etimologico, « rapà tè &vw GSpriv a sursum aspiciendo. » E vi consente Platone nel Zimeo (V. infra nota 1 della pag. 242), sebbene nel Cratilo (339 C) ricorra ad altra etimologia: « èvre0dev di povov t@v Snplwv épSdis &vSpwros &vSpwros @vophaTn, dvaSpiv & èrnwrz. Hinc merito solus ex omnibus animantlibus homo &vSpwros est nuncupatus, quasi èvaSpiv (i. e. contemplans) quae drwre (i. e. vidit). » PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 240 occipitale (!), bilicato nell’attitudine di chi specula (®) ed impera 0), si rivela sede del pensiero di chi numera gli astri e li pesa, e risale alla (1) « La posizione del capo sopra il collo, e la colonna vertebrale determina la stazione del corpo di ciascun animale. Nell'uomo il foro occipitale essendo presso a poco tra la faccia e il di dietro del capo, mantiene questo in equilibrio sopra le vertebre del collo, ciò che era indi- spensabile al dire di Dauberton (Mem. dell’Acc. delle Scienze, 1764, facce. 563). » Virey, Op. cit., pag. 17. Ed il Canestrini allega per quinto carattere differenziale dell’uomo dalle scimie, « la posizione del grande foro occipitale, collocato ((2e/’uor0) molto in avanti ed in guisa che nella stazione erelta del corpo il capo sta in bilico sulla colonna vertebrale. Al contrario osserviamo che nelle scimie il foro occipitale è posto molio indieiro, e poichè la testa non è in bilico sulla colonna vertebrale, vediamo svilupparsi ampiamente le apofisi spinose delle vertebre dorsali ed il legamento cervicale (Op. cit., pag. 53). » Quanto a quello del gorilla, ne iien luogo « l’apo- nevrose occipito-cervicale. Cette aponevrose tient lieu de îigament cervical; elle est très-remarquable par son étendue, par son cpaisseur dans la ligne mediane et par ses attaches à tvute la créte saillante _ qui surmonte la face occipitale et par ses rapports soit avec le peaussier, dont les faisceaux viennent S'y perdre en arrière, soit avec le trapèze, soit avec le temporal. Cette aponévrose ligamenteuse qui recouvre toutes les parties de la région occipito-cervicale, donne à cette partie du gorille cette apparence singulière de porter un capuchon. Elle augmente en épaisseur à mesure que on l’obserse plus près de la ligne mediane occipitale, où elle a l’cpaisseur extraordinaire de deux centimetres. - La partie la plus profonde s'insère par des faîsccaux nombreux à la face exierne la plus saillanie de la région occipitale, puis d’une manitre continue à la partie supérieure et moyenne de la créte occipitale. Les plus fortes insertions sont dans la ligne mediane. C'est de là que cette sorte de ligament cervical horizontal et superficiel au lieu d’étre vertical et profond, se porte en arrière et en descendant vers les grandes apophyses épineuses des veriàbres cercicales auxquelles cette aponcvrose ligamenteuse vient se fixer d’autre part. - Dans le jeune gorille achesant la dentition de lait, il n°y avait encore qu’une couche cpaisse de plusieurs millimètres de graisse sous-cutance, sans développement bien apparent de ce tissu fibro-ligamenieur. Aussi n'y a-t-il pas de créte occipitale sensible. La structure de cette aponévrose dans l’adulte est uniquement fibreuse, et nullement élastique, ainsi que le démontrent les tiraillements qu'on exerce sur elle et les observations microscopiques. On n’y voil pas de réseaux dlastiques, mais seulement des faisccaua de fibres parallèles. » (Duvernoy, op. cit. pag. 174-173). « Le gorille est de tous les singes celui chez lequel les crétes sagittale et occipitale sont, à Vétat adulte, les plus enormes. L’énorme développement des canines, la saillie considérable des crétes craniennes, l’allongement du museau à Vétat adulte, sont autant de caracières que le gorille partage avec ce dernier genre (scimia). » Isidore Geoffroy Saint-Hilaire, Archives du Muséum etc. Tom. X, pag. 26, 50. Cf. Bianconi, op. cit. pag. 15. Ù (2) Seneca, De oto Sapientis, cap. 32: « Nec erexit tantummodo hominem, sed etiam ad coniem- plationem fuctum , ut ab ortu sidera in occasum labentia persequi posset, et vultum suum circumferre cum toto, sublime fecit illi caput, et collo flexibili imposuit. » E Cicerone meglio ancora avea scritto: « Ad hanc providentiam naturae tam diligentem, tamque soleriem, adiungi multa possunt, e quibus intelligatur, quantae res hominibus a Deo, quamque eximiae tributae sint; qui primum eos humo egcilatos, celsos el erectos constituit, ut Deorum cognitionem, coelum intuentes capere possint. Sunt cnim e terra homines, non ut incolae aique habitatores, sed quasi spectatores superarum rerum atque coelestium, quarum spectaculum ad nullum aliud genus animantium pertinet. Sensus autem interpreles ac nuntii rerum ; în capite tamquam in arce, mirifice ad usus necessarios et facli et col- locati sunt. Nam oculi, tamquam speculatores, altissimum locum obtinent; ea quo plurima conspi- cientes, fungantur suo munere. » ( De Natura Deorum, II, 56). (3) « La téte est poste è peu près en équilibre, sur la première vertebre, et maintenue presque sans effort, la face en avant, dans l’attitude du commandement, suivant lheureuse expression de Serie JI. Tom. XXIV. 3I a 242 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE Di) fonte da cui deriva (‘); aula della parola in cui il pensiero s’impronta e di forma sensibile si riveste; ora imperiosa quale s’addice al terrestre sovrano; ora supplice quale si conviene al cittadino celeste, simbolo Buffon. » (Duvernoy, op. cit., pag. 224). « Questo allungamento (del muso) abbassa l’animale verso terra, obbligato a camminare a quattro gambe, per cagione della conformazione del suo capo che non è in equilibrio sopra il collo come nell’ uomo, ma propende in basso come per indicare la natura terrestre de’ suoi appetiti. L’uomo all’opposto, portando la testa alzata ed altiera, contempla i cieli, misura co’ suoi sguardi il vasto dominio dell’universo ; il suo alteggia- mento è diritto, ed è quello del comando e della superiorità ; l’animale si curva e passa tremando innanzi a lui, non ‘osando alzare gli occhi sopra quella fronte maestosa, che porta l’impronta d’un’ origine celeste. Esso è destinato a camminare ritto, e non calcando la terra, che colle sue estremità, sembra allontanarsene per tendere continuamente al cielo, eredità eterna e patria comune del genere umano ; mentre il bruto inclinato al suolo, porta i suoi sguardi co? suoi desiri verso quella stessa terra da cui è sortito, e che dee un giorno tuito inghiottirlo. » (Virey, Op. cit., pag. 17). ; (1) Odasi Platone: « 7ò dè mspt cod xupratitov rap’ iiuù pa aùrò x PA Dro 9 dA papuev olxeîv pev vipuiso ÈT° Unpo 76 cdpart, mpòs dè tn» Ev oùpavi Di IS È S S N w fo Ri È qn x È a di {SP} È Si e x Bi a (SÌ c 7, Ela) ATÒ Y7s iuas alpe ds Gvras putòv odx Eyzzt0v, @k odpavov, GpSétata \éyovtes® Ereîdev yùp odev n mpwta is Wuyis yéveats €90, tò Setoy tiv xepadny ol pidav pay avarpepayyy OpSot nùv TÒ cous. Quod autem ad principem in nobis animi speciem attinet, sic sentiendum est, cam genium a Deo cuique datum esse illud, quod residens in summo corpore nosiro ad coelestem cognationrem a terra nos, ulpote coelesti , non terrena stirpe satos , extollere dicimus rectissime; nam unde prima animi nata est origo, inde caput et radicem nostram suspendens numen erigit corpus totum. » (Timaeo, 90, 4). Vedi anche Filone, De eo quod deterius potiori insidiari soleat, cap. 23; De plantatione Noe, capp. 4-5, ed. Mangey, I, 207, 382. Coi greci filosofi consentono i latini ; ed il già citato Cicerone, De legibus, I, 9. « Ipsum autem hominem eadem natura non solum celcritate mentis ornavit, sed cliam sensus, tanquam satellites, attribuit, ac nurtios ..... figuramque corporis habilem atque aptam ingerio humano dedit. Nam quum cacteras animantes abiecisset ad pastum, solum hominem erexit, ad coglique, quasi cognationis, domiciliique pristini, conspecium excitavit; tum speciem ita formavit oris, ut in ca penitus reconditos mores effingeret. Nam et oculi nimis arguti, quemadmodum animo affecti simus, loquuntur : et is qui appellatur vultus, qui nullo in animante esse, praeter hominem, potest, indicat mores; cuius vim Graeci norunt, nomen omnino non habent. Omitto opporiunitates, habilitatesque reliqui corporis, moderalionem vocis, orationis vim, quae conciliatrix est humanae maxime societatis. » Ed il Cicerone cristiano, cioè il sullodato Lattanzio: « /Vam cum caeterae ani- mantes pronis corporibus in humum specient, quia ralionem ac sapientiam non acceperunt; nobis autem status recius, sublimis vultus ab artifice Deo datus sit: apparet, istas religiones Deorum non esse rationis humanae; qui curvant coeleste animal ad veneranda terrena. Ipsi ergo sibî renuntiant, seque hominum nomine abdicant (V. sopra 240, nota 3 in fine), qui ron sursum aspiciunt, sed deorsum, nisi forte idipsum, quod recti sumus, sine causa homini attributum putant. Spectare nos coelura Deus voluit, utique non frustra: nam et aves, et ex mutis pene omnia coelum videni; sed nobis proprie datum est, coelum rigidis, ac stantibus intueri; ut religionem ibi quaeramus; ut Deum, cuius sedes illa est, quem oculis non possumus, animo contemplemur, quod profecto non facit, qui aes aut lapidem, quae sunt terrena, vencratur. Est autem pravissimum, cum ratio corporis recita sit, quod est tem- porale, ipsum vero arimum, qui sit aeternus, humilem fieri; cum figura et status nihil aliud signi ficent, nisi mentem hominis eo spectare oportere quo vullum, et animum tam rectum esse debere quam corpus, ul id, cui dominari debet, imitetur. » (Op. et l. cit.). PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 249 pur essa di quel nesso, di quel vincolo eminentemente religioso di cui l’uomo è la personificazione, vincolo che rilegando il sensibile coll’intel- ligibile, questo col sovrintelligibile e col sovrannaturale, rilega la terra col cielo, la natura con Dio. Ed ecco di quali e quante differenze sia condizione ed accenno l'e- retta statura ed andatura dell’uomo, bimano perchè bipede, e come tale condizionato all'esercizio dell’intelligenza e della sovranità (1), lad- dove tutto nelle antropoidi è correlativo all’andamento quadrupede (2) ed (1) « Quant aux differences, que nous avons signalces dans ce méme plan de composition, relativement a Vanatomie de l'homme, elles tiennent evidemment et essentiellement à son mode de progression sur deux pieds, et è la position verticale de son corps dans ses mouvements de translation et dans la station. Toutes les parties de son squelette sont coordonnees pour ce mode de station sur deux pieds et de pro- gression. La téte est posce à peu près en equilitre, sur la première vertébre, et maintenue presque sans effort, la face en avant, dans l’attitude du commandement, suivant l’heureuse capression de Buffon. Les courbures alternatives de la colonne vertebrale, dans les trois regions cervicale, dorsale et lombaire , maintiennent le centre de gravité dans un plan vertical, que limitent ces trois courbures en avant et en arriètre. Le poids du corps est ainsi transmis au sacrum, du sacrum au bassin, de celui-ci aux fémurs, aux os des jambes et aux pieds, dont Vétendue et V’écartement agrandissent le plan sur lequel la verticale du centre de gravité vient tomber, et dont la forme un peu voiiée peut soutenir, sans trop de fatigue, et sans lesion, le poids de tout le corps. Il y a dans la forme des articulations de toutes les parties mobiles du squelette et dans les ligaments qui les maintiennent en rapport, toutes les disposilions organiques nécessaires pour cette progression et cette station verticales. Les extremites inferieures de Vhomme forment de longs leviers pour la progression; ‘tandis que les superieures, réservées au besoin pour le toucher le plus delicat, ou pour saisir les plus petits objets, sont orga- nisees a la fois pour l'adresse et la force dans la mobilité de toutes leurs parties et dans leur lonqueur, qui est moindre que celle des extrémités inférieures. » (Duvernoy, Op. cit., pag. 124). (2) E l’ebbe dimostro il più fiate lodato Duvernoy: « On verra dans ce Meémuire combien Vorga- nisation de ces singes s’éloigne à cet égard (des exirémités) comme à beaucoup d'autres, de celle de Vhomme, par de simples mais importantes modifications d’un méme plan; et avec quelle perfection ces modifications organiques sont approprices au genre de vie auquel les singes sont destinés, pour se tenir habituellement sur les arbres, y.rechercher leur nourriture, sy mouvoir en tous sens avec sùrete et agilité, et avec une mervcilleuse facilité, que comprend seul celui qui a ctudié cette admirable orga- nisation. - Le singe (pseudo-anthropomorphe) ......, gu? est orgarisé pour vivre sur les arbres, pour s'y mouvoir par elan d'une branche è l’autre, en se balancant suspendu par l’une ou autre extremité; qui s'éleve en saisissant avec ses longs bras une branche supérieure, e peut ainsi sur- monter tout le poids de son corps, et se soulever par les efforts d’une seule extrémité; le singe qui marche à quatre et non sur deux pieds, lorsque, par exception, il doit se mouvoir sur le sol, a toute son organisation admirablement arvangée pour Verercice de ces divers mougements qui le séparent neltement de V’espèce humaine dans cette partie essentielle de son organisation. Cette difference se ma- nifeste dans les grandes proportions-de ses extrémités anterieures, qui sont relativement très-longues, pour saisir au loin les branches d’arbres, dont le pouce est court et atteint à peine la base de la première phalange du second doigt. - Les extrémités postérieures ou pelviennes ont, au contraire, une bien moindre longueur relative. Tout y est disposé pour en faire de forts leviers, à Vusage de grimper sur les arbres pluiòt que de la progression sur le sol. Le femur et les os de la jambe sont forts et courts. Le pouce, ou le gros orteil, s'y trouve articulé, par son métatarsien avec le premier cunei- 244 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE alla condizione di frugivoro (1), competendo ad esse sovranamente il detto oraziano : forme, dans une abduction permanente. Il y est méme plus opposable aux autres doigts, plus fort, et surtout beaucoup plus long que dans la main antcrieure. - La connaissance plus complete que j'ai pu acquerir du genre Troglodyte, au moyen du squelette adulte de la nouvelle espèce (le Tschégo) et d’un jeune squelette bien complet de l’ancien (le Chimpanzé ), n'a permis, par la comparaison que jen ai faite avec les squelettes des genres gorille, orang et gibbon, d’etablir les caractères de ce groupe supérieur de singes pseudo-anihropomorphes, ceux des quatre gentes qui le composent, et les rapporis plus ou moins éloignés de ces mémes gerres avec le squeleite humain, sans parler de la ca- pacité cranienne, qui est faible dans tous ces singes, comparée à celle de l'homme, et du grand dese- loppement de leurs machoîires; tous ces singes pseudo-anthropomorphes ont, dans leur squeletie, un caractère commun qui les scpare beaucoup de l’espece humaine, c’est la grande proportion de leurs canines, et la forme conique de leur première molaire inférieure, toujours plus forte que la seconde. Leur colonne vertebrale, dans les trois regions, cervicale, dorsale et lombaîre, ne forme qu’un seul are très-ouvert du còté ventral, c'est là un caraciere cvident de la marche quadrupède. Les grandes proportions des extrémites thoraciques comparalivement aux extrémités abdominales, distinguent encore essentiellement ces quatre genres et les séparent de l’espece humaine. » E quanto. al gorilla segnata- mente: « Le gorille s’éloigne beaucoup de l'homme par tous les caracières que presenteni les details des vertèbres qui composent sa colonne vertebrale. Il a trcize còles dans l’un et V’autre sexe, qui sont remarquables par leur longueur absolue et relative, dans le mdle encore plus que dans la femelle; je dis absolue, à cause de la vaste cavité qu'elles interceptent avec le sternum et les vertèbres dorsales ; et relative, parce que cette cavité s'éevase considérablement, des premitres aux dernières còtes, et que celles-ci sont bien plus longues, à proportion, que chez homme. Si l'on ajoute qu'elles vont s'attacher aux créles des iléons et que les lombes disparaissent dans cet arrangement, on 1 trouvera un caracière tròs-particulier. Pour le comprendre il faut voir la forme ei le développement extraordinaire des ilevns, dont la grande surface du còté de l’abdomen semble arrangce, comme chez les herbivores, pour servir de paroî à une vaste cavité abdominale; ainsi que le montrent les dimensions de leurs cotes et leur rapprochemert du bassin, pour proteger les viscères abdominaux ». Op. cit. pag. 61, 124-125, 59, 53 cf. sopra pag. 227, nola 1; pag. 229, nota 2; pag. 230, nota 2; pag. 238, nota 3, pag. 240, nota if. — Quanto alla minore capacità craniale ed al difetto d’intelligenza, vedi sopra pag. 203, nola 2, Come la perfezione e prestanza dell’umano organismo, e la sua attitudine ad essere lo strumento dell’umana superiorità dipenda e risulti dall’eretta statura, lo dimostrò pure Herder nel primo e secondo paragrafo del quarto libro de’ suoi Propylier der Geschichte der Menscheit. (1) « Ces singes pseudo-anthropomorphes ont un caractèàre commun, qui les sépare dejà beaucoup de l'homme; c'est la grande proportion de leurs canines dont Vinférieure vient se placer, quand les mdchoires sont rapprochées, dans un petit intervalle qui existe entre l’incisive externe et la canine supérieure. Un second caractère de leur dentition se voit dans la forme conique de la première avant- molaire inféricure, qui est d’ailleurs toujours plus forte que la seconde, et dont la canine supérieure use la face antérieure en l’inclinant en arriere. — L’usure des molaires, et l'on ne avait pas remarque avant moi, que je sache, est toujours plus grande sur leur coté interne à la mdchoire superieure et sur leur cole ealerne à l'inferieure, comme chex les ruminants. Pen ai conclu à une mastication laterale, analogue à celle de ces derniers, quoique moins ciendue ou plus limitce. Jai insiste sur la forme du bassin dans ces singes superieurs, sur l’extréme developpement des iléons dans le gorille; sur leur jonctior avec les dernières cotes, pour montrer que cette forme et ces rapports ctaient destines à proteger la grande capacité abdominale, et les viscères qu'elle renferme, comme chez les herbivores. Et cette circonstance organigue m’a paru confirmer ainsi que le grand développement du ventre chez ces singes, la demonstration de leur régime phytophage oufrugicore ». Op. cit. pag. 50, 223-224, Vedi la nota precedente. Quanto! al gorilla segnatamente, PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 245 « Nos numerus sumus et fruges consumere nati (1). Imperocchè, l’unità e semplicità del principio organizzatore, impor- tando necessariamente il mutuo congegno e contemperamento di ciascuna parte e funzione, siccome tutte dapprima potenzialmente in esso com- prese, e quindi per la vitale e plastica di lui virtù svolte e conservate, fa sì che nel raffronto di due diversi organismi, oltre al considerare le singole parti di ciaschedun organo, nè già di per sè, ma relativamente alle rispettive di lui funzioni, si debbano altresì l'uno e l’altro risguar- dare in correlazione all’intiero organismo, non competendo loro un nolandone le differenze dentali, così continua il Duvernoy: « A la mdchoire supérieure, la première avant-molaire est plus forie que la seconde, et conserve une forte pointe caterne qui lui donne l’appa- rence d’une seconde canine, et une moindre pointe interne, lorsque celles des. arrière-molaires sont déjà usces en grande partie. Les pointes interne et eaterne de la seconde avant-molaire sont également fortes. Les arrière-molaires n’ont que quatre pointes, dont les internes sont plus reculées que leurs correspondanies du còté caterne. A la mdachoire infericure, la première avani-molaire, beaucoup plus forte que la seconde, a la forme d'une pyramide à quatre faces, c'est celle d'une seconde canine. Les ‘arrière-molaires sont à cinq pointes, trois eaternes et deux internes, avec un petit talon en arritre. Celles-ci s'usent plutòt que les internes. C'est le contraive è la mdchoire supérieure. Ce genre d’usure analogue à ce qui a lieu chez les herbivores, annonce une mastication laterale. La seconde des troîs arritre-molaires supericures est la plus grande chez le gorille, et la première lu moins grande des trois. A la mdchoire inférieure c'est la dernière qui est la plus compliquee, puisqu'elle monire une sicitme pointe interne entre les deux principales. Elle est aussi moins grande que la seconde. Les canines co- niques dune grande force aux deux michoires, mais plus grandes à la supérieure, depassent de beau- coup les molcires et les incisives; elles sont evidemment associces à des molaires ei à des incisives d’herbivores ou de frugivores, pour la_defense de V’animal et non pour attaquer une prote. — Paurai ainsi accompli ma tdche en fournissant à la zoologie les données nécessaires pour avancer, sinon pour compleéter V histoire de ce singe extraordinaîre par des caracières d’organisation qui semblent se con- tredire: des arcades zygomatiques et des carines, et méme une première molaire inférieure de car- nassicr, mais qui sont plutòt pour sa defense que pour l’attaque; des molaires, au contraîre, d’her- bivore, qui s’usent aussi, dans les deux mdchoires, sur les chtés opposes, et qui indiquent par ce caractère qui ma frappé ci qui n'avait pas encore élé remarque, que je sache, le mode de mastication laterale propre aux herbivores, enfin un bassin, des còtes inférieures et un abdomen developpes, comme . chez les herbivores les mieux caracterisés ». (Op. cit. pag. 50, 51, 62 coll. 229-230. Vedi il passo anzicitato ). « Ils se nourrissent de fruits qu’ils trouvert dans les bois, et de fourmis. Ils mangent principalement le fruit de l’amomus, arbre assez commun en riviére (au dire de M. Wilson, et dont il eriste plusieurs varietées au Gabon). Ils savourent avec delices les fruits acides et pulpeux de cet arbre. Cependant ils mangent indifferemment tous les fruits qui ont une pulpe ou une moelle acide ou douce. Ils sont friands de bananes et de canne à sucre; ils recherchent avec soin le fruit du pal mier et du papayer, etc. Quand ils tombent sur un champ de cannes à sucre coupées par les Notrs, ils veulent en faire des paquets et les enlever dans leur repaire, mais ils ont la simplicité (Nisez bétise) » de lier ensemble et l’arbre et les tiges de cannes coupées, de sorte qu'ils sont obligés de les abandonner, et les Noirs les retrouvent le lendemain liées a l’arbre ». Archives du muséum etc. tom. X, p. 89-90. V. la nola 2 della pagina seguente. (1) Horat..I, Epist. JI, 27. 246 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE momento e valore assoluto, bensì relativo, nè altrimenti estimabile che dal loro rapporto e proporzione col tutto. Il quale pertanto è suscettivo di quelle sole varietà che now alterano essenzialmente l’euritmia delle parti, l’unità fisiologica, il tipo specifico, immutabile appunto perchè substratum ossia fondamento delle individuali accidentalità, misure che sono della potenzialità specifica e condizione di vitalità così specifica come individuale; importando luna e l’altra nello stesso suo concetto la permanenza dell’essenziale identico durante una serie e sequela di accidentalità; circoscritta individualmente dal limite assegnato al possibile sviluppo del rispettivo organismo e dal periodo ascensivo e discensivo di sua vitalità, e, quanto alla specie, dal campo in cui è possibile la continua e promiscua fecondità, perennando la specie nella successione degli individui per legge e condizione analoga a quella con cui nella successione di momenti ed accidenti vitali perdura l’individualità. Laonde i limiti circoscriventi il campo ed il periodo della specifica ed individuale organica variabilità, ne segnano in pari tempo l’identico ed invariabile; può quindi perire una specie (1), non già trapassare in un’altra, come non si trapassa d’una in un’altra individualità. Di che, lo scostarsi d’un individuo dal relativo tipo specifico non è mai un progredire, un per- fezionarsi, ma un decrescere e deteriorare; nè un sublimarsi, nobili- tarsi, ingentilire, ma tralignare, imbastardire, degenerare. E per con- seguenza, ‘tornando a bomba, per quanto questo o quell’individuo delle antropoidi possa sotto questo o quell’aspetto deviare dal proprio tipo, non gli riescirà perciò più agevole, prossimo o fattibile il trapasso ad un altro, e meno ancora all’umano; bensì col degenerare vieppiù la sua (1) « Les animaux doues ....d’instinets spéciaux ont un instrument qui leur en permet le develop- pement. Cet insirumeni a-t-il precédé l’usage auquel il est destiné ? S'est-il perfectionné ou developpe par lexercice ? Nous ne le pensons pos. L’instrument ci V’usage que Vanimal en a su faire sont con- iemporains de sa création; ils remonient au berceau de lespèce. Supposca que la trompe de l’eléphant aît élé trop courte et de trop faible diamètre; que la langue du fourmilier n’ait pas éte dès Vorigine suffisamment extensible et ils n’auraient pu se perpetuer. Le castor, le caméléon, les araignées fileuses et une foule d’autres animaux m'existent que sous la condition d’étre aujourd’hui ce qu'ils ont cié toujours. Ils ne pouvaient attendre les appareils qui leur servent è remplir les actes principaur de la vie ». (Fée, le Darwinisme, pag. 85-86). Se dunque codesti animali hanno dovute essere da bel principio ciò che or sono, perchè non avrebbero potuto altrimenti sussistere, segue che non possono essenzialmente, cioè specificamente, trasformarsi senza perire, o, per dir meglio, che scostandosi dal loro tipo sarebbero prima estinti che trasformati, perchè divenuli disadatti all’antico, senza essere perciò riusciti punto punto o bastantemente acconci ad un novello e specificamente diverso tenor di vita, V. la nota seguente. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 247 progenie, potrà questa riuscire più e più inetta alla propria vita sci- miatica, senza acquistare perciò punto o fiore di attitudine, gusto e capacità per la vita sociale ed umana (4). Insomma, un continuo ed (1) « Za forme du singe ne lui a pas éié donnée sans intention; elle s'harmonise avec sa maniere de vivre, qui est toute speciale: c'est le seul mammifère de grande taille qui soit arboricole. Ses longs bras, ses longues jambes, ses pouces opposables, la souplesse de ses arliculations, ce corps si agile et ses membres si flexibles, conviennent tout-à-fait à ses habitudes d’acrobate:; il court sans peine sur les arbres: on croirait que c'est pour lui qu’aurait élé inventé le mot gambader. Forcez cet animal à marcher, et le voilà géné comme le chien savant qui danse sur les pattes de derriere. — Pour croire à cette descendance de V’homme par le singe, il faut sortir de toute vraisemblance; supposer que la vie arboricole lui aura diplu, que las de courir sur les arbres, il ait pu juger que le séjour de la plaine valait micur, et qu'il fallait, quittant des habitudes justifiées par l’organisation, s'essayer à la marche, lui, ses petits et leur lignée. Celte resolution, suivie d’effet, aura rendu les pieds moins maladroits; les pouces, dont le systéme musculaire se sera modifié, n’auront plus été opposables qu’aux maîns; les mollets et les muscles fessiers se seront prononcés davantage, afin de rendre la station verticale plus facile. La face aura pris le caractère et le calme de la physionomie humaine ; plus de nez aplati, plus de muscau prognathe, plus de grimaces, plus de gambades! Tout le reste sen sera suivi, armes, abri contre les intemperies de l’air, provisions pour prevenir les disettes; langage sans lequel ne saurait étre forme le lien de la famille, moralité des acies, conscience, intelligence toujours en progrès; et le singe, ainsi méitamorphose, après avoir changé le fruit pour la chair, sera devenu lun des ancétres de Newton, de Leibnitz et de Descartes. Ne croyons pas à de semblables merveilles; rien n'a pu se passer ainsi. » Fee, op. cit., pag. 52-53. Al qual proposito osserva acconciamente il Crawfurd che, mentre tutte le razze umane sono fra loro perennemenie prolifiche, e si naturano ad ogni clima, e gli stessi animali domestici le possono accompagnare sino al sessantesimo grado di latitudine; le varie specie di scimie non s’incrociano fra loro, la loro stanza è ristretta nelle foreste tropicali, nè più addo- meslichevoli del lupo, dell’orso polare e del tigre, nè più industriose del cinghiale arieggiano così poco l'intelligenza dell’uomo, che le più stupide fra le antropoidi sono quelle che più gli ras- somigliano anatomicamente. a 777Rile the similitudes of the monkeys to man are stated, it might le well to state also the dissimilitudes. In the relation of the sexes the monkeys are sheer brute beasts. AU the different races of man iniermix t0 the production of fertile offspring. No intercourse at all takes place between the different species of monkeys. Man, of one variety or another, exists and multi- plies in every climate; for there is hardly a country capable of affording him the means of subsistence in which he îs not found. The monkeys are chiefly found with in the tropics, and seldom above a few degrees beyond them. In adaptation to the vicissitudes of climate, the monkey is not only below man,, but below the dog, the hog, the ox and the horse, for all those thvive from the equator up to the six- tieth degree of latitude. The natural abode of man is the level earth - that of ihe monkeys the forest. If there were no forests there would be no monkeys; their whole frame is calculated for this mode of life. Man came into the world naked and houseless, and had to provide himself with clothing and dwelling by the exercise of superior brain and hands. The monkeys are furnished by nature with a clothing like the rest of the lower animals, and their dwellings are not superior to those of the wild boar, not for a moment comparable t0 those of the beaver. AU the the races of man, however low their condition, have been immemorially in a state of domestication; but the monkeys of every species are as incapable of domesticatior as the wolf, the polar bear, or the tiger. Man has the faculty of storing knowledge for his own use and that of all future generations; in these respecis every generation of monkeys resembles that which has preceded it, and so, most probably has it been from the first creation of the family. The special prerogative of man is language; and no race of man, however mearly cadowed, has evcr been found that had not the capacity of framing one. In this matter the monkey is hardly 248 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE indefinito svolgimento è tanto possibile nella specie, quanto nell’individuo, la cui accidentale variabilità è limitata per la stessa ragione, per cui è on a level with the parrot or the magpie. It is not irue that the anthropoid apes come nearest to man in intelligence. They ought to do so, if they be nearest to man in the progress by natural selection. Professor Huzley has fully and faithfully described four of these anthropoids; and it appears, that among them, those which anatomically approach the nearest to man are the stupidest. — As to the wide unbridged gulph which divides man from the gorilla, no one has more fully admitted it, and so eloquently described it, as Professor Huxley, himself an advocate of the Darwinian theory. The monkeys, then have an outward and even a structural resemblance to man beyond all other animals, and that is all; but why nature has bestowed upon ihem this similarity is a mystery beyond our understanding ». (Notes on Sir Charles Lyell’s Antiquity of Man, Anthropological Review, No 4, May, 1863, London, pag. 175-176). In questa sproporzione che riesce ad una caricatura, ed in cui il Crawfurd vede un mistero, noi ci scorgiamo un manifesto argomento ed indizio del non doversi confondere lo strumento col musico (v. sopra, pag. 236, nota 4), nè immedesimare, come pur troppo si fa, la materia e lo spirito. Nè cangia punto la quistione, o ne resta agevolata la soluzione, supponendo col De Filippi e col Canestrini che l’uomo e la scimia, non possibili a derivarsi l’uno dall’altro, siano discesi da uno stipite comune, e questo quadrupede, attesa l’antichità uguale o quasi uguale dei quadrumani e dei bipedi, e l'impossibilità che in tale spazio di tempo un quadrumano diventasse bipede, laddove facilmente polè diventar quadrumano un quadrupede, la trasformazione del piede in mano polendo aver luogo facilmente ed in assai breve tempo; der difficile al contrario e tale da esigere un lungo spazio di tempo con numerose generazioni degli esseri che la subiscono, la trasformazione della mano in piede! (Canestrini, op. cit, pag. 80, 96, 100). Imperocchè, lasciando stare la quistione del mag- giore o minor tempo disponibile, e della maggiore o minore lunghezza e difficolià dell’ una dell’altra formazione, la difficoltà massima sta in ciò, che di questa duplice trasformazione non è meno impossibile il principio che il termine. Difatto se, come dice il Darwin e ripete il Canestrini (op. cit., pag. 96), « l’elezione naturale agisce semplicemente conservando le variazioni in qualche riguardo vantaggiose, » resta a spiegare come questo loro vantaggio, mentre debb’essere di tal momento fin dal primo loro inizio, da essere .invocato e supposto come l’ unico fondamento del continuo successivo loro svolgimento, e quindi della specifica stabilità, non sia nondimeno osser- vabile nel giro di molti secoli e nella serie di molte generazioni; giacchè di questo subito o, lento trapasso e lavorlo i Darwiniani non possono mostrarci il principio, od il mezzo, od il fine nè con estinti, nè con viventi esempi. E mentre la ragione della scelta naturale e della trasmissibilità di una fortuita variazione si pone nell’essere questa, in chi ne è privilegiato, condizione di vittoria nella concorrenza vitale; si pretende che debba svolgersi insensibilmente, mano mano, in ragione inversa della lotta e dei concorrenti, e diventare perfetta quando sia cessata la concorrenza e la lotta! Inoltre si vorrebbe sapere come, nel caso nostro, due gemelli e rampolli d’uno stesso stipite primate potessero essi e la rispettiva loro progenie perfezionarsi scoslandosi contemporaneamente ed in senso inverso dal tipo primitivo; sicchè trovassero egualmente il conto loro, 1’ una coppia nel mantenere immutata la forma di due piedi, cangiando gli altri due in mani; l’altra nel tras- formare le quattro piote in altrettante mani; breve: come i due primi nel diventar bimani e bipedi, e gli altri due nel divenir da quadrupedi quadrumani, si sarebbero del pari perfezionati. E siccome la trasformazione in ogni suo grado non è possibile o trasmissibile, se non a condizione di essere vantaggiosa, ciò importerebbe che quando i piedi ‘irasformanlisi non erano più veri piedi, e non erano ancora vere mani, erano tuttavia più perfetti che quando erano veri piedi e prestavano l’ ufficio loro così bene da poter vivere una vita sì comoda e vantaggiosa come quella de’ perfetti quadrumani, a giudicarne dalla tarda e vigorosa loro posterità, che sono appunto le antropoidi. E così, mentre i nepoti, solo che saltasse loro il ticchio di scostarsi un tantino dal proprio specifico tipo, perirebbero senz’ altro, anche senza lottare con altri concorrenti; i loro PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 249 limitata la specifica accidentale variabilità ; l’invariabilità sostanziale del tipo individuale, durante il periodo vitale, essendo correlativo a quella del tipo specifico nell’èmbito di sua possibile promiscua e co- stante fecondità. Non giova l'argomento tratto dal procedimento fetale, o dalle metamorfosi degli insetti, o da altro consimile svolgimento vi- tale; appunto perchè svolgimento determinato e definito d’una deler- minata e definita immanente virtù; non già trapasso indefinito ed in- definibile d’una indefinita, sempre potenziale ed attuabile, non mai pienamente attuata virtualità; quello costante, regolare, comune a tutti gl’individui congeneri; questo, privilegio accidentale di pechi favoriti, quanto limitato nel numero dei prescelti, incerto, irregolare, incostante nella sua formazione e durata; altrettanto illimitato e illimitabile nella serie delle possibili successive trasformazioni; non suscettive di alcun limite, perchè prive di fondamento e di base; essendo meri accidenti e fenomeni non prodotti nè sostenuti da veruna permanente virtude o sostanzialità. Nè più valevole è l'argomento dedotto dagli animali anfibi, o riu- nenti in uno stesso organismo forme e fazioni di diverso tipo; nè dal digradare ed ingradare de’vari tipi specifici nella serie animale, quasi fossero così riducibili ad unità di composizione e di tipo, e per ciò stesso deducibili da una medesima forma primordiale. E per verità questunità di composizione e di tipo, non meno ipotetica che la de- rivazione di ogni tipica varietà da una sola primitiva e semplicissima forma ‘!), è smentita, anzichè comprovata, dall'esistenza degli anfibi, maggiori avrebbero poluto cangiar natura, forma, clima, paese, indole e costumi senza nulla perdere, anzi rimparucciandosi gradatamente invece, ed insensibilmente, ma con pari felicità come sì trat- “ tasse non già di una fisica, ma di una politica metamorfosi o fantasmagoria. Quindi ben con ragione il più volte lodato Prof. Bianconi dimostrava l’impossibilità di tale metamorfosi considerala soltanto nel piede che da prensile dovesse gradatamonte divenire terrestre. « Supponghiamo (ei dice) la mutazione ad un tal punto intermedio: il pollice omai steso e adiacente alle altre dita ron ser- virebbe più alla preensione; mentre poi non sarebbe nè anche giunto allo stato in cui dev'essere il pollice per la stazione e per l’ambulazione. In questo periodo non potrebbe più rampicare, nè potrebbe ancor camminare. Sarebbe una mostruosità, sarebbe impossibile la sua esistenza. Merita per vero che i fautori di quella teoria (Darwiniara) tanto si adoperino coi loro studi per attribuire infine alla natura degli errori o delle contraddizioni di organizzazione! E la Geologia prelende o spera di poter mostrare un qualche giorno questi assurdi e queste mostruosità? (Op. cit., pag. 47-48; V. sopra, pag. 218, nota 1).» E perchè no? Basta chiamare svolgimento dialettico la contraddizione e perfezionamento la mostruosità. (1) V. sopra, tom. XXII, pag. 352-356; 357-362. « L’unité de composition weriste: 1° Ni dans le nombre des corps elementaires. 2° Ni duns le nombre des principes immeliats. 3° Ni dans la structure SEREMULESNI O ve PXOXUAVA 3a 250 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE = o di forme corrispondenti a diverso tipo e riunite in uno stesso indi- viduo ; siccome quelle che non essendo meno stabili, 0 più permutevoli intime et le nombre des tissus. 4° Ni dans le nombre des organes de l’appareil sensorial. 5° Ni dans le nombre de leurs parties. 6° Ni dans le nombre des parties de l’appareil locomoteur. 7° Ni dans le nombre des organes des autres appareils, nî dans le nombre des appareils eux-mémes et dans celui de leurs fonctions. — L’unité de forme n’existe: 1° Ni pour les trois grandes divisions du règne, ni pour les grands types. 2° Ni pour les sous-divisions du méme type. 3° Ni pour les genres et les espèces. — L’unité de plan Mexiste pas dans le regne animal. L'unité absolue de plan n’existe: 1° Ni pour les groupes d'une méme classe. 2° Ni pour les espèces d'un méme genre. — Les principes simples et imme- diats, les tissus, les organes et les appareils, combines pour constituer l’organisme animal, se présentent à nous sous des formes diverses, mais déterminces, constantes et toujours les mémes, sans quoi la science serait impossible. Or, retrouvons-nous là une gencration successive de formes qui conduisent de Vune à l’autre? — Nous avons vu...... que dans le méme type, toutes les espèces n'ont ni le méme nombre de principes simples et immeédiats, ni le méme nombre d’organes, cte., et que les transformations successives sont impossibles. Un mollusque qui n'a point de téte, aura beau varier les circonstances, jamais il n’aura une téle; un mollusque et un articulé, quelque soit le changement des milieux ci des circonstancis influentes, n’auront jamais un squelette; bien plus, jamais un canard ne deviendra un gallinacé, ni celui-ci un oiseau. de proie. D'ailleurs l’animal vient au monde tout formé; il s'est développé dans l’@uf, inlérieurement ou extérieurement à sa mere, pour les circonstances et les milieux dans lesquels il est appelé è vivre; quand il arrive à la lumière, il a tout ce qu'il lui faut pour satisfaire ses besoins, dans ces circonslances el ces milieux, loin desquels pourtant il a élé formé; il existe complet avant d’avoir, en quoi que ce soit, éprouvé leur influence. IL est done évident que les circonstances et les milieux n’ont aucune part à l’organisalion qui se forme independamment et en dehors d’eur, quoiqu’en relation avec cux. Toutes ces consideralions nous amenent à reconnaître qu'il n'y a ni unité de composition, ni unité de forme, ni unité de plan dans le regne animal; que par conséquent tout animal n'est pas la repré-. seniation de tout le règne animal, puisqu'il n'est méme pas la representation rigoureuse de son type; que dans chaque étre individuel on ne retrouve pas toutes les mémes parties qui sont dans les autres étres méme inferieurs; que par conséquent tous les individus ne sont pas sorti d'un seul ou de plusieurs types primitifs qui seraient le plan unique de tous les animaua de tout rèégne; qu'il ewiste au contraire un plan pour chaque apparcil d’organesj; que Vespèce est une realité définie; que le plan general de chaque type se modifie pour chaque groupe, pour chaque espèce; qu'il y a des plans genéraux et tota- lement différents pour chaque grand type; que ces plans concourent à un ensemble pour un but general, mais ne forment pas un seul plan; que par consequert les étres individuels ne composent point les parties d'un ire unique dont ils ne seraient que les organes, mais qu'ils sont distincts et independants les uns des autres, definis et limités pour des circonstances aussi definies et limitées; enfin, que tous ces étres distinets et indépendants, et pourtant soumis à des lois harmoniques de rapporis et de conser- vation qui les lient les uns aux autres, sont la conception et Vauvre de l’intelligence souveraine et infinie. » Sorignet, op. cit., pag. 314-324, 318, 323-324. « Comme il y a du plus et du moins dans le caracière essentiel de Vanimalité, puisque, Sil n°y avait pas de différence, il n° aurait qu’une seule espece animale, il fuut en conclure que les animaux forment entre les végétaux et homme une cchelle ascendante, une série d’ètres de plus en plus parfaits, à partir de celui qui se rapproche le plus du végetal, jusqu’à celui qui est plus voisin de homme. La marche ascendante que nous venons de suivre démontre donc que toutes les classes sont en série dans les types, et méme entre celles d'un type à autre. Elle prouve aussi par la manière: dont les organes divers apparaissent sans aucune trace ante- céilente , pour se développer dans leurs parties d’une classe à l’autre, non par des nuances insensibles, maîs par l’acquisition d’une ou de plusieurs parties qui manquaient tout-à-fait dans les classes infé- rieures qu'il n'y a pas passage insensible d’une classe à Vautre, mais que ce sont des degres definis, _ PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 251 e transitorie delle altre, provano anzi l'impossibilità di quel sognato continuo od interpolato specifico svolgimento e trapasso; il quale, ove arrétes, entre lesquels il est impossible d’en intercaler de nouveaux, et qui n’ont pu sortir les uns des autres » Maupied, op. cit., tom. I, pag. 460-461, 479. E più a proposito ancora il Fée: « Unité de type, I. La nature organique, malgré la prodigieuse varicté des formes actuelles, deriverait, ainsi le voudrait le Darwinisme, de la métamorphose lente et successive d'un type peut-étre unique. Quel pourrait étre ce prototype?..... la cellule? ..... Certes, ce serait aller bien loin. QuoiquXil'existe des organismes unicellulaires parmi les alques, et que beaucoup d’infusoires semblent étre dans ce cas, on peut dire que le caracière de la cellule est d’en eréer d'autres, et de donner à ces agglomerations des proprietis quelle ne pourrait avoir éiant isolée. Examinées soigneusement à la vue simple ou méme avce les instruments amplifiants les plus puissants, les cellules des deux règnes paraissent absolument identiques et cependant on ne peut supposer qu'il en soit ainsi. Il suffit, pour constater leur individualité, de savoir que par leur reunion elles acquièrent des propriétés differentes. Si nous ne pouvons toujours nous con- vaincre par les sens, au moins pouvons-nous avec certitude nous aider du raisonnement pour en decider. Les cellules, par leur association, forment des membranes, et chacune a sa manière de vivre et ses proprictes distinctes; elles donnent au muscle la contractilité, à la fibre. la resistance, au nerf la sensibilité; la plante leur doit l'elasticità, la souplesse, Vexcitabilità: Vembryon animal et V'embryon vegéial, aurquels la nature a commis le pouvoir de reproduire V’espèce, ont pour principe initial la cellule. Il n’cn est pas autremeut du pollen, de Vanthère dans laquelle il se constitue, du stigmate sur lequel il agit. L’euf des plus grands animaur, de méme que celui des plus petits, l’ovule du chéne, aussi bien que l’ovule de la plus modeste graminée, ont la cellule pour origine primaire. — Non seulement la cellule paraît douée de proprictes différentes, suivant la nature des organes qu'elle concourt à former et suivant le réle qu'ils doivent remplir, mais, en outre, chaque espèce a les siennes qui ne sont pas identiques avec celles de l’espèce la plus voisine. C'est là ce qui rend compte - de l’impossililité de la transfusion du sang entre espèces differentes. La composition chimique, variable au moins dans la qualité des principes constituents, ferait seule obstacle, si les globules, qui ne sont autre chose que des cellules, ayant une forme et un calibre déterminés, n’intervenaient pour la rendre impraticable; il n’en est pas avtrement de l'action des granules du pollen sur le stigmate: et voilà ce qui explique combien sont rares les hybrides, et en raison d’obstacles d'une autre nature, la rareté non moins grande des mulets, ainsi que l'impossibilità où ils se irouvent de transmettre la faculté reproductrice. Ainsi donc il pourraît y acoir autant de cellules différentes qu'il ya d'organismes, tout élre vivant conservanti sa specificite jusque dans l’intimité de ses organes éléementaires. La manière dont les cellules se combinent donne la forme ei la manitre de vivre; elles constitueni par leur asso- cialton - d’où resulient des propriétes differentes - ces merveilleua appareils qui donnent la vue, l’audition, Polfaction, la gustation, la sensibilité, en un mot, tout ce qui permet à la plante et à l’animal d’ac- complir leur destinces. Si Von voulait, acceptani la théorie de M. Darwin dans toute sa rigueur, croire que la nature organique tire son origine d’un seul type, il faudrait designer la cellule. Mais s'il est vrai que toutes celles qui forment la masse des étres vivanis sont representées par autant d'espèces qu'il y a d’organisations distinctes, il s'ensuivrait qu'il ne faudrait pas une seule cellule mère, mais autant de cellules qu'il 1 aurait d’espèces de plantes ci d’animaux. Or, il serait aussi difficile de comprendre cette immensité de cellules différentes comme origine de la nature vivante, qu'il lest aujourd’hui de s'erpliguer Vapparition sur la terre des organismes aussi nombreua que variés qui la pevplent, et qu'on suppose avoir été formés de toutes pièces. Le miracle est eractement le méme, et l’on rentre è pleines voiles dans la Genèse. — De la spccificité bien établie de la cellule, ne faudra-t-il pas déduire Vim- possibilité de la metamorphose d'une plante en une autre plante, d'un animal en un autre animal? car non seulement la forme aurait été changée, mais méme la nature intime des organes dlementaires. Ce serait admettre une veritable métamorphose. Une forme serait détruite pour cn ercéer une autre, comme 252 LÀ CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE fosse possibile, non potrebbe essere limitato a questa od a quella parte dell’organismo, ma, attesa la loro correlazione, a tutte si dovrebbe le phénix qui renaissait de ses cendres toujours plus jeune et toujours plus beau. IL ne semble pas. que la nature procede ainsi; elle est soumise au mouvement, mais ce mouvement est réglé dans son action: c'est une loi. — Pour qu'il n'y eùl qu'un seul type, il faudrait qu'il n°y et quune seule espèce de plante, et qu’un scul animal pour s’en repeître; or comme les deux règnes sont variés à l’infini dans tes formes eatérieures et dans la constitution elimentaire des organes qui composent leur masse; comme ils vivent dans des milieux pour lesquels ils ont éié faconnes, et que leurs habitudes, leurs instinets, leur intelligence diff'èrent, nous ne voyons plus seulement un type, mais une foule de types, et nous dléduisons de leur manitre diverse d'étre une place distinete dans la création. Nous admettons qu'ils puissent disparaître, nous ne comprenons pas aussi bien qu’ils puissent changer. — On reconnaît géne- ralement en zoologie, comme base de classification, quatre embranchements, et deux seulement en botanique. Serait=ce là les trois ou quatre types que veut bien admettre le systeme? Mais combien n’en eziste-il pas d’autres! En ce qui concerne seulement les vertebres, peut-on se refuser de reconnaître un type distinct dans chacun des ordres, mammifères, oiseaua, reptiles et poissons? De ce que certains mammi- fères volent, et coccptionnellement de ce que l'ornithorhinque et V'échidné ont des mechoires faconnees en bec sont-ce de motifs suffisants pour croire qu'ils indiquent une transition des mammifères aux oiscaur? Di: ce que ceua-ci ont des pieds écailleux, un cou très-long, qui souvent ondule comme le-corps d'un veptile, en deduira-t-on qu'ils ont quelque chose en eux qui les rapproche des serpents, et que peutétre ils en derivent? De ce que les globies et les blennies peuvent quitter l'eau momentanement pour s'élever sur les ccorces mousseuses, sont-ils pour cela des animaux terrestres et grimpeurs? L’anguille qui rampe plutòt qu'elle ne nage, est-elle proche parente de la couleuvre, quoique l’une respire avec des branchies, et l’autre avec des poumons? Où trouver les rapports qui uniraient les mollusques aux vertebrés? Serait-ce parce que les uns, suivant qu’ils sont terrestres ou aquatiques, respirent avec des poumons , comme les mammifères, les ciscaua et les reptiles, et avec de branchies, comme les poissons? Quoi de plus différent de touts les autres embranchements, que les articulés, et parmi ceux-ci quoi de plus distinct que les insectes et les arachnides, que les crustaces et les apières, quoique tous aient le corps et les membres articules, et un système nerveùx ganglionnaire? Et les rayonnés, les coraur, les ma- drépores, les éponges, a quoi se rattachentils? Enfin ce monde invisible, les infusoires, à quoi pour la plus part rassemblent-ils? Cherchons seulement les types dans les mammifères, combien n’en devra-t-on pas reconnaître! Les cheiroptères, les marsupiaux, l’élephant, le cheval,-le baeuf, la plupart des édentes à la langue extensible, la baleine, le cachalot, ne sont-ils pas des types nettement caracticrises? Si du vègne animal nous jetons un coup d’@il sur le règne vegetal, il ne nous sera pas difficile de conclure dans le méme sens: fucus et champignons, mousse et lichen, lis et palmier, bambou et chéne, gui et nenuphar! Tant de formes heurtces, tant de manières de vivre, tant d’aptitudes ou d’habitudes différentes, pourraient-elles appartenir à des creations lentement faconnées et sorties d’un méme moule, seulement modifié? D'ailleurs, comment éiablir les filiations?® Prenons pour exemple de cette extréme difficulté une creature ambiguè, le lamentin. A bien voir, quoiqu’il puisse visre dans eau, nager comme un poisson, et qu'il soit pourvu de nageoires, il a sa place parmi les animaua terrestres. C'est sur le rivage de la mer qu'il se nourrit, s'il est herbivore, c'est là qu'il se repose, qu'il dvit s'accoupler, qu'il allaite ses petits. Le fera-t-on dériver d’un mammifère terrestre? Alors lequel choisir ? Si tout change pour se perfectionner, d’où estil sorti? Son corps pisciforme deviendra-t-il propre à la vie terrestre? Ses jambes el ses bras si prodigieusement raccourcis, sont-ils destinés à s'allonger, et ses nageoires à se métamor- phoser en pieds propres à la marche? Changera-t-il les fucus pour l’herbe des prairies, ou les poissons: pour la gazelle ou le livre? Admettons que le temps produise ces merveilles, qu’aura-t-il gagne? Ntien; il aura perdu. Le temps pourra le modifier, diminuer, ou bien augmenter sa taille, changer la coulcur de son pelage, sans pour cela en fuire autre chose qu'un amphibie. Est-il destiné à devenir un PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 253 estendere, e compiersi in tutte simultaneamente (!). Di che, scambio di trovarsi riunite in uno stesso organismo forme perfette di diverso tipo, non si dovrebbero incontrare che forme imperfette, difettive, mianchevoli, o mancate; le quali scostandosi dall'uno per accostarsi all’altro tipo, giunte a mezza via e divenute neutrali, ncn che trasmis- sibili e perfezionabili, dovrebbero riescire impossibili, perchè nemmeno vitali. E così l’ornitorinco, ad esempio, caso che mai fosse stato per l’addietro un quissimile dell’anitra od aspirasse a ciò diventare, o non avrebbe, smarrita ogni altra cognata forma, senza pure un vestigio delle avite penne, conservato incolume il solo becco; od avrebbe sovr'esso modellatosi bellamente l’ereditario grugno, senza perdere o cangiare un solo pelo durante, e, segnatamente, a mezzo quel lungo lavoro di trasformazione; quando cioè semisvolto (poverino!) non avendo più o non ancora, nè un buon becco, nè un bel muso, sì solo un restic- ciuolo dell'uno ed un rudimento dell’altro, non avrebbe potuto a meno di riuscire spelacchiato del pari che spiumato, perduti per inedia e piuma e pelo. - Lo stesso è a dirsi degli anfibi, i quali, ove fossero in via di diventare per nasale o libera elezione gli uni animali esclu- sivamente acquatici, gli altri terrestri, prima di riuscire acconci e con- dizionati ad una sola stanza, diverrebbero inetti ad amendue. Che se cétacé? Non, sans doute; car ce scrait évidemment dechoir, puisqu'il perdrait une faculté, celle de sortir de la mer...... Méme difficulte pour l’hippopotame, le rhinocéros, Veléphant, le tapir et une foule d'autres. » Op. cit., pag. 43-45, 47-49. (1) Lo confessa Darwin sotlo la rubrica: « Correlation of growth. — I mean by this expression that the whole organisation is so tied together during its growth and development, that when slight va- riations in any one part occur, and are accumulated through natural selection, other paris become modified. — The several parts of the body which are homologous, and which, at an early embrionie period, are alike, seem liable to vary in allied manner; in the front and hind legs, and even in the gaws and limbs, varying together, for the lower yaw is believed to be homologous with the limbs (op. cit., ch. V, pag. 161)» Accrescimento correlativo: con questa espressione voglio significare che l’intero organismo cresce e si svolge in modo così complessivo che nen possono intervenire va- riazioni anche leggiere in una qualunque parte dell’ organismo, ed accumularvisi per naturale elezione, senza che ne sieno pur modificate le altre parti. E questa correlazione nel particolare - confronto anatomico della mano e del braccio venne dimostrata dal Bell, di cui rapporliamo la conclusione: « These facts countenance the conclusion drawn from the comparative anatomy of the hand and arm-that with cach new instrument, visible exlernally, there are a thousand internal relations established. The introduction of a new mechanical contrivance in the bones or joints, infers an alte- ration in every part of the skeleton; a corresponding arrangement of all the muscles; an appropriate distribution of the nereous filaments laid intermediate between the instrument and the centre of life and motion, and finally, in relation to the new organ, new sources of activity must be created, otherwise | the part will hang an useless appendage ». Op. cit., pag. 113. 254 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE l'organismo degli animali anfibi o riunenti forme di diverso tipo è sif- fattamente accomodato alla rispettiva loro stanza e condizione da essere evidente il danno, anzichè il guadagno di una più o meno gra- duata successiva specifica trasformazione (4); resta per ciò solo dimostrata (1) E lo dimostra il Fée così nel brano allegato sul finir della nota penultima, come nel se- guente che ne è la continuazione: « La selection, dites-vous, perfectionne. Il faudrait expliquer ce quon entend par le mot perfectionnement. Tous les animaux actuellement vivants n’ont-ils pas la per- fection propre à chaque espèce et ne sont-ils pas merveilleusement appropriés à la nature des milieux dans lesquels ils vivent ? Le singe, sil devient marcheur, seraît-il amélioré ? Le lion, le tigre, le cheval, l’aigle, le condor, le cygne, le caiman, le erocodile, la tortue, le requin, Vesturgeon, n’ont-ils pas toute la perfection possible? Changez-les, et ils seront dechus. L’argonaute, l’escargot, le homard, la langouste, V’abeille, la mouche, les araignées fileuses, le scorpion, n’ont-ils pas en cux tout ce qu'il faut pour vivre et reproduire leur race? En est-il autrement des plantes? Le champignon, la mousse, le lichen, les fougères, les palmiers, les bananiers, nos saules, nos chénes, nos hétres, ne sont-ils pas parfaits, chacun dans son espece ? La rose, le lis, la violette au parfum si doux, le jasmin qui le lui dispute en suavité , ont-ils besoin de qualitis nouvelles? À l'homme de modifier, pour en tirer le meilleur parti, les plantes et les animaua qui peuvent sy préter; à la nature de résister à son industrie, et de maintenir les types en leur conservant les caractères qui les distingueni les uns des autres. L’homme lui-méme, pour progresser, n'a quà rester ce qu'il est; son corps gardera sa forme, ct son intelligence le caractère qui lui est propre. Supposer une creature humaine plus parfaite, sortie de nous, ne semble possible, ni méme necessaire. Nous n’avons pas recu nos priviléges par droit de naissance , ils ont une source plus élevee. Ils sont notre conquélte; c'est l’euvre du temps el des effets heureux, que nous terlons chaque jour dans la voie du progrès (op. cit., pag. 49-50)». Progresso dovuto alla ragione ed all’arbitrio, doti proprie dell’uomo, per le quali non solo egli è perfelti- bile; ma perfezionatore altresì, mediante 1’ arte e l’ industria, delle produzioni naturali e degli esseri irrazionali, pur rimanendo sì questi, sì quelle, e lo stesso artefice sostanzialmente que? me- desimi; ciò importando il concetto: stesso di perfezionamento, il quale suppone l’identità del sog- getto perfezionalo, non perfezionandosi ciò che cessa di esistere, ma ciò che permane e perdura, ed è quindi susceltivo di tulte e sole quelle perfezioni, che sono consentanee alla sua natura. Gangiata la quale, cangerebbe pure il soggetto, giacchè ne è inseparabile; cioè cesserebbe di essere, anzichè in altro trapassare, e ci sarebbe sostituzione di un più perfetto ad un meno perfelto organismo, nori già sostanziale e specifico trapasso d’ uno nell’altro. il quale trapasso, ove pur fosse possibile, non si potrebbe dire vanlaggioso, nè all’uno, nè all’altro organismo; non al no- vello, poichè questo col cominciar ad esistere nè guadagna nè perde; non all’ anlico, il quale, cessando di essere, tulto perde, anzichè acquistare perfezione. Ed è curioso vedere come il Darwin riconosca egli stesso esservi animali che non si avvantaggerebbero di un più perfelto organismo, e nomina ad esempio gli infusori ed i lombrichi: «it may de asked what advantage, as far as we can sce, would it be to an infusorian animalcule - to an iniestinal worm-or even to an earth-worm, to be highly organised? » e da questo non sentito bisogno voglia derivato il permanente loro stalo d’inferiorità sin dai primi a noi noti albori della vita (op. cit., pag.135, coll.344. V. tom. XXII, pag. 343, nota 1; 372, nota 6)! Curiosissima davvero in bocca del Darwin non meno la ricogni- zione del fatto che l’inferenza dedottane; imperocchè gli è ben vero che gl’infusori, finchè si contentano della loro condizione e non aspirano a più allo grado nella scala animale, non abbi- sognano di più perfetta organizzazione; ma ciò vale altresì per qualunque altro animale di orga- nizzazione relativamente più perfetta, il quale per l’esercizio delle sue funzioni non ne abbisogna di un altro d’ordine superiore, che gli riuscirebbe d’impaccio, anzichè di giovamento (op. cit., PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 255 di questa l’insussistenza; sì perchè l’elezione naturale, condizione della CI ; P ) specifica trasformazione, non è applicabile che alle vantaggiose e pro- fittevoli varietà (4); sì perchè se le specie attuali, presunte trasformate 2 2 2 lo furono appunto perchè non avrebbero potuto durare e vivere nella PP presupposta anteriore loro condizione, resta a dimostrare come abbiano potuto per generazioni e generazioni prosperare e svolgersi per tutti que’ successivi gradi di inferiorità e superiorità relativa (); e come non pag. 135); che se nell'ipotesi Darwiniana è possibile il caso di un ranocchio che agogni ad esser bue, con esito tanto più sicuro quanto più rimoto e meno tragico del favoleggiato da Esopo: è tuttavia da chiarirsi la modestia degli infusori, i quali, essendo pur forniti di un organismo ve- ramente bello e meraviglioso, e quindi giusta la teoria non originario (V. op. cit., pag. 135, e sopra T.XXII, pag. 346, nota 3), se trovarono il conto loro ad elevarsi da una semplice cellula organica fino al grado d’infusori, potrebbero pure aspirare a qualche cosa d’altro; e il non farlo prova che nella citata favola, e nell’apologo di Menenio Agrippa vi ha più filosofia naturale che in cerli scritti di naturalisti; che l’armonica varietà e permanenza di tipi è richiesta non meno per la perfezione e conservazione del tulto, che per quella delle singole parti; che se tutti i vari tipi hanno potuto da un solo originarsi, doyrebbero pur tulti in un solo confondersi finalmente ed immedesimarsi, o sparire continuamente i meno perfetti e non rimanersi che una sempre viva e sempre nuova e più perfezionata fenice. (1) Darwin, op. cit., pag. 135, 137. V. sopra Tom. XXII, pag. 343, nota 1. (2) V. sopra, pag. 246, noia 1. Il Darwin si muove egli slesso quest’obbiezione: come un car- nivoro terrestre abbia potuto trasformarsi in acquatico e vivere durante il periodo di transizione? E risponde con dire che in uno slesso gruppo di carnivori avviene di osservare una gradazione fra abitudini schieltamente acquatiche ed esclusivamente terrestri; e siccome ciascuno di essi non esiste che in virtù della concorrenza vitale, essere perciò manifesto che le sue abitudini corri- spondono al posto che occupano nella natura. E reca ad esempio la donnola visone dell'America settentrionale, simile alla lontra quanto al pelo, alla forma della coda, ed alla cortezza delle gambe, ma palmipede quanto alle dila, quindi d’estate vive di pesci come lo smergo, e d’inverno dà la caccia ai topi come la puzzola. « It Ras been asked by the opponenis of such views, as I hold, how, for instance, a land carnivorous animal could have been converted into one with acquatie habits ; for how could the animal in its transitional state have subsisted? It would be easy t0 show that svithin the same group carnivorous animals exist having every intermediate grade between truly acquatie and strictly terrestrial habits; and as each ezists by a struggle for life, it eis clear that each is well adapted in ils habits to its place in nature-Lool at the Mustela vison of North America, which has webbed feet and which resembles an otter in its fur, short legs, and form of tail; during summer this animal dives for and preys on fish, but during the long winter it leaves the frozen waters, and preys like other pole-cats on mice and land-arimals (op. cit., pag. 197-198) ». Ma l’esempio non calza, e la questione è elusa anzichè sciolta; imperocchè nella coesistenza di abitudini strettamente acquatiche e terrestri in uno stesso individuo non iscorgiamo nessuna difficoltà, trovandosi egli egualmente condizionato alle une ed alle altre, ma la difficoltà sta tutta nel lento successivo trapasso dall’una all’ aitra condizione, nel divenire l’ individuo sempre più inetlo a questa, quanto più acconcio all’ altra, sino a riuscire incompossibili nello stesso individuo, trasformato in animale esclusiva- mente acqualico o terrestre; locchè suppone un periodo lungo e lunghissimo, in cui, non essendo perfettamente nè l’uno nè l’altro, e compiendo a mezzo ed imperfettamente tulte le sue funzioni, avrebbe tultavia potulo vivere e trasformarsi, che è quanto dire vincere nella concorrenza vitale i già 256 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE esistendo alcun limite alla perfettibilità (4), l'abbiano finalmente incon- trato nella rispettiva lero perfezione; e tale da cessare ad un tratto ogni ulteriore svolgimento e conservare immutabile l’attuale loro tipo durante un periodo indefinito ed immenso (2), come conservarono il proprio alcuni gruppi di specie fin dal primissimo a noi noto albeggiare della vita (3); e finalmente, come essendo certa ed incontestabile l’im- mutabilità di alcune specie, non che l'estinzione totale della maggior parte delle altre (9), certa del pari la durata incommensurabile (5) delle poche trasformate (0), si possa tuttavia, non dico provare o dimostrare, ma presupporre un tal privilegio d’inutile trasformazione. Inutile alla natura, che non può avvantaggiarsi delle superstiti, se non prova danno per le estinte. Inutile agli individui privilegiati, essendo così lento ed insensibile il procedimento dell’iniziata loro trasformazione, da non es- sere osservabile nè osservata mai durante qual più vuoi lunga serie di secoli e di generazioni (7). Inutile alla specie, giacchè la specie che si perfettamente ed esclusivamente adusati a quel tenor di vita, cui il novellino imprendeva novella- mente, anzi ne avrebbe occupate le vuote sedi. Onde il Flourens, riportata la citata botta ‘e risposta del Darwin: « Comment, par ewemple, un animal carnivore terrestre peut-il avoir élé transformé en animal aquatigue? Comment, aurait-il pu vivre pendant son etat inansiloire ? - Il serait aisé de dé- montrer, réepond M. Darwin, que, dans le méme groupe, il ewiste des animaux carnivores qui pré- sentent tous les degrés intérmediaires entre des habitudes véritablement aquatiques et des habitudes exclu- sivement tervesires. Comme chacun d’eux n’existe qu’en vertu d'un triomphe de la concurrence vitale, il est clair que chacun d’eux doit étre convenablement adapié à ses habitudes et à la situation de la nature; » il Flourens acutamente soggiunge : « c'est-à-dire que de deux animaux en voie de passer du terrestre à l’aquatique, ou de l’aquatique au terrestre, Vun n’eziste que lorsque la concurrence vitale a exterminé l’autre (Examen du livre de M. Darwin, pag. 41-42) ». Noi quindi portiamo opinione che l’esistenza degli anfibi non provi per nulla la possibilità del trapasso da un animale esclusivamente acquatico ad esclusivamente terrestre; nè sappiamo vedere nella donnola visone dell’America un resticciuolo od un rudimento di pesce; metamorfosi a nostro credere nè più strana, nè più malagevole di quella di un quadrupede insettivoro in pipistrello, stimata dal Darwin ben più difficile ed inesplicabile, non però meno possibile, dovendosi dar poco peso a simili difficoltà : « if a different case had been taken, and it had been asked how an insectivorous quadruped could pos- sibly have been converted into a flying bat, the question would have been far more difficult, and I could have given no answer. Vet I think such difficulties have litile weight (op. cit., pag. 198)». E vera- menle , trattandosi di mere ipotesi non constatate da verun fallo, hanno tutte pe’ Darwiniani la slessa verisimiglianza, e per chi s’attiene alla logica de? fatti la stessa assurdità. {1) V. sopra T. XXII, pag. 338, nota 2. (2) Ivi, pag. 372, nota 1, 2, coll. 3, e pag. 342, nota I. (3) Ivi, pag. 372, nola 6. (4) V. Ja nota precedente, e loc. cit. pag. 338, nota 1; 341, nota f. (5) V. sopra nota 2. (6) V. loc. cit. pag. 337, nota 2; 338, nota 1; 341, nota 1. (7) V. sopra, loc. cit., pag. 344, nola 1. PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO 2 57 trasforma perisce nella trasformazione, e non lascia di sè traccia ve- runa, nemmeno fossile (!). Inutile finalmente a dar ragione della. gra- dazione de’ vari tipi nella serie animale, e delle varie loro suddivisioni in classi, ordini, famiglie, generi e specie, formanti l’unità del genere animale; imperocchè, se la specifica somiglianza di due organismi può essere indipendente dalla derivazione comune di un medesimo stipite, ed essere stati l’uno e l’altro simultaneamente primordiali, e la possi- bilità fisiologica di una comune filiazione non ne involge la realtà (®), tanto meno l’accordarsi del vario in un'armonica unità sarà argomento apoditiico di comune derivazione; laddove può questa riuscire non meno inetta a chiarire la molteplice tipica varietà che a spiegarne l'armonia. Di vero, se non hayvi armonia‘ possibile senza ordinata varietà, nè ordine senza distinzione, nè distinzione senza limite, nè ordinata di- slinzione del finito e determinato senza subordinazione e gerarchia; e se quindi una stabile e permanente armonia suppone una non meno stabile e permanente ed essenzialmente costante ed invariabile ordinata e subordinata varietà; la stabile e permanente armonica unità de’ tipi ne importa la non meno stabile e permanente ed invariata distinzione, non che la primordiale e simultanea loro origine, attesa la loro mutua e necessaria correlazione, e ne esclude perciò la possibilità del: succes- sivo loro. svolgimento o parziale trasformazione (8). Assurda più ancora che ipotetica, non potendo l’armonia universale risultare da una par- ziale, accidentale e precaria trasformazione, accidentaria e casuale nel l'origine, nel processo, e nella:durata (4); limitatissima estensivamente, essendo sempre il privilegio di pochi (5), ma intensivamente illimitata (9. E ciò necessariamente non potendosi limitare l’indeterminato, l’inde- finito, una varietà assoluta che non ritiene più nulla del primitivo, e non ha ancora nemmeno un accenno del remoto suo avvenire; uno svolgimento e perfezionamento di ciò che non è più; un iniziamento di ciò che non è ancora, e quando sia per essere, non avrà più nulla (1) Ivi, pag. 345-346. (2) V. ivi, pag. 348-350. (3) V. ivi, pag. 352-362, 371. (4) V. ivi, pag. 341-343. (5) Ivi, pag. 340, nota 1; 341, nota 1. (6) Ivi, pag. 338, nota 2. Serie II. Tom. XXIV. 33 258 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE di comune col suo principio (); brevemente, un accidente senza so- stanza, una relazione fra due incognite, una mera apparenza ed as- surdità @. Tant'è che i più assennati e non perciò i meno dotti fra coloro che, badando più alle generali analogie che alle particolari di- versità, riconoscono in ogni gran tipo, od in ciascuna delle principali sue suddivisioni un'unità d’organizzazione, ammettono pure, anzi pro- fessano espressamente la comune primordiale origine e stabile e costante permanenza delle singole specie (9); locchè riesce ad ammettere tanti (1) Ivi, nota f. (2) Ivi, pag. 338. (3) Vedi in proposito i brani allegati (pag. 249, alla» 252), di Sorignet, Maupied e Fée, di cui ci piace aggiungere quest'altro: « Les caractères qui unissent les éires vivants, quels soni-ils? Si Pon voulait descendre jusqu’aux parties élementaires des organes, sans avoir égard à la manière dont ils fon- ctionnent, et sans se preoccuper de la forme, on devrait aboutir necessairement à la cellule, ct déjà nous en avons fait la remarque; mais sans nier preciséement qu'il en soit ainsi, on se contente de chercher des rapporis d’ensemble, afin d’établir dans le rèégne organique une série continue également satisfaisante dans toutes ses parties. Nous voyons bien que les vertebres, pour ne parler que de cet embranchement le premier de tous, ont en commun une colonne vertebrale, base du squelette, un axe cérebro-spinal, des còtes et presque universellement des appendices destinées à la locomotion; mais la manière ‘de vivre est si differente et si bien appropriée aux milieux d’habitation, les téquments extérieurs sont si varies, que les ordres de cette division primaire semblent n’appartenir qu’à eurx-mémes: et Von se demande alors, sans trouver une réponse satisfaisante, par quels caracières les mammifères sont unis aux pois- sons ou aux reptiles, les oiseaur aux mammiferes, les poissons aux ciseaux, et l’on ne peut se dis- penser de constater que les types mammifère, oiseau, reptile et poisson sont parfaitement isolés. Ce sont bien des veriebrés, et si c'est par là qu’ils s’unissent les uns aux autres, plusieurs caractères, dont il est inutile de demontrer V’importance, les séparent. Les animaux à poils, à plumes, à ccailles n’ont qu’une parenté de convention. Rien ne rapproche intimement les mammifères des viseaua, ni V’ornithorkhinque, ni Vechidné; la chauve-souris qui vole, le phoque qui nage, l’autruche et le casoar-qui courent, n’en sont pas moins des mammifères et des oiseaux. La dissimilitude ne fait que se prononcer davantage, si nous passons des vertébres aux mollusques et des mollusques aux articulés, les uns privés de squeleite, les autres avec un squelette extérieur dont toutes les parties sont mobiles. Et que dirons-nous des rayonnés, animaux composcs, et des infusoires, si variés de forme? Quelle place leur donnera-t-on dans la série animale? Disons-le, le mot règne, tant de pure convention; peut éire diversement interprété, et l'on pourraît entendre dire, sans Ètre en droit de s'en éionner: le règne des vertébrés, des mollusques, des articulés, et pour les plantes,.les règnes des fucus, des champignons, des fougères, des palmiers, des conifères; et cela avec autant plus de raison, que si ces étres, si diversement organisés, ont en commun la vie, ils vivent de cent manières differentes. Ne sont-ils pas terrestres, aquatiques, pulmonés, bran- chiens, trachéens, carnassiers, herbivores, suceurs, vivipares, ovipares, ovovivipares, gemmipares? Le sang mest-il pas froid, chaud, rouge, rosé? Les sucs des plantes n’ont-ils pas une constitution chimique infi- niment varice? Ces dissemblances ne permettent pas toujours de souder ensemble les nombreux anneaue de la chaîne des tres, et cependant il faudrait qu'il fit possible d’en comprendre la continuité, autre- ment le système des types réduits, comme géniteurs de toutes les formes végetales et animales pecherait par sa base. — Que les étres vivants aient entre eux des analogies, qu’ils forment une longue série qui unit les organismes simples aux organismes composés, personne ne pourraît le nier. Vus par un cer- tain còté ils sont donc analogiques. Pour étre un animal il faut pouvoir se déplacer à l’aide d'organes PER GIUSEPPE GHIRINGHELLO - 259 tipi primordiali, distinti e permanenti, quante sono le specie ed i ge- neri, i soli tipi reali perchè fondati, non già sopra una più o meno locomoteurs, avoir en soi les moyens de réparer les pertes quotidiennes qu’entraîne la vie; il faut res- pirer, éprouver des sensations, se mettre en rapport avec des individus de son espèce pour reprodutre sa race. Pour étre plante, il faut absorber les liquides et les gaz, se les approprier en les décomposant; recevoir l'influence de Vair et de la lumière, se laisser pénétrer par le calorique, se reproduire à V’aide de germes; mais malgré la diversité des formes, animaux et plantes, devant naître, s’accroître, se re- produire et mourir, ne sauraient élre complètement isolés, puisque tous ont des destinées communes et que tous parcourent les mémes phases d’existence. Dire de deux étres organisés qu'ils vivent, c'est donc indiquer une parenté et constater des rapports d’organisation; de sorte que par ce còté nous pouvons admettre comme rigoureusement vrai l’axiome: Natura non facit saltus, mais en le paraphrasant, et en disant que la Nature, quì emploie toujours les mémes dléments pour donner la vie, ne varie que la forme, si bien que deux étres étant données, quelque séparés qu’ils soient en appurence par la structure ertérieure, il esi permis de décider qu’ils se ressemblent (matériellement) ezcore plus qu'ils ne different. Mais ces analogies fonciionelles n’empéchent pas la permanence du type specifique. (Op. cit. pag. 50, 51, 54, 55) ». E tale si è pure la sentenza del più volte lodato Duvernoy intorno alla stabilità delle specie ed alla primordiale loro origine, non ostante l'analogia di loro organizzazione. « Er dernier résumé, et au sujet des muscles des extremités, auxquels nous bornons notre communication d’aujourd’hui, je puis répeter ce que j’écrivais en 1809 à la fin de mon Mémoirè sur les muscles du mouvement du Phoque commun. - Tels sont les moyens départis aux phoques pour se mouvoir. Leur eramen anatomique fourmt une nouvelle preuse que, depuis l’homme qui semble fuir le sol dans sa marche, jusqu’à ces animaux qui y sont comme enchaînés par toute la longueur de leur corps, on trouve constamment un méme plan d’organisation. Pourtant ce sont les mémes leviers qui varient très-peu dans leur nombre et leurs rapports essentiels, mais qui presentent beaucoup de differences dans leur forme, leur longueur, dans la maniere dont ils sont joints au point d’appui, dans le degré de force, et dans la direction de la puissance qui les meut. Sous ces divers points de vue, les Phoques nous ont offert des modifications importantes, qui expliquent, il me semble, d’une manière satisfaisante, leurs mouvements singuliers..... Que Von substitue, dans ces conclusions genérales, que j'avais tracces il y a quarante- quatre ans, d’un travail analogue à celui-ci, le nom de singes à celui de Phoques: que l’on considère les nccessités de la vie habituelle sur les arbres et des mouvements qu'elle exige, au lieu de ramper sur le sol et de la natation pour la vie aquatique; on aura observe, avec le méme plan general d’organisation, d’autres modifications admirablement adapiées à ce genre d’existence, ainsi que j'espère l’avoir démontré dans ce Mémoire et dans le précédent pour les organes passifs du mouvement chez le Gorille et les autres singes de la méme famille (op. cit., pag. 136-137). » Così conchiude la seconda sua Me- moria, e sullo scorcio della terza: « Cette circorstance (l’esame di parecchi scheletri di antropoidi ) nous donne l’occasion de dire quelques mots sur la question de l'origine et de la permanence des espèces. Pour moi, cette origine première telle que nous l’observons, et conséquemment leur permanence, sont deux principes de mes doctrines et de mes convictions scientifiques, que je demande la permission d’expliquer ici. Mais on peut errer dans leur application ou dans la pratique; on peut distinguer quelquefois mal: à propos, comme espèces différentes, de simples variélés, ou confondre comme des varittés des espèces distinctes. Ces erreurs de jugement ou ces lacunes de la science ne peuvent detruire le principe basé sur les lois fondamentales de l’économie animale. Elles proviennent de ce qu'on ne peut pas suivre toutes les especes dans les diverses époques de leur vie, et reconnaître celles qui ne se mélent pas, et ne peuvent propager. ensemble. Les instincts, les époques du rut, les moyens de fécondation des germes y mettent un obstacle invincible dans Vétat de nature pour les espèces dissemblables; et les hybrides ne se produisent que par un artifice di à la puissance de l'homme; et pour une durée très-bornce (op. cit., pag. 228). » 260 LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE vaga ed incerta analogia, ma sopra il reale fondamento d’una promiscua illimitata o limitata fecondità; vero criterio e sempre sicuro, quindi preferibile a quello sovente fallace di una maggiore o minore analogia o rassomiglianza di forme (1). (1) V. sopra lom. XXII, pag. 373-378; tom. XXIV, pag. 178-188. (Continua). MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA MEMORIA DI DOMENICO PROMIS —ce>— Letta nell'adunanza del di 8 dicembre 1867 o Ata presente Memoria ho creduto di dover premettere poche parole affine di dar ragione di alcune cose che potrebbero lasciar supporre qualmente per inavvertenza avessi ommesso di riportare qualche mo- neta di questa zecca. Dirò adunque che ho stimato di pubblicare soltanto quelle delle quali tengo disegni tratti dagli esemplari della collezione di S. M. in Torino, del cavaliere Francesco Franceschi in Pisa e del signor Giuseppe Porri di Siena, perchè gli impronti dati in opere antiche , come nel Muratori e nel Bellini, abbenchè a primo aspetto sembrino diversi da alcune delle sopradette , tuttavia attentamente riscontratili colle monete stesse o con disegni scrupolosamente esatti, riconobbi provenire da pezzi ai suddetti affatto identici, e dell’apparente diversità essere causa la poca attitudine dei loro disegnatori ed intagliatori. 262 Siccome poi anticamente nel fare i conii quasi nessun conto tene- vasi di quell’esattezza ed uniformità che ora ben con ragione pretendesi, specialmente quando trattasi di rifare quelli guasti o rotti di una data specie di monete, ne avveniva che sovente con tutta indifferenza si alteravano le leggende variando od abbreviando alcune parole, e se i ponzoni delle figure, stemmi od altri impronti venivano a rompersi, poca cura si metteva rifacendoli di renderli esattamente uguali ai primi, perciò ho creduto, allorchè riscontrai tali variazioni essere di poca o nessuna importanza, di ommetterle per non moltiplicare di troppo i disegni. | Per la stessa ragione in quanto ai contrassegni usati dai zecchieri per distinguere le monete da essi lavorate, trovandosene spesse volte della stessa specie ma battute da vari di essi, li riunii tutti in una tavola dando a ciascuno un numero d’ordine corrispondente a quello indicato nel testo. Piacemi poi di rendere i dovuti elogi all’egregio signor Carlo Kunz di Venezia che con rara esattezza condusse tutti questi disegni e maestrevolmente li trasportò sulla pietra. MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA —T_eDa_ Ja Toscana al pari di qualunque altra provincia d’Italia possedette nei tempi di mezzo un ragguardevole numero di officine monetarie, cioè quelle di Lucca, Pisa, Firenze, Arezzo, Siena, Chiusi, Cortona, Massa di maremma e dei vescovi di Volterra in Montieri, Casole o Bavignone (*). (*) « Non comprendo fra queste la zecca di Pistoia propugnata dal Viani (Della Zecca e delle monete di Pistoia. Pisa 1813) perchè quantunque il comune avesse da papa Clemente VI ottenuto nel 1346 tal regalia (Zacharia. Anedoctorum medii aevi etc. collectio . Augustae Tauri- norum. 1755, pag. 253), tuttavia non vedendo simile privilegio confermato nel diploma dell’im- peratore Carlo IV del 1355 (?vî, pag. 254), abbenchè il pontefice in detta bolla dicesse che per essere vacante l’impero a lui spettava l’accordare tale diritto, il che era assolutamente falso, e non avendo alcun indizio dell’esistenza di monete pistoiesi baltute dopo quegli anni, ciò mi conferma nel credere che di esso Pistoia non abbia usato. » Non credo però di poter passar oltre senza dire qualche parola di un curioso tremisse d’oro uguale nel tipo ai longobardi di Lucca e Pisa, il quale conservasi nel ricco museo Trivulzio in Milano e che forse potrebbe essere uscito dall’anzidetta zecca. Ha esso da una parte una croce colle solite lettere VI ripetute in giro e dall’altra, dove nei sopradeiti evvi attorno alla stella Flavia Luca o Pisa, nel nostro leggesi FLAVIA PITVRIA, È noto che i re longobardi moneta non coniavano che nelle città d’una qualche importanza, epperciò ad una di esse pro- babilmente deve spettare, e altra non trovandosi il cui nome col sudetto abbia alcuna analogia fuorchè Pistoia, sospeitai che questo vi si abbia voluto segnare. Avendo perciò cercato come tale città nei documenti di quell'epoca venisse chiamata, rinvenni nel Brunetti ( Codice diplo- matico toscano. Vol. I. Firenze 1806 pag. 530) un atto del 749 actum Pistoria regnando il re Rachis, e così la trovai denominata in carte posteriori. Ora appunto se a Pituria dopo la prima I sì mette una S si ha Pisturia, lo stesso che Pistoria, trovandosi sovente in quei secoli adoprato la V per lO nei nomi di città e terre; con ciò non essendo abbastanza certo circa questa at- tribuzione, contentandomi di esporre tale dubbio, ommetto di inserirla colle altre antiche zecche toscane delle quali do un cenno nell’iniroduzione a quella di Siena. » 264 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA Di questo numero due sole vennero illustrate ed ancora soltanto in parte, imperciocchè della più antica, che fu quella di Lucca, coi disegni delle monete sino alla sua ultima epoca venne solamente scritta la storia a tutto il secolo decimo (1), e dell’altra di Firenze, con una introduzione dell’Orsini e coll’ impronto di un certo numero di pezzi nient'altro fu pubblicato che il registro antico della zecca dal 1281 alla caduta della repubblica (2). Delle altre sette alcune poche monete furono edite dal Muratori (3), dal Bellini (4), sparsamente in vari altri scritti di numismatica ed ac- cidentalmente in qualche storia municipale; però si ha da eccettuare quella di Siena, sulla quale, specialmente per l’epoca in cui un gran numero de’ suoi cittadini per conservare la propria indipendenza si ri- fugiò in Montalcino, abbiamo un erudito lavoro del signor Giuseppe Porrit(0) In verità poche cose per la loro breve durata si aveva a dire di quelle di Arezzo, Chiusi, Cortona, Massa e Volterra, ma non così di Pisa e Siena, delle quali la prima ebbe vita autonoma sino al princi- piare del decimoquinto secolo, e la seconda sino alla metà del susse- guente. Spinto da vivo amore per la numismatica italiana era mio in- tendimento di riempiere in qualche modo tale lacuna, quando gentilmente il senatore conte Scipione Borghesi mi cedette le memorie da lui rac- colte sulla zecca di Siena, ed il signor Luciano Banchi direttore di quell’archivio con ugual cortesia diedemi copia di una quantità di do- cumenti che egli stesso estrasse dai registri del gran consiglio, dei consoli di mercanzia, di concistoro e dagli statuti dell’arte della mercanzia, ai quali s'aggiunsero il signor Porri sopralodato, che con rara cortesia mise a mia disposizione la preziosa sua collezione di monete patrie affinchè ne ricavassi i disegni che mi abbisognassero e potessi verificare la legge cui esse furono lavorate, ed il cavaliere Francesco Franceschi di Pisa, al quale pure devo vari preziosi calchi gentilmente ricavati dall'abate Ciabatti sugli esemplari della sua ricca e pregevole raccolta di nummi (1) Memorie e documenti per servire alla sloria di Lucca. T. XI, ivi 1860. (2) Storia delle monete della repubblica fiorentina. Firenze 1760. (3) Antiquitates italicae medii aevi. T, II. Mediolani 1739. Dissertatio XXVII. (4) De monetis Italiae medii aevi hactenus non evulgatis dissertaliones. Ferrariae 1755-1779, vol. 4. ì (3) Miscellanea storica sanese. Siena 1844, pag. 99. DI D. PROMIS. 265 italiani e specialmente della Toscana. Vedendomi perciò ricco di tanti materiali mi determinai a tentare la storia monetaria di questa impor- tante repubblica dall’origine alla sua caduta, procurando di classificarne cronologicamente e secondo le varie battiture le monete, e dando la serie dei contrassegni impressi su di esse dai vari zecchieri. Siccome poi una grande uniformità osservai nelle leggi che regola- rono ne’ tempi di mezzo la stampa delle monete nelle diverse officine della Toscana, credo opportuno, prima di trattar di quella di Siena, di dire alcune cose della condizione delle altre di Lucca, Pisa, Firenze ed Arezzo, cioè di quelle che lavorarono prima del secolo decimosecondo, quando ebbe erigine la nostra. Comincio adunque da quella di Lucca, la più antica di tutte perchè quantunque non si conosca l’epoca precisa in cui venne aperta, tuttavia di poco dovette essere posteriore a quella in cui 1 Longobardi s’ impa- dronirono di questa parte d’Italia e fecero di tale città la sede di un loro duca. Il San Quintino (1) opinò che i tremissi d’oro col suo nome in monogramma e senza l’aggiunta di /Vavia fossero anteriori ad Autari per essere stato questi il primo re della sua nazione ad intitolarsi £Ya- vius ad imitazione degli imperatori romani della decadenza, ma non contento di dirli solamente ad esso anteriori li riputò coniati quando Lucca avanti di cadere sotto il dominio dei Longobardi godeva della propria indipendenza , senza però addurre alcuna prova della sua as- serzione , mentre invece è noto che questa provincia, come la Liguria tutta, prima di venire occupata da Rotari era soggetta all'impero bi- zantino, e che nessuna città in Italia allora reggevasi a libertà. Bastava poi un attento esame di tali pezzi per riconoscerne l’origine tutta lon- gobarda , essendochè questa sola nazione usò nelle monete quell’anello che ‘assai rilevato ne circonda il campo (*). In quanto all’epoca della loro battitura, non possono essere anteriori al detto re che s’ impossessò di Lucca verso la metà del secolo settimo, onde questo sarebbe il primo (1) Memorie e documenti ecc. T. XI, pag. 8. (©) « Errò egli pure mettendo a capo di tali tremissi, come lucchese dell’epoca romana, una piccola moneta d’argento che per essere ossidata credette di rame, la quale ha da un lato una testina e dall’altro in una corona che pare di olivo un monogramma in cui lesse Zuca, ma che » invece contiene il nome di Gelimaro re dei Vandali in Affrica nel 530, e come tale pubblicata dal Sabatier nella Description genérale des monnaies byzantines (Vol. 1, Parigi 1862, T. XX, » n.° 20). » Serie II Tom. XXIV. i 34 Ri 266 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA saggio di moneta propria dei Longobardi, dei quali però nessuna se ne conosce segnata col nome di alcuno dei loro principi anteriormente a Pertarido salito al trono nel 671 (1); con tutto questo non intendo di dire che prima non avessero monete, chè già ne lavoravano ma all’ef- figie di Maurizio Tiberio imperatore dal 582 al 602, e sono quei tre- missi tra noi tuttora comuni con largo anello ed imitanti nel tipo quelli di Costantinopoli. In seguito ai suddetti il nostro autore colloca quelli coll’aggiunta della parola FYavia al nome della città scritto attorno alla stella del campo, e dice essere longobardi e spettare al secolo VII ed VIII, ma siccome in tutto ad eccezione del nome reale sono uguali a quelli di Astolfo che loro vengono dopo, di non troppo devono in conseguenza essere ad essi anteriori, onde opinerei che i primi da lui dati come anteriori ai Longobardi siano stati da questi coniati negli anni che corsero dall’oc- cupazione di questa città al finir del settimo secolo, e gli altri datino da quest epoca cioè dal regno di Ariperto II sino a tutto quello di Rachis. Venendo ai tremissi di Astolfo, ignoro dove il San Quintino abbia 5 scoperto che questi aumentando il numero delle zecche, abolita ogni distinzione e varietà di tipo, ordinò che tutte le monete fossero batiute in suo nome, ma non vedendo tal cosa notata da alcuno storico nè indicata nelle sue leggi, inoltre avendone io trovate due in oro (2) con tipo affatto diverso da quelli cui esso allude colla stella e croce , so- spetto abbia creduto di poter ciò affermare per vedere con tale im- pronto i tremissi di quel re battuti in Lucca e Pisa, e così tutti quelli del suo successore Desiderio. In quanto alle monete di rame, di una delle quali a pag. 34 ci da un imperfetta descrizione, tale pezzo non può essere che una falsifica- zione, non trovandosi mai usato d’improntare coi conii di quelle d’oro monete in detto metallo come appunto ne sarebbe il caso, poichè il tipo e la leggenda che ne dà sono precisamente quelli del tremisse pa- vese edito dal Caronni (3); così lo stesso dicasi di uno riportato dal Leblanc (4) e di altro pure datoci dal nostro autore col n.° 14, nella (i) Monete di zecche italiane inedite o corrette. Torino 1867, pag. 8. (2) Monete di zecche italiane ecc. Tav. I, n. 2 e 3. (3) Ragguaglio di alcuni monumenti di antichità ecc. Parte II. Milano 1806, Tav. VI,n° 59. (4) Trailé historique des monnoies de France. Amsterdam 1692, pag. 102. DI D. PROMIS. 267 Tav. II; e poi come spiegare che nelle provincie le quali anticamente facevano parte del regno longobardo mai si siano scoperte monete di essi in rame, che appunto per essere di tal metallo dovrebbero essere comunissime, ed invece soltanto si trovano tra noi folleri di Bisanzio dei secoli VI e VII? Ciò mi conferma sempre più nell’opinione che tal nazione, ad eccezione di Pertarido del quale abbiamo silique d’argento, non abbia battuto che monete d’oro. Caduta per opera di Carlomagno nel 773 questa monarchia, subito sì coniarono in Lucca tremissi col nome del nuovo re uguali nel tipo a quelli d’Astolfo meno alcuni sul quale si volle improntare la sua ef- figie (1), ma tutti alterati nella bontà a tal segno che uno, per essere a cagione della troppa lega d’argento affatto bianco, fu dal San Quin- tino creduto di questo metallo (Tav. IV, n.° 3). Notisi poi che sopra di essi vedesi il suo nome esclusivamente col titolo di re, onde devono essere stati emessi prima che venisse nell’800 coronato imperatore in Roma e che nel nuovo regno abolisse la moneta d’oro e v' introducesse con quella d’argento il sistema vigente in Francia dai tempi di Pipino, cioè denari a soldi 22 la libbra (2), onde cadun pezzo veniva ad esser del peso di grani 23 incirca, del quale appunto ne riconobbi alcuni come quelli della Tavola IV del S. Quintino coi n.' 4, 5 e 6, quan- tunque i due primi negli ornati a perlette e nella disposizione delle lettere varino dal terzo di tipo affatto francese. Segue il n.° 7 appartenente all'imperatore Ludovico il Pio suo suc- cessore, lavorato secondo quanto era prescritto in un editto di poco anteriore all'anno 800 (3), a tenore del quale i nuovi denari dovevano essere d’argento fine e di grani 32. Il pezzo col n.° 8, quantunque non abbia l’autore indicato a chi intendesse attribuirlo, tuttavia per essere collocato dopo Ludovico scor- gesi averlo voluto dare a Carlo il Calvo oppure al Grosso. Di tal pezzo conservansi nel medagliere di S. M. alcuni esemplari tutti uguali nel tipo e nella legge ma col nome di diverse città come Milano, Pavia e Trevigi, per il che da taluni furono creduti assieme coniati da Carlo (1) Massagli. Della zecca e delle monete lucchesi dei secoli di mezzo. Lucca 1858, Tavola annessa, n.° 4. (2) Monete dei papi avanti il mille. Torino 1858, pag. 46. (3) Idem, pag. 47. 268 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA il Calvo oltremonti a nome delle principali città del regno italico, e da altri si opinò essere stati battuti dallo stesso nella penisola, e tali li credettero perchè diversi nell’impronto da quelli del primo Carlo, sulla cui attribuzione non vi poteva essere dubbio alcuno. Io invece opinerei che a Carlo Magno debbano pure essi spettare perchè anche non te- nendo conto che nei denari di questo sempre leggesi Car/us come nei suddetti pezzi, quando in quelli del Calvo e del Grosso il nome è scritto Karolus o Carolus col titolo di ftex Francorum, Carlo il Calvo non avrebbe avuto tempo di battere tante monete ed in sì diverse zecche d'Italia con questo solo titolo , poichè venutovi sul finir di settembre dell'875 quasi subito passò a Roma, dove fu incoronato imperatore il 25 dicembre per mancare ai vivi nell’ ottobre dell’887, epperciò su tutte le monete da lui emesse in questi mesi dovrebbesi leggere Karolus imperator come appunto evvi su quella coniata in Roma da papa Gio- vanni VII (1); in quanto poi a Carlo il Grosso, non essendo mai stato re dei Franchi, l'attribuzione è impossibile. Dopo Carlo e Ludovico il San Quintino non riporta più alcuna mo- neta con nome d'imperatore, quantunque sia di tutta probabilità che Lucca ne abbia battute regnando Lotario I, Ludovico II, Berengario I, Guido e Lamberto, conoscendosene coi nomi di Ugo e Lotario II suo figliuolo, de’ quali un bel denaro venne già da me pubblicato (2), e così nessuna dandocene di Berengario II che ad essi successe ci offre l’impronto di alcune dei due Ughi marchesi della Toscana, dei quali il primo partigiano e favorito da questo re, cacciandone Oberto figlio naturale del re Ugo, ebbe la signoria di questa provincia alcun tempo dopo il 950 per tenerla sin verso il 961, quando alla sua volta per la caduta del re suo protettore ne venne spogliato e la Toscana data dall'imperatore Ottone I o II al giovanetto Ugo In figliuolo dell’anzi- detto Oberto (3), il quale la governò sino al finire del roor allorchè passò all’altra vita. Che ai due Ughi sia stato accordato il privilegio di segnare del loro nome le monete da essi in Lucca battute non consta, però è pro- (1) Monete dei papi avanti il mille. Torino 1858, Tav. IV, n.9 il. (2) Rivista della numismatica antica e moderna. Tav. I. Asti 1864, Tav. III, n.0 4. (3) Della Rena. Serie degli antichi duchi e marchesi della Toscana. Parte I. Firenze 1690, pag. 158. DI D. PROMIS. 269 babile che, stante l’esservi già una zecca, al primo sia stato concesso da Berengario di conservarla mettendo sulle monete che in essa faceva lavorare il proprio nome appunto come usavano nell'Italia meridionale alcuni principi longobardi, ed il secondo ciò abbia ottenuto da uno degli Gttoni quando sposò Giuditta loro parente; e la ragione ne sa- rebbe che sopra tutti i danari che di lui si conoscono leggesi sempre col suo il nome della moglie. Ignorasi la data di questo matrimonio, ma l’essere stato Ugo II elevato alla dignità di marchese affatto gio- vanetto fa credere che abbia avuto luogo regnando Ottone II cioè prima del 983. Che avanti quest'anno esso si facesse si arguisce dal rinve- nirsi denari di Lucca col nome dei due Ottoni, dei quali il S. Quintino riporta sei esemplari con piccole varietà, aventi però tutti da un lato Otto imperator pel padre e dall'altro Otto pius rex pel figlio, onde bat- tuti innanzi che questi fosse dal primo dichiarato suo collega nell’im- pero, in conseguenza anteriori al 967. Nessun denaro si ha del terzo Ottone, dovendo essi essere molto rari perchè solamente battuti dal finire del 1001, quando per la morte di Ugo II cessò la zecca dei marchesi, al 1004 epoca del trapasso di questo Cesare. Essendo nel 1002 stato innalzato al trono d’Italia il marchese Ar- duino d'Ivrea, la Toscana se gli dimostrò ostile, ed appena seppesi Enrico II re di Germania essere sceso in Italia subito per esso si di- chiarò (1), ed allora dovettero cominciarsi a battere i denari riportati nella Tav. V coi n 11 e 12 ed i mezzi della Tav. VI ni 3 e 5, sui quali volendosi imitare il tipo dei precedenti mettendo il nome di Enricus nel diritto, nel rovescio dove nel campo leggevasi Otto conser- varonsi le due T legate in modo da parere una H. Essendo nel 1024 all’ imperatore Enrico succeduto Corrado I, in Lucca le monete vennero segnate del nome di esso, come consta dal denaro edito dal nostro autore nella Tav. VI col n.° 1, il quale, al nome di Chuinradus essendo aggiunto il titolo d’imperatore, al primo senza dubbio appartiene. Posteriore a questo trovasi una gran quantità di denari coi nomi del secondo, terzo e quarto Enrico, ma talmente barbari e di sì bassa (1) Memorie e documenti ecc. Vol. I. Lucca 1813, pag. 121. 2709 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA lega che taluni paiono di puro rame e sono appena leggibili; di essi poi continuossi a lavorare sino al secolo XHI, e sono quei tali che equivalevano secondo il Carli (Delle monete e zecche d’Italia. T°. II, pag. 188) ad un terzo dei pavesi. Contemporanei ai tremissi lucchesi della seconda epoca, cioè quelli sui quali in giro vedonsi ripetute le lettere VI VI, sono i primi che si conoscono di Pisa, però coll’epiteto di Gloriosa (1), titolo che deve essere stato concesso da uno dei re longobardi probabilmente a cagione di qualche importante azione della marineria di questa città, ma che venne presto cangiato coll’altro di FYavia per imitare quelli della vicina Lucca (2); sia gli uni che gli altri però sono anteriori ad Astolfo, re- gnando il quale i tremissi vi si segnarono del suo nome (3); così quantunque nessuno io ne conosca, sono certo esisterne del re Desi- derio, come si hanno denari d’argento di Carlomagno (4) con Pisas simili a quelli sopracitati di Lucca, Milano, Trevigi e Pavia, e se la memoria non m’ inganna ne vidi pure di Ludovico il Pio. Da quest'epoca non si trovano più monete pisane sin dopo il 1000, e se in quel frattempo se ne lavorò poca ne dovette essere la quantità nessuna conoscendone, e le prime, come appare da documenti, che indi vi furono battute sono certe falsificazioni dei denari lucchesi alterati anche nella legge , e dei quali il San Quintino ci diede un saggio nel n.° 4 della Tav. VI; e tale contraffazione dovette esser una delle cagioni per cui i Lucchesi ricorsero all’arcivescovo di Magonza legato dell’im- peratore Federico I per ottenere che fosse proibito ai Pisani di batter moneta (5). Venute nel 1181 a concordia queste due città (6) recipro- camente si convenne di lavorare i denari alla stessa legge, che l'una non contraffacesse quelli dell’altra, che il lucro risultante si dividesse metà per caduna, e che sulle monete di Lucca col nome della città si (1) Friedlaender. Numismata medii aevi inedita. Berolini 1835, pag. 18 e Tav. I n.° 8. « Questa moneta, abbenchè mal disegnata, fu la prima volta dal Muratori pubblicata » (Antiquitates italicae ecc. Tom. II. col 721, n.° 1), ma per essere d’oro basso e con molta lega » d’argento egli la credette di questo metallo. » (2) Ivi. Tav. I. n.° 8. (3) Cantini. Storia del commercio e navigazione dei Pisani. Vol. 2. Firenze 1798, pag. 124. (4) Zanetti. Nuova raccolta delle monete e zecche d’Italia. Tomo IV. Bologna 1786, pag. 55. (5) Vantancoli Montazio. Annali di Pisa. Vol. 1. Lucca 1842, pag. 341. (6) Carli Rubbi. Delle monete e della istituzione delle zecche d’Italia T. II. Pisa 1757, pag. 150. Ci DI D. PROMIS. 27! mettesse quello dell’imperatore Enrico e sopra quelle di Pisa, le quali dovevano essere più larghe e rotonde, si segnasse quello di Federico o Corrado , rinunziando nello stesso tempo quest’ ultima al diritto che diceva avere dagli imperatori di coniare denari uguali nel tipo ai luc- chesi. Dei pezzi con Enricus ho detto sopra, ma con Conradus e Pisa sinora ignoro se ne esistano; in quanto agli altri con Fredericus cre- derei che uno ne debba essere quello dal succitato autore inserto col n.° 8 nella Tav. VI, sul quale vedesi nel diritto una grande F e sul cui rovescio egli volle leggere Zuca, nome che non ho potuto discer- nere in un ottimo calco che tengo per essere le lettere talmente confuse da rendere impossibile una qualunque sicura spiegazione ; solamente è a tenersi conto di questo, che tanto tal denaro quanto l’altro col n.° 4 che dissi sospettare esser pure di Pisa ma amendue emessi prima del- l'epoca anzidetta, pesano solamente grani 14 e sono di basso argento onde di un valore intrinseco assai inferiore ai buoni, al quale grave inconveniente pare essersi voluto rimediare colla citata convenzione, ed appunto ciò proverebbe il trovarsi cinque anni dopo; cioè in con- tratto del 1186, specificati solidi bonorum denariorum pisanorum (1). A proposito della citata carta del 1181 farò osservare che il Mu- ratori (2) leggendovi doversi dividere il lucro a ricavarsi sulle monete e specificarsi quali leggende dovessero quelle di ciascheduna città avere, fu indotto in errore e credette trovarvi una prova che solamente in quella di Lucca aveansi esse a lavorare, quando invece vi è chiaramente espresso che in amendue le città la nuova moneta si sarebbe battuta separatamente. } Dopo Pisa la più antica città della Toscana della quale sappiasi esistere nummi ne’ tempi di mezzo è Firenze, grazie al prezioso denaro di Carlomagno pubblicato dal dotto padre Tonini, sul cui rovescio leg- gesi Florent (3), che, sebbene di tipo affatto francese come quelli di Lucca e Trevigi, ben disse appartenere alla sua città e probabilmente battutovi quando questo re passando per la Toscana nel 786 vi si fermò (1) Zanetti, come sopra. T. I, pag. 315. (2) Antiquitates italicae medii aevi. T. II. Mediolani 1739, col. 715. (3) Revue numismatique. N. S. T. VIII, pag. 124. 272 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA per celebrare le feste del SS. Natale (1), essendochè i Carolingi usavano sovente coniar moneta dove trovavansi risiedere anche temporariamente considerandosi sempre în palatio nostro:, ma che altra ivi più non siasi coniata per lungo tempo devesi arguire dal non essersene mai indi sco- perta col nome di Firenze alcun’alira anteriore al XII secolo, nè tro- varsi indizio di denari fiorentini nelle carte a quest'epoca anteriori, anzi una prova che in que’ tempi moneta ivi non battevasi si ha in un atto delli 6 luglio 1184 (2) riferito dal Targioni Tozzetti, nel quale i suoi cittadini, formando una lega di vent'anni con Lucca, convennero che sull’argento che avrebbero portato alla zecca di questa città per essere convertito in monete loro sarebbe rimasta la metà del guadagno da esse ricavato, dedotta prima quella parte che spettava ai Pisani. Inoltre detto autore cita una serie di documenti fiorentini dal 1044 al 1167 nei quali esclusivamente sono nominati i denari lucchesi, indi altri dal 1186 al 1258 che menzionano soltanto denari pisani, ed il primo che riferisce nel quale si parli di fiorini, o meglio di moneta locale, è uno del 1267 (3), prova questa indubitata che in Firenze zecca ancora non esisteva anteriormente al 1200; ed a chi per provare il contrario ad- ducesse un atto del 1143 per estratto riportato dal Fantuzzi, nel quale leggesi pro florenis 4o fortiatorum lucensium (4), osserverò che tale modo di dire soventi volte trovasi ne’ bassi tempi usato come in questo caso per indicare quaranta fiorini d’oro in tanti denari rinforzati di Lucca, o meglio tanti denari lucchesi che equivalessero a quaranta fio- rini d’oro; ora siccome i rinforzati non cominciaronsi a battere in Lucca che nel secolo XIII avanzato e dopo che erasi già da un tempo dato principio a lavorare grossi, e che nelle tante carte riferite dallo stesso Fantuzzi sino al 1120 si nominano solamente denarii veneticii, dal 1123 al 1200 denarii lucenses mai però colla distinzione di fortiati, e da quest'anno in poi i soli r'avennates, in conseguenza vedesi esservi errore nell’anno e doversi probabilmente leggere 1343, quando ‘appunto già erano i comuni rinforzati di Lucca, e da lungo tempo correvano i fio- rini d’oro. (1) Pertz. Monumenta Germaniae historica. Scriptorum Tom. I. Hannover 1826. Annales Lauris- senses, pag. 168. (2) Zanetti. T. I, pag. 295. (3) Idem, pag. 312 e 316. (4) Monumenti ravennati. T. Il. Venezia 1802, pag. 267. DI D. PROMIS. 273 Rimane ancora a dirsi alcunchè della zecca d'Arezzo, della quale città pubblicai un denaro coniato da Ugo I marchese di Toscana prima del 961 (1), e questo è l’unico pezzo che di essa sinora si conosca an- teriore al secolo XIII, quantunque sia noto avere quei vescovi ottenuto il diritto della zecca sin dal 1052 dall'imperatore Enrico IT, che nel diploma fa menzione di altri più antichi (2); tuttavia questo privilegio quantunque confermato da Enrico VI nel 1196 (3) pare sia loro stato contrastato dai cittadini trovandosi le prime monete dopo tal epoca battutevi essere segnate soltanto del mome del comune. Ora nelle carte aretine che esistono ‘anteriori al 1200 vedendosi solamente nominati de- nari lucchesi e pisani, m’induce a credere che il potente marchese Ugo trovandosi in Arezzo ad imitazione dei Carolingi e ad ostentazione dei suoi diritti abbia voluto battere col nome della città nella quale mo- mentaneamente risiedeva denari uguali a quelli che faceva lavorare nella zecca di Lucca. Da quanto ho esposto appare adunque due sole essere state in Toscana le officine monetarie che dall'epoca dei Longobardi sino a tutto il secolo decimosecondo costantemente lavorarono, cioè quelle di Lucca e di Pisa, e che esse dopo il mille sonosi trovate in uno stato tale di decadenza che i denari i quali di questi anni ne uscirono e che ave- vano corso quasi solamente in Toscana, non erano più d’argento fine e del peso di grani 3o od incirca come gli antichi, ma di bassa lega e ridotti alla metà del loro primitivo peso. Tale era la condizione monetaria di questa provincia quando una nuova zecca vi sorse senza che alcuna traccia siasi scoperta della sua origine, e per questo appunto e per non leggersi sulle sue monete il nome di imperatore e di altro principe sono indotto a credere ciò es- sere avvenuto spontaneamente stante la prospera condizione in cui tro- vavasi il comune nel quale venne aperta. Intendo dire di quella di Siena, città antichissima e delle più illustri d'Italia, la quale dopo i Carolingi passata colle altre della Toscana sotto questi marchesi, e quando nell’un- decimo secolo èssi vennero meno, messa per imperial decreto sotto la dipendenza del proprio vescovo, ben presto come le altre sue vicine (1) Rivista della numismatica ecc. T. I, pag. 31 e Tav. I, n.09. (2) Carli Rubbi. Come sopra. T. HI. Lucca 1760. Appendice pag. 12. (3) Idem. T. I, pag. 299. Serie IL Tom. XXIV. 35 274 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA sorta a libertà nominò consoli per reggere la cosa pubblica, e mercè il suo buon governo e la propria attività ed industria ampio sviluppo presero le sue relazioni commerciali , onde in breve tempo se ne ac- crebbe la potenza e l’opulenza de’ cittadini. Ordinatasi adunque a comune subito vide quanto fosse utile alla sua popolazione avere una moneta propria e tale che nelle vicine città facilmente potesse esser ricevuta, perciò deliberò di far battere denari minuti di argento come vedeva farsi in altre zecche d’Italia. In quali anni però questo avvenisse non consta, ma dal peso dei più antichi che a noi ne pervennero di grani 12 incirca ed a basso titolo, dall’ assieme del loro tipo e dalla fina quadrata e barbara delle lettere impressevi evidentemente appare essere stati coniati verso il finire del decimoprimo od al più tardi nei primi anni del decimosecondo secolo. Di questi pezzi quello che parmi il più antico (T.I, n.° 1) ha nel campo del diritto fra quattro globetti una grande S messa al rovescio ed attorno SENA VETVS, colla lettera A da ambi i lati affatto informe, le S della leggenda coricate, le E in forma di mezza luna con un punto in mezzo per distinguerle dalla C, ed invece della T una semplice asta: nel rovescio poi attorno ad una croce quasi patente leggesi precedute da un globetto ALFA ET GL), motto tolto dall’Apocalisse dove il Si- gnore dice Ego sum Alpha et Omega, principium et finis. Le lettere L e F vi sono rappresentate da due semplici aste e l'Q in carattere mi- nuscolo è formato d’un’asta fra due mezze lune affrontate. Vengono dopo altri denari che per la forma di alcune lettere paiono un poco al suddetto posteriori, e di essi il primo (T.I, n.° 2), uguale al precedente nel diritto, nella leggenda del rovescio ne differisce in questo che manca del globetto, la L è ben espressa, la F è uguale ad una C quadrata e l°Q è chiuso nella parte superiore. Il secondo (T. I, n.° 3) è simile al precedente ad eccezione che prima dell’a/fa evvi un globetto. Il terzo (T. I, n.° 4) varia soltanto dall’ora detto nell’essersi posto il globetto anche prima di Sena vetus. Il quarto e quinto (T. I, n.° 5 e 6), simili al terzo in ambe le leggende, hanno' le croci quasi patenti ed appuntate e variano tra essi nel modulo. Queste monete, le quali per la legge cui furono lavorate appaiono uguali ai denari lucchesi e pisani o stessa epoca, provano quanto superiormente dissi che questi erano i soli ai quali contrattavasi in Toscana, ragione per cui aprendo Siena la nuova sua zecca credette DI D. PROMIS. 279 doverli imitare, e che tale sistema monetario fosse allora a vigore in questa città lo prova la promessa dall’ambasciatore sanese fatta a Firenze li 22 marzo 117ì (1) che monetam pisanam quam modo Florentini ha- bent, vel aliam rationabilem quam in antea aquisierint faciam bannire în civitate senensi ciusque comitatu: et ut predicti homines eam acci- piant et tollant in arringo, consules senensium precipient suis civibus per sacramentum ui eorum cambium portent ad monetam pisanam , ossia di avere la moneta pisana per base delle sue contrattazioni come usavasi a Firenze, che, come avanti si è veduto, non aveva ancora mo- neta propria (*). Cinque anni dopo, cioè nel 1180, essendo venuto in Toscana l’ar- civesecovo di Magonza legato dell’ imperatore Federico I, mediante il dono di quattro mila lire, promise a questi cittadini per atto pubblico di ottenere loro da Cesare diversi privilegi e fra essi quello corfirma- tionis monetae (2) ma se stiamo a quanto dice il Malavolti (3) papa Lucio III, eletto nel 1181 in luogo di Alessandro III morto in quest'anno, volendo favorire Lucca sua patria ottenne dal detto imperatore che in ‘ Toscana altra moneta non si potesse usare che la lucchese; quello però che di certo consta si è che tre o quattro anni dopo per essere stato a Federico rifiutato dai Sanesi l’ingresso nella loro città e ‘battute le sue genti presso il Rosaio, tolse loro tutti i privilegi concessi già dai suoi predecessori, indi contro di essi mandò con un esercito il re En- rico suo figliuolo , il quale avendo nel maggio del 1186 cinta la città d’assedio , gli abitanti presto trovandosi ridotti a mal partito per atto del susseguente giugno cedettero al re omnia regalia, iura et iuris- dictiones quae pertinent ad imperium infra civitatem et extra. Et nomi- natim monetam et pedagium sive teloneum, quam facere consueverunt (1) Archivio di Siena. Caleffo vecchio. (*) « Il Carli Rubbi (T. I. Mantova 1754 pag. 213}) parlando di questa convenzione cita in » appoggio il Malavolli (edizione prima. Siena 1574 pag. 120), ma ne riferisce soltanto quel » tratto in cui dice che i Sanesi dovessero usare moneta pisana, come î Fiorentini avere autorità di » battere moneta loro propria, e spenderla, ommettendo così la virgola dopo Foreztini ed il verbo » volendo in principio del periodo. Erroneamente quindi conchiude che quest’ autore serve a » provare la sua opinione, cioè che allora Firenze già avesse moneta propria, però crede di dover » soggiungere che di tal tempo non eransene ancora vedute e che egli ne avea soltanto del secolo » XII e di argento. » (®) Muratori. Antiquitales ilalicae medii aevi. T. IV, col. 575. (3) Historia di Siena. Venelia (Siena) 1599, fol. 35. 276 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA vel faciunt (1), e ciò prova che già ben prima di quest’ epoca erano in possesso della zecca; mediante poi tale rinunzia ed un grazioso dono di alcune migliaia di lire lo stesso Enrico li 25 del susseguente ottobre con diploma dato a Cesena (2) regia qua fungimur maiestate conce- dimus ipsis civibus senensibus potestatem cudendi et faciendae monetae in civitate senensi, e questo privilegio venne confermato da Ottone IV in Fuligno li 15 dicembre del 1209 (3) e indi li ro gennaio 1221 dal vicario imperiale Corrado vescovo di Spira (4). Ritornando ora alle monete che in questi anni in Siena battevansi, pare che sul finire del decimosecondo secolo continuossi a lavorare degli anzi descritti denari minuti, ma a quest'epoca, quantunque nessun cenno nè presso i cronisti nè nelle carte di quel secolo si trovi di una riforma monetaria in Toscana, vediamo essersi contemporanea- mente sì in questa città che in Firenze, Lucca, Pisa ed Arezzo coniati denari d’argento fine ossia a denari 11. 12, bontà massima cui coi mezzi chimici d'allora potevasi portare questo metallo, e dei peso di grani 32 caduno, come abbiamo notato esser quelli di Carlomagno e di Ludovico il Pio. Queste ottime monete, che dai nummografi italiani furono classi- ficate fra le più grosse d’argento dei bassi tempi e che servirono di base al nostro sistema sin oltre la metà del secolo decimoquinto, quantun- que soventi volte venissero alterate, furono sino dai loro primordi chia- mate grossi per distinguerle da quelle che finallora nelle anzidette ofli- ‘cine battevansi, le quali essendo alquanto più basse di titolo e di minor peso furono in conseguenza dette denari piccoli ed altrove imperiali. Questi nuovi pezzi si lavorarono a tal legge che. per uno di essi dodici degli altri abbisognassero, ed appunto se si moltiplicano dodici piccoli per 14 grani loro peso, si avranno grani 168, che a denari 2 loro comune titolo danno grani 28 di fine, quantità che si approssima assai a quella contenuta nel grosso cioè grani 30 di fine, diversità minima e della quale nessun conto si deve tenere conoscendosi quanto maggiore sia la spesa che richiedesi per lavorare dodici pezzi invece di uno, oltre il rame necessario per allegarli. (4) Muratori. Come sopra. T. IV, col, 467. (2) Idem, col. 469. (3) Malavolti ecc., fol. 45. (4) Idem, fol. 49. DI D. PROMIS. - Solo] Avanti però di passare alla descrizione dei primi grossi di Siena, in appoggio della sovra esposta opinione che fra le varie città della Toscana aventi zecca sul principio del secolo decimoterzo abbia avuto luogo una convenzione per la riforma monetaria, parmi opportuno di indicare quali fossero quelli contemporaneamente coniati alla legge dei suddetti nelle vicine soprannominate città, e cominciando da quella che indi sopra tutte le altre meritamente primeggiò, cioè Firenze, il di cui. grosso detto fiorino, il più antico nummo che se ne conosca e del quale un esemplare conservasi nel medagliere di S. M. anteriore fuor di dub- bio, per esser privo di tutti i punti, a quello datoci dal Pfister (1) e dell’altro dell’ Orsini (2), appartiene ai primi anni del decimoterzo se- colo, od al più agli ultimi del decimosecondo. Di Lucca si hanno nel S. Quintino (3) due grossi un po’ vari nei conii ma ambidue contemporanei ai sopraddetti, ed in essi vedesi nel diritto la testa di fronte del Salvatore coronata, e nel rovescio col nome attorno di uno degli Ottoni due T di forma semplice legate assieme. Il Carli Rubbi (4) appoggiandosi all’Ammirato (5) disse non poter attri- buire tali monete ad Ottone IV come fece il Muratori (6), ma essere quelle state coniate da Castruccio Castracani in Signa, invece l’errore è suo, chè i due grossi al semplice aspetto riconosconsi di un’ epoca anteriore al secolo XIV nel quale il suddetto ebbe la signoria di Lucca, e le monete che da tutti ora con ogni probabilità gli si attribuiscono sono quelle dallo stesso S. Quintino inserite nella Tav. IX coi n. 1 a 6. Io poi avendo veduto che in questa officina gli ultimi denari stati an- teriormente. battuti portavano il nome di Enrico e trovando che Ot- tone IV quando passò nel 1209 per Lucca andando a Viterbo per ri- cevervi dal papa la corona imperiale, confermò a quei cittadini gli an- tichi loro privilegi e tra essi quello della moneta (7), non dubito di credere col Muratori che i detti due grossi a lui si riferiscano, ed ap- (1) Akerman, Numismatic iournal. Vol. I. London 1837, pag. 233. (2) Storia delle monete della repubblica fiorentina. Firenze 1760. (3) Memorie e documenti ecc. T. XI. Tav. VII, n.° 1,3. (4) Delle monete e dell’islituzione ecc. T. I. pag. 160. (5) Storie fiorentine. T. I, Firenze 1647, pag. 318. (6) Antiquilates italicae ele. T. II, col. 614. (7) Beverini. Annalium lucensis urbis. Vol. I, Lucae 1829. 278 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA punto hanno essi Otto Rex come egli allora intitolavasi per non essere ancora che re dei Romani. Lo stesso Muratori (1) pubblicò, quantunque però male intagliato, il primo grosso di Pisa, sul quale da un lato vedesi il:nome della città disposto in forma di croce e dall’altro una grande F, iniziale di Fede- rico I, il quale pezzo appare chiaramente essergli contemporaneo ed anteriore al secondo di tal nome, come non vi è dubbio essere stato coniato prima di quello colla stessa F da un lato ed il busto della Vergine col bambino dall'altro ed attorno Pisa civitas, del quale alcuni esemplari sono nella regia collezione. In quanto ad Arezzo lo stesso autore (2) ci diede un disegno assai mediocre del più antico grosso battuto da questo comune, che pel suo tipo e forma de’ caratteri scorgesi appartenere al 1200, col busto mi- trato di S. Donato protettore della città da una parte e colla croce dall’altra, solamente che egli avendone avuto un esemplare con patina nera per essere ossidato lo credette di rame, ma quello del medagliere di S. M. meglio conservato vedesi essere d’argento fine e del peso degli avanti descritti. Rimane a dirsi di Volterra, ossia dei grossi battuti in quella diocesi dai suoi pastori, chè quantunque esista un privilegio dell’imperatore Enrico VI delli 16 agosto 1189 col quale concesse al vescovo Ilde- brando la facoltà di battere moneta (3), tuttavia nessuna se ne conosce anteriore a Ranieri eletto nel 1252, anzi sinora non se ne hanno che -di esso e di Rinuccio il quale resse quella cattedra sul 1320, abbenchè il Giachi (4) citi monete volterrane del 1163 senza però addurre alcuna grosso sul quale lesse 5 -dal lato della croce Pplus Vultera, ma errò per avere un cattivo e- ‘prova. L’Ammirato poi (5) riportò il disegno di un P p p To) semplare, essendo quello stesso di Ranieri per leggervisi &p. Ranerius dal lato nel quale evvi la figura del vescovo e soltanto De Y'ulterra dall’altra, e poi la parola populus sulle monete di que’ tempi mai tro- vasi. Contemporaneo al suddetto grosso è un altro con S. Giusto pro- (1) Antiquitates italicae etc. T. II, col 721 n.° II. (2) Idem. T. II, col. 663, n.° 1. (3) Ammirato, Vescovi di Fiesole, Volterra ed Arezzo. Firenze 1837, pag. 112. (4) Saggio di ricerche sopra lo stato antico e moderno di Volterra. Siena 1796, pag. 112. (5) Come sopra, pag. 128. DI D. PROMIS. 279 tettore della città (1), che pure credo spettare al vescovo, non con- stando che giammai tal diritto abbia posseduto il comune. Abbiamo veduto che in queste quattro città cominciandosi a battere una nuova moneta oppure riformando l’antica si adottò, pare di comune accordo , un tipo consimile, cioè mettendovi sul rovescio una figura, cosa affatto nuova in quest'epoca nell’Italia centrale ; Siena però, forse per essere da un secolo la sua zecca già in attività, conservò sui grossi l’impronto e le leggende dei piccoli sino allora emessi, ed appunto il primo di essi (Tav. I, n.° 7) trovasi avere‘da un lato nel campo la solita S posta regolarmente fra quattro globetti, e quantunque le let- tere della leggenda che la circondano siano meglio formate, tuttavia le due $, fra le quali evvi un globetto, vedonsi tuttora coricate. Dall'altro lato la croce è patente e 14/4 et @ sono precedute da una piccola croce. Il peso di quest’esemplare è di denari r.8 o grammi 1,761 ed il titolo di denari 11. 12 ossia millesimi 958. Il piccolo che gli corri- sponde (Tav. I, n.° 8) gli è uguale nel tipo, ma di minor diametro, pesa grani 14.12 o milligrammi 774, e pare a denari 2. 12 0 2. 15 ossia millesimi 208 o 218. Un poco posteriore ad esso è un altro grosso (Tav. I, n.° g) di conio affatto simile, senonchè le due S sono in piedi. Dopo questo viene un terzo (Tav. I, n.° 10) al precedente in tutto eguale ad eccezione che a capo delle due leggende ha una crocetta. Il suo piccolo (Tav. I, na 11) non ne varia che nel diametro, Il peso di ambidue è lo stesso dei precedenti. Questi denari minuti dalla loro legge appaiono essere stati lavorati secondo un ordine del 1250, come consta dal breve dei giuramenti degli ufficiali del comune compilato in quell’anno (Documento I), nel quale il dominus bulgani (*) giura di fare le monete d’argento a denari (1) Bellini. De monetis Italiae medii aevi etc., altera dissertatio. Ferrariae 1767, pag. 139. (*) « Signori del bolgano chiamavansi in Siena quei cittadini che sceglievansi per sopraintendere » alla zecca, e tale denominazione prendevano dal sacco delto nei tempi di mezzo bdulga, nel » quale metlevansi le monete appena baltute e non ne venivano estralte che dopo essere rico- » rosciute legali dai saggialori; in seguito per do/garo s’intese l’officina stessa delle monete, la » quale aveya stanza nel palazzo pubblico. : » Essa in questa città non consta come fosse nei suoi primordi ordinata, ma come usavasi nelle » altre d’Italia pare che sì concedesse direttamente dal comune in appalto, e chi la prendeva » dicevasi dominus monetae indi monetarius o zecchiere, ed altrove magister monetarum, e pare 280 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA 3 ed a pezzi quaranta per oncia a peso di Siena (*), onde cadun . ————T—T_T_—<—<<<" Cie eoOOMTMTÌ.?rt®®)®?!r _ > >/ .O-HT9*°*°°rr __—___ _PPrr rr » che alle volte ne fossero incaricati i rettori stessi della zecca, cioè i ciltadini prepostivi per sorvegliarne le operazioni; però verso il finire del 1400 e sino alla caduta della repubblica (Di venne essa sempre appaltata. Così ugualmente che altrove vedesi, nel 1248 furono depultali due coll’incarico di cangiar le monete scadenti o fuori corso. » Nel 1250 dal consiglio generale per la prima volta fu dato ai consoli di mercanzia l’incarico » di proporre al maggior consiglio nuove baltiture e di determinare il corso delle monete, e nel » 1266 ai consoli furono aggiunti il podestà ed i rettori dell’arte della Jana affinchè eleggessero » uno per ogni terzo della città alla direzione della zecca ed anche questi furono chiamati domini » monetac 0 bulgani; ma dai libri del consiglio della campana scorgesi che in generale quanto » deliberavasi dai consoli di mercanzia avanti di esser mandato ad esecuzione doveva venire da » quello approvato. ; » Eravi inoltre il camerarius bulgani ossia camerlengo della zecca, il quale riceveva e pagava » il metallo che acquistavasi per farne monele, e queste ritirava subito dopo la loro stampa, » restando sotto la sua custodia sinchè riconosciute legali emettevansi, e tale impiego corrispondeva » poco presso a quello altrove dello guardia delle monete; nel 1349 poi fu prescritto di aggiungere » a questi per cadun terzo della città un consigliere, il che pare abbia avuto breve durata non » constandone più in seguito. Nel 1391 si provvide per un nuovo modo d'elezione del camerlengo » ipcaricandosi il consiglio di mercanzia di fare una rosa di tre ciltadini da presentarsi al con- » gresso de’ trentasei, che a pluralità di voci uno ne sceglieva a tal posto per sei mesi, fissandogli » un adegualo stipendio. 3 » I saggiatori sino al 1500 erano semplici orefici che troviamo ancora nel 1511 saggiare Poro » monelato colla pietra del paragone; in quest'anno però fu nominato dal comune un saggiatore » il quale pare che rimanesse stabile. » (*) « In Italia dall’epoca della dominazione romana il peso comune fu la libbra, la quale, » venendo meno l’impero, insensibilmente si allerò ovunque, conservando però sempre l'antica » denominazione, In Toscana secondo i dali più antichi pare nell’undecimo secolo una sola essere » stata la libbra, ma cessato il governo marchionale e ciascheduna ciltà cominciando ad avere » una vila propria ed indipendente poco per volta i pesi e le misure vennero alterate, e la prima » indicazione di questo trovasi nella Pratica della mercatura di Francesco Balducci Pegolotti (Della » Decima fiorentina T. IMI. Lucca 1766 pag. 201), nella quale, stabiliendosi il rapporto dei pesi » in uso a Firenze con quelli di molte altre città, è detto che una sua libbra d’argento (peso » speciale per le materie preziose ) equivaleva allora, cioè nella prima metà del secolo XIV, in » Siena ad oncie 12.3, in Lucca ad oncie 12.1.12 ed in Pisa ad oncie 12.8. » Quest’alterazione andò crescendo, e lasciando il Da Uzzano (Della Decima fiorentina T. IV. » Lucca 1766, pag. 142) il quale evidentemente errò dicendo-che la libbra fiorentina faceva di » Pisa oncie 12.17 ed era uguale alla sanese, credo col Pacioli (Summa de aritmetica etc. Tuscu- » lano 1523 fol. 211 retro) che nella seconda metà del 1400 oncie d’argento 12 fiorentine equiva- » levano a oncie 12.6 sanesi ed oncie 12.7 pisane, e trovo che quando sulla metà del secolo » XVI Siena venne a far parte dello stato mediceo la libbra eravi ancora minore della fiorentina » di denari 8 e 9. a » Ora una libbra fiorentina corrispondendo a grammi 339, 542 (essendone l’oncia uguale a » grammi 28.295. 115 ed il fiorino buono, ossia un’ottava parte di essa, constando di grammi » 3,536,900), e quella di Siena essendo minore dell’anzidetta di denari 8.9, equivale in conseguenza » questa nell’ultima sua epoca a grammi 329 e 660 milligrammi incirca, e poco conto tenendo » delle piccole frazioni millesimali, perchè perdonsi quando si tratta di monete che non arrivano » mai al peso di grammi 10, si hanno per la libbra sanese della prima epoca grammi 336,730 » e per quella della seconda grammi 333, 195. » DI D. PROMIS. 281 pezzo di grani 14. 10, colla tolleranza di un pezzo in più od in meno, specificando che qualora oltrepassassero tal numero o fossero .in meno, per portarli al peso legale si potessero aggiungere sopra ogni libbra sei denari più leggieri o più pesanti, dal che si comprende come sovente trovansi dei pezzi che non concordano esattamente cogli ordini di bat- titura (*). A quest epoca nei libri delle deliberazioni del consiglio della cam- pana, cioè del consiglio generale, trovasi il primo atto concernente la zecca in data delli 16 dicembre 1248 (1), pel quale fu stabilito che invece di un cambiatore di monete, col qual nome intendevasi quegli che ritirava le monete fuori corso. per darne delle nuove, indi ne fossero due. Quattordici giorni dopo si presero alcune decisioni circa la stampa dei grossi, però nei libri soltanto citate, indi si legge che alcuni cittadini chiamarono si lavorasse moneta minuta, ciò che non pare sia stato preso in considerazione; qualche tempo dopo poi, cioè alli 21 marzo 1250 (stile sanese (**)) (2), detto consiglio avendo veduto come dai signori della zecca erano stati emessi denari piccoli uguali nella legge ai lucchesi, epperciò peggiori dei primi sanesi di 4o pezzi per libbra, deliberò che vi si provvedesse secondo il bisogno, il che sembra non abbia avuto effetto che molti mesi dopo, essendosi solamente li 18 dicembre (3) incaricati i consoli delle due mercanzie con alcuni altri cittadini di determinare a qual legge avessero a lavorarsi. Ignoro se in seguito a questa deliberazione si sia stabilito di miglio- rare i grossi, ma dubito che già alcuni anni prima ciò fosse avvenuto, conoscendosene vari i quali indubitatamente alla prima metà di questo secolo vedonsi spettare per la forma dei caratteri e pell’assieme del tipo, e sui quali si cominciano a trovare i contrassegni d’ignoti zecchieri (***). ? (*) « Nel 1250 questi grossi erano già tenuti come moneta legale, leggendosi in un libro delle » convenzioni fatte da quel governo dal 1246 al 1256 che conservasi nella Biblioteca di S. M. » in Torino, alcuni atti del 1250 e 1252 nei quali trattasi esclusivamente a sanesi grossi di » dodici denari caduno, e a denari sanesi minuli. » (1) Archivio di Siena. Serie III. vol. I. (**) « Per maggior intelligenza si nola che Vanno sanese cominciando colla festa dell’ Incar- » nazione, cioè colli 25 marzo, il 21 di questo mese del 1250 corrisponde allo stesso giorno del » 1251 secondo l’anno comune che ha principio col primo gennaio. » (2) Idem. Serie III, vol. 2. (3) Idem. Serie III, vol. 2. (***) « I contrassegni messi sulle monete dai vari zecchieri per distinguere quelle da ciascheduno Serie II. Tom. XXIV. 36 d2 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA i Questi conservano la leggenda del rovescio nella stessa forma dei pre- cedenti, ma in uno (Tav. I, n.° 12) lo scritto è preceduto da una piccola croce, e fra Sena e vetus nonchè prima, dopo e tra l'Alfa e let © sonvi rosette (segno n.° 1). Il secondo (T. I, n.° 13) uguale al suddetto , in luogo delle rosette ha il segno n.° 2. Nel terzo (Tav. I, n° 14) evvi il segno n.° 3. Nel quarto (T. II, n.° 15) la grande S nel campo del diritto è accostata da quattro piccole rosette e nella leggenda preceduta dalla solita croce ogni due lettere sono alternate da una rosa, e dopo l’ultima evvi il segno n.° 4: nel rovescio poi tra la crocetta ed il primo A, e così dopo ogni due lettere, si ripete la stessa rosa però fra quattro punti. 1 Questi grossi che riconobbi pesare grani 4o o grammi. 2 incirca ed essere d’argento a denari 11. 12 o tI. 15 ossia millesimi 950 a 960, non vi è dubbio essere quelli dei quali trattasi nell’atto citato all’anno 1237 dal Malavolti (1), pel quale il conte Guglielmo Aldobrandeschi si obbligò di pagare al comune Zire 1200 di denari sanesi e pisani nuovi per la valuta e stima di dugento marche d’argento, ch'è di 12 leghe (cioè di 12 denari legali di fine), valeva nel 1228 cinque fiorini d’oro di quei tempi, che poi si sono dimandati ducati, e nel 1237 valeva sei lire che erano fiorini sei d’oro. Ma quest’autore dicendo che nel 1228 vi erano fiorini migliori detti poi ducati, con tal nome volle certamente indicare gli agostari d’oro battuti da Federico II in Brindisi e superiori in valore ai fiorini, che appunto cinque di quelli, secondo il peso da me riconosciuto di denari 4.3: 0 grammi ‘5,283 caduno ed a caratti 20 o millesimi 835 (2), contengono grammi 22 circa d'oro fine , e sei fiorini grammi 21, 800. Tali pezzi trovansi: pure nel Tommasi così denominati quando narra all'anno 1232 che nella lega con Chiusi per certi. danni dai Sanesi recati ai Perugini fw rimesso al podestà di Siena ed in quello di Chiusi, che fin alla somma di ducati 1000 liquidassero i danni (3). In quanto alle lire nel Malavolti è detto che il fiorino » battute, anteriormente alla metà del secolo XIV o erano scelti a capriccio o dovevano essere una » parte dei loro stemmi, quasi tutti incontrandosi in quelli di famiglie sanesi; nella seconda metà » però di quel secolo si introdussero quei segni delti mercantili, perchè specialmente usali da » commercianti e questi indi si vedono sulle monete sino alla metà del XVI. » (1) Storia di Siena, Parte I, pag. 52. (2) Zanetti. T. II. Bologna 1779, pag. 434. (3) Dell’ historia di Sierra. Parte prima. Venetia 1625, pag. 239. Lo) DI D. PROMIS. 283 equivaleva ad una di denari sanesi e pisani nuovi; ora contenendo ciascuno dei grossi sopradescritti di fine grani 38. '/, 20 fanno grani 766, quanti appunto trovò il Carli Rubbi contenere una lira di Firenze nel 1252 (1), e che sopra si è veduto essere quasi la stessa che quella di Siena; siccome poi detti grani 766 sono, meno una minima frazione, pari ad oncie 1. 8 valsenti L. 6, e sei volte oncie 1.8 facendo un marco di Siena, moltiplicati questi ossia le lire 6 per 200 danno ap- punto lire 1200. Non consta in qual modo, ma qualche tempo dopo che i Fiorentini ebbero cominciato a coniar moneta d’oro, deve essersi alterata quell’uni- formità che esisteva in Toscana nel valore di quelle d’argento delle diverse città, vedendo che gli ambasciatori di Firenze con quelli di Lucca esposero li 9g agosto 1255 (2) nel maggior consiglio di Siena dovervisi le monete lavorare al peso e ad un valore uguale a quelle delle dette città, e questo è una nuova prova che’ già esisteva una convenzione a tale riguardo da noi non conosciuta. Il consiglio approvò la proposta ed incaricò il podestà, il consiglio segreto ed i consoli delle due mercanzie d' instare presso i comuni di Pisa e d'Arezzo af- finchè anch'essi si unissero per uniformarvi le loro monete (*). I Sanesi però non misero subito mano a questa riforma, ma attesero ben più d’un anno prima d’ordinare che i grossi e piccoli si lavorassero alla legge dei Fiorentini (3), nella quale occasione prescrissero che i conii avessero a condursi con maggior perfezione; quindi il 1.° dicembre dello stesso anno 1257 (4) il gran consiglio incaricò uno degli officiali della zecca, di nome Hdibrandino, probabilmente saggiatore , di rico- noscere se la moneta di Volterra fosse alla legge di quella di Siena, e (1) Come avanti. Mantova 1754, pag. 337. (2) Archivio di Siena. Consiglio della campana. Serie III, vol. 5. (*) « Che però le monete d’argento in questo tempo lavorate in Siena fossero di ottima queta » è una prova l’essersi in Perugia, nella convenzione fatta in maggio del 1259 con due maestri » lucchesi per batlervi oro ed argento, prescritto che i grossi ed i piccoli dovessero essere al » peso e titolo dei sanesi (Zermiglioli. Della secca e delle monete perugine , 1816. Appendice, » pag. 3). Così vediamo che Federico II concedendo a Viterbo (Bussi. Roma 1742, pag. 405) il » diritto di zecca volle che le monete a farsi dovessero essere uguali ai nostri grossi e minuti , » che secondo un atto del 1262 (Orzol:. Florilegio viterbese. Roma 1855, pag. 113) valevano quanto » i pisani nuovi e luechesi buoni. » (3) Idem. Serie III, vol. 7. Deliberazione delli 3 gennaio 1257. (4) Idem. Serie III, vol. 6. 284 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA nel maggio del 1259 (1) volle che deputati verificassero se le sanesi fossero uniformi alle altre toscane. Il Malavolti (2) dice che in dicembre di quest'anno giunse in Siena con numerosa soldatesca il conte Giordano vicario del re Manfredi e che portò seco da Napoli una gran quantità di monete d’oro dette oncie, le quali erano del valore di sei ducati e che dal comune furono tassate sei lire uguali allora a sei fiorini d’oro. Ma anche questa volta il nostro autore cadde in errore confondendo le monete siciliane della sua epoca chiamate orcie con antiche di conto composte di quattro agostari, non esistendo allora una moneta d’oro effettiva di tanto valore e così denominata, e poi nel secolo XIII in quel regno battevansi quelli agostari d’oro, dei quali cinque abbiamo veduto corrispondere a sei fiorini, e tarì pure d’oro che riconobbi assai variabili nel peso e nella bontà, avendone riscontrati alcuni di grani 30, altri di grani 20 e dei più leggieri ancora, e tutti tra i caratti 16 e 20, onde non ho potuto ricavarne un valore comune che potesse avere con tali oncie alcun rapporto. Siamo giunti ad un'epoca nella quale secondo gli storici patrii un’'in- novazione s’introdusse nella leggenda delle monete in seguito alla vittoria dai Sanesi, aiutati dalle milizie tedesche del conte Giordano, riportata a Monteaperto sui Fiorentini li 4 settembre 1260, che riconobbero dalla protezione di Maria Vergine eletta per questo a signora e patrona della città, onde ordinossi che ind’innanzi sulle monete al Sera wetus si ag- giungesse civitas Virginis (3): Non consta però che. subito siansene coniate con tale leggenda, poichè quelle che sinora con essa conosconsi sono di qualche anno posteriori come si vedrà. Gli amministratori del comune sempre attenti alle variazioni che ovunque andavansi introducendo nelle monete, incaricarono li 10 no- vembre 1266 (4) alcuni eletti cittadini di studiare quello che per l’utile del commercio circa esse avesse a stabilirsi, e fattone da questi rap- porto, cinque giorni dopo esso fu approvato senza che appaia che alcun (1) Idem. Serie III, vol. 8. (2) Come avanti. Parle seconda, fol. 2 retro. (3) Malayolti. Parte seconda, fol. 20 retro. Tommasi. T. I, pag. 336. Gigli. La ciltà diletta di Maria. Siena (1716) pag. 43. (4) Archivio di Siena, Serie II, vol. 11. DI D. PROMIS. 285 DI TARARE si adottasse. A questa epoca pel loro tipo e legge non vè dubbio che appartengano tre grossi d’argento fine e di denari 1.6 o grammi 1,600, dei quali il primo (Tav. II, n.° 16) ha nel diritto una S piuttosto grassa accostata da quattro globetti con in giro + SENA VETVS da un lato, e nel rovescio una croce accantonata pure da quattro simili globi ed attorno, precedute da una crocetta fra due stelle (segno n.° 3), le parole ALFA ED 0; il secondo (T. II, n.° 17) ha da un lato la $ accostata da quattro crocette e la leggenda -- SENA e e dall'altro la solita croce: con attorno fra due nicchi (segno .° 5) una crocetta indi ALFA ED O; il terzo dal suddetto si diffe- renzia in ciò soltanto che a vece delle conchiglie sonvi due fiori (segno n.° 6). In altri simili sonvi i segni n.° 2, 7, 8, 9, 10 e 11, ed uno invece ha lo stemma della città. È a notarsi come queste sono le prime monete nelle quali la leggenda del rovescio 45fa ed O trovasi scritta intieramente in lingua italiana. Dopo l’anno 1266 non si ha più notizia di provvedimenti monetari sino alli 17 agosto 1279 (Documento I), nel qual giorno il maggior consiglio approvò la deliberazione dei consoli e consiglio delle due mercanzie che indi in poi si avessero a battere grossi da due soldi di moneta minuta o meglio del valore di denari piccoli 24, di argento a denari 11. 16 o millesimi 972 e da soldi 12. 2 per libbra ossia di denari sanesi 1. 23. 8. ‘°/.: o grammi 2,526 cadun pezzo: inoltre denari minuti alla bontà di un denaro e mezzo di fine o millesimi 125 e di soldi 40 pure per libbra, cioè grani 14.9 ossia milligrammi 767 caduno da spendersi a peso ed a conto. Ordinò ancora che i signori del bolgano estraendone le sudette monete le riconoscessero alle bilancie piccole e non al trabocchetto. Quantunque di questi doppi grossi in principio del susseguente anno venisse sotto gravi multe proibita la spendita adducendosi per ragione essere troppo logori, tuttavia pella collezione di S. M. se ne potè ac- quistare un esemplare assai ben conservato (T. II. n.° 18), colla grande S di ottima forma, e sul quale per la prima volta trovasi la leggenda >- SENA VETVS CIVITAS VIRGINIS da una parte e dall’altra con una croce patente ed avente una piccola prominenza alle estremità delle braccia la leggenda ALFA % DO (sic) PRINCIPIV % FINIS: così com- pletando il detto della sacra scrittura. In quanto ai piccoli nessun dato avendosi per distinguerli dagli altri, è impossibile riconoscere quali 236 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA siano quelli ora coniati trovandosi tutti pressochè uguali nella legge e nel tipo. i In questi tempi era continua l'oscillazione nel valore delle monete, e qualunque ne fosse la cagione ben sovente vediamo introdursi nelle medesime variazioni più o meno imporianti, ed appunto erano appena trascorsi sei anni dall’anzidetto ordine quando li 18 dicembre 1285 (1) già troviamo stabilito che nella stampa dei grossi e piccoli, sia pel nu- mero che per il titolo si dovesse lasciare facoltà ai consoli della mer- canzia di determinare come avessero a lavorarsi. Cosa poi essi deci- dessero non risulta per non aversi più notizie della zecca sino alli 11 aprile 1295 (2) quando, a norma di uno statuto, che trovo soltanto riportato in parte, dovendosi fare una nuova batutura, fu ordinato al camerlengo ed. ai direttori della gabella d’imprestare mille fiorini d’oro a Naddo di Cristofano di Barbotto maestro della zecca ed a Guccio di Viviano di Arrigo camerlengo affinchè con essi comperassero argento per far monete, convenuto però che appena emesse ne sarebbe fatta la restituzione. Alcun tempo dopo, cioè li 20 febbraio 1303 (stile sanese), da una determinazione del generale consiglio (3) viensi a conoscere il nome di alcuni officiali della zecca, ed ecco come trovasi registrato il fatto. Il podestà Carlo di Manente da Spoleto chiese al detto consiglio il parere sul da farsi relativamente alla domanda di Conti di Arrighetto de Rossi signore e Bernardo di Bernardino camerario del bolgano, o come si sarebbe detto altrove maestro e guardia della zecca, che loro venissero rimesse, per ridurle in monete nuove, lire 925 di denari minuti buoni sanesi che ritenevansi da due loro predecessori, cioè Manno di Guido Ormanno già signore e Mino Uguggieri già camerario, e da questi ri- tirati dai loro antecessori Vanni Tesi de’ Tolomei signore e Maso di Ranuccio Alessi camerario, inteso sempre del bolgano, i quali rifiuta- vano di rimetterli dicendo che in tale somma erano comprese lire 765. 1 di denari buoni piccoli, dei quali metà doveva spettare al comune e metà ai consoli della mercanzia a tenore dei capitoli a ciò stabiliti; proponeva inoltre il podestà che alle dette lire 925 si aggiungessero (1) Archivio di Siena. Serie III, vol. 31. (2) Idem. Serie III, vol. 47. (3) Idem. Serie III, vol. 64. DI D. PROMIS. 287 lire 75 e così portate a lire 1,000 si rimettessero ai suddetti Conti e Bernardo, i quali dovevano renderne conto al camerlengo ed ai quattro provveditori del comune. Da una proposta fatta a tale riguardo da uno dei consiglieri detto Pacino Pieri risulta poi che gli officiali del bolgano cangiavansi ogni sei mesi cominciando dal primo di gennaio. Dopo il 1279 e sino alla metà del susseguente secolo nell’archivio di Siena non trovasi più alcun ordine di battitura, ma dalle varie specie di monete che effettive si conoscono e che dal loro tipo appaiono evi- dentemente di questi anni si scorge essersi continuato a lavorare grossi di grammi 1,708 che però sembrano di titolo un poco inferiore ai pre- cedenti. Essi hanno tutti nel campo del diritto (Tav. II, n.° 109) la solita S ed in giro le parole -- SENA VETVS, sempre di forma antica ma più graziosa, e nel rovescio colla solita croce ALFA ED O precedute da una crocetta tra due segni di zecchieri che vedonsi al n.° 12; di esso havvi pure il piccolo che riscontrai di milligrammi 590 ed a millesimi 120 incirca (T. II, n.° 20). Di tali specie di grossi e minuti ve ne sono taluni col segno n.° ro, altri col n.° 13 ed altri col n.° 14, contrassegno anche quest’ultimo, come ben scrisse il Porri (1), di officiale di zecca e non già, come dissero il Gigli (2) ed il Benvoglienti (3) messo per al- ludere alle chiavi della città offerte alla Madonna come sua signora dopo la vittoria di Monteaperto. Si è veduto che nel 1279 erasi prescritta la battitura di doppi grossi, ora non si comprende come dopo soli trent’ anni dall’epoca della loro emissione fossero talmente logori che li 3 luglio 130g si do- vessero proibire (4) coll’invito a tutti di disfarsene fra otto giorni; ma siccome pare che tal ordine non ebbe esecuzione trovandosi che nel 1317 ciò fu nuovamente proposto ma senza alcun effetto, sembra che simile mozione venisse fatta solamente perchè in Firenze e Pisa tali specie di monete benchè al proprio conio erano state proibite ma per la taciuta causa che in Firenze era stata decretata la stampa del popolino (5) affine di supplire ai vecchi doppi che si fondevano come troppo buoni trovan- dosi di grani 36 incirca ed a denari 11.14 (6) e forse ancora migliori , (1) Cenni sulla. zecca sanese. Zedi Miscellanea storica sanese. pag. 117. (2) La città diletta di Maria, pag. 43. (3) Muratori. Rerum italicarum scriptores. Vol. XV. Mediolani 1729, col. 31. (4) Archivio di Siena. Serie III, vol. 75. (5) Orsinî. Storia delle monete della repubblica fiorentina, pag. XLVII. (6) Ivi. 288 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA ed i nuovi invece furono ridotti a grani 34 0 grammi 1,815 ed a denari 11.12 o millesimi 958, titolo al quale conservaronsi indi tutti i fiorini d’argento di qualunque valore fossero, e perciò venne chiamato popolino questo metallo quando era a tal titolo. Di un'altra specie di monete. si ha notizia nella deliberazione del consiglio delli g febbraio 1316 (stile sanese (1)), nella quale è detto che, stante l’essersi proibiti dalle altre città della Toscana i nuovi pezzi che in Siena lavoravansi da sei piccoli, ossia mezzi grossi, per dare corso a quelle che avevansi cominciato a battere, si ordinò che di nessuna delle monete di dette città fosse permessa la spendita nello stato sanese ad eccezione dei denari minuti vecchi di Pisa e Cortona e dei nuovi di Firenze, e questa è la sola volta che troviamo fatto cenno dei pezzi da sei piccoli, che credo debbano essere quei tali un po’ più ristretti nel diametro dei grossi semplici ed aventi da un lato la grande S accostata da due rose (Tav. II, n.° 21) colle parole SENA VETVS separate da una stella a cinque raggi, e dall’altra la croce con ALFA ED O poste fra i due segni col n.° 15. Di questa specie un altro esemplare in luogo della piccola stella del diritto ha una rosetta, e due stelle a sei raggi (segno n.° 3) accostano la croce nella leggenda del rovescio. Essi sono del peso di grammi 1,179 e 1,280 e paiono alla bontà di millesimi 670 a 750, onde ottimamente corrisponderebbero alla metà dei grossi da 12 piccoli. Quantunque sin dal 1252 in Firenze si avesse dato principio a co- niare monete d’oro, non consta ‘che in Siena se ne cominciassero a bat- tere che sino verso il principiare del secolo XIV non trovandone men- zione negli atti del comune prima delli 26 novembre 1333 (2), quando si ordinò che i fiorini d’oro avessero a spendersi secondo il loro comun corso , calcolando la metà del loro valore parte in grossi e parte in piccoli. A quest'epoca spettano anche alcuni grossi semplici aventi tutti nel diritto (T. II, n.° 22) una grande S fogliata, che tale indi in poi sulle monete quasi sempre vedesi, ed accostata da quattro piccole croci con in giro -- SENA poi una rosetta e VETVS, e nel rovescio la solita croce con ALFA ED O precedute da una crocetta fra due segni di zecchiere (4) Archivio di Siena. Serie II, vol. 88. (2) Archivio di Siena. Serie III, vol. 114. DI D. PROMIS. 289 che vedonsi al n.° 16; così in altro simile evvi il segno n.° 17, in un terzo il n.° 18 ed in un quarto il n.° 19. Il loro peso è uguale a quello dei precedenti, ma il titolo pare un po’ inferiore. In questi anni si sono certamente coniati in Siena, quantunque ne manchi l’ordine, fiorini d’oro, e questo dico perchè le monete d’argento, delle quali esiste un ordine di battitura del 1349, sono nel tipo affatto simili ai più antichi pezzi di tale specie dei quali abbiasi l’impronto, ed anzi alcune hanno persino lo stesso contrassegno che portano questi, onde tutti devono indubitatamente nello stesso tempo essere usciti di zecca, come in seguito dirò. Anche nella nostra città, come ben prima in Firenze, s’introdusse a quest'epoca l’uso di sigillare i fiorini, il quale consisteva in questo che il maestro del saggio ne numerava una data quantità già da lui ricono- sciuta di legal peso e bontà, indi messala in una borsa coll’indicazione del loro numero e valore al centinaio l’assicurava col suo sigillo, onde nei contratti specificavansi secondo il loro corso di suggello vecchio © nuovo o di cera rossa come vedesi in atto sanese del 1426. Tale usanza venne abolita in Firenze nel 1471, e probabilmente verso quell'epoca lo fu anche in Siena. Con quest'occasione credo utile di far conoscere le varie indicazioni colle quali usavasi specificare secondo il loro valore intrinseco le diverse qualità di fiorini. In Siena nel 1399 (1) quelli di suggello nuovo, cioè che soltanto da alcuni anni a tenore di nuova legge battevansi, erano valutati il quaftro per cento più degli altri di suggello vecchio, così denominati quelli di Firenze, Milano, Genova, del papa e vecchi di Siena. I fiorini detti di punto a Firenze, cioè i calanti nel peso di un quarto di grano, comprendevansi nella nostra città fra quelli di suggello vecchio. Larghi furono chiamati quelli che erano lavorati di maggior diametro ma di assai basso rilievo e più sottili affine d'impedire che si potessero ribattere e darvi sopra un nuovo impronto, e questi da principio erano considerati migliori dei vecchi. Finalmente quelli detti di camera perchè coniati dalla camera papale furono stimati il sette per cento più di quelli di suggello vecchio. (1) Zanetti. T. I, pag. 265. - Serie Il. Tom. XXIV. 37 290 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA Ritornando ai fiorini che credo battuti circa il 1340 e conosco ef- fettivi, il primo (T. II, n.° 23) ha nel diritto la grande S fogliata in un orlo formato di due filetti con attorno la leggenda stessa che ab- biamo veduta nel doppio grosso col n.° 18, cioè -- SENA . VETVS. CIVITAS . VIRGINIS, e nel rovescio una croce patente con in giro ALFA . ET O . PRINCIPIVM < FINIS indi il segno n.° 20, ed in altri ad esso affatto uguali quello col n.° 21. Nel secondo (T. II, n.° 24) la S e la croce sono in un doppio giro di fili, ambedue le leggende senza punti ma identiche alle precedenti, ed il contrassegno è quello col n.° 21, ed in un altro consimile esemplare ma con attorno il gra- natino evvi il segno n.° 20, e ‘questi fiorini per essere di diametro - maggiore del susseguente sono quelli specificati nei contratti col di- stintivo di /arghi. L'ultimo di diametro più ristretto (T. II, n.° 25) ha da un lato attorno alla grande S >+- SENA . VETVS . CIVITAS . VIRGINIS ., e dall'altro precedute dal segno n.° 21 le parole ALFA . C O. PRINCIPIVM . < . FINIS, e nel campo una croce semplice. Ho detto di sopra che questi fiorini, negli ordini di battitura sino al 1486 esclusivamente detti saresî» d’oro e da questo anno in poi ducati, riconosciuti alla pietra del paragone a caratti 24 o millesimi 1000 e trovati tutti del peso di grammi 3,525 ossia di denari 3 sa- nesi erano stati emessi contemporaneamente a certi grossi d’argento per essere sì gli uni che gli altri di tipo affatto uguale ed anche cogli stessi contrassegni; ora relativamente a questi conservasi una delibera- zione del gran consiglio in data delli 13 marzo 1349, stile sanese ( Documento HI), pella quale fu prescritta la loro stampa indicando che dovessero valere cinque soldi o sessanta denari piccoli ed essere a denari 11. 12 o millesimi 958 ed a soldi g.6.*/, per libbra, onde di denari 2. 12. 8. 5/, pari a grammi 2,933 caduno: più altri ad essi uguali nella legge ma del valore soltanto di denari trenta, epperciò loro metà: a chi poi avesse portato in zecca argento di tal lega fu ordinato di corrispondere soldi g. 1 la libbra se voleva avere dei primi, e soldi 18. 2 se dei secondi, ritenendosi in conseguenza per le spese e signo- raggio per ogni libbra undici grossi da dodici denari piccoli; però ve- nendo a mancare in essa l’argento, li 14 giugno 1350 (1), se ne accrebbe (1) Archivio di Siena. Serie III, vol. 151. * DI D. PROMIS. 291 il prezzo, purchè a titolo popolino, di un pezzo da due o da un grosso secondo che di questi o di quelli desideravasi, e siccome questo metallo sempre facevasi più raro, li 15 luglio dell’anno susseguente (1) si lasciò facoltà ai consoli di mercanzia ed ai signori nove (*) di vendere ed allogare i proventi della zecca come meglio avrebbero creduto conve- niente, purchè non si alterasse il titolo delle monete d’argento. Dei sopraddetti grossi da cinque soldi si conoscono esemplari che dai contrassegni improntativi, quantunque un po’ variati , scorgonsi es- sere dello stesso zecchiere che battè il fiorino col n.° 25, ed hanno (T.II, n.° 26) da una parte attorno alla grande S fogliata e con sopra il segno n.° 23, SENA VETVS CIVITAS VIRGINIS, e dall’altra colla croce semplice -- ALFA . € O.. PRINCIPIVM . < . FINIS, altri invece (T. II, n.° 27) hanno nel diritto colla S la leggenda dei sopraddetti ma preceduta da una piccola croce, e nel rovescio -- ALFA . ET . DO . PRINCIPIV . E FINIS . indi il segno n.° 24. Un altro grosso a seguito dei suddetti ho creduto doversi collo- care per essere della legge dei medesimi, e che per la forma dei carat- teri, e specialmente dell’A e N, si riconosce. non poter essere a quelli che di pochi anni posteriore, quantunque in apparenza pel suo tipo possa sembrare più antico. Esso (Tav. II, n° 28) ha da un lato nel campo “una S antica accostata da quattro stelle a sei raggi con in giro >- SENA VET + CIVITAS +- VIRGINIS, e dall'altro attorno alla croce > ALFA ED O -- PRINCIPIV + ET FINIS senza contrassegno di maestro. - Nel mentre che tanta cura mettevasi e con ragione affinchè non si alterassero le monete fine, si accordava agli orefici di condurre i loro lavori ad una lega assai inferiore, ed appunto consta dal Breve di questa università che quelli in argento potevano essere a denari 10 e quelli in oro a caratti 12 (2), il che se al certo diminuiva il costo del me- (1) Archivio di Siena. Serie III, vol. 152. (*) « I signori nove furono così denominati allorquando li 10 febbraio 1286 essendosi riformato » il governo ed ai quindici cittadini che sino allora amministravano gli affari del comune se ne » sostituirono nove, che mutavansi ogni due mesi eleggendosene tre per ogni ierzo della città; » essì inlitolavansi priori e difensori del comune, e sceglievansi, come ora si dice, nel medio » celo, ma poco durarono, chè li 25 marzo 1355 furono cacciati di palazzo ed in parle uccisi, Li e venne tale magistrato abolito da quei nobili stessi che anleriormente erano alla direzione » dello stato. » (2) Milanesi. Documenti per la storia dell’arte sanese. T. I. Siena 1854, pag. 57. 292 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA tallo, in conseguenza la spesa pel compratore, per l'oro specialmente era di danno ai lavori rimanendo o rossicci o troppo bianchi secondo che alligavansi con argento o con rame. : In Firenze sin dal 1332 (1) era stata prescritta la battitura di una nuova moneta di bassa lega, la quale doveva correre per quattro de- nari piccoli, onde detta guatrino, e di essa pure credette il comune di Siena utile il coniarne e così impedire di essere inondati dalla vicina città di tale specie assai commoda al minuto commercio , epperciò con ordine delli 14 gennaio 1350 stile sanese, ossia 14 gennaio 1351 (2), venne ordinata la battitura di tale specie a denari 2 o millesimi 170 di fine ma a soldi 24 per libbra, cioè due soldi almeno in più di Fi- renze, così caduno di grani 22. 3 ossia grammi 1,065 incirca, rite- nendo la zecca soli pezzi tre per la mano d’opera, essendosi stabilito aversi a dare soldi 23.9 di quattrini a chi portasse in zecca argento a tal lega. Tre mesi dopo, cioè li 21 aprile, fu rinnovato quest’ ordine (Documento IV) ma essendosi inteso come in Firenze il comune aveva ridotto il prezzo dell’ argento fine che vendevasi alla zecca, si lasciò libero agli officiali preposti alla moneta di variarlo ogniqualvolta credes- sero ciò essere di pubblica utilità. Questi quattrini hanno tutti da un lato la grande S fogliata ed at- torno, ora con punti di divisione ed ora senza, -- SENA . VETVS., ma uno nel rovescio (T. III, n.° 29) ha una croce patente con in giro fra due punti una crocetta indi una rosa e ALFA . ED O . col segno. n.° 25; un altro varia avendo la leggenda del diritto preceduta da una piccola croce fra quattro anelli, e nel rovescio colla croce fogliata lo stesso segno; due altri sono simili affatto a questo ma hanno i segni n.° 26 e 27. In un quinto (T. II, n.° 30) evvi nel campo del rovescio la croce fogliata come nei precedenti ma attorno una crocetta fra quattro anelli e dopo il segno n.° 28 le parole ALFA : ED O seguite da uno scudetto appuntato con segno inintelligibile. Il sesto (T. III, n.° 31), uguale all’ultimo nel diritto, ne è vario nel: rovescio la croce essendo filettata e fogliata con in giro >- ALFA: ED O: indi uno-scudetto che pare liscio per essere un po’ logoro il pezzo. L'ultimo (T. III, n.° 32) ha la S fogliata ed accostata da due rosette nel campo del diritto ed (1) Orsini, come avanti, pag. 45. (2) Archivio di Siena. Serie III, vol. 151. DI D. PROMIS. 293 attorno >- SENA VETVS e i due segni 25 e 29, e nel rovescio la croce ancorata con attorno >- ALF ED O fra due rosette, coi segni come nel diritto. Questi due ultimi pezzi specialmente hanno o l'A o la N di forma diversa dagli antecedenti ed indicano chiaramente il pas- saggio ad un'epoca posteriore. Alcuni giorni prima dell’anzidetto ordine, cioè alli 16 di aprile, si era prescritta la stampa di piccoli, dei quali pare non si rimanesse sod- disfatti poichè tre anni dopo deliberossi che solamente grossi e quattrini si dovessero battere (1) e contemporaneamente s’invitarono i consiglieri a denunziare chiunque contraffacesse la moneta. È Il fiorino, che nel 1252 era stato emesso dalla zecca di Firenze per una lira di grossi ossia per 240 piccoli, stante l'aumento seguìto nella proporzione tra l'oro e l’argento ed in conseguenza l'abbassamento nel loro valore delle monete di questo metallo, troviamo che nel 1302 già correva per lire 2. 11 e nel 1349, per lire 3. 2 (2), e siccome questo era cagione di molte liti nelle private contrattazioni , il consiglio di Siena, affine di provvedervi, con decreto delli 6 agosto 1350 (3) ordinò che indinnanzi i consoli della mercanzia ogni giorno avessero a deter- minare il corso dei fiorini ed indicarlo alla porta del loro ufficio ed a quella della biccherna (*), conservandone nota in apposito libro. In- oltre prescrisse che i ducati si avessero a ricevere all’istesso corso dei suddetti e che nei contratti fatti a fiorini questi si considerassero se- condo il valore al quale correvano all’epoca in cui quelli erano seguiti. Da quest'ordine, poco fu il risultato che dovette ricavarsene poichè li 29 giugno 1363 (4) fu mandato ai consoli di mercanzia che, affine di ovviare al danno a tutti derivante dalle continue variazioni cui andavano soggetti i fiorini, ogni sei mesi ne fissassero il corso e questo nel 1371 trovasi essere stato di lire 3. 6 e 3. 8, e indi per essere cresciuto il prezzo di tutti i generi di prima necessità di lire 4. 10 e sino 5. 6 di (1) Archivio di Siena. Serie III, vol. 189. (2) Villani Giovanni. Storie. Libro 12, cap. 52. {8) Archivio di Siena. Serie III, vol. 150. i (*) « Biccherna voce derivante dal tedesco, e significante il luogo dove conservavansi i libri » della pubblica ragione, diede il nome ad un antichissimo magistrato composto di quattro per- » sone, delte i provveditori di biccherna, e di un camerlengo che amministrava le pubbliche » entrate. » (4) Archivio di Siena. Serie III, vol. 174. 204 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA piccoli (1). Ignorasi per quanto tempo questo corso sì elevato dell’oro sì conservasse, non trovandone più indizio sino a quando li 12 gennaio del 1376 (2) il consiglio di concistoro (*) decretò che il fiorino d’oro di conio sanese avesse a spendersi provvisoriamente per lire 3. 16, e li 5 gennaio dell’anno susseguente (3) per sole lire 3. 13. Tre mesi dopo l’anzidetta deliberazione del 1376 si ha quella presa dal consiglio generale li 21 aprile (4) per la battitura di sanesi d’oro a caratti 24 ossia millesimi 1000 senza indicazione di peso, ma che do- veva ancora essere il primitivo cioè denari 3 sanesi, ed inoltre a lega di popolini cioè a denari 11. 12 o millesimi 958 grossi da cinque soldi l'uno ed altri da sei soldi, più quattrini e denari piccoli, dei quali ultimi però li 9g dicembre fu proibita la stampa. i Essendo sinora stato sempre lo stesso il tipo delle nostre monete, per riscontrare l’epoca della loro battitura quando ne mancano gli or-. dini, dopo constatatane per quanto puossi la legge, si è obbligati di ri- correre ai loro segni estrinseci, esaminare cicè con minutezza il genere d’intaglio dei conii, se più perfezionato e con ornati o no, la forma delle lettere ed i contrassegni dei zecchieri. Queste minute osservazioni siecome mi servirono già di guida per determinare l’epoca della stampa dei primi sanesi d’oro, così mediante esse posso classificare il seguente (T. HI, n.° 33) che ha nel campo del diritto, in una cornice composta di otto segmenti di circolo ornati agli angoli esterni di piccole stelle e circondata da un orlo di perlette una grande S fogliata con attorno al tutto -- SENA VETV : CIVITAS VIRGINIS, e nel rovescio in cornice uguale a quella del diritto una croce fogliata con in giro . ALFA . € O . PRINCIPIV . < FINIS, indi il contrassegno n.° 30, ed in altri il n.° 31. Il peso dell'esemplare esistente nella collezione di S. M. è di grammi 3,470 e vedesi essere d’oro fine. Ora siccome questo pezzo è in tutto uguale, compreso in alcuni il segno di zecca, ad una serie di grossi certamente da soldi cinque e mezzo (Tav. IMI, n.° 34) posciachè (1) Cronica di Neri di Donato. Muratori, Rerum italicarum scriptores, vol. XV, col. 222 e 247. (2) Archivio di Siena. Concistoro. Vol. LXXV, n.° 49. (*) « Il magistrato delto Corcistoro, che era composto del capitano del popolo e di otto priori, » successe all’antico consiglio di crederza, lo stesso che il consiglio in altre città detto segreto, e » nel quale si discutevano gli affari prima di portarli al consiglio generale. » (3) Idem. Vol. LKXXXI, n.° 50. (4) Idem. Serie III, vol. 190. DI D. PROMIS. 295 il peso in comune di otto di essi diede per caduno grammi 2,555, e dei quali, quantunque con diversi segni cioè coi n! 32, 33, 34, 35, 36 e 37, il tipo sebbene di maggior diametro è perfettamente uguale a quello del fiorino sopraddetto, ed inoltre siccome tutti questi con- trassegni, meno uno che riscontrasi su d'un grosso colla biscia, in con- seguenza battuto tra il 1391 ed il 1404 quando era signore di Siena il conte di Virtù, non trovansi più sopra alcuna moneta a tal epoca po- steriore, non dubitai di collocarli tutti unitamente al sanese sopradescritto sotto gli anni che corsero tra il 1376 ed il 1391, quantunque altri allo stesso tipo siano ancora stati coniati per alcun tempo dopo il 1404 quando venne tolta la biscia sui coni. > In non troppo prospera condizione trovavasi questa repubblica nella seconda metà del XIV secolo, poichè per i moti intestini e per le guerre esterne essendo il suo erario quasi sempre esausto, sovente era costreito a ricorrere alle borse dei cittadini, ma non essendo ancora sufficienti questi mezzi e non osandosi, per ricavare un maggior lucro, alterare le monete d’oro e d’argento, cosa che al suo commercio avrebbe recato un enorme danno, credette miglior partito di valersi di un altro mezzo anch'esso pessimo, cioè di batter in gran quantità moneta bassa e minuta, in conseguenza, quantunque già prima fosse stato ciò vietato, ora incalzando il bisogno, li 9g giugno 1385 (1) si venne nella deter- minazione di emettere denari piccoli da quattro per quattrino e di lega assai bassa, abbenchè di tale specie di monete sin dal settembre 1371 (2) il comune avesse proibita la spendita se allo stampo di Pisa e Firenze riconoscendola come cattiva, onde per rappresaglia quest’ultima città ne bandì la sanese. Continuando le rivalità colla repubblica di Firenze, della nostra assai più potente, per le quasi continue guerre che questa con quella perciò aveva a sostenere, ridotta a doversi cercare un alleato tale che la potesse difendere questo trovò in Giovan Galeazzo Visconti duca di Milano, il quale sperando di poterne in seguito ottenere la signoria con piacere ne ricevette gli ambasciatori, e li 22 settembre 1389 (3) i suoi procuratori conchiusero con Siena una lega di dieci anni contro i Fiorentini. Cio- (1) Archivio di Siena. Consiglio della campana. Serie Ill, vol. 200. (2) Cronica di Neri di Donato, col. 229. (3) Malavolti. Parle seconda, fol. 164 retro. 296 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA nonostante andavano sempre peggiorando le cose dei cittadini per la guerra alla quale si era aggiunta la peste e la carestia, onde quando Andreasso Cavalcabò, consigliere del duca e fatto ora senatore, propose che il comune si sottomettesse a Giovan Galeazzo, poca resistenza in- contrò nel gran consiglio il quale li 15 marzo 1390 approvò che le chiavi della città si rimettessero ai commissari ducali, incaricando i priori di nominare un sindaco e procuratore per trattare della donazione. Tutto questo però per diverse cause non ebbe subito effetto ; cionon- dimeno li 30 maggio (1) fu pubblicato che tutte le monete del duca si dovessero ricevere in quel di Siena pello stesso valore cui spende- vansi in Lombardia, e li 2r aprile dell’anno susseguente si minacciò una multa di 200 fiorini d’oro a chi ne avesse distrutte, ed in seguito alli 19 ottobre fu fissato il corso de’suoi fiorini a lire 3. 18 (2). Li 4 luglio 1391 (3) dagli ufficiali della mercanzia fu deliberato che, avuto prima il consenso dei commissari ducali, si avessero a coniare sanesi d’oro fine del peso di mezzo quarto cioè mezzo quario della doppia dell'oro (*), e che fossero del tipo dei grossi ma con una biscia stemma di ‘Giovan Galeazzo sopra la grande S. Il prezzo dell’oro da pa- garsi a chi ne portasse in zecca fu fissato a pezzi 94 ‘/. per libbra di fine quando veramente questa contasse 96 sanesi. Se poi l’ oro conte- nesse lega si lasciò libero al camerlengo di farvi la ritenzione creduta necessaria per le spese dell’affinazione. Il corso di questi nuovi pezzi fu aumentato d’un soldo sopra quelli anteriormente emessi, e li 27 febbraio 1392 (4) fu elevato ancora d’un altro soldo, ed affinchè venisse recata alla zecca una maggior quantità di tale metallo si ordinò che per quello alla lega dei fiorini, tassato come sopra dissi a fiorini 94 '/, la libbra, ora se ne dessero 95. Nell'anno susseguente poi fu ancora aumentato il corso de’ sanesi di altri tre soldi di piccoli e bandita la pena di lire 25 a chi li rifiutasse (5). (1) Archivio di Siena. Concistoro. Vol. CXLVI, n.° 63. (2) Malavolti. Parte seconda, fol. 172. (3) Porri zella Miscellanea storica sanese, pag. 159. (*) « Per doppia d’oro appare essersi voluto intendere l’oncia del peso dell'oro, non esistendo » ancora a quest'epoca le doppie cioè i doppi scudi d’oro, mentre un fiorino non avrebbe giammai potuto pesare il mezzo quario d’una doppia che sarebbe stato un mezzo scudo, quando invece il mezzo quarto dell’oncia è appunto denari 3, peso legale toscano del fiorino. » (4) Porri, come sopra, pag. 161. (5) Idem pag. 162. DI D. PROMIS. 297 Di questi sanesi esistono tuttodì molti esemplari, meno qualche pic- cola variante, tutti al tipo di quello sopra descritto col n.° 33, ma coll’ag- giunta della biscia viscontea ben apparente sopra la cornice che circonda la grande S. Le suddette varietà in questo consistono che uno (T. II, n.° 35) senza separazione di punti ha nel diritto la leggenda SENA VETVS CIVITA VIRGS, e nel rovescio una croce semplice con ALFA ET O PRINCIPIV ET FINS indi il segno n.° 38. Un altro quasi ad esso uguale nelle leggende ha il segno n.° 30, un terzo in vece (T. II, n.° 36) ha il n.° 4o, un quarto il 41 ed un quinto il 34, e questi tre Sat hanno la croce fogliata. Abbenchè nessun ordine da qualche tempo più si che relativamente alla battitura di denari piccoli, tuttavia non si tralasciò di lavorarne come consta da una deliberazione del gran consiglio delli 27 febbraio 1392, stile sanese (Documento V), pella quale fu prescritto che essi più non si avessero ad imbianchire perchè pel poco argento contenutovi presto diventavano rossi, credendosi miglior cosa conservarli neri come usavasi nelle altre officine della Toscana; nello stesso ordine poi si stabilì che avessero ad essere al titolo di grani 16 per oncia ossia millesimi 55, e di 60 soldi per libbra, in conseguenza cadun pezzo del peso di grani g- 14 ?/5 0 milligrammi 46r. I sopradescritti ultimi due saresi d'oro colla croce fogliata, e spe- cialmente l’ultimo a cagione del contrassegno dello zecchiere, appaiono battuti dopo quello col n.° 35 e coniati assieme a certi grossi da soldi 5 e mezzo (1), i quali furono decretati li 4 maggio 1397 d'argento po- polino, con un grano in più odin meno di tolleranza, ed a pezzi 134, in conseguenza di denari 2. 3. 13 sanesi o grammi 2,484 caduno con un denaro ossia grani 24 di rimedio per libbra, pella quale a chi por- tasse di tale argento si promettevano 128 di detti grossi, bandito che essi non si potessero rifiutare sotto pena di lire 5o di piccoli. Di questa specie di grossi, sui quali nell’ ordine è detto doversi mettere sopra la grande $ una biscia come nei pezzi d’oro, nel meda- gliere di S. M. esiste un esemplare (T. III, n.° 37) uguale in tutto, abbenchè di maggior modulo, all’ultimo fiorino sopra descritto ma col segno n.° 42, ed un altro col n.° 34. (1) Porri, come sopra, pag. 162. Serie HI. Tom. XXIV. 38 293 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA Colla deliberazione presa nel 1390 Siena aveva riconosciuto il conte di Virtù qual suo signore ma a tali patti che solamente come alleato teneva seco lui relazioni, onde quando nel 1399 Venezia trattò con vari principi e repubbliche per ristabilire la pace in Italia , il comune fu invitato dal duca a mandarvi i suoi ambasciatori; però siccome colli 22 dicembre 1399 doveva aver termine la lega di dieci anni e trovavansi i cittadini ridotti a mal partito e senza che la pace fosse conchiusa, deliberarono di dargli la total signoria della città ed i capitoli della ces- sione furono sottoscritti in Pavia li r1 dicembre dello stesso anno (1). Pochi giorni dopo, cioè li 29, vennero dal consiglio generale ap- provate alcune provvisioni fatte da cittadini a ciò delegati dagli officiali della mercanzia pel bonificamento della moneta (2). Per esse si stabilì che i sanesi d’oro avessero a lavorarsi al tipo e titolo sino allora usato, ma al peso di mezzo quarto della doppia dell'oro cioè di denari 3 0 grammi 3,471 da aver corso per soldi quattro più degli antichi. L'oro fine che si sarebbe portato per ridurlo in monete fu tassato a fiorini 93 */; la libbra, ritenendosi per le spese gli altri 3/5, sui quali per ogni centinaio di pezzi emessi il camerlengo dovesse dare agli ufficiali della mercanzia due denari piccoli per distribuirli a chi avesse fatto la tratta come anteriormente si usava. Inoltre furono ordinati pezzi da cinque grossi e mezzo alla legge dei precedenti, solamente si stabilì che su d'una libbra se ne dovessero trarre 133 quando prima erano 134, si dessero a chi avrebbe venduto alla zecca di tale argento pezzi 129 invece di 128 ritenendosi il restante per le spese, mentre prima davansi al co- mune grossi due per libbra, e finalmente grossi da soldi due di piccoli a pezzi 366, epperciò caduno di grani 18. 21 o milligrammi 909 ed a denari 11. 12 ossia millesimi 998; e si pagasse detto argento grossi 350 per libbra, onde così facendo non convenisse più mandarlo altrove. Di questa specie. non mi consta se siasi lavorato non essendomi riuscito. di vederne, nè trovandoli indi menzionati. l i Furono anche presi alcuni provvedimenti relativamente alla circola- zione delle monete e si proibì che nessuna di rame (e .per esse inten- devansi quelle di bassa lega), ad eccezione della ducale e della propria, potesse introdursi in città senza il pagamento di soldi cinque di piccoli (1) Malavolti. Parte seconda, fol. 185 retro. (2) Porri, come sopra, pag. 164. DI D. PROMIS. 299 per libbra; affinchè poi tutto l’ oro esistente presso gli abitanti venisse portato soltanto in questa officina, fu tassato della multa di 5o lire di grossi chiunque ne estraesse coniato o no che non fosse al tipo di Siena o del Visconti. In fine si diedero altre provvisioni circa gli officiali e la custodia dei conti. Presto stanchi i cittadini del giogo straniero , e 1 amministrazione interna essendosi nel 1403 riformata collo stabilire un nuovo magistrato col nome di ufficiali di balia, questi li 3 aprile 1404 (1) ordinando la battitura di più specie di monete cominciarono dal prescrivere che dai conii si togliesse la divisa della biscia; essendosi poi segnata la pace coi Fiorentini, e colta l'occasione che essendo morto Giovan Galeazzo il nuovo duca Giovanni Maria era altrove troppo occupato per poter at- tendere alle cose loro, si levarono a libertà, e cacciati i Viscontei rista- bilirono l’antico governo a comune. Per le ragioni che a suo luogo ho esposte agli ultimi anni che pre- cedettero il 1391 ho collocato il fiorino ed il grosso da cinque e mezzo di conio affatto uguale a quelli colla biscia, e dissi che probabilmente alcuni di tali grossi vennero anche battuti quando si decise di togliervi tale divisa; di fiorini però più non si lavorò per vari anni mancando l'oro, come risulta da una deliberazione del gran consiglio delli 22 giugno 1/26 (2), nella quale riferitosi qualmente tal metallo tutto esportavasi, è detto che era pure cagione di questo il non essersene da molti anni coniato (*), in conseguenza affine di ciò impedire fu decretato che i sanesi ultimamente battuti , i quali al presente correvano coll’aggio di fiorini 6 e */; al centinaio e quelli da emettersi per l'avvenire dovessero averlo di sette; in quanto poi agli altri di cera rossa, cioè quelli in borse suggellate con tale cera, aventi d’aggio fiorini 6 e '/, fossero por- tati a fiorini 6 */; per cento. Si prescrisse di più un suggello di fiorini di Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Milano e Pisa del peso dei suddetti tassati a fiorini 6 '/, per cento d’aggio; e siccome alle volte si (1) Malavolti. Parte seconda, fol. 195. (2) Archivio di Siena. Campana. Serie III, vol. 216. ; (*) « Causa per cui l’oro e l’argento dovevasi ben poco vendere alla zecca fu certamente il » dazio che per questi nobili metalli in Siena facevasi pagare, il quale secondo; il Da Uzzano » (Della decima fiorentina, T. IV. Luca 1766, pag. 74 e 81) ascendeva pel primo a soldi 12 e » pel secondo a soldi 4 per l:bbra di fine. » 300 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA conveniva di fare pagamenti in fiorini di camera, si prescrisse che po- tessero essere di detto suggello, e purchè fossero del peso dei sanesi di cera rossa fu permesso di servirsi anche dei ducati, fiorini papali ed ongari. A quest'epoca, cioè dagli anni che dopo il riacquisto della libertà corsero sino alla metà del secolo, certamente spettano le infradescritte monete delle quali mancano gli ordini di battitura, cioè un fiorino 0 sanese d’oro largo (T. INIL n.° 38) colla grande S fogliata nel diritto ed in giro -- SENA VETVS CIVITAS VIRGINIS, e nel rovescio attorno alla croce pure fogliata col segno n.° 43, ed altri coi n.' 44 o 45, ALFA. ET . O. PRINCIPIVM. € . FINIS in caratteri ancora di forma antica ma che sentono assai il passaggio al genere moderno; il peso fu riconosciuto essere in detti esemplari di grammi 3,525 e mi parvero d’oro fine: grossi da quattrini 10, indi detti parpaglivole (T. III, n° 39) uguali affatto nel tipo e diametro ai fiorini larghi, inconveniente grave offrendo troppa facilità ai falsari di esitarli per tali dorandoli. Vari di essi coi segni n.° 43 e 44 riscontrai pesare grammi 2,560, altri 2,345, o 2,030 e persino 1,765, ed in quanto alla lega vidi essere anche tra essi molta inegua- glianza avendone trovati da millesimi 450 a 550; alcuni poi (T. IV, n.° 40) simili nel tipo e leggenda ai precedenti, da essi variano in questo, che da ambi i lati sonvi due orli di perlette e la S e croce vedonsi in cornice composta di sette frazioni di circolo, e di questi conosco esem- plari coi segni n.° 45 e 48: quattrini (T. IV, n.° 41) colla solita S_ ed attorno -- SENA . VETVS . nel diritto, è nel rovescio una croce patente con in giro -- ALFA . ET . O . alternate da piccoli anelletti, alcuni col segno n.° 46 ed altri col 47. Di essi una varietà (T. IV, n.° 42) ha la grande croce colle estremità delle braccia un po’ curve all'infuori e coi segni n.° 48, o 49 o 5o. Tutti questi pezzi sono tra loro disuguali nel peso, avendone riscontrati di milligrammi gio e per- sino di 650, ed alcuni del titolo di denari 2 o millesimi 167 mentre altri mi parvero di un solo denaro o millesimi 83. Di tale specie si con- tinuò a lavorare sino ben oltre la metà del 1400. Si ha coniata a quest'epoca una nuova moneta, della quale nelle me- morie di zecca non si trova alcuna menzione , ed è il do/ognino di cui conosco due esemplari di diverso conio, il, primo dei quali (T. IV, n.° 43) ha da un lato nel campo disposta a forma di croce la parola SENA DI D. PROMIS. 301 con un punto al centro ed attorno fra due stelle la balzana (*), che di nuovo incontrasi sulle monete, indi il segno n.° 43 e VETVS, e dall’ altro nel campo una grande A accostata da tre anelletti con in giro > C xx VIRGINIS per Civitas Virginis. L'altro è vario in questo (T. IV, n.° 44) che a capo della leggenda del diritto il segno n.° 43 è tra due anelletti, indi VETVS. Il loro peso è di milligrammi 960 a 985 ed il fine pare a millesimi 550 a 650, onde li credo equivalere alle mezze parpagliuole. Questa specie di moneta, che dal suo nome scorgesi aver avuto origine in Bologna, dove cominciossi a coniare nel secolo XIII, ebbe gran corso in Lombardia, nelle Marche, nell’ Umbria e persino a Roma, ove nel 1447 (1) trovo che dei grossi da bolognini 7 e del peso di denari 3. 10 o grammi 4,300 incirca ed a denari 11. 3 o millesimi 927 abbisognavano 10 per un fiorino di camera. Ora bolognini 7 calcolati a milligrammi 960 ed a millesimi 583 conterrebbero di fine grammi 3,916, ed uno dei detti grossi ha appunto grammi 4,055 di fine, onde dovendosi calcolare la diversità in meno di milligrammi 139 come neces- saria per la maggiore spesa e pel guadagno sempre convenuto sulla moneta minuta, una tale proporzione risulterebbe affatto ragionevole. Così nel 1464 (2) ne veggo di milligrammi 915 ed a millesimi 736, ed a Fermo nel 1472 (3) di milligrammi 750 ed a millesimi 722, proporzione poco presso simile all’anzidetta. In mezzo a questa grande lacuna si ha un provvedimento del con- siglio della campana delli 24 aprile 1450 (4) circa il corso dei fiorini, (*) « Balzano chiamossi l'abito avente la parte superiore d’un colore e l’inferiore d’un altro, » onde bdalzara fu detta larme di Siena perchè spaccata di bianco e nero. L’origine ne è ignota, » chè non può sussistere l’opinione di chi scrisse essere essa stata adottata quando sul principio » del secolo XIV venne segnata la pace tra i bianchi ed i neri, non essendovi mai stale fazioni » di tal nome in questa città. Secondo il Gigli (Diario sanese. P. II. Siena 1854, p. 510), che sì » appoggia a scrittori antichi, avanti il 1348 la balzana fu sostituita allo stemma che prima era » di un leone bianco in campo rosso, il quale invece io credo fosse quello come dicevasi del » popolo e non l’antico del comune che ci è ignolo. Il Benvoglienti (Muratori. Rerum italicarum » scriptores, T. XV, col. 33) mostra di credere essa altro non indicare che le fascie di marmo » bianco e nero della facciata del duomo e volendo provare tale stemma già essersi usato nel » 1309 soggiunge che esso trovavasi già sopra monete a suo parere battute ai tempi di Carlo IT » re di Napoli, ma queste state come tali pubblicate dal Muratori (Artiquitates italicae medii aevi. » T.IV), come dimostrerò, altro non sono che tessere del secolo XV. » (1) Carli Rubbi. T. I, pag. 393. (2) Idem, pag. 286. (3) Zanetti. T. III, pag. 326. (4) Archivio di Siena. Serie III, vol. 230. 302 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA col quale fu determinato che quello /argo si dovesse d’indi innanzi va- lutare lire 4. 15 e l’altro di camera, ma grave cioè di tutto peso, lire 4. 13. Finalmente dopo ventiquattro anni si trova che alli 2 gen- naio 1474, sempre stile sanese (1), i consoli di mercanzia ed il camer- lengo della zecca ebbero l’incarico di cercare chi questa volesse appal- tare e di prendere i relativi provvedimenti, il che appare aver avuto un soddisfacente risultato, posciachè li 12 agosto susseguente (2) coll’ap- provazione del consiglio di mercanzia già vediamo emesse da Andrea di Cristoforo Capuccio e soci zecchieri libbre ducento di quattrini rico- nosciuti dal saggiatore Bartolomeo Nanni a denari uno e sei grani ossia millesimi 104 d’argento fine, i quali quantunque mancassero di due grani, dovendo essere di denari 1. 8 popolino, furono licenziati perchè un’oncia e sei denari di fine equivalevano ad un’oncia e otto denari e più del popolino già detto essere a oncie r1. 12, dal che si riconosce che la lega di tale specie era stata assai ridotta. Questa tratta fu indi seguita da altre consimili. Come si è veduto l'affare delle monete era una delle attribuzioni degli officiali di mercanzia, che direttamente o per mezzo di persone da essi delegate amministravano la zecca; ora troviamo che questo consiglio, composto di 36 cittadini, li 3 novembre 1475 (3) delegò quattro dei suoi membri per dirigerla, cioè Bartolomeo Mignanelli, Nicolò di Cecco Pacini, Nicolò Sergardi e Mariano di Agostino Luzi, ai-quali fu dato l’incarico di procurare che si battesse tant’ oro quanto Firenze stessa. Non consta però se questa provvidenza abbia potuto avere effetto, sola- mente li 13 febbraio 1487 vedesi menzionata nei libri di mercanzia (4) una tratta di libbre 42. 6 di ducati (*), dei quali 97 componevano una libbra (onde caduno di denari 2. 23 o grammi 3,420), ed essa venne li 12 aprile e 2 giugno seguita da altre emissioni. Siccome solamente rica- vavasi un utile dalla moneta minuta, così di questa con ben maggior attività lavorossi, ed abbenchè di tutte le sue battiture non trovisi conto, tuttavia di quando in quando vedonsene registrate alcune, come nel feb- (1) Archivio di Siena. Libri dei consoli di mercanzia. XL, vol. 69. (2) Idem. (3) Idem XL, vol. 70. (4) Idem, vol. 72. (*) « Come avanli si è detto questa moneta è la stessa che il sarese d’oro largo. » DI D. PROMIS. 303 braio del 1483 ( Documento VI) havvene ‘una di quattrini fatta da Gia- como Mignanelli camerlengo della zecca per libbre 110, delle quali prese a caso tre e riconosciuto il peso parziale di caduna si ritrovò la prima contenere lire 6. 15. 4 di tali pezzi, la seconda lire 6. 15 e la terza lire 6. 14. 4, onde si riconobbe legale risultando così constare in comune cadun pezzo di grani 17 o milligrammi 818; procedutosi indi al loro saggio da Battista Cozarelli, li trovò a denari 1.5 o millesimi 100 di fine epperciò di un grano inferiori al titolo prescritto, ma nuovamente assaggiati col concorso di Francesco Germano e riscontrati contenere per oncia di fine denari 1. 7, furono tratti di zecca; però sembra non es- servi stata in quest ultima operazione troppo buona fede poichè nel 1490 (1) in Firenze vennero riconosciuti sì bassi che furono tassati so- lamente tre denari piccoli l'uno e nel febbraio del 1491 denari 2 ’/, dei vecchi neri fiorentini; da tale anno poi sino al susseguente secolo non trovansi registrate altre emissioni di questi quattrini che una di libbre 70 nel 1498 (2). Per causa del basso corso al quale era stato tassato loro e l'ar- gento essendo rimasta la città innondata di quattrini, di piccoli e di mo- neta falsa, li 2 maggio 1487 (3) l'ufficio della mercanzia , affinchè in zecca si a in quantità tali preziosi metalli elevò il valore dei ducati a lire 6. 4 (*), ma non consta che con tale provvisione siasi ot tenuto lo scopo cui miravasi, non vedendosi prima del finir del sècolo altre emissioni che una nel 1498 di libbre 25 di ducati, ed altra di libbre 32 nell’anno susseguente (4). Di queste monete pare però essersi abbassato il titolo, poichè quando nel 1501 (5) ne furono in Firenze saggiate alcune si rinvennero peggiori dei fiorini buoni di soldi 6.8 di quattrini. Siccome per la uniformità costante dei tipi è assai difficile determi- nare con certezza le epoche in cui furono battute le varie specie di (1) Orsini, pag. 263. (2) Archivio di Siena. Mercanzia. Vol. 75. (3) Idem, vol. 72. (*) « Già sin dal 1472, quando formaronsi gli statuti del monte di pietà, erasi stabilito che i » ducati larghi sì avessero a dare dai depositari al monte per lire 5. 12 (Zanetti. T. I, pag. 338; >» nota 254). » (4) Archivio di Siena. Mercanzia. Vol. 76. (5) Orsini, pag. 276. 304 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA monete che conosconsi effettive, perciò come già dissi è d'uopo di sempre attentamente esaminare qualunque piccola varietà che in esse riscontrasi massimamente nelle leggende ; in conseguenza avendone a classificare alcune coniate dopo quella col n.° 44, e che si distinguono dalle ante- riori per avere la forma delle lettere affatto moderna, ma conservando ancora nella leggenda del rovescio dopo l’Apha VO latino invece dell’) che indi innanzi quasi esclusivamente incontrasi, ho creduto aversi esse a collocare sotto questi anni. Fra queste evvi un ducato o sanese d’oro (T. IV, n.° 45) del quale nessun indizio trovasi negli ordini nostri, che pesa denari 2. 18 o grammi 3,522 e pare a caratti 23. 12 o mille— simi 980; esso ha da un lato la $ fogliata in un giro di perlette con + SENA . VETVS . CIVITAS . VIRGINIS, e dall’altro attorno alla croce fogliata, pure in un giro di perle ed avente sopra il segno n.° 50, la solita leggenda ALFA . ET . O . PRINCIPIVM . ET . FINIS. Di esso esiste ‘anche la metà (T. IV, n.° 46) di denari 1.9 e probabilmente della stessa bontà dell’ intero, cui è affatto uguale nel tipo e nelle leg- gende, eccetto che il segno dell'esemplare di cui do l’impronto è quello col n.° 51, il quale diversifica dal n.° 56 pure colla lettera A in questo, che nel primo tal lettera è in uno scudo a mandorla e nel secondo è in un anello. Dello stesso maestro, epperciò anche col segno n.° 51, è il pezzo da 5 quattrini, o mezza parpagliuola (T. IV, n° 47), simile in tutto al mezzo ducato fuorchè sia la S che la croce vedonsi in cornici formate di nove segmenti di circolo. In quanto al peso e bontà cor- rispondono ai pezzi da quattrini ro col n.° 39. Segue ora una serie di monete d’argento tutte col segno n.° 52 onde dal medesimo zecchiere lavorate, e di esse la maggiore è quella specifi- cata in verbale di emissione del 1511 col nome di grosso della lupa (*), dal quale atto appare essere stata tagliata a pezzi 174 per libbra, onde caduna di denari 1. 15. 6 o grammi 1,871 ed a denari 11.12 ossia millesimi 958. Ha (T. IV, n.° 48) nel campo del diritto la lupa lattante uno dei gemelli, sia Remo o Romolo, mentre l’altro seduto sul suo dorso tiene una bandiera, ed attorno il tutto SENA . VETVS . CIVITAS . (*) « La lupa, impresa adottata nei tempi di mezzo dai Sanesi a cagione della favola allora » sorta che la loro città fosse stata fondata da Senio figliuolo di Remo, si vede tuttodì scolpita » in marmo e fusa in bronzo sopra alcune colonne e verso il 1500 intagliata sopra varie monete. » A quest’epoca lupa, lupa era il grido di guerra dei cittadini. » DI D. PROMIS. 305 VIRGINIS: nel rovescio vedesi la solita croce fogliata con sopra il segno n.° 52 indi ALFA . ED. O. PRINCIPIVM . ET . FINIS. Di tale specie si conosce una varietà (T. IV, n.° 49) nella quale uno dei fratelli sta sotto la lupa e l’altro seduto sul dorso è in atto di scherzare con essa, e la croce del rovescio è in una cornice formata di otto frazioni di circolo. Pure colla lupa ed i due gemelli disposti però un po’ diversamente dai precedenti (T. IV, n.° 50), colle stesse leggende e croce fogliata senza cornice e col segno n.° 58 si ha un pezzo d’argento inferiore nella bontà parendo soltanto a denari r1 di fine e di soli grani 18 o milligrammi 960. Dalla loro bontà si conosce che i due primi sono grossi da venti ed il terzo un grosso da dieci quattrini. Oltre questi altri quattro si hanno battuti dallo stesso maestro e collo stesso segno, i quali formano una serie della precedente più bassa nella lega, e sono un grosso da 10 quattrinî (T. IV, n° 51) colla grande S fogliata in una cornice formata di otto frazioni di circolo e la solita leggenda da un lato, e dall’altro una croce fogliata in simile cornice pure col solito scritto preceduto dal segno avantidetto, ed altro (T. IV, n.° 52) colla stessa S, croce, leggende e segno ma senza le cornici. Queste due monete in comune sono di grammi 1,960 e paiono a millesimi 700. La loro metà, ossia il pezzo da cinque quattrini (T. V, n.° 53), ha da ambe le parti sebbene in minor modulo lo stesso impronto dell'intero col n.° 51, solamente che in questo esemplare la cornice del rovescio è ornata di piccole croci, mentre un altro ne è senza. L'ultimo di questa serie è il quettrino (T. V, n.° 54) uguale agli altri simili, cioè colla S e croce fogliate, leggende solite e col segno n.° 52. Pesa grani 16 o milligrammi 853 e pare a denari uno o millesimi 87 di fine. Di questi tre pezzi da 10, da 5 e da 1 quattrino sonvi esemplari loro affatto simili ma col segno n.° 53. Entrando nel secolo decimosesto il primo ordine che incontrasi dei deputati alla zecca è uno in data delli 18 dicembre 1505 (1) per la stampa di grossi a denari 11 ed a pezzi 188 per libbra, epperciò di denari I. 12. 18 ossia grammi 1,792, e da aver corso per soldi 7 caduno; ma tal ordine li 19 febbraio 1506 (2) venne variato essendosi portati tali pezzi (1) Archivio di Siena. Balia. Vol. XLVIT, n.° 85. (2) Archivio di Siena. Foglio staccato. Serie II. Tom. XXIV. 39 306 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA a denari 11. 12 o millesimi 958 ed a pezzi r76 per libbra cioè a denari 1.13. 14 o grammi 1,792 caduno, dando a chi portasse argento di tal lega 72 de’ suddetti grossi, e questi sono anche grossoni della lupa. Fu pure stabilito che l'oro si continuasse a lavorare secondo la legge sino allora in vigore e che per un anno non si potesse battere alcuna moneta bassa fosse nera o bianca, ma solamente dei grossi sopraddetti. Di questo stesso anno si ha una proposta al consiglio di balia (1), nella quale è detto che si avessero ad invitare i cittadini a portare al cambio tutte le monete d’argento calanti nel peso, di qualunque stampa fossero, e che Francesco di Castone zecchiere fosse tenuto a dare per ogni libbra d’argento popolino grossi 180 dei suddetti traendone egli 134, ed a quelli che ne avessero in piccol numero 5 lire e 5 soldi per ogni sei lire, mi- nacciando una multa a chi fra due mesi dal dì del bando non le avesse tutte recate. Inoltre credendo necessario di riformare la moneta si pro- pose di dar l'incarico a tre cittadini a ciò capaci, uno per monte, di fare al comune un esatto rapporto circa le varie specie d’argento fine e basso che si coniavano in Firenze, ‘sulla loro bontà e peso, su quanto vi si pagava quel metallo e sulle spese che ivi avevansi col confronto di quello che praticavasi nella zecca di Siena, essendo di tutto interesse l’ unifor- marsi il più possibile in questo agli usi dell’anzidetta città. La stampa dei ducati sebbene ora ridotta a piccole proporzioni, tut- tavia non venne sospesa conoscendosene un’ emissione di 964 pezzi fatta li 12 novembre 1511 (2), che furono riscontrati essere in numero di 97 per libbra d’oro, onde caduno di denari sanesi 2. 23. 6 corrispondenti a grammi 3,397, peso assai scarso per tale specie che ordinariamente pesava grammi 3,500 incirca, ed in quanto alla loro bontà essa fu tro- vata ottima, però alla sola pietra del paragone, prova poco sicura, ma che tuttavia qualche volta abbiamo veduto usata in quest’officina. Chi li lavorasse è detto in tratta del susseguente mese (3) essere Mino d’'Agu- raria, il quale allo stesso tipo ne battè altri 258. Contemporaneamente furono emesse libbre 73 di grossoni alla lupa riconosciuti a:denari 11.11: o millesimi 954 ed a pezzi 174 per libbra. Tre anni dopo cioè li 3 febbraio 1514 avendo la balia dato incarico (1) Archivio di Siena. Foglio staccato. (2) Idem. Libri di mercanzia. (3) Idem. DI D. PROMIS. 307 ad Alessandro di Galgano e Vannoccio di Paolo Biringucci (*) di far lavorare la zecca, si formò una società per cinque anni composta di Borghese Petrucci (**), che concorse per ducati 500 da lire 7, ed Ales- sandro Buonagiunti, Vannuccio Biringucci e Bernardino di Francesco di Castoro (***), cittadini sanesi, che misero tra tutti altri 500 ducati per condurre assieme la zecca (1), e sono di opinione che da essi siano state battute le seguenti monete, sulle quali invece del contrassegno solito del zecchiere per essere diversi venne messa la balzana; e questa è l’ultima serie coniata col tipo antico della S e croce. Di esse la maggiore è un ducato (T. V, n.° 55) di grammi 3,579, onde soprabbonda nel peso ai precedenti, alla bontà dei quali però pare essere; ha da una parte la solita S fogliata con + SENA VETVS CIVITAS VIRGINS divisa una parola dall’altra da piccole rose, e dal- l’altra la croce pure fogliata colla balzana (segno n.° 54) a capo della leggenda ALPHA . ET . ©) . PRINCI . ET . FINS. Abbiamo indi la più grande che sino a quest'epoca si conosca d’argento, la quale (T. V, n.° 56) sebbene di maggior modulo ha lo stesso impronto del ducato, soltanto che le rosette alternano anche le parole del rovescio; pesa grammi 6,140 e la sua bontà non pare superiore a denari 6 o millesimi 500. Di questo pezzo non mi venne fatto trovare menzione in alcun luogo, ma stando al suo peso dovrebbe essere il quadruplo della parpagliuola ossia del valore di 4o quattrini. Segue la parpaglivola ossia mezzo grosso (T. V, n.° 57), che indinnanzi vedremo assai comune, ed essa è ancora al tipo del grosso, epperciò colle stesse leggende e croce del precedente, ma colla S in una cornice composta di segmenti di circolo: pesa grammi (#) « Questo celebre autore della Pirotecrzia secondo il Tizio (Milanesi. Documenti per la storia » dell’arte sanese, Tomo III Siena 1856, pag. 125) unitamente a’ suoi soci falsò la moneta che » lavorava al punto da potersi ricavare al mese dal Borghese 50 ducati d’oro e dai suoi compagni » 40 caduno, onde fu falto processo al Castori che lasciossi incarcerare, mentre agli altri col » Borghese riuscì di fuggire. » DA (*#*) « Borghese, figliuolo di quel Pandolfo morto nel 1512 dopo di aver per molti anni da » tiranno dominato in patria , successe al padre nel potere, ma per la sua dissolutezza da tutti » odiato, essendo Raffaele Petrucci suo competitore entrato in Siena con alcune truppe condotte » da Vitello Vitelli, vilmente nel marzo 1515 l’abbandonò per fuggire a Napoli. » (#**) « Il dolto G. Milanesi nella storia artistica di Siena inserta nella guida di questa città » del 1862, a pag. 186 confonde Bernardino col suo padre Francesco distinto cesellatore, dicendo » che questi fu maestro in zecca col Petrucci. » ì (1) Archivio di Stato. Appendice al 1513. 308 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA 1,560 ed è a millesimi 700 incirca. Della mezza parpagliuola o pezzo da quattrini cinque conosco due varietà collo stesso tipo dell’intiero: la prima (T. V, n.° 58) ha la S fogliata e la croce patente in cornice formata di frazioni di circolo e le parole delle leggende alternate da ro- sette, e la seconda (T. V, n.° 59) ha la croce fogliata e nella leggenda da questa parte invece delle rose sonvi punti; paiono tutte alla legge delle precedenti. Infine si hanno due quattrini sempre allo stesso tipo ma vari fra essi in questo che uno (T. V, n.° 60) ha la croce patente uguale al n.° 58, e Valtro (T. V, n.° 61) l’ha fogliata; ambidue poi li riscontrai di milligrammi 650 ed a millesimi 85. In questi anni trovasi un bando delli 18 novembre 1517 circa il corso delle monete basse (1), nel quale diconsi permessi i quattrini sanesi, fiorentini, lucchesi, bolognesi, del papa e quelli lisci, i cavallotti per soldi 14 e gli aquilotti per soldi 6. Tre anni dopo poi cioè li 7 marzo 1520 (2), fu autorizzata la battitura di grossi, grossetti e mezzi grossi secondo la stampa ultimamente designata. Passo ora ad un’ epoca nella quale le monete, stante il loro im- pronto , possono con maggiore certezza classificarsi, però sonvi ancora tre pezzi in oro che quantunque dal loro tipo si conoscano appartenere al: secolo XVI, sono però anteriori al 1526 quando trovasi specificato quale esso debba essere. Di essi è un ducato (T. V, n.° 62) che ha nel diritto la grande S filettata ed ornata con in giro +- SENA . VETVS. CIVITAS . VIRGINIS, e nel rovescio una croce bizzarramente ornata con attorno dopo il segno n.° 55 ALPHA . TE. (per ET) () . PRIN- CIPI . ET . FINIS. Segue il mezzo ducato (T. V, n° 63) identico al l’intero nel diritto, ma vario nella leggenda del rovescio essendochè dopo il sopra indicato segno invece dell’ALPHA evvi OC, lettera o nesso mes- sovi a capriccio dall’intagliatore del conio. In quanto al peso il ducato è di grammi 3,308 incirca come quelli emessi li 12 novembre 1511 e la metà di soli grammi 1,600: il loro titolo poi è superiore a caratti 23 o millesimi 958. Col segno dello stesso zecchiere cioè col n.° 55 si ha pure una moneta di argento a denari 11 o millesimi 917 almeno, e del peso di denari 1. 10 o grammi 1,813, la quale in conseguenza scor- gesi essere un pezzo da quattrini 20. Tiene (T. V, n.° 64) da un lato la (1) Archivio di balia. Vol. LX, n.0 95. 2) Idem, vol. LXII, n.° 98. DI D. PROMIS. 309 solita lupa allattante i due gemelli e la leggenda sopra riportata, e dall’altro è uguale al ducato meno qualche varietà nel fregio della grande croce. Di detta specie di ducati evvi ancora un’ altra metà (T. V, n.° 65) di maggior modulo della precedente ed un poco diversa nell’intaglio dei conii, nei quali dal lato della S vedesi per la prima volta il segno n.° 56 spettante ad. un intagliatore del quale indi parlerò, e dall'altro una cro- cetta precede la leggenda ed invece dell’) evvi la O comune. Correva l’anno 1525 ed a trista condizione trovavasi ridotta 1’ Italia essendo continuamente scorsa dagli eserciti imperiale e francese, e se- condo che l’uno o l’altro prevaleva, l'influenza di Carlo V o di Fran- cesco I imponevasi ai vari suoi stati, e siccome ora aveva il sopravvento quello di Francia del cui re era alleato papa Clemente VII, questi in conseguenza di tutta la sua influenza usando per tirare a sè i principi e le repubbliche italiane, anche in Siena era riuscito a far eleggere alla direzione dei pubblici affari uomini a sè ligi; ma alla battaglia di Pavia essendo stato rotto e fatto prigioniero Francesco I, quelli che parteggiavano per Cesare ovunque ed in Toscana soprattutto ritornarono al potere cacciandone i loro avversari, e questo avvenne anche nella nostra città , dove dai nuovi, chiamati Z%bertini , fu ucciso Alessandro Bichi perso- naggio principale del reggimento favorevole al papa. Clemente oltremodo irritato per tale fatto, stretta alleanza coi Veneziani, mandò nel 1526 a dar il guasto al sanese un grosso corpo d’armati, il quale azzuffatosi presso porta Camolia colla soldatesca del comune rimase totalmente disfatto, e gran numero di prigioni colle artiglierie vennero condotti nella città; con- tuttociò continuossi ancora a scaramucciare in varie parti dello stato sino all'arrivo in Toscana del duca di Borbone coll’esercito imperiale, quando le truppe papali subito ne uscirono. In tali frangenti trovandosi esausto l’erario del comune ed abbiso- gnandosi di moneta pel pagamento della soldatesca e per le riparazioni a farsi alle fortificazioni della città, deliberossi di emettere per una grossa somma di danaro quattrini di puro rame (1) affatto simili nel tipo ai sopra descritti col n.° 60. Di essi, detti Zibertini perchè battuti dal partito al- lora dominante e così chiamato, in breve venne ripieno tutto lo stato, ma per essere falsi subito proibironsi in quelli limitrofi (2), ed in seguito, (1) Malavolti. Parle terza, fol. 132. (2) Pecci. Continuazione alle memorie storiche di Siena. Parte terza, 1758, pag. 5. 310 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA dopo ridottone in. Siena stessa il corso alla metà, vi furono totalmente banditi perchè stante il gran guadagno, che se ne ricavava erano stati su grande scala contraffatti, ed appunto ad uno di questi falsari, preso mentre per le vie della città ne batteva, fu tagliata la testa. Per la vittoria ottenuta sull’esercito pontificio volendo i Sanesi per- petuare la memoria della loro riconoscenza a Maria Assunta patrona della città, fecero coniare monete d’oro e d’argento colla sua immagine e con leggenda allusiva alla protezione divina (1). Quelle d’oro, delle quali nessuna effettiva mi venne fatto di conoscere, secondo il Gigli che scrisse al suo tempo vedersene ancora molte e che per la loro bontà in gran numero erano state da Sisto V raccolte nel tesoro di Castel S. Angelo, avevano l’impronto stesso di quelle d’argento , delle quali ne sono a noi pervenute di due soli moduli e tipi; nella maggiore (T. VI, n.° 66) evvi da un lato accostata da due cherubini la Vergine che tiene il manto allargato sopra la città in segno di proteggerla, con attorno +*- SENA . VETVS . CIVITAS . VIRGINIS, e dall'altro una vittoria di fronte alata e tenente colla sinistra una palma con in giro MANVS . TVE . DOMINE . FECERVNT . ME . e dopo il segno n.° 57: la minore (T. VI, n.° 67), per esserne ben più ristretto il dia- metro, ha nel diritto solamente il busto della Madonna tenente il manto allargato e sotto un cherubino con in giro }- SALVAVIT NOS DESTERA TVA . e fra dette parole il succitato segno; nel rovescio la stessa vit- toria del precedente ha attorno SENA VETVS. Ambidue questi pezzi sono d’argento a millesimi 950 .incirca, ed il peso del primo si riscontrò di grammi 3,260 e quello del secondo di grammi 1,610, onde scorgonsi essere stati emessi per 40 e 20 quattrini ed alla legge stessa di quelli battuti in Roma col nome di giuli e mezzi giuli. Il quarto del giulio era la parpagliuola essendo essa del valore di 10 quattrini, ed appunto coll’anzidetto segno n.° 57, e perciò coniata dallo stesso zecchiere ne abbiamo una (T. VI, n° 68) colle solite leggende, solamente che la grande croce del rovescio è fogliata. In quanto al suo intrinseco pare essere stata lavorata secondo gli ultimi ordini. Di queste battiture però non evvi menzione nei libri delle emissioni, solamente troviamo che li 25 dicembre dell’anno anzidetto (2) la balia concesse ai delegati sulla x (1) Gigli. La città diletta di Maria. Siena (1716) pag. 44. (2) Archivio di balia. Vol. LXXXVI, n.° 114. DI D. PROMIS. 31I zecca di estrarre dai cassoni del concistoro , ossia dall’ erario pubblico, una quantità d’argento per la stampa di monete, che probabilmente servì per le suddette. Tre anni dopo, cioè nel 1529, s'incontra una curiosa sentenza del’ magistrato di balia (1), per la quale fu condannato un chierico, di nome Iacopo da Foiano, dopo essere stato marcato in fronte, a stare durante la sua vita in una' gabbia di ferro per aver battuto moneta falsa colla licenza, come egli a propria difesa diceva, dell’arcivescovo, dal che appare con quanto rigore allora si procedesse contro quelli che contrav- venivano ad una legge fatta per proteggere gli interessi dei cittadini. A quest epoca pel loro tipo credo di poter attribuire due monete d’argento coll’ impronto della Vergine e che quantunque di modulo di- verso sono ambidue pezzi da 20 quattrini o mezzi giuli. La maggiore (T. VI, n.° 69) ha nel diritto Maria in piedi sostenuta da un angelo e circondata da altri, con attorno SENA. VETV . CIVIT.. VIR, e nel rovescio una grande croce ornata con sopra il segno n.° 58 indi ALPH . ET . . PRINCI . ET . FINI. La minore (Tav. VI, n.° 70) ha da un lato fra cherubini la Vergine pure in piedi ma colla testa rivolta alla sinistra, quando nell’altra è rivolta a destra, e colla stessa leggenda però preceduta da una croce, e dall'altro il segno e le parole dell’ an- tecedente, ma colla croce un po’ variata. Pesano ambidue incirca denari 1.4 ossia grammi 1,490 e paionoa millesimi 950. Li 29 gennaio 1533 il sopraddetto magistrato (2) appaltò la zecca a Tommaso di Girolamo Palmieri con facoltà di lavorare, secondo era stato proposto dalla mercanzia, monete d’oro e d’argento alla /ega sanese, cioè uguali nella bontà a quelle sino allora emesse, tagliando di quelle d’oro ducati 93 per libbra, onde caduno di denari 2. 22. 10 o ‘grammi 3,345, e di quelle d’argento grossi 190 e così caduno di denari 1. 12.9 ossia grammi 1,725, e tre anni dopo alli 29 marzo (3) venne eletto camerlengo della zecca Guido di Gerolamo Biringucci coll’obbligo di farvi lavorare scudi d’oro al titolo dei fiorentini e veneziani, al taglio di 1oo per libbra, pagando tal metallo quando fosse al titolo legale scudi 99, e così rimanendovene uno di benefizio quattro quinti ne riteneva per le spese (1) Archivio di balia. Vol. LKXXVI, n.° 114. (2) Idem, vol. CX, n.° 126. — Pecci. Parte terza, pag. 64. (3) Idem, vol. CXXYV, n.0 133. duna MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA ed uno dava al comune. Di questa specie di monete dai registri appare che li 18 gennaio 1538 fecesi una tratta di numero 1590 pezzi, ma siccome tali scudi per speculazione privata esportavansi cangiandoli contro moneta nera, venne questa proibita ad eccezione dei quattrini vecchi di Siena, Firenze e Lucca. Quattro anni dopo, cioè li 14 settembre 1542 (1) il Biringucci non trovasi più alla direzione di questa officina, che vedesi invece appaltata per un anno a Piero di Giovanni Ballati con che avesse a battere scudi d’oro a caratti 22 ossia millesimi 917, ed a pezzi 101 per libbra e così caduno restando di denari 2. 20. 10 paria grammi 3,262: più grossi ossia giuli d’argento da 4o quattrini a pezzi 105 la libbra, in conseguenza di denari 2. 17. 20 ossia grammi 3,140 caduno senza specificazione di titolo: inoltre mezzi giuli in tutto proporzionati agli interi. Dopo le monete coll’impronto della Madonna, battute, come dissi, in seguito alla vittoria ottenuta presso porta Camolia, e prima che si intro- ducesse nel 1548 l’uso in Siena di segnarle dell’anno della stampa, cioè verso gli ultimi tempi della repubblica, si coniò una bella serie di pezzi d’oro e d’argento sui quali sempre è rappresentata la lupa con Remo e Romolo. Ignorando l’anno preciso di questa battitura ne darò ora la de- scrizione cominciando da quelli d’oro, dei quali non conosco che due varietà di scudi, cioè uno (T. VI, n.° 71) avente da un lato in uno scudo accartocciato la lupa allattante i due gemelli, con SENA . VETVS. CIVITAS . VIRGINIS., preceduta tale leggenda da un sole per indicare essere questo pezzo dei migliori, i quali con tal astro si usava in questo secolo segnare per distinguerli dagli altri inferiori in bontà, onde chia- mavansi scudi del sole, e dall’altra parte una croce perlata fra quattro frazioni di circolo , ed attorno dopo un segno quasi in forma di anello aperto ed in altri esemplari con quello col n.° 57, A. ET. G) . PRIN- CIPIV . ET. FINIS. L'altro pezzo (T. VI, n.° 72) gli è uguale dal lato della lupa, però lo scudo è diversamente accartocciato e la leggenda è alternata da rosette, e dall’altro la croce è fogliata e le parole della leggenda precedute dal segno n.° 59 sono più complete e pure divise da rosette. Queste monete, che secondo la legge sopra mentovata devono es- sere a millesimi 917, furono riscontrate del peso di grammi 3,300. (1) Archivio di balia. Vol. CKXXVIII, n.° 138, DI D. PROMIS. 313 Dello stesso maestro, cioè col segno n.° 59, non si conoscono pezzi da 4o e 20 quattrini ma soltanto da ro e 5, dei quali il primo (T. VI, n.° 73) colla lupa allattante i due gemelli e la croce fogliata ha le stesse leggende delle altre parpagliuole ad eccezione che le parole sono tutte divise da rosette. Il secondo (T. VI, n.° 74) da 5 quattrini ha in minor modulo lo stesso tipo leggende del suo intero, ma le parole sono sem- plicemente divise da punti, ed hanno l’O comune invece dell’). In quanto al loro peso e titolo paiono esser uguali alle ultime battute. Di un nuovo zecchiere abbiamo indi tre bellissime monete d’argento, cioè un festone del quale non ho potuto riconoscere il peso, ma che do- vrebbe essere di denari 8 almeno, ossia grammi 10,250 incirca; esso (T. VI, n.° 75) presenta da un lato la Vergine in piedi colle mani giunte e circondata da sette cherubini, con in giro SENA VETVS CIVITAS VIRGINIS, indi il segno n.° 53 (#), e dall’altro la solita lupa che allatta uno dei gemelli mentre l’altro sedutole sul dorso fa svolazzare un pennone, ed è accostato da due scudetti colla balzana: attorno leggesi ALPHA . ET . G) . PRINCIPIV . € . FINIS . indi lo stesso segno del diritto. Segue il terzo del testone ossia il giulio (T. VI, n.° 76) avente da una parte una simile figura della Madonna fra raggi e cinque teste d’angeli, ed in giro la leggenda del precedente pezzo; dall’altra parte la lupa con sotto i due fratelli ha sopra il dorso il contrassegno suddetto ed in giro precedute dalla balzana le stesse parole che leggonsi sul testone. Pesa denari 2. 17 o grammi 3,470 e pare a denari rr ossia millesimi 917. Un altro giulio (T. VI, n.° 77) varia dall'ora descritto in ciò che il segno n.° 53 è nel terreno sotto la lupa, e questo pesa solamente denari 2. 14 o grammi 3,308. i Le ultime monete coniate nella zecca di Siena durante la sua auto- nomia, come sopra ho detto facilmente distinguonsi dalle precedenti pel loro tipo che già sente l’avanzarsi del secolo XVI, e per la data della stampa che su tutte vedesi impressa, la quale però s'ignora se-sia stata messa spontaneamente dallo zecchiere oppure per deliberazione del ma- gistrato. I conii poi, meno uno, tutti furono intagliati dallo zecchiere (*) « Questo contrassegno, che dalla crocetta sormontante lo scudo prende la forma di marca » mercantile, potrebbe essere lo siemma dei Ballati, che è una banda con stella nell’angolo a » destra del campo, che per la piccolezza dello scudo si sarebbe ommessa, essendo in questi anni » maestro della zecca Piero di questo casato. » Serie II. Tom. XXIV. 40 314 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA Agnolo di Nicolò Fraschini cittadino sanese, il quale li segnò, ugual- mente che quelli indi fatti in Montaleino, dell’iniziale del suo nome cioè della lettera A in un anello. Volendo descrivere queste monete secondo la data della loro battitura, comincierò da un mezzo giulio coniato forse prima che il Fraschini ne appaltasse l'officina, avendo nessun contrassegno, e nel quale (T. VII, n.° 78) da una parte evvi la lupa coi due gemelli sotto e nell’ esergo 1548, con attorno il tutto preceduta da una crocetta la solita leggenda Sena vetus, ecc., e dall'altra una croce filettata ed ornata in una cornice formata di quattro segmenti di circolo con in giro una croce indi A/pha et @ ecc.; pesa esso denari 1.6 ovvero grammi 1,600 e pare a denari rr 0 millesimi 917. Passando alle monete col contrassegno del Fraschini, la prima è un giulio (T. VII, n.° 79) del quale sonvi esemplari col 1548, 1549 e 1550. Esso mostra nel diritto la Vergine Assunta circondata da raggi, soste- nuta da tre angeli dei quali uno a destra sorge in atto di preghiera, essa è colla testa volta al cielo e le mani giunte, ed in giro sonvi le solite parole Sena vetus etc.: nel rovescio ha una gran croce filettata e fogliata con attorno dopo il segno n.° 56 Alpha et © ecc. Pesano in comune da denari 2.6 a 2.9 ossia da grammi 2,880 a 3,040 e paiono da millesimi 850 a goo. Il grosso o mezzo giulio (T. VII, n.° 80) ha la solita leggenda dal lato della Madonna in piedi fra nubi con sotto una testa di cherubino, e da quello della croce filettata e fogliata il segno n.° 56 e la leggenda divisa in due dalla data 1548. L’esemplare che tengo pesa denari 1.7 o milligrammi 1,653, ed è al titolo stesso del- l’intero. Non si conoscono di questi anni parpagliuole, nè pare che più se ne siano battute, e solamente se ne ha la metà o pezzi da quattrini cinque (T. VII, n.° 81) colla lupa allattante i due gemelli, sotto il 1548 ed attorno, divise dal segno del Fraschini, le solite parole >k SENA . VETVS . CIVITAS . VIRGINIS . nel diritto, e nel rovescio in uno scudo ovale ornato di cartocci una banda con sopra la parola LIBERT per Libertas ed in giro ALPHA . ET. W . PRINCIPI. ET. FINIS., e notisi che con questi conii se ne lavorarono anche negli anni 1549, 1550, 1551 e 1553. Riscontratine alcuni esemplari li trovai in comune di grani 21 ossia grammi 1,120 e mi parvero a denari 4 o millesimi 333 come quelle che vedremo prescritte in ordine del 1556. Dello stesso anno 1548 evvene un’altra dall’anzidetta soltanto variante DI D. PROMIS. 315 in ciò che il segno invece di essere sotto la data è in luogo della cro- cetta a capo della leggenda del diritto. Colloco dopo le suddette monete d’argento la seguente grossa d’oro perchè impressa con data a quelle posteriore. Essa secondo l’indicazione datane dal signor Caucich (1), alla quale mi attengo non avendone avuto che un calco, è un pezzo da zre doppie, ossia sei scudi d’oro, ed ha nel campo del diritto (T. VII, n.° 82) in una cornice la Vergine Maria seduta e tenente sulle ginocchia il bambino Gesù in piedi in atto di be- 5 nedire colla destra, composizione ottima ed elegante, sotto alla quale è segnato l’anno 1550 ed attorno +- SENA . VETVS . CIVITAS . VIR- GINIS. Nel rovescio sopra una base, nella quale è il segno n.° 56, vedesi la figura nimbata in piedi di un martire guerriero tenente colla destra una spada ed una palma nella sinistra appoggiata ad uno scudo accartocciato e caricato di una banda con LIBE per Libertas, ed in giro S. VICTORIVS . ADVOCAT . SEN., cioè uno dei quattro protettori della città. Abbiamo indi lo scudo d’oro, di cui conosco solamente esemplari cogli anni 1550, 1551 e 1554. Ha esso (T. VIT, n.° 83) da un lato la lupa allattante Remo e Romolo, nell’esergo la data ed attorno le solite parole Sera vetus ecc. divise dal contrassegno del Fraschini, che sopra il pezzo del 1554 è posto a capo della leggenda, nella quale sull’ esem- plare del 1551 per errore al nome di Sena si ommise la S. Dall'altro lato vedesi una grande croce ornata e fogliata con in giro Alpha et ® ecc. Pesano in comune questi pezzi denari 2. 17.12 ossia grammi 3,495 e paiono a caratti 22 o millesimi 917. Dello stesso anno 1550 conoscesi anche un giulio (T. VII, n.° 84) nel diritto del quale vedesi in mezzo a raggi ed angeli, fra i quali uno supplichevole è a lei rivolto, la Vergine portata in cielo verso il quale in atto di preghiera volge lo sguardo, con in giro la solita leggenda, e nel rovescio una croce filettata e fogliata colle parole A/pha et © ecc. divise a metà dalla data e precedute dal segno n.° 56. Sonvi esemplari di grammi 2,880 e 3,000 e sembra siano a millesimi go0 almeno. Un altro esemplare (T. VII, n.° 85) è uguale al precedente in tutto fuorchè intorno alla figura della Madonna mancano i raggi e nel rovescio la data (1) Bullettino di numismatica ilaliana. Firenze 1867, n.° 3. u a È 316 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA è 1551. Due altri gi battuti nello stesso anno ancora si conoscono, ambidue colle stesse leggende del precedente e da una parte colla Ver- Sine Assunta rivolta al cielo e colle mani giunte, ma in uno (T. VII, n.° 86) essa vedesi accostata da due cherubini, che mancano nell’altro (T. VII, n.° 87); così nel rovescio hanno una croce filettata e baroc- camente ornata e nel n.° 86 la lessenda è preceduta dal segno del Fraschini mentre nel n.° 87 lo è da una croce, quantunque dello stesso veggansi essere i conii, Tutti poi nel peso e titolo sono uguali agli an- tecedenti. L'ultima varietà di questa specie di monete che mi sia stato dato di conoscere è quella (T. VII, n.° 88) simile affatto nel rovescio al n.° 85 compresa ia data del 1551, ma nel diritto avente colla solita leggenda una bella Madonna colle mani giunte e sostenuta da quattro cherubini. Ignoro il suo peso avendone soltanto avuto un calco. Due anni dopo si riformarono i conii della mezza parpagliuola (T. VII n.° 89), però vi si conservò nel diritto la lupa che allatta i gemelli, diversamente posti da quello che sono nell’ esemplare col n.° S1 in cui il segno è sopra con sotto l’anno 1553, e così dicasi di ambe le leggende, ma diversa e più barocca è la forma dello scudo. del peso e pare alla bontà dell’avanti descritta. L'ultima moneta che mi consti battuta in Siena prima della sua ca- duta, cioè nei primi tre mesi del 1555, è un quatirino (T. VOI,. n.° 90), il quale attorno alla S fogliata ed accostata dalla data 15 - 55 ha >- SENA . VETVS . CIVITAS . VIR . da un lato e dall’altro una croce pure fogliata come le precedenti con in giro dopo il segno del Fraschini ALPHA . ET. . PRINCIPIV . ET . FI . Pesa come gli ultimi avanti descritti di questa specie, ma sì poco è l’argento con- tenutovi che il pezzo sembra di puro rame. Da ciò appare che quantunque già fosse, come si vedrà, detto zec- chiere passato a lavorare in altra zecca, tuttavia nella sanese continuossi a battere sino alla resa della città coi conii da esso intagliati. Nelle repubbliche italiane dei tempi di mezzo quasi sempre la loro caduta devesi attribuire alle dissensioni interne, e questo pure avvenne di Siena. Gli sconvolgimenti onde era continuamente agitata la città ser- virono di pretesto a Carlo V per intromettersi negli affari del comune, e sin dal 1531, coll’apparenza di mantenervi l'ordine, l’esercito imperiale aveva preso stanza nelle vicine sue terre, ed il comandante Ferrante Gonzaga per futili motivi riteneva prigioni alcuni dei principali cittadini; DI D. PROMIS. 317 in seguito, sotto colore di riformarne il governo e procurare tranquillità agli abitanti, agenti di Cesare vennero a risiedere nella città e nel 1541 il Granvela vi ordinò un nuovo magistrato di balia composto di quaranta persone, delle quali otto ed il capitano del popolo furono da lui diretta- mente nominati; indi nel 1543 dall'imperatore Carlo fu destinato con alcune compagnie spagnuole alla guardia di Siena Giovanni di Luna, il quale senza opposizione alcuna lasciò che si cacciasse detta balia e nuovo ordine di cose si introducesse, e ciò affine di potere con maggior facilità di tutto disporre. Il magistrato che sotto la sua influenza si organizzò nel 1547 accettò la guarnigione di 4oo soldati di Spagna, ed indi col- l'apparenza di tutelare gli onesti contro i continui tumulti della plebe dai cesarei stessi eccitati, venne dal ministro imperiale indotto a permettere la costruzione di una fortezza che subito dalla detta soldatesca fu occu- pata. Spaventati i cittadini per un tal procedere, levatisi nel 1552 a rumore ed intesisi con agenti di Francia, che segretamente davano loro aiuto e consiglio, vennero alle mani cogli Spagnuoli e li cacciarono di città, forzandoli poscia ad abbandonare anche la nuova cittadella, che fu consegnata al signor di Lausach oratore del re Enrico II Irritato Vim- peratore per la cacciata de'suoi, sul principio del 1553 mandò un esercito composto di Spagnuoli e Fiorentini comandato dal marchese di Marignano ad impadronirsi dello stato e mettere l’assedio a Siena stessa, la quale in breve trovossi affatto chiusa dalle forze nemiche per modo che non essendo più bastevoli ai cittadini i mezzi esistenti per più oltre difendersi, malgrado venissero mandati di Francia in loro soccorso truppe col Montlue e con Pietro Strozzi, e trovandosi ridotti agli estremi, dopo infiniti danni durante un lungo assedio con eroica costanza sofferti, furono costretti a mandare, per trattar della resa, ambasciatori al duca Cosimo de’ Medici, come luogotenente generale di Cesare, e nell'aprile del 1555 se ne se- gnarono i patti, a tenore de’ quali Siena aprì al nemico le sue porte restando così essa privata di quella preziosa libertà della quale non aveva saputo godere, e passò indi nel luglio 1557 sotto la soggezione di Cosimo cui da Carlo V era già stata concessa la signoria di quasi tutta la rima- nente Toscana. Questi appena preso possesso di Siena a nome dell’im- peratore vi nominò una nuova balia, la quale subito che fu installata tassò le monete sino allora battutevi ai seguenti prezzi (1): {1) Pecci. Memorie storico-criliche di Siena. Parte IV, pag. 241. 318 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA lo scudo d’oro per L. 8 il giulio per quattrini 4o la metà » » 20 i grossi colla S e quelli colla lupa per quattrini 21 i quarti de’ giuli colla Madonna per quattrini 10 i bolognini per quattrini 6. Appena venne pubblicata nel campo imperiale la sospensione d’ armi 252 famiglie nobili e 435 popolane guidate da Mario Bandini capitano del popolo uscirono dalla città e cogli avanzi della soldatesca francese si ritirarono in Montalcino piccola città forte per natura abbenchè cinta di deboli fortificazioni, e vi conservarono ancora per alcuni anni quella forma di governo della quale era stata per sempre spogliata la loro madre patria. Uno dei primi atti del nuovo magistrato fu quello di aprirvi un’of ficina monetaria e di chiamarvi nel 1556 il già zecchiere Agnolo Fraschini, il quale qualche mese prima della caduta di Siena era passato al servizio di Ottavio Farnese duca di Parma e Piacenza (1), trovandosi che li 12 dicembre 1592 gli era stata per due anni allogata la zecca di Parma, della quale due monete appunto conosconsi (2) colla data del 1553 e col solito suo contrassegno. Dopo aver condotto a termine questa con- venzione Agnolo essendo andato a Roma, per un debito di 300 ducati verso un Cavalcanti vennevi da esso trattenuto, onde abbenchè già avesse accettata la condotta della zecca di Montalcino, dovette il suo magistrato intervenire affinchè venisse esso lasciato in libertà (3), il che appena ottenuto subito vi si recò ed attese ad intagliare nuovi conii sui quali conservò il solito suo contrassegno. IT patti dal capitano del popolo e deputati, come dicevansi, alla difesa della libertà di Siena ritirata nella città di Montalcino sotto la protezione del cristianissimo re di Francia convenuti col Fraschini per anni cinque furono che dovesse battere ducati d’oro al taglio di 102 per libbra di Roma, epperciò caduno di denari 2. 19. */, o grammi 3,270 in- circa ed a caratti 22 o millesimi 917 colla tolleranza sul titolo di grani 1.6, dal che scorgesi che sotto nome di ducati si trattò di scudi d’oro, (1) Zanetti. Tomo V, pag. 175. (2) Idem, Tomo V, Tav. V, n.i 58 e 60. (3) Porri. Pag. 170 e 171. DI D. PROMIS. 319 i quali erano appunto a questa bontà: pezzi da #re giuli ossia testoni: giuli a pezzi 109 per libbra, onde di denari 2. 15. ro ossia grammi 3,045 incirca ed a denari 10.6 o millesimi 854 di argento fine, col rimedio di due denari pure di fine per libbra o meglio di un giulio, ed inoltre mezzi giuli alla stessa legge degli interi: infine parpagliuole da ro quattrini l’una e tagliandone 180 per libbra così caduna di denari 1. 14.9 o grammi 1,870 incirca dovendo sempre usarsi il peso di Roma a quello di Siena superiore, ed in quanto alla loro bontà si volle fossero a denari 4 o mil- lesimi 333 con due denari di fine di rimedio per libbra sul peso (1), ed alla stessa proporzione mezze parpagliuole dette in Siena baielle , in Roma daiochelle ed altrove bolognini, che correvano per cinque quattrini neri ed in Firenze per quattro quattrini bianchi. Ora stabiliendo il rapporto fra loro delle monete battute in Siena dal principio del XVI secolo sino incirca a quest’ epoca ne risulta il seguente : Ducato di 5 testoni uguale a....L. 7. 10 Scudo d’oro di testoni 4.*/ ....» 7. = Testoni da giuli 3 .......quattrini 120=L. 1.10 Giuliot 3} Reese dpr aa a » 4o = 0. 10 Mezzo giulio o grosso .... » 20 = 0. 5 Parpastiuolal=tt. Si 200 » To-— 0. 2. 6 Mezzato baiella Ret 00 » 5i= 0.113 Cui e Re piccolini (0-02 Erecolot. Maratea TREE OMO I In quanto alle monete che si era convenuto col Fraschini di bat- tere fu stabilito che un terzo fosse in pezzi d’oro, un terzo d’argento e l’altro di moneta bassa, ed al medesimo fu concessa una casa per la sua famiglia e per la zecca, dato un migliaio di libbre di ferro per fare gli utensili ed il sale necessario per l’ imbianchimento dei tondini. Fu poco dopo prescritto che gli scudi d’oro avessero a correre per lire otto di quattrini a numero, e furono proibite tutte le monete estere, ad ec- cezione delle papali, francesi, lucchesi, veneziane, del duca di Ferrara e de’ quattrini sanesi vecchi, in seguito poi (2) fu ordinato che tutti gli scudi d’oro avessero a spendersi per 16 carlini ossia giuli, ed in quanto (1) Porri. Pag. 166. (2) Porri. Pag. 171. 320 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA alle monete d’argento furono anche permesse quelle di Parma, onde per rappresaglia il governatore spagnuolo in Siena, cardinale di Burgos, vi proibì tutte quelle d’oro, d’argento e di rame battute in Montalcino (1). Mancando ancora al minuto commercio una moneta piccola, li 23 settembre 1558 (2) fu concesso al Fraschini di lavorare per un migliaio di scudi d’oro quattrini a pezzi 530 per libbra ed alla legge dei vecchi, e così di grani 13 caduno ossia milligrammi 690, con che sia obbligato detto Agnolo li quattrini che batterà farli e stozzarli (*) da un lato con Varme e lettere de la libertà et da l'altro con uno S colla leg- genda delle daie/Zle ossia mezze parpagliuole. Siccome poi in Montalcino non trovavasi persona capace di fare i saggi delle nuove monete, fu con- venuto che prima di emetterle il zecchiere avrebbe lasciato che il ma- gistrato ne estraesse un numero e le mandasse a saggiare ove credesse conveniente, ed appunto si conoscono invii di pezzi d'oro, d’argento e minuti fatti a Nicolò Santi loro oratore a Roma perchè ivi li facesse riconoscere da periti. Di tutte le monete battute in Montalcino conservansi diversi esem- plari, anzi il cavaliere Franceschi tiene due pezzi forse unici, i quali sono multipli dei sopra indicati, cioè uno da quattro scudi d’oro ed un doppio testone, ambidue stampati cogli stessi conii epperciò collo stesso im- pronto. Il primo (T. VII, n.° gr) ha nel diritto colla lupa allattante Remo e Romolo e sotto la data del 1596 dimezzata dal segno dello zec- chiere, preceduta da un giglio la leggenda R.P. SEN. IN.M. TLICINO . HENRICO II . AV., cioè Respublica senensis in Monte Iicino Henrico secundo auspice per alludere alla protezione di Enrico II re di Francia, e nel rovescio la Vergine in atto di preghiera in mezzo ad angeli e sopra nubi, colla leggenda allusiva alla sua protezione TVO . (1) Pecci. Parte IV, pag. 289. (2) Porri. Pag. 173. (*) « Questa parola, in uso soltanto presso certi scrittori sanesi, non la vidi citata in altre » carte di zecca che in queste di Siena, ed il sostantivo stozzo lo irovai nella sola deliberazione » delli 29 ottobre dello stesso anno. Questa parola è adoperata in vece di cozio, onde stozzare » significherebbe l’ atto d’imprimere sul tondino preparato per la stampa l’impronto del conio. » L’origine di essa pare che figuralamente derivi da tozzo, dello anche stozzo, col quale indicavasi » un pezzetto di pane, perchè la forma antica dei conii era ordinariamente piuttosto informe essendo fatti di un pezzo d’acciaio quasi quadrato. Nulla però sembra abbia di comune con » quello strumento detto pure stozzo, che serve per fare il convesso ad un pezzo di metallo, come sarebbe la cocchia dell’impugnatura di una spada. » x DI D. PROMIS. 321 CONFISI . PRAESIDIO seguita da una crocetta biforcata. Il suo peso deve essere di denari 11.7 romani od incirca grammi 13, cioè quattro volte quello prescritto nella citata convenzione pello scudo d'oro (T. VII, n.° 92) che ha da un lato uno scudo ovale accartocciato con una banda caricata della parola LIBERTAS ed attorno dopo un giglio HENRICO II. AVSPICE, e dall'altro la lupa allattante i due gemelli con sotto la data 1506 divisa dal solito segno n.° 56 ed attorno pure precedute da un giglio, le parole R_. P_. SEN . IN. MONTE . ILICINO . In alcuni esemplari dal lato dello scudo prima della leggenda in luogo del giglio vedesi un anello, e da quello della lupa leggesi MONTE IALICINO (sic) colla data 1559 dei quali anni vennero pure emesse collo stesso tipo doppie 0 pezzi da due scudi. Quantunque non specificato nell’ ordine di battitura, si ha il mezzo scudo (T. VIII, n.° 93) collo stesso stemma dell'intero e colla leggenda HENRI . Il . AVSP . da una parte, e dal- l’altra colla $ fogliata e le parole che nell'intero sono in giro dal lato della lupa. Il Doppio testone o pezzo da sei giuli collo stesso tipo di quello da quattro scudi essendo come avanti si è detto battuti ambidue coi medesimi conii, è del peso di denari 15. 20. 12 incirca 0 poco presso grammi 18. Il testore o pezzo da tre giuli uguale al n.° gr nel diritto e colla stessa data, ma nel rovescio per essere il ponzone della Madonna troppo grande pel suo modulo, la leggenda preceduta dalla croce bi- forcata venne interrotta e divisa in tre parti, e manca invece in esem- plari coll’anno 1558. Un altro testone (T. VIII, n.° 94), colla solita lupa e nell’esergo la data 1558 divisa dal contrassegno del Fraschini, e la leggenda del precedente nel diritto, ha nel rovescio la Vergine As- sunta in atto di pregare circondata da cherubini, e toccante colla testa l'orlo della moneta, con attorno TVO CONFISI PRAESIDIO. Il Leblane (1) sotto il titolo generale di tesions come fossero tali ci dà il disegno di due monete di Montalcino dopo due testoni francesi di Enrico II, onde parrebbero tutti della stessa specie, ma ben esaminan- doli si scorge esserlo soltanto il primo coll’anno 1558 e probabilmente del tipo sopradescritto , quaniunque il nostro autore abbia variata la fisura della Vergine mettendole in braccio il bambino e decorandola di corona e scettro, quando sopra le nostre monete è sempre sola e senza alcuno di tali fregi e figurandosi nell’atto di essere assunta al cielo ; in (1) Traité historique des monnaies de France. Amsterdam 1692, pag. 268, Tav. I. SerIE II. Tom. XXIV. hi 322 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA quanto poi al secondo pezzo, è impossibile sia un testone essendo affatto uguale nel tipo e nel modulo allo scudo col n.° 92, epperciò scorgesi che dall’autore, per averne avuto un semplice disegno ed ignorandone la specie, come tale credendolo fu collocato fra i testoni. Segue un giz/io (T. VIII, n.° 95) col diritto, sebbene di minor dia- metro, perfettamente uguale al testone in tutto eccetto la data, la quale è il 1556 in un esemplare ed il 1558 in un altro e che nel rovescio la Vergine Assunta è rivolta al cielo colle mani giunte in atto supplichevole ed è sostenuta da due soli piccoli cherubini. Altro di ugual modulo (T. VII, n.° 96) collo stesso rovescio, leggenda e data del precedente, ha in piedi la figura con aureola della Vergine Assunta e portata in cielo da un cherubino solo. Il nostro Porri, pubblicando le monete di Montalcino, classificò come mezzo giulio il suo pezzo col n.° XVII (1) e credette una parpagliuola il sussseguente abbenchè affatto ad esso uguale per essere apparente- mente di più bassa lega, ma mi perdonerà se non posso concorrere nella sua opinione non essendovi esempio che siansi battute cogli stessi conii monete minute di ugual metallo ma di valore affatto diverso, cosa che avrebbe cagionato infiniti inconvenienti nelle piccole contrattazioni, ed in verità avendone esaminati alcuni esemplari tutti pressochè uguali di peso e riconosciutili di argento piuttosto basso, mi convinsi che i tre pezzi da lui rappresentati coi n. XVII, XVIII e XIX sono tutti ugual- mente parpaglivole. Alle due prime, varianti soltanto nelle date che sono il 1556 e 1557, aggiungerò un’altra col 1558, onde vedesi che cogli stessi conii ne furono battute in detti tre anni; in conseguenza credo che si debba collocare prima di essa un’altra colla data del 1556, la quale pare coniata esclusivamente in detto anno. Su tale pezzo (Tav. VIN, n.° 97) vedesi nel diritto uno dei gemelli in atto di giuocare sul dorso della lupa che allatta l’altro, con attorno un giglio indi R . P. SEN . IN. MONTE. ILICINO, e nel rovescio una croce gigliata con in giro HENRICO . II . AVSPICE . indi il segno n.° 56. Quelli poi che hanno le tre date sovramenzionate (T. VIII, n.° 98) sono simili all’anzi- detto ad eccezione che ambidue i gemelli sono allattati dalla lupa. Delle parpagliuole la metà (T. VIII, n.° 99) ha le stesse leggende, segni e (1) Porri. Tavola in fine. (Sì) DID. PROMIS. 32 lupa dell'intero col n.° 98, ma gli esemplari che conosco segnano solianto l’anno 1557, e nel rovescio hanno uno scudo ovale ed accartocciato colla banda caricata delle lettere S.P .Q . S . per Senatus populusque senensis , e la loro legge è l’avanti citata. Un altro esemplare colla stessa data (T. VIII, n.° 100) è pure ad esso simile, ma ne varia in questo che lo scudo è di forma irregolare. Il quattrino (T. VIII, n.° 101), ap- punto come vedesi indicato nel precitato ordine, ha la S fogliata ed at- torno R. P_. SEN . IN. M. ILICINO: da un lato, e dall’altro nel campo su tre linee LI - BE . RT — AS ed in giro HENRICO . Il. AVSPICE . Questo pezzo, contiene sì piccola quantità di argento , che si direbbe di puro rame. Rimane ancora a descriversi un pezzo d’argento fine del peso di soli gionevolmente 5 classificare coi precedenti, quantunque il tipo della lupa sia uguale a milligrammi 480 (T. VIII n.° 102), che perciò non posso ra quello della parpagliuola col n.° 97, ma, senza leggenda per essersi improntato su d'un tondino molto ristretto, e nel suo rovescio non leg- gesi che SE - NA... VE - TVS su tre linee, il che pel suo assieme mi fa sospettare altro non essere che un saggio di zecca. «Queste sono tutte le monete uscite dall’officina sanese sino alla totale caduta della repubblica che mi venne fatto di conoscere; ora devo an- cora dire di una, la quale credo sia rimasta allo stato di semplice pro- getto non avendosi alcun indizio per crederla effettivamente battuta, inoltre pel suo tipo stesso apparendo non dovere essere stata gradita da chi reggeva la repubblica in Montalcino, ed eccone la storia. Essendo passato il Montluc al servizio del duca di Ferrara, in sua vece prese il comando delle truppe francesi Francesco d'Este, il quale fece eseguire dal Fraschini certi conii coll’effigie, il nome ed i titoli del re Enrico I da un lato, e dall'altro la lupa colla solita leggenda Respublica senensis in Monteilicino e ne propose al magistrato l’adozione. Tale proposta non poteva certamente ad esso andar a sangue, chè non più protezione ma padronanza vedeva significare l'effigie di un sovrano estero sulle sue mo- nete, onde, per non andare direttamente contro il progetto dell’ Estense, li 29 ottobre 1558 (1) allo zecchiere, il quale chiedeva di battere con essi monete alla legge di Roma, rispose con questa scappatoia, che cioè (1) Porri. Pag. 176. 324 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA credeva necessario averne prima licenza da sua santità, epperciò avanti di decidere sopra questo doversene attendere la sua approvazione, la quale appunto non risulta che mai giungesse. Il Pecci (1) dice che i Sanesi in Montalcino fecero stozzare monete d'oro e d’argento di varie specie coll’impronto della Vergine Assunta e sine labe concepita, colla lupa, colla balzana, col leone e colla leggenda Respublica senensis in Monteilicino, e per nota dà la notizia tratta dalla Storia Universale stampata in Venezia nel 1757 (T. XXI, pag. 234), che furono emesse monete col motto Seratus populusque senensis in Monteilicino; ma egli cadde in errore scrivendo esservene colla balzana e col leone, poichè questi due stemmi non trovansi mai dominare sui conii sanesi, e ben scorgesi aver il Pecci copiato il Muratori (2), il quale appunto dà come monete due tessere una colla S e la balzana, e l’altra pure con questo stemma ed il leone rampante che si è veduto essere quello del popolo; in quanto poi all'ultima, della quale dà la leg- genda scorgesi aver voluto indicare la mezza parpagliuola sulla quale sonvi le lettere S. P_.Q . S. Nel mentre che dai Sanesi rifuggitisi in Montalcino emettevansi le sopradescritte monete, in Siena dalla nuova balia nominatavi dal duca Cosimo I con decreto dell’aprile 1555 (3), prescrivevasi a qual valore dovessero riceversi le monete sanesi anteriormente battute, cioè i giuli per quattrini 40, i mezzi per 20, i grossi colla S e colla lupa per 21 grossetti colla S, i grossetti colla lupa per soldi 4, i quarti di giulio colla Madonna per ro quattrini, i bolognini per 6 quattrini e lo scudo d’oro per lire 8. Nella nuova loro sede i repubblicani sanesi avevano stabilito un re- golare governo e colle armi conservavano il possesso di una buona parte del territorio tenuto già dalla loro antica patria, e quantunque la con- tinua lotta che avevano a sostenere contro Spagna ed il nuovo duca di Firenze, sebbene aiutati dalle armi francesi, andasse talmente riducendo le loro forze da trovarsi costretti a fare ogni sorta di sacrifizi per con- servare la cara loro indipendenza, tuttavia potevano ancora sperare che essa loro non sarebbe così presto tolta, quando in seguito alla (1) Continuazione ecc. Parte quarta, pag. 271. (2) Antiquitates Italicae medii aevi. T. II, Mediolani 1739, col. 740, n.i 8 c 9. (3) Pecci. Parle quarta, pag. 241. DI D. PROMIS. 325 battaglia di San Quintino essendo stato il re di Francia forzato a segnar la pace con Filippo II, uno dei patti che questi gli impose fu che do- vesse ritirare le sue truppe dalla Toscana, e per quanto agissero gli oratori sanesi affine di ottenere la conservazione della loro libertà in quella parte del territorio che ancora da Montalcino dipendeva, a nulla giunta nell’estate del 1559 alla foce dell’ Ombrone 8 la flotta francese vi imbarcò le proprie truppe, onde trovandosi i ri- riuscirono; frattanto fuggiti ridotti agli estremi, li 31 luglio (1) stipularono in Firenze una capitolazione per la cessione di Montalcino unitamente a quella parte dell’antico stato che erano riusciti a conservare, e che dal capitano del popolo Alessandro di Vannuccio di Biringucci venne rimessa al Guevara capitano delle truppe spagnuole. Così dopo un'esistenza di quattro secoli ebbe fine questa repubblica, e delle quattro sì celebri in Toscana nei tempi di mezzo quella sola di Lucca potè conservare la sua autonomia ancora per oltre due altri, cioè sino ai primi anni del decimonono, allorchè Napoleone I impadro- nitosene la diede con titolo di principato alla sua sorella Elisa moglie di Felice Baciocchi. (1) Pecci ece. Parte quarta, pag. 331. 326 MONETE. DELLA REPUBBLICA DI SIENA DOCUMENTI It I. Estratto dal breve dei giuramenti degli ufficiali del comune di Siena compilato l’anno 1250. (Archivio di Stato. Serie I, n.° 3). De dominis bulgani et eorum suppositis. Ego dominus bulgani iuro ad sancta Dei evangelia hoc officium mem bene et legaliter exercere ad honorem et utilitatem comunis Senarum, remoto hodio, amore, pretio vel precibus alicuius; et monetam senensem tenebo et teneri fa- ciam rectam et legalem in pondere et argento , videlicet de xL per unciam et de tribus unceis argenti per libram ponderatam ad pondus senense et consolatam in bulgano, ita quod de qualibet libra extrahantur illi denarii qui sunt a qua- draginta uno sursum, et illi qui sunt a triginta novem inferius et illi qui fue- rint extracti non remictantur postea, et illi qui remanserint consolentur et ad consolandum per libram ad pondus non mictantur ultra vi denarii leves et vi grossi, si aliter sine illis sex levibus et sex grossis consolari non possent; et si sine illis consolari possent, non mictantur et data de quadraginta per unciam, et non ero in consilio vel facto vel consentimento quod aliquid falsitatis vel fraudis aliquo ingenio in ea conmictatur; et si cognovero aliquem (sîc) in eam felloniam vel furtum vel falsitatem facere vel conmitere vel consentire, illum extra bulganum eiciam, nec ulterius eum ibi laborare permictam, et hoc faciam si potero: sin autem potestati, quam primum potero, renuntiabo; et non faciam nec tenebo aliquam societatem vel postam inter nos vel cum aliqua alia per- sona vel personis, nec fieri nec teneri faciam ullo modo vel ingenio ad bonum et purum intellectum potestatis et consilii campane senensis de argento, rame, plumbo, pulzone vel aliquo alio cambio de quorum lucro habeam vel habere sperem aliquod lucrum vel partem lucri; et a sociis meis dicti bulgani vel alio pro eis aut ab alia persona non emam aliquod cambium vel argentum, rame seu plumbum, vel pulzone nisi in presentia campsorum et provaioli qui mecum steterint ad dictum officium si sani erunt, et ab eis emam pro tanto pretio pro quanto emerem ab aliis campsoribus vel extraneam personam vel valentia cu- iuslibet predictorum. Et hec faciam bona fide sine fraude omni sophismate re- moto, et hec eadem faciam iurare scribanum meum et campsorem qui mecum steterint pro ponderando, et provaiolum et de hiis teneamus ne moneta aliis venderetur. DI D. PROMIS. 327 Il. Deliberazione del consiglio della campana, 1279, 17 agosto. ( Archivio della campana. Serie III, vol. 23). In nomine Domini amen. Consules mercantie senensis et eorum consilium de quo fuerunt hii : ser Cione Bagnese ser Iacobus Ughiccionis ser Bertoldus Uggerii Benetti ser Iohannes Grassus ser Patricius Rainerii ser Sinus de Ponzis ser Nicola Sassi ser Naddus Orlandini ser Soldanus de Ponzis ser Toncella ser Gregorius Gonnella ser Latinus Uberti ser Ghezus Bertoldi super moneta senensi cudenda fuerunt in concordia et statuerunt pro maiori parte: Moneta grossa et minuta senensis cudatur. Item, quod moneta minuta senensis cudatur de xL sol. per libram et currat ad pondus et ad computum; in qua libra ad pondus sit et esse debeat uncia et dimidia argenti fini et x: uncee et dimidia ramis. Item quod consules mercantie et eorum consilium quolibet mense debeant providere ne moneta minuta trabocchetur vel ledatur seu in aliquo vitietur.. Et ordinaverunt quod tenuta dicte monete fiat a xxxvu. * Item ordinaverunt quod moneta crossa senensis debeat cudi de fino argento, et teneat libra argenti unam tertiam unciam ramis, et non plus; et de dicta libra debeant fieri x11 sol. et 11 denarii crosse monete dicte. Que crossa moneta debeat currere pro duobus soldis monete minute senensis. Et predicta moneta crossa vadat ad computum et ad pondus. Et provideatur per consules et eorum consilium ne dicta moneta trabocchetur vel vitietur in aliquo, mense quolibet. Item quod domini bulgani teneantur facere trahi de bulgano monetam cros- sam et minutam ad bilanciuolos et non ad trabocchettum. Item ordinaverunt quod moneta parva vetus senensis debeat currere ad com- putum. Fu approvato dal consiglio della campana, secondo le soprascritte provvisioni, tutto ciò che riguarda la stozzatura della moneta piccola. Ma quanto alla moneta. grossa si approvò la seguente proposta di Bertoldo di Uggerio: 328 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA De moneta autem crossa dicit, quod vult immo quod de nostro bulgano egre- diantur duo solutiones aut tres, et post modum per dominum potestatem ha- beantur consules mercantie et ratiocinentur simul, quomodo ipsa moneta crossa cudatur, et quod iussi fuerint, tunc fiat. HI. Deliberazione del consiglio della campana, 1349, 13 marzo (stile sanese). ( Archivio della campana. Serie III, vol. 149). In nomine Domini, amen. Hec sunt quedam ordinamenta et provisiones facte per quosdam sapientes cives electos per dominos novem gubernatores et defensores comunis et populi civitatis Senarum, ad infrascripta omnia et singula pro comuni predicto utiliter et honorifice providenda. In primis considerantes predicti sapientes quod magnus honor est cuilibet eivitati quod cudi facit et fieri monetam, et quod maxima multitudo et abun- dantia de argento in civitate Senarum existit et crescit manifeste continue, ut videtur, ob quod comune senense cum magno commodo et utilitate potest cu- dere et cudi facere monetam in civitate Senarum; et volentes iam dicti sapientes dictam civitatem Senarum prefatis utilitate et commodo ac honore fulgere, pro- viderunt et ordinaverunt quod in comuni Senarum et per ipsum comune cudatur et fiat et cudi et fieri debeat nova moneta grossa de argento, quod sit lege et tenute undecim unciarum et dimidie fini argenti pro libra ad pondus senense. Et quod de qualibet libra de argento dicte tenute et lege cudantur et fiant novem sol. et sex denarios ‘et dimidium de grossis; qui grossi espendantur et cursum habeant pro quinque soldis denariorum senensium parvorum pro quolibet grosso. Et quod similiter de supradicto argento diete tenute et lege cudatur et cudi debeat alia nova moneta grossa, et quod de qualibet libra dicti argenti cudantur, fiant et extrahantur xvi: sol. et unus den. de grossis, quorum quilibet expendatur et cursum habeat pro duobus sol. et sex den. denariorum senensium parvorum. Et sic quilibet dans vel recipiens dictos grossos debeat computare in quibuslibet solutionibus fiendis. Et quod quilibet ex dictis grossis ex una parte habeat crucem et ex alia parte S cum aliis litteris et impressionibus, ut videbitur dominis con- sulibus mercantie et illis sapientibus quos ad predicta duxerint eligendos. Item ad hoc ut predicta plenius suum debitum assequantur effectum, pro- viderunt et ordinaverunt sapientes prefati quod domini novem officio residentes una cum consulibus mercantie civitatis Senarum teneantur et debeant eligere , ponere et deputare quendam bonum sufficientem et legalem virum qui sit came- rarius bulgani comunis Senarum et dictarum monetarum cudendarum, et tres DI D. PROMIS. 329 bonos et sapientes viros, unum vide licet pro quolibet terzerio, qui sint consi- liarii camerarii suprascripti. Item ut quilibet civis senensis possit ex predictis utilitatem et commodum obtinere, providerunt et ordinaverunt sapientes predicti quod dictus camerarius bulgani teneatur et debeat recipere a quolibet cive Senarum, qui mictere voluerit argentum in dicto bulgano illam quantitatem argenti quam sibi dare voluerit, dum tamen ipsum argentum sit et esse debeat tenute et lege de qua supra in primo capitulo mentio facta est; et quod ipse camerarius pro qualibet libra ar- genti quam recepit , teneatur et debeat reddere cuilibet mictenti novem sol. et unum den. de grossis, cursum habentibus quinque sol. Et de aliis de duobus sol. et sex den. cuilibet tali mictenti reddere debeat pro qualibet libra dicti argenti decemotto (sic) sol. et duos den. de grossis; ita tamen quod illi qui prius miserit dictum argentum prius dictam monetam coniatam et factam reddere teneatur, ut ceperit argentum missum ad rationem prefatam. Item volentes tollere omnem materiam fraudis que circha predicta commicti possit, et ut predicta sine aliqua fraude fiant, providerunt et ordinaverunt sa- pientes predicti quod moneta extrahi non possit de dicto bulgano, aliquo modo vel causa, nisi prius et ante omnia dicta moneta fuerit approvata et saggiata per consules mercantie civitatis Senarum et tres- prudentes viros idoneos et de pre- dictis expertos, unum videlicet pro quolibet terzerio civitatis predicte, ad loc elisendos per dictos consules. Et si invenerint dictam monetam fore factam de argento supradicte tenute et lege, tunc dicta moneta de dicto bulgano extrahatur et expendatur, ut superius dictum est: de qua quidem extractione et approbatione debeant dicti consules fieri facere vice qualibet solepnem et publicum instru- mentum. Sin autem invenerint fore factam minoris tenute et lege, tune et eo casu debeant dicti consules dictam monetam, que fuerit minoris lege, destrui facere et incidi, ita quod expendi non valeat ullo modo. IV. Deliberazione del consiglio della campana. 1350, 21 aprile. (Archivio della campana. Serie III, vol. 149). Convocato et congresato generali consilio campane comunis et populi etc. = ele] e ele slesl e ela) es alate alette oe le spola eolie eo aifolcol info taicolle tollel toe, mia, jelska)sfa |) = (e) 0) «le 0) po (0) 0 (ellele)el\ele] e) © TAB Cum in comuni Senarum fuerit dispositione valida reformatum dia ad decus et utile comunis eiusdem cudatur et fiat nova moneta grossa de ar- gento lege ac tenute undecim unciarum et dimidie pro libra ad pondus senense; et quod de. qualibet. libra argenti dicte tenute et lege cudantur et fiant novem Serie, II. Tom. XXIV. 42 330 MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA sol. vi den. et dimidius de grossis qui expendantur el cursum habeant pro quin- que sol. denariorum parvorum senensium pro quolibet grosso; et quod similiter de argento dicte lege et tenute cudatur et fiat alia nova moneta grossa, ita quod trahantur et fiant de qualibet libra dicti argenti decemnovem sol. et unus den. de grossis qui expendantur et cursum habeant pro duobus sol. et sex den. par- vorum senensium pro quolibet dictorum grossorum; et quod camerarius bulgani dicti comunis teneatur et debeat pro qualibet libra argenti, quam receperit, reddere novem sol. et unum den. de grossis, quinque sol. pro quolibet grosso; et de aliis grossis duorum sol. et sex den. pro quolibet teneatur et debeat red- dere pro qualibet libra dicti argenti sol. decemotto et duos denarios de ipsis grossis; cum sit insuper in agendis commodis comunis Senarum cura sedula in- tendendum, et cognito nuper quod comune Florentie reddit presenter de mu- neta quam cudi facit minus pro libra quam hactenus consueverat; ideoque co- munis senensis providenda sint commoda circha dictam monetam cudendam, veris rationibus et imitabilibus exemplis. Si igitur videtur et placet dicto consilio providere, ordinare et reformare quod domini novem et consules mercantie civitatis Senarum, et consiliarii camerarii dicti bulgani et due partes ipsorum possint, teneantur et debeant providere, or- dinare et disponere semel et pluries, toties quoties et quando quibuscunque modis et formis et prout et sicut eis videbitur expedire, quod comune senense seu camerarius bulgani pro ipso comuni reddat illo minus pro libra argenti de dicta moneta quod crediderint et cosnoverint fore decens et conveniens tam pro comuni Senarum quam pro eo qui argentum miserit in bulganum; et in hiis et circha hec et independentibus, coherentibus et connexis et pro utilitate et com- modo dicti comunis possint et debeant provideri quoties ei prout quando et qoaliter cognoverint utile vel expediens provideri; et quae providerint et dispo- suerint valida sint et firma et debeant plenis effectibus observari, dum tamen providere non possint quod comune Senarum seu camerarius bulgani dicti co- munis reddat plus pro libra argenti, quara in consilio campane fuit stabilitum ; in Dei nomine consulatis. V. Deliberazione del consiglio della campana. 1392, 27 febbraio (stile sanese). (Archivio della campana, Serie III, vol. 202). Dinanzi da voi magnifici signori priori dicesi per li vostri officiali de la mer- cantia che vero ine pocho tempo fu si vinse et ordinò per lo consiglio generale sì dovessero fare piccioli che fussero bianchiti; e volendo li detti officiali seguire quello che deliberato era, fecero incominciare a fare de’ decti piccioli, il perchè DI D. PROMIS. 331 iruovano di chiaro e di certo che i decti piccioli in molto pocho tempo diven- tarebbono rossi come rame precto e sarebbono troppo sozzi: di che non segui- rebbe honore di comune. Et impertanto gl’ufficiali predecti n’anno ritenuti più consigli di molti cittadini merchatanti e banchieri et orafi intendenti e pratichi, acciò e vedutone e factone fare molte pruove, et in ultimo sonno consigliati per li decti cittadini che i detti piccioli sarebbe el meglio e più onore di comune di farli al modo usato, cioè neri, come anchora s’usa per tutte le terre di To- scana. Et pertanto se piace alla signoria vostra, mandatene proposta al consiglio generale, che se piace al decto consiglio i detti piccioli si debbino per gl’ uffi- ciali predetti farli fare neri e del peso e di tenuta d’ariento, sì come ordinato fu, cioè che sol. Lx ne vada per ciascuna libra, e d’ariento abbino due terzi d’oncia per libra. VI. Saggi di Quattrini. 1482 febbrato (stile sanese). (Dai libri di mercanzia). Die v februarii. Tacobus de Mignanellis camerarius zeche traxit de zecha libras centum decem quatrenorum qui fuerunt ponderati et inventi ad summam lib. sex sol. quindecim den. iv, et lib. sex sol. quindecim, et lib. sex sol. quatordecim den. iv. Die vi februarii. 5 Baptista Cozarelli saggiator retulit dictos quatrenos tenere pro qualibet libra ad pondus unciam unam den. quinque argenti fini. Die vi februarii. DD. officiales audito Iohe Baptista Mogii de Ugurgieriis nomine dicti Iacobi Mignanelli exponente quod credit esse errorem in dicto saggio et petente eos resagiari deliberaverunt quod Baptista saggiator et Franciscus Germanus debeant sagiare denuo dictos quatrenos. Insuper dd. Baptista et Franciscus fecerunt dictum saggium et retulerunt de comuni concordia invenisse dictos quatrenos tenere un- ciam unam et septem den. argenti fini pro qualibet libra ad pondus dictorum quatrenorum. . > ù rif e A i Ra ag) Mat sit pttosa eb dlinghy Maop dr ada aiua lee o dvalalao 1 datare 01% sta i PEPCR N) guai sapa ateo sste'antoo iste batta; dii lu ilz ara aa et Ta oprbtiatzà pe cares ipmetto; "lt a Rari ù tari Lig taitoninaai + irataranent inibanio iNfbdnb is a (ut dialigizaoa dica Gnocca sila egli gosont al stette ci ria llà a Sgt Ro a pesa ol: Moipalgf Q10% isti de # BE I Stio AE ito;fo a alia ta s0i0 “tei So as gi TAO labii IRA 1 > okta alle sig 25 Gres Core op Galletta ital. dead i olaiptgnretità te Lu scad aa colli bai 209/49 DI, SA DI cradle fear dani IT Mds: lAgut Dari otra. asa ue i Jo ca PRESS: 1 c) CGOIOP Mugi. i a Magatene «MR Age cea tap OTTRI ENEA Fox Mi mos A fp pi sane: Di; La Mie PAIS, i i io SF sa det: Li alri ho toa aprigii Cia CI Sin ù Mg dee) Tr EAT FIORONI Virippn PIA Wrc DE: Ù ui SA ng” DI Masai bd po) Di Mi È PSP ANZIO E È ARA De da ‘ “ i i ts La ll snesniina, Ma ilgapoii iajtabag doro ST fo, cart, lil siano a 2 dit. 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DI SEGNI I I(ATÀ Di 7? { 5 Il US De] Dogi INDICE ao CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE Noa per servire alla storia della Reggenza di Cristina di Francia Duchessa di Savoia; per Amedeo Prxron . . . Pag. THomaE VALLAURII animadversiones in dissertationem Friderici Ritschelii de Plauti poètae nominibus . . ...-:... » LA CRITICA SCIENTIFICA ED IL SOVRANNATURALE, continuazione dell’ Appendice C sulla trasformazione della specie ; per Giuseppel GamunGHEetot 5 RE MONETE DELLA REPUBBLICA DI SIENA; Memoria di Domenico PROMISE: RI I MIR Lt N NIRO Sh Mer O 333 161 261 n È Ù pi: ò ie REL IARA x » dd) di di LA i N di i d l { (a i A RAR I SOROGIAO ‘ABORTI 1 aliotiota | HAROH, ISHAd | ft N6Rk; "00 ? i i g i VERRA MEZdO” 4 ug î Dr Pic, ; i a Ù } | } vi né PON X A 1 x Li ” po ‘ita (po n igor alla be Quid < alfoe filo tg. 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