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MISCELLANEA LINGUISTICA.

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MISCELLANEA LINGUISTICA

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GRAZIADIO ASCOLI.

TORINO CASA EDITRICE ERMANNO LOESCHER

1901.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

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Milano 1901. Tip. Bernardoni di C, Rebeschini e O.

A GRAZIADIO ASCOLI

FESTEGGIANDOSI

IL SUO 70° ANNO DI VITA IL 40.º D'INSEGNAMENTO

RIVERENTI E BENE AUGURANTI

OFFRONO

L. BIADENE M. BLOOMFIELD K. BRUGMANN J. Cornu V. CRESCINI G. DE GrEcorio C. DE LoLLis J. DYNELEY PRINCE F. G. Fumi F, GARLANDA C. Giacomino P. G. GOIDANICH E. Gorra G. GròBER P. E. GUARNERIO I. Guipt V. HExRY M. KERBARER P. MARCHOT W. MEYER-LüBre C. MICHAELIS DE VASCONCELLOS C. NIGRA G. Paris E. G. Paropi P. E. PAvoLINI S. Pieri F. L. Putte P. Ragsna C. SALVIONI J. SCHMITT W. Stokes H. SUCHIER R. THURNEYSEN G. ULRICH.

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Non poterono mandare i loro scritti, ma concorsero alla pubblicazione della Miscellanea linguistica in onore di GRAZIADIO ASCOLI:

Prof. D." Dietrich BEHRENs, Kgl. Universität, Giessen (Germania).

Prof. Davip CAsTELLI dell'Istituto di Studi Superiori, Firenze.

Prof. L. E. MENGER, Bryn Mawr College, Bryn Mawr (U. S. A.).

Prof. D." H. Morr, Univorsität, Zürich (Svizzera).

Prof. W. A. Packarp, Princeton University, Princeton (U. S. A.).

Prof. D." Domenico Pezzi, R. Università, Torino.

RoBERT von PLANTA, Zurich (Svizzera).

Prof. Hugo A. RENNERT, University of Pennsylvania, Philadelphia (U. S. A.).

SOMMARIO.

1. KARL BRUGMANN, Zum Haingesetz von Luceria CIL. IX

m I

To gs

so œ

10. 11. 12.

13. 14. 15. 16.

17.

18, 19. 20. 21. 22.

23.

É FE Gracomo ULRICH, Il Favolello del geloso

. PauL MARCHOT, Deux etymologies .

Maurice BLOOMFIELD, On the Sanskrit original of tho

Pranou Oupnekhat (Pranava Upanisad) in the Por-

sian translation of the Upanisads . RupoLr THURNEYSEN, Altirische Adverbien . Gaston Paris, Ficatum en roman

Sprachgeschichto . CarLo SALVIONI, Etimologie .

J. Cornu, Estoria Troyaa acabada era do mill et quatro-

centos et onze annos (1373) . CLAUDIO Giacomino, Saggiuoli nooindiani

F. G. Fumi, Sul nominativo sing. del nome ariano . M. KERBAKER, Due leggende del Mahäbhärata, voltate

in ottava rima . . . V. Henry, Etymologies bretonnes .

. HERMANN SucHIER, Kleine Beiträge zur Romanischen

Pier ENEA GUARNERIO, Nuove postillo sul lessico sardo

C. Nigra, Il dialetto di Viverone .

G. GRÔBER, Eine Tendenz der französischen Sprache CesaRE DE Loris, Dell'-A in qualche dialetto abruz-

zose . e. Pio Rama, La lingua cortigiana oe te ew P. E. PavoLInI, Una Süktävalt giainica anonima

I. Guipi, Una somiglianza fra la storia dell'arabo e del

latino

FEDERICO GARLANDA, Sul dialetto biellese nella valle di

Strona .

J. DYNELEY PRINCE, The modern Dialect of the Cana-

dian Abenakis .

WuirLEv Stores, The Lebar Brece Tractato on the

Consecration of a Church .

. Pag.

33 3 3 3

321

343

363

VIII Sommario.

24. Joan ScHMITT, ‘Pelixcy -risico. . . . . + + . Pag. 389 25. P. G. Gorpanicu, Intorno al dialetto di Campobasso - n 403 26. W. MEYER-LUBKE, Etymologisches. . . . . 2 . . , 415 27. Sırvio PieRrI, Appunti etimologici. . . . . . . . , 421 28. G. De GREGoRIO, Etimologie . . . + + + 447 29. E. G. Paropi, Il tipo italiano alidre aléggia oo... » 457 30. E. Gorra, L'Alba bilingue del codice vaticano Re-

gina 1462 . . . . . oo... 489 31. C. MICHAËLIS DE VASCONCELLOS, Yengo (Eng) Engue-

dat Engar ..... . n 523 32, V. Crescını, Dell’antico frammento epico belluneso m 939 33. L. BrapENE, Note etimologiche . . © . 2 2 22020 549 34. F. L. PvLLE, Postilla, a Graziadio Ascoli . . . . . 595

Indici analitici (CARLO SALVIONT) . . . 2 2 2 2 . . . 999

———————__—___— T———_—_——————

KARL BRUGMANN.

ZUM HAINGESETZ VON LUCERIA CIL. IX 782.

Der Text dieser sprach- und rechtsgeschichtlich gleich- wichtigen Inschrift lautet mit den Mommsenschen Ergin- zungen, die als sicher gelten dirfen: in hoce loucarid stircus | ne [qujis fundatid, neve cadaver | proiecilad, neve parentatid. | sei quis arvorsu hac faxit, [ceiv]ium | quis volet pro ioudicatod NI] manum iniecto estod; seive | macl[i]steratus volet, moltare | [lilcetod. Die In- schrift ist nur aus G. B. d’Amelj, Storia della città di Lu- cera (Lucera 1861) !) bekannt und das Original, wie Mommsens Nachforschungen ergeben haben (s. CIL. IX p. 667), wohl für immer dahin.

Die Echtheit der Inschrift konnte, als diese bekannt wurde, nicht angezweifelt werden. Aber was sollte man von den sonderbaren imperativischen Formen fundatid, pa- rentatid und proiecitad halten, für die man funditod, pa- rentatod und protecitod erwartet? War die Inschrift wirk- lich genau abgeschrieben und die Abschrift genau veröf- fentlicht? Was Corssen, den Mommsen wegen dieser For- men befragte und der sie als richtig anerkannte, zu ihrer Erklärung beibrachte (Ephem. epigr., vol. 2 p. 206) 3),

1) Dieses Buch ist mir nicht zugänglich geworden.

*) « Uridg. -tät» im Imperativ blieb nach Corssen im Lateinischen teils unverändert (proiccitäd), teils wurde es über -téd hinweg zu -tid (fundatid), teils zu -töd (estöd), und unsere Inschrift hat den Vorzug, alle drei Gestaltungen zugleich zu besitzen | |

1

|

2 K. Brugmann,

zog sich Th. Bergks wohlverdienten Spott zu (Kleine philol. Schrift. 1, 648 Fussn.). Um kein Haar besser freilich ist die Deutung, die uns dieser selbst auftischt, eher noch unwissenschaftlicher !). Das unzweifelhaft Richtige hat erst H. Buchholtz gesehen und in einer besonderen Schrift in der Hauptsache ausreichend begründet (Oski- sches Perfectum in lateinischer Inschrift, Festgruss den am 30. Sept. 1878 in Gera versammelten Philologen dar- gebr., Berlin 1878): wir haben es mit oskisch flek- tierten Verbalformen zu thun. fundatid und parentatid sind ihrer Flexion nach durchaus regelrechte Konjunktive des osk. t-Perfekts, vgl. z. B. osk. tribarakattins ‘aedi- ficaverint’. Sie erscheinen hier ebenso im Verbot, wie es im Osk. heisst (n. 127, 46 v. P].): eisei terei nep abellanús nep nüvlanüs pidum tribarakattins «in eo territorio neque Abellani neque Nolani quidquam aedi- ficaverint ». protecitad aber ist eine adhortative Bildung von der Art der osk. Passivbildungen kaispatar und krustatar. Vgl. Bugge Altital. Stud. 4, 153 ff., Danielsson in Paulis Altital. Stud. 4, 151 ff., von Planta Gramm. der osk.-umbr. Dial. 1, 38 und 2, 309, Conway The Italic Dia- lects p. 31 und im Glossary. Die Entstehung des Typus kaispatar ist allerdings noch nicht klar gestellt, aber hieraus folgt nicht im mindesten, dass proiecilad, welches mit Bergk auch Bronisch (Die osk. i- und g-Vocale S. 139) in proiecitatid ändern möchte, falsche Lesung sei. Wer fundatid und parentatid als oskisch flektierte Konjunktive gelten lässt, hat kein Recht proiecilad zu verwerfen ?). Lu- ceria war bis 314 v. Chr. eine gut samnitische Stadt, und so ist nicht zu verwundern, wenn wir in unsrer Inschrift

1) Die Formen sollen Zusammensetzungen mit dare sein. Für pro- tecitad sei protecitatid zu lesen.

?) Mit der Aenderung in proiecitatid ist ja auch gar nichts gewon- nen. Man sollte wenigstens proiectatid lesen, um eine mit lat. pro- iectäre zu vergleichende Form zu bekommen.

Zum Haingesetz von Luceria CIL. IX 782. 3

Mischformen antreffen. Die auf unsrer Inschrift vorliegen- den sind nicht merkwürdiger als so viele andre in In- schriften oder andern Sprachdenkmälern unter analogen Verhältnissen begegnende Mischbildungen, an denen nie- mand sich bisher gestossen hat. Ich erinnere beispielsweise an die lesbisch-äolisch ausgehenden ion. Konjunktive s@7- £oscıw und AaBpoww auf Chios!). Auch das stircus unsres Denkmals statt stercus wird von Conway a. a. O. mit Recht als Oskismus in Anspruch genommen, vgl. osk. amiricatud ‘immercato’, Tirentium ‘Terentiorum’, Vir- riis ‘Verrius’ 3). |

Ich stimme demnach dem bei, was Buchholtz S. 6 sagt: « Hiernach glaube ich nicht nur... Corssens Annahme von lateinischen Imperativen auf tad und tid als unhaltbar er- wiesen zu haben, sondern auch, dass ein Zweifel gegen die Zuverlässigkeit eben dieser Lesarten der Inschrift nicht aufkommen kann: es wäre, meine ich, unmöglich gewesen, dass Betrug oder Zufall und Irrtum eben diese Formen auf ilad und alid zu Stande gebracht hätte.» Auch Da- nielsson und Conway treten für die Richtigkeit der drei Formen ein.

Wenn trotzdem von Planta a. a. O. 2, ‘309 von «sehr unsicherer Lesung» spricht, so muss sich das darauf stü- tzen, dass andre Stellen unserer Inschrift, wie sie bei d’A- melj erscheint, begründeten Anlass zu Mistrauen gegen die

') Bechtel's Samml. n. 174. Dieselbe Inschrift hat zecospaxóvror, nevinxoviwy, &veynxovswov, mit lesbischäolischer Flexion dieser Zahl- wörter.

*) Andre Einflüsse des Oskischen sind in unserm Text nicht zu erweisen. Immerhin fragt es sich aber, ob nicht loucarid ein oski- scher Ausdruck war. -äri- war im osk.-umbr. Gebiet ein beliebtes Suffix (von Planta a. a. O. 2, 47 f.), und Ztca: im Sinne ‘Hain’ ist im Lateinischen sonst nicht belegt. Das Wort muss úbrigens (gleich- wie lucar ‘der Ertrag aus cinem Hain” substantiviertes Neutrum eines Adjektivs loucãri- gewesen sein. Es hat daher ursprünglich nicht ‘der Hain’, sondern etwa ‘das Hainterrain, Haingebiet’ bedeutet und kann diesen Sinn auch in unserer Inschrift haben.

4 K. Brugmann,

Zuverlässigkeit des Kopisten oder des ersten Herausgebers geben. Sehen wir zu, ob dies wirklich der Fall ist.

Ohne Anstoss ist arvorsu hac = arvorsus oder arvor- sum hac. hac als Adverb, wie in posthäc, antehäc, vgl. auch intereã, quäpropter und arvorsum ead CIL. I 196, 24.

Ebenso ferner [ceivjium quis volet. Dies ist ein Be dingungssatz in der Form des Hauptsatzes: «falls von den Bürgern einer will». Vgl. Draeger 1, 338. 2, 219 f. quis wird von Buchholtz S. 7 unrichtig beurteilt.

Für NI hat Mommsen zu lesen vorgeschlagen NL d. i. n(umum) L, was nicht 50000, sondern 50 Sesterzien be- deuten soll (s. die Fussnote bei G. Bruns Font. iur. Rom. ant. [1893] S. 260). Bruns dagegen in seiner eingehenden Besprechung unseres Denkmals in der Zeitschr. für Rechts- gesch. 12, 127 ff. glaubt (S. 143), dass NI beizubehalten und als N. I. d. h. 1000 Sest. zu verstehen sei. In dieser schwierigen Frage wage ich eine Entscheidung meinerseits nicht zu treffen. Jedenfalls aber steht, wenn Mommsen Recht haben sollte, nichts der Annahme im Weg, dass der untere Teil des Zahlzeichens auf dem Stein selbst un- sichtbar geworden war, wie ja auch an andern Stellen Buchstaben unkenntlich geworden waren. Den Vorwurf der Nachlässigkeit gegen Abschreiber oder ersten Heraus- geber der Inschrift zu begründen, ist also auch diese Stelle nicht geeignet.

So bleibt schliesslich noch iniecto, für das Mommsen unter allgemeiner Zustimmung iniectio geschrieben hat. Zu Gunsten dieser Konjektur lässt sich CIL. V1 3823 ma)nus inieclio picnorisq(ue) capi[o siet] anführen. manum be- trachtet Mommsen als Akk. unter Hinweis auf das be- kannte quid tibi hanc curatiost rem? des Plautus, andre sehen es als Genitivus Pluralis an. Aber man sagte im Altlateinischen nicht nur manum inicio alicui, sondern auch manum inicio aliquem, wie Plaut. Truc. 762 zeigt: postid ego te manum iniciam. manum inicio bildete einen

Zum Haingesetz von Luceria CIL. IX 782. 5

Begriff, und zu der als Einheit empfundenen Wendung trat dann ein Objektsakkusativ wie zu den einfachen Verba capere, prehendere: vgl. ludos facere aliquem wie ludi- ficare, iusiurandum adigere aliquem, animum advertere aliquid, infitias ire aliquid u. dgl. (gr. xaxa noveiy tive u. a.). Hiernach kann manum iniecto estod passivischer Ausdruck = manum iniectus esto sein. Die Inschrift ist alt genug, dass weder die Erhaltung des o des Nom. Sg. auf -os auffallen darf, noch auch der Mangel des -s, der in unserem Denkmal nur durch dieses Beispiel belegt wäre, wenn man arvorsu als arvorsum nimmt. Auch ist an dem Nebeneinander von îniecto und stircus, mac[i]steratus kein Anstoss zu nehmen: vgl. Gabinio neben Retus und Ca- lebus CIL. X 8054, 7, Lainio neben praifectos und tre- bibos IX 4204, Cornelio neben aidiles I 31, VI 1286. Für das Fehlen des -s vor vokalischem Anlaut vgl. Ovio vor Ouf. I 51 u. a. (Maurenbrecher Hiatus und Verschleifung im alten Latein 91 f.). Unser manum iniecto estod ist bis jetzt Gras Aeyöuevov (wie ein solches auch Mommsens manum inectio estod wire), aber darin hat es ja Genos- sen an loucarid und arvorsu hac.

Es muss hiernach als unerwiesen bezeichnet werden, dass d' Amelj oder sein Gewährsmann sich bezüglich dieser Haininschrift ins Gewicht fallende Nachlässigkeiten haben zu Schulden kommen lassen.

Leipzig, Juni 1899,

GIACOMO ULRICH.

IL FAVOLELLO DEL GELOSO.

1. Pubblico qui per la prima volta il Favolello del Ge- loso che sta nel codice perugino 160, pp. 120"-124' 1), che pare del quattrocento. Lo riproduco tale quale, sosti- tuendo solamente la minuscola alla maiuscola in mezzo al verso, la maiuscola alla minuscola in principio di verso, non tenendo conto poi della geminazione in principio di parole, come in ttanto 4, ttraca 6, ttenea 16, ttore 17 etc., e regolando la punteggiatura.

2. La Novella del Geloso appartiene al gruppo studiato dal Rua, Novelle del « Mambriano », Torino 1880, pp. 72 e segg. E composta di due parti: 1) Un amante s'introduce in una torre, rinchiudendosi in un forziere, 2) La moglie adultera inganna il telesma, Il carattere proprio del no- stro racconto è chè la moglie dell amante è l'inventrice del primo e del secondo ripiego.

3. La lingua è tosco-veneta o tosco-romagnola, cf. i con- giuntivi miny, turny n.º 16. Il testo non manca di tratti linguistici interessanti e contiene la strana forma verbale sipy e la parola apolto che non trovo registrata nei vocabo- lari e che deve essere un participio del latino appellere.

1) Secondo il catalogo del prof. Bellucci; COMPARETTI, Virgilio nel medio evo, Il?, 130 n. lo chiama C. 43 e ne reca i tre versi 289-291:

Però quel pedron ha vertù tale Che vi lassò il bon Merlin perfetto Qualunque omo o dona fesse male etc.

8 G. Ulrich,

Ecco uno studio sommario delle particolarità linguistiche del Favolello, che del resto è seguito da un altro di simile contenuto nella medesima lingua 1).

SCRITTURA.

4. La sorda ke la sonora g sono rese generalmente an- che dinanzi a a, 0, u per ch, gh: chavalcha, pocho, chu- vertto, ghaiardo, luogho, fighura.

5. h si trova al principio di parola contro l’etimologia: hochy 92, hoditto 171, hogni 112, hone 254, hor 55, hora 370, hopinione 210, horo 178, hucidirö 108, ho 71 (pero 361); hoxelare 102 (ucelare 125).

6. Una singolarità del nostro testo è il raddoppiamento del t: seratta 16, fondatta 17, lasatto 18, latto 20 etc., del r: amorre 49, dolorre 51, farre 12]; del s: apersse 211, cenoesse 9, presse 13.

7. s sordo è reso per s: paso 64, poso 348, fose 274, fese 291, isteso 211.

8. s sonoro (venez.) è reso spesse volte per x: celoxo 1, roxa 12, respoxe 81, raxe 232, quaxy 52; ixdegnio 117. mexura 46.

9. x rende anche c’ e g': hoxelare 102, buxardo 8, axio 120.

10. s rende anche c’, g' z: usy 19, pese 39, chasone 56, bosia 284, lasaso 18, ambasatta 334, lasava 47 (lasia- ray 139).

11. g(i) rende c': fece 5, diceva 29, cascuno 360, Giaschuno 1, in canpo 57, ucelare 125.

cardino 77, volcea 24, cornata 40, saco 371, cu- dighare 110, cire 137, canbra 257 per camera; chaca 238 per chasa sarà uno sbaglio.

1) Chi studiasse il codice intero, ne ritrarrebbe certo grande pro- fitto tanto per la storia letteraria del trecento quanto per quella della lingua.

Il Favolello del Geloso. 9

12. t è notato gli e li: muglie 77, moliere 80, molie 233, volio 283, dolia 165.

13. m è usata non di rado per m all’uscita: chom 2, ebom 97, raxom 96, nom 303, bom 237, apom 346, gram 51.

SUONI.

14. è e 6: priegho 173, priegha 301, aliegra 2, in- traviegna 360, rittiegnio 113, vieste 361; chore 7, voly 131, muora 60. Si noti anche fiece 119.

15. ei > ie: sie 62, lie 96, bie 156.

16. Influsso del i: miny 302, incigny 368; falchuny 114, signury 345, turny 176, curny 111.

17. Vocale protonica, Varia fra e e à: levõe 353, li- vono 98; cetto 96, cittö 48, ciloxia 4, celoxia 14, renchiusa 228, rengratiò 149; senttencia 110, pilicone 361, pinsiery 186; mestiery 157, mistiery 164; ce 154, se 472.

esitazione fra o eu: monachella 275 (munacha 274), munttare 296; chusi 359.

18. Vocale finale: fede 66, fe 185; maritto 308, mary 301; doman 105, chomo 81, chomuno 298; perdone 306, perdon 283, perdom 335, perdono 295.

19. Trattamento del #: ghiaiardo 7, muiere 59, chon- siatto 362, ciolie 27, 98, cf. n.° 9.

20. Trattamento della tenue intervocale: chupertto 166, chuvertto 181; roda 21, maridatta 32.

FORME.

21. sostantivo: le chiave 20, 79, mura 264; ambe mano 309, 36.

22. pronome: nuy 282, vuy 177; mie 311, tie 312; ely 217, la 95, 115, 200; ie 79, 279, ye 320,1 342, li 347, 307, lie 183, chuy 147, chulie 315, one 187, cf. n.° 29.

23. verbo. a) forme personali: baxatty 327, fuggity 327, volitiy 323, prenditty 321, ditty 87, avitty 55, dolitty

10 G. Ulrich,

56, chreditty 369; ciritty 325, attrovaritty 112, recharitty 326, schanpary 328; servay 168 (cong.).

b) misy 157 = mise.

c) forme coni: aco 171, veco 166, aveco 263, vi-

raco 312.

d) forme piene: face 372, ave 160, fece 211 (ac- canto a fe 123, ste 276, de 242); trapassone 214.

e) condizionale: daria 207.

f) forme isolate: posea 158, posutto 272; dighi 67 (debeas, ma 133 dicas) sipy 138 = sii!

SINTASSI.

24. articolo ommesso: soa favela 277. 25. verbo. a. terza del singolare in funzione di plurale: fra nuy più parole no ce sia 282, e soy frattely el ma-

ritto pilide 355.

b. ebe a venire 246, l’ebe ascholtare 53. 26. pronome. a. a my me 362; al suo amore - li 49, 50. b. avere nom puo’ migliore medicho che yo 72.

GLOSSARIO.

27. aghuroxo 3 fortunato.

amanttinentte 248, 220, subito.

ancho 61 anche, ancora.

anchora 28 anche.

apicharse 296 attaccarsi.

apolto 41 approdato.

asedio 313 cattivo hu- more.

chaxone 184 possibilità

chortello 107 coltello.

ciera 10 = cara.

dexire 139 desio, desi- derio.

disernere 209 scernere, comprendere.

fanttinna 25 domestica.

fiatta, a la 278 questa volta.

inedio 317 triste, di cat- tivo umore.

inprendere 70 sapere.

nancy 212-223, dinanzi.

perdon 283 era primiti- vamente petrone; ma l’autore e il copista pare che non ab- bian conosciuto l’antico si- gnificato, prendendolo per perdono.

picholelo 372 piccolo.

pocho 18 piccolo.

prexente, de 128 subito.

I Favolello del Geloso. 11

qualonqua 291 qualun- smasela 309 guancia. que. sortte 301 pietà.

rado, di - 191 subito? di sperdere 213 sbigottirsi. ratto, (rimando con tornatto)? topinello 273 misero. d’irado? traca 6, storia, inven-

redire 256 ritornare. zione.

remare 371 rimare. tramaco 322 pena, af-

raina 27 reina. fanno.

rotta 24 ) apertura, unsire 263 uscire.

rotto 18 buco. |

12

G. Ulrich,

I.

Per chortexia ciaschuno celoxo Hodire me viegnia chom aliegra faca Yo ve dirò d’uno male aghuroxo De quela ciloxia, che tanto alaça. 5 Una sua dona lo fece pensoxo; Hora odery', signury, bela traça: Si chome dona, che avea lo chore ghaiardo, De verità el fe rimanere buxardo.

II.

Eli era uno merchadante cenoesse, 10 Che avea una soa dona a ciera spoxa. E s'el e vero, la istoria si è palesse: Era più bela che de maço roxa. Et quela ciloxia si forte el presse, Ch'el no trovava luogho ne posa. 15 Per quela celoxia che avea nel suo chore, Seratta la tenea in una torre.

HI.

E quela tore era fondatta in mare E dinançi uno pocho rotto avea lasatto, E duy fortti usy li avea fatto fare; 20 Senpre le chiave si tenea a latto. Nel muro avea una roda da girare, Si come a munistiero è hocy uxatto E tutto cio che la dona volea Per questa rotta si se ly volcea.

IV.

25 Se no che sola stava la fanttina, Hogni alttra cosa avea che li diletta; giolie avea più che una raina

Il Favolello del Geloso. 13

E de vistimentta era anchora lietta, Unde piangendo diceva: « Tapina! » 30 Fortte biastema la madre soletta, Diçendo: «Lasa, che al fuogho m'ay menatta, Poy che a tale modo tu m'ay maridatta. »

_V.

Per melanchonia a una finestrela

Da la de drietto ch’era sopra el mare, 35 Bene che temese, si si fe la bela;

Ebe vedutto li nochie[r]y pasare.

Preso a la tore era una navicela

Che uno chavaliero facea andare

Per prendere pese chom la soa brighatta, 40 Che festa volea fare l’alttra cornata.

VI

E quando vide cio soa nave apoltta E reguardò a soa chiara fighura, Et (d) ela fucì chomo persona stoltta, Perche del suo maritto avea paura. 45 Ma el fino Amore che co guarda e ascholtta, Aspra mente lo fery holttra mexura, Si che lasava del peschare diletto; Tornò a chasa e cittö sy su ell] letto.

VII.

Per ch'elo vede che al suo amorre 50 Per alchun(o) tempo no li po parlare, E si facea piantto e gram dolorre E quaxy nom si può rechonsolare;

E la soa dona chon grande tremore

Andò a lui, quando l’ebe ascholttare,

eeITI_— _ ———À——___—————_—_—__————— et Ce ee es

34. el mare] la via. 35. si] li. 48. su ell] letto] sveletto.

14 G. Ulrich,

55 Diçendo: « Signior mio, hor che avitty? Quale chasone è quela che ve dolitty? »

VII.

Ed elo rispose chomo homo ch'è incanpo: « De diversy dolury al mio chore sentto. Dolce muiere, per mi non è schanpo

60 Che io non muora subittamentte; E si te dicho, dolce (dolce) dona, ancho, Per che sie statta liale e serventte: De lo mio avere dona si te laso, Che de dolore de questa vitta paso. »

IX.

65 Ed ela dise: « Marito, yo te schonçuro Per quela fede che m'ay inpromessa, Che tu mi dighy dire el vero e ’1 puro Donde la mentte toa è si somessa; E chome sey statto, si si’ mo sechuro 70 Che questa chosa no may sarà inpressa. Hora me dy el vero, ho signior mio, Che aver(e) nom può migliore medicho che yo. »

X.

«Da po che me schonçury amor(e) mio fino, La verittà nom ti debo yo celarre. 75 Sapy ch'el è u[n] nostro cittadino, Uno merchadante ch'è de grande afare, Che per muglie à la rosa del cardino, La bela dona che me fa penare. » Poy ie chonttava tutta la matteria 80 Chomo l’è guardatta e che muliere l’iera.

m nn ———— + ————+€

69. si'mo] som. 70. sarà] fara.

Il Favolello del Geloso.

XI.

Ela respoxe chomo vera amicha:

Hor te chonfortta, signior mio piaçentte,

E questa chosa fa che nom se dicha,

Si che (1) no se n'aveça homo viventte, 85 Che de guardarla yo li fo la ficha

De questa dona ch'è chusy piagenntte,

La quale me ditty ch’é si bela druda:

In vostre brace ve la darò nuda. »

XII.

Quando el chavaliero la muglie inttexe, 90 Levòse in piedy facendo gram festa

E in le brace tosto che la prexe,

Basando i bie hochy ch’avea in testa

E per tal modo d’amor la chomprexe

Che la muglie abracò senca far resta. 95 Per che la fose presta e più chalda

Cetidla su[1] letto è chon lie fe raxom salda.

XIII.

Da poy che loro diletto ebom fornitto, Si se livóno chom colia e chon chantty, E ’l chavaliero tosto fo vestitto

100 E fe adobare soy serçentty e fantty; Munttò a chavalo el chavaliero arditto, Ad hoxelare andò chom tutty quantty, Dicendo a la muliere: « Hor te ne spaca De hordenare si che questa chosa se faca,

XIV.

105 Si che doman tornando dal chastelo Sia hordinatto chom toa sapiencia. Se no, ch'io me darò de questo chortello

G. Ulrich,

E se me hugidirò in toa presencia. » Ela rispoxe: « Dolce amor mio belo, 110 Lasame cudighare questa sinttencia. Andatty e a sette curny tornaritty E hogni chosa fatta attrovaritty. »

XV.

Ed elo chavalcha senca far ritfiegnio

Chon bie falchuny hoxelando a riviera, 115 Et ela dona asottiglia el so incegnio,

Fortte pensando sopra la manniera;

E tantto ela pensò sença ixdegnio

Che al termine hordenò quela matt[ijera:

Uno tale forciery ela fiece hordenare 120 Che uno chavaliero ad axio po starre.

XVI.

E de fortte ligniame el fece farre

Groso e chomeso chon gram maistria;

Depintto el chavaliero fe adornare

Ch'el pare bene ch'el viegnia di Soria. 125 Venutto el suo signiore da ucelare

E fo tornatto chom gran vighoria

E la muliere per mano lo pigliava

E de prexentte el forciero li mostrava,

XVII.

Diçendo: « Signiore mio, yo abandono 130 Hone alttra chosa per lo tuo dexire. Se de la dona voly avere el dono, Alchuna pena ti chonvene sofrire, Go è che dighy che a Roma al perdono Hora sença induxia tu voy cire, 135 E fa che ’] sapia li amicy e parentty cittadini e tutta l’alttra centte.

Il Favolello del Geloso. 17

XVIII.

E poi chom loro in chamino inttraray Si ch’el parà che tu li sipy (sic) sttatto, E pure loro cire avantty lasiariay

140 E ty tornaray in drietto di celatto; Io farò si che la dona averay Per mio inçegnio che m'aço pensatto. » E sy come la dise, el fe a sapere E moltta centte lo trasse a vederre.

XIX.

145 A proferilj la soa chompagnia Vene asay centte e fo ly el merchadante Che avea la dona per chuy elo languia. Elo si proferse asay davantty; Et (d) elo el rengratiô e po se mise in via 150 E bene celatto tornò inmanttinentte, In luogho la chonpagnia l’attexe, E co fo termine da ly a più d'uno mexe.

XX.

La dona trovò tosto lo forciery E ly ce mise chosa da cacere;

155 Poi li asettò denttro el chavaliery Chupertto de bie pani e moltto avere E si li misy de co che à mestiery Si che puntto no se posea vedere; E quando l’ebe chusy hordenatto,

160 Per quelo merchadantte ave mandatto.

XXI,

El merchadantte senca tardamentto Vene a la dona moltto volenttiery

152. E] A. 154. cacere] racere.

18 G. Ulrich,

E trovòla che facea gram lamentto, E l’adomandô del suo mistiery. 165 Et ela respoxe: «l’ò dolia e tormentto, Poy ch’io nom vego el mio chavaliery. Ma la chaxone per che per vui ho mandatto: Volio che mel servay fino ch’é tornatto,

XXII.

E ch’el m’à lasatto tutto el so aredo

170 E in questo forçiero el è seratto. Ma in verittà che aco hoditto e chredo Che tu sia liale homo e se sie statto, Honde per my te sia fatto priegho Che tu mel guardy fino ch'è tornatto

175 In alchuno sechretto luogho in chasa toa, Tanto ch'el mio maritto turny a la soa.

XXIII.

E perche vuy ne siatte ben certto Ch'el m’& lasatto moltto horo e avere, » Prexe le chiave e ’l forciero de apertto 180 Da la disopra si li fe vederre;

De sotto avea el chavaliero chuvertto

E una spada in mano avea a tenere, Che se lie bixogniase hora al presentte, Chaxone avese d’esere pro e valentte.

XXIV.

185 El merchadantte de bona fe vera Dise a la dona: « Non avere pinsiery; Serà salvatto per one mainiera E in guardia lo darò a mia muliery. » El chavaliero denttro seratto era 190 In verittà in questo bel forçiery.

169. aredo] asedo.

Il Favolello del Geloso. 19

E la dona dise: «Dittily di rado Ch’ela lo guardy bene fino ch'el è tornado. »

XXV.

El merchadantte no tardò nientte; Nella sua canbra el forçiero fe porttare, 195 E la soa dona lo preghò dolcementte Si ch’ela el fece a chavallo munttare. Chon certty inchontra andò inchonttinentty E chon parole si 1 sa loxengharre Ch'el merchadantte per quelo paexe 200 La el tene per quelo modo bene un mexe,

XXVI.

Quando la dona denttro ebe el forciery, Bene li parea una chosa novela. Guardando vide depintto el chavaliery E nel suo chore dice e si favela:

205 «Questo me pare quelo che vidi l’alttriery Peschando andare in la navicela. Ma s'el ce fose, io li daria diletto Per fare al mio maritto hontta e dispetto. »

XXVII.

El chavaliero che sua voce dise[r}xe 210 E si inttese la soa hopinione, Ed elo isteso el forçiero (ae) apersse, Nançi a la dona salttò in cinocchiuny. La dona, quando el vide, tutta sperse E de paura quaxy trapassòne, 215 Ma pure chonobe la sua chiara faca E ' chavaliero de subitto abraça.

218. ely] corr. ela?

20 G. Ulrich,

XXVIII.

Ed ely a sentire el suo difetto

E tutto el modo che era venutto,

Unde ch’elo [1°] abracò chon gram diletto 220 E fo nell] letto da lie riçevutto.

Et elo munttò sopra el biancho petto

Prendendo el suo volere tutto chonpiutto ;

Ma nancy ch'el fose chiaro el mattino,

Bene sette roxe cholse del cardino.

XXIX.

225 E nom fo may Ixotta ne Tristano

Che li avancase per prendere solaco.

Uno mese stette intiero e sano

Chom la dona renchiusa nel palaco,

E ’l chavaliero depinse uno di chon mano 230 Uno homo nel muro a fighura d’uno paco.

Chusy la dipinttura si ve romoxe

Che al suo partire nom la guastò ne raxe.

XXX.

Quando a la molie del chavaliero par tempo Che ’1 suo signiore dovese tornare,

235 Munttò a chavalo senca demoramentto Et in Genoa tornò senca restare, E ‘1 merchadante asay de bom talentto Fece insino a chaxa achompagniare. Poy la dona li diede duy schudiery

240 E rimandava per lo suo forciery.

XXXI.

El chavaliero che no dimora tantto, El termine che da lie se parttire Inchominçiô a fare dolioso piantto

Il Favolello del Geloso. 21

Dicendo : « El me chonviene pur cire. » 245 Et ela si piancea da l’alttro chanto. In quelo puntto el celoxo ebe a venire. . E quando el chavaliere yn chaxa el sentte, Seròse in el forciero amanttinentte.

XXXII.

E lo celoxo in canbra fo venutto,

250 E drietto a[l] letto la mulie gua(r)ittava Quelo forçiero ch'elo ebe rendutto Et eli schudierry a chasa (e) riportava. Po unsy fuora el chavaliero arghutto E amanttinentte ch'elo se n'andava,

255 E rettrovöse chom la chonpagnia; Chon eso loro in Genoa redia.

XXXIII,

E lo celoxo in canbra remanea; Inmanttinente li vene guardatto

In la fighura ch’elo dipintto avea,

260 Quelo centtilomo che se n’era andatto.

Fra lo suo chore parlava e dicea:

« Chom la mia dona alttro homo è statto, Ch'io me n’aveco a questa fighura

Che de novo è sta fatto in questa mura. »

XXXIV.

265 A la sua dona si gridava forte: « Falsa madona, tu m'hay inghanatto. Ma te farò murire de mala mortte E si ti punirò del tuo pechatto. Kr I + 270 Per quelo dio che fo chrucifichatto.

——

268. sembrano mancare alcuni versi, che contengono la fine del discorso del marito e il principio della risposta della moglie.

22 G. Ulrich,

Pure da mancare non 6 avutto; Ma sio volese, chomo avea posutto...

XXXV.

Nom mi tien tu renchiusa, oh tapinela, Si chomo fose munacha seratta

275 In torre chonstretta chomo monachela ? Nom ste may dona incharceratta. » E lo celoxo che ode soa favella Chredea che ’1 vero dicesse a la fiatta, Ma el chore ie manifesta in quelo latto

280 Che in su quelo puntto li avea falatto.

XXXVI.

Dise lo celoso: « Alora, amore mio fino, Tra nuy più parole no ce sia. Menare te volio al perdon de Merlino La dove si manifesta hone bosia. »

285 Quando ela inttese si fatto chamino, Che "1 suo maritto menare la volea, Ela dicea: Dio, mercà te chierro, Che tu schanpy da tale vittupierro. »

XXXVII.

Perhoche quelo perdom à verttù tale 290 Che li lasò el bon Merlino perfetto :

Qualonqua dona ho homo fese male

Overo che ie fose posto a diletto,

A farly fare sagramentto liale,

E se ’1 buono homo del male era netto, 295 La mano del perdono si se livava,

Ma, s'elo avea falatto, se apichava,

276. si] li. 292. overo] overe.

Il Favolello del Geloso. 23

XXXVIII.

Infine ch’el fose menato a la chortte Hovero ch'el fose in forca de[l] chomuno. E la dona che ’1 sa, se a la mortte, 300 Perche rimedio nom si vede alchuno, Se nom ch'ela priegha el mary' che abia sortte E no la miny, perche falo niunno Nom avea fatto seghondo el suo detto, Ma per co non li valeva dal maledetto.

XXXIX.

305 Quando el chavaliero inttese la novela, Chome al perdone si menava quela dona, Nom che falo fose trovatto in ela, Perche 1 maritto li mala fama,

Ad ambe mano se per la smasela,

310 Diçendo: « Laso, la mia vitta è grama. Dolce madona, se tu mory per mie, Tosto viraco yo driette a tie. »

XL.

Ed elo avea dolore e grande asedio Che nom parlava per chosa alchuna. 315 Quando lo sa chulie che à one remedio, Presto per riparare a la forttuna, Disely : «Signiore mio, perchè si ’nedio? Fatty bisogniò ch'io faça chosa alchuna? Dime la verittá, no me lo celarre! » 320 E(t)d elo ye dise tutto quelo afarre. *

300. si] li. vede] veda. dal] al. * Tra XL e XLI mancano otto versi.

24

G. Ulrich,

XLI.

Tuttora dicendo: « Chomfortto prenditty

E non ve datty più questo tramaco,

Che se la dona schanpare vuy volitty,

Vestire ve chomviene a modo de uno paco. 325 Quando serà al perdone, vuy ciritty

E si ve la recharitty stretta in braço

E baxattyla e po fuggitty via

E schanpary' la dona de (tale) vilania. »

XLII.

El chavaliero disse: « Yo faröe

330 Cio che comandy per che sia chanpatta. » E manttinentte ch’ela se n’andöe A quela dona et à la amaistratta. Celadamente indrietto sen tornde Et al maritto dise l’ambasatta.

335 Chomo venutto fo l’alttro mattino, Menatta fo al perdom de Merlino.

XLIII.

Ivy era ly amixy e parentty

Chon moltta centte che a vedere sttava,

E inttantto cunse el paco aspramente, 340 A testa basa fra la centte inttrava,

Cunse a la dona e nom tardò niente

E chom la bocha el vixo i baxava,

E moltty pugni asai li fo[ron] datto,

Ma pure fuçendo a chasa s'è tornatto.

XLIV.

345 Dise la dona: «Signiury, mio maritto Me apom gran tortto e gran falsittade, Dicendo che d'amore li 6 falitto,

E curare poso in bona lielttade

Il Favolello del Geloso.

Che prima ne po che m'è anelo in ditto 350 Yo poso fare sagramentto liale:

Alttro homo che elo ciamay no me tochöe

Fuora che 'l paco che hora me baxöe. »

XLV.

Chome poxe la mano, si la levöe,

Perho che ’1 proprio vero avea curatto, 355 E soy frattely el maritto piliöe

E chom bastuny tuto l’àno fiachatto,

E lor sorella a chaca rettornòe.

Ed elo del fatto tutto n’& turbatto.

E chuxi piaca a dio glorioxo 360 Che intraviegna (chusi) a cascuno celoxo.

XLVI.

Perho chy vieste chottale pilicone,

A my me pare che sia male chonsiatto,

Che asempio nui n'avemo da Salomone

E d'Aristottile e Merlino aprixiatto. 365 Chi ne mury' e chy ne ste in prexone

E quale innarro ne fo impichatto,

Che ca lor seno nom li fece digny

De ben guardarse da lor falsy incigny.

XLVII.

Perhò, Signiury, chreditty al mio chanttare, 370 Che hora in Fiorenca è fatto de novelo Da uno saco che studia in remare, Che preghare face el grande e ’1 picholelo, Che le loro done debiano bene guardare, Se fortte voleno tenire loro chastelo. 375 In alttra guixa n’arà dixonore; Questo chanttare è ditto al vostro honore.

366. innarro] innarra.

PAUL MARCHOT.

DEUX ETYMOLOGIES.

1. Niente et similaires.

Niente est un mot fameux qui a fait couler beaucoup d'encre. Quelle est sa vraie étymologie? Récemment encore on en proposait l'explication par ne-gente ') eten tout der- nier lieu par ni-fimite, étymologie qui n’est pas dépour- vue d'une certaine gaité: «rien », ce ne serait autre chose que «pas une crotte», si l’on veut bien me passer l’ex- pression À).

Est-il quelqu'un parmi les lecteurs de ces pages, qui n'ait vu un Français, voulant rendre avec beaucoup d'énergie l'idée de «rien du tout», «absolument rien», faire cla- quer l’ongle de son pouce contre ses dents supérieures en articulant avec netteté les mots: «pas ca»?

Bien des fois, quant à moi, en assistant à cette mimique, je me suis dit que les Latins nos péres devaient déjà en pratiquer une semblable: nil novi sub sole. Seulement les paroles dont ils l’accompagnaient devaient contenir une

1) Körting, Formenbau des französischen Verbums, p. 276. Ne- gente ne va pas pour le sens, ni pour la lettre: on retrouverait des formes ayant gardé le g intervocal (par ex. en provençal et en italien).

*) Ulrich, Zeitschrift für romanische Philologie, XXIII, p. 537. Mais *fimite n'existe pas en latin. Puis, pourquoi ne trouverait-on pas à côte des représentants de ni-femus ct de ni-femita?

28 P. Marchot,

légère variante: ils ne disaient pas «pas ca», ils disaient «pas de ca»: ni-inde. C'est l’étymologie proposée depuis dix ans déjà par M. Ascoli 1).

A une catégorie très nombreuse de verbes, la négation « pas de ca» s'adaptait admirablement: par exemple, pour n’en citer que quelques-uns, aux verbes: ne reculer ou ne se reculer, n'ou ne s'avancer, ne (s’) éloigner, ne (s’) écarter, ne (se) séparer, ne (se) remuer, ne se retourner, ne (se) bouger, ne broncher, ne progresser, ne (se) bais- ser, ne (se) hausser, ne monter, ne descendre, ne tomber, ne différer, ne varier, ne s'en falloir ou manquer, ne (se) déranger, ne (se) déplacer, ne céder, ne diminuer, n'augmenter, n'exagérer, ne mentir, n'importer, ne (se) tromper, ne désobéir, ne se souvenir (pas de ça), etc., etc. A des questions posées par ces verbes, la réponse « pas de ca», c’est-à-dire «en rien», « pas du tout», convenait ad- mirablement: Est-ce qu'il se trompe? Ni-inde. Il remue? Ni-inde. Importe-t-il? Ni-inde. Etc. Le « pas ca» des Fran- gais, en somme, ne se met qu'avec des verbes transitifs, le «pas de ca» des Latins ne pouvait se mettre qu'avec des verbes, transitifs ou autres, susceptibles de prendre un com- plément circonstanciel de temps, de lieu ou de quantité avec la préposition de. Par la suite, l’emploi de «pas de ca» a s'étendre et il s'est accolé à tous les verbes sans distinction. C'est même ce point de départ qui explique três bien les deux sens qu'a le roman nienle: «rien» et «pas du tout»: il ne m'a donné nient veut dire: il ne m'a rien donné, mais il n'a nient menti signifie: il n'a nullement menti. De sorte que certaines expressions comme il n'a nient voulu sont à double entente et signifient même selon les dia- lectes ou les textes: il. n°a pas voulu ou il n’a rien voulu.

Mais pourquoi niente de ni-inde et pas un seul exem- ple du phonétique *niende? Voilà la difficulté,

1) Archivio glottologico italiano, XI, p. 417, et XII, p. 24.

Deux etymologies. 29

En latin et en roman, les mots qui veulent dire «rien » perdent volontiers leur élément vocalique final. Sans doute parce que ces mots se trouvent souvent placés en proclise. En tout cas, c'est un fait: le lat. nihil (et d'une facon plus écourtée encore nil) est mis pour ni-hilu, le roumain nt- mic pour ni-mica, le rhétique negott pour ne-gotta (Ar- chivio, XI, p. 438). Le lat. vulg. ni-inde aura fait comme son prédécesseur classique et aura perdu son élément final: ni-ind; puis la sonore finale d devenant la sourde corre- spondante ¢, surtout à la fin des phrases, on aura eu ni-int.

C'est de ce *ni-int que je dérive les formes romanes. On peut n’en admettre l’apparition qu’à une époque en Italie amant avait déjà perdu son ¢ final: sans quoi, *ni-int ne serait pas devenu niente 1).

2. A. fr. later et similaires.

Une expression qui devait étre employée 4 tout bout de champ en lat. vulg., c'est laxa stare, auquel répond, pour ne citer que deux langues romanes, en a. fr. lai (ou laisse) ester (fr. mod. laisse donc), en ital. lascia stare. Lacsa-stare pouvait três bien donner un *laca-stare, en vertu d'une sorte de dissimilation comme celle de faible, a. fr. pendre, lat. vulg. *cinque, ital. dietro, etc. D'autre part, *laca-stare pouvait prendre une forme écourtée *lac-star (*lac-estar avecla prosthèse), en tant qu'impéra- tifinterjection, comp. lat. vulg. va <vade (d’où vao, etc.), it. guar’ < guarda, a. fr. gar gart leis < gare garde laisse (Meyer-Lübke, Gram. romane, I, 8 634 fin).

1) On peut aussi tres bien admettre qu'un *ni-int a forcément être influencé par les adverbes en -ente, surtout par ceux en -mente, à cause d'un de ses sens: aucunement, nullement. Meme le provençal nient nien niens nienz nientz, qui offre le traitement de -mente, le prouve, à tout le moins pour une langue. Je pars donc soit d’un *ni-int tardif, soit d'un *ni-ente refait d'après -(m)ente (Ascoli).

30 P. Marchot, Deux etymologies.

C'est de ces hypothétigues *laca et *lac que je fais ve- nir Ja. fr. later (impér. lai = *lac), l’it. du Nord lagar (impér. laga = *laca!) et le verbe du rhétique occidental. Dans sa grammaire romane, M. Meyer-Lübke a déjà rétabli par la comparaison des formes néo-latines un lat. vulg. *lacat *lacare, Sur l'origine de ces formes il s'exprime ainsi: «on peut admettre une assimilation à facere, qui pourrait s'expliquer par une identité de sens (facere = lais- ser, occasionner) et par des similitudes dans les formes, mais dont le principal point d’appui serait la position pro- clitique du verbe. L’impératif lara pouvait très facilement donner lai au lieu de laisse; dans le Nord de l'Italie, la- gare n’aurait pris forme que sur lagando = fagando (cf. l’inf. fagare) ?)».

1) Lagame star dans le «contrasto » génois de Raimbaut de Va-

queiras, vers 84. 3) II, 8 235.

MAURICE BLOOMFIELD prof. Johns Hopkins University Baltimore.

On the Sanskrit original of the Pranou Oupnekhat (Pra nava Upanisad) in the Persian translation of the Upanisads.

In the year 1656 the Mogul Prince Mohammed Dara Shukoh invited several Pandits from Benares to Delhi, and induced them to make a translation of the Upanisads into Persian. Dara Shukoh was the eldest son of that Shah Jehän who was deposed from the throne by another son of his, the bloody and powerful Emperor Aurengzeb. Dara Shukoh was a spiritual follower of the famous liberal, Emperor Akbar: he wrote a book intended to reconcile the religious doctrines of the Hindus and Mohammedans. Three years after the accomplishment of the Upanisad translation he was put to death (1659) by his brother Aurengzeb on the ground that he was an infidel, dangerous to the establ- ished religion of the Empire; in reality, because he was the legitimate successor to the throne of Shah Jehan !). In- dia, in more than one respect the land of origins, is also the country from which came the first suggestions of a comparative study of religions: Akbar, Dara Shukoh, and Rammohun Roy, who wrote a book ‘Against the Idolatry of all Religions’, who could express his belief in the div-

1) Elphinstone, History of India (ed. Cowell), p. 610; Max Müller, SBE, vol. i, p. LVii.

32 M. Bloomfeld,

ine authority of Christ, and who recognized the Upani- sads as the true source of the higher religious life of the Aryan Hindus; they are the advance-guard of the modern students of the Science of Religions’). ‘’

Anquetil Duperron, the famous pioneer of Avestan stud- ies, during his stay in India, in 1775, became interested in the Persian Oupnekhat, and later on made a Latin trans- lation of Dard Shukoh’s version which was published in Strassburg in two volumes (vol. i, 1801; vol. ii, 1802). This translation proved eventful in at least two ways. First, it furnished the rather murky medium through which Scho- penhauer became acquainted with the thought of the Upani- sads; as is well known, he was so profoundly influenced by its pessimistic pantheism that his fundamental thoughts were deduced from conceptions that coincided with the more detached philosophemata of the Upanisads: his estimate of the Oupnekhat is embalmed in his statement that “it has been the solace of my life, it will be the solace of my death’ *). Secondly, in the philological and historical study of the Upanisads by European scholars the Oupnekhat have always furnished the central tract. Here was an authorit- ative collection of these texts, of considerable antiquity, veiled to be sure by the atrocious Persa-Latin dress in which they presented themselves to Western scholars, yet not at all to be ignored. Above all the identification of the Oup- nekhat with the original Sanskrit Upanisads soon imposed itself as an imperative task, The latter kept on pouring into Europe through many channels, in manuscripts and printed editions of single Upanisads and collections of Upa- nisads, and one of the first questions was whether they were present in the Oupnekhat. Weber with his untiring

!) Max Müller, ibid. p. LXii ff.

?) Some of Schopenhauer's statements on the Upanisads have been collected by Max Müller, ibid. p. Lix ff; cf. Deussen’s Preface to his Sechzig Upanishad’s.

On the Sanskrit original of the Pranou Oupnekhat ecc. 33

energy first tapped the Oupnekhat for Indologists in his analyses and comparisons of Anquetil’s translation, carried on with interruptions for fifteen years (1850-65) in vo- lumes of the Indische Studien’). The identification of the Upanisads with the 50 Oupnekhat was in most cases su- perficially evident; in some cases it required great ingen- uity; in yet other cases it was not accomplished without blunders, to he corrected later with the impulse of renewed starts. Finally, the most recent great collective work on the Upanisads, Deussen's translation, ‘Sechzig Upanishad's des Veda’ (1897), includes all of the fifty Oupnekhat. There is still some doubt as to some of the names of the latter, and five of them, ‘Baschkl, Tchhakli, Ark’hi, Pranou, and Schavank’, were yet unknown to Deussen in their Sanskrit originals, so that his German translation of them is based solely on Anquetil's Persa-Latin.

In my article, ‘The position of the Gopatha-Brahmana in Vedic Literature’ (JAOS. xix, pp. 9, 10). I pointed out that the first chapter of GB. begins with three distinct and independent themes, all of which were probably composed by different writers: the two cosmogonies (i. 1. 1-15, and 1. 1. 16-30), and the gayatri-theology i. 1. 31-38). Of these the second cosmogony, 1. 1. 16-30, is identical with the Pranou, the 48" text of the Oupnekhat. Weber, after err- oneously identifying the Pranou with the Präna and Prä- nägnihotra Upanisads (Ind. Stud. i. 249, 286), soon reco- gnized its proper Sanskrit title to be Pranava (ibid. 11. 394, 396; iii. 326), and presented an account of it condensed from Anquetil’s version. Manuscripts of an independent Pra- nava Upanisad are reported in the catalogues ?), but have not up to date come into the hands of students of the Upa-

1) i. 247 H., 380 ff.; ii. ws 170 8; ix. 1 ff.

*) Taylor, Catalogue of Oriental MSS. in Fort St. George, ti. 472; Burnell, Skt. MSS, in the palace at Tanjore, 33°; Catalogue of the Oriental MS. library in Madras, p. 52; Stein, Catalogue of Skt. MSS. at Jammu, p. 31.

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94 M. Bloomfield,

nisads. Thus Deussen felt compelled to make his German translation from the Persa-Latin Pranou, when, as a mat- ter of fact, the Sanskrit original had unconsciously been in the hands of Indologists for more than 25 years (the GB. was published in ihe Bibliotheca Indica in 1872). A com- parison of GB. 1. 1. 16-30 with Deussen's translation shows that the differences between the two versions are unimport- ant: they are due to the blend of text and commentary which is one of the features of the Persian version, and in some instances, of course, to the peculiar tertiary char- acter of Deussen's final result. In its form as an independ- ent Upanisad the Pranava is divided into three Brähma- nas, embracing respectively sections 16-82; section 23; and sections 24-30 of GB. They begin respectively in GB. and Deussen’s translation as follows: brahma ha vai brahma- nam puskare sasrge, ‘Das Brdhman erschuf in einer Lo- tosblume den Brahmdn’; vasordhäranam dindranaga- rare tad asurdh paryavdrayanta te deva bhitã dsan ka imän asurdn apahanisyaliti, Als Sudhä(!), die Stadt des Indra, von allen Seiten durch die Asuras bestiirmt wurde, da fürchteten sich die Götter und sprachen: « Wer wird diese Asuras überwinden?» omkáram prchämah ko dhätuh kim pratipddikam kim namakhydatara kim lingari kim vacanam, ‘(Den Prajäpati) befragten sie in betroff des Om-Lautes: « Welches ist seine Wurzel? Welches seine Aussprache? Womit geht er den Sandhi ein? Soll man ihn als männlich, weiblich, oder sächlich behandeln? Ist er Sin- gular, Dual oder Plural? » |

In a general way the Pranava belongs to the class of Upanisads which are defined by Weber and Deussen as yoga, i. e, Upanisads which propose concentration upon the four moras of the sound om, especially its last mora (nada), as the surest means of apprehending the áiman or all-soul. Nowhere is the natural history of the om described with such pains-taking detail as in the Pranava, yet it can not be said that it is a real Upanisad. For, to use the Hindu

On the Sanskrit original of the Pranou Oupnekhat ecc. 35

scholastic terminology, the Pranava does not after all be- long to the jRänamärga, ‘the way of knowledge’, but to the karmamärga, ‘the way of works’; the om in this text bears no relation to the atman at all, but to the four Ve- das, especially the AV. In fact the real theme of the Pra- nava is to establish the om as the true vyährti of the AV., in distinction from bhüh, bhuvah, and svah, the vyährlis of the (ray. Hence, as it distinctly says of itself, it is a Brähmana, and nothing else. That its peculiar abstruse theme should have worked for it a way into the indefinite domain of the Atharvan-Upanisads is nothing to wonder at, since the Gäruda Upanisad, a mere snake-charm, has also found its way among them. As regards the date of the Pra- nava the following may be significant. The third Brähmana (GB. 1. 1. 24 ff.) deals among other things with the gramm- atical peculiarities of the om. In section 26 the text de- fines the term avyaya, ‘indeclinable’, by the karika, Ma- häbhäsya 1, p. 96 (Kielhorn's edition); “What is alike in the three genders, in all cases and in all numbers, that is in- declinable (avyayam)’.

The Pranava is followed in the GB. (1. 1. 31-38) by another text, whose theme is the exaltation of the gâyatri- verse; this also describes itself at the end in as many words as an Upanisad; çriyam acnule ya... evam etário vedanai mälaram sdvitrisampadam upanisadam upa- sta!) ti brähmanam. This text has been translated by Rajendralala Mitra in the introduction to the GB., p. 19 ff. lt may be accounted an Upanisad with as good reason as the Pranava; it is an independent composition, und may yet be found in some collection of the Upanisads. In fact it vaguely suggests, though it is not at all like it, the Sha- | vank (Çãunaka), the 49% of the Oupnekhat collection. The latter, closely allied to the Pranava, deals also with the

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1) For this phraseology cf. Oldenberg, ZDMG. L. 459 ff.; Deussen, Allgemeine Geschichte der Philosophie, I. 2, p. 11 ff.

36 M. Bloomfeld, On the Sanskrit original ecc.

om, and also belongs to the karmamärga, rather than the jnänamärga. After discovering the home of the Pranava it seemed as though the Shavank ought also to be found in the GB., but it is not there. Nor does it form part of any other Vedic collection: the test, a pretty safe one, was made by the aid of the mantra on page 871 of Deussen's work (calväri çrngä). According to my manuscript Con- cordance of the Vedic mantras this stanza occurs, or is quoted, in the AVP., and in addition, RV. 4. 58. 3; VS. 17. 91; MS. 1.6.2; GB. 1.2. 16; 2. 26; TA. 10, 10. 2 = Mahänäräyana Upanisad 10. 1; Ape. 5. 17. 8; Väit. 29. 19; Nirukta 13. 7. None of these occurrences reveal the Shavank, and, involuntarily, there comes to mind the possi- ble existence of another AV. Brahmana, belonging perhaps to the Päippaläda school, of which the Shavank might have formed a part.

RUDOLF THURNEYSEN.

ALTIRISCHE ADVERBIEN.

Die irischen Texte des achten und neunten Jahrhunderts bilden Adverbien zu Adjectiven gewöhnlich noch nach der gemein-inselkeltischen Weise; der sog. Dativ des neutralen Adjectivs, meist mit dem Artikel verbunden, functioniert als Adverb: in-biucc ‘wenig’ in-chian ‘weit’ ind-inricc ‘würdig’ ind-laigiu ‘weniger’ etc. Erst vereinzelt zeigt sich die Bildung mit der Praeposition co n- wie com-maith ‘gut’ col-leir ‘eifrig’, die später allgemein geworden ist. Bestimmte Klassen von Adjectiven aber, die auf -de und die Partici- pien auf -{he, hatten damals einen dritten Weg eingeschla- gen; statt der Dativendung erscheint bei ihnen ein volleres Suffix -id th, z. B. in-chorpdid ‘körperlich’ in-bastaid “tôdt- lich’ in-luasailclhid ‘losgeléster Weise, absolute’ (Gramm. Celt.? 608). Auf dieselbe Art werden hier und da Adverbien von Substantiven abgeleitet: in-diglaid Glosse zu ‘ulciscen- ter’ MI. 62 d 3 von digal ‘Rache’, ind-dirmith Glosse zu ‘summatim’ Sg. 27 a 17 von dram ‘Zahl, Summe’. Ohne Artikel findet sich diese Endung im häufigsten Modaladverb, in samlith samlid samlaid ‘auf entsprechende Weise, so’, dem Gegenstück zur Conjunction amail amal ‘wie’, nach der es sich in mittelirischer Zeit zu amlaid (ohne s-) um- gestaltet hat. Altir. amail (corn. avel breton. evel kymr. fal) selber ist ohne Zweifel urspriinglich ein Casus von ir. samail ‘Gleichheit, Bild’, der in vortoniger Stellung das anlautende s eingebüsst hat; und auch samlid sieht zu- nächst wie eine Form dieses Nomens aus (Gr. Celt.? 718.)

38 R. Thurneysen,

Ebel (ebend. 231) bezeichnet diese Formen auf -ıd als Ablative und vergleicht das gallische Wort ßearovde, das auf den Dedicationsinschriften Galliens ziemlich oft vor- kommt, gewöhnlich mit dem Verbum dede verbunden). Die Bedeutung des Ausdrucks steht freilich nicht fest. Meist stellt man es zu air. bráth kymr. brawd ‘Urteil’ und übersetzt es mit ‘ex imperio’ oder ‘iussu’; so z. B. Stokes Bezzenb. Beitr. X1 125. Planta (Osk.-umbr. Gramm. I 304) erörtert die Möglichkeit, dass es mit osk. brato- zu lat. me- vere gehöre und etwa dem merilo lateinischer Widmungs- inschriften entspreche. Auch an Zusammenhang mit lat. gratus grates liesse sich denken, so dass es dem Sinne nach dem häufigen lat. libens nahe stände. Die Bezeichnung des Wortes als ‘Ablativ’ beruhte auf der Vergleichung avesti- scher Ablative wie sraosädha zu sraosô ‘Gehorsam’. Da aber diese heute als Erweiterung der gewöhnlichen Abla- tive auf -d/ durch eine angehängte Praeposition a erklärt werden, pflegt man jetzt foarov-de zu trennen und in ds die mit lat. de verwandte Praeposition zu sehen, die im Irischen vor ihrem Substantiv meist als di, im Compositum je nach der Natur des folgenden Lautes als di- oder dé- erscheint.

Der Zusammenhang der irischen Adverbia auf cid -ith mit diesem fparovde ist aber nichts weniger als evident. Fasst man -ovde als einheitliche Casusendung, so müsste -icl im Irischen auch als Endung des vor den Adverbien ste- henden Artikels erscheinen. Ist -de die Praeposition, so würde man erwarten, dass sie im Irischen, wo alle Prae- positionen vor ihrem Beziehungswort stehen, gleichfalls nach vorn getreten wäre. Man könnte sich zwar mit der Annahme helfen, -de sei früh nicht melır als besonderes Wort gefühlt worden, sondern mit dem vorausgehenden Casus fest verwachsen; darum werde es im Irischen wie ein Suffix, nicht wie eine Praeposition behandelt. Eine sol-

mm nn ee O e 2 - e - a wee ee a

') HoLver, Altceltischer Sprachschatz I 514.

Altirische adverbien. 39

che Annahme hätte aber nur dann irgend ein Fundament, wenn wir wüssten, dass die Gallier oder überhaupt Kelten wirklich Adverbien mit -de gebildet haben. Das lässt sich aber dem einen fearovde keineswegs entnehmen, da wir keinen Grund haben, es als festes Adverb, nicht einfach als Substantiv mit angehängter Praeposition zu fassen. Somit müssen wir vor Allem fragen, ob sich die Adver- bia auf -id denn nicht als irische Neubildung verstehen lassen, ob sich in den bekannten keltischen Sprachen gar kein Anknüpfungspunkt für sie findet. Ein solcher scheint mir aber in der That nicht zu fehlen, wenn man von dem gebräuchlichsten unter ihnen, von samlid ‘so’ ausgeht. Au Form und Bedeutung steht diesem ein isoliertes britanni- sches Adverb sehr nahe, mittelkymr. heuyt neukymr. hefyd ‘gleicherweise, auch’, das zunächst auf eine Grundform sämil.. weist. Man kann es eiwa mit lat. simitu “zugleich zusammenstellen, falls hier die Endung aus einem Stamme *eitu, Parallelform zu Üu-, zu erklären ist. Noch näher berührt es sich mit dem altindischen Substantiv sam-ii- « das Zusammengehen, Zusammenkunft »; es kann direkt als adverbialer Casus desselben betracht werden und be- deutet dann eigentlich ‘in gemeinsamem Gang, auf einen Gang’. Auch von ir. samlid wird man es nicht ganz tren- nen können, obschon dieses lautlich etwas abweicht; denn dem kymr. hefyd sollte ja air. *samilh *samid entspre- chen. Das vollere *samalith samlid dürfte daraus umge- bildet sein in Anlehnung an samail (samali-) ‘Gleichheit’ und amail ‘wie’, nachdem es im Irischen modale Färbung (‘auf gemeinsame, übereinstimmende Weise’, ‘so’) ange- nommen und sich dadurch diesen Wörtem begrifflich ge- nähert hatte. Nach dieser Umbildung musste nun -ilh -id als Suffix gefühlt werden (sam[a]l-ith) und konnte eventuell auch bei anderen Adverbien zur Verwendung kommen, die gleichfalls auf die Frage ‘wie?’ antworten, zumal bei sol- chen, bei denen die ältere, gemein-inselkeltische Bildung nicht mehr deutlich war. Das ist der Fall die Adjectiva auf

40. R. Thurneysen, Altirische adverbien.

-de -the, da sich bei diesen der Dativ des Positivs nicht mehr vom Comparativ unterscheiden lässt; z. B. ind-ai- regdu könnte als Adverb sowohl zu airegde ‘vorzüglich’ als zum Comparativ airegdu gehören, also sowohl als ‘prae- stanter’ wie als ‘praestantius’ verstanden werden. Darum mag im ersten Fall ind-airegdid dafür eingetreten sein. Ueberall ist dies freilich nicht geschehen. Ind-imdu (zu imde) glossiert ‘passim’ MI. 35°5, bedeutet also wohl “hãu- fig’, obschon ein Comparativ imdu ‘häufiger’ daneben steht (Wb. 3*12, 16°25, Sg. 198*4), der kein anderes Adverb bil- den könnte. Eine Form *ind-imdid ist nirgends belegt, vielleicht weil es sich hier weniger um ein Modaladverb als um ein Zahladverb handelt; wohl aber eine andere Um- bildung, das nicht ganz klare ind-immdae Sg. 26*5. Aehnlich erklären sich die zu Substantiven gehörenden Adverbien wie in-diglaid zu digal nach dem Muster sam- laid zu samail. Nur der vorgesetzte Artikel fällt etwas auf; man darf ihn wohl dem Einfluss der grossen Menge der von Adjectiven abgeleiteten Adverbien zuschreiben.

Freiburg ı. B.

GASTON PARIS.

Ficatum en roman.

- ——. —-

Il n'est douteux aujourd'hui pour personne que les diffé- rents mots qui ont remplacé dans les parlers romans le latin jecur ne remontent à ficatum. Nul ne soutient plus l’opinion émise par le P. Labbe !) et volontiers admise au XVIIº siècle, d'aprês laquelle le nom du foie viendrait de focus, «d’autant qu'il est le foyer de l’animal, pour cuire les viandes qui sont dans l’estomach, comme dans un pot à cuire » ?). Depuis que l’équation ficatum = foie, indiquée d'abord par Joseph Scaliger *), a été établie par Saumaiset), et confirmée par Tanara, Erythrée, Ferrari et Martini 5) à l’aide de l’it. fégato et de l’esp. higado, Ménage seul, qui rapporte cependant toutes ces autorités, a eu la sin- gulière idée de les contredire peur se rallier à l’opinion de Guyet, « qui dérive l'Italien fégato, l'Espagnol higado, et le Francois foye de hepar »; il appuie ce rapproche- ment à sa maniére par trois séries de formes intermédiaires entre hepar et, respectivement, fégato*), higado ") et foye®). Il est inutile de les discuter aujourd’hui, non plus que le rapprochement en lui-même ?).

Mais la destinée de ficatum en roman présente des dif- ficultés et des obscurités qui ont embarrassé les philolo- gues ; elles ont même paru si grandes à M. Gröber que, tout en reconnaissant la part prise par ficatum à l'évo- lution des mots romans, il veut que cette part soit seule- ment accessoire et secondaire. D’après lui, si je l’entends

4

42 G. Paris,

bien, il aurait existé en latin, sans d'ailleurs qu'aucun texte ancien nous l'ait conservé, un mot fiticum, d'origine in- connue, qui se continuerait régulièrement dans plusieurs dérivés romans, mais qui dans d'autres aurait été soumis à des altérations dues à l'influence de ficätum 1°). Cette hypothèse audacieuse n’a pas, que je sache, trouvé beau- coup de partisans !!): ja ne m'attacherai pas à la combattre directement, me bornant à signaler, dans l'essai qui va sui- vre, les phénomènes qui lui ont donné naissance, et qui peuvent certainement recevoir une explication différente.

Examinons d’abord les faits, en les classant dans l’ordre qui semble le plus propre à les éclairer.

Le mot ficätum, qui avait en latin vulgaire le sens de jecur (je reviendrai plus tard sur ce puint), s'est conservé tel quel !®), sauf l'évolution phonétique normale, en roumain: Acat; en frioulan: Ajdd; en ladin: Agd, fá, fijad, fid, Re‘); en vénition: Agd, figao; en sicilien: Acdiu ; en sarde: gallur. Ragditu 14), eampid. figdu 15). Toutes ces formes n'ont besoin d'aycune explication !6).

Mais à côté d'elles il en existo d'autres, qui nous mon- trent soit le recul de l'accent sur la première syllabe, soit le changement de l'i de la première syllabe en e, soit la combinaison de ces deux phénoménes. Naturellement, quand l'accent a été reporté sur la première syllahe, l’a, devenu atone, a été sujet à s'affaiblir.

I. Ficätum. C'est la forme de l'esp. higada!) et du portugais fígado **).

Ficätum est devenu ficitum, par la tendauce da l'a atone des proparoxytons à s'affaiblir 1%) et par une assimila- tion naturelle aux participes en -itum, fréquent en Jat. vulg. à côté de -Atum, surtout après des thames terminés par c, g (vocitum, rogitum, etc.) 89). Ficitum est en- suite devenu ficidum, par assimilation aux adj. en -jdum *?), et enfin, par une métathèse apparenta qui est en réalité une transformation analogique et dont an a plusieurs exem- ples assurés 28), fidieum. Les phases ficitum et ficidum

ficatum en roman. 43

n'oút pas laissé de représentants vivants dans les Jaft- gues romanes, mais fidicum se retrouve dans le lombard fidegh, fidech *°), piòm. fidich™), et dans le sarda logud. fidigu %).

Ces formes ont aussi existé en France, bien qu'elles n'y aient pas prévalu. On peut rapporter à la phase ficidum le figido des Gloses If de Reichenau et des Gloses de Cassel *); et c'est certainement fidicum que représentent les formes de l’ancien francais ftrie *?), fe (en picard-arté- sien) 38), et ige, dont on n’a pas d'exemple, mais que l’on peut légitimement supposer ?°), Il faut encore reconnaitre fidicum dans le fidge hidge du béarnais??). Toutefois ce sont les formes du groupe IIE qui prédominent de beaucoup en gallo-roman.

II. Föcätum *!). Ce groupe est peu représenté: il som ble cependant attesté par le vegliote fecuat 22), et péut-être par un fegdto qui, d'après Ménage, était employé en Italié au XVII siècle à côté de fegato 82).

Il. Fécätum. Cette série est au contraire très im- portante. Elle comprend d'abord le napol. fécato, tosc. fé- gato *), romagn. fégat, bolonais féghet, etc. Le napolitain a tonservé ici la forme primitive, dont toutes les autres dé- rivent normalement.

Mais de même que ficätum est devenu ficitum, de même fêcátum est devenu fôcitum. Cette forme, inter- vertie en féticum, survit dans l’abruzz. feleche. Et de même que ficitum a passé a ficidum, de même fôcitum a passé à fêcidum. Et enfin fêcidum est devenu fédi- tum, comme ficidum est devenu fidicum. Cette der- niere forme survit dans le romain fédico, mais elle est surtout représentée dans le gallo-roman, qui demande une attention particuliére. | |

Nous la trouvons d’abord dans le prov. anc. felge, fegge, fege, prov. mod. fege*), rhodan. fedjo, fedzo, fege, fedi, etc., langued. feche, cat. feige, gasc. helge. Ces formes sont nor- males, si ce n'est quê fetgé, helge, fechê pourraient faire

44 G. Paris,

croire à une provenance directe de féticum sans l’inter- médiaire de födicum.

Le francais nous présente des formes assez diverses, comme il arrive pour d’autres mots de la même structure (notamment médicum). Nous trouvons fédie 8), fege®?), feire (qui, en passant par férie, s'explique comme ffrie 88), fee 8°), et enfin feie foie *º), qui est devenu la forme usuelle 4!). Rien non plus que de normal dans ces différentes repré- sentations de fédicum “?).

Nous nous rendons donc très bien compte de l'évolu- tion qui a fait passer ficätum, föcätum, ficátum et fê- càtum à leurs diverses formes romanes 4). Nous constatons que ficätum s’est maintenu à l'est de la Romania ainsi qu'en Sicile, en Sardaigne et en Rétie; que föcätum pa- rait conservé à Veglia ‘4); que ficitum persiste dans la péninsule hispanique et à l'extrême sud-ouest comme au nord-est de la Gaule 45); enfin que föcätum est devenu do- minant dans l'Italie centrale et méridionale et dans pres- que toute la Gaule. Les changements successifs de ficätum en ficitum, ficidum et fidicum, de föcätum en fö- citum, föcidum et fédicum, n’ont rien de surprenant. Mais ce que jusqu’à présent on n’a pas essayé ou on n'a pas trouvé moyen d'expliquer d'une manière satisfaisante, c'est comment l'accent de ficätu m s'est reporté sur la pre- mière voyelle, de façon à donner ficätum, contrairement à toute analogie *º), et comment Ji s'est changé en & soit dans föcätum, soit dans fècitum.

Diez se contente de remarquer que «la prononciation ficatum a se produire de bonne heure, puisqu'elle est générale en roman» (il n’excepte que le sarde, le vénitien et le roumain, mais on a vu qu'il faut y ajouter le ve- gliote, le sicilien et le ladin). Littré rapproche ficitum pour ficätum des participes comme vöcitus, rôgitus, et ce rapprochement ext sans doute fondé en ce sens que l'existence de ces participes a pu faciliter le passage de

ficatum en roman. 45

ficátum fécatum à ficitum föcitum, mais il péche en ce qu'il n'y a pas de verbe ficare, et que, y en eùt-il un, il n’aurait pu former spontanément un participe de ce genre. Brachet (p. cv) se contente de dire que «le déplacement de l’accent latin en francais avait été précédé du déplacement de l’accent dans le latin rustique qui disait... ficatum ». Scheler aussi dit simplement: «Ce qui est à noter, c'est le déplacement de l’accent de la seconde sur la première syl- labe. » Classant, en 1877, les différentes formes romanes de ficatum, je constatai également, sans essayer de les expliquer, le déplacement de l’accent et le changement de la voyelle 47).

La première explication proposée l’a été par M. Fr. d'Ovi- dio 48): « Fégato... dovrà aver ragione... dalla proclisi. Chi pensa alla strana ellissi che v'è sotto al senso di co- desta voce, si persuaderà facilmente che non vi si ve- nisse senza un lungo periodo di abbinamento fisso: fica- tumjécur. Onde non è troppo maraviglia che quando si venne all’ellissi, quel mezz' accento, che per una parte del mondo romano s'era giustamente mantenuto sul -cé-, si fosse per un’altra parte ritratto sull'i, forse per prender il posto più distante dal vero accento (-jé-), e che quell’i si fosse anche abbreviato. » Mais d'abord rien ne prouve que ficatum employé seul ait été précédé par un long emploi de ficatum jecur (voy. plus loin); ensuite on voit pas pourquoi dans le groupe ficatumjécur on aurait éprouvé le besoin de reculer l’accent du premier élément, ni pourquoi le recul de l’accent aurait amené le change- ment de l’i en i ou 3 4º),

En 1885, M. Gröber proposa l'explication que j'ai indi- quée ci-dessus, et qu'il maintint en 1889. Suivant lui, « d’a- près la distribution des formes sur le domaine roman, c'est fiticum, non attesté, qui apparait comme la plus ancienne ». Cela tient à la théorie bien connue du savant philologue sur la chronologie du roman: le roumain, le sicilien, le vénitien, le frioulan, représentent, à cause de la date de-la

46 G. Paris,

conquête des provinces ils se parlent, l’état le plus ré- cent du latin vulgaire (sauf toutefois l'italien, qui est le latin vulgaire continuant toujours à évoluer) ; le sarde, puis . Phispano-roman et enfin le gallo-roman représentent les états succéssivement les plus anciens. Il est vrai que pour regar- der fiticum comme la forme la plus ancienne il faut, dans cette théorie, écarter le sarde ficdu (mais c’est figdu) comme « Buchform » (plus tard, M. Gröber a écarté de même le roumain, le vénitien et le frioulan °°), mais il n’a parlé ni du vegliota ni du ladin). «L’esp. higado, postérieur au sarde fidigu, est le produit de la refacon du mot d'aprês ficus, déjà à l’époque romaine, amenée par l'usage d’en- graisser les oies avec des figues.» Ce qui a frappé M. Grö- ber, c'est que «A l’appui d'une interversion des phonèmes de ficatum en *fiticum, surtout dans plusieurs langues ro: manes, on ne saurait apporter absolument aucun exemple. » Cette defnière assertion est juste, mais suffit pas 4 étaÿer une liypothèsé aussi aventuréuse.

M. Meyer-Lübke, datis sa Phonélique romane, s'est oc: cupé de notre mot à quatre reprises. Au $ 44, après avoir rémarqué que les formes romanes postulent une triple base, fécatu, ficatu*!) et ficátu, il ajoute: « L’alternance de î et é tient sans doute au déplacement de l’accent. » Au § 326, il explique le fr. foie par l’affaiblisse.nent de Pa fécatum en e*!). Au § 585, il se borne à si- gnaler, à côté de ficätum et de fécatum (il oublie ici ficatum), l'existence d'uné autre base, fidicum (sans diré s’il s’agit de fidicum ou de fídicum). Enfin au § 605, parlant des cas de recul de l'accent, il constate que le roumain, le vénitien, le tirolien, le frioulan et le vegliote (il oublie le ladin) eunservent l’ancienne accentuation de fi- catùm, tandis que les autres langues renvoient à fi- catum (il omet ici fécatum) ou à fidicum (il oublie fé- dieum) ou 4 fitacum (forme qu'il mentionne pour la pre- miére fois 5%) et qui ne parait pas três nécessaire; il ajoute: « Une explication satisfaisahte de ces dernières fot'ines man

ficatum en roman. 47

que encore,» Je ferai en nutre remarquer que ja ne vais pas pourquoi le déplacement de l'accent aurait, comme il est suppogé au § 44, changé la quantité (ou plus tard la qua- lité) de l'i.

M. Korting, qui ne connaissajt pas encore la Phoneli- que da M. Mayer-Lübke 5), réfute (au mot *fiticum) l'hy- pothése da M. Grôber, et déclare « non satisfaisante » l'expli- cation de M. d'Ovidio. Pour son compte il en propose une autre: «A la place de ficdtum s’introduisit au siècle (car o'ait sans doute encore ficalum qui fut porté en Da- cie) dans tout l'Occident (sauf l'exception, d'ailleurs doy- tayse 55), de la Jardaigne), *fidäcum ou fidágum, forme qui peut-être est due à l'étymologie populaire et s'appuie sur fidas, corde à boyau, et d'où se sont déveluppés fidegh, fetge, etc.» Mais fidas ne désigne jamais que les cordea de la lyre, et on na voit pas quel rapport cela peut avoir avec lg fuie; puis l'influence de fides n'expliquerait pas les formes en à avea recul d'accent et expliquerait ancora moins les formes comme fégato. On peut ne pas tenir compte de cetta proposition un peu irräflächie.

Le Dicliannaire general, se horne pendemmant à tirer faie du lat. pop. fidicum, «altóration inexpliquée du lat ficätum». Il est vrai qu'il nous renvoie au $ 509 du Traité de la formation de ta langue, non encore publi; mais, à en juger d'aprês ces mots mémes, ce $ semhle devair être consacré aux phénomènes que l’on constate sans pou- voir encore les expliquer °°).

L'explication la plus récenta a été proposée par M. Hor- ning °°). Après avair constaté en roman des couples comme pidicu < picidu, etc., il ajoute: «On se demande si les difficultés contre lesquelles a échoué jusqu'à präsent l’expli- cation de fégato, lomb. Adegh, neuchât. fedz, fr. faie, ne peuvent pas se lever en admettant à côté de ficatus un floidus (le sarde possède fidigu et figau), qui serait au subst. ficus comme sucidus à sucus, mu(c)cidus à mu(c)eus, et qui serait devenu fidicus comme picidus

48 G. Paris,

est devenu pidicus. Le recul de l’accent dans fégato se serait fait sous l’influence de ficidus. » Cette hypothèse, à coup sûr plus plausible qu’aucune des autres, a l’incon- vénient grave de n'offrir aucune explication pour le change- ment d’i en e en italien et en gallo-roman*?). En outre, l’exis- tence d'un latin ficidus est très invraisemblable, quand on suit, comme nous allons essayer de le faire, l’histoire du mot et de son sens.

On regarde généralement ficatum comme étant une expression elliptique pour ficatum jecur, lequel signifie- rait «foie engraissé avec des figues». Mais ficatum je- cur ne se rencontre nulle part. Le Dictionnaire de For- cellini-De Vit dit: « FicAtum. Nomen proprie adiectiuum..., ficis saginatum, absolute fere adhibitum.» Fere doit être remplacé par semper, ou plutôt il faudrait dire que fica- tum n'est connu en latin que comme substantif 5°). Ce mot n'apparait que tard. On le trouve dans les livres de cui- sine et de médecine, ainsi dans Apicius: In ficalo oeno- garum, piper, thymum... Aliter: ficalum praecidis ad cannam... 8°) (il s'agit d'un foie de truie 8!); dans le petit poème du Judicium coci et pistoris, il est pris dans un sens Culinaire 8°); puis dans le texte médical désigné sous le nom de Plinius Valerianus €), c'est d'un ficalum per- dicis qu'il s’agit 84); dans Marcellus Empiricus: ficatum lupi; enfin dans Caelius Aurelianus, il sert d'ex- plication à jecur pour désigner le foie humain %). Il se rencontre encore, glosant ovxwriv, dans des glossaires 66). Ficatum est donc, dês son apparition en latin, un subs- tantif, et il désigne déjà le foie en général, soit des ani- maux, soit des hommes 8º). Il ne paraît pas qu'il ait jamais été adjectif, et il n’existe pas en latin de verbe ficare dont il puisse être le participe.

C'est que ce mot, tout latin qu'il est dans ses éléments et sa formation, n'est pas spontanément en latin, et même, à vrai dire, n'est pas un mot latin. Il n'est qu'une

ficatum en roman. 49

adaptation, qu'un calque du grec cuxwrov. Celui-ci se ratta- che au verhe ovxow, « nourrir de figues», à côté duquel existaient les verbes cuxaçw 99) et ovxctw au même sens. L'u- sage de nourrir certains animaux de figues pour leur ren- dre le foie plus gras et plus savoureux s'appliquait chez les Grecs aux oies et peut-étre plus encore aux porcs et surtout aux truies *?); les meilleurs ovxwra de cochon ve- naient de Chypre °°). Le foie ainsi produit se vendait à part comme un mets délicat, et, peut-étre après avoir dit limao duxwtév"), on en était venu à désigner, dans le lan- gage courant des marchands de comestibles, des cuisiniers et des consommateurs, ce «foie gras» par ovxwtov tout court °°). Peu à peu ce mot prit en grec le sens de «foie» en général: on sait que le diminutif ovxwrıov, devenu cixoti OU Oxott, a remplacé en grec moderne le classique tag 7º).

Il y a longtemps qu'on a remarqué le parallélisme du sens de cuxwróv en grec et de ficatum en latin; mais on n’a pas assez dit que ce parallélisme ne saurait étre for- tuit 74). Il serait par trop surprenant qu'une évolution sé- mantique aussi singulière, faisant passer un mot d'abord du sens de « nourri de figues » à celui de «foie d'animal nourri de figues », puis à celui de «foie» en général, se füt faite indépendamment chez deux peuples. Le mot latin n'est en effet, comme je l’ai dit plus haut, qu'une adaptation du mot grec, et celui-ci a passé en latin avec les sens qu'il avait, seul, spontanément développés.

Il était tout naturel de rendre cuxwróv par ficatum: la désinence -atum, qui, originairement participiale, s’atta- chait depuis longtemps à des substantifs sans l'intermédiaire de verbes 7º), était indiquée pour rendre la désinence grec- que -wró», et fic- remplacait nécessairement ovx-. Toutefois le mot grec lui-méme entra aussi dans le latin vulgaire, en ‚se bornant à latiniser sa terminaison, à la fois avec son sens culinaire et avec son sens général de « foie ». C'est ce que montre un curieux passage du poème facétieux d'un cer-

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50 G. Paris,

tain Vespa (1v*-v* siècle), lo Judicium coci et pistoris, ou j'ai déjà relevé un exemple de ficatum °), Le cuisinier se vante d’être en état de servir aux héros mythologiques ce qu'ils aimaient le mieux ou ce dont ils ont été privés:

Partes quisque suas tollit, qui cenat apud me.

Voici les premiers exemples qu'il en donne 7’):

Ungellam Oedipodi ?*), sycotum pono Prometheo "?), Pentheo pono caput, ficatum do Tityoni.

Ainsi les deux mots ficatum et sycotum éiaient em- ployés concurremment. Peut-étre avaient-ils en cuisine un sens un peu différent; peut-être aussi étaient-ils complète- ment synonymes. Ce qui nous intéresse, c'est que le mot grec sycotum vivait en latin en méme temps que le mot ficatum qu'il avait suscité. Il s'agit de savoir quelle forme il. avait prendre dans la prononciation courante.

On sait que les mots grecs empruntés par le latin of- fraient à l'assimilation des difficultés causées par la différence des lois de l’accentuation dans les deux langues. Sans par- ler ici des autres problèmes de cet ordre ®), je me borne à celui que présentait le mot qui nous occupe. Le latin ne pouvait pas admettre de mots accentués sur la dernière. Dans les disyllabes, il a simplement fait passer l'accent à la première syllabe *!). Mais la question était plus compliquée pour les polysyllabes. Quand l’oxyton grec avait la pénul- tième brève, rien de plus simple: l’accent se transportait sur l’antépénultième 8), car pour l’oreille latine un oxyton à pénultiéme brève était très semblable à un proparoxy- ton ®2). Mais le cas était plus difficile si, comme dans no- tre mot, la pénultiéme du mot grec était longue. Dans la langue classique on sacrifiait l’accent à la quantité et on disait sycótum; mais dans la langue populaire on devait abréger la pénultième pour pouvoir porter l'accent sur la première : on disait sy’cötum. Nous avons un exemple tout pareil dans le mot ywoùtos ou xwpèros : les poètes classiques

ficatum en roman. 51

disent c5rvtus, mais la prononciation populaire nous est attestée par le cörvtus de Sidoine Apollinaire, lequel a abouti au port. corde cordre coldre, à l’esp. gorde gordre goldre *). On peut admettre avec toute vraisemblance que dans cette même prononciation cvxwrov était devenu sy’ cótum.

Ainsi il existait en latin côte à côte, avec le même sens de «foie» en général, un mot grec, sy’cotum, et une imi- tation latine de ce mot, ficätum. Je crois que le premier, qui avait donné naissance au second, a continué d'agir sur lui dans l'usage vulgaire et se l’est assimilé de plus en plus. Il faut remarquer que celui-ci lui ressemblait déjà par le c et le t qui dans l’un et dans l’autre commencaient la deu- xiöme et la troisiöme syllabe; les différences portaient, sans parler de la désinence, sur la consonne initiale, sur les vo- yelles des deux premières syllabes, et sur l’accentuation, qui, dans la prononciation vulgaire, s'etait reportée de la der- niére sur la première du mot grec. L'assimilation ne s'est pas, que nous sachions, exercée sur la consonne initiale de ficatum %); mais elle a tenté les trois autres points le mot latin différait du mot grec,

1.º I] a existé une forme ficotum ©). Elle se trouve dans des mss. du prétendu Plinius Valerianus ®) et dans les Acta s. Theodoriti, texte de la fin du ıv* siècle #9). Cette forme prouve d'une façon irrécusable l’influence exercée sur ficätum par son générateur grec.

2.° Le changement de l’i en & est une autre manifes- tation de cette influence. L'v grec, sans parler de sa re- présentation savante par y, ni de sa représentatiou archai- que par u (0), est souvent remplacé, dans les inscriptions ou les très anciens manuscrits (auxquels il faut joindre par- fois le témoignage des grammairiens), par i, e, 009). L'i doit être considéré comme un 1 ®), ce qui dans le roman (sauf le sarde du centre et du sud) équivaut à 6 "!). L'e, qui appa- rait assez anciennement, peut être ou la transforınation déjà romane de cet i ou la réduction de l’oe (je ne veux pas

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entrer ici dans la discussion de la valeur qu’il convient d’at- tribuer à cet oe, auquel répond en grec la confusion graphi- que de os et de v, attestée dès le 11º siècle avant notre ére): ainsi l’e de secophanta, qu'on rencontre 9), peut répondre à un plus ancien sicophanta ou soecophanta. Le clas- sique sycótum est ainsi devenu secótum, en passant soit par sícótum soit par soecótum, et a donné naissance en latin à une forme föcätum *), qui paraît survivre dans le fecuat vegliote. D'autre part, le sy'cóútum vulgaire est devenu sécótum, en passant soit par sicòtum soit par soécôtum, et c'est à mon avis cette prononciation sécó- tum qui a changé ficátum, devenu déjà proparoxyton (voy. ci-dessous, 3º), en fêcátum.

3.º L’accentuation vulgaire sy cótum a été transportée au mot latin: de le ficátum que nous avons observé en Italie, en Espagne et en Gaule, et le föcätum italien et gallo-roman.

De ficátum ou de fêcátum proviennent sans difficulté toutes les formes romanes qui ne représentent pas ficä- tum resté intact (comme le font le roumain, le frioulan, le ladin, le vénitien, le sicilien et en partie le sarde), ou fècAtum qui n'est altéré par l’influence du mot grec que dans la voyelle de sa première syllabe (comme le fait le vegliote).

Nous avons donc dans l’histoire de notre mot, si je l’ai bien comprise, un cas très intéressant de croisement lexi- cologique. Le mot ficatum, créé en latin pour représenter le grec ovxwrov, a été, à plusieurs reprises et de plusieurs facons, dévié de son évolution naturelle par ce mot même, qui, nonobstant la création de ficatum, avait été intro- duit dans l'usage latin et s’y était modifié de son côté pour cadrer avec les lois de l’accentuation latine. Le mot latin a été, pour ainsi dire, affolé d’une manière continue par le voisinage du mot grec, comme l'aiguille d'une bous- sole est affolée par le voisinage d’un aimant. C’est un

ficatum en roman. 53

exemple de plus de ces curieuses «contaminations» d’un mot d'une langue par un mot d'une autre sur lesquelles l’il- lustre maitre en l’honneur de qui ces pages sont impri- mées a jeté à maintes reprises une lumière parfois si inat- tendue. Je ne serai sür d’avoir travaillé dans la bonne voie et d'avoir atteint le but da ma recherche que s'il trouve le résultat auquel je suis arrivé digne de son approbation *!).

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NOTES.

1) Cité par Ménage, à l'art. Foye de son Dictionnaire éiymologique.

3) Cette étymologie répondait en effet à l'opinion qui régnait alors sur les fonctions du foie. Elle est encore dans le Dict. é'y nol. de Roquefort (1829), qui dit: «it. fegato, fait de focus, foyer », et ajoute: «on all. fegen, purifier. »

®) Prima Scaligerana, éd. 1669, p. 114. Le grand philologue cite ficatum, fry’, dans une série de mots destinés à prouver que « mu- tam semper Galli tollunt inter duas vocales», observation juste, mais pour laquelle il allögue de bizarres exemples.

*) Cité par Ménage. Saumaise fait sur l'origine de cette dénomina- tion et son rapport avec le grec cuxwroy une observation judicieuse, (voy. ci-dessous, n. 74).

*) Cites par Ménage.

*) « Hepar, hepatis, hepatum, ecatum, fecatum, FÉGATO. »

7) « Hepar, hepatis, hepatum, fecatum, ficatum, HIGADO. L'E, en hepa- tum, a été changé en í à cause de la prononciation de l'eta en iota. » *) Hepar, hepotis, hepate, hepae, hepa, heca, fegn, fea, FOYE.»

*) Hepar, qui avait passé du grec au latin dans la langue medi- cale (Marcellus Empiricus), a subsisté en italien (épate, épato sont naturellement des mots savants) dans le vieux mot epa, « panse », comme l'a reconnu Ménage (cf. Diez, Karting): I'r finale à la syllabe atone ast tombée normalement; le genre faminin est à la termi- naison. Il est probable que le mot a passé de la langue des médecins dans celle du peuple, qui n'en comprenait pas la signification pré- cise. Le roum. hipota, fém., qui existe à côté de ficatu, se rat- tache directement au plur. grec rere (cf. en franc. pop. les foies) qui survit en grec moderne avec le sens général d' «entrailles ».

19) Voy. Archiv für latein. Lexikographie, Il, 288, 424: VI, 388.

4) L'explication des mots romans par ficatum se retrouve dans tous les travaux philologiques publiés depuis 1885, date M. Gröber a émis son hypothèse. M. Kôrting l'a réfutée expressément au n.° 3288 de son Lateinisch-Romanisches Wôrterbuch: il montre

ficatum en roman. 55

qu'un mot latin fiticum n'a aucune vraisemblance et aucune base indo-européenne, et ajoute que si cet hypothétique fiticum avait été influence par ficus, il aurait pu devenir ficAtum, mais jamais ficátum, «une terminaison en -Atum paraissant inconnue au la- tin». M. Behrens seul (Ueber recipr. Metathese, p. 99) rapporte l'o- pinion de M. Grdber sans observation et parait ainsi l'approuver.

1?) La liste la plus complöte des formes romanes a été donnée par M. Behrens, à. c.; voy. aussi Meyer-Lübke, I, 8 605.

1%) Voy. Stürzinger, Zeitschr. für rom. Phil., t. XX, p. 120. C'est par erreur que Diez (Altrom. Gloss., p. 100) dit que fio a l'accent sur la première.

14) C'est du moins la forme que Spano indique pour le dialecte septentrional dans la partie sarde-italienne de son Vocabolario; dans la partie italionne-sarde il donne comme septentrional fietu; cette forme doit n’ötre qu'un affaiblissement phonétique de la première, avec accent conservé sur lem a.

18) M. Gröber (Arch. f. lat. Lex., Il, 228) donne ficdu, et ajoute que le c pour g montre que c'est une « Buchform ». Mais je ne trouve partout que figdu (ainsi Meyer-Lübke, Stürzinger, etc ; M. Körting emprunte ficdu à Gröber). J'ajouterai qu'il est bien difficile d'admet- tro une « Buchform » pour un mot qui précisément n'appartient pas au latin classique et ne se trouve que dans des auteurs qu'on ne lisnit guère au moyen âge, surtout en Sardaigne. D'après M. Meyer- Lübke (8 605), le sarde mérid. figdu viendrait du sicilien ficdiw: je n'en vois pas la raison.

1°) M. Grôber (Arch. f. l. Lew., IV, 388) écarte le mot roumain, « car foie se dit à côté hipota = rag», le mot frioulan, «car il y a des mots d'emprunt qui montrent j pour c et -d- pour -t- », et « par suite(!) » le mot vönitien. Je rapéte ici qu'un emprunt savant est inadmissible pour ce mot, en roumain encore plus qu'en sarde. Restent d'ailleurs les nombrauses formes ladines, qui, avec le roumain, le frioulan, le vénitien, le sicilien et le sarde, attestent la persistance de ficätum en roman,

17) Tello est certainement l’accentuation en espagnol comme en por- tugais. C'est par une erreur singuliere que Ménage assure que les Espagnols prononcent higddo et non pas higado.

18) M. Gröber (Arch., II, 288) voit dans l'hispan. fígado la preuve d'une très ancienne « Umbildung » du prétendu fiticum d'après ficus. Cette «Umbildung » serait bien bizarre.

9) Voy. Meyer-Lùbke, Zeitschr. f. rom. Phil., t. VIII, p. 207. Tous les propuroxytons avec à pénultième sont, en dehors de quelques composés et de deux ou trois mots (alacer, alapa, anatem, calamus) ou forınas (Caesarem etc.), des mots étrangers.

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#) Ce rapprochement est à Littré et parait plausible.

1) Il semble bien que vocitum, placitum soient devenus de même vocidum, placidum, et c'est sans doute ce qui explique les formes voidier, plaidier (et à côté voter, plaier); de même cogi- tare est devenu cogidare d'ou cuidier (et cuier).

#) Sücidum >sidicum (voy. Kôrting), *picidum > pidícum (voy. Meyer-Lübke, Gramm., I, 8 580, II, 88 410, 426; Horning, Zeitschr. f. rom. Phil., XXII, p 488), liquidum > licidum > lidi- cum (Meyer-Libke, J. c.), fracidum > fradicum (M.-L., 4c, d’apres le dérivé it. fradicio).

28) Voy. Gröber et Karting.

%) M. Grôber (II, 288) imprime fédich; M. Meyer-Lübke, de même, fedik’ (I, 8 44) et fedik (8 582). Fidik, que donne Körting, est la forme qui se trouve dans les dictionnaires.

%) Diez regarde le lomb. Adegh comme provenant par métathêse d'un hypothétique fighed, qu'il rapproche du figido des Gl. de Cas- sel (voy. plus loin); mais le g n'aurait pu se maintenir dur dans figido : fidegh ne peut représenter qu'un plus ancien fidicum.

%) GI. II de Reichenau, 46: jecoris figido; Gl. de Cassel, 52: figido lepara (Förster-Koschwitz, Altfranz. Uebungsbuch, col. 29, 39). Les formes avec e ayant próvalu en gallo-roman, on pourrait interpréter l'i de ces mots comme I (=6); mais puisque les formes avec i sont attestees en français (voy. plus loin), il est plus naturel de les ad- mettre aussi ici.

#1) Trenchet li le coer (1. Le coer li trenchet), le frie e le pulmun Rol. 1278 (fuie, dans le Compl. de Godefroy, est une faute d'impres- sion). Cette forme ne se retrouve pas ailleurs, |

2) Godefroy, dans son Compl., donne divers oxemples de fie, dont un seul (Baud. de Seb., IX, 328) est à la rime. Aj. Jubinal, Contes, t. I, p. 198 (dans le Dit de Fortune de Moniot), Anseis, v. 2484, Or- son de Beauvais (sous presse), v. 1669, et certainement beaucoup d'autres. Tous les textes ou so trouve cette forme sont du Nord-Est, comme l'a remarqué M. Förster sur le v. 2699 d'Eracle. Dans les parlers actuels elle paraît avoir cédé à la forme française: M. Ed- mont, dans sou excellent Glossaire Saint-Polois, enregistre fi, mais il ajoute: « Vieilli; on emploie de préférence la forme fiwry.»

*) On peut conjecturer cette forme d'après le verbe figier (voy. ci-dessous, n. 37). .

3°) Fidge dans des documents anciens; pour hidge on trouve aussi hitge (Lespy-Raymond, Dict. béarnais). La forme figue, dans un do- cument, n'est sans doute qu'une mauvaise graphie; autrement elle pourrait remonter à ficätum. Le gascon, d'après Mistral, a hitge A côté de hetge.

ficatum en roman. 57

*', On trouve fecatum par ex. dans un ms. des Acta s, Theodo- riti (voy. ci-dessous, n. 88).

33) Ive, Arch. glottol, IX, p. 120, 150. M. Ive (p. 155) voit dans fecuat un affaiblissement de l'i atone en e propre au vegliote; mats les exemples qu'il cite à l'appui sont peu probants. Fecuot dans Meyer-Lübke (8 605) est sans doute uno faute d'impression, bien qu'a tonique en vegliote soit souvent rendu pat wo.

#5) A vrai dire, il n'est pas impossible que l'analogie des nombreux mots en -dto ait fait sporadiquement transporter l'accent sur l'a.

®:) L'ancienneté en est attestée par le fegatum d'une charte de 1132 citée par Du Cange.

%) Le marseillais fugi nous offre un cas de labialisation de l'e sous l'influence de |'f; l'i final est sans doute à celle du g.

#) Cette formo est indiquée pour l'ancien wallon par le wall. mod. fot (écrit feute), qui fait pendant au wall. mod. met (écrit mede), de l'anc. meide << médie < medicu m, attesté au moyen âge. Voy Hom ning, Zeitschr. f. rom. Phil., t. XV, p. 494, et t. XXII, p. 488.

*?) Attestó par la rime dans l'Ovide moralisé (Godefroy). La forme fiege, qu'on rencontre deux fois dans les Ass. de Jérus. (un exemple est cité par Godefroy, un autre se trouve dans le méme chapitre à la page suivante), est sans doule une erreur du copiste, due au voi- sinage du mot miege, souvent röpäte dans le contexte (dans l'Ocide moralisé le mot allege, qui rime avec fege, devrait être aliege, ce qui impliquerait la forme fiege, mais à l'époque de ce texte on doit plutôt admettre qu'atiege etait devenu alege, comme il l’est en français mo- derne, par analogie avec alegier etc.). C'est à cette forme /ege que se rattache le verbe fegier, comme je l'ai jadis expliqué (Romania, VIII, p. 434), tandis que figier, d'où le moderne figer, peut faire admettre un fge (voy. ci-dessus, n. 29). Mais à vrai dire figier et fegier pour- raiont remonter à un verbo existant déjà en gallo-roman sous la double forme fidicdre et fêdicare, suns qu'il soit nécessaire qu'il y ait cu l'intermédiaire fige on fege. |

88) Lapidaire | (éd. Pannier), v. 393. Co mot est d'ailleurs une res- titution de l'édition: le ms. A porte feure, lo ms. B fieure; il faut sûrement, d'après le latin, un mot qui signifie « foie », et il est pro- bable quo c'est la forme inusitée de ce mot qui a égaré les copi- stes; la forme feire, qui a été adoptée dans l'édition, est la plus voi- sina des lecons des manuscrits.

®) Un exemple dans Godefroy.

4°) Le fein. la feie, dins un fragment du Tristan de Thomas (4d. Mi- chel, t. III, p. 32), est uno faute de copiste qui détruit la mesure du vers.

#1) M. Meyer-Lübke (8 326) semble dire que le fr. foie remonte à *fécatum pur le maintien de l'a atone sous forme d'e (il renvoie au

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8 604 [I. 605], il dit d’ailleurs autre chose; voy. plus loin, n. 46); cette opinion, qu'a réceminent reproduite M. E. Herzog (Literaturbl. f. germ. u. rom. Phil., 1900, col. 67), serait soutenable, quoique peu probable, si les autres formes gallo-romanes ne renvoyaient pas à fidicum ou födicum.

“2, Il faut seulement noter que ce mot, comme tous ceux on observe le changement de -dieum en -rje (changement sur la na- ture duquel je ne veux pas m'expliquer ici), trahit par même une provenance semi-savante ou au moins une influence savante: on l'entondait le plus souvent dans la bouche des médecins.

4?) Si l’on s’étonnait de la multiplicité et de la variété de ces chan- goments, il faudrait se rappeler que ficatum, comme il sera dit plus loin, n'est pas un mot vraiment latin, mais un calque du grec, qui n'avait pas de racines dans la langue.

#) Et peut-ötre en Italie, sous réserve de l'observation faite plus haut.

“) Eo picard-artésien, comme en l'a vu, mais non en wallon.

4) Le cas de söcäle, qui existe à côté de sécãle, ne serait pas identique; mais en outre il est probable, comme l’a remarqué M. Meyor- Lübke (8 605), que c'est söcäle qui est la forme primitive de ce mot (d'origine étrangère), et qu'il a ate altéré (en roumain et vénitien) par les nombreux mots en -äle. Ficätuin au contraire devait être main- tenu par le groupe innombrable des mots en -ätum.

47) Romania, t. VI, p. 132.

45) Zeitschr. f. rom. Philol. t. VIII, p. 105 (et non 195, comme im- prime Kôrting).

“9, M. Gröber (Arch. f. lat. Lexik., t. VI, p. 389) dit que « d’Ovidio explique le deplacement d'accent par la position proclitique de fica- tum dans le groupe ficatum jecur, ce qui aurait amené l'introduction du suffixe (a)ticum pour icatum ». Cette explication n'est pas celle

de M. d’Ovidio, purement phonétique; elle est d’ailleurs en elle-möme fort peu probable.

©) Voy. ci-dessus, n. 16.

#1) Je marque l'accent sur l'i, qui manque dans le texte.

82) Cf. ci-dessus, n. 4l.

**) Cette forme avait déjà été proposée par l'auteur en 1884 dans son célèbre article sur les proparoxytons latins en roman (Z. f. rom. Phil., t. VIII). Il remarque à propos de frie, que j'avais expliqué (Rom., VI, 132) par fidicum (et non par fiticum) que «la date recente de la syncope [de la pénultième] s'explique dans fetacum (c'est cette forme qu'il faut prendre pour base) parce que la voyelle atone était un a et non un i.» Mais cette forme invraisemblable (comment s' expliquerait-elle?) est inutile: frie est à fidicum comme

ficatum en roman. 59

mirie à mödicum, grammdrie à grammäticum, ete. M. Meyer- Lübke remarque, il est vrai, que tous les mots de cette classe sont à demi savants, mais il en est de méme de firie, fie, feie, etc. (voy. ci-dessus, n. 43).

*) Sauf dans une note du Nachtrag qui renvoie au $ 44.

**) Ce doute est suggéré par la remarque, indiquée plus haut, de M. Gröber.

*) M. Nyrop, Gramm. histor. de la langue française, I, 8 139, range aussi le déplacement d’accent de ficatum parmi les «cas isolés et inexpliqués ». La grammaire de Schwan-Behrens ne mentionne pas ce mot, non plus que la Cours de grammaire historique de Darme- steter-Sudre.

#1) Zeitschr. f. rom. Phil., t. XXII (1898), p. 488. Le reste de la note est employé à établir qu'aucune forme romane ne postule ficitum ou fiticum avec t, et que le wall. föt représente un ancien fede (voy. ci-dessus, n. 36). Il faut toutefais noter l’abruzz. féteche, qui renvoie à föticum, et peut-être certaines formes relevées plus haut en provençal, languedocien et catalan.

**) Ni pour les formes qui semblent postuler un t (voy. la note précédente).

**) L'affirmation des lexicographes a fait créer en latin moderne un verbe ficare avec participe. Ainsi, dans sa traduction de l’epigramme de l’Anthologie palatine (IX, 487) dont je parlerai plus loin, Dibner rend Sus ouxubéyra par me ficatum.

®) Apicius, De re c quinaria (&d. Schuch, Heid: Iberg, 1867), VII, 263 Dans l'édition de Bâle, 1541, on lit (p. 66): In ficato, hoc est jecinore suis fico saginatae, oenogarum C’est évidemment une gloss, mais qui indique bien qu'il s’agit d'un foie de truie, et c'est ce que remarque aussi Lister dans son édition d'Apicius (Amsterdam, 1709, p. 189).

9) Schuch a donc eu tort de coraprendre jecur anseris. C'est une Opinion qui est devenue courante, et qui se retrouve dans les diction- naires latins et romans, que ficatum désigne essentiellement un foie d'oie: elle se base sur le vers souvent cité d’Horace, Pinguibus et ficis pastum jecur anseris albi; mais si l'on nourrissait des oies avec des figues pour leur développer le foie, on appliquait plus sou- vent encore ce régime aux animaux de l'espèce porcine: voy. cis dessous, n. 69.

#) Voy. plus loin les vers de ce poème.

®) Je n'ai pas le loisir de faire des recherches sur les éléments de ce texte, cità dans le dictionnaire de Forcellini-De Vit. L'édition de Bâle, 1528, porte (f.º 15), comme l'indique ce dictionnaire, figa» tum; cf. ci-dessous, n. 87.

60 G. Paris,

* ) Marcellus Empiricus, éd. Helmreich (Leipzig, 1889), XXII, 34.

%) Cuelius Aurelianus, De significatione diaetarum passionum, ed. V. Rose (Berlin, 1870), p. 234. $ 93: Ex quibus eos quibus ex jecore, hoc est ficatum, sanguis proicitur... Il est à noter que jecur est ici considéré comme un mot tombé en désuétude, qu'il est utile de glo- ser par ficatum.

#) Voy. par ex. les Glossae graeco-latinne du Corpus glossar. la- tin., Il, p. 441; las Hermeneumata Einsidlensia, ıb., Ill, p. 233.

) Comme ja l'ai remarqué plus haut, il est inexact de dire que le sens propre et primitif est celui de « foie d'oie ».

®) Les dictionnaires ne donnent pas ce sens à cvxdm; mais on trouve dins Pollux maria ceouxaouéra.

9, Voy. Pline, VIII, 77, 209, il me semble qu'il faut séparer anserum de inventum par un point et virgule et non par uno siinple virgule: Adhibetur et ars jecori feminarum suum, sicut anserum; inventum M. Apicii ficu arida saginutis, ac salie necatis, re ente mulsi potu dato, Sur las autres passages d'auteurs latins mentionnant cet usage, voy. Forcellini-De Vit et Marquardt, Das Privatleben der Romer, t. II, p. 415.

10) Voy. l’apigramme de Palladas dans l’Anthologie palatine, IX, 487 Ou:y voit que pour agir sur le foie des porcs on les privait de boisson.

11) Je ne vois toutefois cité ni dans le Thesaurus ni ailleurs un exemple de jeg ouxwréy; Corai, dans sa noto sur Élion, p. 316, adinet imag auxwrov comme allunt de soi, mais ne cite aucun en- droit il se trouve. Je ma demande si ovewrdy, comme ficatum, n'a pas été dès l'origine un subatantif. Le Thesaurus porte: « Ev- zwros. 0. Ficatus (inot latin forgé comme je l'ai remarqué ci-dessus, n. 99): o. haa, Ficatum jecur, i. 6. Ficuum esu præparatum, ut Gorr. tradit ex Oribasio. » Mais Gorresius sur Oribase se borne à décrire le procédé d'engraissement des cochons et des oies par des figues sèches, et ne rapporte pas d'exemple de l'udj. auxwzis. Le passage cité ensuite d’Aëtios n'est qu’un abrégée de celui de Galien qui est simplement indiqué à la fin de l'article, et qui contient précisément le mot ovewrey, omis par Aétios. Je ne crois pas inutile de donner ici le passage de Galien tout entier, d'autant plus qu'avec les indications contradictuires des lexicographes j'ai eu quelque peine à le trouver. Il est au ch. 12 du l. III du traité soi recpswy duvauswg (éd. Kühn, t. VI, p. 679). Galien dit que le foie de tous les animaux est un aliment lourd, et ajoute: ‘Auesvoy d'év avraîs, oùx els ndovir uovor, ada xai eis talha to ouxwroy ovouaÿousror Éoti, tis meoanyogias tavens tuygiw énedn nolloy ouxwr Enowr èdudij tov uéhlorros ogur- reduz Cwou rocovroy mavacxevalovaer avrd’ O Howrrovou ovrms EMI tov

ficatum en roman. 61

‘uv oleosa dik vo piosi ta tovrov tov Zulov oxddyyva moiù so» èr sols GAdoss tnaogew di. Fiverar xduetva apar avrev ausive ga- yovros tov Calev mollas loyadas. On voit que suxwzor peut ici tout aussi bien être substantiî que se rapporter à fzep sous-entendu. Quant à l'observation de Foes, qui termine l'article du Thesaurus, et il est dit que ouxwra peut désigner des mets préparés avec des figues et bons pour le foie, elle ne se fonde, si je ne me trompe, que sur des imaginations de médecins de la basse époque, comme Marcellus, qui ont uttribuè au foie de divers animaux des propriétés salutnires, par sympathie, pour le foie humain.

3) Le mot est d'ailleure rarement attesté dans les auteurs ante- rienra à l'époque byzantine.

78) Dans l'ile de Zante on a même gardé le primitif, esxoror ou exoróv: voy. Boissonade, Nut. et extr. des mss., t. XI, p, p. 236.

™) Saumaise dit cependant avec raison, en ce qui concerne l’évo- lution du sens: «Inde Recentiores enxwroy quodlibet jecur appella- runt, et eos imitati Latini, ficatum.»

) Sans parler des nombreux adjactifa tirés directement de sub- stantifs (voy. Cooper, Word Formation in the Roman Sermo plebeius, 8 34), je eitorai les substantifs comme ducollatum, anisatum, sapo- nablun (1d.)

#) Ci-dessus, p. 48.

™) Riese, Anthol. lat., I, p. 143; Behrens, Poet. lat. min., IV, 320.

7) Les deux mas. ont Ydippi ou Hydippi. Heiusius (suivi par Beb- rens) a restituá Oedipodae: mais il me semble que l'i de Ydippi ap- pelle plutôt Oed:padi, forme du dutif attestée en grec.

7?) Les mss. portent Promethei, que les éditeurs ont respecté, et qui peut, comme ine le fait remarquer M. L. Havet, étre un datif; cepandant ja croirais volontiers que, la faute Ydippi ayant fait croire au copist que le premier nom était au génitif, il a changé dans le sacond, Prometheo, le dutif en genitif. Un dat. Promethei est rendu peu probable par le dat. Pentheo du vers suivant. Il est vrai que L. Havet est porté à croire que le second vers est d'un interpolsteur.

*) Voy. Meyer-Lübke, I, 8 17.

#1) Par ex. ocuij (it. osma, roum. urmã, esp. husma), et déjà en lat. spásmus, tállus, schôla, acc., de onacuos, 9addng, ayoAn, etc.

*°) Ainsi zagaßoan > parábola, xoguAds > cd: ylus, etc.

*) Cf. G. Paris, Bibl. de l'École des Chartes, serie, t. II (1865), p. 584, 587.

%) Voy. sur ce mot Mme M, de Vasconcellos dans le Jahrbuch fur rom. Lit, t. XIII, p. 213 ss. M. Meyer-Lübke dit que «goldre de moguros (1. xwprrós) est surprenant»: mais la forme córytus de Si- duine montre la transition. C'est au fond la même chose qu s'est

62 G. Paris,

passée pour les proparoxytons grecs à pénultième longue, comme Eonuos, eidewdor, Bovrùgor, ete., qui chez les classiques sont erêmus, idölum, butyrum, etc., mais qui dans la prononciation populaire étaient érémus, idolum, bulyrum, etc. La surprise de M. Meyer- Lübke vient sans doute de ce que dans les autres mots oxytons qu'il cite, exaouos, dadÃcs, taneswés, il constate que l'accent se reporte simplement en latin sur la pénultiéme; mais pour les deux premiers, qui n'ont que deux syllabes, il ne pouvait en être autrement. Quant à tamesos, il est très douteux qu'il faille le reconnaitre dans lit. tapino, anc, fr, tapin, qu'on ne peut guère séparer du verbe tapir. Je ne trouve pas d'autres exemples du mots grecs uxytons à pénul- tiöme longue qui aient passé en latin et de en roman.

*) Je ne serais pas surpris de rencontrer quelque part une forme sicatum.

*) On ne peut savoir s'il s’agit de ficötum ou de ficótum; la seconde hypothèse est cependant plus probable, cette forme essen- tiellement populaire devant avoir subi l'influence du populaire sy’ cótum plutôt que du classique sycôtum.

7) Elle est donnée par Forcellini-De Vit, qui, après avoir cité la forme figatum, qui est celle des deux seules éditions que j'aie pu consulter (Rome, 1509, et Bale, 1528), ajoute: « Alii autem legunt ficotum. » Cette partie de Plinius Valerianus n'a pas été reproduite dans l'édition de V. Rose.

%) C'est la leçon que porte à deux reprises s lo manuscrit suivi par Mabillon (voy: Du Cange); celui qu'a suivi Ruinart avait fecatum; un autre donne figatum. Les nouveaux Bollandistes ont imprimé fi- catu m d'après le ms. qu'ils jugent le meilleur (Oct., t. X, p. 44, col, 2; ils donnent comme variante de Mabillon, par une faute d'impression, ficolum au lieu de ficotum). Si ficotum ne se trouvait qu'à un seul endroit, on pourrait y voir un simple lapsus de copiste; mais l'existence réelle de cette forme est attestée par le fuit qu'elle figurait deux fois dans le ms. de Mabillon et qu'elle se retrouve dans le ms. de Plinius Valerianus cité par Forcellini-De Vit.

*) Voyez Schuchardt, II, 253-272, 278-287.

*) Quant à la représentation réelle de v par i en latin et en roman, elle me paraît fort douteuse. Les deux seuls mots vraiment popu- laires i roman réponde à v sont cima et girare, et il semble qu'il y ait eu ici influence de la palatale précédente (phénomène qui, il est vrai, ost généralement restreint au français). Sur la transforma- tion de xv grec en qui latin voy. la note de M. Fôrster au v. 3823 de Cligês. Le fr. timbene timbre ne remonte pas au lat. tympänum, mais (comme le montre le changement de p en b) a été emprunté au moyen grec zuunavıw (prononcé timbanon); le lat. tympänum

ficatum en roman. 63

a donne l’anc. prov. tempe (Thomas, Essais de philol., p. 216), l'a. rétin témpono (Salvioni, Nuove postille italiane al vocab. latino-ro- manso); un deriva tympanium survit dans le sarde timpanios (en sarde ii), dans le lecc. tampañu et (avec 0 —v) dans le napol. tompagno (Salvioni, Postille italiane al vocab. latino-romanzo). Quant à martir et autres pareils, ce sont des mots pris au latin du moyen âge, l'y grec se pronongait î. L'it. dmido remonte aussi à des formes médiévales,

%) A cecero (fr. cisne), gesso, que cite M. Meyer-Lübke (I, § 17), avec les mots it. plus modernes ghezzo et gheppio, on peut ajouter par exemple it. trépano (Diez), fr. preveire, freis < phrygium dans orfreis. pr. nerto < myrta, etc.

9º) Voy. Blass, Ueber die Aussprache des Griechischen, Auf. 88 12 et 18, et cf. Schuchardt, é. c.

*) Schuchardt, II, p. 271 (dans l'Ambrosianus de Plaute).

%) Mon ami Louis Havet, qui a bien voulu lire ces pages en épreuve, est porté à tirer une autre conclusion des faits qui y sont consignés. D'ap:ès lui, lo grec sycötum, devenu sy’cötum en latin vulgaire, a été, par une sorte d'étymologie populaire (cfr. choucroúte de sour- croute soucroute], changé en ficdtum (forme que les copistes pos- térieurs ont sans doute souvent remplacée par ficatum). Ce ficdtum, qui présentait une terıninaison inusités, a été accommodé d'une part en ficätum, de l’autre en ficitum, d’oü fiticum, ficidum, etc. Ficätum est postérieur, et résulte d'una influence, plus ou moins ‘savante, des substantifs en -Etuin. Les formes avec 6 pourraient être dues à un vague rapprochement avec faex, à cause de la cous leur ‘lie de vin’ du foie [je crois suffisante l'explication que j'ai donnée, par la prononciation de I'v grec comme i vu oe]. Ce n'est done pas ficätum qui aurait été ‘affolé’ par sy’cötum; c'est sy’cötum qui, sous des actions analogiquos successives, aurait été diversement transformé et aurait abouti à ficEtum en dernier lieu seulement, Cette hypothèse est peut-être préférable à la mienne; je laisse les lecteurs compétents en décider. En tout cas, elle établit, comme la mienne, une série de contaminations" pour expliquer les formes diverses du mot.

HERMANN SUCHIER.

KLEINE BEITRAGE ZUR ROMANISCHEN SPRACHGESCHICIITE.

Da ich zur Zeit nicht in der Lage bin, einen längern Aufsatz auszuarbeiten, widme ich dem verehrten Meister Ascoli sechs kleine Beiträge, die sich nach den Buchstaben seines Namens zu einen Akrostichon ordnen:

fz. Alire Martin.

lat. Slupere.

fz. Chaste chauve large riche. fz. Ogre.

fz. Lai.

A rum. Insenina.

1. fz. Altre Martin.

Aus dem Altfranzésischen ist die Redensart chanter oder parler d'altre Martin bekannt, die Godefroy, Dic- tionnaire V. 188, mit zwélf Stellen belegt, von denen sieben das Verbum chanter, vier das Verbum parler auf- weisen; einmal heisst es d'autre Martin pleidier. Zu diesen zwölf Stellen kann ich noch neun hinzufügen, nämlich: Florence de Rome, in der Hist. litt. xxvı S. 341 (canter) ; Hervi, in der Hist, litt. xxu S. 596 (chanter); Prise d’Orange der Berner Handschrift Bl. 78 Mais ains avront un tel mes

7

66 H. Suchier,

au disner K'autre Martin lor covenra canter; Moniage Guillaume, bei Jonckbloet, Vanden vos Reinaerde, Gronin- gen 1856, S. cxxxvin (chanter); eine andre Stelle der sel- ben Chanson, in der Berner Handschrift Bl. 178c Quant vos escaperes, D'autre Marlin vous convenra parler ; Mi- racles de Nostre Dame par personnages xxıu. 1079 (parler, nach Bonnardots Glossar ist der Ausdruck noch heute im Wallonischen üblich); Roman de Renart, ed. Ernst Martin, I. 402 in den Lesarten (parler); Aliscans, ed. Jonckbloet Bd. II S. 274 Lesarten zu V. 5070 = ed. Rolin Lesarten S. 73 (parler); an einer andern Stelle der selben Chanson heisst es D'autre Martin li covendra suer, Jonckbloet II. S. 249, sicher falsch, da suer kurz vorhersteht und andre Handschriften, bei Rolin S. 20 der Varianten, canter oder parler lesen. Wenn ich die letzte Stelle für das besser beglaubigte chanter rechne, so ist chanter zwölf Mal, par- ler acht Mal belegt.

Die Redensart, die etwa dem Deutschen «andre Saiten aufziehen » entspricht, ist meines Wissens noch unerklärt. Vermuthungen über ihren Ursprung sind von Gachet, Glos- saire roman des Chroniques rimées de Godefroid de Bouil- lon, Brüssel 1859, S. 302-303 und von Gaston Paris in der Romania xıx. 334 Anm. 1 geäussert worden; doch kann das dort Gesagte nicht befriedigen. Auch mit der Stelle einer Lateinischen Predigt (nul autre Martin n’est pour les couvrir, bei Lecoy de la Marche, Le treizième siècle littéraire et scientifique, 1887, S. 136) wiisste ich hier nichts anzufangen.

Ich vermuthe nun dass der Name Martin für das Fremd- wort matire (das heutige matiére) eingesetzt ist. Ob dabei eine Anekdote zu Grunde liegt, oder eine Verwechslung in Munde Ungebildeter, die man der komischen Wirkung halber nachahmte, lasse ich unentschieden. Der Vorgang wirde den von Tobler unter der Rubrik « Verbliimter Ausdruck » (Vermischte Beiträge zur Französischen Gram- matik, zweite Reihe, II 192 fg) gesammelten Erscheinungen

Kleine Beiträge zur Roman. Sprachgeschichte. 67

nicht all zu fern stehen. Diese Erklärung ist mir durch eine Stelle des kürzlich von Stimming herausgegebenen An- glonormannischen Boeve de Haumtone (Halle 1899) nahe gelegt, wo es heisst V. 627: e de autre materie le fra il chaunter.

Ich darf allerdings nicht verschweigen dass auch parler dautre Bernart gesagt wurde. Man liest diese Wendung Roman de Renart, ed. Ernst Martin, I. 1853, und im Re- cueil général des Fabliaux mr S. 259. Die letztere Stelle ist auch von Godefroy, Dict. I. 627, freilich nicht nach der Ausgabe, citiert. Es findet sich auch ein chanter de Bernart, Lai de l’Ombre p. p. Bedier, 814, wo das Wort autre fehlt. Wer meine Erklärung billigt, wird dieses Ber- nart für eine willkürliche Umändrung jener Redensart halten.

2. lat. Stupere.

Nachdem ich in Gröbers Grundriss der Romanischen Philologie I S. 636 das Französische Verbum eslovoir von lat. stupere hergeleitet habe, bin ich mehrmals aufgefordert worden, diese Etymologie näher zu begründen. Ich komme hiermit diesem Wunsche nach. |

Bekanntlich bezeichnet das unpersönliche esiovoir, im Gegensatz zu dem gleichfalls unpersönlichen chaloir und zu dem persönlich gebrauchten devoir, eine äussere oder objective Notwendigkeit, eine Naturnotwendigkeit, einen Zwang dem sich niemand entziehen kann; daher so oft gesagt wird Morir estuet. Die Bedeutung von estuet deckt sich also mit der des heutigen è faut, mit der des lat. necesse est «es ist unabwendlich » (ne-, cedere).

Diese Bedeutung aber lässt sich aus der ursprünglichen Bedeutung des lat. stupere ganz natürlich herleiten. stu- pere heist eigentlich « starr oder unbeweglich sein ». Die

68 H. Suchier,

Bedeutung « staunen» ist nur eine übertragene Anwen- dung dieses Begriffs. Wir hören im Deutschen nicht selten, besonders aus Frauenmunde, die Redensart « ich bin starr » im Sinne von « ich staune », «ich wundre mich ». Dass aber auch die sinnliche Bedeutung «starr sein » im Latei- nischen noch ganz gewöhnlich war, lehrt jedes Lateinische Wörterbuch. Ich füge zu den im Grundriss beigebrachten Beispielen (Ovid, Am. 11. 6, 47 und Martial 1x. 99, 10) hier noch einige weitere, die ich den Worterbiichern von Klotz und Georges entnehme: stupuerunt flumina brumã «im Winter gefroren die Flüsse » Val. Fl. V. 603; stu- pent ubi undae, segne torpescit fretum Seneca, Herc. fur. 763 (767); membra laetitiã stupent ebd. 621 (625); stu- puttque Ixionis orbis « bewegungslos war das Rad des Ixion» Ovid, Metam. x. 142; lorpescunt scorpiones aco- niti tactu stupentque pallentes Plin. xxvII. 2 (2), wo die beiden Verba gleiche Bedeutung haben; cum hic semi- somnus stuperet Cic. in Verr. V. 95. Ferner stupent oculi (unser «starren, anstarren ») Seneca rhet.; animo relictos stupentesque frigida aqua spargere Seneca, wo Georges übersetzt: « Ohnmächtige und Besinnungslose » ; stupentia membra Curtius.

Dass nun stupel «es ist starr» in unpersônlicher Ver- wendung so viel bedeuten kann wie «es ist unabän- derlich», «es ist notwendig », liegt nahe genug. Der Be- deutungsübergang ist um nichts auffallender als der von Diez angenommene und allgemein anerkannte von calet mihi de aliqua re «es ist mir warm um eine Sache» = «es ist mir an einer Sache gelegen.» Wir reden von einer eisernen oder ehernen Notwendigkeit!

Eben so gut wie die Bedeutung stimmen die Laute. Dass % im Vulgärlatein vor p zu offnem à geworden ist, hat eine Parallele in recuevret lat. recuperat, in cueivre (so im Brendan, jetzt cuivre) aus cupreum « Kupfer ». Das b der prov. Form estober beweist dass das Lateinische Etymon p gchabt haben muss. Das Italiânische hat den

Kleine Beiträge zur Roman. Sprachgeschichte. 69

Bedeutungswandel nicht mitgemacht: es kennt die unper- sönliche Verwendung unseres Verbums nicht und besitzt nur das persönliche, wohl halbgelehrte stupire. Merk- würdig ist das it. Adjectiv stupido, da es die Bedeutung « starr » bewahrt hat, die nicht einmal mehr für das lat. stupidus zu belegen ist. -

Auch das lat. stuprum (Notzucht) gehôrt zur Sippe.

Schliesslich führe ich noch an dass der Altfranzösische Infinitiv estoveir im Englischen (estovers und stover « Not- durft ») weiter lebt.

Ich halte die Identität von estovoir mit stupere für vollkommen gesichert, trozt Körting, in dessen Lateinisch- Romanischem Wörterbuch man unter N. 7790 die ver- schiedenen Vermuthungen über den Ursprung des Wortes zusammengestellt findet.

3. fz. Chaste chauve large riche.

Es sei mir gestattet, eine Anmerkung zur Reimpredigt, Halle 1879, S. 73 (zu 58 a) hier zu widerholen, um an dieselbe Betrachtungen anzuknüpfen.

«large existiert im Französischen nur in zweisilbiger Form (daher egl. large), ebenso triste (trotz Diez Gr. 1, 455. Im Leodegar 24º wird statt frist: vid im Französischen Original tristes: vidret gestanden haben). Ein Paar alte Beispiele sind für das zweisilbige large Rol. 305 Brandan 1440 Steinbuch S. 101 Guischart S. 20. Wahrscheinlich liegt eine Uebertragung der weiblichen Form auf das Ma- sculinum vor wie in läche chauve honnéte juste chaste, afr. benigne Wace’s Conc. S. 63 Pred. d. hl. Bernh. S. 526, 557 maligne Oxf. Ps. 5, 5 QLR 60. 61. 74. Job an Greg. Dial. 301, 38. 303, 35. Mousket 6208. Die Worte sind meist gelehrten Ursprungs. Bei rein volksthümlichen Worten ist eine derartige Uebertragung weniger leicht zu begreifen. »

70 H. Suchier,

Die letzte Bemerkung möchte ich jetzt modifizieren : sind auch mehrere der genannten Worte gelehrten Ursprungs, so ist doch bei einigen der volksthümliche Ursprung nicht in Abrede zu stellen; so sicher bei large läche triste. Chaste und chauve aber haben nach dem anlautenden ch zu schliessen gewiss schon seit längerer Zeit Bürger- recht gehabt. Ich rechne aber zu dieser Gruppe auch fz. riche, das sich zum prov. rics f. rica ebenso verhält wie fz. large zu prov. larcs f. larga. Auch crespe prov. cresp gehört dahin. Zu den alten Belegen, die ich anführte, seien noch chastes aus dem Computus des Philipp von Thaon V. 1695 und rices riches aus dem Alexius 3 d, 44 a hinzugebracht. Gaston Paris wollte einmal (Romania vini 448) läche di- rect aus dem Verbum lácher herleiten ; doch dürfte das prov. lasc dagegen sprechen.

Ich glaube nun dass die Neubildung der männlichen Form durch den grossen lautlichen Abstand veranlasst worden ist. Die Sprache reagiert gegen eine all zu weit gehende lautliche Trennung begrifflich zusammengehöriger Formen des selben Systems. Aus diesem Grunde sind No- minative wie bos leo amans aus der Sprache geschwunden ; sie standen nach den Wirkungen des Lautwandels (vgl. fz. *bos *lié *aimes) von den Accusativen buef lion amant zu weit ab und wurden durch Neubildungen aus dem Ac- cusativ mit angehängtem s verdrängt.

Ahnlich lag der Fall bei m. “lars f. large, m. *ris f. riche, m. *chaz (pic. cas) f. chaste. Gerade im Nominativ Sg. gingen die Formen am weitesten aus einander; von diesem Casus wird der Anstoss zur Neubilduag ausgegan- gen sein.

Der Vorgang hat sich zum Theil schon in der vorlitte- rarischen Zeit abgespielt, bei andern Worten ist er jünger. Bei fer ferme, chauf chauve schwanken die Texte, ehe sich die zweite Form für das Masculinum festsetzt. Dem Schwanken zwischen chauf und chaure steht eine Zeit lang ein Schwanken zwischen sauf und sauve zur Seite: sain

Kleine Beitráge zur Roman. Sprachgeschichte. 71

et saulve sagen Rabelais und Brantôme, doch hat sich später das alte sauf wieder befestigt. Dass auch louche lat. luscum (afr. lois f. losche) hierher gehört, hat Gaston Paris Rom. x. 58 gezeigt. Einsilbiges {rist kennt der selbe Gelehrte Rom. xv 616 Anm. 1. just findet sich ausser bei Benoit auch im Dialogus Anime et Rationis (Romania V) und in der noch ungedruckten Altfranzösischen Uebersetzung der Glosa Magistralis.

Für Masculinbildungen auf e würden die Mundarten noch weitere Beispiele liefern; doch will ich an dieser Stelle hierauf nicht eingehen. Ich erwähne nur noch dass auch Nyrop, Könsböjning S. 105 das Problem besprochen hat.

4. fz. Oyre.

Diez leitete das fz. ogre von lat. orcus ab, was Gröber (in Wölfflins Archiv für Lateinische Lexikographie ıv 423) mit Recht für unmöglich erkärte. Nicht besser ist Kör- tings Etymon augur (Lateinisch- Romanisches Wörterbuch N. 5764). Antoine Thomas (im Dictionnaire général de la langue francaise par Hatzfeld et Darmesteter) sagt lakonisch « Origine inconnue », will also keine der in Vorschlag ge- brachten Erklirungen gelten lassen. Und doch wird die, wie ich glaube, richtige Erklärung von Litiré angeführt, wenn auch zu Gunsten der Diezischen Etymologie ver- worfen: die Herleitung aus dem Volksnamen der Ungarn.

Die heidnischen Ungarn fielen im x. Jahrhundert wider- holt in Frankreich ein und verbreiteten auf ihren Raub- zügen Angst und Schrecken. Sie heissen nach Julius Kla- proth, Asia polyglotta, Paris 1823, S. 188, ursprünglich Ugren oder Ugoren, und dieser Name kommt, wie mir Herr Dr. Georg Jacob nachweist, auch mit betontem o vor. So in Onoguren, einer Zusammensetzung mit on zehn. Theophylact und andre Byzantinische Schriftsteller gebrau-

12 H. Suchier,

chen den Volksnamen Oywe, dessen Betonung jedenfalls erst im Griechischen auf die Endsilbe gelegt ist. Mit die- sem Ogor oder Ogur aber befindet sich das Französische ogre in klarer lautlicher Uebereinstimmung. Es darf aber geradezu als ein Beweis für die Richtigkeit dieser Ablei- tung gelten, wenn in den Enfances Godefroi mit den Sach- sen verbündet ein gewisser Ogre auftritt, der als junger Ungar bezeichnet wird. Hierauf hat schon Paulin Paris (Hist. litt. xx, 395) aufmerksam gemacht. Spätere Etymo- logen haben entweder seinen Nachweis übersehen, oder, wie Littré, das Kind mit dem Bade ausgeschüttet.

Õ.

fz. lai.

Thomas führt im Dictionnaire general de la langue française par Hatzfeld et Darmesteter das fz. lai durch Vermittlung des Englischen Wortes lai auf das Altenglische late zurück, das dem got. laik Tanz entsprechen soll. Hiergegen ist einzuwenden dass lai nicht Tanzlied bedeutet, dass das Englische lai (jetzt lay geschrieben) unmöglich ein auslautendes c verloren haben kann und dass die Al- tenglische Form des got. laik nicht laic, sondern Idec lautet. Gaston Paris (La littörature francaise au moyen äge, 2. éd., S. 91) glaubt gleichfalls an Englischen Ursprung des fz. lai, möchte dieses jedoch aus lag herleiten. Ich halte auch dieses für unmöglich. lag ist im Englischen Nordi- sches Lehnwort und kommt nie in einer dem fz. lai naheste- henden Bedeutung vor. Auch würde bei so später Entleh- nung 9 nicht zu è geworden sein, wie das fz. hoge Hügel vom nord. haug beweist (vgl. auch fz. utlage egl. outlaw). lai ist also Keltischen Ursprungs, = ir. laid (gesprochen laid), das, wie im Romanischen, zugleich Lied und Gesang der Vögel bedeutet (d’Arbois de Jubainville, Romania vui 422). Die richtige Erklärung des fz. lai gibt Körting 4634.

Kleine Beiträge zur Roman. Sprachgeschichte 73

Wenn über den Weg der Entlehnung nichts Näheres fest- zustellen ist, so kann diess doch die Etymologie selbst nicht umstossen. [Nachträglich verweise ich auch auf Karl Warnke, Die Lais der Marie de France, zweite Auflage, Halle 1900, S. vi, der gleichfalls den Germanischen Urs- prung des Wortes verwirft.]

6.

A rum. Insenina.

Vielleicht ist schon von Andern darauf hingewiesen worden dass Körting dieses Rumänische Verbum an falscher Stelle eingereiht hat, indem er es zu insignare stellt. Es ist jedoch inserenare oder, was fast auf das gleiche hin- ausläuft, eine Ableitung von rum. senin, das bei ihm richtig zu serenus gesetzt ist.

CARLO SALVIONI.

ETIMOLOGIE.

arcolajo. archiléo.

La prima voce é dal plur. drcora, da sing. drco; plur. che, nella forma dissimilata: drcola!), ritorna nel montal. drcole arcate di ponte o simili, supponendo quindi un fem. sing.: *drcola. Le stecche dell’arcolajo combinate insieme ad arco acuto, o meglio ad ‘archi acuti’, diano ragione e del significato e della derivazione dal plurale (v. Zeitschr. für rom. Phil. XXII 465).

archilgo è voce familiare, cui i vocabolari attribuiscono il significato di ‘mobile vecchio, fuori d'uso e che ingom- bra’ (Rigutini e Fanfani), mobile vecchio inutile’ (Petroc- chi). Quando si pensi al significato di ‘oggetto impaccioso’ e quindi di ‘uomo dappoco’ che son venuti assumendo ne’ dialetti i vocaboli ‘trabiccolo’ ‘treppiedi’, non andremo er- rati, col riconoscere in archiléo come un allotropo di ar- colajo. L'-éo rammenta civeo -ea, e potrebbe del resto ri- portarci al dialetto aretino (cfr. ar. notéo notajo, calendéo calendario, ecc.; e v. Ascoli, Arch. glott. it. II 448, 448 n). Quanto all’: di archi-, si pensa a una attrazione da parte di architrave, archivolto, architetto, e simili.

1) V. l'uguale assimilazione nell’a. lucch. Ze gradola gradinate. Il Ferrari, Origines s. ‘aspo’, ricorda una etimologia non sua secondo cui, l'arcolajo si chiamerebbe così perchè ‘veluti arculam in infe- riori partem habet, in qua glomi reponuntur”.

76 C. Salvioni,

arquillo, arquillare.

Col valore di ‘germoglio, germogliare’ son registrate le due forme nella Raccolta di voci romane e marchiane (Osimo 1768). Se si considera che il concetto di ‘sorgente’ e quello di ‘germoglio’ s'incontrano ne’ tosc. polla vena d’acqua sor- giva, pollare scaturire, da una parte, in pollone, rampollo, sard. rebuddu, dall’altra, e che rampollo rampollare s'ado- perino anzi nell’uno e nell’altro senso, vien ovvia la do- manda, se in -quillare non s'abbia a vedere il ted. quellen a. a. t. quêllen), onde Quelle sorgente. Circa all’i, cfr. il ted. quillen, a tacere che lo si può spiegare agevolmente anche per altre vie.

arzillo!).

Il Parodi (Miscellanea Rossi-Teiss, pp. 337-8) ha con fe- lice pensiero ricondotta questa voce al lat. ASILLUS. S’ap- poggia egli a un arçillo, che col proprio significato di ‘as- sillo’, si legge nel Bestiario moralizzato edito dal Monaci. Lo stesso vocabolo compare nello Statuto di Montelibretti (Roma) pubblicato da Enrico Celani *). Il cap. 192 di que- sto Statuto s’ intitola ‘De animalibus per muscam fugienti- bus’ e vi si dice: ‘si vacca vel alia animalia similia per muscam, arzillum... intrarent in bona alterius, ecc....'. Ed è forse la stessa voce che compare nel roman. o march. arzilla animaletto che rode il grano, la verdura ?).

1) Un valses. arszell (Tonetti) è forse la voce italiana con desinenza sostituita.

*) Lo Statuto del Comune di Montelibretti del sec. XV. Roma, 1893.

8) V. Raccolta di voci romane e marchiane.

Etimologie. 77

attecchire!).

I termini che ci permettono di risolvere la quistione circa alla origine etimologica di questa voce, ci son dati da una parte dal sinonimo milanese tacá dall’altra dal sinonimo veneziano tachir. Dei quali due termini l’uno ci ragione della desinenza -tre, l’altro dimostra la connessione di at- tecchire con attaccare. Ma se questo risale a *TAGICARE, la voce nostra proverrà da *ATTIGICARE.

Lo ste- stichir dell’a. lomb. e dell’a. bellun. (v. le Rime del Cavassico, Gloss.) ?), che ha lo stesso significato di al- tecchire, sarà da *[a]tekir, con s- rafforzativo.

brivido.

Al gr. goéé riconducevan la voce gli etimologisti di vec- chia scuola (Tommaseo, Bolza, Rigutini); a RUVIDUS pen- sava, prima di loro, il Menagio; con brio la riconnetteva il Forster, Zeitsch. f. roman. Philol., V, 99; e, dopo il Pe- trocchi e altri (v. Zambaldi, Voc. et., p. 167), il Rheden (Etymol. Beiträge zum ital. Wörterbuch; nel XXIII Jah- resber. del Ginnasio unito al Seminario di Bressanone, ann. 1898; p. 25) ritorna a FRiaipus. Nessuno di questi tentativi soddisfa 5), nemmeno quello del dotto romanologo di Bonn, che però dati gli elementi di giudizio che s'of- frivano a lui in quel tempo, più degli altri aveva l’aria d'aver côlto nel segno.

1) E di formazione ma non di elimo diverso dall’it. stecchire, cho il Bruckner, Charakteristik der germanischen Elemonte im Italieni- schen (Progr. del Ginnasio di Basilea, 1898-9), p. 8 n, ben manda con (at)tecchire; solo, dopo quanto è detto nel testo, gioverà abbando- nare l'etimo germanico del Diez, e quello dello stesso Bruckner.

*) Il tecchire che rogistrano i vocabb. sarà da attecchire,

*) [V. ora anche il Nigra, nelle Etimologie che vedranno presto la luce nella 3.* disp. del XV vol. dell'Arch. glottol. E godo di vedere cha l'illustre uomo anch'egli trovi cho non sian da scindere bréva e brévat.]

78 C. Salvioni,

I dialetti delle Alpi lombarde conoscono una voce ch'io certo non mi assumerei di staccare dal termine italiano; suona essa brévat -vet o bré- (fem.: brevada o bréwda) in più parti del Ticino, abrét = éi) a Ossasco di Leven- tina, bréval nell’Ossola (per il 1, v. Atti dell’Istituto Lom- bardo, II S., vol. XXX, p. 1514 n), abreit a Poschiavo, abröt fem.- dda *) a Bormio (v. Monti, col. 372; Archivio glott. it. IX 260; De Maria, Curiosità del vernacolo ble- niese, gloss. s. ‘brévet’), e si riode come bréviu nella Val- sesia (v. Tonetti, Diz. valses., s. v.). Il suo significato ge- nerale è quello di ‘abbrividito, intirizzito, attrappito pel freddo”.

Questo *bre'vido *) ha allato a sê, nella regione del Ce- resio, del Lario e dell’ alta Adda, un sostantivo bre'va *), che è il nome di un vento che spira da oriente, e che a Lugano è considerato come apportatore di freddo, a Como come vento caldo *).

») L'ô è qui normalmente da anteriore eu, come bene ha dimo strato, per altri esempi, l'Ascoli; cfr. flôl = *fléul, fievole, ecc.

3) A postulare e’ ci sforzano le forme ticinesi con é (cfr. Romania XXVIII 415); mentre l'é, qui come in bréva, tanto può, secondo norma lombarda, riflettere é quanto e’. L’ostacolo, che da questo e’ sembra venire alla base che noi proponiamo come etimo, si toglie facilmente pensando all'influenza dei quasi sinonimi RìGIDU (e *FRÌGIDU). E il dotto ‘rigido’ ricompare infatti in brigidio che i voc. dânno come voce antica e contadinesca, e nel rimbrigidire di Carmignano (Toscana); v. il Giovan-Battista Basile, I, 52.

*) bröa a Bormio; dove l’ö si dichiarerà forse direttamente dal- l'influenza di abrô’t.

*) A Bormio, è vento di sud, ma può essere freddo. Del resto, questa, di sapere se sia vento caldo o freddo, è quistione relativa- mente oziosa. Lo stesso ‘favonio’ (tosc. fogno) dice, secondo il Fan- fani (Voc. dell'uso toscano), «una burrasca di monte che talora in- ferisce ‘nell’ Apennino ed è vento furioso con nevischio»; e nella col. 805 del Diario di Ser Tommaso di Silvestro notajo (ed. Fumi), si legge questo passo: « sabbalo (gennaio 25) se levò uno favogno freddo ed incomenzò ad carminare verso la sera».

Etimologie. 79

Tanto *bre'vido che bre'va muovono, a veder mio, dal- l’agg. BREVIS. E la connessione loro si può considerare da un doppio punto di vista: o il volgare romanzo conserva il primitivo di quella voce onde s’ ha il superlativo in BRUMA !), e allora bisogna ammettere che il più generale significato di ‘freddo’ sia venuto restringendosi a quello di particolari manifestazioni del freddo; oppure BREVIS s è detto prima della membra attrappite, raccorciate, ‘abbre- viate’ per opera del freddo, e venne poi esteso a altre forme e manifestazioni della frigidità ?). Io propendo per la prima dichiarazione. |

Quanto alla giustificazione fonetica delle diverse forme, essa è già stata in parte fornita. L’i di brivido si ripe- tera da rabbrividire. L'a- di qualche forma lombarda sarà pure da un composto verbale con ad-, composto ch'io non conosco, ma che si vede nel verbo toscano e fors’ anche nell’abruzz. abbrevedatôre fazzoletto che difende il viso dal freddo.

calcestruzzo.

Mi pajon cercate col lanternino le etimologie che di que- sta voce danno lo Zambaldi 193, e il Pieri, Arch. glott. it. XV 214. La verità vera sarà che altro non sia la voce nostra se non un derivato in -wsz0 da una base calcestre, che non par viva più nella Toscana, ma io ho udita più volte in Lombardia (sul Lago Maggiore, e nella Leven- tina; qui: Cawééstru), come aggettivo nel senso di ‘calcare’, e come sostantivo, in quello di ‘sasso calcare?.

*

1) Che BRUMA vada con BREYIS fu prima detto da Varrone, ed è ammesso dai più valorosi e recenti indogermanisti e latinisti, come il Brugmann, l'Osthoff, il Fick. V. soprattutto Lindsay, Die lat. Spra- che, p. 467, e Stolz, Histor. Gramm. d. lat. Sprache, pp. 150, 493.

* Di analoghi trapassi offre esempio STILLICIDIUM, che nel sardo traschia vieno a dire ‘rovajo’. Per il più speciale rapporto tra breva o brivido, cfr. brezza e ri-brezso.

80 C. Salvioni,

La natura della parola ci fa del resto chiedere se la voce toscana non tragga la sua origine dalla Lombardia, e cioè dai maestri comacini.

cascina.

Su questa voce è testè tornato, per incidenza, il D'Ovidio (Note Etimologiche, p. 58, = vol. XXX degli atti della R. Ac- cademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli), e abben- chè il suo fiuto lo renda circospetto, pur si vede che non sa acconciarsi a respingere l’etimo: cAsEU fin qui general- mento ammesso. Sarebbe questo ben seducente dal lato del- l’idea, visto, p. es. che in qualche parte dell Alta Italia ?), cas'éra ‘caciaja’ viene appunto al significato di ‘cascina’, e d’altra parte, ‘cascina’ designa, a Venezia, ‘il luogo dove si manipola il latte’, così come avviene in Toscana. Ma foneticamente, l’equazione s’infrange contro insuperabili osta- coli. Già il tosc. ha cacio di fronte a cascina, una disso- miglianza ben sentita dal D'Ovidio; e che il sc di cascina sia altra cosa da quello dell’arc. cascio, è appunto dimo- strato dall’alto-it. caçina, il cui ¢ stà al tosc. sc (Ss) pre- cisamente come péce, ndce, angòca, stanno a pesce, na- scere, angoscia. Ma il ¢ dell'Alta Italia non può ripetersi da sj, e, appunto in opposizione a caçina, si hanno qui cas'á, -s'éra, -sô, tutti da CASEU. Cfr. anche gen. casina ma cazo[cavallu].

Gli è per tutte queste ragioni, ch'io, toccando appunto della forma alto-italiana in Bollett. st. d. Svizz. ital. XIX 149 s. ‘cassina’, proponevo come base della voce nostra il *cAPSIA, cassa, che vive nel sard. cascia (Guarnerio), nel lucch. cascione cassa *), e fors’ anche nel merid. cd-

1) P. os. a Venezia; e v. ancora Bollett. st. d. Svizz. ital. XIX 149 s. ‘caxeria’. A Parma: caséli cascina (che potrebb'essero da casa) e cassénna cacile.

*) Il Borghini (V. Studi sulla Div. Com. di Gal. Galilei, Vine. Bor- ghini ed altri, a cura di Ott. Gigli, Firenze 1855; p. 238) afferma

Etimologie. 81

scia *). L'evoluzione del significato, per cui già s’ invocava il valtell. scrdna granajo, parmi corra ben liscia; tanto più liscia in quanto un capsus “recinto per bestie selvaggie’ ci è offerto dalle stesso Vocab. latino. La ‘cassa’ sarà stato dapprima la ‘capanna delle bestie’, e da qui gli altri si- gnificati, fino a quello di ‘podere’, che ha assunto in Pie-

monte.

Possibile tuttavia, che una contaminazione tra ‘cacio’ e ‘cassa’ abbia avuto luogo; ma solo nel senso, e in que- gli elementi che un *capsjina già aveva comuni con un *casjina ?).

verzasch. desuglià dipanare, ecc.

Il Parodi, a pp. 238-40 del suo bello e ardimentoso la- voro sul Passaggio di 4 in B ecc. (Romania XXVIII, 177 sgg.), viene a toccare anche di forme come il gen.

v

zua ‘s-volare’ volare, e altre consimili de’ dialetti italiani e ladini, dove dietro a s-, ultima spoglia di Ex-, il v-, già iniziale, è venuto, contro le norme fonetiche, ammutolendo,

di avere udito cascia in un paese del Valdarno superiore. Il piem. cáçia o è di formazione seriore, o risale al prov. caissa, che dev’ es- sere colà la normale evoluzione di capsa. Al prov. si risalire an- che il franc. caisse, ma altri propende a ravvisarvi *cassi-a. Il gen. e merid. Adsa e il cdsa di qualche parte delle Alpi lombarde posson continuare direttamente capsa; ma il gen. casiÿa, e l’alp. casina non si staccheranno dalle altre forme dell'Alta Italia e della Toscana,

1) V. Pieri, Arch. glott. it. XIl 120; il Pieri propende a vedervi un caso isolato di $ da ps. Meglio sarà però muovere, come per ca- scina, da cassj- (cfr. grascia = *grassja).

*) Il mio articoletto era già scritto, quando potei leggere le linee che alla voce nostra consacra il Pieri, Arch. glott. it. XV 149. Del- l'etimo suo il Pieri ha già fatto giustizia lui stesso, col riconoscere che dato il *casjina da lui proposto, il $.sarebbo anormale. [Al- l'ultim'ora il mio carissimo scolaro Clementino Merlo, da cui molto aspettano gli studi nostri, mi rivela che a Cameriano, nel contado novareso, c' è kag cascina. È il nostro capsus tal quale, senza neces- sità di ricorrere a CAPsA!].

82 C. Salvioni,

Agli esempi raccolti dal Parodi!) si possono aggiungere il verzasch. desuglid (Monti; cfr. desvoja ib.), e il grig. zugliar -glier avvolgere, involgere °). Si tratta sempre di svo-, e per quanto gli esempi di vo- (e vü-)in o (e 4) non manchino anche in dialetti che il vo- (vü-) solitamente ri- spettano ?), e si potrebbe quindi da qui muovere per ispie- garci il so- da svo-, l'ipotesi trova tuttavia un forte osta- colo nella circostanza, che, p. es., allato ai composti zud, desugliá, non compajano i primitivi *ud, *uglid.

Il Parodi addita parecchie vie per cui si potrebbe uscire dalla difficoltà 4), ma egli stesso poco ci crede, e modesta- mente affida la soluzione a studiosi più fortunati e acuti.

1) Tralascio i bellun. desölder svolgere, desolentà svogliato, perchè qui la caduta del v di vo- è di più larga ragione (cfr. oler volere).

2) zugliar è da anteriore */in/zugliar, con ns in nz; è cioè un *inu- gliar *invu-, che ha sentito l’influsso di *sugliar = ExvoLv-.

3) Cfr. o e ú (=lomb, vw) vos, che son di più varietà gallo-itali- che è di Gorduno presso Bellinzona), bellinz. 6 vuole, % vuoi, um vogliamo, forme adoperate sempre come servili, valcanobb. uléra vo- leva, var. lomb. ontera volontieri, valses. onga nausea, cioè *vonga *vómica, brissagh. oróbi = *vo- *vERRUBIUM (Parodi, l. c. 239), arb. usendda ‘vicendare’, valsass. lüsenda ‘vicenda’, lusndda * vicinata” assemblea dei vicini, (U = vu- = vi-). Siamo qui, in parte ad accor- ciamenti sintattici, in parte a fenomeni di ‘sandhi’ (la-vonga in la- onga, ecc.), affermatisi poi oltre i loro limiti originari. Del fenomeno, v. anche Meyer-Lübke It. Gramm. $ 171.

4) Egli accampa, fra altro, la possibilità di un antico *EX-OLARE, ecc. L'ipotesi potrebbe convenire tuttalpiù alle forme ladine e al geno- vese zud, dove però rimarrebbe da spiegare la sonora al posto della sorda. Ma per i dialetti veneti e lombardi vorremmo imperiosamente *soldr, ecc. Per renderci conto della sonora, si potrebbe pensare a una risoluzione di sv- analoga a quella cho di s/- si ha ne’ tic. sun- drá sfondare, sö’jra allato a sfó'jra diarrea. Sennonché si tratta qui di fenomeno relativamente fresco, posteriore al s da s impuro; e il tipo s’olar ecc., va del resto ben oltre i limiti geografici del tipo sundrd. Crederei quindi che a spiegarci la sonora giovi ricorrere a un incontro di des- con ex-: Sud sarebbe = *Solare + *des’-olare; e lo stesso sarebbe del ven. solar, visto che qui a $ o a 3 genovesi e la- dini corrispondono ç e s’. |

Etimologie. 83

Più acuto del mio acutissimo amico e collega non sono io certo; più fortunato, questa volta, forse sì. Poichè la soluzione ch’io propongo è ben ovvia e nulla offre di pe- regrino. Si itratta di questo: se *disvogliare non poteva riuscire a desuglid, ben poteva risultare *deuglid da un *devogliare; poichè il v tra vocali di cui una sia labiale è sempre esposto ad evaporare (lomb. edt nipote, tosc. paura, ecc.). Ora se si pensi all'alternare ch'era un giorno tra de- e dis-, e tra dis- e s (5) da Ex- (cfr. dimenticare allato a lomb. desmentegd e a valm. zmantyé; a. gen. disvolgaa divulgata, devegliar e desv- svegliare, dezonzer disgiungere, dethavao, Parodi, Arch. glott. XV 16, 37, a. lomb. desvarte di fronte a grig. davart; e persino, piem. despartüt dappertutto), si intuirà di leggieri che da *deu- glid si sia venuti a desugliá, da *deold *de-volare a s'o- lar, da *deodd *de-vodare a siodar vuotare!).

Una identica soluzione s'impone per altri due piccoli problemi: quello di v o g che compare tra i prefissi des- o S- o in. e una voce verbale cominciate da o- o w (in tali esempi, s'intende, dove allato al derivato in desv- o sv- il dialetto non offra il primitivo con v-): sanfrat. ’ngard io orlo, berg. desvorlà = mil. des’orld levare l’orlo, sanfr. ‘ngurbir ‘inorbire’ acciecare, De Gregorio, Studi glott. I 136, berg. desvusd allato a desüsd disusare, abruzz. sgusd id., svuni disunire (cfr. però vune uno, vunece undici), sgubbedi disubbidire, sgumedi disumidire, grig. sgurdinar disordinare?), dove dunque moveremo da *devorld, *devusà -gusd, *degordinar, ecc.; e quello di go da vo in esempi dove il g- non occorre (come avviene per sgolá allato a gold volare) fuori del composto con in-, des- o s-: mesolc.

!) Le forme come -ugliare potevan del resto prodursi anche in com- posizione can ad- (a-), onde, p. es., *aogliare = *avogliare avvolgere. Lo stesso ragionamento valga per gli altri così considerati nel testo: ausare (piem. eis'é) poteva dare *avusd; *avogliare poteva dare *agojd.

1) Per questa forma, v. però Ascoli, Arch. glott. it. I 61.

84 C. Salvioni,

desgojá sanfrat. sguggher dipanare, sanfr. 'nguoggh rav- volgo, gen. ingògge e desgôgge, march. sgulare vuotare cador. desguôite vuoti (dove però potrebbe già aversi avuto un *guoit vuoto; v. Ascoli, Arch. glott. II 441), che certo avranno trovato davanti a sè: degojd = *devojd, degôgge = *devôgge '). |

Che in tutti questi casi s'abbia prima avuto un primitivo come *vorld, *goja *), lo si può supporre, ma non è vero- simile.

diléggio.

Non mi pare che dopo il Tobler (Zeitschr. fiir rom. Phil. III 576) altri si sia occupato di questa parola. L’e- timo proposto dal Tobler (*dileticare) però più non si regge, soprattutto dopo che il Parodi gli ha sottratto il suffragio che pareva venirgli da laveggio, supposto prima derivato da LEBETICUS. La voce nostra altro non sarà, invece, se non un deverbale da DERIDERE, e più precisamente un de- verbale che, come seggio, séggio-la, ritegno, contegno, tra- veggola (cfr. 10 veggo, ecc.), si risente del tema del pre- sente (DERIDEO). Veramente ci aspetteremmo un *diriggio; ma è troppo facile di rispondere, che questa forma, soprat- tutto dopo derivatone il verbo *diriggiare, poteva, quasi doveva, venire attratta dai numerosi verbi in -eggiare, fra i quali non mancano i sinonimi di dileggiare (cfr. sbef- feggiare, berteggiare). Quanto al | per r, il Tobler stesso non vi vedeva un impaccio per il suo diligione = DERISIO- NEM, e non sarebbe altrimenti isolato (v. Meyer-Liibke, It. Gramm., $ 311º). Ma qui ajutava certamente ‘diletto’, al- tro non essendo il ‘dileggiare’ che un ‘prendersi diletto”, un farsi giuoco di qualcheduno.

*) La cosa è tanto più chiara per il corso inguluppd, piazzaarm. “nguluppé, in quanto gli stia di fronte l’emil. agouloupd, ecc.; v. Fle- chia, Arch. glott. II, 21.

*) V. Meyer-Lübke, It, Gramm., 8 302.

*) Cfr. ancora berg. solu, pav. salón, allato a berg. sorú, mil. sa- rón, sopras. schirun, basso-eng. sarun, siero, mil. olubaga orbacca.

Etimologie. 85

lomb. duvia.

ll Cherubini e il Monti attribuiscono a questa voce il significato di ‘scopa forte di vimini’ ‘granata larga e di lunghe vermene di betulla per ripulire il grano dal tritume delle pagliuche”; e siccome questa granata, come s' è visto è di ‘betulla’, così duvia può in una certa misura sosti tuire la voce che designa questa pianta; onde si dirà legna de duvia (v. Monti, App.) legno di betulla, scova de du- via, ma non più tajd ona duvia per ‘tagliare una betulla ”. Col sostantivo, va di conserva, a Milano, un verbo indevid, ripulire il grano colla duvia, il quale avrà avuto un giorno allato a un *de- o *duvid, onde poi il deverbale du- via. Fuori di Lombardia, ritorna la voce nel montal. vig- ghia, in vigliare ecc., coi significati, di cui il Parodi, Ro- mania XXVII 224, e nel sic. divigghia fascia di virgulti o frutici per uso di scopa nelle aje, nelle stalle, divigghiari scopare, piazz. d'v'gghié togliere la buccia al grasso, d'v'g- ghiôngh barbasso. |

ll De Gregorio, Studi glottologici italiani I 80, ignorando gli etimi del D’Ovidio e del Parodi, ignorando il signifi- cato della voce piazzese e movendo dal senso di sbarbicare una pianta, che la voce divigghiari anche ha nel siciliano, non si perita di vedere in questa voce un *develliare da DEVELLERE !). Ma pure ammesso che la voce siciliana in quest’ultima accezione vada coll’ altro divigghiari, è fuor di dubbio che il significato di ‘sbarbicare’ sarebbe derivato dagli altri. Onde rimangono in campo, oltre a quello del Diez non più sostenibile, l’etimo da viLLus proposto dal D'Ovidio, Arch. glott. it. XIII 419, e quello degli antichi etimologisti (Tramater ed. di Napoli), respinto dal D'Ovidio

1) Caratteristico per il modo di lavorare del De Gregorio, che que- sti a p. 136 degli stessi Studi glott. dimentichi I’ etimo proposto a p. 80, e postuli *olivicula per il sanfrat. divighia fascio di virgulti, o polloni di ulivi per scopare l'aja.

86 C. Salvioni,

e ripreso dal Parodi, da viLe. Confesso di non sapermi decidere, e confesso anche di non capire perchè il rigetto di viLLus sia al Parodi consigliato dal non occorrere nel- l’Alta Italia un verbo corrispondente a vigliare. Muterà egli consiglio, ora ch'io gli offro se non *viá, almeno un indeviá ?

Il Parodi, l. c., manderebbe con vigliare ecc. bidm -Wm rosume, avanzi del fieno nella mangiatoja, loppa del grano. Il tritume del fieno è il ‘fior di fieno’ (cfr. il poschiav. fioretta), e al ted. Blume (m. a. ted. Bluome, masc. e fem.), fiore, è appunto da ricondurre biúm. La forma biam *) starà a questa, come p. es. il friul. (eum a tegame; -úm fu cioè confuso col suffisso -UMEN.

lomb. g'épa bazza.

Si usa la voce nella Lombardia occidentale, ed è tra- dotta dai vocabolaristi per ‘mento lungo e arricciato’. Tut- tavia gli può convenire anche il solo significato di ‘mento sporgente’. Questo valore ci permette di rintracciare l’e- timo di gépa nel germ. *kliba, onde l’aat. klêp, mod. ted. Klippe. Che ‘scoglio’ venga a dire ‘sporgenza’ ‘sporgenza dura’ e quindi ‘mento prominente’, parmi cosa ben liscia.

Dal lato fonetico, l'é lomb. può, in analoga congiuntura, corrispondere a e (cfr. sep ceppo); e quanto al g-, noto solo che il Meyer-Lübke (Zeitsch. für rom. Phil, XX 533-4), non si lascia da esso trattenere a mandare con Kloben il lomb. go'va ?).

1) L'avena trita suscita l’idea dal fior di fieno e della pula. Onde l’abruzz. brame e biame avena.

*) Un sicuro esempio di cl- in gl- mi pare anche il giudic. glava- dule, occ., da CLAVA, per cui v. pure Zeitsch. f. r. phil. XXIII 517. E accanto a éavél, CLAVELLU, il piem. ha g- (Pasquali; v. anche il vallanz. dghiavée; e brianz. giavon glandole enfiate). Arch. glott. it. XII 395.

Elimologie. 87

Non hanno poi nulla a vedere colla base nostra, le va- rie voci che il Körting (4545), appoggiandosi al Diez, vor- rebbe da essa derivare.

giavrina capruggine.

È voce di Bravuogn, dove ha allato a il verbo sgia- vriner. Ognun vede che, come nel significato, così anche nella radice e nella derivazione si corrispondono la voce italiana e la ladina, che quindi gioverà riportare a un an- teriore *cavrina.

bellinz. gu.

L'adoperano nel villaggio di Montecarasso, col significato di ‘luogo’, ma, a quanto mi vien guarentito, soltanto nel modo: in un quaj gu in qualche luogo 1). Devon dunque qui convenire il modo avverbiale in un qua; sit e l’avverbio *algu. Questo algu, o algd io l'ho poi proprio udito a S. Vittore di Mesolcina. Conosco poi anche un valsass. algó”, che dev'essere un *algo’, coll’o’ modificato sotto l’influenza di avverbi di luogo come chiló' qui, e un vallanz. in- sguu (Belli) in qualche luogo, dove ins- si ragguaglia a ‘non so’ e guu alla voce nostra ?). Non può poi algu, cioè *algdve, risalire direttamente a ALICÚBI. (Körting 388, e Nachtrag), che avrebbe dato un succedaneo di *ale'gove, ma sarà un composto novello di o’ve coll’alc- da ALIC(ÚBI).

1) Nel Monti è accolto un bellinz. 960 coll’esempio: fordê nacc al góo?

*) La forma vallanzasca potrebbe anche dichiararsi da non so-g- öve *non so-v-ove, con v estirpatore dell’iato. Ma mi par questa una spiegazione che meno s'accosta al vero, così come nessun assegna- mento è da fare, nel caso nostro, sul nesciocube (nescioubi non ne- sciocube) della App. Probi (Wölfflin’s Arch. XI 331). Per la com- binazione nostra, cfr. ancora il sanvitt. amsgnd in qualche luogo, cioè ‘non so onde’,

88 C. Salvioni,

bresc. nipa neve.

L’ho dal Rosa (Dialetti, Costumi e Tradizioni di Bergamo e Brescia; 3.º ediz., p. 87 ?)), che attribuisce la voce a Bagolino. Vi ravviseremo la bella continuazione popolare di NÍVEA, che sarà così da conservare al Voc. latino-ro- manzo, anche dopo sottrattigli i franc. neige e neiger (Kôr- ting 5621), che il Dict. gén. deriva giustamente da *nivicare.

Per 1’, cfr. il pure bagolin. nif, neve, che m'è dato dal Signor Dott. Zanetti di colà, ed esso è del resto, in questa regione un prodotto normale (berg. nif; giudic. parzif presepe *), bivar bere); ma potrebbe anche singo- larmente dichiararsi dall’influenza dell’? nell’iato.

Per il -p-, cfr. lomb. fópa = FövEA, kdpja = CAVEA, v. Ascoli, Arch. glott. it., I 510.

pad. ni- liselo avello.

ll Gröber, Wölfflin’s Archiv III 514, attribuisce la con- tinuazione popolare di locellus ai soli linguaggi della Francia e della Spagna. La voce padovana mostra come la base sia rappresentata anche in Italia.

Il n- sarà per assimilazione di [-l, assimilazione onde son tanti esempi in Flechia, Arch. Glott. it. II 325 n, Meyer- Lübke, It. Gr. $ 283; Miscellanea nuziale Rossi-Teiss 413, e ai quali si possono aggiungere il veron. sanizololo l’abi- tante di Salizola, il pav. nü- romagn. núvia ugola, cioè #l'u-, Mussafia, Rom, m. $ 169, il mirand. nigrol lucertola, cioê *!- (v. Flechia, Arch. glott. it. III 161), mil. nivél li- vello, brianz. e berg. tribulina, cioè *{ribunina, cappelletta, pad., trev. aliéna antenna, dove forse ha ajutato ‘alto’,

A = _CS;SCr-_—m———tt_——mmmrTpbw@k oe >

1) Nella 1.º ediz., p. 59: nippa.

*) Il Gartner, Judic. Mundart, $ 22, pone questa voce fra gli esempj di è, e la considera quindi come non indigena; ma v. praesépe nelle mie Postille e nelle Nuove Postille al Voc. lat.-rom.

Etimologie. 89

valtell. venudole vilucchio, cioè *vel- = volüta, nap. va- senecola allato a vasel- basilico !).

Circa all’ della sillaba protonica, esso certo non oppone una difficoltà grave. È forse dovuto al pure pad. nivello avello, che trovo nel Ferrari, Origines, s. “albio’; e questo forse è da *nevéllo (var. lomb. nevé!) con a protonico in t, come nel devinare, che il Ferrari, Orig. s. v., attribuisce ai veneti, di fronte all’odierno indevenar dipanare, e ai dovanadoro, devanadora, arcolajo, che lo stesso Ferrari, Orig. s. ‘aspo’, attribuisce ai veneti; v. Mussafia, Beitr. 46 n.

abruzz. rófece orefice.

V. Finamore, Vocab. abr., 2* ediz., p. 46. Più che a una metatesi reciproca fra vocali (“erófece = *oréfece), parmi sia da pensare alla continuazione dell’arcaico aurü- fex, di cui v. Stolz, Hist. Gramm. d. lat. Spr., 79.

lugan. scärla.

Ho udito la voce nel Malcantone, e più precisamente a Miglieglia. Il suo significato è quello del com. cdslo, mil. gasla, arbed. caslet, tosc. casella e castellino, romagn. cd- stol ?), e cioè di ‘tre noci in triangolo, ritte, con appog- giatavi sopra, nel mezzo, una quarta. Dal com. cásio 5),

1) Riverranno qui in fondo il mil. sinivéla cervello (term. di ma- celleria), e tinivgla (cfr. anche piem. tinivela, il cui n poi rifluiva sul primitivo nel monf. tnevra, ancon. tinivello succhiello, sopras. tunvialla, Ascoli, Arch. glott. I 66 n) trivella. Nella Appendix Probi è la glossa: terebra non telebra (v. Wolflin's Archiv XI 319), e que- sta forma assicura una bella antichità al celebro = cerebrum, che, se anche in veste dotta, è o cra ben diffuso per l'Italia (v. anche il cerign. cele)bre Arch. Glott, it. XV 95, il pad. celibrio ingegno). Ma date queste forme, è ovvie che si potessero avere anche *telebella, ecc., onde tinivéla ecc.

*) Questo cdstol, *castlo, è esso estratto da castlet, o rappresenta un *cdslo?

*) Anche l'-a è por ragioni di fonetica generale dol dialetto (V. Bol- lett. st. d. Svizz. ital. XVII 75-6 n). Poichè scdrla è mascolino.

10

90 C. Sulvioni,

non s allontana essa se non per il s- prostetico per cui s'aveva *scasla. I due s-s venivan poi dissimilati per s-r, quindi scarla.

Il fatto della dissimilazione di due sibilanti di sillabe suc- cessive colla riduzione di una di esse a r si cimenta dun- que sempre piu. E il lettore mi conceda che colga 1’ oc- casione per qui raccogliere in uno quelli già studiati in Zeitschrift für rom. phil. XXII 480, XXIII 526, Romania XXVIII 107.

. ven. sirnar = *sis'nar.

. lig. sdernar = *sdesnar desinare.

. levent. slirdi’j = *sluzdiij’ tutteddue. . lomb. Cernusco = *Cesnusco.

piem. s’mürcé = s’müsce.

. vogher. s'broné = *s'bs'oné bisunto.

. imol. sbrostra = sbsostra.

. lugan. scária = *scasla.

PISO Nm

lomb. sko'ka altalena.

Va col tcd. Schaukel altalena, che compare nel m. a. t. come schocke, e si rivede nella. a. t. scoc movimento oscil- latorio. Lo sk- incolume ci attesta l’alta antichità del ger- manismo (v. Klugef s. ‘Schaukel ’).

Va poi forse con skdka altalena, il pur lomb. skoka, cassa, guscio del cocchio, onde skokée chi fabbrica dette casse. La skoka sarebbe ciò che si bilancia, che si libra sulle molle.

vallon. strompe pungolo.

Ne ha testè ragionato il Behrens, a pp. 165-6 de’ Bei- lräge zur rom. Phil. Festgabe für G. Gröber (Stra- sburgo 1899). Egli esclude la base STIMULUS, e propone in sua vece un etimo germanico, come già aveva fatto lo Schneller, Die rom. Volksm. in Südtirol I 254. Ma se le ragioni per escludere l’etimo latino si riducono alle due allegate, se cioè non insorge un ostacolo anche dal p, la

Etimolegie. 9]

‘base latina deve ritenersi ben sicura. Infatti non solo nel dialetto di Malmédy, ma in nessun dialetto romanzo credo sia legge la inserzione di 7 dietro a sf; bensì del fatto occorrono esempi sporadici dappertutto (v. Meyer-Lübke, R. Gr. I 8 586) 1); e appunto tra i riflessi di STIMULU ?) o meglio STUMULU STÚMBULU (v. Meyer-Lübke, It.-Gr. $ 76, e STUMBULUM, STUMULANT, in Schuchardt Vok. III 237), tro- viamo avvenuta l’inserzione, nella forma sarda (sirumbulu) e in quella offertaci dall'antica parafrasi di S. Grisostomo (stronbolo v. Arch. glott. it. XII 435), senza che nell’ uno e nell’altro dialetto l’epentesi appaja normale. L'argo- mento poi del non essere la voce altrimenti documentata ne’ territori gallo-romani, è di quelli che solo acquistan valore in quanto suffraghino altri più poderosi indizi. Da solo non dice nulla, e si provi il Behrens a ricercare quante voci latine si vedon popolarmente continuate in una sola varietà dialettale. j

grig. taschin pecorajo.

Ritorno su questa voce *) dopo averne discorso con ab- bondanza del vol. XX., pp. 150-55, del Bollett. storico d. Svizzera italiana, dove si dimostrava la derivazione da Tr- CINU; vi ritorno per allegare un nuovo esempio cisalpino, che allora m'era sfuggito. Compar questo nel brioso ditirambo

!) per li mi sovvengono questi altri esempi: istra adesso (cfr. ista Arch. glott. it. XII 410) al v. 645 della Maria Egiziaca edita dal Casini in Giorn. di fil. rom. III 89-103, Sistro, nell'a. gen. (Arch. glott. it. XV 11), tosc. astruzia, gestro, chiavistrello Fagiuoli VI 335, cerign. Stranselä’ Stanislao (Arch. glott. it. XV 229), bol. stra- o stalintirs, dove forse influiva il prefisso stra-.

*) La forma con ì si continua nel piom. stémbu, così como si con- tinua l’î di sTIPULA nel pad. e vic. stéula. Non mi paro cioè, quello che forso è da inferiro dalle parolo del Meyer-Lübke (It. Gr. $ 76 n), che sia fuor di luogo l'ammottore la coesistenza dol tipo srü- o del tipo sTi-.

8) Nel Taschen- Wörterbuch der rhatoromanischen Sprache (Coi- ra 1848) del Carisch, compar essa anche come tischin,

92 C. Sulvioni,

in dialetto veneziano su La Polenta, che ha per autore Lodovico Pastò (1746-1806), alla strofa 18* secondo l’ediz. del Gamba (Raccolta di Poesie venez. d'ogni sec., Vene- zia 1845; p. 187), alla 19* secondo quella di G. B. Bolza (in Rivista viennese, fasc. VI, Vienna 1838; pp. 393-416). I tasini son qui nominati fra i gran mangiatori di polenta al cospetto di Dio. Il Gamba, o perchè non capisse la voce o la capisse troppo, non l’accoglie nel glossario; ma il Bolza così la chiosa a piè di pagina: ‘credo alluda ai va- lenti Tesinesi, abitanti di una parte del Tirolo italiano, de- diti al commercio di stampe, con che viaggiavano per tutto il mondo’. Meglio informati del Bolza, sappiamo oggi con sicurezza di che si tratti. Ma, caso curioso, il vocabolo non è accolto in nessun lessico veneto, e anche persone ver- satissime in quel dialetto, come il dott. Cesare Musatti, lo ignorano. Deve quindi ritenersi una voce spenta.

tömpia, ecc.

V. Kôrting 8089. Diez W.4 319, Gröber, Wölfflin’s Arch. VI 123, Meyer-Lübke, Rom. Gramm. II 69.

La forma con J si può attribuire al latino volgare, vi- sto che solo il sardo ({rempa guancia) e il grigione (taim- pra ecc.) continuano il r di TEMPORA. A dichiarare il l, il Meyer-Lübke postula un *tempula «mit Suffixumprä- gung». Io crederci invece che si tratti d'altro. Il lat. ha TEMPLUM nel significato di ‘trave orizzontale del tetto’, e questo valore si continua di qua dall’Alpi nel regg. leimpia, romagn. limpion quel legno che si conficca a traverso so- pra l'estremità de’ correnti per collegarli e reggere gli ul- timi embrici del tetto, vallanz. tampier lungo trave e di- ritto, com. tempiaa travetti dell'armatura in legname d'un tetto, calabr. timpiar soffitta; e v. ancora Lorck, Altberg. Sprachd., pag. 187.

Ora, se si considera che nella Sardegna, la voce can- THERIUS (canlerzu) ha potuto venire al significato di ‘guan- cia” (v. Guarnerio, Arch. glott. it. XIV 391), che scilter,

Etimologie. 93

cioè ‘centina’, è venuto, nel milanese, a quello di ‘volto’ 1), potremo anche ammettere, che nel *remPoLa del lat. vol- gare confluiscano TEMPORA TEMPLA.

aret. viéguelo erpice.

V. le mie Nuove postille al Voc. lat.-romanzo s. vehi- culum”, e Pieri, Arch. glott. it. XV 216, il quale connette pure la voce chianajola colla base latina, ma trova irre- golare il dittongo. Irregolare sì, se suppon necessario che, s’abbia a muovere da un *ve'culum contratto da *vee”- culum; ma non irregolare, se, come credo io, questa con- trazione non era necessaria. La risoluzione che vediamo in récere reicere non è obbligatoria; VEHÍCULUM poteva venire, per *veg’iculum (cfr. traggere = *tragere ecc.), a *vejécolo (cfr. leémo = legitimu, Arch. glott. it. XII 410), e l’e protonico si riduceva poi a î, onde vijécolo vie'colo. Che ie’ poi divenisse ie, si spiega come si suole spiegare Vie di pieno, fievole, ecc.

Verbi in -ccàre.

V. Arch. glott. it. XIV 337-8, 472, XV 107-8 7), Ro- mania XXVIII 98-9; e qui sopra s. ‘attecchire’. Agli esempi qui allegati si possono aggiungere il sic. jiccari, sinonimo di jittari gettare, il com. giecd gettare, che saranno, astra- zion fatta dalla vocal radicale, *jacicare, Questa base ha molto conforto dal valtell. recd (Monti), recere, che a Bor- mio ho io stesso udito come rekd’r (réka), e in cui tanto meno esiteremo a ravvisare un *rejicicare, in quanto la Valtellina stessa e la contermine region ladina conser- vano reicere; v. Ascoli, Arch. glott. it. VII 411; Körting

1) Anche il curioso vascella, mascella, del dialetto reatino (v. Cam- panelli, 72) sarà stato promosso o favorito da un raccostamonto di questo genero.

2) In Arch. glott. it. XV 128, il Nigra stabilisce il ragguaglio cocca = caudica. Gli si posson paragonare il ven. péca = pedica, il lomb. rdca ‘ràdica’, di cui v. in Boll. stor. d. Svizzera italiana, XIX 163, e il basso-ong. cucha = lomb. cydega * cutica”.

94 C. Salvioni, Etimologie.

6786; Postille al Voc. lat. rom. s. ‘reicere’, dov’ é da aggiungere appunto il valtell. (Tirano) rece» 1).

Si può anche chiedere se il franc. allécher non rappre- senti *allicicare, anzi che *allecticare (v. Körting 423, e il Dict. gén.).

vizza vincastro, scudiscio.

Ho il vocabolo dalla già allegata Raccolla di Voci ro- mane e marchiane. La fonetica ammette senz’altro ViTEA, vedo che una difficoltà possa venire dal senso. Che dal significato di ‘viticcio’ tralcio si venisse a quello di ‘verga’ parmi cosà ben normale.

Lo sforzo in ogni modo minore di quello per cui si volesse ravvisare in rizza un caso di accentuazione di quar- tultima (*vilizza = viliccia). V. Ascoli, Arch. glott. it. XIV 341-2, XV 245.

bleniese z’um a bruciacchiare, consumare alla vampa.

È veramente il ‘levare la cima’ col fuoco, e si ricor- dano i significati affini che vengono assumendo il mil. scimd, il toss. cimare, l’a. tosc. dicimare. Colla quale ultima forma andrà veramente la nostra, che si ragguaglia a *ds'umd. *des'umd.; risultando il s’ come il prodotto normale di é tra vocali, e 1’ come dovuto al susseguente m (cfr. blen. a slum a stima).

Per il -s-, v. esempi analoghi, in Zeitschrift für roman. Philol. XXII 469-70, dove si possono aggiungere il sillan. resevvere ricevere, il friul. devóni abbacchiare ‘deponere’, il berg. deisa declività, pendenza, che è come il partie. del degond cadere in giù, che colà si cita s. *defundere”. Il tipo per un tal partic., che si vede anche nell’a. gen. devoso deposto, era dato, come ognun vede, da ascondere- ascoso, respondere-responsus, ecc.

1) Non so che pensaro di agginccare, Arch. glott. it. XIV 338, e del nizz. raca recero.

J. CORNU

prof. de philologio romane à l'Université allemando de Prague.

ESTORIA TROYAA

ACABADA ERA DE MILL ET QUATROCENTOS ET ONZE ANNOS (1373) !)

fol. 54 © Do död que Casandra fazia.

Casandra filla de rey Priamos era ja solta. et quando ela oyeu a gra volta et veu a gra mortaldade da gente que y era ouvera grã pesar en seu coraçõ et dava grides vozes et fazia gra dcó. et dezia assy. « Ay gente mezquiña et per- dida et desavöturada. porque andades enganados de vossa fazéda. Et porque desamades täto vossa vida. que eu vos faço certos que assy como aquestes aqui véédes mortos. assy cöverra atodos de morrer en esta demida. Ay cativos sen vêtura porque vos acordades de fazer algüa paz ou alga amizade elles. ca sse esto nd fazedes. elles derri- barã o Aeleö que he a forteleza do müdo en que vos mays fiades. Ay mezquiiia que pesar an de véér os que divedo ouveren cópaiias ti rricas et ti nobres et ti precadas como aqui ha. quando os virè de cada dia descender et migar en sua onrra. Ay meus amigos et meu[s] naturaes que vetura ti dura ct ti forte. esta gardada pera vas. Et que tantas lagrimas por vos an de séér choradas. se ficar algü do vosso lyñagë que esto possa fazer. Ca certos seede que esto que eu digo. por nehüa cousa pode fa-

1) Extraits du Ms. de la Bibliothèque Nationale do Madrid I - i - 67.

96 J. Cornu,

lyr. mays sse eu primeyramente fora criuda. de todo esto nO passara nehila cousa. mays poys ja o pleito assy esta. nd podemos nos aqui cobrar nehüa cousa do que he perdudo. ante seremos toda via destroydos et astragados pera senpre. O cativos por que fogides et vos nd ydes da terra. Ay deus sefior qual coraçõ sera aquel que podera endurar ta grã pesar. et gra coyta. ffacome maravillada como seme nd parte este coracd per mille lugares. Et mays me valrria ja morrer que nd véér acoyta et o destroymento que veio et véérey. daqui endeäte sobre Troya et sobre los natu- turaes dy. Ay cidade rrica et nobre que desherdamêto et que coyta et mal sobre ti vê. que porla tua mää vêtura seras destroyda. et metida en poder de &emigos. et cofon- duda pera senpre. Maldito seia odia en que Elena foy na- cida. Ca per ela somos et seremos en gran desonrra et en grä coyta. » Esto dezia Casandra moyto amiude. Et avia ja enmaginados os Troyäos en gisa que avid ende gra dultäça et gra medo. Et por ende midarôna enssarrar. en gisa que a nd vissen se ysse cada que quisesse.

fol. 73° Agora leixa a estoria a falar desto por côtar como Brecaida fezo seu ddd.

Ja avedes oydo como el rrey Priamos avia prometudo aos Gregos Brecayda. et aqui afirma Dayres. que Troylos a amava mays que assy méésmo. Et avia grã pesar et grã coyta por que a queriã levar pera aoste. que el avia en ela posto todo seu amor et todo seu coydado. et ela outro tal ael. Et fazia por ela tito que mays podia. Et esto nd era cousa encuberta que todos ossabiã. mays quando ela soubo que en toda gisa lle converria leixar avila et yrsse perda oste. ouvo ende grã pesar et grà coyta êno coracò. qual nica ouvera des que naçera nôno podia aver mayor. Et ta gra deseio avia de Troylos que nica quedava chorado et dando grades sospiros. Et en queixan-

Esloria Troyda. 97 dosse dezia «como avötura foy desmesurada et esquiva cötra ml. en querer que eu seia desterrada da cidade en que naçi. et partirme de aqueles que foy criada. et da cousa do müdo que eu mays amo. Et yrme pera hu co- fiosco rrey còde duque outro homen que me faça onrra ben. et des oie mays os meus ollos nüca sse en- xugarã chorädo et senpre viverey triste et sen prazer. Ay meu senör et meu amigo Troylos et que sera [fol. 747º] da asperança que en vos avia et do vosso amor moy grade. Ca sen falla nüca &no müdo sera cousa que vos tito de coracò ame como eu. Et moyto devo desamar aelrrey Pria- mos. Ca moy grã pesar me fezo quen me assy enviou da vila. et seme os deuses dessen amorte ante da manää. en esto seyria da coyta et do pesar en qua sóó. »

Como Troylos et Brecayda fazià seu ddd quando se partiã.

Aquela noyte vão Troylos véér Breçayda et albergarö anbos. et cada hi queria cöfortar ao outro do pesar e da coyta quelle viia aver et podia. Ca ben sabia en toda gisa que sol que odia fosse claro, seriã partidos pera senpre. En gisa que nüca jamays averyan dessy prazer. folgura assy como soyan. Mays toda aquela noyte passarò asseu talöte. Et cd gra coyta que avit ênos corações quando Îles nè- brava quesse aviã a partir. Seyanlles as lagrimas pelas faces. et aly avia orgullo vergonça nehtia. Ante mal- dizia aquênos metera en tal coyta et en tal pesar. et o que partira ta grade amor. Et des ay desamou Troylos mays mortalmente os Gregos. Et lles fezo caramente côprar assayda de Breçayda. Ca mays de mill cavaleyros tomarô por ende morte suas mãos. Et rreceava al ja tito como véér viir amanda. Et ben Iles semellou que des que na- ceri nica vira noyte ti pequena.

11

98 J. Cornu,

Dos gornymentos de Brecayda.

Outro dia de manda depoys que o dia foy claro. ouveron sse anbos departir querendo ou nö. mays esto fezeron el- les moy grà pesar. Como aqueles quesse moy de co- racò amava. Et adonzela sse gorneu moy ben omays apo- stamente que podo. pera yrsse. pero moyto côtra sua voon- tade. Et poso en suas maletas seu aver. et vesteusse moy rricamente et quero vos dizer como. Ela vesteu logo brial moy nobre que era de moy fremoso panno aque deziä diaspe cd listas de ouro metido. Et era forrado en penna armiña. et arrastravalle del per terra hia moy gra partida. et ti ben lle estava. que esto era hüa gra mara- villa. Depoys cobria mato de tal panno diz aestoria, que este foy o pino mays maravilloso que &no müdo foy feyto. Et fezerôno hüas encätadores da torre de India per ti gra mãéstria et per tal maneyra que sete vezes ëno dia se tornava de outras colores moy diverssas. Ca el pa- rescia hüa vez vermello como hüa rrosa moy vermella. Outra vez parescia bräco como hüa frol de lilio. Outra vez amarelo. outra vez Indio. outra vez preto. Outra vez color de ceo. outra vez de tamafia mezcladura et ta fre- mosa que grã maravilla era. Demays avia en el semellan- cas et feguras de quantas animalias et bestias &no müdo son. Et en todo o tenpo era fresco et fremoso tãto que nd podia mays. Talera omãto da donzela qual vos eu dixe. Et hi gra mä£fstre de terra de India que ensynara adon Col- cos gra têpo. lle enviara este mato. et todos os queo viian qual era et per qual manera et per qual engefio fora feito tiinäho por gra maravilla. [fol. 747º] mays pero cd todo esto apenna do mito mays precada et mays maravil- losa era que outra que nüca homen visse. Ca ela era en ssy enteyra que en ela toda nd avia peça costura. Et diz aestoria que era de hüa besta aque deziã védia- los et vive en terra de ouriente. Et como quer que apel

Estoria Troyãa. 99 dela moyto valia et seia de grã prez. moyto mays val o osso et de mayor preço he. Et apel he tal quenüca deus &no müdo fezo erva frol rrosa que éno müdo viva de color que en ela achassen. sea catar quises- sen. Et hia gente salvag3 que ha côtra ouriete en terra de Genofoli moy layda. et de feytura moy estraya. pren- den estas bestas a moy grade affan et a moy gra perigóó et moy poucas vezes. Et dizervos ey en qual maneyra. En aquela terra en que elas vivö son as caéturas grä- des et ti sen mesura. que aqueles que alo van apoucas nd arden. et y ha arvol outra cousa hu possan achar soöbra. Et aqueles que alo van tomä rramos de balssamo et levänos de que fazê cabanas en que sse asconden todos moy ben. En gisa que quen êna cabana nd entrar nd vééra deles nada. Et a besta quando chega aly caétura grade que ha quando véé aquela soöbra. ha êno müdo morte peligro nd danno que rrecéé vééra cousa de quesse tema. Et vaysse deytar en aquela soöbra por dormir et por folgar. Et aquel que estonce jaz ascondudo êna ca- bana mata aquela besta. Et ads vezes ende apeligro por la caötura que he grade. Et apenna do mãto que he gride desta donzela. he da pel desta besta. como vos ey cötado. Sabede que no mido nd ha encenco frol nd balssamo nd outra cousa, que ti boa odor aia. Como esta penna. Et apenna he mays delgada que hüa penna armiña. Et a ourela do mãto era de hüa besta que vive êno pa- rayso terreal. que he gotada de gotas indias e jalnes. Et son caras et ti poucas. que diz aestoria que níica ende forö achadas ata dez. Et os teixelos do mato ford de rro- biis moy craros et moy preçados. et tan preçiosos erã que nica foy homen que nobres vise,

Como se Breçaida espedeu da cidade.

Breçayda assy guarnida et apostada assy como vos ey cötado. espedeusse da rreyna Ecuba et das outras donas.

100 J. Cornu,

et pesou moyto atodos de sua yda. et senaladamente por quesse quitava de sua cdpafia. et a Elena mays que atodas et chorava moyto cd gra coyta et gra pesar. que avia de sua partida. Ca moyto era adonzela cortesa et ensynada, Et quantos aviian yr. todos avid ta gra pe- sar que mayor nd podiã. Desy cavalgou en cima de hu palafren moy bod et ta precado que foy quen mellor visse. Et seyrò ela tres dos fillos del rrey. et seme algö pregütar quaes erä eu llos dyrey. Ca era Troylos, et Dey- febus. et Pares. Et Troylos atomou pela rredea sospirädo moyto. et foy falando c3 ela ataque topard os da oste. quea viinã rreçeber. Et quandosse ela ouvo a partir de Troylos. ben coydava amorrer cd deseios et cd coydado del. Et rrogoulle moy de coracò que olvidasse osseu amor. Et ela ja enmötre &no mido vivesse acharia outro amor sééria amiga [fol. 75"º] doutro. Et que en nehü tenpo nüca outro dela poderia aver plazer solaz. mays en esto m3teu como aestoria cota adeäte. Et Troylos lle disso « amiga eu vos rrogo quanto posso que seme vos algi tenpo ben quisestes que agora paresca. Ca eu quero que o vosso amor mige desperesca. mays quero que dessoy mays toda via seia mayor. Et eu vos juro et prometo que nilca migara por m7 sera ja mays por outra canbeado. » Et esto jurarö anbos ante quesse partissö. Et durou entre elles esta jura ata que ela foy fora da vila e quea rreçe- berô os Gregos en seu poder.

Com» Diomedes rrogou a Breçayda queo Recebe[sse] por amigo.

Quando Breçayda foy fora da cibdade. seyoa arreceber Diomedes. et Talamô et Hulixas et Ajas. et Menesteus et outros ben çêto et quareéta cavaleyros böös. que os que mays pouco valyã erã rreys et cödes et duques. mays ela ya ti de coracò chorido que avia cousa quea podesse cOfortar. Ca avia gra pesar por que sse partia de Troylos.

Estoria Troyãa. 101 Et Troylos de sua parte ya triste et td coytado. que esto era hüa gra maravilla. Et quando sse anbos ouveron apartir nösse poderd falar. pero partiròsse de aly ssen outro espedimêto. Diomedes foy logo tomar adonzela pela rredea. Et depoys que foy indo começoulle Diomedes tal rrazô. « Par deus senöra grä dereito faz aquel que ha vosso amor sesse del moyto preça. Et eu terria queme fazia deus | moyto ben. sse ovosso coracd ouvesse assy como vos ave- des omeu. Et que eu senpre fosse vosso en todoslos dias da mia vida. Et sefiora rrogovos queme rreçebades por vosso caualeyro et por vosso amigo. et averedes en mi hi leal vassalo. Et seo fazer quiserdes ben vos digo que tito afan ey de sofrer por vosso amor ata que esto cobre de vos. Mays de hia cousa ey gra pavor. que vos per avë- tura desamades moyto anossa gente. Et vos amades moyto os de Troya et fazedes gisado et fostes entre elles criada. mays quanto por esto nd devedes aséér sospeyta. Ca moy- tas vezes oy falar de moytos que nica sse virã sse cofiosçerã. quesse depoys quiserö gra ben. Et esto moyto agina pode conteçer. Outra cousa vos dyrey. sabede que nica ja mays amey dona donzela en esta rrazô. mays agora ben veio et entêdo que o amor me tira pera vos. et quer que seia eu vosso en toda gisa. et nd he sen rrazd que sey êno mido homen que avossa beldade veia que nd aia gra taléte de vos servir et de vos amar et desse cha- mar vosso. Et des oie mays todo meu amor et toda mia asperanca poño en vos. Et ja mays nlica sera alegria en meu coracò ataque certa seia de vosso amor. et de vosso ben et pecovos merçéé que vos nd pese némo tefiades por mal. por villania esto quevos rrogo. Et seme rreçeberdes por vosso amigo nica vos ende verra send onrra. et eu ben entödo que moy precado deve séér aquel que meresçer deve ovosso amor. Mays eu des aqui me outorgo por vosso cavaleyro et por vosso vassalo. et vos rrecebede me por vosso. Ca vos sodes aprimeyra aque eu tal rrogo rrogey. et seredos apostremeyra. Et ja deus nüca queyra queme eu

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traballe de amar de servir outra Et assy sera sse deus [fol. 75°] quiser. Et sabede que sse eu ovosso amor poder aver. degisa ossaberey gardar que nfica ja mays rrecebades torto. nd oyredes dizer nd rretraher cousa quevos despraza. Et porque vos eu agora veio triste. agiña coydo de fazer tito por vosso amor. por que vos seredes moy leda et moy pagada. et todo meu coydado des oie mays sera en fazer todas las cousas que entöder que serã vosso serviço. mays seäora traballo perdudo he. amar homen et servir aquela que por el nd da nehüa cousa. Et por ende praza vos que seia eu vosso cavaleyro outorgada- mente. »

Como Breçayda rrespondeu a Diomedes

Brecayda que era moy sisuda et moy pääcää. rrespon- deulle moy sisudamente. et dissolle assy. « Sefior cavaleyro he dereito rrazô de eu falar agora cd vosco en amor outro nehü. Ca vos méésmo seriades aquel queme terriades por aviltada et por mää. et outro tal fa- ria quen quer que o oysse. Et eu ben oy et entêdi por quanto vos prouvo de dizer. et sse assy he como vos dissestes esto nd sey eu. Et ja por esta maneyra moytas donas et donzelas rreçeben grã dino por engano dos falssos amadores. et grave cousa he de cofioscer oleal amador. Ca por hi sòò que seia verdadeyro. sson moytos outros en que nd ha verdade. Et eu nd queria sse podesse séér por vos enganada. Ca eu leixey moy b66 amigo et leal. Et nica ja en quanto viva outro tal poderey cobrar. et querialle grã ben etela mi. Et leyxey a terra et as gentes que fora criada et enque avia grade onrra et grã rriqueza et todas las cousas en que avia prazer. Et agora estou fora de todo esto. Et por ende he tôpo de falar en amor, Et demays ben vos digo e böno entendedes vos. que nd ha dona nd donzela que sse ti agia vencesse, que por ende méos fosse preçada. que veio eu que aqueles que tragen

Estoria Troyda. 103

seu feito amays cordamente et mays encuberto que poden. que aduro sse poden encobrir gardar que dis vezes deles nd posfacê. Et por ende eu ben me gardarey sse deus quiser. Et vos sodes bòò cavaleyro et ta preçado et ta pääcäo per como me ami semella. que eu queria per nehila maneyra que entédessedes demi cousa desagi- sada. Et ben veio que nd ha êno müdo donzela ta fre- mosa de grä prez que amar quisesse äälgü que vos leyxar quisesse. entendades que vos eu leixo por outra rrazö. send porque ey taléte nd vddntade de tomar en- tededor. Mays de hüa cousa sééde ben seguro. que sse mia vööntade fosse de amar algü. que ha ëno müdo homen que ante quisesse por amigo mays amasse que avos. »

Como Diomedes respondeu a Breçaida.

Des que Breçaida sua rrazô ouvo acabada. ben entêdeu Diomedes que ela era de boa rrazô et dissolle assy. « Se- Nora como quer que vos plaz de falar en este pleito. A vos dou meu coracd et poïño en vos mia asperança. et amarvos ey senpre de amor verdadeyro. asperando envos mercéé. et que averedes de mi düö. et me tomaredes por vosso leal amigo. Ca eu por nehüa maneyra nd sey posso contradizer. [fol. 76°] ao amor que quer que eu seia vosso quito daqui adeäte Et esto nego nega- rey jamays et querrey servilo. de coracò et de vööntade, et el me dara galardon devos ca outra dona donzela nölle demädo. Et sse desto nd oposso aver. ja mays en quanto viva nüca o servirey. Et sse devos ouvesse algü synal de amor. ben terria que en toda esta oste avia mays rrico cavaleyro que eu.» Diomedes mays quisera di- zer mays chegavässe ja tito das têdas quelle podia falar assua vööntade. et quando veu que sse avia ja de partir travoulle êna mão et tomoulle hüa luva. encu- bertamente queo nd entédeu nehü ossoubo. àela nôlle pesou ponto. Et el ouvo ende gra prazer que

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poderia mayor. Quando Brecayda chegou ads tendas Colcos seu padre seyo arrecebela et foy ela moy ledo et abracoa moyto et ela ael. Et desy apartaròsse anbos afalar de còsun. Et ela lle disso assy. « Padre sefior vos fezestes cousa moy mada et moy desagisada amaravilla. et que vos en todo tépo sera rretrauda et rosfaçada. Ca vos leixastes os vossos amigos et as vossas grädes rriquezas que aviades en Troya. et vééstes vos pera vossos éemigos mortaes que astragã et arroubã a terra onde sodes natural. et demays ajudadelos pera séér ende deytado et deserdado aquel que senpre ende foy seüor. Et facome maravillada en como vosso coracò pode sofrer en séér ajudador en tal obra, Ou que he do vosso syso que as gentes dizê que aviedes. Et eu növoslo negarey sabede que sodes ende moy mal posfacado. et esto he moy gra dereito. Ca vos erades entre elles bispo et sefior et maestre como he co- stume de nossa ley. et sen falla grã vergonça vos foy. Ca deviades mays de rreçear amorte que avergonça. Ca todoslos homens do müdo cdué de morrer. Ca he cousa natural et comunal de todos. et aquel que morre onrrado et cd boa fama do mado. aquel he ben avéturado. Ca assua alma vay pera gra prazer et gra viço. et senpre vivera en alegria et en ben. et oque morre mao preço deste müdo êno outro sééra aontado. et escarnudo êno inferno cd gra dereito. Et demI vos digo que ja senpre serey triste en quanto viva. porque os dioses do inferno vos fezeron tal escarno et tal mal porque rreçebestes taes ontas et taes dänos. Et poys vossa vööntade era de tornar äävila. gra crualdade fezestes devos yr peraos Gregos et ajudarlos cótra vossos amigos. Et moyto vos valera mays devos yr folgar a hiia inssoa do mar, ata que esta cerca ouvesse aquela fin que deue de aver. Et Don Apolo fezo moy mal, que vos deu tal rreposta. et sevos el esto mädou fazer penssou devos moy mal. Et malditos seià os Gregos et os proverbeos que vos an tornado atã grã desonrra. et vos assy an deson- rrado, Et aquel que perde aonrra deste müdo des estonçe

Estorıa Troyäa. 105

deve de precar pouco sua vida et cobiicar sua morte. » Desy começou a chorar fortemente en gisa que o coraçõ selle encarrou en tal maneyra que sol vervo podo dizer.

Como Colcos rrespondeu a sua filla Brecaida.

(fol. 767º] Depoys que Breçayda sua rrazô ouvo acabada seu padre lle rrespondeu assy. «Eu queria por nehüa maneyra que esta avötura mia fosse. Ca poderia séér que eu ende nd fosse moy culpado et moy desdito. may[s] eu por nehüa gisa aposso leixar. que posso assafiar os dioses. et nd ouso côtradizer assua vööntade. Ca me po- deria viir ende grã mal. solamente por me partir ende. Et per forca me cöuö de fazer esto et viir me aco poys mo Apolo mädou. et eu por seu mädado estou aqui. Et nica cousa fige tito contra mia vööntade. Et por esto devo séér desamado posfacado de nehü. Ca se porla mia vööntade fosse esto feito doutra gisa se faria. Et sabe nihü amia grã coyta. que eu por esto sofro de cada dia. Et sse eu ta louco quisesse séér que fezesse cousa que aos dioses prouvesse oulles quisesse séér côtrario. dulto que elles prenderiã de mi viganca. Demays que eu foy certo de todo en todo que ey de véér os Troyãos destroy- dos et cofondudos. Et por ende mays me val guareçer aca que perecer alo elles. ca sen falla an de séér vécudos et presos et destroydos pera senpre que” poden esto estraecer nélles pode moyto tardar. Ca os dioses o an pro- metido. Et sabede mia filla que avia outra coyta ta- mafia senò como vos averya ende fora. Et esto era todo meu penssamento. Et poys vos ja aco migo tefio nd averey que temer.» Estonce sse chegavã os da oste pera véér a Brecayda et catavina moyto. Et maravillavässe como era fremosa et de bon tallo. Et Diomedes foy ela ata que desceu en tendillon. moy rrico que fora del rrey Farò. aquel que sse perdeu èno mar rruvio. quando

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ya en pus os Judeus. Et derallo seu cufiado porlle demo- strar per el a fegura do müdo. Et de todas las cousas estrayas et maravillosas que éno müdo son. et como et por qual rrazö omar he alto et omüdo hu esta et quêno sofre et como saé os vêtos et como chove as chuvias et as estre- las como sse movê 6no ceo et avertude delas. Et outras cousas moytas que seria grä detéemento et gra maravilla de cotar. Et este tendillon fora cdprado por moy grade aver. Ca era nobre et ta estrayo que èno müdo nüca foy mellor. ha homen êno mado sotil ta sabedor que podesse dizer en lati en rromäco as feyturas et as ma- ravillas et as vertudes que en el avia. Et por ende cöven de detöer rrazò sobre este feito. que moyto al téemos enque falar. Quando Breçayda chegou ao tendillon Diome- des deceoa do palafren. et moyto amiude perdia sua color co grade amor de que era preso. Desy espedeusselle et parteusse dela moyto aduro. Et logo chegarô y os grades sefiores da oste avéérla. et todos la catavã et sse maravil- lavä como era fremosa et de bon talen. Et preguntavalle por novas. et ela rrespondia moy sisudamente et en moy poucas palavras. en gisa que todos sse pagavã moyto dela et de como falava. et todos la onrravã moyto et a côfor- tava. Et desoy mays lle yra a ela moy mellor que ela nd coydava [fol. 77 ®] penssava. Et ante que tercer dia seia nd avera deseio da cidade dos que en ela mora.

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fol. 79 °° Como Diomedes tomou o cavalo a Troylos et enviou a Breçayda.

Estando este torneo en tal peso. chegou Diomedes et tragia cösygo tres mille cavaleyros. et viinã todos moy ben armados et moyto avivados de ferir. en seus escudos en- braçados et suas lanças ênas mãos. et seus elmos postos. Et ford todos ferir en hi tropel aos de Troya. et moytos deles britarö suas lanças et faziä moyto por mostrar sua

Estoria Troyàa. 107

cavalaria et de levarö ende gra prez. et outros moytos perderô y os corpos. et moytos sacarö ende moytos höös cavalos. et outros moytos ford ende derribados deles. mays pero os Troyãos forö ende mal treytos. et alongados do cäpo per força ben dous treytos de béésta. mays gra danno fezeron ante y aos Gregos. Et Diomedes et Troylos que sse desamava. porla donzela que fora levada ää oste. quando sse vird et sse cofioscerd. leixard correr os cavalos assy. et fordsse ferir 6nos escudos de toda sua forga. et Troylos foy en terra. et Diomedes lle tomou o cavalo et deo ahi donzel que era fillo de Taris de Pedra lada. et dissolle assy. « vayte dis tédas quanto poderes et vay ao tödillon de Col- cos. et di a Breçayda que y acharas. que eulle enbio este cavalo que gááiiey de hii cavaleyro. quesse andava enfin- gindo et gabando que estava dela moy namorado. Et dille quelle envio rrogar que tome safia noio desto quelle eu envio dizer. Ca ben certa seia que ela he meu ben et meu amor. » Estonce tomou o donzel o cavalo et foysse quanto podo et chegou ao tendillon de Colcos que era moy rrico et moy nobre como aestoria cita. Et logo que chegou en- trou êno tendillon. Et soudou adonzela de parte de seu se- fior. Et dissolle assy. « Meu sefior vos envia este cavalo que agora tomou a Troylos èna batalla por quesse andava devos gabando. Et el por ende fezo esporoada escontra el como eu vi. et derribòò do caualo. et matoulle cavaleiros dos mellores que el tragia. Et mädavos dizer per mi que el he vosso vassalo et vosso cavaleyro todo enteyramente et por vosso anda.» Adonzela tomou estonce o cavalo pela rredea. et dyssolle assy ao donzel. « vay et dy ateu sefior que se me el ben quer como [fol. 79°] diz. quemo de- mostra moy mal. Ca devia a fazer danno noio a Troyäos. ante devia äämar aqueles que fossen de nossa parte. Et se el esto fezesse senpre lle ende ben verria, et eu ben sey que ante que passe o quarto dia. ante eu oyrey novas sse ouver quen mas diga. que Troylos végou ben sua desonrra. et cobrou ben esta perda. et mays che

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digo. nd era Troylos vilão pera séér assy rroubado pefiorado de nehü. Ca ben sey que Eno müdo ha mellor cavaleyro que el. Et seguramente que el querra séér ben entregado deste pefior et tal llo coydara atoller. quello cöprara moy caramente. tornate pera teu sefior et soudamo moyto. et dille que se me el quer ben. que eu faria torto selle mal quisesse quando mo el mays mercesse. pero aynda tamafio ben nôlle quero por quelle ael mellor vää do que ante lle ya. Et o donzel sse parteu dela. et tor- nousse dábatalla. » En todo esto diz o conto que era aba- talla ta ferida que moytos cödes et duques et infanções et outros cavaleyros grades et böös et de gra gisa ficard y mortos. Et aly chegou Pares todos los Perssãos et viinã moy passo et seus arquos tédidos. et ferirò moy bravamente nos Gregos. Mays elles sofrerôno moy ben. et foy aly otorneo moy ferido et moyto ävolto. mays pero os Troyãos fezeron tato de armas que aquela vez queos Gregos nd opoderö mays endurar. et ouveron de leyxar o cäpo mal seu grado. Et forö cötra as têdas. Et yndo elles assy 'vencidos et desbaratados. chegou Agamend cd dez mille cavaleyros folgados que viinã todos moy ben armados et seus elmos de Pavia enlacados. et ben cubertos de seus escudos. et tragiã suas lanças abaixadas et ford ferir ênos de Troya. et começarônos aenpuxar. et aly véériades que- brätar moytos escudos. et falssar moytas lorigas et moytos perpontos et despedacar moytos costados. Et aly véériades | quebrar moytos arcdes et moytos cavalos andar sen sefiores et neh ndnos tomava. Et còta Dayres queo viia. que Troyãos querendo ou ouveron per força de leixar ocãpo. et levarônos assy os Gregos ata as barreyras. Et Polidamas fillo de Antenor et el rrey Fion fillo de Dulgos chegarö aly moy esforçados et ford y moy bdds et fezeron cobrar aos seus. mays ante ouvo y moytos cavaleyros mortos et de gra prez et outra moyta gente que era sen cita. et forò y dados moytos colpes et feitas moytas cavalarias estremadas. et durard öno torneo ata a tarde et foy oc&po

Estoria Troyàa. 109

ta chão dos mortos. que as donas et as donzelas que estavã önas torres et önos andameos ben podiã véér quanto sse fazia. Pero per entre todos Polidamas foy moy böö et soffreu moyto aquela vez. Et alglias estavä aly que paravã ben mötes en quanto el fazia pero encobriäno ben. que sol nd faziä senbräte queo viian. Et andando en aquesto encô- trousse Diomedes. et ouveron entressy hüa justa moy forte et moy danosa. Et toste que sse virô forôsse ferir et quebratarò en ssy as lanças et ficarô anbos |fol. 80 7º] mal chagados. pero Diomedes foy peor chagado et derribado en terra o cavalo sobre el. Et o cavalo sse ergeu ante que Diomedes. et Polidamas otomou pela rredea et olevou que era moy bòò et moy preçado. Desy chamou hi seu escu- deyro. et enviö) cd el a Troylos. Ei diz Dayres que ben ford quintos cavaleyros os que vird este torneo. et sse pagarò ende moyto. Et algüüs estavã ênos adarves que nd desamavã a Polidamas. et que aviã ende grã prazer. Et o demostravã odedo. Et falava entressy et rretrayan et cötavä moyto deste feyto. mays Troylos quando veu o cavalo foy el moy ledo. Et gradesçeo moyto a Polidamas. ca era o cavalo moy béò et moy preçado. Et poso en seu coracd que fezesse del moyta böa cavalaria en gisa que Brecayda oysse ende falar. Et assy ofezo a pouco töpo. como adeãt oyredes. mays Achiles aque sse olvidava oque afazer avia. andava moy bravo et moy safiudo en esta batalla. Et tito apressurava os Troyäos. et täto sse achegava aeles. que por nehlla maneyra nösse podiä ajuntar hüus outros yr anehüa parte. que el fosse ontre elles ferindöös et derribandöös malamente. et todolos matava quantos passavã per cabo del. que vos dyrey. poucos ousa- van yr peru el estava. mays dás vezes acaesce que ogräde orgullo ha de abaixar quando avétura quer como agora oyredes. Troylos que andava moy loucäo et moy ledo &no cavallo de Diomedes. que era bòò que nüca foy quen mellor visse. cobreusse ben de seu escudo. et apertou ben seu elmo. Et el tragia hüa lança èna mão en que atara

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pendon quelle dera Brecayda que el amava mays que outra cousa. Et entrou êna gra pressa do torneo et veu hi seu cavaleyro que agillara por justar outro. et encötrara primeyro Achiles queo fereu mal 6no rrostro que deu el morto en terra, Et Troylos quando este veu pesoulle moyto de coracò. et meteu alanca sóó braço et fereu o cavalo das esporas et foy ferir Achiles ënos costados. et deulle colpe grade que aloriga nôlle prestou et deu el en terra mal chagado. Et senò caera fora mays assua vida. Et Achiles se senteu mal daquela ferida en todo aquel mes. et levAtousse moy vivamente como aquel que era moy fardido cavaleyro. et acolleusse ao cavalo et foy ferir a Troylos. et deulle moytas espadadas sobrelu elmo. et aly forô todos juntados de hüa parte et da outra. es chegarô moyto atrevudamente por acorrer aos seus. Et Eytor chegou aly moy safiudo sua espada ëna mão. ferindo acada parte. en gisa que amoytos fazia perder os corpos. mays entre todoslos outros. sabede que os bastardos fillos del rrey Priamos feriã aly estrayas feridas. et dava taes colpes. que os Gregos erä mal treytos et mal desbaratados peru elles yan. mays sse el rrey Talamô et oduque de Arenas nd ford que acorrerô à A’chiles. ja quanto mays Achiles fora metido en tal pressa et en tal perigòò en qual nüca fora. mays estes lle acorrerö et partiröno de grà pressa en que estava. mays ante y foy quebrätada moyta lança preçada. et falssado moyto escudo. -et ante y ford moytos böös cavaleyros mortos. et outros mal chaga- dos. que vos direy. este acorro durou moytos dias et foy caramente cdprado. Et sabede que a perda et o danno foy grade de cada parte. et este torneo durou ata anoyte. Et depoys que foy escuro partirösse daly todos, Et os Gregos fordsse pera suas tédas. lassos et ta canssados que assaz aviã mester de folgar. et os Troyãos entrarôsse en sua ci- dade.

Estoria Troyaa. 111

fol. 83° Como Diomedes era moy coytado damor.

Aqui cöta Dayres que Diomedes avia prazer ale- gria. que oamor de Brecayda ocoytava tito que avia enssy côssello. et nüca quedava sospirädo et coydando moytas vezes en tristeza. et outras vezes tornavasse ledo. et moyto amiude lle crecia hüa caétura ta gräde öno coraçõ que nd sabia que fezesse dessy. et outras vezes tornava frio que as queixadas lle tremiã. Ca taes jogos como estes sol oamor fazer ääqueles que jazô Sno seu laço. et fazelles sofrer graves coytas que son par de morte caos leixa dormir folgar quando queren. Et Diomedes assy era coytado que avia prazer de nehlia cousa. nd coydava en outra cousa senò en aquela que moyto amava. et que vira por seu mal. que vos dyrey sabede que selle este pleito moyto durara [fol. 83°°] côvééralle de morrer. pero el yaa véér moyto amiude. et avia gra prazer de falar cd ela. ca este lle era gra cöforto. Et ela ben entédia que êno müdo nd avia cousa que el mays amasse. Et por esto lle era ela mays orgullosa et peor de rrogar. Ca as molleres de tal maneyra son. Pero cd todo esso quedava Diomedes delle pedir mre- c&6 amiude. et dezialle que podia gorir se por ela nd fosse. Ca toda sua vida en seu poder estava, Et en ela era senpre todo seu penssar. Et amiude perdia ocomer et o bever et odormir. Et moytas vezes estava sen sabor et desmayado. et outras vezes perdia sua color. Outrossy penssava moytas cousas quelle queria dizer et toste que a viia todo selle olvidava. Outrossy grã covardiçe tomava enssy quelle nd ousava dizer nada. cd medo que sse assafiaria. Et esto he grã maravilla que cavaleyro ardido fosse chegado por aficamento damor a grã covardiçe. Pero ben creo que ha homen êno müdo que moy de coracò ame assua sefior. que das vegadas tome covardice en lle dizer algüas cousas que lle cöprian et que lle estariä ben. et por

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que seria delo mays precado. et Diomedes assy fazia. et era mao syso que toste poderia séér que sse pagaria ende ela.

Como Brecayda dou ocavallo de Troylos a Diomedes.

Hun dia avéo que Diomedes foy véér a Brecayda por falar ela. Et ela tiina ante ssy o cavalo que fora de Troylos. Et aquela sazò amava ela mays a Troylos que a outro cavaleyro. et de grado llo enviara. mays avia grã rreceo de séér ende posfaçada. dos da oste. Et sééndo Dio- medes falido ela. dissolle ela en rriindo. « Sefior porla grädeza sen mesura. moytos son desgastados do que an. et pobres. et migados. Esto vos digo por este cavalo. que me 8 outro dia destes. Ca seo teverades vosco quando vos o cavaleyro Troyão descavalgou do vosso sen vosso grado et voslo tomou. forades migado do cavalo como fostes. et foravos y moy böö. Et vos partisteslo devos moy toste sabor demo enviar. et senpre moyto temi queo achariades depoys en migua. Et seo eu soubera degrado voslo enviara sen nehüa de tardança. Et esto he boa cousa de dar homen adda en lugar hu a pode cobrar. Et agora podedes entéder que aqueles que estan &na cidade. son ti lygeyros de côquerer como algúús coydan. Et de mao pleito sse entrametö os que os coydan deserdar et deytar de sua terra ti lygeyramente. Ca ha moytos böös cavaleyros et ardidos et moy orgullosos et de grä lifiagen &na cidade de Troya. Et eu dar vos ey este cavalo. Ca poys ovosso avedes perdido podedes achar mellor. Et rrecebedeo de mi en doa. mays ssabede que os Troyãos son feramente vigadores et despeytosos. Et traballar sse an deo aver de vos. Et seo ben nd gardardes toste vos lo poderã tomar. Et aquel cavaleyro que ovosso ten. he covardo pouco. » « Certo ssefiora disso Diomedes. assy como vos dizedes he verdade. Ca moyto he bóó cavaleyro et ardido. Et eu ben ssey que nd pode aver mellor que el. que mays y valla. mays [fol. 84°] nd era maravilla de o ca-

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Estoria Troyãa. 113

valeiro perder agifia seu cavalo. en tal lugar. poys sse quer cöbater böös cavaleyros et endurar o torneo. Et quanto porla perda de aquel cavalo dou eu nehüa cousa. mays pero seme mädardes que guarde este. gar- darlo ey eu omellor que poder que o partirey de mi. sse per força nd for. Et quen mo quiser tomar ante o cöprara caramente sse eu poder. Et agora entédo eu et sey que vay coytado omeu coraçõ. Et ogrã pesar que eu por vos ey todo seme ha de tornar en ben et en alegria. Et täto vos coydo eu a servir et de coraçõ et apedir mercéé, que en algü töpo vos doeredes de mi. et me faredes algü ben. et desoie mays sòò vosso quito. et quero fazer todo aquelo que vos mädardes et por b& toverdes. Ca sóó en vosso poder. et aio outro defende- mento cötra vos. at&lo outro ben send o vosso. »

Como Brecayda dou amäga do brial pera pedom.

Quando Brecayda esto oyeu. entédeu queo avia ja preso de amor et foy moy leda. Et deulle hüa maga do brial que ela vestia que era de panno de syrgo. moy nobre. que a trouxesse por seu amor por pendon 6na lança. Et Diomedes foy ende ta alegre que mays podia. et soffreu por ela depoys moyto afan et baldon êno seu töpo en moytos lugares. et fezo moytas böas cavalarias como adeäte oyre- des. et des de oie mays pode dizer Troylos que lle esta ben sua señora. Ca omoy gräde amon que ontre elles anbos era. ja falssado o avia Brecayda et mays caramente llo cöprou depoys Diomedes como a estoria ocôtara adeäte.

fol. 100 Como se Achilis queirava do amor.

Asi como avedes oydo fui Achiles preso do amor [de Policena]. et jazendo muy triste en seu tendillò. comecou de pensar en sua fazenda. et queixar se muy fortemente.

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et diso asy. « mizquino en mäo dia me oie levantey. et en mao dia fui aaquel lugar hu aquela donzela vi. et en mao dia vi oseu tallo. et a sua beldade et sua color. et eu culpar la ya do meu mal. mais teño quelle faria gra torto. seo fezese. ca ela e culpada porlo amor ami fazer mal. et se padesco gra coyta. eu ma demandey. ca ela he en culpa. ca outros muytos avirö que meterò mentes en este pleito. derö por ende nada. et eu sóó solo. oque cay en este laco. et ben me semella que estava prestes oamor pera me prender. et enlacou me en tal gisa quelle poso fugir. escapar a nihla parte. Et desoie mays me còvem apedir merçéé. mays aquen apidirey. ca sóó certo. que nücää aio daver. pero sey que me digo. ca se me eu fose certo que nüca averia. viveria dia mais. et como quer que Poligena agora me desame. me diz meu coracò que en pouco têpo sera mia amiga. pero que digo eu en que iaso agora pensando. eu enganno ami méésmo. se ela poso estar. en algü tenpo. ante s66 certo que êno müdo deseiara ela tito como amina morte. ou mia pri- som. Ay mizquino agora veio que s00 preso et cativo. et aollo veio omeu grã danno. ca eu quero amar. quen me desama mortalmente. Ay deus agora soubese ela amia fa- zenda et omeu coracò et omeu deseio. et como todo meu pensar he posto en ela. et como ela he mia vida et meu be. et como oamor a sefiorio en mi. et seo ela soubese seria ami muy grã cóforto. pero por que. ca sen falla prazer lle ya do meu danno. et quanto omeu mal. fose mays sobeio. tito ende ela seria mays goucosa. et queria que fose tito mais. mais por queo deve aquerer. Ca eu matey a Eutor seu yrmão. por quelle meti êno coraçõ. d66 et pesar grand pera senpre. en gisa que por esto me chegaria amorte se podese. pero se eu falase ela. et lle mostrase mia coyta. ou lle podese pedir merçéé. que ouvese déé demi. ou se fose certo que en algî lugar a poderia aver. pero que meu mal seria. esforco averia ende. mays eynda velo entêdo. poso osmar mafia per

Estoria Troyäa. 115

que posa acabar nada de meu talente. et sen falla nüca fui moller assy amada. fui omen preso damor per tal gisa. [fol. 100 7º] Ca eu ben entendo que sóó sandeu. et fora de meu siso. et sey quen mo fezo. ca o seu amor me aperta ëna sua cadea. que me preso. que apouco tépo serey morto. ca eu nd aspero bem cöforto de nihùa parte. et semella que s66 Narçise que morreu porla sua soonbra por que a nd podo aver. » et Narcise fui fillo di rrey. Et era omais fremoso donzel que avia ëno müdo aaquel tépo. Et avéo lle asi que hi dia caçava. en hi möte. et chegou a hi vale. hu avia hüa font moy clara. et quiso bever dela. et catou aiuso. et veu a sua sóónbra. et nd coydando que sua era. sabendo desto nada. pareceulle ta que tomou dela ti grande amor et ta gra pagamento. quelle véo arrogar. chorando muyto. que seyse fora. et que se véése pera el. et abreu os bracos pera abracar. Et asoonbra abreu os braços. et chegando se contra ela. rrogandolle que se chegase et ela chegavase. et se el chorava fazia ela senbräte de chorar. et se el rriia contra ela. fazia ela senbräte de rriir. et el abracavää. et abracava send agoa. et nd acalcava al send agoa. et estevo ali täto pedindolle merçéé. ata que morreu aly estando. Et Achiles nöbrandose desto. dizia sen falla. «eu sdd Narcise. que morreu porla sua söönbra. por que a podo aver. et eu trago cômigo mia söönbra por que moyro, et eu troixe esta sóonbra daly onde vi aquela donzela. et troixe sua beldade et sua collor. asi pintada ëno meu coraçõ asi como se vise et falase ela. mays quando a quero abraçar. acho nada me rresponde a cousa quelle eu diga. et por ende afazer me cdvé como fezo Narcise. tito rogarey et pidirey mercéé, que me cöverra de morrer tarde o agina. et tal sera mia fim. et eu acho outra asperanca senò morrer damor. como Narçise. ca sdd enga- nado per asp[er]anca como el. pero devia eu a pensar como este pleito tornase ameu proveyto per algù en algiia maneyra. mays pero muyto me acoyto. ca tal pleito como este grã vagar avera mester, mais quen poderia tato endurar. ta

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gra coyta. sen falla nd séò eu aquel. Ante entendo bè. que se esto muyto dura. que me cóverra deperder avida. et faço mao siso de buscar algü côsello. ca todo omen que sobre sy sento algii mal. devia abuscar siso et arte peru lle podese fogir et goreçer. et eu que sobre mi senço grã mal. et cada dia querra crescer. se pera elo ouver algü cösello. entendo et sey que morrerey apouco tépo. et pois que agora êno cömeco e ti grave et ta perigddso. que sera èna cima. sey que morte. ca y al iaz. Ay deus quen podese adevinar, ei soubese averdade da fim deste pleito, louco söö seo sey. et afim sera esta. pois eu en pouco têpo séò vençudo do amor. et ta feramente desmayado. todos meus dias aqui am de fiinr, et meu pleito en esto se acabara. mays outra cousa rreçeo eu. se esto pleito asi trouxer encuberto. cada dia creçera mia coyta et meu mal. cao fogo encuberto. peor queima queo descu- berto. mays rrogo aos dioses. et peço lles mercéé. qué me façã aver tal cósello per que cu posa perder gra coyta. que teîio êno coracd. et que Policena aia de mi mercéé. que eu asy moyra.

fol. 102 Como Achilis era cuytado dainor et se queixava inuylo por el.

Mentre que se o mesageyro tornava Achiles estava ta coytado do amor. que avia desi cösello. et queixava se muyto. et sabia que fezese. et dizia asi: « Ay deus que fera ventura et que estraya que asi s66 coytado damor. et par deus en grã coyta vivo. ct en forte vida, et en forte torneo estou agora. ca eu avia boas maneyras et perdias todas. et aperdi outras per ‘que valvese senpre meos. que me fezo forte et esquivo et apartadico. et nd quero ia que me falè, mays so falir. faço sen rrazö. ca me venceu. et me presso oamor. per tal força. que bem me semella que aio perdudo osiso. et s66 tornado sandeu. ca eu fui

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amar en lugar hu poso aver proveyto be. pero si averey. mays como upoderey aver. ca sen falla eu me meti en grã loucura. et veio que des que omüdo fui formado. nüca omen sandiamente amou. como eu amey amara ia mays. Et se agora podese séér. que me ende eu podese quitar. séér me ya moy gra bê. et que proveyto me oque digo. cao amor natural cousa he, que vence osiso. et por ende me val contradizer armas nd ardimento. en tito como estou. valer ti pouco contra oamor mais se fui eno müdo ome aquen valvese contra oamor. siso ou ardimento ou valentia. certas nö, Ca valeu a Sansom a Salamô. a David. que ford omens de gra siso. et de grad entendemento. pois quo farey eu. ca se eu ensandesco. ou sayo da carreyra. ou da rrazô poso y al fazer. et he maravilla. pois muytos de bom entendemento et de siso. soffrerd outro tal como eu. et selle poderd defender per forca per b66 siso. por ende pois que y al se pode fazer. aque quer que me ende aveña. còvè me aestar, outrosi acatar et pensar ma- neyra. como cöpra omeu deseio. et se en mi a valor ou esforço algü. ou siso ou entendemento. aqui côvê que paresca. ca êno míido a ti forte cousa. td esquiva que eu por esto faça. Agora me desamé os que quiseren. ou pusfaçë demi. ca pois eles todos ouverö todo seu prazer. Et oque cubiisco que me val esto ami. pois que eu nihüa cousa oyve. et por ende eu devo apensar. en como aia alegria et prazer. Et que grà me averra. se me qui- sese amar Poliçena. entòce seria eu rrico. et seria o mellor dos mellores. et esto seria sen rrazò. ca averia por amiga. aquela que e seiior da beldade. et de todo bè. et en que eu ey todo meu et toda mia asperança et mia alegria et mia soude. et en cuia mesura iaz todo meu et toda mia ventura. et que a mays que todas las outras. que deus êno müdo fez en tallo et en beldade. et en color et en todas las outras bondades. et por que me oamor ta coytado. et ti amazelado [fol. 103 7°] et aque eu tefio pin-

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tada ëno meu coraçõ. en gisa que quando me dela acordo apoucas que ensandesco. et estou preste de perder avida. et dizer vos ey como. muytas vezes torno amarelo. et outras vezes en caentura. et en outras en gra friura. et nd acho conforto en cousa do müdo que seia. et sen falla se me este mal muyto dura. pouco sera amia vida. et que he oque oamor demi mays quer. ca eu rreceo nada. de quanto el quer. acha en mi nihfia mingua. pero faz me mal que nd queda. et se cömigo véér a b66 conto. achara que nüca per mi perdeu nihüa cousa. do seu dereito. et por ende lle rrogo que aia de mi merçéé. Et quelle iasca en prazer. que me faça algü bè. como soe fazer aos namorados. contra as suas señoras. Et aquel sefior que omfido en poder me faça oie taes novas trager. que seia esforçado et nd queixoso, »

fol. 117 | | Como Breçayda ya véér amyude a Diomedes et da razò que el ouvo !).

Conta aestoria que Diomedes et Agamenô erã mal chagados et ouveron moy böös mééstres et ford ante goridos queos seys meses fossen fora. mays Breçayda quando soubo que Diomedes era mal chagado pesoulle moyto. et pero que sse quiso encobrir podo estar que chorasse moyto. Et feramente fazia gra senbrãte que nehüa cousa nd amava tito como ael, pero ata aquel dia nüca mostrou queo amava. mays estonce nösse podo encobrir queo entê- dessen. Ca por defendemento por castigo por ameaça que seu padre fezesse por posfaço nd leixava deo yr véér moyto amiude assua téda ca feramente oamava. et todo seu coracò en el era ia tornado. et posto fora de Troylos. et temiasse moyto deo perder. et outro tal faziã

1) Du copiste qui a écrit la première partie.

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os Gregos ca aferida era moy perigôósa. et sen falla ela ofezo moy mal et moy feamente. en leixar a Troylos. et gra torto lle fezo. Ca Troylos era moy bon cavaleyro et de grã preço et moyto aposto et moy ardido. et demays valia tito en armas que nehü valya tãto como el.

Como Breçayda se queixava de sy meesma et se connoscia que fezera torto.

Un dia avéo que Brecayda penssava êno torto que avia feito a Troylos. et tomou rrazô côtrassy méésma en tal gisa. « Eu sey ben que por lo que eu fige nüca demi sera dita bda palavra bon rretrayre. ca en elo ey dereyto. et moyto oyve forte vèntura. et sen falla oyve mao syso. et fige mao rrecado [fol. 117 ‘°] que errey a Troylos et oleixey por outro. et ben entödo et cofiosco quelle fige gra torto. Ca sse eu fezera oque devia. meu coracô fora senpre el et nüca quisera côsentir a nehù que meu amor to- masse. catara por outra cousa se por el nö. mays eu foy louca et tan ligeyra que cösento de oyr loucura. et se me eu gardar quisera quando me aduserö nôna devera consentir. ante a devera aesquivar. Ca aquela que boa quer séér. nd deve oyr quantolle dizer quiseré. Ca ha êno müdo ta entöduda. que uécuda nd seia se oyr quiser oqlle disseré. Et nos outras queremos y séér mesuradas. et nossa mesura senos torna en danno. (mays senos torna en dãno.) mays se nos nos fezessemos esquivas da pri- meyra. nüca noslo diriä provariä de dizer. Et nos perderiamos bon prez como operdemos. et desde oie mays. poden de mi posfaçar as queme desamarê et ave- ran ben de que. Et quantas donas et donzelas ha en Troya me desamarã mortalmente et cd grã rrazô. et amia aleyve et omeu enganno gräde et amia loucura que eu fige et ogrã meu danno. sera ja senpre rretrahudo et posfaçado. et sen falla eu devia moyto apenssar en este feito. et assy ofa- rey. Ca eu foy en este feyto moy aleyvosa et moy vil. et

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mudey omeu coraçü moy ligeyramente. Ca eu avia por amigo omellor cavaleyro que nüca donzela ouvo. Et se eu fezesse agisado. amaria atodos aquelles que el amasse. et queria mal atodos aqueles aque el mal quisesse. Et agora parece como foy de mao siso et aleyvosa. Ca sse tomara por amigo outro que el nd desamasse. fora ta grade aleyve ta grã traycò. mays eu que fige tomey por amigo. omays mor- tal èemigo quelle eu &no müdo achey. Et por ende senpre serey desprecada et posfacada de todos. Et senpre ja ave- ran que diga de mia maldade et de mia avoleza. et as outras fariä moy gra dereyto se me por esto matassen. Pero gra cöforto ey. que moytas molleres fezeron taes canbeos. : et moytas donas casadas et moytas donzelas vi eu. que to- marô os mayores &emigos que poderö achar aseus maridos et aseus entêdedores. et queos tomarô de seu grado por seus entödedores. et por seus maridos. mays de hüa cousa me faço maravillada. por que avemos vergonça de quantos feitos estrafios et enavessados fezemos. Et eu moyto me rripinto deste feito. mays como quer que me ende rrepinta nôme prol néme val nada. posso y nada rrecobrar ca ja feito he. et des de oie mays aeste serey leal. ca he bon caualeyro. et moy precado et moy entödudo. Ca ja posso tomar a Troylos. me posso partir deste. ca ja en el ey metudo meu coraçõ et meu deseio et am66 tato que nd posso mays. mays sse eu na cidade ficara. solamente pens- sara de fazer tal trayçõ quea eu nfica aquel desamasse cäbiasse por outro. mays aque era soa et sen cössello en grã coyta et sen outro amigo leal, assy como eu era. por ende pude al fazer. senò tomar atal queme podesse toller o grã pesar que morria et ogrã deseio et ograde amor que avia de Troylos. Et se esto fezera ben podera eu chorar. mays nüca en mi ouvera côforto. et sse eu assy pas- sara meu töpo eu agora [fol. 118] fora morta. mays cöv&öome de curar de mi ca era moy desanparada et deytada de todo ben. como quer que eu fezesse maldade tomey omellor do jogo. Ca algüas vezes ey agora alegria

Estoria Troyãa. 121

ëno coracd. et se esto nd fezera senpre fora en tristeza. et tal me poderia agora posfaçar queme verria cöfortar tarde ou nîca. et por aquesto quige tomar mays cedo cöforto. Ca nd deve homen por los ditos das gentes vi- ver senpre en dolor et en pesar. Demays se todo omüdo fosse ledo et eu triste et sen sabor. que he oque eu y gää- aria. mays de hüa cousa me pesa ta de coracò que mays pode. porque ey grã pavor da morte deste. mays pero deus faça ben a Troylos. poys que eu nd posso aver ael ameu prazer nd el ami. et porque esto entédo me outorgo aeste outro. pero moy de grado queria aver coracd queme po- desse nöbrar ogräde amor que entre nos foy et de quanto anbos fezeınos. Eu ben entödo en meu coraç que faço moy sen gisa. et cada queme nöbra rrecebo ende gra pesar et gra vergonca. et omeu coracd me diz moytas vezes. ay aleyvosa traedor nöte nöbra quanto por ti fezo Troylos et tu por el. Ca sse el êno müdo avia dda nobre et preçada. mayor sabor avia el dea dar ati que tu dea tomar. Et &no müdo sabia el cousa que ati prazeria ou en que tu to- masses prazer ou sabor. que el fezesse tãto ata quea ouvesse. et sse el achasse algüa cousa deque sse moyto pa- gasse. logo sen mays tardar ya pera ti sete pagarias dela. Et nöbrate aleyvosa de quantos dias b66s cd el passaste mötre te el moyto amou. et tu ael. Et seias descriuda ta falyda como es cötra el. et todo esto me entra per hüa orella et me sal pela outra. mays de oie mays ha y al querome quitar deste affan. et tornarme aeste ca afazer me coud. et des de aqui quero fazer que Diomedes atêda - meu amor et seia certo de aver quanto el quiser. Et ja mays achara en mI paravoa mää orgullosa como achou ata aqui. Ca sen falla eu o detuve ata aqui per palavra. cada que cd migo falou. et eu el. et foylle moy esquiva et moy orgullosa. de queme moyto arrepinto. et ey ende vergonça cada queme nöbra. mays eu llo enmédarey moy ben. Et oje mays farey todo seu prazer et toda sua vootade, et deus me leixe ende véér alegria. » 14

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fol. 134 D66 por Paris.

Elena fazia ta gra d66 que nd a ome queo contar po- dese. Et quen quer quea vise bem entenderia queo seu döö et asua eoyta que pasava os outros todos. Ca ela changia ameude seu pesar et sua proeza et sua beldade et seu valor dizendo asi. « Meu sefior et meu amigo Paris. pois vos eu pergo. ia mentre eu viva amia vida sera en choro et en la- grimas. Et nd farey sen rrazd que pois que vos eu vi. mais vos amey que mi méésma. Et pode séér que eu mais viva despois vosa morte. Ca seo eu fezese seria mais aleyvosa et mays desleal que nüca êno müdo nasçeu. Et amorte me fara grã torto. se me depus vos leyxar viver dia ora. Ay morte eu te rrogo como amiga queme leyxes mays viver sobre terra. Et fazer me as en esto grã bem et grã piadade. Et nica mais ia deus queira. que por outra mo- ller avefia oque por mi avéo. Et por mi son mortos muytos rreys. et moytos duques et moytos principes honrrados. Mizquina enque ora naçi. deus que desventurada fui aquela ora. Et que nacenca ta perigóósa naçeu ameu padre et amia madre. que asi omüdo por mi he destroido et hermo. Ay deus que mää ventura vão ao müdo quando eu naçi sobre terra. Ca aquel dia lançou deus ëno müdo praga et guerra mortal, Ca senpre omüdo vivera en prazer et en goyo et en paz se eu nacuda nd fora. mais aos dioses praza que tal moller viva ne {fol. 134 °°) müdo. Ay quanta rrica donna et de grã gisa ficou por mi veuva et desan- parada. Ay quanta donzela por mi ficou orfää et en coyta et en d66. Ay quantos bóós cavaleyros et omens de gra gisa et outras muytas côpañas son por mi desanparadas. Et ia mais por mi viverã en grã tristeza. Et ben sey que por mi nüca se fara bda oraçô. mays moytas maldições serà tornadas sobre mi dos que son nacidos et an por nacer. Et sen falla serà sen rrazô. sobeiamente me

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pesa por que naçi. ca ia mays de mile moyos de sange de bõos cavaleyros son ia vertudos por mi. por ende ben sey que nüca me böeyzerä. Ca nica fui cousa. por que tito mal ao müdo véése como por mi. Et par deus el Rey. Priamo moyto errado es por que me matas. Ca por mi es cofundudo et as perdudo teu rreyno. Et por mi He véo esta guerra en que a perdudos seus fillos et seus pa- rentes et seus cavaleyros et suas côpañas. Et por mi iaz asy cercado et desonrrado et coytado. Et por mi perdeu sua nobleza et sua rrequeza. Et por mi lle véo este mal. Et se dereyto fezese el me devia espedaçar per mille lugares. Et eynda por esto teño eu que seria vingado. Et vos rreyna Ecuba que coydades a fazer ca ia demi nüca seria- des vingada. Ca per mi perdestes os vosos fillos, que erä muyto ardidos et muy lougäos et moyto ensinados que sno müdo nd avia cavaleyros mellores mais preçados. mais gräädos de mellor talente. Ca eles erã omildosos contra os amigos. Et en todo mellor[es) dos mellores. Por ende rreyna sefiora gisade como oie este dia seia amia morte. amays esquiva et amays estraya et mais crua que nüca outra dona morreu. Et tomade agora vingança por vosos fillos. Ca he dereyto rrazô. poys eles por mi morrerò que oie mays eu biva. Et mädade me espedacar en peças et faredes gra dereyto et grärrazö. Ca nüca vi nihü omé moller que se sentise do seu dano et do seu mal. se esta. Ay deus que gente piadosa et por que viindes agora desfazer esta que en mão dia fui nada. Et “tomar dela vingança ca todo quanto mal avedes rreçebudo tod66 por mi rrecebestes. Et agora sodes piadosa contra aquela que vos fui sen piadade. Et vos donas et donzelas que sodes por mi mizquinas et desanparadas que por mi perdestes alegria. Et quantas sodes en esta rrica cidade. se quer vos me viinde matar. Ca en negro dia me vistes. Os dioses outrosi fazê sen rrazò. Ca devia a consen- tir sofrer. que sobre terra vivese a cousa por que tãto mal avéo. Et omal et oquebranto ôno meu corpo devera

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a seer ca en outro. Et se asi fora muy gra proveyto veera aos Troyãos. Et senpre viverã en goyo et en plazer. Ay meu amor b66 dom Paris. Eu vos rrogo et vos peço porlo amor que devos senpre oyve [fol. 135°] que seiades contra mi de mão senbrant ca nüca o fostes. Et que , queirades que ami a alma vää avosa et faredes me en elo gra prazer. Ay meu amigo b66 eu sóó aquela que por vos he sandia. Ca nüca eu despois que vos eu vi quije al se vos. Et eu sóó aquela que por vos oy perdudo preço et ualor. Et nüca vos fige torto. quige a outro bem senò avos. Et eu s66 aquela que nd deseio de outra cousa cobiico outra cousa ia mais averey cöforto bem. Et eu s66 aquela que nüca pensey vilania contra vos. cobiico outra cousa senò que amia alma vad cd avosa. Et porende rrogo aamorte quelle praza dea enviar pus ela moy cedo. Ca os meus deseios estes son. Ay morte por deus me tardes et segerey o meu muy leal amigo. Ca ia muyto tardey et fige mal et torto, Ay meu amigo b66 et leal asperade me ata que eu posa chegar avos et beixar vos ey orrostro et aboca. Et desi yrmeey vosco se poder. Et certa sõo que poderey se me amorte fezer torto. Ca ia sinto en mi sinal nihü como eu posa viver pois que vos vivedes. » Pois esto diso Elena chegou se ael et amorteçeuse. que pois mays suspirava saya dela bafo. desi levarôna dali por morta. Et deytarôna en leyto. Et moytas vezes acordava et tornava sua fala. et queria se levätar et quela amortecida. Et muytas vezes se fazia levar hu iazia ocorpo de Paris por fazer seu d66 et sabia que fezese nd que cösello prendese desi. Et muytas vezes otomava en seus braços et queia el. que uos digo sabed[e] que ta gra döö fazia et chanto ta dôórido. que nüca y estevo moller ome aque chorar fezese. moytas vezes. Et esta döör et esta coyta lle durou toda anoyte.

SI

Estoria Troyãa. 125

A des endroits qu'on ne supposerait pas, aux fol. 92% et 9279, on apprend par qui, pour qui et quand a ote écrit le manuscrit de la Estoria troyäa. Car on y trouve les renseignoments que voici: |

fol. 92°

Sabbean quantos este livro viren que eu Frnan rs. [= Martiis] clerigo. et capelan de Frnã Perez dAndrade escrivi este livro. des onde sse começa esta estoria ata aqui. et escrivi aynda mays outro quaderno en que ha dez follas que vay aco adeãte !. et scrivio per mädado do dito Frnä Perez ?, Et sabede que este Frnã Perez foy fillo de Roy Freyre dAndrade et por mi creede de certo que a este tépo que este livro foy escripto que este Frnä Perez era omellor homen que avia entöce en Galiza dos code ou rrico homen afora. Et sabede que el a este tôpo era homen de duzétos homens de cavalo armados a todo punto. Et era sefior da vila da Crufia et da vila de Betãços. et da Ponte de Ume. Et Ferrol et a Ponte de Ume derallas el rrey por sua herdado. Et outrossy taben era sefior de Neda et de Cedeira et de Santa Marta et de Outeyro et de Vilalva et de todos seus terminos de todos estas villas et lugares et taben das terras chãas en todas estas comarquas en gisa que quantos homens moravä en todas las ditas vilas bôos et ligeyros et arredor ènas...

1 Ce qui ost vrai.

3 ...(le texte est incomplet).

Ici s’arröte le texte dont la suite a été effacõe à dessein, mais que M. Paz y Molia a fait revivre au moyen d'un réactif.

fol. 927º | Este livro foy acabado viinte dias andados do mes de Janeyro. Era de mill et quatrocétos et onze annos. Et eu o dito Frnã ms. [= Martiis] clerigo. Rogo et peço por lo amor de deus et por salvamento de suas almas et en pe- nitencia de seus pecados. aquantos este livro virë et oyré. que digan por la mia alma pater noster. et hüa Ave- maria. 44 onrra de deus padre. et de deus fillo. e de deus spiritu santo. que me queyra perdoar. et da Virgen Maria

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sua madre quelle Roge por mi et por vos. queo queyra assy cöprir et outorgar.

De la même écriture que le manuscrit qui à l'exception des f. 111"º- 120% est entièrement d'une seule et même main, qui n'est pas tou- jours très notte.

A la fin du manuscrit, au fol. 1989, on lit:

Este livro mandou fazer o muyto alto et muy noble et muy eixelente rey don Alfons[o} fillo do muy noble rey don Fernãdo. et da reyna donna Costançia. Et fui dado descrivir et destoriar. 6no töpo que o muy noble Rey dom Pedro rreynou. Ao qual mãtena deus öno seu serviço por muytos töpos et bdos. Et os sobreditos onde el seid herdeiros 6no rreyno de deus amen. feito olivro e acabado o postremeiro dia de dezenbro era de mill et CCCLXXX VIII

e . annos Nicoläo Gz sorivan dos seus livros scriveu per seu mädado.

A l'exception de scriveu‘), de la troisième personne au lieu de la premiere, les lignes ci-dessus sont la traduction litterale des der- nieres lignes de la Estoria troyana en castillan, achevée è la fin de décembre 1350, et dont l'écriture est si admirablement belle que qui a vu le manuscrit trouvera que Nicolas Goncalez a bien fait de ne pas nous taire son nom. Voici pour lever tous les doutes quant aux vrais rapports entre le texte galicien et le texte castillan ce qu'on lit au fol. CLXXXIIIro et dernier du manuscrit de l’Escurial I. h. 6:

Este libro mando fazer el muy alto et muy noble et muy excellente rey Don Alfonso fijo del muy noble Rey Don Fernando et dela Reyna Dofia Costanca. Et fue aca- bado de escrivir et de estoriar en el tiempo que el muy noble rey Don Pedro su fijo Regno all qual mantenga

1) Cf. Mussafia, Sitzungsberichte der phil.-hist. Classe der Kais. Akademie der Wissenschaften (LXIX Bd., p. 39), il est dit que les deux textes publiés par Amador de los Rios sont en tout point pareils. Fernan Martins, en traduisant aussi la signature de Nicolas Gongalez, a embrouillé la question résolue du reste aussi par les formes castillanes palavra, peligro, dioses et aviedes, qui déparent le texte galicien.

Estoria Troyaa. 127

dios al su servicio por muchos tiempos et bonos. Et los sobredichos donde el viene sean heredados en el Regno de dios Amen. Fecho el libro postremero dia de deziembre. Era de mill et trezientos et ochenta et ocho años.

Nicolas Goncalez escrivan de los sus libros lo escrivi por su mandado.

Au manuscrit de la Estoria troyda (Bibliothèque nationale de Ma- drid I -i- 67) qui jadis faisait partie de la bibliothèque des ducs d'Ossuna et avait la signature 4-2-17, manque le premier cahier, de sorte que le commencement repond au chapitre XXXV de la Esto- ria troyana castillane conservée à l’Escurial, ainsi que l'a remarqué depuis longtemps M, Paz y Melia.

Autant que faire se pouvait sans reproduire en couleur les titres à l’encre rouge ni les grandes initiales au com- mencement des chapitres, nous avons tout en résolvant les abréviations, cherché à garder au manuscrit son ca- ractère. C'est pourquoi aussi nous avons maintenu la ponc- tuation telle quelle, parce qu’elle repose sur de meilleurs principes que celle en usage aujourd’hui, et complétée mé- thodiquement, elle vaudrait mieux que la moderne. Les chan- gements peu nombreux du reste que nous avons cru devoir apporter au manuscrit sont les suivants. Nous avons mis des majuscules aux noms propres, distingué le v de l’u, écrit como au lieu de como, anno, danno, donna, panno, penna au lieu de ano, dano, dona, pano, pena, graphies qui pour- raient induire en erreur. Nous aurions peut-étre mieux fait d'écrire e au lieu de et. Nous avons cru devoir aussi corriger quelques inadvertances du copiste et avons mis au fol. 74° aquenos au lieu de aquenos = agnos ms., fezerôno au lieu de fezerono ms., fol 76"° quêno au lieu de queno = gno ms., fol. 79"° et fol. 134º Troyãos au lieu de Troyaos ms., fol. 134"° cöpanas au lieu de cöpanas ms., fol. 80° da grà pressa au lieu de de grà pressa ms., fol. 76"° posfa-

128 J. Cornu, Estoria Troyäa.

cada au lieu de posfacado ms., fol. 117"° maravillada au lieu de maravillado ms., fol. 100" e grave au lieu de ettà grave. Au fol. 74"° je propose de lire assy enteyra au lieu de enssy enteyra, senaladamente, mot qui est écrit sans til sur Pn, queyra au lieu de querra, et au fol. 100° mia au lieu de mina ms.

Particulier, je crois, à l’ecriture de la Estoria Troyãa est le signe employé pour marquer, quand deux % se sui- vent, que le second est consonne. Ce signe, mis sur le se- cond u, ressemble soit à un oméga majuscule (N) soit à l’a suscrit (©). Je l’ai trouvé sur ouuo ouuerd ouuesse, prouuo, prouuesse, deluue, luua, veuua, alreuudamenle.

C. GIACOMINO.

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SAGGIUOLI NEOINDIANI.

Dovunque si mantiene una tradizione letteraria antica e possente, lo svolgimento naturale del linguaggio è turbato dall’intrusione saltuaria di elementi dotti, che, travolti an- ch’essi presto o tardi nella corrente fonetica, dànno luogo, secondo la varia loro resistenza, a varie stratificazioni di prodotti; senza dire che le medesime voci, ove siano im- messe nella lingua viva a diversi intervalli di tempo, si trovano sottoposte all’azione di tendenze fonetiche rimutate nel corso dei secoli. Perciò negl’idiomi, nei quali codesto screzio di formazioni è abondante, allato alle voci d’ indole schiettamente popolare, e a quelle di fonte letteraria che siano rimaste pressochè intatte, s'incontrano degl’ibridi che si sottrassero in parte all’evoluzione dei suoni, e quindi tra- mezzano con infinite sfumature tra il nuovo e l’antico. Le vicende di cui discorriamo sono famigliari ai cultori delle lingue neolatine, i quali ad es. ci diranno che il franc. sié- cle reca bensì nel dittongo della prima sillaba il riflesso consueto dell’é latino, ma conserva l’ aspetto di voce dotta in quanto mantiene a formola interna il nesso cl, come s’é mantenuto ad es. in obstacle, che risponde per ogni parte al tipo delle voci letterarie.

Di tali screzj, per analoghe cagioni, sorsero largamente nei parlari med) e moderni dell’India, nei quali, oltre alla distinzione già fatta dai grammatici indigeni tra i talsama, ossia voci identiche alle sanscrite, o letterarie, e i tad-

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130 C. Giacomino,

bhava, cioè voci di sostanza sanscrita ma di forma pracri- tica, o volgare (per tacere dei decya, voci provinciali o degli aborigini), occorre distinguere i tipi intermedj fra i tatsama e i tadbhava, che il Beames, Comp. Gr. I 13, designò coll’appellativo di tadbhava seriori, e dall’Hörnle, Comp. Gr. xxxvin, furono denominati semitatsama. Quest’ ultimo autore osserva giustamente (l. c.) che la maggior resistenza fonetica del pracrito volgare o apa- bhräca, donde rampollarono i volgari moderni, appetto al pracrito sollevato a dignità letteraria (mähärästri, cauraseni, mãgadhi), in certi casi rende scabroso giudicare da qual fonte defluiscano le voci moderne; e adduce l’esempio del- l’hindi orient. nagar ‘città’, che potrebbe essere un tatsama del ser. nagaram, oppure un tadbhava del mãgadh. apa- bhräca nagalã, mentre il doppione nayar o nair si fonda con tutta evidenza sulla magadhi letteraria che ha nayala. Le presenti osservazioni d’indole generale varranno, spero, ad agevolare l’esame che voglio intraprendere di parecchie voci maratiche, col proposito di studiarne la ragione etimologica, e la particolare impronta fonetica. Come negli altri idiomi congeneri, anche nel maratico gli schietti tatsama si distinguono da al confronto colle forme volgari, secondo che avviene ad es. per bhramané allato a bhâvanê ‘essere sbalordito’; bindu ‘goccia’ accanto a bund; bhäs(a) ‘parola, promessa’ rispetto a bhãkh(a) id.; nagna ‘nudo’ messo a pari di nãgã, ecc. Il marat. vinàti ‘riverenza’ è palesemente il scr. vinati- corrotto per l’aggiunta della nasale appartenente alla rad. verb. nam ‘inclinare’, a un dipresso come s’è guasto l’ital. finzione per “*fisione. Il nome alhãd allegrezza’ è tanto prossimo al scr. dhldda- * gioia’, anche per il prefisso à- già poco vitale nel pracrito, che si direbbe uno schietto tatsama, nonostante l’invertimento pracritico del nesso hl. Assai meno rimoto dal sapor volgare sarà per contro il marat. vagh ‘sterilità’, che presenta il trapasso pracrito di dhy in gh di fronte al classico vandhya- ‘sterile’. Nessuno

Saggiuoli neoindiani. 131

porrà in dubbio che il marat. # pidocchio’, scr. yuka-, non sia voce di popolo; mentre è difficile decidere se uk “alto” non rappresenti se non una lieve storpiatura del scr. uRka- id. In qual rapporto genetico stanno tra di loro gli agg. marat. ugu e ugavã che, per la radice, fanno capo al scr. rgu- * diritto * ?

Un bell’esempio di tadbhava ci offre il marat. old ‘umido’ connesso col partic. scr. unna- ‘bagnato’, ma siffattamente alterato nei suoni, che del termine sanscrito non è più ri- masto pressochè nulla d’incolume. Infatti in old inveee dell’ w iniz., seguito dalla doppia, troviamo il suo normale sostituto pracr. o (v. Haimak'andra edito dal Pischel, 1 116); | vi rappresenta il n scempiato dal nn scr. = dn del- l’orig. *ud-na- (per | = n cfr. Beames, Comp. Gr. I 231, Hörnle, op. c. 63 e 92; inoltre si pensi al rapporto fone- tico del marat. dilã ‘dato’, bengal. dil, oriss. del, col pracr. dinna = *didna, sebbene in questi participj sia am- missibile un livellamento col suff. moderno -l, scr. -ta; e per quest’ultimo conguaglio v. Ascoli, Zigeunerisches, nella prefaz. e a p. 69); finalmente nella vocal lunga d’ uscita si compendierebbe il derivat. secondario -aka, Hôrnle, 97 e segg. All'incontro le modificazioni che scorgiamo ad es. nel marat. äsr& ‘asilo’ dirimpetto al ser. dçraya- ‘sede, soggiorno ’, cioè s da €, mantenendosi tuttavia il nesso (cfr. invece asu ‘lacrima’ scr. acre ece.), ed da -aya-, non sono tali di certo da rimuovere il sospetto dell’in- fluenza letteraria.

Premesse queste avvertenze intorno ai var; strati della parola indiana, mi si conceda di toccare, con un’altra pre- fazioncella, di un tratto molto importante tra gli elementi fisionomici dei volgari neoindiani, voglio dire dei suoni linguali.

Nel campo di codesti idiomi le linguali si vennero dif- fondendo, per vie diverse, ben oltre i confini del fenomeno sanscrito. In primo luogo, è ovvio che nel moderno gbondi

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la diretta continuazione delle linguali sanscrite. Un’ altra schiera ben folta di unità trasse origine da fatti d’assimi- lazione che, quantunque già s’incontrino qua e nel san- scrito, pure, rappresentando una cotale esagerazione del- l'antico processo sanscrito, rivestirono un’indole essenzial- mente pracritica. Una terza falange di linguali, anch'essa copiosa, ci si mostra in quelle voci dove le dentali furono alterate unicamente in virtù d’una particolare propensione fonetica dei parlanti, nella quale il gran Maestro italiano, a cui m'è gratissimo inchinarmi con viva gratitudine e ri- verenza profonda, vide, da quel sommo indagatore ch'Egli è delle più riposte ragioni del linguaggio, la prova non dubbia di antichi incrociamenti etnici; v. Ascoli, Fonol. comp., lez. VI, inoltre Trumpp, Gramm. Sindh., Caldwell Gr. comp. delle 1. drav., ecc. Questa terza categoria si ri- duce anch'essa in sostanza all’esagerazione d’una tendenza, che già si mostra nel sanscrito in tutti quei casi nei quali non si rivela alcun influsso assimilatore di 7 (1) es (2); v. Wackernagel, Altind. Gramm, 177.

Veniamo ad alcuni esempj onde chiarir meglio la nostra distinzione. Alla prima schiera, in cui si continuano le lin- guali sanscrite, appartengono 1 marat. ut ‘cammello’, scr. ustra-; veda (colla sonora per la sorda) ‘pazzo, scapestrato”, ser. vila-; vilalane * lordare ”, scr. vit ‘fango, escremento’, pracr. vilfäliya e villälah, cfr. H. Jacobi “Erzähl. in Mahar.”, ‘imbrattato’; Haimak’., IV 422: us/d ‘avanzo d’un pasto”, scr. ukkhista- da ud + cis; ughadané aprire’, scr. udghat; bikat ‘difficile’, ser. vikula- ‘grande, enorme’; velh ‘lavoro’, ser. visti-; vitambana ‘raggiro’, da un scr. vistambh; e, per trasporto analogico, u-lhanê ‘al- zarsi’, dappoiché il sanscrito stesso mostra la rad. stha- lingualizzata per l’azione di suoni precedenti. A questa schiera ascriveremo altresì quei tipi, nei quali dalla lin- guale esplosiva, cioè d, sorse una ling. continua, o un suono affine, cioè / e |, p. es. nel palico gula-kila ‘giuoco dei birilli’, dove kila risponde al ser. kridã (Hardy, no-

Saggiuoli neoindiant. 133

vella di Ghosaka, Journ. of the R. A. S. 1898 oct.); e il pracrito per lo stesso tema ci darà kila, come presenta il sostituto solasa al scr. Sôdaça ‘sedici’, e pil, pell, che ri- torna nel pengiab. pel, per il scr. pîd ‘premere’, pal. pi- dahitvä ‘premendo’ (Ghosaka). E dove si tratti d'originaria espl. linguale aspirata, il palico, in buona armonia coi casì precedenti, reca Ih per dh; cfr. il pal. dalha ‘saldo’, scr. drdha-; anzi, come è noto, già perfino il vedico offre il medesimo scambio in w{ha- = üdha- ‘vectus’, ecc., v. Ascoli Studj Crit. trad. ted. 283 n.

La seconda categoria abbraccia naturalmente i casi in cui la linguale sorge per assimilazione da una dentale che si trovi in diretto contatto con un suono d'indole linguale (come avviene in sanscrito per effetto di $ in nesso con dentale, e parzialmente anche per effetto dir (e 1) ad es. in drdha- = *drzh + ta-; in nida- = *nizda-; in nata- ‘ballerino’ da nrt-; bhata- * prezzolato’ da bhria-; cfr. nel Çauras. della Ratnävali bhatta ‘marito’ scr. bhartar-; nel palico kakkavala =*-vada, scr. Kakravartã ‘regnatore’); ma più largamente ci presenta il fatto d'un'azione assimilativa che i suoni d’indole linguale esercitano a distanza, non soltanto, come in sanscrito, sulla nasale, ma eziandio sulle esplosive dentali. Così per l’appunto abbiamo gli esemplari pracritici: padiggaha * favore’, scr. pratigraha-; padhama, scr. pra- thama; e nel maratico alla medesima sensibilità assimila- tiva si riconducono: o-radanê ‘gridare’, ser. ava-hräd; gânth ‘nodo’, pracr. ganthi, scr. granthi-, e altri esem- plari, parecchi dei quali vedremo in seguito. S'aggiunge che mentre in sanscrito l’assimilazione regressiva è rarissima, pur trattandosi di suoni in contatto (J. Schmidt, K Z. 25, in proposito adduce il scr. danda ‘bastone’, allato al gr. dévdoov), il moderno ce ne offre dei casi anche a di- stanza; e ci appelliamo alle voci marat. daranè strac- ciare’, scr. dar; dolanè ‘scuotere’, scr. dul- (Navalkar, Stud.” mar. gr.); dhakaläne ‘distruggere’, radice ser, dhakk, in origine, secondo l’ Hérnle 174, formata perifra-

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sticamente da dah e kr, quindi uscente in un suono lin- guale (cfr. l’hindi or. rük ‘impedire’ [pracr. rukkai, sing.], che si scompone in rudh + kr).

Resta la schiera dove la linguale non ha altri motivi se non le miscele etniche. Di questi esempj parecchi ve ne sono pur nel sanscrito, ma si vengono riducendo per la progredita conoscenza etimologica delle voci relative; p. es. il sanscrito guda (alternante con gaula) ‘palla’, in marat., orissano ecc. gol, avrebbe la sua linguale spiegata per l’a- zione di un nesso originario con Î; si confronti l’afline ted. klotz, Wackernagel, 170. All’incontro negl’idiomi neoin- diani le linguali di tal fatta e i loro sostituti spesseggiano: v. Beames, I 219 e seg. Per il maratico ora adduciamo: odhané ‘urtare’, scr. vadh; bhösadi, ser. bhasada- nates’ ; âthi ‘osso, nocciolo’ (colla var. askhi), scr. asthi-; avel ‘inopportuno’ cioè scr. a + vaila- ‘momento giusto’; ägu! ‘dito’, scr. anguli ; dedl ‘tempio’, pracr. deülu, scr. daiva- laya-; igal ‘carbone’ scr. angara-. Negli stessi testi sanscriti della regione meridionale s’introduce il | da |, p, es. in kdja- ‘nero’, latita ‘folleggiante’, Wackern. 256, e abonda particolarmente nel maratico e nell’orissano, attigui ai ter- ritorj dei Dravidi e d’altri alloglossi, a ponente nel pengia- bico, che tocea l’afghano !), e anche nel guzeratico.

Atteso il continuo avvicendarsi del ! dentale col | linguale nella cerchia degl’idiomi pracritici, il } si ridusse a / ad es. nel maratico semidotto vilhã ‘sezione d'un libro’ (scr. vidha), per il quale presupponiamo la fase anteriore *vidha.

Per finire con questi cenni intorno alle linguali, sia le- cito mettere in rilievo la triplice figura dravidica d’un me- desimo suono interno, onde p. es. alla voce tamilica per

1) Nell’afghano, oltre alle vere linguali t d n, s'incontra di spesso ! da un anteriore d; fatto questo che, secondo E. Kuhn, Beitr. 38, insieme col trapasso di d in r, si connetterebbe coll'estendersi delle linguali. Dal Grierson, Linguistic survey of India, northw. front., ri- cavo alcuni esempj dell’equaz. afghana J = d: tsalor, scr. Ratvar; las, scr. daca; sil, ser. gata; lire, scr. dura- ‘lontano’, ecc.

Saggiuoli neoindiani. 135

‘polledro’, cioè köri, il telugu e il canarese rispondono ri- spettivamente con ködi e köli. Questo fatto è degno di nota, perchè il medesimo rapporto ci è offerto nel neoindiano dai derivatori secondari per d (comune all’apabhraca), ! e |, e r(r), che valgono a formar diminutivi. Cfr. il sindh. diart ‘figlioletta’, hiarô ‘coricino’; l’hindi orient. palan- garî ‘piccola lettiera’, marat. palangadi; l’aggett. marat. läbodä e läbolä ‘lunghetto’, ecc.

Ma veniamo oramai al nostro intento, vale a dire al- l'esplorazione di alcune voci neoindiane, in ispecie mara- tiche, nelle quali si rivedono in viva azione le tendenze brevemente qui sopra descritte.

1.Il marat. dghol ‘bagno’, propriamente ‘acqua d’onore’, continua il composto sanscrito argha-udaka, riducendolo però a forma tale, che l’indole popolare del vocabolo spicca manifesta. Nella prima vocale troviamo che si riuniscono i due processi pracritici di compensazione per lo scempia- mento d’un nesso di conson., cioè il prolungamento, o il na- salizzarsi della vocale antecedente; cfr. I. i pracr. dasana ‘vista’, scr. darcana-; vãsa pioggia’, scr. varsa-; II. väka, ‘curvo’, scr. vakra-; ast ‘lacrima’, ser. açru-. Il mara- tico alla sua volta, come in dghol, risponde con entrambi gli spedienti di compensazione nei due ultimi esempj: vak, äsu, e così in âthi (già veduto), ser. asthi- (colla notevole variante had, Navalkar, op. c. 213). Quanto alla compen- sazione del nesso rgh, partirei dal pracr. ggh, mod. gh, v. Beames, I 319, Kuhn, Beitr. 49. Ma il fatto più impor- tante che ricaviamo dalla nostra voce è la riduzione del d originario a (, la-quale non si spiega se non per mezzo di un d provocato a distanza dal 7 un tempo sentito nella prima sillaba; in altri termini è notevole il fatto d’una linguale che appartiene così spiccatamente alla seconda sezione della nostra seconda classe.

2. La medesima influenza di un 7 etimologico eserci- tata sopra una dentale assai rimota da esso, ci si palese-

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rebbe, a mio credere, nel marat. pahatà ‘mattino’, che riviene chiaramente al scr. prabhata-. I fenomeni di pa da pra-, di h da bh e della quantità variata non escono dall’ ordine consueto delle alterazioni moderne. Piuttosto noteremo che la sorda mantenuta nell'ultima sillaba sembra dire manifestamente che si tratti d'un riflesso d’origine se- midotta.

3. Il succedaneo d’una linguale dovuta all’azione as- similativa di contatto s’incontra nel marat. velhälä * bella donna’, che ritengo sia derivato col suff. secondario. -Jã dalla base scr. v»ddha-, per via delle dentali alterate pra- criticamente (*vrddha). Nelle considerazioni generali ab- biamo veduto che a d può rispondere tanto | quanto |; e qui, nel nesso lh, saremmo appunto alla seconda risposta. Quanto al valore lessicale, cfr. il scr. vardh, che dice anche ‘prosperare, farsi eminente’; quindi il significato di ‘grande, eminente, bello’, assunto dal participio. Ri- spetto a e da r vedi ciò che si osserva più sotto a pro- posito del tema nirvedh. La colorazione linguale dell’an- tica esplosiva, l’esito del r e l’aggiunta del suffisso secon- dario provano a oltranza che ci troviamo dinnanzi a uno schietto tadbhava.

4.Il tema verbale che abbiamo in valhândane ‘salire’, è una forma notevole sotto più rispetti. Si fonda sul san- scrito langh e rangh- ‘saltare’, preceduto dal prefisso upa- che pracriticamente assume le due forme uva- e va-, onde anche ba-. Cfr. col scr. upavista- ‘seduto’ il pracr. uva- vitthai ‘egli siede’, hindi baithai id., apabhr. baitthau ‘seduto’. Nel nucleo radicale, oltre alla lunga peculiare del maratico, sono importanti i tre fatti seguenti: 1.° la metatesi dell’aspirazione, come nello zingaresco khand ‘odore’, scr. gandha-, nell’hindust. phandna ‘legare’, ser. bandh (v. Ascoli, Studi Crit. II, ‘I continuatori latini delle ant. aspir.’), e, con vece opposta, dal scr. bhagini il pracr. bhaini e bahini, marat. bahini: 2.º il passaggio dell’esplo- siva gutturale nell’esplos. dentale: 3.º il susseguente trapasso

Saggiuoli neoindiani. 137

della dentale nella linguale, per cui risulta la serie g - d - di, che nell’ultimo termine ci somministra un buon saggio degli effetti di | o r antecedente sulle esplosive dentali; v. Wacker- nagel, A. Gr. 169 e segg. Quanto ai due primi termini della serie, cioè al passaggio di g in d, se non basta a provarlo l’evidenza stessa del raffronto fra [hand e langh, mi riferisco al radicale del verbo mar. bhôdanê ingannare’, che s'ap- paja colla radice del scr. bhangura-vani- ‘falso, inganna- tore’, ripresentandoci, ancora in nesso colla nasale prece- dente, la dentale in cambio della gutturale sanscrita. Il co- lore della vocale moderna sarà da attribuire alla vicinanza del suono labiale; si confrontino bokad, scr. barkara ‘ca- pretto’, Okanê ‘vomitare’ da vam+ kr, ed altrettal. Il trasporto organico di ng a nd, ignoto al sanscrito, ram- menta il rapporto fonetico in cui si trovano le figure av- verbiali tamiliche ingu ängu ‘qui, là” coi paralleli indu ändu, che, insieme coi sinonimi canaresi iga äga, sembrano varianti fonetiche d’un tipo solo. Vedi invece il Caldwell, Comp. Gr. 326 1).

5. In bhulane, hindust. bhulna dimenticare ", se non troviamo propriamente la linguale che ci aspetteremmo stante il y del corrispondente scr. mrdh ‘scordare’ (e questa mi sembra la sola spiegazione etimologica possibile della voce maratica), compare a ogni modo il suono prossimo alla linguale, cioè I. L’esito del sanscrito è quale ce lo dobbiamo attendere, data la labiale precedente, vale a dire u; cfr. il palico mudu, scr. mrdu-, vutti, scr. vrili., e il sindh. muö, scr. myta-. Lo spostamento poi dell’aspirazione lo sappiamo frequente in codesta cerchia di lingue; e anche b da m documenta con parecchi altri esemplari maratici, come bho] semplicione’ (ser. mudha- ‘stolto’) con 0=% (cfr. old visto di sopra) e pur colla metatesi dell’aspirazione (altra cosa sono il marat. bhala, e il bengal. bhäl ‘buono’,

1) Nel pracrito, all'opposto, abbiamo il nesso kh per th: khambha ‘stipite’, scr. stambha-, khänu ‘ceppo’, ser. sthanu-,

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138 C. Giacomino,

affini al scr. bhalla- variante di bhadra- Wackernagel § 195); e variamente in bud ‘perdita’, propriamente ‘tosatura’, se questo tema fa veramente capo al scr. munda- ‘tosato’; beduk ‘rana’, scr. manduka- id., e qui di nuovo nel ma- ratico la nasale tace. Cfr. il num. seguente,

6. bhejanè ‘mescolare’ (Kennedy), accanto alla forma causat. melavinè (che si vuol connettere con mil, Haimak'an- dra, IV 28). Per l’aspirata di dhe} vorrei partire dal tema scr. micla-, parallelo al sinonimo miçra-, che appare nel verbo micray-, imaginando che le forme di trapasso siano state *mesl *mehl*). Alla sua volta il | spetterebbe al lin- gualismo specifico dei parlari neo-indiani; e il trapasso di mh iniziale in bh, come in bhulanê e bhol, sebbene a formola iniziale, si potrebbe forse spiegare per la stessa transizione *mbh, che, a formola interna, si vede nel pracr. bambhana da bamhana, scr. bràhmana-.

7. Torniamo a trovare una linguale per il fatto consueto d’assimilazione, nel marat. vikräl ‘brutto, sformato’, che mi si rannoda direttamente col scr. vikrta- id.; e questo esempio ci riconduce al | per d, già accennato, dei mo- derni temi del partic. perf. passivo. In questo esemplare l’esito del > anteriore in -rã- si presenta come un com- promesso singolare tra il solito risolutivo maratico: à (p. es. in path, scr. prstha- ‘schiena’, Beames, I 162; cfr. il palico a di kasati, ser. krsati, gaha, ser. grha-), e quel- l’altro per cui in voci semidotte il » si continua per ra ri ecc., p. es. in rin ‘debito’, scr. rna-, nel palico brahant, ser. brhant- ‘possente’, Kuhn, Beitr. 15. Perciò riesce evidente che lo stampo peculiare di questo agget- tivo maratico dipende da una perturbazione fonetica do- vuta a influenze letterarie; tantochè diventerà superfluo pensare all’ attrazione analogica dei suffissi aggettivali pur maratici -ä/ (Beames, II 90, Hörnle 119) e -Gdu, p. es. in

1) h da sibilante occorre nei marat. pähan? ‘vedere’, scr. paç-, in sahä ‘sei’, daha ‘dieci’, bähattar * settantadue', ecc.

Saggiuoli neoindiani. 139

kheladu ‘scherzoso’; e -ädu ci rammenta, quanto alla fi- gliazione della linguale, gli apabhr. evadu tevadu corri- spondenti ai scr. jdvat tavat; cfr. tuttavia l’Hòrnle a p. 2891).

8. La linguale d ritorna nel verbo mar. badavané ‘castrare’, che io non esito punto a riferire alla radice scr. vardh ‘tagliare’, presente nel partic. vrddha-, in var- dha- ‘separazione’, e in vardhaka- ‘legnaiuolo’. Pertanto il bad maratico starebbe per *bardh, e l’esplosiva labiale, sottentrata alla fricativa, trova un ottimo compagno nel b di parecchi affini moderni di vrddha- ‘cresciuto’, cioè nel pengiab. budhd, nel sindh. budhò, nel bengal. buda; cfr. al- l’incontro il pracr. vuddho, Haimak'andra II 40, e le va- rianti pur moderne bada, vadda nel senso di ‘grande, grosso’, Beames, I 163. Da alcuna delle voci qui addotte già si scorge che le aspirate riducono talvolta nel mo- derno alle semplici esplosive, sovrattutto nel maratico, per il quale il Beames, I 273, riferisce säde, scr. sardha- ‘con una metà’, cidi ‘scala’, scr. cristi, ed altrettali.

9. madhé, che vale nel maratico ‘morto, cadavere”, è, salvo l’uscita, da appajare col scr. mrla-. Il sanscrito stesso già ci presenta un suo mafaka-, forma evidentemente pracritica, secondochè attesta la linguale. Nel palico ab- biamo il solito riflesso di 7; quindi mato, matabhava ‘caso di morte’ ecc. (Hardy, novella di Ghosaka), e per altri ra- dicali mattha bhattha, ser. mrsta- bhrsta- (Ascoli, Studj Crit. II, ‘Invertimento della formola h + esplos.”). Il nostro tema, foggiato coll’uscita normale del neutro marat., cioè e =-agam -akam, cfr. Hörnle, 184, ci presenta un fatto caratteristico nell’aspirazione della sonora procedente dal ¢ etimologico *). Dovunque si voglia cercare la causa di

*) Credo sia da escludere ogni connessione etimologica di vikral col scr. vakra- ‘torto’; poichè quest’ ultimo aggettivo ci è riprodotto dal maratico nella forma vákada (Kennedy).

3) Quanto a questa sonora, avvertiamo la forma del magadico male = made, scr. mrta-, Lassen 423, Hörnle 140.

140 C. Giacomino,

questo fenomeno, da attribuire secondo il Lassen, Inst. prac. 291, a res attigui, come in tattha, scr. tatra; mettha, scr. mitra-; cfr. pure Jacobi Erzähl. § 21, Trumpp, xXxxvIII ecc.), il fenomeno, in e per sè, è bene accertato, poichè già com- pare nel pracrito, dove per la radice mard, marat. malane ‘macinare’, Haimak'andra adduce i tre sostituti mala ma- dha e madda; e si ripresenta in qualche altra voce mara- tica, ad es. nel seguente |

10. nirvedh ‘contento’, scr. nivvrta-; v. R. Schmidt, versione marat. della Cukasaptati I; nirvedh man karun facendo contento l’animo, rallegrandosi ’. La dentale dove ci aspetteremmo la linguale si deve ascrivere all’oscilla- zione frequente fra linguali e dentali. Quanto all’ e da 7, già il sanscrito stesso ci geha- insieme con grha- ‘casa’, e in pracr. abbiamo, dalla rad. grah ‘prendere’: genhai al- lato all’ibrido grnhai (3.º pers. sing.), ecc.

ll. Un caso analogo al precedente s’ayrebbe nel mar. madhane ‘esser coperto’, se s’ammette che m possa prove- nire da v sanscrito. Il trapasso pracritico di m in v fu, com’ é ben noto ad ognuno, splendidamente illustrato dal- l’Ascoli nel primo de’ suoi Saggi Indiani, Stud. Cr. II. La formola inversa spunta in qualche raro caso del med. in- diano, in cmank- allato a sv-ank- ‘leggero’, in hmal ac- canto a hval ‘vacillare’, Wackernagel 197; negli esempj addotti dal Lassen, 450, dell’apabhr. gama tâma per ya- vat lävat; forse in purima- = purva- (Ghosaka), e in pochi altri incontri. Pertanto, se possiamo fondarci su codesta equazione, madhanè (attivo madhaväne) ci risulterebbe un denominativo della forma partic. scr. vrta- ‘coperto’, rad. var, in analogia al caso precedente.

12. Un’apparente contraddizione fonetica ci si mostre- rebbe tra il tadbhava marat. ven ‘secondo parto o nasci- mento’, che per *vyan, *(d)vigan!) risalirebbe a dvi+

1) Quanto al dileguo di j interno tra vocali cfr. il pracr. teyas, scr. tegas, raya, scr. ragan- ecc.

Saggiuoli neoindiani. 141

“gana = ganana- ‘parto, nascimento” (con e = ya come nel- l’hindi ner, magadh. niadã, scr. nikatam ‘vicino’ (Hôrnle 83), e il tema pur marat. unh o ün (Kennedy) ‘caldo’, scr. usna-, insieme ad unhäld ‘estate’; poichè nel primo nome la lin- guale n sembra arbitraria, mentre manca negli altri due, dove la dovremmo ragionevolmente attendere in concordia col suono sanscrito. Ma il fatto si potrà per avventura spiegare ascrivendo il n di ven allo strato glottico dell’etä pracritica, e supponendo che il difetto della linguale sanscr. in unh provenga dall’invertimento della formola hn a nh.

13. Attesa l’affinità del radicale, tolleri qui ancora il nome üb ‘calore’, propriamente *ubh (oppure *umbh), svoltosi dalla forma pracritica umha da usman-, Ascoli, Stud. Cr. 251 della trad. ted., per mh in bh, oppure per vh in bh, cfr. di nuovo Ascoli, Stud. Cr. 196 come sopra, e Lassen 270; il qual vh, alla sua volta, farebbe capo pur sempre a mh.

14. Il conguaglio g=dy è normale nel pracrito e nei suoi discendenti; talchè ad es. il marat. vig ‘lampo’ ci richiama tosto il scr. vidyul-, sindh. vigu. Per contro è raro l’esito gh da dhv. Tuttavia il maratico ce ne offrirebbe un bel saggio nel suo vighané ‘spegnere’, in cui ravviserei il scr. vi-dhvan- ‘spegnersi’ 1). La spiegazione di questo pro- dotto moderna si fonda sull’alternare di v e y, che, secondo il Bopp, il Benfey ecc., già si presenta nel vedico, e si mostra dipoi anche nel pracrito. Haimak'andra, II 15, tocca del tra- passo di dv in g (propr. gg) e dhv in gh (propr. ggh), e adduce gli esempj viggã da vidvan, e bugghä da buddhvä, sebbene per l’ultimo esempio sia puranco da pensare a una forma gerundiale derivata col suffisso -ya e con oscillazione analogica della vocal finale, pur trattandosi d’una radice

*) Non mi sfuggono le difficoltà d'ordine fonetico in cui incorre la mia interpretazione di codesta voce maratica, ma non mi pajono insormontabili; inoltre m’aflida la grande congruenza dei valori ideali.

142 C. Giacomino,

verbale spoglia d'ogni prefisso; vedi ancora Beames, I 332, e presso Jacobi, Erzähl. $ 28, il pracr. sagghasa per ıl scr. sädhvasa ‘confusione’, e ghaya, ser. dhvaga ‘bandiera ”. manca ty in luogo di tv, per es. nel palico kakkara scr. Katvar-, Kuhn, 45, Lassen, 258, mentre il pracrito ottenne Raltàrò assimilando v al £ precedente. Si noti per di più la semplificazione o aplologia avvenuta in questa voce maratica, la quale a rigore dovrebbe suonare *vigha- nane, essendo -ane il derivatore (neutro) del nome ver- bale; dove avviene di citare l’accorciamento analogo che ci è offerto da o-panè ‘vendere’ per “o-panané, scr. ava-pan.

15. Indipendenti dall’ oscillazione tra media e tenue aspir., che già compare nel sanscrito, sono senza fallo le sorde che troviamo nei marat. vithar ‘bisognoso, man- cante’, scr. vidhana-; vethà ‘pena, malore’, scr. vyadha- ‘trafittura’ (e viddha ‘ferita’, inoltre vaidha); u-matane ‘esser impresso ’, scr. ava + mard premere, calcare’. Se- condo ogni probabilità, queste voci maratiche sono impron- tate a un fenomeno dialettale che rammenta un tratto ca- ratteristico della paiçaki, il mutamento cioè delle sonore in sorde, al quale non è del tutto estraneo nemmeno il pa- lico, v. Kuhn, 40. Per la paiçaki, Vararuk'i (nel testo ri- ferito dal Lassen, 439) adduce esempj di questo genere; mekhö, scr. maighas, dasavatana, scr. dacavadana-, Gô- vinto, ser. Gauvinda- ecc. Haimak'andra, alla sua volta, IV 307, cita satanam = scr. sadanam, paleso, scr. pra- daica-, e al $ 317 ricorda la riduzione di dy in ti, per es. in yäliso taliso per yädrca- tädrça-. Ora noi sappiamo che paisacica (da piçãka- demonio, diavolo’) era chia- mata dai grammatici antichi, per dispregio, la lingua di rozze tribù stanziate a settentrione e a mezzodì del terri- torio ariano, e perciò propria anche dei Dravidi arianiz- zati del Dekhan. E secondo il Caldwell, Comp. gr., 2.º ed. 21-22, il fatto delle sorde sostituite alle sonore è ap- punto un lineamento essenzialmente dravidico; talchè ad

Saggiuoli neoindiant. 143

es. la voce scr. bhägya- ‘fortuna’ diventò in tamilico pak- kiya*). L’Hörnle xıx, mentre avverte il fenomeno dravidico, suppone che le lingue neosanscritiche non ne offrano esemp).

Il marat. vithar allato al scr. vidhana-, oltre al dare esempio della sonora in sorda, pare che ci dia r per n, il quale scambio sarebbe pure di ragione dravidica. Così, al telugu e al canarese n, il tamilico risponde con 7, come ad es. si vede dal tamil. kuri ‘cavità’, che è kuni nel canarese. Per il caso maratico tornerebbe però a capello anche il palico givar eva = givann eva, Kuhn, Beitr. 38, senza dire del trapasso inverso che Haimak'andra, II 132, ci addita nel pracr. mangara e vangara per il scr. mär- gara- ‘gatto’. E passando a vethã =vyadha- noteremo ancora l’e da ya, e il trasporto di significato da trafit- tura” a ‘malore, pena, angoscia’, che non richiede com- menti. Finalmente, quanto a u-matane, e i sostituti di mard, cioè madha, madda e mala (Haim. Iv, 126), marat. malane, rammenta che la linguale va ripetuta dall’influsso del r. La stessa radice si mostra alterata ancora più pro- fondamente nel marat. mau, scr. mrdu- ‘molle’; col quale imau abbiamo un terzo esito maratico del d che appartiene al radicale sanscrito.

Milano, Dicembre 1899.

1) E ben vero che anche nello zingarico codesta riduzione è se- riale; ma è ristretta alle sole aspirate, come per l'appunto avviene anche nel greco antico; cfr. Ascoli, Fonol. 167, ecc.

F. G. FUMI.

SUL NOMINATIVO SING. DEL NOME ARIANO.

nn ent

1. Il Ns. del nome ariano, non contato quello dei fem- minili in -& e -ya/ê (uso y w per 4 u) e dei neutri, offre il doppio tipo notissimo in -s, maschile e spesso comune, ov- vero senza -s, generalmente comune, e con allungamento del- l’ultima vocale del tema. E superfluo allegare gli esempi), non però inutile il ricordare che il Ns. sigmatico domina nei temi finiti in -e/o, in «i ed -u, anche dittongali, in esplo- siva, per regola nei monosillabi radicali e in gran parte degli ultimi componenti; mentre l’asigmatico allungato è proprio dei temi, in ispecie polisillabi, uscenti in -n, -», -s, anche finali di composto, e di alcuni in dittongo lungo. Par quasi intuitivo, e la grammatica come la glottologia non dissentono, che l’-s, esponente del Caso retto nel sin- golare e soprattutto pel maschile, sia il residuo di quella radicola indicativa che sopravvisse qual pronome e persino come articolo nelle lingue ariane: N." scr. e-sá gr. è lat. [ip-]se, e con innovazione flessiva scr. sd-s gr. Os in 7 d'os ‘ei disse’ lat. arcaico [ip-)so-s ecc. Il Ns. asigmatico allungato, all'opposto, non si presta all’ipotesi d’un’origina- zione così trasparente e merita perciò che sien vagliate le spiegazioni datene fin qui e che senza preconcetti audiatur et altera pars.

Menziono solo per memoria la spiegazione sim- bolica, per la quale l’allungamento del Ns. sarebbe stato dinamico o psichico, cioè intenzionale, quasi che gli anti-

17

146 | F. G. Fumi,

chissimi Proto-arj si fossero soffermati parlando sull’ultima vocale di quei dati nomi per indicare il soggetto dell’azione. A prescindere da più ragioni intrinseche ed estrinseche che s'oppongono a siffatto concetto, basterà osservare che il simbolismo ha fatto il suo tempo nella storia dei fatti umani, tanto che neppure Federico v. Schlegel lo vorrebbe oggi difendere nel fatto umano del linguaggio. Più na- turale e però più tenace è il pensiero, che i nostri temi avessero anch'essi da principio il Ns. coll’esponente -s e che della scomparsa di questo avvenuta sin dall’ unità serbas- sero traccia nell’allungamento della vocale precedente. Ma tale spiegazione, che avrebbe il merito di ricondurre ad un solo principio di formazione i due tipi di Ns., fu infirmata dai recenti studj più larghi e rigorosi sulle fononomie delle singole lingue ariane, giusta i quali gli esiti di vocal breve seguita da -ns (-ms) e in parte da -rs non dànno gene- ralmente gl'identici prodotti nel nostro Ns. che in altre forme o categorie. Mi contenterò di pochi ess. più alla mano: N." scr. demä na mälär vedico e mata, avestico e -arsa mata con -a = -à, gr. dxuav Avio ay-tywe &eenv uälfrne mav-uttwo ecc., ma invece scr. dgan ‘venisti’ dkar ‘facesti’ per *gam-s “har-s, avest. ner*-s Gen. s. ‘dv- deös’ e nar-s *dvégos”, gr. tovs = rovs cretese, eis êç = *êv+s deo [-norns] = scr. dan Gs. ‘di casa” per *dam-s ecc. ecc. Come si vede, le risultanze, in ispecie pel trattamento vo- calico che è l’essenziale, non son pari; e, anche fatta ra- gione di particolari azioni analogiche, d’innovazioni locali, di vicende fonetiche proprie dell’ arico o di quella greca concernente -vs + cons., l’esame esteso e complessivo dei due esiti in tutte le lingue sorelle conduce a supporli originati diversamente, apparendo nel Ns. l'allungamento che con termini di grammatica greca diremo organico e altrove il compensatorio.

Per questo motivo e pel mutato concetto del vocalismo proto-ariano, alla detta opinione è venuta sostituendosi quella, a cui sembrano essersi acquetate in generale le

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 147

scuole moderne di glottologia, a giudicare almeno dai libri di testo del Brugmann, dello Henry e del Giles. Poichè si è detto i temi in discorso, radicali o suffissali, hanno ultima la coppia vocalica e/o e fra i gradi di essa c’è il. forte o alto 6/6, si constata che il Ns. di quei temi ha appunto questo grado, e tanto basta. Certamente il rico- noscere e descrivere i fatti è il primo canone del sano me- todo scientifico; il che non può precludere la via al no- bile desiderio del rerum cognoscere causas; altrimenti la scienza non sarebbe che statistica o al più dotta rassegna. Ognuno ammette, al contrario, che ogni ramo dello sci- bile è sempre cresciuto sul buon terreno delle constata- zioni, ma sorpassandole e progredendo per via d'ipotesi, che vanno dalle deduzioni alle induzioni, cioè dagli effetti alle cause o dai fatti ai loro moventi. Questo cammino fa- tale non deve esser vietato, mutalis mutandis, all’inda- gine scientifica della parola, quando dai fatti ben certificati tenti interpretando assurgere ad altri come causali, sien dessi ormai invisibili o morti addirittura. E così il glotto- logo può arrestarsi, poniamo, innanzi alle vocali lunghe di radici e suffissi gravi, quali appajono ad es. in scr. ma-tdr- e sarvá-tãt-, in gr. ua/ú-teg- e dA6-tà/Nt- ecc.; ma innanzi alle lunghe di radici e suffissi lievi, come è (con ri- serva di altre) delle forme del nostro Ns., è forzato a pensare alle possibili cagioni dell’avvenuto allungamento, una volta che tutto l’induca a porre originarie le vocali brevi. Intanto, lasciando a parte le vicende della così detta metafonia, la gradazione vocalica, che per le lunghe mobili scende al- l’oscuramento, a, o all'espulsione, zero, e per le brevi e/ö, oltre di pari discesa ai due stati riduttivi, sale ad 6/0, s'è parzialmente motivata dalla diversa accentatura primitiva associata ai diversi coefficienti fonici della parola ariana. Laonde, per tornare al nostro argomento, è logico che si cerchi il motivo della doppia quantità, p. e. in queste forme greche: yorw a-gewv Ns., ma poév-a &-ypor-a Acc. 8., così ratio e matég-a, eU-rratwo ed ev-rratoo-a, aidws Av-audrs

148 F. G. Fumi, ed aldò=*aldoc-a dv-adéa - = *dv-aidéo-a e in altrettali delle altre lingue.

Indi è che (omessi alcuni precursori, Möller, Fick ecc.) dapprima il Torp (Den graske Nominalflexion; Christiania, 1890) e poi più largamente e dottamente lo Streitberg (Dehnstufe in Indog. Forschungen, III 305 ss.) tentarono la spiegazione del fenomeno. Per essa, in sostanza, i temi col Ns. asigmatico allungato avrebbero avuto la finale e/o e il normale esponente -s, ma sin dall’unità si sarebbero sincopati avanti ad esso e la quantità della vocale per- duta sarebbe passata a quella immediatamente anteposta. Con tale processo, ad es., i proto-ariani e/’rse|on*-s o pate/or*-s prudente non accentare) potevano soprav- vivere, come in realtà di cosiffatti han sopravvissuto, od anche sdoppiarsi, a partire in ispecie dal Ns., in due pa- radimmi, talora in un paradimma misto, o finalmente ri- dursi del tutto a quello consonantico, come è dei gr. ée0nv äçom doenv e rare, dei scr. (*'rsã) vr'sã e pitd, del- Vavest. -arsa ecc. Si tratterebbe dunque d'un allungamento meccanico o fisico, d'una traslazione della mora articolativa, insomma dell’assorbimento d'una vocale uscente nell’ante- posta prodottosi per gradi e a contatto di suoni speciali nel primo costituirsi della flessione proto-ariana; e perciò quelle vocali protratte non sono ragguagliabili alle com- pensatorie, sorte o no nelle singole lingue, ma vennero a queste come semplici e primeve per eredità della lingua madre. Tutto ciò è hen plausibile e chiaro. Non è per altro ben chiarito dalla glottologia, se gli esiti -ns, -rs si siano ridotti a -n, -r sin dal proto-ariano; indi tornerebbe la difficoltà, di cui abbiamo già toccato. Si obbjetta in secondo luogo, che nei paradimmi dei temi in -e/o e dei nostri non s'intravede, pur concessa la primitiva unità flessiva e fatto il debito conto delle modificazioni fonetiche, degli ete- rocliti e dei metaplasti nelle lingue storiche, quell’armonia che dovrebbe risultare dall’originaria unità tematica. Una terza obbjezione riguarda l'eccessivo livellamento dei temi

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 149

nominali proto-ariani, cioè l’ostracismo violento dato ai temi in consonante, così numerosi e svariati in tutte le lingue ariane. Con ciò non si vuol negare, che certi scorci ab- biano avuto luogo ab origine in dati temi e forme, mas- sime di Ns. e in fin di composto, onde siano nati allotropi e decomposti (ad es. il suff. participiale -nf può essere da antico -nt e/o, come i scr. kr't- jit- hdl- si spiccarono da krid- jitd- hatd- e via dicendo); ma, tutto sommato, non pare si possa romperla colla tradizione lessicale e gramma- ticale per levar di mezzo i temi in -n, -r, -s, ben saldi e venerandi, e ciò per avere un gancio sit venia verbo —, a cui appiccare quel riottoso del loro Ns.

II. Una spiegazione consimile, ma rispettosa della tra- dizione, soglio additare da anni in iscuola come semplice possibilità, non ancora messa fuori, ch'io sappia, da altri, e la comunico ora sommariamente per iscritto, perchè i competenti giudichino o trovino di meglio; e se parrà un gancio anch'essa, mi consolerò della mia sorte con quella toccata in parte ai valentuomini surricordati. Ammesso dunque che l’indice -s sia mutilazione della radice e pro- nome se/o, per simile ufficio avrà potuto essere adoprata anche la radice e pronome e/o: tutt'e due superstiti col senso di ‘hic, ille’, e aggiunte di buon’ ora al tema per designare come singolo e personale il soggetto. Questa ra- dicola e/o non è rimasta, a dire il vero, nelle lingue ariane come pronome a flessione isolata ed intiera ; tutta- via bastano ad assicurarci della sua antica vitalità i Casi sparsi, quali in scr. a-syá Gs. ‘ejus’ a-smai Ds. ‘ei’, in umbro e-sme Ls. “in hoc” ecc., e il suo apparire come primo componente in altri temi pronominali, scr. a-na- a-ma- a-va-, ê-xeivos allato a xeivos xTvos, osco e-kas ‘hae’ ecc. Anzi è degno di nota che le due radicole vie vano accoppiate nel scr. a-sa-u Ns. ‘ille, illa’ (con -sa- da chiarire in séguito) e nell’osco e-sef Ls. ‘in eo’. Non disputeremo, se l’-e/o finale di temi nominali e verbali sia parte di essi quasi nativa, ovvero questa radicola come

150 F. G. Fumi,

suffisso di derivazione; ma non possiamo dimenticare, che si pensa ad essa parlando, ad es., dell’ affisso personale di 3.2 persona nel Perfetto attivo, oëd-e = scr. véd-a, dell’ au- mento é-, scr. a- (7, scr. à anche isolato avverbialmente, forse originarj Strumentali), del primo componente del pro- nome di 1.º, &yw, scr. a-hdm, e in ispecie di quell’é che appare in più lingue come rinforzo di Casi fatti, scr. áçvây-a Ds. ‘equo’ dçoäy-ä-m Lfs. ‘in equa’, avestico anhav-a Ls. di anhu-s ‘signore, mondo’ = scr. dsu-s, scr. nadisv & ‘in fluviis”, a cui rispondono le uscite avestiche di Lp. -h/Sv-a, lituano rankoj-e Ls. ‘in manu’ e rankos-e Lp. “in manibus’, del pari zemej-e (2èmé) “humi’ e, se -e non é per “en, i pa- leo-bulgari kamen-e sloves-e svekrüv-e ecc. È quindi verisi- mile che tal determinante sia stato in uso sin dall'unità anche con temi nudi come equivalente dell'altro, esso pure posposto ai temi nudi, e che i due aggregati fossero aggluti- nazioni, più o men sinonime, progenitrici di quella forma flessiva, che poi si disse in grammatica N.’ sing. maschi- le-femminile. La ricca fioritura formale dei linguaggi primi- tivi è nota; e però nel proto-ariano il lusso degli esponenti per un medesimo Caso non può sorprendere, quando si os- servino le altre lingue e in ispecie nelle nostre si ricor- dino, p. e., le varie figure nominative armene têrs têrd tern ‘dominus’, 1 cui esponenti tornano appunto a tre di- verse radici pronominali, e le varietà, almeno storiche, dei Genitivi, degli Strumentali e dei Locativi ariani nel solo singolare. La partizione poi dell’una figura per certi temi e dell’altra per altri può essere dovuta alla selezione capric- ciosa del linguaggio, per la quale è spesso rotta la via ad una sicura ricerca. Ciò non ostante alcuni punti d’accesso pajono indicati dalla lessifonia e dalla fonofisica; in quanto per antichi adattamenti di fonetica sintattica e per conse- guenti propagazioni possa essersi irrigidita in pochi prototipi l’una o l’altra variante, e in quanto ciò che val meglio la qualità fonematica delle finali nei due ordini di temi siasi accomodata più all’uno che all’altro esponente, consi-

Sul Nominativo sing. del nome ariano. “as

derata soprattutto la tendenza ariana in generale a sfug- gire e alterare nella frase e nella parola in gli esiti ns, rs, -ss (ed -6/0y/w).

Immagino pertanto che i temi a Ns. asigmatico l’abbiano fatto coll'esponente e/o, smarritosi ben presto nella compa- gine flessiva e rappresentato per trasporto morario dal dop- pio tempo della vocale antecedente. Così sarebbero nati nel proto-ariano N." come i seguenti: akme/on e/o in ak- me/ön e del pari ku(w)ön pate/ôr swesör äwsôs dus-genés weyd- ovvero wi dw Os e simili, onde in scr.

dcmä gr. dxpoov lituano akmu, scr. cuvà çod x0(F)wv lit. szun e sau, pita nario [unteo-]mdtwe, sudsã *Ewp (documen-

tati éoo Vs.?, éoo-es Np.) sorôr lit. sesu, lesbico avws au- rör[-a) Pos Ews, dur-janäs dus-yevis de-genèr, eidus e si- mili, Qui forse gli archetipi, onde il scr. sdkha, l’av. hakha = -*G, ma hashê Ds. ecc. e i gr. (F/aryo Aa/nrw., se fatti col suffisso -e/oy (-e/ow), non da anteriore -e/oy® (-e/0w°); di che più tardi. Gli avanzi di neutri in é/6(n) sing. e pl. sono probabilmente scambj di singole lingue; in ogni modo l’-a pl., scr. -î, gr.-lat. -à, tornerebbe più ad -& che al no- stro -e. Quanto alla caducità di -n, -r al Ns. in arico e del primo anche nell’italico, nel germanico e altrove (ra- tio mentiô ecc. gotico rabjo paleo-irico -mitiu ecc.), ognun sa che è fenomeno, forse dialettale, proto-ariano, tutto esteriore e indipendente dall’allungamento della vocale che li pre- cede. La mia spiegazione congetturale, come del resto an- che l’altra, non può naturalmente esser dimostrata; basta che apparisca plausibile e fondata sopra i fatti reali e sul- l'organismo generale del tipo linguistico indo-europeo. Al quale intento credo dover prevenire e ribattere alcune dif- ficolta od obbjezioni, comuni in parte anche all’altra spie- gazione.

La prima difficoltà può venirci dalla qualità tonica, p. e. indo-greca, della vocale allungata, che risultando da com- penso morario avrebbe dovuto avere l’accento così detto bici-

152 . F. G. Fumi,

pite o trascinato, insomma un tono grave-acuto o acuto-grave, cioè la pluti indiana e il perispomeno greco. Noto anzitutto che non è proprio un domma l’efficacia di documento proto- ariano voluta riconoscere nelle fasi fono-toniche del balto- slavo e altrove, tanto più che alcune si palesano recenti e locali anche nei varj rami baltici e che negli slavi, così numerosi, non è in tutto concorde l’interpretazione di esse fra gli specialisti. Si avverta, oltre a ciò, che nel lituano l'accento trascinato sorge anche per dileguo di nasale, e

però le forme akmù pemü sou = üxuwv “roue, allato a ou, xv mostrano d'avere assunto sul posto il loro ac- cento, come molte altre così finite: al proto-ariano rimonta solo un Ns. akmö” = paleo-bulg. kamy. Che -r sia egual- mente caduco nel balto-slavo, come nell’arico, é contro-

verso, potendo 1 lituani sesu e moté, allato a mété ‘donna, sposa’ e paleo-bulg. mati ‘madre’, essere al par di questi innovazioni analogiche. È lecito quindi concludere sulla fede della maggioranza delle lingue ariane, che non in tutte le lunghe nate per trasporto di mora, o almeno non in tutte le varietà dialettali proto-ariane, si produsse l’accentatura morante, come appunto non fu generale la caducità di-n e 7- (il lit. moter-à ‘donna’ con r conservato è forse istruttivo).

La seconda obbjezione sarebbe questa: se i due affissi si- nonimi del Ns. furono in origine -se ed -e (serviamoci or- mai della vocale cardine di e/o senz’ entrare nel mistero dell’apofonia) e quest’ultimo nel perdersi ha fatto allun- gare la vocale precedente, perchè non è avvenuto altret- tanto nella perdita vocalica di -se? Perchè ekwo se non si fece ekwös’, come dwsosTe s'era fatto äwsös’? Fra più motivi possibili del fatto rilevo quello che la lingua stessa pare segnalarci colla vitalità di so come parola al Ns., il fu- turo articolo preposto (alterno con fe/o) in greco e nel scr. seriore, non di o, che anche come pronome non ha Ns., ma, come s'è detto, pochi Casi e determinazioni speciali. Io sup- pongo dunque che l’aggregato primordiale é Rwo se abbia

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 153

vissuto più a lungo dell’aggregato parallelo dwsosTè (ac- centuo per eccezione e segno col grave la paratonia dell’en- clisi) e siasi ridotto éRKwoTs’, quando già s’ era giunti ad dwsös’, quando, cioè, l’effetto del trasporto morario non si sentiva più nella lingua viva. Così si spiegherebbe, senza pregiudizio di altre spinte, il vocalismo ridotto nel Ns. dei temi semivocalici, i più restii a ricostruirsi in un para- dimma originario, perchè la riduzione avrebbe dipeso dal subaccento dell’affisso più resistente, press'a poco come nei Casi deboli: 6weyTsè p/baghew in dwi-sé p/ba- ghu-sè, poi 6wis' p/bagh%s’ continuati, salve le mu- tazioni specifiche di forma e d’accento, in dvis bahus scr., in Os mã/ixos, e così in Woes &/fdic, in ovis munùs lat. e così via.

Una terza difficoltà infine può presentarsi alla mente, che, cioè, il doppio tipo di Ns., e soprattutto .l’ asigmatico, è ambigenere, mentre il femminile mostra per tempo una

finale particolare -à, attestata anche da sd scr. d/# [ip-] lat. ecc. Risponderemo dapprima che, data e non con- cessa la contemporanea fissazione del nostro Ns. e della mozione -d, tal’uscita avrebbe perduto la propria individua- lità e l'accento riducendosi a, per modo che, divenuta se- milunga la vocale anteposta, il femminile si sarebbe con- fuso col maschile; e che sull’analogia di tal formazione avrebbe avuto luogo più tardi la riduzione di -sã, ripeten- dosì il processo detto a proposito della seconda obbjezione, tornandosi, cioè, ad un’unica forma maschile-femminile. Si noti in secondo luogo che la ricostruzione del nostro dop- pio Ns. risale per ipotesi ad un’età del proto-ariano, nella quale 1 nomi erano verisimilmente agenici rispetto alla costituzione formale e solo pel significato, e in sostanza nel pensiero dei parlanti, andavano sviluppando il germe della distinzione del genere. Conferme di ciò non scarseggiano nelle lingue storiche, quali il doppio genere che dicemmo espresso per regola dal Ns. allungato e talora dal Ns. sig-

18

154 F. G. Fumi,

matico, come in 0 Ÿ inros, 6 7 Feds, O 7 GAs, 6 1 Ijovxos Ü-TEXVOS xaemo-pogos ecc., e femminili % 0005 vócos rageos e tanti altri delle due specie in tutte le altre lingue ariane. Il genere neutro poi sia detto di passata si può dire negativo o impersonale rispetto al sessuale che é positivo o personäle, ed è certamente posteriore, rimasto più a lungo colla forma nuda di tema e soltanto nei Casi più gram- maticali N. e A. (V.) distinto dal maschile; al quale poi tolse in prestito pei temi in e/o e pei detti Casi nel singo- lare la figura accusativa. Quanto al femminile in -& è pro- babile che abbia avuto origine da qualche tema così finito _ di senso femminino o collettivo, e che quest'-à estenden- dosi sia parso un mezzo comodo per distinguere nei copiosi temi in -e/o il femminile dal maschile (-neutro) a) singo- lare e per avere un collettivo o neutro al plurale. Che -t(y)a/é abbia avuto eguale origine dai temi in -i(y)e/o parrà verisimile, se la vece à/ê sarà provata pel proto- ariano (v. Hirt, Indog. Ablaut 145).

Tolte o attenuate le difficoltà di principio che possono opporre alla mia congettura, non sarà male renderla com- pleta con alcune illazioni secondarie. Supposto che i due tipi di Ns. siano stati più o meno coevi e quasi sinonimi nel- l’antichissimo proto-ariano, s’ inferisce che abbiano coesistito, ad es., paterTe e pater se, ekwo se ed eRwo e. Le figure con -e supponemmo essere state le prime ad assor- birlo nella vocale tematica; ma naturalmente questo pro- cesso, come ogni altro di alterazione fonica e di adattamento formale, non si dovette compire ad un tratto. E però in un periodo di transizione poterono convivere dell’un tipo i N ekwo e pater e e presto anche palér; il quale prevalendo come N. del singolare lasciò disponibile la figura sciolta pater e pel medesimo ufficio al duale. Parimenti, quando nell’altro tipo nominativo per apocope più tarda si giunse a palers e ad ekwos, disusato il primo per av- versione all’esito -rs, poteva consolidarsi il secondo pel singolare, servendo in egual modo pel duale la figura con-

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 155

densata ekwö. Così per via di sdoppiamento e specifica- zione, tanto frequenti nel linguaggio, troverebbero la loro ragion d'essere matéo-€ tmmw, scr. deva e con -u dittico 0 dualeggiante anche dçva-u, imitato dagli altri temi, pitdrà e pildra-u ecc. ll duale, del resto, pare relativamente più tardivo insieme col plurale e nelle sue scarse figure casuali, più che da questo, ritrae in buona parte dal singolare. Che poi la figura in -6 sia stata sulle prime un vero Ns. è con- fermato, a parer mio, da alcune reliquie di quella flessione pronominale, che ha tanto di suo e d'antiquato; e sono in figura ricostrutta ‘egli’ ed e-g(h)6 ‘io’. Il primo è riflesso dal scr. sa vedico e con -u dittico dal veduto asa-ú avest. hau, ambigeneri; il secondo dal gr. éyw e dal lat. egò; mentre il Ns. a nudo tema si continua nel lit. esz od dsz, got. tk, e coll’affisso -e/om o -m nel scr. ahdm avest. azem, pal.-bulg. azu (cfr. i citati N." scr. só=so+u avest. hauw gr. où[ros] ecc.). Si è detto che questa e al- tre vocali lunghe finali siano dovute ad una legge ritmica, e con ciò non si spiega molto; o si è messa avanti l’ana- loga uscita di certe forme e particelle monosillabe pur bi- sognose di spiegazione. Intanto io credo che alcune di que- ste sieno antichi Strumentali, ad es. 1 già veduti à in arico, r gr. anche in 7-d7 e in #-(F)é, il cui secondo membro ri- sponde al -vé lat. contro il scr. (da a-va, lat. au-: Lind- say), e così rgw allato a moo ecc.; altre pajono prodotti di fusioni anteriori, come (lat.) tw Ns. di 2.º persona, in ser. anche particella allato a tu e dor. tv ‘ov’, in quanto il tema sia fewe/o-, intatto nel scr. {dva Gs., e che presenta nel Ns. {uv-dm tv-dm le stesse fasi che un tema bhewe/o-, scr. bhäva-, ha in bhü-s Ns. “terra” bhuv-ds o -bhv-äs Gs. Per quanto poi riguarda l’accentatura delle figure rico- strutte pel NA. duale, come per = vedico ed e-g(h) = êyw, trattandosi di protrazione originaria non marcata in tutte le lingue ariane dal tono morante, mi riferisco a ciò che dissi sul Ns. asigmatico allungato.

HI. E tornando a questo e in genere al nostro argo-

156 F. G. Fumi,

mento, conviene tener presenti e spiegarci, quanto e dove paja più opportuno, le discrepanze ariane dei due tipi fin qui descritti. Non è mio proposito raccogliere tutta la ricca messe lingua per lingua; mi restringo a qualche spigola- tura nelle Iingue stesse, che m’hanno servito pei cenni pre- cedenti. Le incongruenze risultano in massima da va- rianti col Ns. sigmatico dove si vorrebbe l’asigmatico e vi- ceversa, e talora con un Ns. misto, varianti dovute in gran parte a rifacimenti e intrecci analogici od a sincopi secon- darie; gli uni e le altre anche distintivi, cioò a dir così caratierizzanti, avvenuti di regola nelle singole lingue, pur talora addebitabili alla lingua madre o a qualche sua varietà. Analogici, p. e., sono il laconico eons e dxtic deAypi s udxaos, l’avest. dtars ‘fuoco’ ecc. contro i N." nor- mali deony doonv e dxriv delgi v udxäg, l’av. mata da *-d”, il paleo-persico bräta “yoarn/wg’ ecc. Invece udord-s non è dal tema paerve(o)-, ma da un “uderv- simile al scr. krostr’- (-tdr-) ‘sciacallo, urlante’ di fronte a króstu-. Il Ns. téonv agg. rimase normale sorretto dai sostantivi in -y», deony adv avxty ecc., se non fu in origine un sostantivo, pari, p. e., al vetus lat.; mentre uélüs tadas, a tacere di uéyàs rifatto su uéyüv As., coll’esito speciale -av (in parte sul tipo 7r04v-74&-s ecc.?) ebbero allungamento compensato- rio, come fc dorico eis attico = Èvs cretese da sem-s e xteiç= *n’xtév-s lat. pecten, che pare, come inguen flamen ecc., dagli obliqui (forse antico Ns. *lamò A. *-ônem a giudi- care da flamôn-iu-m, ma invece sanguis da *sangue/in-s).

I due ultimi esempj greci richiamano quanto dicemmo in principio circa la normalità quasi costante del Ns. sigma- tico nei temi monosillabi o divenuti tali. Si può pensare che la preferenza sia stata distintiva, trattandosi di temi corti e spesso scorciati anche più per le movenze vocaliche della flessione, come in xi-¢ 6-goi-s, scr. bhi-s ‘paura’ bhrü-s, da radici in -ey/w, ove la lunga è una restrizione di questi dittonghi nella fase che ricorre intatta nel Gs. (y}-6s d-pov(F)-os, in bhiy-ds bhruv-ds ecc. Sono notevoli

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 157 altresì i radicali non passivi di riduzione pÃéy YAöE dos ecc. e in fin di composto foó-xÃey xaza-pÃey xala-dgoy ecc. (con vocalismo ridotto, perchè possibile, in ciivy- conjug-, &(F)c d- comil-, scr. ayuj- ‘impar’ pravid- ‘scientia’ ecc.) contro xhwy (Flowyw mage-BAwy e simili. In questi può vedersi una contaminazione dei due N.”', come in donné (scr. lopäcd-), ma anche un'analogia greca su tipi ereditati. Tali parreb- bero *@w in de-wry Esich. = *(d)vdo-dyw contro ai9-oy, scr. vak(s) lat. vöx contro vácas- dw Eros [uni-]vöcus e il tema breve di più Casi avestici, come väcäm Gp. ecc., venuti fuori per sincope secondaria di Ns. fatto, ma ancor proto-ariana, da anteriori 09°-s e we/og°-s (ma v. Brugmann, Grd. 139 e XLIII sopra à arico =o ariano in sillaba aperta). Lo stesso dicasi del ser. dvar- allato al lat. fórum, del lat. ròs allato al scr. rása-, di xr» per “yrs “yas rispetto al scr. hamsd-, di que lat. fur rispetto a bhdra- gogdc, di sus dorico srovs attico e scr. pat allato a æédo-v op-pidum e padá-m n., del scr. dyau-s gat-s col Ls. dydv-i gáv-i, come di Cev-¢ per "LInv-s e di Bws dor. Bods att., da originar) di(y)ew°-s g*0w°-s ecc. Tal processo non è escluso in prin- cipio neppur nei temi con radice grave (riservando quelli dove sarebbero in giuoco le sonanti lunghe e sdoppiate, come in nous, scr. ja-s da radice gen ecc.), quali in va/nd-s ud-s, in ww per *uYs, jonico weis, lat. mens scr. masa- e mas, in -Aev-s di Baor-led-s da *-Ani-s con tema riconiato su 1ä/né- o addirittura dall’originario A@F-, ed anche in yo&/nü-s da una base che è nel scr. jari-mdn- ‘vecchiaja’ e in molte voci greche, yeoa-10- yegd-oxw yÉoa-s/t- yoa-To- ecc.

Di &A-s e x&o-s suol essere ammessa la innovazione ana- logica. Non sarà tuttavia inopportuno il ricordare che il primo è l’unico tema in -l e che nel greco son parecchi derivati da temi almeno in apparenza suffissali, dAd-Sev AM-dç GM-v/uos dM-nons ecc., come in lat. allato a sal = *sáls c’è tutta la flessione, parte dei derivati e l’antico neutro sale, che possono risalire a sal-i-. Il secondo è comune- mente xeio Ns., esteso a più Casi e derivati, che si fanno

N

158 F. @. Fumi,

venire dal doppio tema xéo- e xéo- e dalla radice stessa di x&ons (dvo-xeors), corrispondente alla scr. har ‘rapere, obtinere’. In un mio Corso ("84/"85) accennai alla possi- bile connessione di questo tema o meglio della sua radice con quella del scr. hãs-ta ‘mano, proboscide ecc.’, av. za- sta- pal.-pers. dasta, del neutro scr. sa-hdsram ‘mille’, agg. -hasriya-, av. ha-zanrem e del tema gr. *xéoÃo- e -to- nei suoi varj aspetti dialettali. È credibile un proto-ellenico *y6009-s *yÉ0010-s, metatetico xéos e xeio? Forsechè il proto-ar. sm- ghés-r/lo-, (-i(y)o-), significò materialmente (cfr. il senso dei scr. laksd- kóti- e d'altri numeri) ‘una manata, p. e. di sabbia, has/réna’? Un'altra possibilità accennata in quelle lezioni sui numerali, pensata poi anche da altri (Fay), con- cerneva la ricostruzione di un prisco lat. “sem” hésli- mutato pel pronto dileguo di h, come in anser, ir, er ecc., in *s’m-esli-, onde *meli- sing. e mili-a milli-a pl. ripercosso poi al sing.; ma l’intoppo, più che dai celtici mile mil, forse prestiti dal latino, sta sempre nelle fononomie speci- fiche di questo.

Fra i monosillabi col Ns. asigmatico ve n’ ha qualcuno apparente, p. e. conv da un *Fonv (noAv=ooprves Om.) col Gs. (F)aovos=wr-n-6s, onde l’& anche al Ns.; inoltre por/wv (d-powv) inconciliabile con orr4îv lien scr. plihän., ma forse da una radice p/bher (phar? scr. ‘dispergere’), e però anch'esso suffissale. Più misteriosi sono x%wv e yew. ll primo è ricostrutto gzhdm ed è lecito considerarlo come un cimelio di Ns. asigmatico in -e, visto il significato e la peculiar finale -m. O appunto per questa l’esito -ms del monosillabo diverge da quello solito -ns? Sarà esso ana- logico, p. e. su tevywv? Non si può dir nulla di preciso, specialmente per le trasfigurazioni della base tematica, quali appajono in xJauados yauai ecc., nel lat. humus, nel scr. ksa-s Ns. ksam-d e jm-d Str. s., cui corrispondono gli ave-

[o] stici 24 e sein-i ecc. Ma se hum-dnus viene dal nostro tema, la derivazione parti dal Ns. fatto e *hum per *höm

Sul Nominativo sing. del nome ariano. "159

(lit. Zu) risponde a für per *fôr quo (cfr. move e mus, Pois e Bas ecc.). Analogo a x9wv, ma veramente bisillabo o suf- fissale, è xuwv (cfr. xeuwv a-geiua(v)tos=scr. hemantd- xeı- pin dvo-xe pos = himd- yeuueorvos, bimus per *bi-himus hiber- nus ecc.), che rimonta ad un ghi(y)-é/6m da una radice ghey. Quindi il Ns. asigmatico greco è in regola, ma non

sono in regola il lat. hiem(p)s e l’avestico sid col Gs. zimô ecc. Questi pajono innovazioni coll’aggiunta indipen- dente di -s nei due rami glottici, nel lat. per l'isolamento dell’uscita nominativa *-cm, nell’ivano per l'attrazione del

Ns. za: a meno che questo, come siã e il scr. ksd-s, non siano alla lor volta originarj N." sul tipo scr. cvd av. spa poi sigmatizzati. Pari innovazione sul Ns. fatto è anche nel scr. cri-s ‘bellezza, fortuna ecc.” contro st»? ‘donna’, ben- chè nati forse da antichi temi suffissali, come in vrki-s ‘lupa’ naptri-s ‘neptis’ ecc., i quali, essendo -Z restrizione di -yäle, rispondono al tipo lat. luxur-iê-s rispetto a luæu- riã ecc. Ricorderò, da ultimo, il vedico vé-s allato a vi-s ‘avis’, 0(F)e-wvos, anch'esso da anteriore tema suffissale, sicchè può aver serbato un vocalismo medio tra quello dei polisillabi, -%, e quello dei radicali - da -e/ay (cfr. av. yao-s ‘congiunto’ e gao-s ‘boans’ da temi in -e/aw).

Dagli esempj ora addotti a qualche anomalia dei temi suffissali in -ey/w è breve il passo. Anch’essi hanno il Ns. sigmatico, ma con riduzione dei detti suffissi dovuta pro- babilmente all’esser più d’una le sillabe anteposte all’-s. Così appariscono anomali i N."! 7046 -s Om., ix 9d-s ecc. contro i normali méàî-< 1dU-c e scr. cuaçri-s tanit-s contro lat. soerü-s lribù-s ecc. Si è pensato ad un’ imitazione dei temi radicali, nel scr. anche della lunga di altri femminili, e per l’isolato æolc-c persino ad un antico tema rispondente al scr. purt- (cfr. modi -tns e sroAuit[i-t7) parallelo di pusi- e pür-, cioò pr/l-yi/ê- e pr|l-ey-. Speciale altresì si pa- lesa il Ns. paleo-pers. dahydu-s, av. danhaom As. ‘regione’, contro Ns, av. bázu-s = scr. bahut-s=1rã/ixv-c; così yoagevs da

160 F. G. Fumi,

*.yuc, arcadico years come Zus allato a Zeds, irarmevs col Np. ircreî(F)- es, contro il ser. acvayu-s ecc. Siffatte figure lunghe son date per propagazioni di un Locativo sing. in -&w e ana- logamente röAn-os Gs. ecc. da egual Caso, superstite, fuori dell’ + sottoscritto, nell’attico 77047 allato a mode ecc. La spiegazione guadagnerà più lontana efficacia, se potrà va- lere quanto dirò fra poco sul Ls.; ma intanto si osservi che anche per questo tipo di Ns. si parte da un Caso fatto, a cui si sarebbe aggiunto 1'-s.

Questi temi allungati fan venire in mente quelli, anche più speciali, che son rappresentati, p. e. dal scr. sdkhã Ns. ‘comes, amicus’ av. kava ‘rex’ = *kavd= scr. kavi-s. ‘dotto, poeta”, gr. (F)a/xd med Aü/nrw ecc., generalmente fem- minili, scritti per lo più con -@, forse sul Vs. in -oi, e fre- quenti come Nomi Proprj, alcuni anche maschili ‘How Ha- tow ecc., Agxup in iscr. di Melos. Accennammo ai supposto che i temi uscenti in -ey ed -éw (-öy ed -üw e questo forse nell’ionico Ioöv A. dal Ns. ‘Iw, ragguagliabile all’As. Ayrö=*"Anro(y) a, come %dvv a yAvxé(F)a) siano per antica apocope o sincope temi originar) in -e/oy° ed -e/owº; però il Vs. scr. sdkhe gr. nxoi e il resto del paradimma, non ostante ìl sostegno che alla breve non allungata par ve- nire dall’av. kavaem=*kavdy-em As. contro kava-(*-@) Ns. (De Saussure), non favoriscono la supposizione. Del pari l'accordo arico-greco della flessione rende improbabile un secondo supposto, che il scr. sdkhã sia stato un astratto femminile ‘compagnia’ fatto maschile, come *innora ‘caval- leria’ fatto immoza/y-¢ ‘cavaliere’, e infine anche un terzo, che la flessione greca si sia modellata sui femminili in -@/y. 11 più semplice mezzo di spiegazione, che concilia arico e greco e il tema a vocal breve col Ns. a vocale lunga, dif- fusa al solito in qualche altro Caso, in ispecie nell’As., sarà sempre l’ammettere che certi temi in -e/0y ed -e/ow fin da principio si sieno stabiliti col Ns. asigmatico allungato. Quanto ai N." del tipo exw col Gs. eixois da tema in -o», poichè non è probabile che siano antichi avanzi del tipo

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 161

arico, latino ecc. (vr'sã, -arsa, homô sermô ecc.), può ben darsi che fossero su metdw col Gs. mevtovs e che da questo Caso abbia mosso l’analogia; ma se così fu, torna verisimile l'ipotesi che esistessero due antichi temi paralleli, in -e/on e in -e/os (v. la mia memoria Il prc. att. di Prf. ecc.; Torino, Bona, 1899), e che il Gs. eix0v-05 convivesse con *eix00-0s (cfr. aidoüs dal tema aidos-), cosicchè per la via di etxoùs fosse nata l’associazione al tipo Mxoùs Ayrods ecc. e al loro Ns. 740 Antw ecc., originandosi un Ns. eixo anda ecc.

Chiuderò questo § col citare certi N." germanici e lituani di

temi dentali, got. mana lit. menu, ant. alto-ted. nefo ecc., che possono essere dall’origine asigmatici allungati allato ai sigmatici, got. mendbs lat. nepöft)s ecc. Anzi qualcuno pose nel proto-ariano i N." pod e pols, cioè i miei pe/odTe e pe/ot se, e per tale ipotesi, senza ricorrere a podº-s, si avrebbe, accanto al lat. pês, nel gr. mas novs un com- promesso di *mw(d) con sro(t)s di rei-mos ecc.

IV. All’esposta dichiarazione del problema e di quanto vi spetta potrebbe arrestarsi il mio cenno, se non gli gio- vasse a mo’ di corollario qualche osservazione suggerita e non a me solo da due altre forme del nome. Preme anzitutto liberarsi di un preconcetto radicato in noi per eredità di pensiero e per tradizione di scuola. Come radici e temi son nostre astrazioni rispetto ad un linguaggio vivo, così son denominazioni riflesse quelle che, p. e. nel nostro argomento e per le nostre lingue, chiamiamo Casi. Rife- rendoci all’infanzia del nome proto-ariano dobbiamo certo immaginare che aggregati fonici di maggiore o minor so- stanza avessero un dato senso predicativo o dimostrativo, ma non propriamente che le varie mutazioni formali di essi a significare relazioni differenti costituissero già la serie dei Casi, qual ci appare in bell’ordine nei paradimmi delle grammatiche, si piuttosto che, ora alcune ora altre, da per o con elementi ascitiz), venissero pigliando, nel contesto fraseologico e in date attinenze cogli altri membri della

frase, movenza di figure nominali in una funzione più che 19

162 F. G. Fumi,

in un’altra. Il corso e ricorso di figure simili per rapporti simili doveva condurre alla scelta delle più adatte, scom- parendone pel disuso parecchie equipollenti o divenute su- perflue nel progresso dell’ intelligenza: così i paradimmi s'atrofizzano, 0 si commutano in perifrasi, e serbano poco e anche nulla dell’antica ricchezza. Insieme però a qualche cimelio sporadico restano scambj e miscele a rivelare le formazioni anteriori, come nei sedimenti degli strati ter- restri si celano le rimanenze dell’età geologiche più an- tiche, Ora, secondo l’allusione del $ precedente, a me pare che reliquie di Ns. a nudo tema esprimente nel proto-ariano, sol per la sua postura e pel valore delle altre voci nella frase, il soggetto, oltre dei femminili in -à- e -ya/é e dei neutri semivocalici e consonantici, sieno appunto i citati so ed eg(h)o nei rispeltivi riflessi e con affissi rinforza- tivi ser.=sou gr. ov[-tos] lat. héft-c e hi-c da gho-ke e gho-i-ke e così quo-i lat., po-i po-ei umbro, ahd-m scr. ecc. Questi affissi non son certo parte integrale di tali Nominativi, tanto é vero che -w ed -i tornano nei Locativi, ed -e/om od -m, non estraneo a questi, è altresì appiccagnolo frequente di altri esponenti casuali e di più Casi pronominali; il che fa credere che essi sulle prime fossero meri determinanti come -se ed -e. I quali ultimi fissatisi pel Ns. eliminarono in tale ufficio nel nome tutti gli altri e il nudo tema. Questo per altro non sparì come forma antica di Ns., ma rimasto di fronte ai tipi affissivi in sott'ordine si perpetuò in quella funzione, che diciamo di Vocativo del singolare. Ora tale figura, che per la chiamata suol ritrarre l’accento, intatto talora il vocalismo a pruova dell’esteriorità del fenomeno, non fu neanch'essa vera rrrwors per gli Stoici, ma pro- posizione a denotante moocayogevtixoy nodype. Pur si tenga presente, che nel duale e nel plurale e di regola nel neutro, Numeri e Genere che dicemmo isterogeni, N. e V. non si distinguono, e inoltre che in più lingue e in più tipi nominali N. e V. han finito per confondersi nell’ uso e ta- lora anche per icambiarsi. A conferma di tutto ciò ecco po-

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 163

chi ess. greci: ime üdeAye ecc., su tale analogia déorrotà e col tono del N. ovfwra, e così innmorà uetiérà ecc. usati altresì al N., e viceversa l'originario N. Egueiã, poi -a-s, altresì per V.; xvov “Anoddov uédùv tÉéoev meteo drop ecc., ma nei più dei radicali, fuori Zeù foù yoaù -Zeù ecc., e nei polisillabi ossitoni, fuori o@reg e inoltre ev-yevés Pyotr ecc. con tono intatto, il N. vale anche pel V., dorre acido Kory year; invece sulla lunga di xi-ç dpeds, N." usati anche per V.", nacque Oéri analogo a véxi, e sul N. ógpi-s migo il V. ope srîjxv, quasi bastasse togliere -s per avere dal N. il V. Le altre lingue ariane e gli usi letterarj, a partire dal Veda e da Omero, attestano l’originaria iden- tità significativa, frequentemente anche la formale, delle due figure e ci permettono di giudicare fondata l'ipotesi che giova riassumere, cioè che il Vs. sia stato l’antico Ns. a nudo tema, divenuto, per la prevalenza dei tipi affissivi, una specie di interjezione fuori paradimma e fuori sintassi. .

L’altra forma del nome, ignota anch'essa come Caso agli Stoici e ai grammatici sin quasi a noi e che pur ci fa ri- salire al nudo tema, è il Locativo del singolare. Non mi fermerò nemmeno qui sui particolari, bastando al mio as- sunto pochi richiami. Il nudo tema in accezione locale è visibile, p. e., in scr. hyds çuds antdr ecc., in (é)x96 drrep aiév e atés, in lat. cras s-uper inter penes, come in scr. dçman ‘in cielo’ uddn ‘in acqua’ murdhan ‘in capo”, nell’Inf. omerico douev e in quelli in -(F)ev o in -(0)ev ecc. Parimenti appare il nudo tema dove gli aggiunge quasi in enclisi un affisso, specie -2, più di rado -u riservato spesso al plurale, come in scr. updr-i, om. vrreto e in deman-i murdhdn-t, in mowév-. *œié(o)-, fors’anco nel lat. hert/é, in oixejo-ı 0-5 mo-i ed O-i mo-d dyxo-ù TmÃo-d ecc. I due affissi, trascurando -e/om di L." femminili, vedemmo sopra anche nei N,"; e se -u tornano alle radici indicative ey ew, ci spiegheremmo il dittico -Z greco, -ei, -e, umbro (oözoo-i,, po-ei) e l’omerico D(L)s. srarée-î, che risponde ai vedici kartdr-i vaktár-i ecc. Vedemmo del pari che an-

164 F. G. Fumi,

che la radice indicativa e, Strumentale è, s'aggiunge talora come locativa, o al nudo tema, p. e. nel paleo-bulgaro kamen-e ‘Guuov avest. gätav-a di gälu-s ‘sede, trono” = scr. gátu-s, paleo-persico arbiräy-a ‘in Arbela”, o a Casi fatti, p. e. nel Ls. avestico zastay-a = paleo-persico da- stay-a = ser. háste ‘in mano” ecc.; onde può nascere il dub- bio che l’-î indo-greco, se non è da -ey, sia restrizione d’ un isolato Ls. misto, quasi uscente in -i+-e. In ogni modo quest’affisso e s’asconde, a parer mio, in quei L." a vocal tematica allungata, che sopravvissero nell’avestico casmgn cioè *casmän ‘in visu’ e nel cretese diunv come Infinitivo. Tali figure collimano con quelle di Ns. asigmatico allun- gato; e invero i glottologi han riconosciuto la connessione o addirittura l'identità formale del L. e del N. singolare e l'originaria appartenenza d'entrambi ai Casi forti, salvo le analogie e gli anteriori scadimenti che si avvertono nel Ls. mürdhn-i mare-t ecc. e nel Ns. dvi-s nTxv-s ecc. Da quanto ho sfiorato sopra il V. e il L. risulta questa equa- zione owrre: V. creo, L.(D.) cwtéo-1:: downy: doper, L.(D.) "dowev-ı propagato in D. douev-ac. |

La conclusione generale dei fatti e dei supposti sin qui rassegnati, tenuto conto dei N." in -4 e -yd/é femminili e dei neutri, sarebbe questa: nel più antico periodo del lin- guaggio proto-ariano il nudo tema nominale poteva nella frase, coll’ajuto della cadenza e ictus e della mimica, valere al singolare come soggetto vago e come designazione generica dell’azione. Contemporaneamente saranno state in uso pel doppio ufficio figure enfatiche o più precisate con affissi, prevalendo quelle in -se ed -e per l'agente, quelle in -i e parzialmente anche in -e per l’azione. Poscia, fuori di scarsi avanzi di N. e L. a nudo tema, si sarebbero fissate pel N. le figure in -s o con -e assorbito, e invece pel L., tranne avanzi anche più scarsi di forme con -e assorbito o no, la figura con -i; e l’antichissimo N. a tema nudo avrebbe sopravvissuto come Vocativo.

Ora vien fatto di chiedersi: data la convivenza più o

Sul Nominativo sing. del nome ariano. 165

meno lunga di figure soggettivo-locali a tema nudo con fi- gure affissive quasi equivalenti, non potrebbe darsi che fra gli Arj preistorici si fosse sbozzato quel doppio sistema di fles- sione, a cominciare almeno dal Caso sovrano e pel Genere e Numero fondamentali, che noi moderni diciamo declinazione indefinita e definita? Forsechè éRvelo ku(w)dn, pa- ter ecc. stavano ad ekwos kulw)ön pater, come innos xUwv marte ecc. stavano ad 6 7) tmnos O 1) xdwv O are, o come i nostri ‘cavallo, un cane ecc.’ stanno ad ‘il ca- vallo, il cane ecc.’ ? La posposizione degli affissi -se -e equi- varrebbe a quella dell’articolo in rumeno (omül= homo” ille); e questi affissi sarebbero stati analoghi ai pronomi illo/a ipso/a nella loro doppia funzione neolatina. La flessione definita poi ha un bel riscontro in quella a due temi inflessi negli aggettivi determinati litu-slavi.

Nel momento di por fine a quest'ardito schizzo induttivo giunge opportuna la parola incoraggiante del Maestro ita- liano, ad onor del quale si pubblica il presente florilegio. L’Ascoli, infatti, nel discorso inaugurale del 12.=° Con- gresso degli Orientalisti, tenutosi in Roma nell’ottobre ora scorso, ricordati i progressi e rilevata la maggior sicurezza delle ricerche descrittive di fronte all’indagine induttiva che quasi impaura, soggiunge:

« Ma lo sgomento é stato eccessivo e viene cedendo. Di «certo, le indagini che non siano meramente descrittive, « posson difficilmente gareggiare con le altre per sodezza «e precisione di risultati. Ma l’intelletto umano non può « rinunziare a intuizioni ulteriori, sol perchè non gli sia «dato conseguire la certezza assoluta... L'indagine «strettamente descrittiva, del rimanente, è troppo chiaro « che in non porti luce sufficiente ecc. ecc. ». (Estratto dal XII Bulletin, p. 5.)

Genova, Novembre 1899.

Omessa qualche menda minore, correggi a pag. 155 1. 16 cfr. più avanti i N.'!, p. 156 1. 24 èyc cretese, p. 157 1. 24 lat. méns-t-, p. 159 ll. 25-26 dovuta, fra altro, anche all'esser, p. 161 ll. 8-9 7y0îs, 17e, p. 1631. 2 unziera, 1. 6 1,xoi, 1. 30 mürdhän-i, p. 164 11. 5-6 o a Casi fatti, p. e. nel Ls. paleo-persico arbiray-a ecc., Il. 10-11 casmam, *Casman,

M. KERBAKER.

DUE LEGGENDE DEL MAHABHARATA

VOLTATE IN OTTAVA RIMA.

(Libro III, Vanaparva, Sezione VII, Tirthayäträ).

I.

AGASTIA.

l. Lettura XCVI 1)

(8. 1-2) Quindi riprese il suo pellegrinaggio Di Cunti il liberal figlio pietoso Colla sua santa guida e al romitaggio Giunse di Agastia, il gran Risci famoso; E in un loco fermossi ermo e selvaggio, Detto Durgiaja, e qui trovò riposo; Ivi il re dal parlar destro e cortese Lomasa in questi termini richiese:

2.

(8. 2-8) Il santo Agastia, di’, per qual cagione Vatápi, il Daitja, a uccidere mosse? O forse degli umani a distruzione Cresciute del Titano eran le posse? Spiegami tu da quale offensione L'ira del santo provocata fosse. E tosto soddisfece al suo dimando, Così il saggio Lomasa raccontando.

1) L'ottava corrisponde sempre al doppio Sloca sanscrito (che è pure diviso in otto membri), numerato come appunto si trova nel testo. Dove nel testo allo Sloca è sostituito il metro più ampio detto Indravag'rã, l'ottava viene a corrispondere, come appare dalla nu- merazione, ad una sola strofa sanscrita di tal metro.

168

(8. 4-5)

(8. 6-7)

(8. 8-9)

(S. 10-11-12)

M. Kerbaker,

3.

Un tempo in Manivàti ebbe soggiorno Ilvala, che fu già grande Titano, E si aggirava per quei lochi attorno, Con Vatápi fratello suo germano. Quosto dei Dàiti nobil germe, un giorno, Fattosi avanti a un santo e pio Bramano: O fa ch'io m'abbia, dissegli, un figliuolo, Che sia simile ad Indra, e sia pur solo!

4.

Ma il pio Braman concedere non volle All'Asura temuto un figlio tale; E l'Asura, superbo a un tempo e folle, Contro lui risentinne odio mortale; E fatto pel furor ch'entro gli bolle Contro tutti i Braman’ micidiale, Le sue malie di mago adopra, ed ecco, Trasforma il proprio suo fratello in becco.

5.

Quindi lo sbrana e con bell’ arte il cuoce, E ai pii Braman’ pasto ne appresta ghiotto; Ma il becco è tal che a udir di lui la voce, Si riscuote e resuscita di botto.

Vatápi su grida il Titan feroce,

E Vatápi, di dentro, inteso il motto, Uom ritornando, salta fuor di scatto, E il Braman giace lacero e disfatto!

6.

Così il fratello più d'una fiata

Trasforma Ilvala in becco e, alla sua mensa, La carne ben condita e preparata '

Ai convitati suoi Braman' dispensa;

E Vatápi, alla voce che gli è data,

Per magica virtute si risensa,

E ai miseri squarciando il ventre e il fianco Ridendo balza fuori agile e franco.

(3. 18-14)

(8, 15-16)

(8. 17-18)

(8. 19-20)

Due leggende del Mahabharata. 169

7.

Tal facea dei Bramani scempio orrendo Ilvala incantator col suo convito. Verso quel tempo appunto il reverendo Agastia dal suo cheto eremo uscito, Fuor d'ogni traccia il suo cammin seguendo, Era entrato in un cupo antro romito, Dove dall’alto pendere del masso Vide i suoi Padri, volto il capo in basso.

8.

E li richiese: Deh! chi siete voi Dentro la grotta in tal guisa pendenti? Risposer quelli: Siamo i Padri tuoi; Dotti fummo nel Veda e sapienti;

Ma perchè figli non lasciammo, e a noi Nipoti mancheranno e discendenti, Come ci vedi, penzoloni, in questa Spelonca tal soffriam pena molesta!

9.

Se avrai tu, di tua vita in sullo stremo, O santa Agastia, onor di egregia prole, Noi da quest'antro liberi usciremo. Tu il premio avrai che ai padri dar si suole. E il Risci, al Vero intento e al Ben supremo, Fece ricambio lor di tai parole: O Padri, il vostro voto adempir voglio; Da voi dispaia ogni ombra di cordoglio.

10.

E stringer cercò il Risci, a provvederse

Di figli, il dolce nodo maritale;

Ma, per quanto cercasse, non scoverse Sposa che fosse a lui di pregio eguale; Ma poi che riunì parti diverse,

E qual fosse miglior d'ogni animale, Viva formò degli elementi vari

Una donna leggiadra senza pari!

170 M. Kerbaker,

11.

(8. 21-22) gid per la giovine ritenne, Ma di Vidarba al re sposa la diede, Che penitenza allor facea solenne, La nascita implorando d’un erede. E d'essa una fanciulla al mondo venne, Qual da fulmine uscir lampo si vede; Cotanta luce di beltade sembra In quelle accolta delicate membra!

12.

(8. 28-24-25) Come il re la mirò, lieta novella Mando ai Braman’ dell'acquistata figlia: Di Lopamudra diede il nome a quella Auspicando dei Dvigi la famiglia. E ogni giorno facendosi piú bella Cresceva la fanciulla a meraviglia, Come d’Agni la vampa, o qual più vago Spiega il loto i suoi cespi in mezzo a un lago.

13.

(8. 26-27) Già era nel pieno fior degli anni, e cento Tenea d'appresso adorne giovinette, Ed altrettante, ad ogni suo talento Pronte ancelle ed esperte, a lei soggette; E in mezzo a quel gentile assembramento sue serventi e di donzelle elette, La fanciulla apparia come Rohini In ciel, tra gli splendori mattutini.

14.

(8. 28-29-50) Ma sebben Lopamudra bella e pura

| Splendesse in suo rigoglio giovanile, Del magnanimo Asceta per paura, Niun chiedeva in isposa la gentile. Ma il padre e i suoi la dolce creatura Allietava a un'Apsarasa simile; E il re, in vederla così buona e pia, Pensava: A chi darò la figlia miaf

Lettura XC

(8. 1-2)

(8. 5-6-7)

Due leggende del Mahabharata. 171

15.

e Agastia là, dentro le regie soglie, Lopamudra in mirar, come accudisso

Alle cure domestiche, sue voglie

Tenne, al gran voto intento, in quella fisse. E al re fattosi innanzi: Di tor moglie,

Per aver prole ho risoluto disse,

Per suocero ti scelgo, alto sovrano,

E della figlia tua chioggo la mano.

16.

Udita la domanda dell’Asceta Ansio il buon re e turbato ne diventa; Dargli un diniego alta pietà gli vieta, cedergli la figlia gli talenta. Va dalla moglie e a lei dell’inquieta Sua cura le ragioni rappresenta: Ci arderà, se gli vien di corrucciarsi, Con sua maledizion questo Maharsi.

17.

O dimmi, cara moglie, che far dessi: E a quella nulla dirgli le sovviene, Sopraggiunge la figlia e volta ad essi, Così dolenti, tal discorso tiene: Non vorrei, padre mio, che ti prendessi Per sola mia cagion cotante pone, Me in moglie al santo Agastia pur concedi, E col mio sacrificio a te provvedi!

18.

Poi ch'ha il buon re della sua figlia udita L'espressa intenzion, si piega, e collo Prescritte norme al Risci la marita,

Che giubilando, seco se la tolle.

Ma condotta che l'ebbe alla romita

Sua stanza, al limitar giunto intimolle: Dei ricchi abiti, entrando in questa soglia, E d’ogni tuo rogal fregio ti spoglia!

172 M. Kerbaker,

19.

(8. 10-11) La giovinetta dai grand'occhi tosto Le regie tolte sontuose vesti, Indossò la pelliccia e il sovrapposto Sajo di scorze e gli indumenti agresti. E ogni segno del suo grado deposto, Negli atti e nei sembianti suoi modesti, Apparve, trasformata agevolmente In una austera ancella penitente.

20.

(8. 12-13) Indi si reca Agastia a un loco santo, Quel che del Gange nomasi la Porta; Ed ivi, stando a lui la sposa accanto, Una pia penitenza ardua sopporta. E Lopamudra vigilando, intanto, D'ogni cura il soccorre e riconforta. Onde l'augusto Agastia, a prove tante, Più ne diventa e le si mostra amante.

21.

(8. 14-15-16) Passd alcun tempo e il fiero Asceta, quando

Vide che Lopamudra aveasi il rito

Dei pii lavacri assolto, in lei mirando

E il bel costume e l'aspetto fiorito,

E la purezza e l'umiltade, blando

Le fe' agli abbracci maritali invito:

Ma colle mani giunte e vergognosa,

gli parlò, inchinandogli, la sposa:

22.

(8. 17-18) Bono io so che t'ha indotto a prender moglie Di buona prole natural desio, Ma tu devi mostrarti alle mie voglio Disposto sì, come alle tue son io; A quel che, dentro le paterne soglie, Lasciai bello ed adorno letto mio Un altro somigliante ti procaccia, Per ivi ti posar tralle mie braccia.

Due leggende del Mahabharata. 173

23.

(8. 19-90) Ch’io te veggia con gemme di gran progio

Scintillante e col capo incoronato;

Ed io, in veste regale e d'ogni fregio Adorna e bella, mi ti ponga allato.

Il saio di corteccia, o Risci egregio,

E tinto in giallo, non è degno ornato, Perchè, o Signore, ardiscami con esso Avvicinarmi al maritale amplesso!

24.

(8. 21-22) Rispose Agastia: Ohimé, tanti tesori Per far quel che tu di, non abbiam noi, Tal copia qui non ho di gemme e d'ori Qual è nella magion de’ padri tuoil Ed Ella:-In grazia ai penitenti ardori, O santo Asceta, forse che non puoi Procurarti, per forza di magia, Qual più ricco tesoro al mondo sia?

25.

(8 23-24) S'io fo quel che tu vuoi, n'andria disperso, Disso Agastia, ogni mio passato merto; Altro a ciò far trovami modo o verso, Ch'io non resti del mio tesor diserto. E Lopamudra: Già si volge verso Al suo fine il mio mese, io ben t'avverto. In altro modo, fuor da quel che ho detto, Giammai non ti accorrò dentro il mio letto.

26.

(8. 25-26) Io non vorrei giammai per niuna guisa, Mettere inciampo ai tuoi santi doveri, Ma tu pure, a tua volta, ben ti avvisa Di contentar mie voglio volentieri. Rispose Agastia: Poichè si decisa È la tua mente, o cara, in quel che speri, Di tale acquisto in traccia io mo ne vado. E tu rimanti qui, donna, a tuo grado.

174 M. Kerbaker,

27. Lettura XCVIII

(8. 1-2) E poi che a far procaccio di tesori Limosinando preso ebbe partito, Primo tra i ricchi principi e signori, Srutavarna a trovar n'andò spedito. E come fu dai regi esploratori Annunciato che giunto è il gran Romito, Che dal vaso d'argilla sano e salvo Uscì alla vita e non da materno alvo,

28.

(8. 2-8) Aglı estremi confini del paese,

A fargli bella e nobile accoglienza, Venne coi suoi ministri il re cortese; E come si trovò alla sua presenza, L' ospitale dell’Arghia onor gli rese, E poi che gli inchinò la riverenza, Con le man giunte in fronte, dell'arrivo Richiese all’inclito ospite il motivo.

29.

(8. 4-5) Acquisto di tesori è la cagione,

Disse il Risci, onde qui condotto io fui; Però dammi del tuo quella porziono

Che nulla guasti gl'interessi altrui. La sua finanza il re gli apri, ragione

Del dare e dell'aver rendendo a lui.

Poi dissegli: Or che il mio stato ben sai, Chiedimi quel che t'abbisogna, e avrai.

30,

(8. 6-7) Ma l'intogro Braman, poichè le spese Vido pari alle entrato, ei ch’ ogni lato Di ogni question sempre guardò, comprese Che saria tolto altrui quel che a lui dato. E poi che Srutavarna seco prese, Ne andò al gran re Bradnasva difilato, E il re lor mosse incontro e alla maniera Usata, ben li accolse alla frontiera;

(B. 8-0)

(8. 10-11)

(8. 12-18-14)

(8. 15-16)

Due leggende del Mahabharata. 175

31.

E benigno coll'Arghia e la lavanda Dei pié onorolli, e poi, chiesto permesso, Qual fosse la cagion, fece domanda Del lor venir. Rispose Agastia ad esso: Bisogno di tesor qua mi comanda Venirmene con quei che mi è da presso: Or parte alcuna delle cose tue,

Senza diftalta altrui, dona a noi due.

32.

E poi che il re lor tutte ha rassegnate Le sue ricchezze, e quel che prende o spende, Disso: Del vostro pro vi accomodate, Però senza sconciar l'altrui faccende. Pur coprirsi le spese coll'entrate Qui vede il Braman giusto, e ben comprende, Quanta ne venga ognor tribolazione Dal sottrar dell’avere alle persone!

33.

E i due re, poichè preso ebber con loro Bradnasva, proseguirono il viaggio, E al re Trasadasyü, che gran tesoro Vantava e di Purù l'alto lignaggio, Ne andaro: ed al confin, con gran decoro, Quei li accolse e lor diè il dovuto omaggio; E poi che ogni accoglienza ebbe compiuta, La cagion chiese anch’ei di lor venuta

34.

Dissegli Agastia: Tutti e tre qui noi Egual desio di ricco acquisto mena; De' tuoi tesori danne quanto puoi, Senza ch'altri a scontar si abbia la pena. E il re, poich'ebbe lor degli aver’ suoi, Del più, del men, data contezza piena, Lor disse: Avete visto. Io vi vo’ dare Tutto che a voi qui di soverchio appare.

176

(8. 17-18)

(8. 19-20)

M. Kerbaker,

35.

E pur scorse il Bramano, a conti fatti, Qui agguagliarsi l'entrata coll'uscita, E quanti il ricco ha debiti contratti Coi tanti che su lui campan la vita E poi che, con accorti sguardi ed atti, Si ebber lor chiusa intenzion chiarita, I tre re disvelaro la segreta Loro mente, ad un tempo al santo Asceta:

36.

Ilvala, il fier Titano, egli soltanto Può dirsi ricco, egli ha tesori immensi: Da lui vada e gli si chieda quanto Tesoro a noi di accumular conviensi.

A far la nuova questua pertanto, Giusta il disegno che proposto aviensi, I tre re, del gran Kiscì in compagnia, Il Titano a trovar posersi in via.

37.

Lettura XCIX

(8. 1-2)

(8. 8-4)

Appena ebbe di loro Ilvala udito Che al confin del suo regno eran venuti, Vi andò co' suoi ministri, e, giusta il rito, Porse all'Asceta e ai re degni saluti. Poi l’Asura tremendo, ad un convito Lauto avendoli accolti e trattenuti, Mutò Vatàpi in becco e, pezzo a pezzo Tagliatolo, imbandillo in un lacchezzo,

38.

Come i re ascoso in quel manicaretto Vatápi si trovarono davanti, Della cosa già avendo alcun sospetto, Stettero dolorosi e trepidanti. Ma il santo Agastia disse, circospetto Che Ilvala non l’udisse, ai tre regnanti: Non vi sgomenti, amici, il pasto fiero, Vatapi sia pur lui, mel mangio intiero!

(8. 5-6)

(8. 7-8-9)

(8. 10-11)

(8. 13-13)

Due leggende del Mahabharata.

39.

E al santo Agastia, che tranquillo al posto D'onor si stava, alla rea mensa assiso, Ilvala stesso il suo fratello arrosto Servi, dagli occhi balenando un riso.

E Agastia, a lui grazie rondendo, tosto Tutto sel preso e l’ingoiö indiviso.

Ed Ilvala, ciò visto, senza più,

Gridò: Vieni, Vatàpi, vieni su!

40.

Solo usci un vento e basso un tuono udisse, E Vatàpi! gridava Ilvala ancora, Vatàpil no era verso che egli uscisse. E Agastia: Indarno speri tu che fuora Quinci esca il tuo fratel ridendo disse Chè me l'ho digerito appunto or ora! Colpo mortal per Ilvala fu quello: Di udir bello e digesto il suo fratello!

4l.

E le man strette in fronte e a capo chino, Co' suoi ministri, chiese morcede: Perchè o Signor, faceste tal cammino? Dite quel che per voi da mesi chiede. E Agastia, volto ad Ilvala, con fino Sorriso acerbo, tal risposta diede: Noi sappiam tutti, o grande Ásura, che Se' un gran signore e dei tesori il rel

42.

Non han costor civanzi a sufficienza, E in difetto son io di molte cose; Ben rifornirci tu potresti, senza Nuocere altrui, di tue ricchezze ascose. Ed Ilvala una grande riverenza Inarcando all’Asceta, gli rispose: Dite quel che vi occorre e pronto sono Quanto chiedete a rilasciarvi in dono.

177

21

178

(8. 14-15)

(3. 16-17-18)

(8. 19-20-21)

(8. 22-28)

M. Kerbaker,

43,

Ben dieci mila vacche ed altrettanti Pezzi d'oro abbia ognun di questi tre Disse Agastia ed in bestie ed in contanti Il doppio ancora ti chied'io per me; E un carro d'oro con destrier' volanti, Ratti come il pensier, voglio da te: Questo, o gran Dàitia, giusta il tuo richiamo, É tutto quanto noi da te vogliamo.

44.

E ve', ai loro occhi intenti un carro d'oro

Puro e terso appari. Tutto sgomento

Ilvala apriva ad essi ogni tesoro;

E i due destrieri rapidi qual vento Aggiogava al bel carro; i nomi loro

Eran Súrava e Virava: e un momento

Lor bastò per portare al romitaggio

Agastia e i re col ricco cariaggio.

45.

Quivi ai Ragiarsi dié congedo il santo, Al fine giunto de'suoi voti appieno. Dissegli Lopamudra: Hai fatto quanto Volli; d'eletta prole or sia il mio seno Per te fecondo. E Agastia a lei: Cotanto, O donna dal gentil volto sereno,

Di te contento io son, che di tua prole Ti apro l’arcano Odi le mie parole:

46.

Tra mille figli di comunal taglia

Scegli: o cento, e ognun d'essi eguale a diece; O diece, ognun de’ quai cento ne vaglia;

O un sol ch’ abbia valor di mille in vece. Possa io aver quel che solo i mille agguaglia, Sclamò la donna, se a me sceglier lece;

Più assai che di dappochi un grande stuolo | Alle degne opre un valentuom val solo!

Due leggende del Mahabharata. 179

47.

(8. 24-28) Cosi diss'ella, e di sua fede pieno, Soggiunse il Risci: Come vuoi tu sial Poscia alcun tempo il vivere sereno Trascorso colla dolce donna e pia, Agastia, poi che il vital germe in seno Lasciolle, per la selva ripartia; E lui partito, il lieto germe sette Anni in grembo alla donna ancor si stette.

48.

(8. 26-27) E crebbe; e poichè fu il settimo volto Giro di sol, nacque il gentil poeta, Dritàsyu, al qual tutta raggiava in volto La luce del pensier vivida e lieta.

Come dal materno alvo fu raccolto Il desiato figlio dell’Asceta,

Avea quanto dai sacri libri è conto E dalle Upanishad sui labbri pronto!

49.

(8. 28-29) Fanciullo, nell'umil paterno tetto, Recava al sacrificio le fastella; Però Idmavante Dritasyu fu detto, Per soprannome, nell'età novella. Grande il padre prendea di lui diletto, La sua mirando indole buona e bella. Ecco in qual modo Agastia un figlio s'ebbe Che il miglior desiar non potrebbel

50.

(8. 80-31) E do’ suoi Padri alle Anime sospeso Al ciel supremo ottenne il gran passaggio. Perciò di Agastia per ogúi paese Celebrato divenne il romitaggio. Ringioì il mondo che in Vatàpi intese Punito il truce dei Bramani oltraggio; E di culto pietoso ancor si onora Di Agastia la tranquilla erma dimora.

Qui termina la leggenda di Agastia e la lettura XCIX della so- zione detta « Tirthayäträ » ossia « Pellegrinaggio alle Acque sante, »

180 M. Kerbaker,

IL. ASTAVACRA. 1. Lettura CXXXII (8. 1-2) il bell'eremo guarda, ove i più grati

Frutti di ogni stagion la terra dona;

Di Uddälaca il figliuol, grande tra i vati,

Visse qui, Svetachetu, onde risuona

La fama, che la diva Sarasvati

Scesa dal cielo vista abbia in persona;

Quando «Ch'io apprenda il tuo canto» alla Dea Pregando, il don sovrano ne chiedea!

2.

(8. 3-4) Svetachetu e Astavacra, zio e nipote, Vissero assieme, l’uno e l'altro asceta; Celebrati per opere devote,

Il nipote del pari o il zio poeta;

E del Sir di Vidéha sacerdote

Fu l’uno e l'altro, ne la reggia lieta;

E nel gran Sacrificio, in ardua o nova Gara, vinser col gran Bardo la prova.

3.

(8. 5-6-7) Figlio di Cunti vien, visita il santo Eremo, e ad Astavacra rondi onore, Che alla Sacra di Giànaca, nel canto, Uscì del regal Bardo vincitore. E chiese Judistira: O come tanto Il giovine Bramano ebbe valore, Da riportar sul gran vate vittoria. E chi fu questi? O contami l'istorial

(8. 8-9)

(8. 10-11)

(8. 12)

(B. 18-14)

Due leggende del Mahäbhärata. 181

4.

Un alunno ebbe Uddàlaca per nome Cahoda, a dir prese Lomasa, a dure Prove sommesso, con le voglie dome, Docile e molto intento alle letture; Poichè di lui vide il maestro come Ben lo servisse, e le pietose cure,

La scienza dei Vedi, per mercede, E sua figlia in isposa anco gli diede.

5.

Costei concepì un figlio alla figura Del fuoco, il qual, nel sen materno chiuso, Udendo il padre far la pia lettura, Esclamò: Babbo, sebben tu sei uso Di legger tutta notte, la misura Non ben servi del leggere. Io t'accuso, Che qui stando, tua grazia, or sono al tutto Nel Veda, nei Vedanga e i Sastra istrutto!

6.

Poichè rimprocciarsi, fra la schiera Dei discepoli, il buon Risci sentisse, All’ardito figliuol, che pur chiuso era Nel materno alvo, irato maledisse:

O tu che vai parlando in tal maniera, Ed ancor hai da nascere, gli disse, Ten nascerai, così fissa è tua sorte, Colle tue membra in otto guise storte!

7.

Detto Astavacra fu lo storpio nato, Cui pur nacque lo zio, proprio in quel tratto. Ma prima la pia madre, il suo portato Mobil sentendo in seno e maggior fatto, Ben sapendo de’ suoi l'afflitto stato, al marito parlò, in disparte tratto: Presso è il decimo mese, e in questo stremo A che ridotti siam, come faremo?

182

(8. 15-16)

(B. 17-18)

(8. 19-20)

(8. 21-22)

M. Kerbaker,

8.

A passar queste angustie tu non hai Di denar scorta apparecchiata alcuna! Cahoda, uditi della moglie i lai Dal re Giânaca andô, a tentar fortuna; Ma quivi capitava in peggior' guai,

Che col Cantor di corte entrato in una Poetica tenzone vinto giacque, E fu preso e buttato dentro l’acque!

9.

Come seppe cho il genero infelico, Vinto dal Bardo, cotal sorte si ebbe, Sua figlia chiama Uddälaca e le dice Il fatto, ma che ascondere lo debbe. E ad Astavacra la pia genitrice Tenne il fier caso ascoso. Intanto ei crebbe Presso Uddalaca, l’avo; e credea quello Suo padre e Svetachetu suo fratello.

10.

Era egli giunto al decimo anno, quando, Stando un del creduto padre in seno, Nel strappò Svetachetu, a lui gridando: Questi non è tuo padre: fanne a menol E le dure parole, lagrimando,

Fitte avendo nel cuor d’angoscia pieno, Se n'andô a casa della madre e: Ch'io Sappia, le chiese, dove è il padre mio!

11.

E qui l'afflitta madre, paventosa

Di sua collera, il tutto gli racconta. Quei torna a Svetachetu, ed ogni cosa, In quella stessa notte, gli fa conta,

E aggiunge: Orsù n'andiamo alla famosa Sacra, che dal re Giànaca si appronta;

I Braman’ disputar udrom tra loro,

E avrem di asilo e buon vitto ristoro!

(8. 29-34)

Due leggende del Mahabharata.

12.

Vi acquisterem scienza e valentia

E nome tra 1 Bramani inclito e chiaro.

Pertanto zio e nipote, in compagnia,

Di Giànaca a la grande Sacra andaro. Incontrossi Astavacra per la via

Col Re, e andando con esso paro a paro, Poichè si vide indi respinto addietro, Alto prese a parlargli, in questo metro:

13.

Lettura CXXXIII

(8. 1-2)

(8. 3-4)

(8. 5)

Al vecchio, al sordo, al cieco si dee il passo,

Cedere a quei che porta un peso greve, Alle donne ed al Re; ma baciar basso,

Se in un Braman s'incontra il re pur deve.

Disse il re: E della via padron ti lasso; Già non si arresta il fuoco agile e lieve; Suolsi cedere il passo da Indra stesso, Quando i Braman’ gli passano da presso.

14.

Disse Astavacra: Di mirar la festa Imminente avrem noi grande piacere, E ospiti qui ne siam venuti a questa Tua reggia, per udire e per vedere. Ma da tua Maestà noi la richiesta

Licenza appo il Guardian dobbiamo avere,

O figlio d'Indradjumna, noi di fuori Venuti alla gran Sacra spettatori,

15,

Vaghi di prender parte alle stupende Tenzoni e veder te, nubil sovrano. Però grande dispetto ora ci prende, Vedendo uscire il nostro intento vano. Chè d’andare più innanzi ne contendo, Presso le soglie, il vigile Guardiano. Disse: e fu dal Guardiano a lui risposto: Io son del Bardo agli ordini qui posto;

183

184

(8. 6)

(8. 7)

(8. 8)

(8. 9)

M. Kerbaker,

16.

Suonano espressi del Bardo i comandi: Non fia permesso qui ai fanciulli entrare, Ma soltanto ai Braman' provetti e grandi, Per alcun merto lor particolare.

E Astavacra: Se i vecchi venerandi

Han qui l'ingresso, assai giusto mi pare Che a noi due parimenti si conceda, Vecchi studenti e intenditor del Veda;

17.

A noi che, con la vedica scienza, E con l'avere appien domati i sensi, Siam pervenuti all'alta conoscenza, Cui pel divin saper solo perviensi. La fanciullezza e prima adolescenza Non mai, fu detto, dispregiar conviensi; Fanciullo è il fuoco, ma ve’ come scocca Le sue lume guizzanti, se altri il tocca!

18.

Disse il Guardiano: Or di' la gran parola, Se sai, che i Saggi adorano, e l'immensa Svela divina Essenza, e d'una sola Lettera consta sebben moltisensa!

I vanti, figliuol mio, ricaccia in gola,

Che ancora il latte hai sulle labbra pensa, La sapienza non si prende a frullo,

I veri dotti son rari, o fanciullo!

19.

Disse Astavacra: Dalla gran figura Non si pare il valor dell'intelletto. Del Salmali non sembra a la misura Quant'è il lavor de’ frutti suoi perfetto. Un tal, fanciullo di corporatura, Mostrasi ai frutti del saper, provetto. Chi è infecondo, abbia pure anni parecchi, Non fia che mai cresca di senno e invecchi.

(8. 10)

(8. 11-12)

(8. 18-14)

(8. 15)

Due leggende del Mahabharata.

20.

Pur dai vecchi, risposegli il Guardiano, È forza ai putti d'imparare il senno. Dai maggiori anni essi, di mano in mano, L'aumento del sapere aspettar denno. In breve tempo altri s'attenta invano La scienza acquistar, di che fai cenno. E ragionar, bimbo, vorresti, come Chi ha canute per molta età le chiome?

21.

E Astavacra: Perchè lo chiome bianche Altri abbia fatte, non può dirsi vecchio; Vecchio un fanciullo tra gli Dei suolsi anche Chiamar, che dotto e saggio sia parecchio. Non già chi è ricco o vecchio, o illustri branche Vanta e amicizie, di virtudi specchio, I Risci han proclamato! Sol chi mostri Senno e dottrina è grande agli occhi nostri!

22.

Io qui venni, o Guardiano, per desire Di veder il grand'uom che ha qui soggiorno, Il regal Bardo. Or va e mi annunzia al Sire, Che dei serti di loto or splende adorno. Con tutti i dotti alla tenzon venire Me, col Bardo vedrai, pur questo giorno. Vedrai come il gran Bardo fia, nel dotto Solenne agon, messo da me al di sotto!

23.

Dien giudizio i Braman’, che la saggezza Perfetta hanno raggiunta, e il re con questi, Della grandezza o della piccolezza Di tai che insino ad or tacquer modesti! E di contro il Guardian: Dunque vaghezza, Garzon di appena dieci soli, avresti Di assistero a la Sacra, e d’impancarte coi sapienti, i più dotti nell’Arte?

185

>»)

186 M. Ker baker,

24.

(8. 16-17) Ben t'apro il passo qua, alla regia corte. Fa quel che meglio sai! Viva il Re grande Quegli entra e grida tu il più ricco e forte Dei Giànaca, onde fama alta si spande! Per te prospera il mondo, e son risorte Le opre del Sacrificio venerande. A te, pel lustro dei festanti altari,

a

Nei prischi tempi il sol lajàti è pari!

25.

(8. 18) Udito abbiam che qui dimora un tale Tuo Bardo, valentissimo campione, Che i provetti cantor sfidando assale, E vince, alla poetica tenzone, E uscito vincitor del suo rivale, Senza nessuna aver compassione, Colle guardie che stanno a' cenni tuoi, Tel butta dentro il mare che l'ingoi!

26.

(8. 19-20) Ciò avendo udito, a questo gran consesso Dai Bramani a venirne indotto fui, L’ indivisibil Brama a farvi espresso Colla sottil dottrina. Ov'è colui? Ei da me fia oscurato, come, appresso Al sol che spunta, gli astri si fan buil Ma gli rispose il Re: Perchè riguardo Al valor tu non hai del mio gran Bardo,

27.

(8. 21) Hai tu a vincerlo i vani pensior' volti, Ma non puoi già di ciò fare argomento, Fuor che a la prova del valore; e molti Dotti Braman' ne han fatto esperimento; Chè molti pria qui sonosi raccolti, Ma poi, venuti con esso a cimento, Sbiadirono al fulgor di sue parole, Come le stelle all'apparir del sole!

(8. 22)

(8. 23)

(8. 24-25)

(8. 26-27)

Due leggende del Mahabharata. 187

28.

Molti illustri Braman’, che facean stima

Di vincere il mio Bardo in eloquenza,

Si smarrir, s'oscuraro, come prima Trovaronsi a cantar in sua presenza;

Del lor saper perdettero la scrima,

E amara ebbero quinci la partenza.

O come da costor più si potea

Alzar la voce in mezzo all'assemblea?

29.

Gli rispose Astavacra: Non mai forse A fronte d'un mio pari egli è venuto. Così avvien che, filando sue discorse, Mova superbo, qual leon temuto.

Però, se ei meco venga a contrapporse, Alfin in terra giacerà sbattuto,

Siccome un carro, il quale si restasse Confitto al suol, rotte le ruote e l'asse!

30.

E il Re: Fia dotto in ver chi indovinassi Chi è quei che ha nodi ventiquattro e scisso In trenta tien dodici parti e stassi Su trecento sessanta raggi, disse

E il fanciul: Perni dodici, sei assi

Con ventiquattro ruote in quelli infisse, Trecensessanta raggi, sono l'anno,

Che ti scampi, o Signor, da ogni malanno!

31.

Richiese il Re: Chi sien, tosto mi dici, I due destrier' che il volo han del falcone, E qual germe qualcun de' Numi amici In essi, perchè crescavi, depone. E Astavacra: La casa dei nemici Quel germe attacchi, non la tua magione! E il fulmine quel germe, e nascimento Gli dànno i due destrieri: il Fuoco e il Vento.

188

(8. 28-29)

(8. 80)

M. Kerbaker,

32.

Daccapo il Re: Chi immobil si mantiene Sebben vivo? e chi più corre e più cresce? Chi dorme e non chiude occhio? e chi ha le vene E non ha il cuore? Or di”, se ti riesce. E quegli: L'uovo è immobile, sebbene Sia vivo; dorme e non chiude occhio il pesce: Vene ha non cuor la roccia, ed irruente Più corre, quanto più cresce il torrente!

33.

O tu che mostri alla favella e al viso Più assai che dell'umano, del divino Il Re soggiunse: io in te già non ravviso Un fanciullo, ma un vecchio, o mio piccino; che altri ti somigli, io porto avviso, Nell'arguto parlar, vate o indovino; Alla gran Sacra hai libero l'accesso: T'avanza, guarda là, il mio Bardo è desso.

34.

Lettura CXXXIV

(8. 1-2)

(8. 3)

Disse Astavacra: O Re possente e grande, Tra quanti qui convennero di fuori, Le regali a veder pompe ammirande, Impareggiati principi e signori, Quei cerco invan che tanto grido spande Principe dei poeti e parlatori, Come chi di un gran lago sulla sponda Il re dei cigni cerchi ove s'asconda!

30.

Ti credi sopra ogni altro, all'arduo gioco Del disputar, valente, o Bardo, e istrutto ! Ma, alle prese con me non avrai loco Di via fuggir, qual del ruscello il flutto; lo sarò il vivo inestinguibil foco,

Onde tu rimarrai secco ed asciutto. La tigre che si dorme alla foresta Tranquilla, o sciocco, al tuo passar non desta

(8. 4)

(8. 5-6)

(8. 7)

(8. 8)

Due leggende del Mahäbhärata. 189

36.

il letal morso sfuggirai, se il piede Tu poni sulla serpe che linguetta: Chi oltre a quel che natura gli concedo, Per sua presunzion, a far si assetta, É come quei che di scalfir si crede Un masso, dove l'unghie esso ci metta, Ma lacere e sanguigne ne riporta Le mani, e in quel non fa segno di sorta!

37.

Son de la terra gli altri re un niente Appetto al Re che in Mitila ha la regia, Tutti ei li avanza, come l’eminente Mönaca gli altri monti avanza e spregia. E qual si vede il toro alteramente Tra l'armento mostrar la forma egregia,

E qual tra à fiumi è il Gange e tra gli Dei Indra, cotal tra gli altri re tu seil

38.

Qua chiama il Bardo! Venga a me da presso! Così nell'assemblea caldo di sdegno Astavacra gridò. Quei venne, e ad esso Così disse: Tra noi sia tal convegno: Al detto ch'un dei due avrà innanzi messo L'altro a tener bordon prendasi impegno: Tu rispondendo a me terrai la posta, Io a te risponderò: botta e risposta.

39.

E si cominciò il Bardo: Havvi un sol Fuoco, Che in vari tempi e lochi si raccende; Ed havvi unico un Sol, che in ogni loco De l'universo penetrando splende: Un sol Dio vincitor dei Dàiti invoco, E un sol Dio, che sui Mani il regno estende E tosto dietro lui tenendo l'orma, Astavacra rispose ia questa forma:

190 M. Kerbaker,

40.

(8. 9) Sempre al gran Sacrificio i due divini, Indra ed Agni, sogliono insiem recarsi; E, a coppia, van pel mondo pellegrini I due, Parvàti e Nàrada, Devarsi: E a duo, sen vanno anche i gemelli Asvini; E il carro dee su due ruote tirarsi: E due, per fare il suo lavor compito, Il creator creò: moglie e marito!

41..

(8. 10) E il Bardo: Per tre vio s'apre il cammino A la vita avvenir coll'opre buone, Tre Veda, al cielo portano il divino Soma, che si offre a ogni consacrazione: Tre volte al di gli Advarju, al Mattutino, Al Vespro e al Mezzodi, fan libazione; Triplice è detto l'universo mondo, E tre sorta di stelle ha il ciel profondo!

42.

(8. 11) La vita dei Braman' quattro interstizi, Disse Astavacra, tiene e quattro grade; Vi han quattro preti intenti ai sacrifizi; Quattro del cielo sono le contrade: E distinte coi loro propri uffizi Quattro caste compongon la cittade; E cogli altri quadrupedì la santa Vacca del ciel su quattro piè pianta.

43.

(8. 12) E il Bardo: Cinque sono i fuochi santi, Ed il verso più breve ha cinque piedi, Son cinque i sacrifizi ed altrettanti Sono i corporei sensi a cui tu credi. E in cinque ciocche ripartir lo ondanti Chiome la diva Apsàrasa tu vedi. E sacri sopra tutti e cari ai Numi Corrono sulla terra cinque fiumi.

(B. 18)

(8. 14)

(8. 15)

(8. 16)

Due leggende del Mahabharata.

44.

E Astavacra: Secondo l'uso, vi hanno Sei modi di accettar gli offerti doni. E nel suo corso intier vedesi l'anno Appunto ripartito in sei stagioni. E sei Pleiadi in cielo attorno vanno, Sei contansi le organiche funzioni: E dei solenni sacrifici quei Che durano un sol giorno sono sei.

45.

E il Bardo: Sette vi han di mansueti Animai specie e sette di selvaggi. Del canto rituale i consueti Metri son sette. Furo sette i saggi. Nel tempo antico, Risci e Anacoreti. E son sette ì prescritti ai Grandi omaggi. E l’armonica Vina colle sette Sue corde i suoni modula e riflette.

46.

E Astavacra: Il gran peso Satamana In otto Sana, giusto si divide: Otto pertiche è lunga quella strana Belva, il Sarabba, che i leon’ conquide: Ed otto Vasu stan tra la sovrana

Compagnia degli Dei, che in ciel si asside;

E, in ogni ara sacrata, è di angoli otto Il ceppo a cui vien l'animal condotto.

47.

Il fuoco sacro ai Mani si procura, Rincalzò il Bardo, con nove preghiere. E da nove principi la natura Universa produr si può vedere.

Ed il metro Brihàti sua misura Tien dalle nove sillabe primiere; E le cifere semplici, onde move

E si compie ogni calcolo son nove!

191

192

(8. 17)

(8. 18)

(8. 19)

(8. 20)

M. Kerbaker,

48.

E Astavacra: D'intorno il ciel ne appare Diviso in dieci punti cardinali; E per dieci si aggroppano, a formare Le ognor crescenti somme, i numerali: Di dieci mesi è il corso regolare Che dei nascenti precede i natali. Son dieci mastri del sapere, diece

Che l’odian, diece a chi acquistarlo lece.

49.

E il Bardo: Ben son undici distinti, Stimoli del piacer sensati oggetti; Le vittime a legar, stan nei recinti Sacrificali, undici pali eretti; Ed undici si contano, onde spinti Noi siamo ad operar interni affetti. E undici Rudra noverar potresti In mezzo a le altre compagnie celesti.

50.

E Astavacra: A formare integro l'anno, Dodici mesi corrono contati: Giuste dodici sillabe ci dànno La sacra strofa ch'è detta Giagati. I sacrifici che ogni si fanno Dodici sono appunto numerati; E coi divin' contemplator' discerno Dodici Aditja su nel ciel superno.

51.

E il Bardo: Poste tra le terre e i mari Tredici noveriam zone diverse; Fausti ci son tredici di lunari... E qui in mezzo a la strofa, il filo ei perse; E Astavacra seguì: Tredici al pari Sono i giorni, onde il giro al fin converse Il Dio chiomato, e tredici, chi il chieda, I principali son metri del Voda.

Due leggende del Mahabharata. 193

52.

(8. 21-22) Lieta scoppiò in applausi l'assemblea, Quando il Bardo ammuti e chinò la testa Come assorto, e Astavacra il fin ponea A la strofa con voce arguta e presta. E in mezzo all'alte grida, onde fremea Tutta intorno di Giànaca la festa, Al fanciullo facevansi vicini I Braman’, con solenni omaggi e inchini.

53.

(8. 28) Disso Astavacra: Pure udiste voi Come piú di un Bramano, andato perso Nell'ardua gara ne venisse poi Da lui, senza pietà, nel mar sommerso. Ed ora che ei fu qui vinto da noi, Trattamento non abbia egli diverso. Paghi il fio che al suo fallo corrisponde: Fallo pigliare e affogalo nell’onde!

04.

(8. 24-25) Sono figlio di Varuna! gridò Il Bardo Dodici anni ho qui compiti A la festa di Giânaca, e quei che ho A la Sacra di Vàruna spediti, I Braman' da me vinti io si farò Tra poco tutti vosco riuniti. Te venero, Astavacra, a cui deggio io Se oggi n'andrô a trovare il padre mio!

à 0 -—— n o -

59.

(8 26) E ripigliò Astavacra: I sacri vati Fur nell’abisso, ohime, dell'acque assorti, Poichè costui gli ha stretti e avviluppati Colle parole, o gli artifici scôrti. Ma vo' che li veggiate i trapassati, In virtù del mio senno qui risorti: Alzando la mia voce, che i buoni L'ascoltino e ne intendan le ragioni.

194

(8. 27)

(8. 28)

(8. 29)

(8. 30)

M. Kerbaker,

56.

E come Agni, il buon Dio, che il male e il bene ogni essere conosce i fieri lampi Dalle cose de' pii lungi trattione, avvien giammai che in loro danno avvampi, Tal dei fanciulli teneri, sebbene Trovi al parlar la lor favella inciampi, Attentamente, o pio Giànaca, i buoni Sogliono udire e intender le ragioni.

57.

Ne ascolto tu mi dáif Forse una lenta Flemma t'implica di tenaci nodi? E con l'anima vaga e disattenta La voce, che ti mormoro non odi? O si esalta il tuo spirito e fermenta. Inebriato a le sonanti lodi, al detto mio ti risentisti punto, Come elefante dall'aculeo punto!

58.

E Gianaca, d'incontro: Il tuo parlare, Qual voce più che umana mi risuona; E nel tuo aspetto intraveder mi pare Un Dio dal ciel venuto qui in persona; Poichè in questo certame singolare,

A un gran vate hai tolto la corona, Io pure l'abbandono a’ dritti tuoi; Ei ti appartiene, fanne quel che vuoil

99.

Disse Astavacra: Cho farmi di lui Vivo non so, come adoperallo; Tuffar ne l'acque, como ei foce altrui, Sebben figlio di Vàruna, e tu fallo; Rispose il Bardo: Generato io fui Dal Dio Väruna, e non ti parlo in fallo; D'esser precipitato all'acque in fondo; Per niente mi turbo e mi confondo.

Due leggende del Mahäbhärala. 195

60.

(8. 81-82) Vedra, vedrà in un'attimo risorto, Astavacra il suo padre, e qui presento Quei cho da tanto tempo ei piange morto; Per voler di mio padre onnipossente Disse, e a un cenno di Väruna, di corto, Tutti apparir miracolosamente Vivi, di mano in mano, sotto il guardo Del re i Braman’, cho avea affogati il Bardo!

61.

(8. 33-34) Uscì Cahoda, allora in tai parole: Compi il mio figlio la vendetta mia, Ch’io non potei. Però di maschia prole Procrearsi un sostegno ogni uom desia! Sebben di un padre fiacco nascor suole Spesso un figliuol di molta gagliardia; Di un dotto un ignorante, e pur sovente D'uno stolido un saggio o intelligente.

62,

(8. 85-36) Colla tua scure, o Re, miete la Morte, Disse il Bardo, le teste dei nemici, Nelle battaglie. Sempre a to la sorte Giorni conduca placidi e folici. Coi più belli dol Sama Inni son pòrte Le ordinate preghiere invocatrici, In questo sacrificio che noma Da Giànaca, e si liba il santo Soma.

63.

(B. 37) E molto i Numi delle pure e mondo Dapi qui offerte sogliono allegrarsi Quindi in mezzo ai Braman’, che da le fonde Grotte marine in vita orano apparsi, Raggianti do le lor luci gioconde, Il Bardo innanzi al Re venne a chinarsi, E, pria licenza chiestagli di andare, Se n'andô dritto o lanciò nel maro.

196

(8. 38)

(B 39-40)

(8. 41)

M. Kerbaker,

64.

Furo i Bramani ad Astavacra intorno,

Com’ebba il suo buon padre rivorito,

E a lui dell'alta sua vittoria adorno Diero i debiti onori, secondo il rito. Col padre o con lo zio poi fe’ ritorno Astavacra al natio loco romito;

E condottolo un giorno alla riviera Della Samanga, che colà presso era,

65.

Della madre in presenza, il padre: Orsù, Gli disse, dentro quest’ acqua ti gitta. E quei gittossi e presto venne su Con la persona risanata e dritta; Questa riviera consacrata fu, D'allora, e n'è la pia legge prescritta, Che ognun che viene e bagnasi a quest'onda De’ suoi peccati appiono si rimonda |

66.

E tu, co’ tuoi fratelli e la tua sposa, In queste pure acque t'immergi o chiare; E alquanto in questa plaga dilettosa Piacciati coi Bramani conversare; E l'una in meditar Sustanza ascosa, Accorda col pensier l'atto esemplare; Ed altro compirai, sotto mia guida, Opre pietose, o prole di Agiamida!

Qui termina la leggenda di Astavacra o la lottura CXXXIV della sezione detta « Tirthayäträ » ossia « Pellegrinaggio alle acque sante >.

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Due leggende del Mahäbhärata. 1

NOTE ILLUSTRATIVE.

—_——— mn

I due racconti che precedono sono tolti dalla sezione del Mahã- bhärata (la settima del lib. III) intitolata Tirthayatra, ossia « Pelle- grinaggio alle Acque sante ». Il principe dei Panduidi Iudhisthira, visitando coi suoi fratelli i guadi indicati por le sacre abluzioni (Thir- tha), ode raccontare dalla sua guida, il Brahmano Lomasa, parecchie storie edificanti, intorno gli antichi Risci, asceti o sapienti famosi. Talì storio compongono tutte insieme como un Leggendario epico, nel quale il racconto mitico originario ha già prosa la forma della novella esemplare indirizzata ad un intento morale, o scritta con una genialità artistica non comune e talvolta davvero ammirabile. Il Risci Agastia, che già figura nel Rigveda qualo autoro d'Inni, fu celebratissimo nella tradizione popolare, como uno dei più gran santi del Brahma- nesimo, secondochò è attestato dai molti e straordinari miracoli che gli sono attribuiti (v. l’articolo di Holtzmann giuniore nel vol. XXXIV del Giornale della Società Orientale todesca). Basti qui accennaro come egli, in virtù dei meriti acquistati colle sue penitenzo, abbia costretto il monto Vindhya, elovatosi per l'aria o garoggiante colla luna o il sole, a bassar lo ali o metter piedi a terra, cd abbia dis- seccato l'oceano, ingojandolo, per distruggero i Daitii che nei suoi abissi avevano trovato rifugio. Ed a questo personaggio si attribuisco pure un tal quale carattoro storico. narrandosi che egli abbia con- quistato al culto brahmanico l'India australe. Nella leggenda epica il grande Agastia è posto in una situazione psicologica, cho molto presta al tessuto romanzesco della novella. ll terribile Asceta, vis- suto celibe sino all'otà più avanzata, si trova in contumacia colla legge naturale ond' é governato il mondo umano, quella della con- tinuità della famiglia mediante la prolo legittima; ossendo stabilito che la ‘vita dei progenitori non possa continuare nel mondo di se non mercê le offerto funebri dei nipoti. L'interesse drammatico del racconto deriva appunto dai casi avventurosi, attraverso ai quali Agastia perviene infine ad adempire l'obbligo impostogli o da lui riconosciuto. La visiono delle anime dei padri sospeso nel limbo, onde sono a un punto di precipitaro nell'inferno, ricorre in altri luoghi del MBh. od è particolarmente da segnalarsi quolla descritta nella storia di Giaratkãru (I. 45).

L'intreccio della novella mira a doppio fine: il compimento dol novello voto di Agastia, impedito da non lievi diflicoltä, e la distru- zione o sottomissione del Titano Ilvala, che colle suo arti magiche, faceva rapino e stragi atrocissimo tra la casta brahmanica. Il nosso cho lega i duo avvenimenti è la richiosta capricciosa di Lopamudrä, la giovane sposa di Agastia, di avere nell'eremo una stanza nuzialo

198 M. Kerbaker,

magnifica e sontuosa come quella del più glorioso monarca. Il capric- cio di Lopamudrã trova il suo motivo nel sacrificio che essa aveva fatto della sua gioventù e bellezza, sposando il vecchio Asceta al fine di preservare dalla vendicativa collera di lui i suoi genitori. Quel sacrificio le si affacciava, per un altro verso, come necessario ed obbligatorio, dacchò essa infine era debitrice della sua esistenza al sapiente Risci, il quale colle sue proprie mani aveva formata, amalgamando il meglio delle forme organiche viventi, quella crea- tura perfetta che a lei era stata madre. Ma appunto la bizzarra pre- tesa della sposa, a soddisfare la quale si richiedeva un tesoro sfon- dolato, mette Agastia in sulla via che lo mena ad affrontarsi col Ti- tano prepotente, a far la vendetta dei Brahmani ed a liberarli da quella orrenda persecuzione. All'adempimento del voto di Agastia, cho ha per conseguenza la liberazione de'suoi Padri, fa le spese Ilvala, condotto alla perdizione da quella stessa ricchezza straboc- chevole, che esercitando impunemente l'assassinio si ha potuto ac- cumulare.

Da tutto questo intrico scatta fuori un concetto arguto e profondo: la necessità fatale del mal acquisto per opera demoniaca, perchè i fondi straordinari che ne risultano servano al compimento di un'o- pera intrapresa a buon fine. Infatti la ricchezza dei re più fortunati o doviziosi, regolarmente acquistata e maneggiata, si trova da Aga- stia del tutto insufficiente, se non ne voglia danneggiata la pubblica finanza, sottraendone alcun che a fornirgli quello di che abbisogna. Fortuna ch'ei può fare assegnamento sulla ricchezza ammucchiata da quel demonio! L'esempio può venire in acconcio alla teoria di quei moderni economisti, i quali considerano l’individualismo, cioè l’accumulamento della ricchezza, non circoscitto da leggi statuali, ma abbandonato all’egoismo individuale, inevitabilmente soverchia- tore e fraudolento, quale un malanno utile e necessario all'incre- mento economico e civile del corpo sociale. Però tra la morale del racconto indiano c quella risultante dalle teorie dei nostri economi- sti fisiocratici vi ha questo divario, che in quella l'aumento sconfi- nato della ricchezza non si spiega altrimenti che come opera titanica e diabolica, in questa si crede che il medesimo possa effettuarsi « con mezzi leciti ed onesti», cioè coi mozzi permessi dalle leggi vigenti. Campeggia in tutto il racconto quell'arte singolare dei rac- contatori indiani, di concatenare nel miglior modo i diversi inci- denti, e farli convergere tutti nocassariamento allo scioglimento del nodo ond' è intrecciata l'azione, e l’andamento svelto e rapido della narrazione nulla ha tolto all'officacia descrittiva e pittoresca in quei luoghi, dove la viva rappresentazione dei particolari tornava più op- portuna.

Eppure questa leggenda, evidentemente informata ad un concetto morale e rivestita di forme artistiche, nasconde nel suo fondo fan- tastico un senso ben diverso da quello che presenta; il senso di quei miti naturalistici cho vediamo tuttavia più o meno poeticamente

Due leggende del Mahäbhärata. “199

adombrati negli Inni del Rigveda. Che Agastia sia un eroe solare é dimostrato assai plausibilmente dai miracoli leggendari sopra rife- riti, ai quali vuolsi aggiungere quello di aver esso imposto la sua volontà ad Indra, costringendolo a dare la pioggia. E siffatta indu- zione è confermata dalla leggenda riguardante la sua nascita (alla quale si allude nella stanza 27), che, cioè, egli sia stato concepito fuori dell'alvo materno, in una giara di acqua, dal some di Mitra e di Varuna. Poiché, infatti, quoste due divinità rappresentano il supremo spazio celeste, raffigurato siccome un gran mare, ben si comprende come l'origine cosmogonica del sole, ridotta a proporzioni antropo- morfiche, abbia somministrato la trama fantastica alla nascita leg- gendaria di Agastia. Più volte occorre nel Rigveda la frase « Va- runa e Mitra hanno preparato il sentiero, hanno sgombrato le vie al Sole» (cfr. Bergaigne, Religion vedique, vol. Ill, pag. 18 e seg.); e nell’Inno V. 63 a Mitra e Varuna, è detto « Voi collocaste il Sole nel cielo, in mezzo alle nuvole e alla pioggia. Seguendo il Rita (l'ordine costante dell'universo) voi avete posto il Sole nel cielo, come un carro brillante ». Il fatto che Agastia, avendo creata la madre della sua sposa, si rende colpevole di un incesto, ha una stretta connes- sione col mito vedico della unione del padre colla figlia (v. Bergaigne, op. cit. vol. ll, pag. 109 e seg.), nel quale è stato raffigurato uno dei diversi e mutevoli rapporti del Sole coll'Aurora. Ushas è sposa o figlia di Sürya, secondochè il fenomeno della luco mattinale è ri- guardato come sorto da se e concomitante a quello dell'apparizione del sole, oppure come dipendente e prodotto dal medesimo; nel qual caso la precedenza dell'Aurora è figurata come quella della messag- gera che annunzia e procede il suo signore. In virtù di tale duplice rappresentazione figurativa la sposa e la figlia finirono per fare una sola persona. Questo mito ha poi acquistato un significato cosmo- gonico, quando il Sole e propriamente Savitar (v. Bergaigne, op. cit. vol. III, pag. 38 c seg.) venne rappresentato col nome di Tvashtar (l’Artefice), come il sommo Demiurgo, la personificazione della forza cosmica che muove oc feconda la materia e produce il mondo, dicen- dosi che « Tvashtar crea le forme nel seno della sua figliuola », onde la formola cosmogonica che « Daksha (l'Artista, l'operatore intelli- gente), dall’eternitä produce Prakriti (la Materia, la Natura) ed in essa genera.»

Ma nella leggenda popolare, che continuò il mito vedico, per suo conto, indipendentemente dalla mitologia cosmogonica e metafisica, l'incosto non fu più figura, ma fatto umano c reale, salvo a tempe- rarne la crudezza colla sostituzione della paternità artificiale alla naturale. Il conjugio disuguale del Sole e dell'Aurora, quello invec- chiante (s'intende nel suo corso giornaliero), e questa sempre gio- vane, (riflesso nella copia classica di Titone e dell'Aurora), ha poi dato origine ad una infinità di miti e leggende, che si possono ri- scontrare nelle diverse tradizioni indoeuropee. Pure già nel Rigveda questo mito prende la forma della novella, e precisamente nell’ Inno 179

200 M. Kerbaker,

del primo Mandala, dove una tale Lopamudfä, per l'appunto, alletta e stimola con parole lusinghiere il vecchi@ marito che proprio si chiama Agastia. La cosa va detta coi termini stessi del testo vedico: « Nadisya mA rudhatáh kä’ma 4’gann ità &’g’ato amútah kutaçc'it - Löpämudrä vrishanam ni rinâti dhi’ram âdhÿrâ dhayati çvasäntam. » (Rv. I. 179, 4). E l'Inno conchiude: « Agastia desiderando prole e possanza, ottenne I una e l’altra cosa; il terribile Risci pervenne tra gli Dei al conseguimento dei suoi sinceri voti.» E la moralità della storiella è nel v. 2 che suona «Anche coloro che dapprima vissero addetti alle opere di pietà e insieme cogli Dei celebrarono sacrifizi, se ne sono rallentati; non raggiunsero il loro scopo; poichè gli uomini debbono trovare le donne con cui appajarsi. » I miti del Dio-fenomeno, come prima furono frantesi in un senso puramente umano, vennero trasferiti nella persona del capostipite di una fa- miglia sacerdotale, più specialmente addetta al suo culto (ad es. le figure di Agni nel personaggio jeratico di Bhrigù). Così ci possiamo spiegare 1 miracoli solari attribuiti ad Agastia. Che Lopamudrã sia un'Aurora è ben dimostrato dalla bellezza sovrumana della sua madre, fiore della creazione, e alla quale essa tanto rassomiglia; confermato inoltre dalla condizione da essa posta al compimento delle nozze, cioè il doversi ella accostare allo sposo, scintillante di oro e di gemme, col più splendido sfoggio degli abiti e degli ornamenti, nonchè dalla sua separazione dallo sposo, subito dopo aver conce- pito il figlio; figlio unigenito ed immagine del padre.

La leggenda di Vätäpi, del demone che tagliato, smembrato, pas- sato tra i denti o le fauci, ricompone le sue membra e ritorna vivo e rubesto come prima, prototipo dell’Orrilo ariostesco, meriterebbe una indagine speciale che qui non può aver luogo. Il legame di Vatapi col mito vedico è attestato dalla ricorrenza dello stesso nome nel Rigveda, come aggettivo, significante « quello che gonfia, ribolle o fermenta » (Roth e Grassmann) oppure, in senso più letterale, « il congiunto col vento, il turbinoso...» (Geldner e Bergaigne), secon- dochè s'intende del Soma terrestre o del celeste. Certo è che il so- stantivo Vätäpya è usato ad indicare l’acqua del temporale, la pioggia. Sia pure che in alcuni luoghi del Rigveda Vatäpi si riferisca al Soma terrestre gorgogliante e scrosciante, tuttavia quando si parla di un demone che scoppia e lacera l'involucro in cui si è rinchiuso, e tornando quel ch'era, s'inventra daccapo, per rifare lo stesso giuoco, è forza intendere che si tratti del fenomeno naturale che s'accom- pagna alla produzione del Soma celeste, cioè il vento stesso, che squarciando il nembo se ne appropria i pingui umori. Vatapi di- venta così un confratello della compagnia titanica, come Cushna, il disseccatore, e gli altri. Vi hanno Genii personificanti le forze naturali, quali gli Asura, i Gandharva, i Rudra, che si mettono a ser- vizio così degli Dci luminosi e benefici come dei tenebrosi e ma- lefici. E tale è Vatãpi, il quale, comunque si abbia ad intendere il suo soprannome di « amico del vento », che si vede affibiato a Soma

Due leggende del Mahabharata. 201

nell’Inno I. 187 (dove è notevole, come riscontro, alle st. 39, 40, la triplice chiamata fatta a Vatapi, perchò esca fuori), acquistò alfine nella tradizione popolare un carattere assolutamente sinistro e de- moniaco. Tale elaborazione, cui andò soggetto il mito vedico, per essere trasformato nella leggenda epica, era pur bene che fosse un poco studiata e dichiarata, affine di mettere nella sua conveniente luce il carattere propriamente artistico che forma il pregio di que- sta novella.

Nulla di più originale che la leggenda di Ashtävakra. Tutto l'in- teresse del racconto si concentra nel carattere idealmente umano dell'eroe, in cui è personificato il genio poetico e speculativo, l’in- gegno naturale, elevato al più alto grado della sua potenza, sebbene chiuso in un corpo tapino e deforme. La gara che Asht&vakra so- stiene col Vandi, il bardo o poeta di corte, è piena di movimento drammatico, non pure perchè mette alle prese il debole fanciullo coll’ omaccione gagliardo c imponente, lo studioso ignoto col bacca- lare famoso, e cioè il sapere originale e intellettuale colla scienza ufficiale e titolata, ma ancora perchè dalla vittoria che esso, il figlio di Kahoda, riporterà sul bardo prepotente, dipenderà l'adempimento del voto da lui fatto di vendicare, a rischio della sua vita, il padre soverchiato ed ucciso; vendetta pietosa se altra mai, poiché per l'improvvida imprecazione del padre ogli era venuto al mondo così misero e contraffatto! Ashtävakra è rimasto popolare nell'India, come la figura tipica del poeta libero e indipendente, gran mente e gran cuore, e veramente ispirato dall'estro divino; onde col suo nome furono divulgate diverse raccolte di poesie sentenziose, come l’Ash- tavakragitã, l'Ashtävakrasarñhita e l'Ashtävakrasuktidipiha.

La tradizione relativa ad Ashtävakra, la cui personalità storica è ammessibile in quanto non vi ha ragione positiva per negarla, si collega con quella del celebre Gianaka, re di Mithila o di Videha. Fu questi una specie di Salomone, re poeta c filosofo, dato come autore di molte savie massime sull'arte del governare, emulo della preminenza Brahmanica, e coi Brahmani disputante di alte questioni filosofiche e teologiche. Il significato generico del suo nome che vale « padre » (Kônig), comune a parecchi principi, non è valido ar- gomento per farci supporre che si tratti di un personaggio ideale. Consuonano colle dottrine del Buddhismo parecchi discorsi parene- tici ed aforismi, riportati come suoi, in parecchi luoghi del Çänti- parva, dove pure si narra (MBh. XII, passim), che Gianaka, avendo fatto il saggio degli insegnamenti di 100 teologi, o questionato con Yagnavalkya, Parasüra ed altri, si risolvette alfine di appigliarsi alla dottrina di un asceta (Panciaçikha), la quale per mezzo della pura scienza lo scorgeva alla liberazione finale. Di Gianaka, re di Videha, si fa pur già menzione nel Gatapatha Brähmana, che riferisce una conversazione tra lui e Yagnavalkya, maestro spirituale alla sua corte. Che un tal ro favorisse i certami poetici e restaurasse i Sa-

24

202 M. Kerbaker,

crifici solenni e popolari, ne' quali essi avevano luogo (v. la stanza 24) è cosa in tutto verosimile e conforme agli altri particolari della tradizione.

L'idea del genio il quale si afferma e si fa strada da sé, contro gli ostacoli sollevatigli contro dai pregiudizi e dai privilegi sociali, ci si rivela ogni momento nella persona di Ashtävakra, in ogni suo atto e detto, nella perspicacia ch'egli dimostra anche prima di na- scere, nell'ardimento ond’ei concorre alla gara poetica, nella pron- tezza di spirito onde sostiene la conversazione col re e col guardiano e supera l'esperimento degli indovinelli. La gara poetica poi, in cui egli si affronta col regio cantore e panegirista, non solo è per se stessa singolarissima, ma ha una particolare importanza per la storia dei metodi o sistemi filosofici dell’ India antica. La prova consiste nel raccogliere intorno al numero progressivo, che tocca a ciascuno dei due duellanti, a cominciare dal numero uno, le specie compo- nenti i diversi generi aritmetici. S' intende per generi aritmetici quei gruppi di fatti naturali ed umani che si trovano sotto un dato nu- mero assortiti: ad es. sotto il due, i due poli o punti estremi, 1 duo sessi, le due parti della giornata...: sotto il tre, i tre mondi, le tre

.; divinità supreme, le tre facoltà dell'anima...; sotto il quattro, i quattro punti cardinali, le quattro età dell'uomo, le quattro gambe dei quadrupedi..., sotto il sette, i sette pianeti, i sette colori, le sette note musicali..., - e via dicendo. In conseguenza della asso- ciazione di tali specie, tra le quali la fantasia scopre certe relazioni, il numero viene dotato di una particolare efficienza cosmica; como se dalla diversa divisione della monade provenga una cotal qualità e funzione propria delle parti in cui viene scissa; e quindi, cono- sciuti, per mezzo del numero, i rapporti che le cose create hanno tra loro stesse e col tutto, si possa ricostruire il processo della crea- zione e della vita mondiale. Tale è, a darne un fuggevole cenno, quella dottrina metafisica dei numeri (strano connubio della fantasia colla ragione calcolatrice), dalla quale rimasero pure affascinati i più grandi ingegni, quali Pitagora, Dante, Newton.

L'esempio pitt cospicuo della medesima ci è dato dall'insegnamento pitagorico, secondo il quale la differenza qualitativa delle cose si faceva dipendere dalla quantitativa, di guisa che la genesi di ogni fatto mondano si veniva a spiegare colla divorsa divisione della mo- nade preesistente, ad es. la croazione (causa materiale, o genera- zione) colla divisione in due, la conservazione colla divisione per tre, che introduceva tra i due il termine medio, o così via. Si ca- pisce facilmente come questo metodo speculativo si presentasse molto ovvio (e fu certo antichissimo) ai primi architettori di sistemi, se si raffronta la chiarezza dei concetti relativi alla quantità colla oscurità di quelli che concernono la qualità. L'insigne indianista von Schrôder ha creduto di poter derivare la dottrina Pitago- rica dei numeri dal sistema indiano Sankhya (che vorrebbe dire appunto dei numeri) per certo analogie scoperte tra essa e diverse

Due leggende del Mahabharata. 203

parti del Sankhya (v. il suo libro: Pythagoras und die Inder. Leipzig 1884). Ma, senza discutere la validità delle prove da lui arrecate, Bi può osservare come la facoltà od arte combinatoria, la quale dis- pone e coordina, mercè una cotale numerazione fantastica, i diversi fatti naturali ed umani, è una naturale efflorescenza del pensiero metafisico, che si è veduta spuntare nei tempi antichi e nei moderni ed anche nei più recenti. Dalle cose dette si comprende come la gara poetica tra Ashtävakra e il Vandi versasse nientemeno che sui più ardui problemi della scienza prima, i quali si dovevano in certo modo riassumere nelle singole battute, ciascuna ritmicamente disposta e costretta in versi ben contati e misurati. Naturalmente alcune delle serie o specie numeriche, colle quali i dne campioni dottamente bat- tagliano, relative a concetti ed usi propriamente indiani, non possono più avere per noi un significato preciso; importava che a spie- garlo io recassi in mezzo il prolisso commento di Nilakanta, nel- l'edizione di Bombay. In qual maniera sarebbe continuato il contrasto, se il Vandi non fosse rimasto in asso al numero 13, non potrei pure immaginarlo! Ben se ne potrebbe fare alcuna probabile congettura, interrogandone qualche dotto Pandita indiano!

Che in fondo a questa novella così concettosa e spirituale di Ash- tävakra si trovi un antico mito (come generalmente si avvera in ogni leggenda indiana), non può essere dubbio per chi badi alle cir- costanze miracolose, in mezzo alle quali si svolge l'azione, a comin- ciare dalla nascita dell'eroe sino alla sua guarigione mediante il battesimo nelle acque della Samanga. Chi, avendo fissa in mente la figura di Ashtävakra, legga i primi Mandala del Rigveda, non può fare a meno d'identificario coll’Agni sacrificale, celebrato come il gran havi o poeta per eccellenza, fanciullo sapiente, anzi adulto in sapienza prima di nascere, maestro di coloro che bambino lo raccol- gono e nudriscono. Di lui si dico che «egli non è avviluppato nella tenebra, pur stando rannicchiato nella matrice. Dove esso, il veggente, circonfuso del proprio lume, passa la notte (Rv. IL 10, 3)». Egli è l'Agni che fu detto Giatavedas, cioè, « Conoscitore degli esseri creati », in forza dell’osservazione che il fuoco si trovava vivo e latente in ogni corpo, epperò nunzio degli Dei, insegnatore degli arcani della natura; il Dio, insomma, nel qualo l’adoratore trasferi, 0, come si suol dire, obiettivd il suo proprio pensiero mistico, facendo lui i ispi- ratore e dettatore della sapienza rivelata.

Spogliato della sua divinità e riguardato come creatura umana, | questo Genio divino diventa il feto intelligente, che appena conce- puto, mostra di avere Z’ indole del fuoco, che intende e apprende, sin dall'utero della madre, le sante scritture, e si palesa superioro ai Brahmani (di cui è protettore o salvatore) per virtù della scienza innata che possiede. Anche Agni nasce deforme e rattratto, come quegli che uscito dall'Arani, secondo che lo descrive il Rigveda, « ap- pare senza piedi o senza tosta, striscia al suolo, e cammina a fatica, barcollando, ansando e appoggiandosi alle sue balie od ancelle (le

204 M. Kerbaker, Due leggende del Mahabharata.

branche dei rami apprestate per tener viva e nutrita la fiamma sa- crificale) »; onde al v. 7 dell’Inno 141 è chiamato vakvan (= vakra), e vakvan hväras, cioè curvo serpente. Il raddrizzamento di Ashtä- vakra mediante le acque miracolose della Samanga (che ha tutte le membra, integra) risponde al fatto celebrato di frequente negli Inni, del Fuoco sacrificale che s'invigorisce e s' innalza diritto al cielo, mediante le sacre libazioni. E la sua grande impresa, il duello col bardo soverchiatore, che si era installato nella Corte di Gianaka, ci riproduce il mito di Agni battagliero, amico ed alleato d'Indra (Ber- gaigne, op. cit. III, 67, 146), e duce degli Dei nelle battaglie celesti contro gli Asuri e i Dasiu, a quel modo che è guida degli Arii com- battenti contro i Dasyu terrestri, cioè i non Arii. Quegli «ignoranti orgogliosi » egli li conquide col fulgore delle suo fiamme. Il Vandi, quale figlio di Varuna, Dio terribile, ambiguo ne’ suoi consigli, e tal- volta minaccioso e malevolo, dominante gli spazi inaccessibili del- l'oceano celeste, e in contrasto coi Genii luminosi, è un rappresen- tante della potenza titanica personificata in Vritra. Egli ci rende in certo modo l’uspetto sinistro di Varuna, le cui attinenze con Vritra, non pura nella radice del nome, ma negli attributi mitologici e cos- mogonici, sono state benissimo accennate dal Bergaigne (op. cit. III, 115, 116, 139 e seg.).

La gara poetica venne a sostituire il conflitto naturale e meteorico, che in fondo è quello medesimo, il quale diede origine al mito clas- sico di Edipo e della Sfinge (Breal, Le Mythe d'Oedipe, nelle Me- langes de Mythologie et Linguistique), dove pure si schermeggia dai due contendenti in punta di enimmi, pena al perdente l'essere pre- cipitato dalla rupo. Da qual fatto la detta sostituzione possa essere stata suggerita od agevolata, si può arguire dal modo onde vediamo rappresentata nel Rigveda la voce della nuvola, cioè del tuono, vale a dire come un grido profetico, un linguaggio arcano e incompren- sibile, un canto magico, ed anche come il verbo della scienza rive- lata. Tal voce è, a volta a volta, divina o demoniaca, a tenore dei lieti o funesti effetti prodotti dal commovimento atmosferico, secon- dochè essa prenunzia la vittoria dei Genii buoni o quella dei ma- lefici. Si deve poi sempre intendere che il mito vedico non ha po- tuto far altro che apprestare il primo ordito rudimentale a quello che fu poi il dramma leggendario. Qui lo spirito della fantasia poe- tica, mediante l'intuizione della realtà storica, in cui si riflette un nuovo mondo morale, spazia e domina liberissimo sopra le forme fantastiche, dalle quali pure ebbe il primo incentivo; presentandoci nel protagonista e nell’antagonista, nel piccolo storpio dall’indole del fuoco e nell’altero e poderoso figlio di Varuna, due tipi umani di una verità vera e inoppugnabile!

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V. HENRY.

—T

ETYMOLOGIES BRETONNES.

Dans mon tout récent Lexique du Breton moderne, j'ai hasardé quelques conjectures nouvelles, que la conci- sion inséparable d'un tel ouvrage m’a naturellement eın- péché de justifier. Qu’il me soit permis d'en placer ici le développement sous le patronage du savant illustre à qui les celtisants ne sont pas moins redevables que les roma- nistes et l’ensemble de l’indogermanisme.

1. Br. ale’houéder « alouette ».

Le nom de l’alouette est en cymrique ehedydd, hedy dd, uchedydd, et M. Loth, Mols Latins:s. v., a très finement analysé les jeux divers de l’étymologie populaire qui ont altéré en cent facons la furme de ce mot. La plus pure paraît être celle du vocabulaire cornique, ewidit, que tou- tefois je ne me charge pas d’expliquer. Il se pourrait qu'elle recélat simplement une onomatopée du «tire-lire » de l’alouette. Passant condamnation sur ce point insoluble, on remarquera que le br. possède historiquement et garde encore aujourd’hui dans les dialectes les equivalents des types cymriques, éc’houédés, c'houedéz, etc. Mais il a de plus: éc'houéder, qui change en » le s final; alc'houédéz, qui introduit un | à la suite de la voyelle initiale modifiée; et surtout alc'houéder, qui cumule les deux corruptions.

Il paraît évident au premier abord que les deux pre-

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206 V. Henry,

miers mots sont contaminés du troisième, l’un pour la fi- nale, l’autre pour l’initiale, en sorte que, si l’on parvenait à expliquer Il et l’r d'alc'houéder, on aurait du même coup expliqué éc'houéder et alc'houédéz.

Il n’y a pas grand fond à faire sur le gaulois latinisé alauda > fr. aloue. Rien ne nous autorise à penser qu'il ait existé en dehors du gaulois, et d’ailleurs l'influence de ce mot n’expliquerait que I'l. Une influence qui rendrait compte à la fois de Pl et de l’r aurait seule chance de rallier quelques suffrages.

Partant de cette idée, je remarque que le latin avis ga- leritus « alouette huppée », s’il avait été emprunté en brit. tonique, y eüt donné quelque chose comme *aw-gelerit, qui se traduirait en br. par *awchelred (ch spirant, bien entendu): de là, par métathèse, ou aurait *alchwered, et il ne faut qu'une autre métathèse pour donner *alch- weder, c’est-à-dire, à l’orthographe près, la forme actuelle.

On sait quel rôle considérable joue la métathèse dans la phonétique bretonne: il semble donc légitime de soup- conner que lat. avis galeritus n'est pas entiörement étranger . à la formation de br. alc’houéder.

2. Br. arwad «tanaisie ».

La tanaisie est une plante à fleurs jaunes en capitules, genre de la famille des composées, tribu des sénécionidées. Le Gon. tire son nom du préfixe ar- et de gwdd «sang» ou gwazien «veine», parce qu'elle serait employée pour purifier le sang. Admettant cet emploi, qué je ne vois pas indiqué dans les dictionnaires scientifiques, il n'y est question de la tanaisie que comme vermifuge, un voit qu'il ne s'accommode guère de l’&tymologie proposée: de gwazien, il ne saurait étre question; et, quant à un com- posé *ar-gwdd, il peut difficilement suggérer une autre idee que « attenant au sang »; comparer arvôr « littoral », arzourn « poignet », etc. Puis on attendrait *arwád. Et

Etymologies Bretonnes. 207

enfin, 4 moins d’un emploi spécifique et universellement connu, le peuple ne nomme ‚pas une plante par ses pro- priétés médicinales, mais avant tout par ses caractéres extérieurs et manifestes.

Le sénecon, type de la tribu des sénécionidées, se dit en br. aouredäl, derivation évidente de aour «or»: dês lors, il devient aisé de restituer arwad sous une forme plus ancienne *awrad «doré», cf. lat. auratum. La métathèse a-t-elle été subsidiairement favorisée par une erreur qui a rapporté ce mot à *ar-gwdd? Je ne sais. En principe, le breton n'a pas besoin d’aide pour intervertir ses consonnes,

3. Br. barged «buse».

Le corn. a barges, et le cymr., barcud, «milan, buse », cud «milan », qui nous reporte immédiatement à l’anglais kite. L'emprunt a eu lieu de très bonne heure, au temps le mot anglais contenait encore un %, soit ags. cyta «milan », ce qu'implique d'ailleurs le fait qu'il est commun aux trois dialectes. L'assourdissement corn, et br. de l’% en syllabe de moindre accentuation n’a rien que de três normal.

Ainsi bar-cud est un composé; mais quel en est le pre- mier terme? Evidemment le celt. *barro-. Le composé est hybride. Il n'en manque pas de tels en brittonique: hier encore M. Loth me signalait moyen-cymr. allmyn, avec le sens de alltud, ou le second terme est anglais. La seule question est de savoir quel sens ajoute le terme *barro-. Il signifie «sommet», et l'on serait tenté de croire à une composition comme «milan de montagne» ou «milan qui plane »; mais cela répugnerait aux habitudes de la buse. On sait que sa grande ressource est son inlassable patience: elle ne plane guère, mais perche, et attend qu’une petite proie passe à sa portée; et, comme bar signifie également «branche » dans les trois dialectes, nous n’avons aucune peine à traduire «milan de rameau » = « milan perché ».

208 V. Henry,

La seule objection, c'est qu'en cymr. et en corn. le composé signifie aussi bien «milan» que «buse»; mais, une fois le mot créé, et lorsqu'on en eut oublié le sens étymologique, la confusion des deux oiseaux n'a plus rien que de concevable. Elle semble s'être produite en br. aussi, au moins partiellement; car le sens de bargéden « nuage devant le soleil» s’adapte mieux au planement du milan qu'au perchement de la buse, tandis qu'au contraire le vb. bargedi, « muser, fläner, baguenauder », ne relève que des habitudes de celle-ci.

4. Br. barlen « giron ».

Cymr. barlen, «the lap, an apron». En br. aussi, « la partie du tablier qui est au dessus des genoux ». Cette ac- ception est décisive: comme, d’autre part, barlen est fémi- nin, ainsi que br. lenn «couverture » = corn. lenn = cymr. llen, c'est sürement ce dernier mot qui forme la syllabe finale; et dès lors la racine BHER «porter», qu'on a cher- chée dans l’initiale, n'a rien à y faire; car que signifierait un composé «linge 4 porter»? Et puis on tient, on cache, on berce, on réchauffe dans son giron: on n'y «porte » point.

La décomposition celt. *barro-linnã (<*-plinna), soit « pagne du sommet» (cf. supra 3) est d'une vraisem- blance assez séduisante: le pagne, vêtement três primitif, simple pièce d’etoffe enroulée, se trouve naturellement divisé par l’articulation des genoux en deux parties di- stinctes, celle qui se colle au buste et celle qui flotte sur les jambes.

Toutefois il faut bien reconnaître que logiquement on at- tendrait plutôt l’ordre inverse, soit « sommet du pagne ». Peut-être traduirait-on plus correctement « pagne du giron», en cherchant dans la première syllabe le mot qui est au- jourd’hui en allemand Gehren et qui a donné par emprunt le fr. giron. Malheureusement on ne saurait affirmer, ni

Etymologies Bretonnes. 209

que ce dernier commençãt par une vélaire, ni surtout qu'il designät primitivement une partie du corps humain.

5. Br. chif «chagrin».

J'ai rapproché évasivement ce mot du moyen-breton mechif «malheur », mais sans apercevoir le lien étymo- logique qui pouvait les unir. Je crois aujourd'hui l’entre- voir. A l’époque ou le br. a emprunté au fr. ce dernier mot, il devait se prononcer encore meschief, avec la sif- flante et la chuintante nettement séparées et articulées cha- cune pour soi. C'est plus tard qu'elles se sont fondues en une chuintante simple. Il se peut, dans ce cas, qu’une lo- cution telle que meschif « dans le malheur » ait été comprise et coupée *émesk chif, avec la préposition émesk, « parmi, au milieu de», et qu'on en ait abstrait un mot chif, qu'ou aurait cru signifier « malheur, chagrin ».

6. Br. chouil « scarabée ».

M. A. Thomas (Romania, xxvitl, p. 212) me paraît ju- stifier en toute vraisemblance l’origine ags. de br. fubu et c'houibu « moucheron ». J'y ai ajouté cette donnée, que l’emprunt aurait été fait, du moins pour le breton, non pas directement sur wibba « scarabée », mais sur la forme de dat. pl. wibbum. Cependant un «scarabée» n'est pas un « moucheron », et il est évident que, si cette dérivation pouvait s'appuyer sur une autre plus satisfaisante au point de vue sémantique, elle y gagnerait en force probante, comme aussi elle l’étayerait à son tour.

Or le br. a un mot c'houil, «hanneton, escarbot, toute espèce de scarabée », qui ressemble beaucoup à ags. wifel > ag. weevil «scarabée », lequel lui-même est identique à wibba, sauf le phénomène bien connu de doublement de la consonne germanique. La longueur de l'? semble dé- noncer la contraction qui s’est produite après chute du v

2

210 V. Henry,

(ou w par assimilation) interne devant syllabe atone, et l’initiale chw (cymr. chwilen) n’a rien de surprenant dans une langue ou w initial est sujet à s'en surcharger: que l'on compare lat. vesica > cymr. gwysigen ct chwysigen.

La seule objection, c’est qu'on a un vb., br. c'houilia, cymr. chwilio, « fouiller », et qu'il est assez tentant d'en abstraire le substantif: soit le composé br. c'houil-kaoc'h, le personnage qu'on nourrit au début de la Paix d’Ari- stophane; si la première syllabe de son nom répond au fr. «fouille...», comme il est le plus vulgaire das escarbots, on a pu, en supprimant la syllabe déterminante, en tirer par généralisation le nom de tous les autres; et l’on peut trouver encore un argument en ce sens, dans le nom de c'houiliorez donné au frelon, l’insecte fouilleur qui fait son nid dans les trous d'arbres ou de murailles.

Il est vrai; mais alors quelle sera l’étymologie du verbe? A la grande rigueur, br. c'houilia pourrait être emprunté au fr. (fouiller), car l’échange de f et c'h initial est pos- sible; mais cette ressource nous manque pour le cymr. chwilio. On se résignerait à laisser un point d’interroga- tion sur l’étymologie du verbe, si d’autre part les rapports croisés c'houil: wifel = chouibu: wibba n'offraient pour celle du substantif un ensemble de points de repère três suffisants,

Il y a donc lieu de renverser la relation, et de dire que, chwil = c'houil ayant été emprunté à l’ags., la langue en a tiré postérieurement, à raison des moeurs de l’insecte, le verbe chwilio = c'houilia. Quant à c’houiliorez, il a été, plus tard encore, dérivé de l’un ou de l’autre, et plutôt du second.

7. Br. dalif «posthume ».

Ce mot est fort obscur: l’absence d’aucun terme simi- laire dans les autres langues celtiques interdit presque de supposer qu'il remonte à l’indo-européen, à supposer même que la phonétique permit de le rattacher à la rac. LEIQ en

Etymologies Bretonnes. 211 Vinterprétant par «relictus »; d'autre part, -if n'est pas un suffixe breton, et il n'existe non plus aucun radical *dal- sur lequel bátir une dérivation. Le mot le plus voisin est dalé, « délai, retard », qui est abstrait du vb. daléa « tarder », emprunté au francais.

Il se pourrait que nous eussions affaire ici à un genre curieux d'hybride: un Breton qui savait le francais et con- naissait le rapport de tarder et tardif, a voulu le repro- duire dans sa langue et sur un radical qu'il devait croire breton; et, de fait, il l’a reproduit, mais assez gauchement, puisque l’adjonction correcte du suffixe fr. eüt donné *dale- if. C'est l’anomalie inverse de celle qui distingue la for- mation française, également «savante », élanchéite.

Je n'ai malheureusement aucune preuve que le fr. tardif ait été jamais employé au sens de «posthume». Mais le Dictionnaire Littré donne: Agneaux, poulets, etc., tardifs: ceux qui viennent après les autres. Br. dalif a peut- être été créé pour ce sens technique d’économie rurale, d’où il a pu aisément passer à celui de « posthume ».

8. Br. éjenn « boeuf».

Ce mot ne peut évidemment rien avoir de commun avec son pl. ouc'hen ou oc'hen, lequel se réclame de sk. uksdn, got. auhsa et all. ochs, si d'ailleurs il n'est emprunté à l’ags. La synonymie les a rapprochés; mais éjenn, le j parait pan-breton, doit être, à en juger par cymr. eidion et voc. corn. odion, une dérivation brittonique sur une base *od-: l’è suffixal a métaphonisé la voyelle radicale, et le groupe d + y a donné très réguliérement br. 7.

De base od-, ou plutôt dd-, ou primitivement aud-, je n'en connais qu'en germanique: on sait qu'en vieux ht. all. öd signifie « richesse ». Quand les Saxons envahirent la Grande-Bretagne, le bétail dut être la principale ri. chesse que les vaincus apprirent à leur dam à nommer du nom que lui donnaient les conquérants, et le transport sé-

212 V. Henry,

mantique observé depuis longtemps dans br. saout (infra 20) n'a rien encore ici que de fort concevable.

Mais, si le fait est exact, il est intéressant pour la pho- nétique ags.; car l’ags., qui a changé germ. au en éa, ne nous offre plus qu'une forme dad, qui naturellement n’a pu donner le corn. odion. 11 faut donc que, lors de leur incursion, les Saxons aient encore prononcé, sinon au, ce qui n'est guère probable et d’ailleurs ne cadrerait pas trop avec le vocalisme brittonique, du moins eo, qui est, d’après M. Dieter (Laut- und Formenlehre der Altgermanischen Dialekte, p. 66), le stade intermédiaire entre au et &a.

O. Br. évez «attention ».

La forme vannetaise est éouec’h ou plutôt exeh (Chälons- Loth), indiquant que le z des autres dialectes est le sub- stitut d'un groupe tt ou kt, en sorte que la restitution de la seconde syllabe en un celt. *-wek-to- n'offre guére de difficulté. Le © breton au lieu du to qu'on attendrait, est une altération très faible, et l'absence de tout correspon- dant en gâdélique n'est pas un argument péremptoire contre une origine préceltique.

Ce *wek-lo-, une fois obtenu, apparaît comme le verbal de la rac. WEG, surtout manifestée par le lat. veg-ére «être fort», mais sémantiquement plus concordante dans le lat. vig-il «éveillé», ou le vocalisme gauchit quelque peu. Sous sa forme fléchie woa, elle a donné au germanique l’énorme famille des mots apparentés à l’al. wachen « veiller».

Pour la première syllabe, on ne peut s'empêcher de songer au préfixe *su-, en sorte que l’ensemble signifierait «bonne garde». Mais ce préfixe, devenu en brittonique he-, garde intacte son aspiration, tandis qu'on ne rencontre nulle part une forme bretonne *hevez. Si le corn. ou le cymr. possédait le mot, il nous servirait de contròle. En l’état, comme Ph initial breton ne se prononce plus et qu’historiquement même il semble assez mobile, on a la res-

Etymologies Bretonnes. 213

source d'admettre une déaspiration ancienne, plausible, somme toute, en prononciation rapide, dans un mot fort usuel, qui figurait souvent dans des locutions toutes faites telles que lakit évez « prenez garde».

10. Br. géoren « écrevisse de mer».

On sait l’usage remarquable qu’a fait le brittonique de son suffixe singulatif -en. Il lui arrive souvent de l’ajouter à un pluriel, pour le retransformer en singulier: ainsi, d'un radical celt. ster-, on a, non seulement br. stéren «étoile» et stéred «étoiles »; mais, de plus, la suraddition de -en à ce dernier donne stéréden «étoile»; de même, lat. vespa emprunté a donner br. *gwesp, d’oü pl. gwe- sped «guépes », puis gwespéden. Sous le n.° 26 on verra une autre application du principe. Ici elle n’est pas dou- teuse: gaour ou gavr «chèvre» fait au pl. géor ou gevr, et le singulatif de celui-ci, géoren, a servi à dénommer l’« écrevisse de mer».

Le sobriquet de « chèvre » donné à certains crustacés, à raison de leurs appendices antérieurs, est monnaie cou- rante. Sans même recourir au français, je ne suis pas sûr quo crevelle ne soit pas d'origine germanique, ni que chevrette n'en soit pas altéré, mais en tout cas chevrette est universellement compris comme signifiant « pe- tite chèvre», lo br. a un nom de crustacé gaour-vér «chèvre de mer ». On voit que la création du doublet sin- gulatif géoren a eu pour effet subsidiaire de permettre la suppression du déterminant.

Il va de soi que ce genre de formation est surtout con- cevable et fréquent pour le singulier des objets qu'on a l’habitude de voir denommer sous un aspect de pluralité: les étoiles, les guêpes (qui vivent en communauté), les cre- vettes (qui fourmillent dans une flaque d’eau), les langes d’un enfant, etc.

214 V. Henry,

11. Br. god « poche».

Ce mot fait songer au vb. fr. goder «faire des plis ». Mais l’étymologie de celui-ci est inconnue. Le Dictionnaire Hatzfeld le rattache dubitativement à goderon > godron «pli d'une fraise empesée ». A son tour, ce dernier de- meure sans explication. Tous ces mots ne pourraient-ils venir du breton? En fait, la poche d'un vétement gode, Jorsqu’elle est remplie ou qu'il est mal fait, et un godron est une portion d'étoffe qu'on fait goder. Jusqu'à plus am- ple informé, je pense donc que fr. goder vient de br. gód « poche », et que goderon est un derive postérieur du vb. goder.

Ce qu'on gagne à entrer dans cette voie, c'est que br. gód n'est pas inexplicable. A supposer même que sun dou- blet kéd provienne de quelque mutation, le g initial lui- même n'exclut pas un emprunt de l’ags. codd > ag. cod, « cosse, gousse, bougette ». Ce petit mot aurait passablement voyage.

12. Br. golvan > fr. engoulevent (?).

L'histoire du fr. engoulevent est bien obscure: admis par l’Académie en 1878 seulement, il est à peine attesté en littérature, et, ce qui ne manque point de gravité, Littré n'en cite de pendant dans aucune langue romane; d'autre part, pour bien fait et pittoresque que soit ce composé, je ne sais si je me trompe et j'aurais peine à justifier ma prévention, mais je ne lui trouve pas les allures d'un so- briquet populaire. Qu'on le compare à son synonyme tête- chèvre. Voilà un mot qui porte bien la marque de son origine plébéienne.

Bref, il me semble qu'on n'a pu dénommer un oiseau engoule-vent, et qu'il a fallu, au contraire, que les deux syllabes *goul-vent préexistassent d'une facon quelconque, pour que l’imagination populaire, s’ingéniant à y chercher

Etymologies Bretonnes. 215

un sens, s’avisät d'y trouver l’oiseau qui engoule le vent. Partant de là, on constate que le br. a un mot authenti- quement celtique, golvan « moineau» (aussi Goulven nom propre, etc.). S'il était possible, à défaut de mieux, de tra- cer l’itinéraire d'engoulevent, de constater, par exemple, qu'il est apparu en premier lieu dans la Normandie ou le Maine, la preuve de l’emprunt pourrait passer pour faite, Car il n'y a pas lieu de s'arrêter à la différence de sens: br. golvan désigne «toute espèce de passereau » (Le Go- nidec), et de à une spécialisation le passage est bien aisé.

13. Br. kirin.

Le lat. carênâria (et non ue), auquel M. Ernault (Gloss. Moy.-Br., p. 347) rapporte ce mot, conjointement avec corn. ceroin «cuve» et vieux-cymr. ceroenhou, signifie «vase à fabriquer le vin doux». Abandonnant ces deux derniers à leur sort, et réfléchissant exclusivement aux ho- mophones possibles du premier, jen vins un beau jour à me rappeler l’anglais churn « baratte». Or celui-ci pro- cède de l’islandais kirna, qui, on en conviendra, ressemble fort à kirin. Le breton peut être emprunté au scandinave, soit directement, soit par l’intermédiaire de l’anglo-saxon, qui doit lui-même l’avoir naturalisé de bonne heure, puisqu'il a eu le temps d’en palataliser le È.

J'avais si longtemps médité sur ce kirin, que j'avais eu le temps d’en oublier le sens. croyais qu'il signifiait sim- plement « petit pot à lait», et le rapport sémantique, par rapport à « baratte », me causait quelque scrupule, En vé- rifiant à nouveau, je vis que la Kirin est le pot ou l’on met, pour la séparer du lait, la crème destinée à faire le beurre. Ce sens me parut trancher la question. 11 est vrai que Le Gonidec avertit de ne point confondre la kirin avec la baratte; mais la nuance est de celles que la sémantique se permet de négliger.

216 V. Henry,

14. Br. krénv «fort».

Il serait intéressant de retrouver en celtique un dérivé de la rac. sk. KRAM « marcher », si peu répandue que M. Uh- lenbeck (s. v. kramali) ne lui assigne de représentant qu’en persan. Que, malgré la longue de kramati, la brève de krdmas «marche» puisse se référer à un e primitif, c'est ce qu'on ne saurait contester, car le sk. a bien des lon- gues analogiques; et d'ailleurs, en celtique même, le vo- calisme est flottant, puisque le cymr. répond par craff « fort». Il n'est donc pas abusif de postuler un celt. *kram-o- ou *krem-o-, qui toutefois n’apparait qu'aux deux antipodes “de l’indogermanisme.

Sémantiquement, le rapport se justifie dans les deux do- maines: en sk., par le fait que vikramds signifie «acte de vigueur, exploit »; en celt., puisqu'on rapporte généra- lement irl. greinn « vigueur » et br. grezn > grén « di- spos» à la rac. d’où procède le vb. lat. grad-i «marcher ».

15. Br. mal, «expert, savant ».

Plus on envisage ce mot, moins on lui trouve de répon- dants. En fait, il est absolument isolé, et le seul homo- phone est le fr. ancien malie « sortilöge». Ce serait donc un emprunt au français: on a dire d'abord *eun den mali, «un homme de sorcellerie, un sorcier », comme on a dit *eun den viand «un homme de viande», d’où denviad. > déviad «gourmand »; puis on a passé au sens de «homme habile », comme dans la locution fr. «il n'est pas sorcier»; et enfin le dernier mot, pris pour un adjectif, a coupé son cordon ombilical et vécu de sa vie propre.

Si cette dérivation est admise, elle ajoute un cas au trai- tement des groupes | mouillé et | + i dans les emprunts du br. au fr. Ces groupes se confondent constamment: ainsi

Eiymologies Bretonnes. 217

fr. bille donne un singulatif bilien (par | + i), d’où vient ensuite un mot bili « galets » ; au contraire, 1’! mouillé de fr. billon se réduit à rien dans br. bionen «tire-lire » (où l’on ne met que de la menue monnaie); et ici, c’est une syllabe entière li> l > ly > | (mouillé), dont on peut tracer en quatre stades la quasi-disparition.

16. Br. migourn « cartilage ».

Br. migourn n’a que ce sens; cymr. migwrn signifie en outre « la cheville du pied » : tous deux sont relevés, p. 416, au Glossaire de M. Ernault, qui en rapproche les formes irl. mudharn, muthairne, mugdorn, «la cheville ». Mais, ainsi qu'il résulte du défaut de concordance phonétique et de la suite même du développement de l’auteur, cette der- niére équivalence semble devoir être écartée d'emblée, et aussi l’article *mükurno- de 1 Urkelt. Sprachschatz de M. Wh. Stokes n’en fait-il point mention. Le sens primitif du mot brittonique a être exclusivement «cartilage ». Si le cymr. migwrn désigne en même temps «la cheville », c'est qu'il se sera confondu, par voie de quasi-homophonie, avec un autre mot qui répondait à Virl. mudharn,

Pour le noter en passant, ce quasi-homophone ne serait- il point, par hasard, l’équivalent du br. mudurun « gond », dont il existe même un doublet mugurun, et auquel le voc. corn. répond par medinor, sensiblement différent comme on voit? (Cf. Ernault, op. cit., p. 433.) Sans vouloir discu- ter l'origine de celui-ci, que M. Loth (Mots Latins, p. 231) rattache à un emprunt motôriwum, il est permis de consta- ter qu'un osselet en saillie a pu parfaitement recevoir des uns le sobriquet de «gond », comme des autres celui de « cheville ».

Revenons à migourn. M. Stokes indique en annotation le lat. mücrö. Mais je ne sais ou ce mot a le sens de « cartilage ». Il est vrai qu’il pourrait, à raison de la forme particulière de cet organe, désigner le cartilage xiphoide,

218 V. Henry,

comme le désigne incontestablement le mot espagnol, d’ail- leurs d’origine visiblement savante, mucronata «en forme de lame». De à n'importe quel cartilage, il resterait encore un grand pas à franchir. Et, au surplus, la finale de migourn rappelle de trop près celle de askourn «os », pour qu'on ne soupconne pas un rapport intime entre ces deux mots.

C'est pourquoi M. Ernault songe à un radical *mü- « mu- scle », auquel serait venu s'adjoindre un suffixe ou un element de composition spécifiquement celtique, le même que dans cymr. asgurn «os», et cymr. llosgwrn « queue», qui laisse encore reconnaitre le simple {lost « queue ».

Ici se présente une difficulté sémantique sur laquelle je ne voudrais point trop insister, parce qu'on m’en opposera tout-à-l’heure une pareille, moins forte, cependant, si je ne me trompe: le cartilage, au point de vue pratique, est précisément le contraire du muscle, celui-ci comestible par excellence, l’autre rarement consommé et d’aspect fort différent. Il est peu probable qu'on les ait jamais pris l’un pour l’autre.

Mais l’objection péremptoire, c'est qu'on n'est nullement fixé sur la valeur et l’origine de cet élément -gwrn, qui n’a nulle part de similaire. Suppose qu'il fit légitime dans l’un quelconque de ces trois mots, on comprendrait assez aisément comment il aurait contaminé les deux autres, en vertu du principe d’adaptation symétrique si ingénicusement mis en lumiére par M. Bloomfield, et parce que tous trois étaicnt des noms de parties du corps, d’elements anatomi- ques. Il s'agit donc de savoir ou cette syllabe serait réel- lement à sa place. Non pas, à coup sûr, dans Ilosgwrn, qui se dénonce à première vue pour une formation poste- rieure. Serait-ce alors dans asgwr»n, qu'on rattacherait, par une dérivation très spéciale, à une base *asku- (zd accu «tibia», Urk. Sprachsch., p. 23)? Mais le type latin des adjectifs en -urno- n’a été, que je sache, signalé nulle part encore en dehors du domaine italique, et le rapport évi-

Etymologies Bretonnes. 219

dent de noclurnus à vuxtwe y décèle la présence d'une liquide-voyelle qui exigerait en celtique un tout autre réflexe. Ajoutons que, si la gutturale postulée était sourde au dé- but, on ne voit pas comment elle serait devenue sonore dans asgwrn, tandis que l’on conçoit fort bien comment l’elöment sonore -gwrn de migwrn, transporté par hypo- thèse sur un radical *ask- ou *ast-, eüt donné, en se fon- dant avec lui, l’ensemble br. askourn = corn. ascorn.

Ce serait donc de migwrn qu'il conviendrait de partir. Or ce mot ressemble étonnamment à l’ags. micgern «grais- se», qui reproduit le vx-ht-all. mitti-garni «[graisse située au] milieu des intestins» (Kluge, Ziym. Wb., s. v. (rarn). Une fois ce dernier appelé en cause, je ne vois guère com- ment on pourrait se résoudre à le récuser.

Phonétiquement, il est vrai que la prononciation ags. réelle a être quelque chose comme midzern. Mais cela n'est certain que de la période historique de l’ags., non de l’époque plus lointaine de l’invasion (V° siècle), à laquelle il faudrait reporter cet emprunt ;du brittonique à la lan- gue des envahisseurs. Au contraire, tout porte à croire que la gutturale, puisqu’on l’écrivait, avait alors sa pleine valeur, et sa résonnance labiale suffit, s'il en est besoin, à expliquer le timbre labial de la voyelle suivante en brit- tonique.

Quant à la signification, outre qu'une déviation séman- tique est toujours plus plausible pour un emprunt que pour un mot indigène, on conviendra que, si le cartilage n'est point de la graisse, il y ressemble en tout cas plus qu'au muscle: il a l’aspect jaunätre, translucide, semi-répugnant, de la graisse d'un vieil animal; il est, comme celle-ci, à peu près inutilisable; et un transport de sens de l’un à l’au- tre n'a rien d’inconcevable, surtout dans quelque argot de boucher ou de cuisinier qui n'y regarde pas de si près et confond sous une appellation commune tous les déchets de sa besogne ou de son commerce,

Des lors, le problöme se trouverait résolu d'un seul coup,

220 V. Henry,

non seulement pour br. migourn = cymr. migwrn, mais aussi pour br. askourn = cymr. asgwrn, qu'on pourrait même se donner le plaisir de faire descendre d'un radical *asth- (sk. dsth-i, gr. öor-&ov, lat. os, sauf le vocalisme), au lieu de le raccrocher tant bien que mal à l’obscur et bizarre accu. Une fois migwr'n fixé, sa finale, par adapta- tion de contraste entre le cartilage et l’os, se sera transpor- tée sur la base signifiant «os»; et de même pour cymr. lost et Uosgwrn, d'autant que les os et la queue d'un ani- mal de boucherie sont aussi du déchet.

Pour fortifier encore l’hypothèse d’un emprunt, j’ observe qu'en tout état de cause le mot, au sens de «cartilage », n'existe pas en gädelique, et que le gaélique brisgen « car- tilage », d’ailleurs lui-même emprunté au scandinave (Mac- bain s. v.), n’en saurait du tout être rapproché.

La conclusion qui s'impose, c'est, tout au moins, que l'homophonie de br. migourn «cartilage» et ags. micgern «graisse» ne peut passer pour absolument fortuite.

17. Br. ozac’h «mari».

Il y a longtemps qu'on a rapporté ce mot (autrefois ozech) à un celtique *otiko- < *pot-i-ko-, dérivation ultérieure du thème qui apparaît dans sk. pdlis «époux » = lat. polis « qui dispose », lat. potiri, etc. L’irl. aithech «maitre de maison » s’y superpose bien, mais non le br., qui devrait être *odec'h. Mais ozac'h suppose *odiko- (ou plutôt *odikko-) qui est inconciliable. Le vannetais oheh ne s’y oppose pas; car, à supposer que Ph n’y soit pas un simple signe graphique, on comprend sans peine que, le 3 intervocalique étant tombé en vannetais, un h se soit inséré dans l’hiatus, par assi- milation accidentelle de la médiale à la finale.

Un type *okliko - ou *oitiko- se trouvant ainsi éliminé, il faudrait parvenir à justifier *odiko-; car il serait vrai- ment désastreux de devoir renoncer à l'assimilation si sé- duisante de ozac'h et pdlis. Cela posé, l’altération du brit-

Et ymologies Bretonnes. 22]

tonique ne me parait pas autrement difficile à expliquer. Le celtique possédait le thème *od- << *pod- «pied»; il n’en faut d'autre garant que l’irl. od-brann « cheville du pied », que le br. conserve sous la forme altérée ufern. Un mot aussi isolé que *otiko-, sans aucun congénère qui le forçât à rester dans le devoir, a pu aisément devenir *odiko- « propriétaire » ; la prise de possession du sol, pro- priété nar excellence, s'effectue on y mettant le pied, et nombre de métaphores en toute langue sont tirées de là.

18. Br. poull « fosse».

Il est superflu de démontrer que ce mot, non plus que ses similaires, corn. pol, «a pond, a pool», cymr. pull, irl. pol, gael. poll, manx poyl, ne peut, malgré l’autorite de M. Skeat (s. v. pool) venir d'un lat. vulgaire padulis < lat. palüs. La même origine se trouvant également exclue pour ags. pöl > ag. pool (Kluge, s. v. Pfuhl), il reste que, sous une forme ou une autre, le mot soit indo-européen, et qu'il ait passé par emprunt du celtique au germanique, ou inversement. C'est la question à examiner.

Le sk. a un mot bilam «trou», inexpliqué. On l’a rap- proche et moi-même sous toutes réserves de la rac. BHI «fendre»; mais on s'aheurtera toujours à l’initiale. Si on l’en sépare, et que l’on considère 1’ comme une voyelle de réduction, non comme un ? véritable, on sait qu'il ré- pond à un à de vocalisıne normal, et que dès lors à bi- lam pourrait répondre un mot à racine forte *bal-a-, qui n'existe pas, mais qu'on peut soupconner dans jam-bäla-s «marais», soit étymologiquement «trou de la terre». Qu'on traduise maintenant *bala en germanique: on obtiendra ma- thématiquement ags. pol, vx-ht-all. pfuol, etc. Subsidiaire- ment, le brittonique a emprunté son mot à l'ags. on abré- geant la voyelle.

Après avoir établi mon étymologie, je me suis apercu que M. Uhlenbeck m'avait devancé en assimilant *bdla- à pfuhl, mais sans toutefois le rapprocher de bilam.

Ree V. Henry,

19. Br. sana! «grenier ».

Le rapport de ce mot et du fr. arsenal ne pouvait man- quer d’étre saisi, mais 4 rebours, par Jes lexicographes bre- tons: aussi La Villemarqué, qui ne doute pas de grand chose, «ne doute-t-il pas» que fr. arsenal ne vienne du breton. Le contraire n'a que faire de démonstration; mais cet emprunt curieux du br. au fr. appelle une triple obser- vation, en sémantique, en morphologie, en phonétique.

Sémantiquement, le passage du sens d’arsenal à celui de grenier se concevrait moins facilement en pays «terrien »; car il n'y a pas d’arsenal dans toutes les villes de garni- son, mais il y en a dans les ports militaires. La locution a été importée dans les campagnes par des matelots, habi- tués à remiser à l’arsenal entre deux croisières, comme le pêcheur dans son grenier entre deux saisons de péche, les engins de toute sorte dont le navire ou le bateau était arme,

Morphologiquement, dans la juxtaposition réguliére *ann arsenal, le sujet parlant a cru voir un pléonasme vicieux de l’article (ann devant voyelle et dentale, ar partout ail- leurs): en conséquence il a supprimé le premier des deux, et il est resté *ar senal, d’où sana) tout court.

Phonétiquement, l’assimilation de la première syllabe à la seconde ne fait pas difficulté: c'est presque une des ca- ractéristiques du breton moderne. Mais le br. n’aurait pas prononcé / (mouillé) à la finale, s’il avait emprunté la forme correcte fr. en / ordinaire: il faut donc qu'il ait emprunté une forme de fr. vulgaire ar'senaille, qui, je crois, est attestée; et, comme cette finale en -aille est imitée de types féminins (bataille, canaille, etc.), cette dernière cir- constance nous explique en même temps que le mot soit passe en br. au genre feminin.

Etymologies Bretonnes. 223

20. Br. saoul « vaches ».

L’étymologie de ce mot est bien connue: c'est un sin- gulier collectif latin solidum (> ital. soldo, fr. sou, etc.), qui a pris le sens de «gros bétail» et joue le rôle de pluriel de buoc'h, comme kezek «juments» est le pluriel de marc'h «cheval», parce qu'un troupeau ou un haras comprend plusieurs femelles contre un seul mãle.

Mais tout n'est pas dit avec cette constatation élémen- taire; car, si l’on concoit sans peine qu'un mot signifiant « richesse » en général aboutisse à désigner le bétail, voir plus haut 8, il n'en est évidemment pas de même d'un mot signifiant «argent monnayé»; et c'est précisé- ment l’évolution inverse qu'on remarque dans le rapport latin de pecus à pecunia.

Je crois que le sens breton est le résultat d’une anti- métonymie, si je puis dire, fondée sur ce rapport: parce que pecunia « monnaie » ressemblait à pecus « bétail », on s'est trouvé amené à employer aussi solidum « monnaie » dans la même acception. Peut-être l’ags. feoh > feo (> ag. fee) = lat. pecu, qui dès les plus anciens temps apparaît avec le double sens, n’a-t-il pas été étranger à l’évolution bretonne; ou du moins toutes deux out été parallèles sous l’influence du latin,

Est-ce le sens étymologique qui survit dans br. gourzaot «ruiné», qu'on peut bien traduire, si l’on veut, «à court de gros bétail », mais aussi et plutôt « à court d'argent»?

21. Br. seul mui «d'autant plus».

Corn. suel et cymr. sawl «tel» indiquent pour br. seël le sens primitif de «tellement», qui convient à merveille; et tout de suite la pensée se reporte au lat. tális, dériva- tion connue du thème démonstratif indo-europeen *to-. Mais les deux formes sont-elles assimilables? En tout cas, ce

224 V. Henry,

n’est qu’au prix d'un pénible détour. Supposé un celt. alo- «tel» presque pareil au lat., il eût donné br, *leul; sup- posé maintenant *sdlo- dérivé de même du démonstratif *so- homologue de *to-, on aurait br. *heúl: il n'y a qu’un type *stálo- qui satisfasse à la phonétique brittonique. Or il est évident que celui-ci a pu se développer par combi- naison des deux précédents: ces sortes de contaminations ne sont pas sans exemple dans la flexion et la dérivation des démonstratifs; mais il est juste de confesser que je n'en sais pas d’autre application en celtique.

A plus forte raison n’ai-je pas la prétention de rien ajouter à ce que dit M. Ernault (s. vv.) de la sifflante initiale de quelques mots bretons, safron « bourdonnement», sardonen «frelon» (<vieux-br. satron) et santol «encan » (ici avec nasalisation hystérogène). Cependant, si l’on ad- mettait que l’hypothèse ci-dessus recélàt quelque vraisem- blance, on pourrait se demander si cette syllabe inexpliquée ne contiendrair pas, sous une forme quelconque, le même élément démonstratif et emphatique *si-. Ainsi, santol pour- rait être sorti d'une locution adverbiale signifiant « à tel coup, à même le coup» (br. taol «coup »), l’adjudication aux enchéres se faisant au coup de marteau; et sa-fron ne répugnerait pas au sens de locution adverbiale « à même la narine > nasillement ». Quant à satron, je dois renoncer à en rien tirer,

22. Br. sioul «tranquille ».

En dénoncant l’emprunt à l’ags. stille «tranquille » = all. still «silencieux », j'ai fait observer que l’ow épenthé- tique avait pu étre développé en br. par la résonnance de la liquide. La conjecture était legitime peut-être, mais à coup sùr inutile: l’épenthèse doit venir de l’ags. même. Dans une forme à -v désinentiel, comme le pl. nt. stillu, la fracture en *stiollu est normale, et c'est un type de ce genre qui a été emprunté, probablement de préférence, à

Etymologies Bretonnes. 225

l'origine, un dat. pl. *stiollum signifiant adverbialement « tout bas» comme le moy.-br. sioul-ic.

23. Br. spéó «entrave ».

Il n’est pas douteux que ce ne soit le fr. cepeau, mais non pas sous cette forme, avec é fermé et finale monoph- tongue. Il faut remonter à un type ou l’e était muet (fr. ancien cepiel), et si muet qu'il s’est réduit à rien en pro- nonciation rapide; car les Bretons n'auraient pas fait de ce mot un monosyllabe, s’ils l’avaient importé disyllabe. Comme d’autre part la finale diphtonguée eo, contractée plus tard en français, nous reporte au moins au x1v° siècle, il y a dans ce petit emprunt un document sur l’époque la plus lointaine de l’évanescence d'e muet fr. entre deux explosives, type populaire pie équivalant à fr. pété peté, etc.

Dans le Bas-Maine, M. Dottin note la forme seplè « en- trave», qu'il écrit en orthographe francaise cepelet, et le premier e n'est pas amui, sans doute parce qu'il est suivi en seconde syllabe d’un e amui.

24. Br. talier « croupe ».

Si ce mot était breton d’origine, mais -îer n’est pas un suffixe breton, il ne pourrait designer que la partie antérieure du cheval, puisque tál signifie «front». Ce ne peut donc être que le fr. derriere, dialectalement et cou- ramment prononcé darriere.

Jai supposé que le mot avait été altéré par adaptation et rapprochemeut de contraste avec idl, et il est bien pos- sible aussi que tál, au sens de «fond», ait exercé sur lui quelque influence. Mais rien n’est moins nécessaire, et l’en- semble du processus paraît tout mécanique: on a eu *dalier par dissimilation; puis, dans la liaison ann dalier «la croupe », le d a été pris pour une mutation douce de t;

a7

226 V. Henry,

et enfin, comme cette mutation ne pouvait avoir lieu que dans un nom féminin, il est un mot talier du genre feminin. En général, toutes les corruptions bretonnes sont d'une cohérence et d'une logique irréprochables.

25. Br. trédémarz «miracle».

Marz à lui seul signifie « merveille »; mais trédémarz, quoi qu'en pense Le Gonidec, ne saurait signifier «trois fois merveille». Aucun sens n'est possible, que celui de «troisième merveille », qu'il indique aussi. Mais comment le concilier avec le sens actuel du mot? et que vient faire ici le chiffre «trois»?

Il me parait venu du folklore. Dans les contes popu- laires, les récits d’exploits merveilleux ou de prodiges se suivent presque toujours au nombre de trois et en gra- dation ascendante. Dès lors, quand un conteur habile pro- noncait la formule attendue éma ann drédémarz « voici le troisième prodige », ou similaire, son auditoire palpitant s'apprêtait à admirer la merveille des merveilles et se pé- nétrait d’une intense émotion. C’est ainsi que la locution est devenue proverbiale.

26. Br. trézen «lange».

Ce mot féminin est nécessairement le singulatif d’un mot *rez ou *irês qui au premier abord ne rappelle que le fr. tresse dont le sens est tout différent. Que si, cependant, l’on considère que le br. possède, sous la forme nasalisée trons, l’équivalent de sens et de forme du fr. ancien ‘rosse, «trousse, carquois», on trouvera fort vrai- semblable qu'il ait emprunté aussi l’homophone de ce mot dans le sens du fr. trousser, «garnir, vêtir, lan- ger », etc.

Mais les trousses forment un ensemble, et le mot a bientôt cesser de s’employer au singulier pour passer à

Elymologies Bretonnes. 227

quelque forme de pluriel breton. Or, le pl. métaphonique régulier de *lros est *ires, et c'est sur ce pluriel comme plus haut géoren sur géor, 10, qu'a été re- fait, par adjonction de la desinence singulative -en, un nouveau singulier trézen, susceptible de désigner «un seul» des langes dont se compose le maillot.

Paris, 29 décembre 1899.

PIER ENEA GUARNERIO.

NUOVE POSTILLE SUL LESSICO SARDO '.

1. mer. abbisui, abbasoı ‘sanguisuga’ ‘verme’. -

Il lat. sanguisuga, privato del s-, si continua nel log. ambisua, con la nota labializzazione che è in samben sanguine, ambidda anguilla, ecc. e con la caduta del 'g’, come in fua fuga, fau fagu, ecc. Il -g- si conserva all'incontro in ambesuga, varietà log. di Oliena e con essa accompagnerà ammesuÿa, registrata dal Marc. senza indicazione di luogo, che è notevole per l’assimilazione di -mb- in -mm-. meno notevole è la forma mer. abbisui di Meana, che non può togliersi dalla serie dei derivati di sanguisuga, ma presenta nella prima parte del composto un curioso avvicinamento ad abbi ape, mentre nella se- conda -sui è a fil di norma da sugere 2? prs. sing. imp., cfr. il mer. suisui ‘suggi suggi’, che aggiunto a didu viene a significare con immagine espressiva il panereccio”. L'altra forma mer. abbasoi, pure di Meana, non differisce dalla precedente, se non in questo che la commistione avviene con abba, altra forma di ape e il finimento si modella

ee ee een

1) Le mie fonti, oltre alle raccolte da me fatte, sono i noti les- sici dello Spano (Sp. vc.) e del Porru (Pr. vc.), ma nella maggior parte i nomi di animali li attingo dal Piccolo vocabolario sardo-ita- liano dei principali e più comuni animali della Sardegna, del dot- tor Erisio Marcıanıs, Cagliari, Dessi, 1892 (Marc.).

27*

230 Pier Enea Guarnerio,

sulla desinenza -oi di parecchi altri insetti e piccoli ani- mali, tra i quali basti qui ricordare abioi, che dice pure ‘verme’ e presenta un’analoga applicazione ideologica di

ape!).

2. log. arza, mer. arga, ecc. ‘tarantola’ (ragno), “malmignatto”.

E così chiamata la tarantula Apuliae dei naturalisti, al morso della quale la credenza popolare attribuisce an- che in Sardegna effetti meravigliosi, cosicchè per guarirne dicono che bisogna stare attorno al letto del malato bal- lando e cantando ?). Con la stessa voce é del pari designato il latrodectus tredecimguttatus, italianamente ‘mal- mignatto' che confonde con quella. Questi due ragni si presentano screziati, a varii colori, e da qui prendono il nome, ché il log. arza e il mer. arga non sono che il riflesso di varia, come a dire ‘la variegata’, privo dell’ iniziale v- e con la normale risoluzione del suff. -ariu, come nel- Vagg. barzu ‘vario’ ‘di diversi colori’, cfr. it. vajo ‘ani- male simile allo scojattolo, macchiettato di bianco e di nero” anch'esso da variu. L’iniziale si mantiene intatta nella varietà di Alghero: varga e in quella d’Oliena: vala, in cui è notevole l’esito |, che è pur del sass. bala, cfr.

1) Altre voci sarde per sanguisuga sono: sass. sandisuggini, sett. sandisuggu, gall. sangusugula, cagl. sangunera. Notevole la forma andesula, registrata dal Marc. senza indicazione di luogo, che deve essere sangue + subula, cfr. sulafigu ‘blapo gigante.

7) Anche in un giornale di Sassari, abbastanza recente, si leg- geva:

« Ad lttiri è comparsa una specie di tarantola detta arza.

« Per guarire le bambine dalle morsicature di questo ragno, si usa seppcllirle prima in un letamaio, con la testa in fuori, facendo dan- zare loro intorno sette vedove, sette maritate e sette zitelle. Poi si cac- ciano in un forno ove è stata bruciata un po’ di paglia.

« Nuovo sistema di cura al quale il popolino crede tanto!»

Nuove postille sul lessico sardo. 231

Arch. gl. it. XIII 133. Notevole del pari la forma di Ori- stano: braza, in cui si effettua l’altra risoluzione mer. del nesso -ri-, che per via di metatesi riesce a -2-, come in civrazu cibariu, molentrazu *molentariu, ecc. 1).

3.— log. asirdu, bistradu ‘ghiaccio’.

Come sidus, eris nel vocab. lat. ha già il senso di ‘cattiva stagione invernale’ ‘freddo e gelo’, che passò al- l’it. sido, assiderare, ecc. Kört. 7453-55 e Salvioni N. Post., così la stessa modificazione semasiologica ci offre astrum, che continua nel log. astra, allegato dallo Sp. vc. senza significato, ma rimandando ad astrdu e biddia ‘gelo ghiaccio”.

La voce é data come log., ma essa ha aspetto mer., in perfetta congruenza coi prt. pass. in funzione di sostantivi, come dicesse ‘lo stellato’, del tipo di madáu metatu ‘ovile’ Flechia, Nuraghe, 30. E dunque accattata e se ne sono derivati: astraosu, astraadu ‘agghiacciato’, nokle astra- ada ‘notte di ghiaccio”.

Schiettamente log. è all'incontro bistradu ‘ghiaccio’ in cul l'alterazione della prima sillaba parmi si debba alla commistione col sinonimo biddia.

4. nuor. briku vitello di latte’, bikru marinu ‘vitello marino”.

Quest'ultimo è perspicuo riflesso di vitulu per via di *vit’lu *vi'clu e il nesso -cl- in -kr-, anzichè in j come nel log. biju, o in gg come nel sett. biggu marinu Por- totorres, o in g come nel gall. vig’u. Nell’altro il nesso kr si è risolto con la metatesi, come piace al nuorese, v. s.

1) A Lanusei la tarantola ragno e il malmignatto sono denominati arangolu, non altro che un diminutivo di araneu, e lo stesso diminu- tivo, in unione con il nome di cui è sopra discorso, forma la denomi- nazione dello stesso aracnide a Seulo: araniolu de s’arya.

232 Pier Enea Guarnerio,

krapiku, krunuka, ecc. Il b- (v-) può cadere, come si vede nelle altre forme nuor. ikru, ikru marinu Dorgali. Lo Sp. vc. registra come log. jiju, e non è altro che biju, pri- vato del b- e arricchito in quella vece di un j- prostetico, simile a quello di jaju, gaju, secondo la posizione sintat- tica, Arch. gl. it. XIII 143.

5. gall. kaluka ‘specie di erba”.

E voce rifoggiata sull’it. quaglio ‘erba da far quagliare’ D’Ovidio, Arch. gl. it. XIII 444, in cui s' immette ruca altra specie di erba, e non riflette direttamente il lat. galium verum; poichè, anche prescindendo dal k- iniziale invece della sonora, che può provenire dall'influenza del k- di kag à ‘coagulare’, il li della base avrebbe dovuto riuscire a -dd- nel gall., nella ragion del quale è invece il -k- della desinenza, come in aku, paku, foku, ecc., Arch. gl. it. XIII, 167.

6.— kal- nella composizione neolatina.

Alle serie fatte conoscere dal Nigra, Arch. gl. it. XIV 272 sg., 360 sg. e XV 104, saranno da aggiungere:

1.) cörs. karandttulu ‘ragno’, in cui la seconda parte del composto è evidentemente un riflesso di araneu coi suff. -att-ulu.

2.) log. e sett. karindtula ‘tarlo’; è la stessa voce, ma vi si sente l'influenza di qualche altro nome, proba- bilmente di lina, cfr. tingu, tidingolu più innanzi.

7.— sass. kaldu minôni ‘specie di cardo selvatico, ma mangereccio”.

L'appellativo che segue a kaldu *cardu sarà da con- nettere con l’it. mignone, donde traggono origine parecchi nomi di fiori e di piante, come rilevò il Nigra, Arch. gl.

Nuove postille sul lessico sardo. 233

it. XIV 280; e qui ben si accompagna al ‘cardo’ come a quelle altre specie di erbacei, di cui si mangia lo stelo tenero e la vetta. Lo stesso appellativo, risoluto nella forma mingoni, propria del mer., con -gn- in ng (cfr. anioni al- lato ad angoni, tina all. a tinga, ecc.), mi pare debba entrare nel mer. kamingont, che indica, secondo lo Sp. vc., la ‘cicerbita’ ossia il sonchus oleraceus di Linneo. Che kamingoni risulti dalla commistione di kardu + mingoni, lo conferma la voce bardu mingoni, una delle varianti del ‘sonco’ raccolte dal Rolla, Flora pop. srd. 47, dove il b di bardu é prostetico e tien luogo del c- caduto, come in ballu attu cattu e sim., e come avviene nell’altra va- riante mer. amingoni. Al log. spetterà all’incontro almin- Zone, come lo indica il nesso -ná- in luogo di ng, oltre la desinenza in -e anzichè in -t; la prima parte del com- posto proviene da kal-, caduto il k-, per car-, come nel sass. kaldu.

La vetta delle erbe e delle piante chiamasi nel log. kima, mer. cima e in qualche varietà col c- assibilato, tutti da cima; nessuna meraviglia adunque che la stessa erba sia denominata simingoni, ossia cima+mingoni. Ma 1 mer. Cimingoni e simingoni dicono altresì ‘capezzolo’. Nem- meno per questa significazione c’è da far specie, perchè l'applicazione di ‘cima’ alle papille mammarie, si spiega bene per la somiglianza che queste hanno con una vetta di arbusto, nella forma allungata e flessibile ; e che in realtà si tratti di una stessa figurazione ideologica, lo conferma il log. bardu kapiddu ‘cardone’, dove la seconda voce non può essere che *capillu da capu, cioè la base donde ven- gono i derivati per ‘capezzolo’ e che qui è usata nell’ ac- cezione di ‘cima’. Piuttosto converrebbe domandarsi se éi- mingoni non potesse per avventura esser derivato diretta- mente da ‘cima’, arricchito di due suff. consecutivi -in -ione e se quindi non fossimo di fronte a due serie: ka- mingoni (kardu+mignone) e cimingoni (cim+-in -ione), che vennero a mescolarsi e incrociarsi vicendevolmente.

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8. log. kiligta ‘ghiaccio’.

Vi corrisponde il mer. cilizia ‘ghiaccio gelo’, col verbo Ciliziai e il prt. dilisiau ‘ghiacciare ghiacciato’, all. a gelizia e gelizidu, che lo Sp. ve. allega nella parte it. s. ‘brina, brinato”. È evidente che tutti risaliranno a gelicidiu. Ma se le ultime sillabe continuano la voce lat. con le regolari risoluzioni di ciascuna varietà dialettale, egual giudizio non si può fare della tenue iniziale di kiligia e cilizia, ecc., perchè tanto il k- log. quanto il é- mer. pel g’- della base sono fuor della norma e fanno supporre un'influenza ana- logica di qualche altra voce, con cui incontrarono e po- trebbe essere caelu, nel senso di ‘aria clima’ che ha già nel vocab. lat., mutando l’ae in ? fuor d’accento, come in kilirasu per *kelurasu ‘soffitta’.

9. dial. com. kokketia ‘bozzolo’, ecc.; kokka ‘focaccia’ ecc.; kukkuru ‘cima’ ecc.!.)

Accanto alla numerosa famiglia di voci, quali cog9a, goda, Cökkula -u, ecc. *), da *cloca, o quali koccula -ledda, kózzula -u*), ecc., da *coclea, o quali kokkoi, kokkôide, kokkóitu, ecc., da *cocla incrociatosi con coccu + dei suff. non ben chiari, che tutte quante conservano il signi-

————— ___—__—T2zmt-m@m. - = —-—- -_— 11————_1 =. ——_ = —_ .——..- = mm i. - x

1) Mi sopraggiunge la seconda serie delle Rom. Etym. dello ScHt- CHARDT, dovo fra altri sono largamente studiati ancho i derivati ro- manzi di *coclea. Ciò non di meno io lascio questo paragrafo tal quale era scritto da tempo, perchè nell'ambito del territorio sardo in nulla contraddice alle classificazioni dell’ illustre professore di Graz.

*) Coi quali ho mandato anche il log. gékulu, sett. gógqulu ‘culla’ Arch. gl. it. XIV 395.

*) La stessa voce à il sass. Adszuli ‘ciambelle per Pasqua', detti nel corso kakkavelli, cfr. nap. caccavelle *caccabellu, che corri- spondono alle ‘sportelline’ di Livorno.

Nuove postille sul lessico sardo. 235

ficato della base ‘chiocciola lumaca conchiglia arsella”, v'è un’altra serie di voci, le quali manifestano più chia- ramente l’incrociamento di *cocla con coccu, poichè dalla significazione di corpicello rotondo !), quale è il nocciolo, passano a quella specifica di cose di forma somigliante, come ‘noce’ ‘bozzolo’ e sim. cfr. Pieri, Suppl. Arch. gl. it. V, 202; così nel dial. comune kokketta *bozzolo bozzoletto”, cfr. gen. cucheltu, nel log. di Sorgono kökoro ‘noce’, che è appunto un frutto di forma rotondeggiante e nel mer. kok- koroni ‘palla globo’ ‘corpus de figura tunda, lomburu o balla di alguna cosa’ Pr. vc. ?).

La stessa idea fondamentale di ‘corpo rotondo’, ma nella particolare accezione di una specie di pane, fatto a chioc- ciola, è in un’altra numerosa serie di voci, quali: dial. comune kokka, gall. kokku ‘focaccia specie di ciambella”, donde con diversi suff.: mer. kokkoi ‘corollo, berlingozzo’ kokkoeddu ‘focaccina ciambella’ kokkoeddus dulcis cialde cialdoni’, log. Goceano kokkitta ‘focaccia’, Bitti kokkone ‘pane grosso’, Goceano kogone ‘pan nero’, Padria kugone ‘focaccia’, coi quali si accompagnerà il cörso kdkuli ‘ciam- bella fatta di fior di farina lungamente lavorata con un po’ d’olio e finocchio”.

Della stessa famiglia entra a far parte un'altra serie, di cui la forma più semplice è kukkuru del dial. comune e dice ‘sommità vertice’, onde kukkuru nigeddu è detta una punta del monte Ortubene presso Nuoro, kukkuru de sa konka ‘cucuzzo -olo”, kukkuru ispilidu ‘testa calva’, guger a kukkuru ‘portare in testa’; e con un trapasso ideologico evidente, che è pure nel prig. cogular ‘riempire un vaso fino

1) Molto osplicita è questa significazione nel nuor. Aokkos, che i lattanti portano al petto, e sono ‘certi anellini di una sostanza nera, a foggia di paternostri della corona del rosario e di varia grandezza, che infilati in una catenella d’argento pendono da un lato o dal bel mezzo del petto dei lattanti’, Valla, Alcuni canti pop. nuor., 23,

3) Non ben chiaro mi resta il log. kokkorroi ‘cruschello’, ma ora v. Schuchardt, Rom. et. II 50.

236 Pier Enea Guarnerio,

all'orlo’, galleg. cugulo ‘colmatura’, si ha il log. e mer. kukkuru ‘colmatura colmo’, pienu a kukkuru ‘pieno a trabocco’ e perfino ‘stajo’ e kukkuriola stajolino”. Inoltre, ancora nello stesso ordine di idee: log. e mer. kukkureddu ‘collinetta monticello’, kukkurudu ‘sommità cima’; log. Bitti kukkureddu ‘coperchio’ e kukkureddu de pilos ‘ciocca di capelli’ e parimenti log. kukkale ‘ciocca di ca- pelli’; infine kukkuruccu ‘convesso curvo copoluto’, pudda kukkuruccana ‘gallina col ciuffo’ Pr. ve., kukkurudcanu ‘capelluto’; log. e sett. kukkurumeddu, gall. kukkaru- meddu, mer. kukkurumbeddu ‘capitombolo’, in cui si incrociano kukkuru e rumbulu ‘rotolone’ con suff. dimin.

Sarà sempre la stessa base nel log. küukkura ‘cocca del fuso’ e in altre varietà con -k- scempio in -ÿ- come in kw- jura ‘fusajolo’, che si mette all'estremità del fuso; n& si può separare da qui il log. kugurista con la varietà kiÿi- rista ‘cresta’, e kokkorosta Bitti oppure kogorosta ‘crosta’, dove in kukkuru si immette ‘cresta o crosta’, che influi- scono rispettivamente sull’alterazione delle vocali atone.

Tutti i vocaboli di quest’ultima serie si propaginano ma- nifestamente da kukkuru, che può essere ricondotto a un primitivo *cécculu da coccu; ma a giustificazione così dell’ in accento per l'o dalla base, come anche di alcune specifiche significazioni, che vengono ad assumere i deri- vati, vien fatto di pensare ad una reciproca commistione di *cocculu con cucùllu ‘cappuccio’, e così si spieghe- rebbe anche il cat. cugul ‘nucleo del capo dell’aglio’, senza che se ne debba ripetere l’« in accento dall’influenza delle vocali atone, cfr. Parodi, Rom. XVII 59.

10. nuor. krapika ‘chiave della parte anteriore del timone’; krapilu ‘capezzolo’.

Al primo fa riscontro il log. kabija ‘cavicchio, caviglia dell’aratro’, da *capic’lu *capiculu per capitulu, con la normale risoluzione di -c'la- in kra e la metatesi che

Nuove postille sul lessico sardo. 237

vedemmo in briku. Dalla stessa base è pure krapiku, come il log. kabiju sett. kapiggu ‘capezzolo’.

11. nuor. krunuka ‘conocchia’.

Riflette regolarmente *conuc'la per via di *conucra, cfr. briku, krapika, e con la metatesi del > che è in que- sto; all'incontro nel log. kannuja, kannuÿra, mer. kannuga e nei loro derivati kannujada, kannugada ‘quantità di filo che mettesi nella conocchia’, è evidente la commistione con ‘canna’.

12.--- gall. kuskuga ‘brusaglia’.

Le fa riscontro il log. kuskuza -Zu, che lo Sp. ve. regi- stra, rimandando a kirkuza -zare, che poi non allega a suo luogo. V’& invece il log. kirkuzu ‘cigliatura ciglia- mento mondiglia spazzatura di grano nell’aja’ e kerkuzu -zolu ‘sterpo fruscolo legna minuta” -zare ‘cercare sterpi o fruscoli’.

Nel gall. kuskuga e log. kuskuza, che sono un'identica voce, parmi riviva il lat. cusculium con -li- in g o 4 se- condo la ragione di ciascuna parlata, di cui Plinio XVI 12 dice che è un granello ‘coccum’ del ‘piccolo leccio, come la scabbia dell’albero, ‘ceu scabias fruticis’, e aggiunge che se ne servono 1 poveri per pagare il tributo, che si trova in diversi paesi ed il peggiore ‘pessimum in Sardi- nia’. E in Sardegna si continua il nome, e dalla primi- tiva significazione specifica, addotta da Plinio, si comprende come possa essere passato a quella generica di * quiquid ex arboribus minutis surculorum foliorumque cadit’, che è nell’attuale kuskuga e che era del resto già nel suo equi- valente quisquilium, che alcuni anzi sostituiscono nel passo sopracitato a cusculium.

Nell’ordine ideologico anche l’altra serie di voci log. kirkuzu ecc. entra bene in famiglia con queste due, ma

238 Pier Enea Guarnerio,

rispetto alla forma esse manifestano il loro stretto legame con kerku quercu, onde si potrà ritenere che in esse ven- gano a fondersi le due basi quercu e cusculiu.

13. nuor. fortiku ‘la corteccia più fine, ond’è avvolto il fusto della quercia-sughero”.

Se si considera che le altre varietà dialettali dànno log. ortiju, mer. ortigu, sett. ortiggu, ortige Dorgali, le quali tutte si ragguagliano a */cJortic'lyu da cortice, è ovvio pensare che anche la voce nuorese risalga alla stessa base, ma la dissimilazione avrà ridotto la fase anteriore *0r- ticru in *orticu e la contaminazione con fuste le avrà dato l'iniziale f, come in fustinaja *pastinacula pa- stinaca.

Due curiose varietà sono Dultigu di Oschiri e Ozieri e ostriku della Barbagia; la prima si collega con la forma sett. ortiggu col b- prostetico che è in bessire exire, bok- kire occidere, ecc., senza dire dell’o protonico in % ac- canto a labiale e del »* in I’, l’altra invece proviene dalla base postulata *orticru, che per via di metatesi si riduce a *ortricu e con la dissimilazione di rt in st, come in kastila per kartila e sim., riesce appunto a ostriku.

14. --- mer. fuis-fuis-fenu, fuiséssini, log. lassinafenu, ecc. ‘cicigna’.

È la seps chalcidica dei naturalisti, un rettile della famiglia degli scinci, dell'ordine dei saurii squamati, co- nosciuto coi nomi di ‘cicigna’ ‘luscengola’ ‘fienarola’, tre appellativi determinati da tre nozioni diverse dell’innocuo serpentello. Il primo muove dalla credenza popolare che lo fa cieco, (cicigna si ragguaglia a caecigenus Kört. 1461); il secondo è prodotto all'incontro da un’antinomia, ond’è chia- mato dalla ‘luce’ di cui si crede sia privo; il- terzo infine prende origine dal ‘fieno’ dei prati, dove di solito lo si trova.

Nuove postille sul lessico sardo. 239

Anche la Sardegna, scrive il Cetti, ne abbonda quasi altrettanto che dell’erba secca; e ‘fieno’ oppure ‘erba’ en- trano a formare le denominazioni, che di questo rettile ha raccolto il Marc.

1.) fuis-fuis-fenu, è detto a Ballao, srd. mer.; voca- bolo composto che ne esprime con evidenza il ‘fuggi fuggi’ tra Verba secca (fenu), poichè fuis non è altro che la 2* prs. sng. ind. pres. di fuiri fugire, come si vede anche nel modo avverbiale mer. fuisfuis, log. fuifui fuggevol- mente”, istare fuifui ‘fuggiacchiare’ Sp. ve.

2.) fuiséssini è detto ancora a Ballao e vi ritorna la forma verbale fuis in unione con séssini, voce mer. per ‘cipero’ ‘caretto’ una specie di erba.

3.) lassinafenu, di cui non è detta la patria, è cer- tamente log., come appare dal verbo lassinare, addotto come log. dallo Sp. vc. s. lascinare ‘sdrucciolare’ es. las- sinzada * sdrucciolata scivolata’; viene dunque a dire ‘sci- vola-fieno’. A dichiarare i quali il Rolla, Sec. sag. 90, pensa a un derivato di lapsare col suff. -in e *ps* in ss, di cui lascinare non sarà che una variante; ma è da tener pre- sente il mer. lisinai, che tantosto vediamo.

4.) lanzinafenu e lanzinerba, dei quali pure è taciuta la provenienza, ancorchè il Pr. vc. accolga il primo, hanno aspetto log. col nesso -nz- di fronte a -ng- di langinafenu, allegato dal Marc. s. lisciafenu, senza poi che si trovi re- gistrato a suo luogo. Quanto alla significazione saremo an- cora nello stesso ordine di idee della voce precedente e forse anche nella forma non avremo che una risoluzione della medesima, con nz al posto di ss, Arch. gl. it. XIV 164.

5.) lisafenu e liserba, sempre senza designazione di luogo, spetteranno al mer., e il secondo è infatti addotto come tale dallo Sp. vc. e dal Pr. vc., che ne questa curiosa definizione ‘piticu coloru de quattru peis casi inav- vertibilis”. La prima parte lisa- si ragguaglia col com. sliscii e con le numerose voci romanze, che si riconducono a lisciu, Mussafia, Beitr. 106, donde col suff. -in il mer.

240 Pier Enea Guarnerio,

lisinu ‘sdrucciolo’ lisinai ‘scivolare’ e anche ‘guizzare dei pesci e delle anguille’, il che risponde bene all’ intento di rappresentare il rettile sguisciante tra l’erbe.

6.) suisui-fenu, Oristano; viene a dire ‘suggi-suggi- fieno’, poichè sui é la 2* prs. sing. ind. pres. di suit, come vedemmo s. abbisui.

7.) kiligafenu è senza indicazione del luogo; qui a -fenu, come prima parte del composto, accompagna ki- liga-, che foneticamente potrebbe dichiararsi come una me- tatesi di Kigula !), simile a quella che ci offre il gall. ci- laka ‘cicala’ e con l’« postonico ridotto ad i per assimi- lazione alla tonica; ma potrà tollerarsi una ‘cicala-fieno’?

15. mer. palanÿana, -anedda ‘bacino, piccolo bacile”.

Il lat. palanga (palangae phalangae) ‘stanga’ si continua solamente, come nota l’Ascoli Arch. gl. it. XV 325, nel fr. palanche ‘stanga che si pongono sulle spalle gli acquajoli per portare due secchi, uno per ciascuna estre- mitä’; ma offre un bel derivato nella voce mer. che dal senso di ‘secchio che si porta con la palanga” venne alla significazione specifica di ‘bacino bacile’.

16. mer. pistilloni ‘tarantola’ (rettile).

Con questo nome si designano varie specie di quel ret- tile somigliante alla lucertola ed al ramarro, che i natura- listi ascrivono alla famiglia dei gechi, quali il ‘platidattilo murajolo’ e ‘l’emidattilo verrucoso’, tutti saurii squamati notturni, e parimenti lo ‘stellione’ (stellio vulgaris).

aoe ee - e... —_—_ —__ - no = = ma - —+ ————+—+—.—.—.—.--———+—

1) E questa la forma log. di cicada con scambio di suff. e di ac- cento per avvicinamento a zinsula o tintula ‘zanzara’, che continua a puntino il lat. *zinzula Kört. 8943; ad Oristano è Atua, Carlo- forte ciÿoa, mentre ad Oliena kikela, con un altro curioso finimento, dovuto a qualche commistione che non mi è chiara.

Nuove postille sul lessico sardo. 241

Questa voce è continuata per l’appunto nella seconda parte del mer. pistilloni con -lli- in -Il-, come di norma nel mer., mentre si riduce a -99- in qualche varietà log. e pistiggoni è infatti detto a Meana lo stesso rettile. Che cosa sia la sillaba ascitizia pi-, che è premessa nelle due voci, non è facile affermare; ma con tutta probabilità sarà data loro da pibera ‘vipera’ del dial. comune, allo stesso modo che la stessa parola la prima sillaba a parecchi nomi di va- rietà lombarde indicanti la ‘cecilia’ la ‘salamandra’ e la ‘lucertola’, Salvioni, Lampyr. 24.

La confusione tra la ‘tarantola’ un rettile e lo ‘scor- pione’ un aracnide, non è certo naturale, ma pure è ab- bastanza frequente, cfr. p. es. gen. tânkua ‘scorpione’ e skorpion ‘tarantola’ Arch. gl. it. XIV 405; e ‘tarantola’ è chiamato pure nel vocab. it., quella specie di ragno ve- lenoso, assai noto pei favoleggiati effetti del suo morso, che vedemmo q. s. esser detto nel srd. arza, arga, ecc. Ora, una siffatta confusione ci ritorna nel sett. askurpi, che de- signa la ‘tarantola’ rettile e le sue specie, e nel mer. ar- gilestru Lanusei che vale ‘stellione’, le quali denominazioni, come si vede, sono dovute, la prima a ‘scorpione’ la se- conda ad arga, ridotto maschile, cui si unisce l’agg. lestru per lestu ‘svelto rapido’.

17. log. saligemuru ‘erba pendolina’,

È l’umbilicus pendulinus dei botanici ed evidente- mente da salice+ muru, cui fa riscontro il log. kaliÿe de muru Sp. vc. e kalidemuru Illorai ‘erba scodellina”, da calice+ muru. A Nuoro è detta erba e brente, come nel tosc. ‘erba della pancia”.

18. log. siridu ‘pullulato, che ha fatto cima”.

Si aspetterebbe anche il verbo *sirire, donde il prt. pass. siridu, ma lo Sp. ve. non lo allega nella parte sarda; se

242 Pier Enea Guarnerio,

però in quella it. s. ‘germinare’ ne registra la forma gall. ziré; non altro che serere, col significato che ha già nel lat. di ‘generare procreare’. Sta bene adunque che siridu dica * pullulato, che ha fatto cima’ e con esso lui andranno 1 sostantivi log.: sirione ‘embrione del grano’ e sirile ‘nervo, membro delle bestie’, i quali vengono a dire entrambi il ‘generatore’ l’uno nel campo vegetale, l’altro in quello - animale; nel primo è la stessa desin. che nel log. brione ‘embrione’, nell’ altro il suff. -ile che è p. es. nel nuor. sa surbile ‘donna che succhia il sangue dei bambini’ strega, cfr. Valla, Alcuni canti pop. nuor., 23.

19. nuor. sokka ‘correggia’.

Lo Sp. vc. mi sofa dial. comune ‘fune di cuojo’ ‘lac- cio”, sofjitta ‘funicella’ in perfetta congruenza con Vit. soga, Flechia, Arch. gl. it. III 143 e Kört. 7574; ma la voce nuorese è osservabile per la reduplicazione della gutturale della base soca, il che avviene di norma quando la sorda di fase anteriore non s'attenui in sonora, cfr. gokka, *cloca ‘lumaca’, affacca ad fache e sim.

Il mer. sokka de kardu ‘fittone’, ripeterà il cat. soca ‘tronco o piede di albero’ Kört. 1746.

20. nuor. terra bidusta ‘terra coltivata l’anno prece- dente”, terra paperile ‘terra da coltivare nell’anno”.

Lo Sp. ve. registra bedustu come sostantivo log. coi sensi di ‘coltura perenne’ ‘campo duro’ e aggiunge fager be- dustu, bedustare ‘seminare in un campo due anni conse- cutivi senza lasciarlo riposare’ sistema contrario alla vi- cenda, cfr. Ort. I 59. L'appellativo nuor. e log. non è che l’agg. lat. vetustus, che manca al Kört., ed è evidente come ‘vecchio’ bene si riferisca alla terra che è già stata lavo- rata l’anno prima e quindi è ‘stanca’ ‘dura’ ‘bisognosa di riposo’, proprio il contrario del log. noale ‘novale’ novalis.

Nuove postille sul lessico sardo. 243

All’altro termine paperile corrispondono i log. pabarile paborile, sett. e mer. -orili, che lo Sp. vc. spiega ‘maggese maggiatica pascolo’. Sono dunque le terre lasciate sode, che devono essere coltivate e intanto servono come pascolo; e da pabulu ‘pascolo foraggio’ traggono origine le voci sarde col suff. -ile e col primo -l- dissimilato in 7; di più, in una varietà log. l’o protonico si assimila all’a della sillaba che precede, mentre nella forma nuorese si ha un’al- terazione più profonda, con -b- in p per assimilazione al precedente p- e la protonica in e, per altra spinta analo- gica non ben manifesta.

21. log. tidarzu ‘mucchio catasta’; mer. tidingolu ‘marmeggia’, lingolu ‘tarma’; mer. lidingu ‘nuca’.

Sono due serie ben distinte d’origine, per quanto appa- rentemente vicine nella forma.

Accanto alla forma lidarzu è da ricordare il log. di Osilo sedarzu, che dice pure ‘mucchio di legna’ Sp. ve. Ma questa non può disgiungersi dal log. seda ‘biada mie- tuta’, normal riflesso di seges, segetis, donde il verbo sedare ‘condurre i covoni sull’aja’, cfr. nuor. sefedare nello stesso significato; e sedarzu pure non sarà che un derivato da seda per via del suff. -ariu, così come da linna, linnarzu ‘legnaja’, da padda, paddarzu ‘pa- gliajo” ecc. e avrà voluto dire primamente ‘mucchio di co- voni’ e di poi sarà passato a indicare ‘mucchio o catasta di legna’. Ora la forma tidarzu appare molto probabil- mente come una varietà di sedarzu; col noto scambio del s- in {- iniziale e Je atono in à, Ma lo Sp. vc. aggiungendo che tidar3v significa altresì ‘il sostegno della catasta di legna’, farebbe pensare che essa voce abbia piuttosto con- nessione col log. tedile, mer. tidiri ‘cercine’ da sedile, Arch. gl. it. XIV 406, onde, quanto al senso, come queste “indicano ‘il sedile dell’anfora’, così quella verrebbe a dire

244 Pier Enea Guarnerio,

‘l'appoggio della catasta’. Bisogna però osservare che in questo caso tidarzu come tedile non saranno originari del log., ma di qualche varietà dell’isola (cfr. sass.) che mantiene incolume il *d*, che nel log. invece è soggetto al dileguo.

A tutt'altro etimo appartiene l’altra serie. Nel mer. é- dingolu v’& senza dubbio un elemento ascitizio tt-, tolto 11 quale, resta -dingolu un diminutivo da ragguagliare, così per la forma come pel significato, con l’it. tignuola ‘in- setto che allo stato di bruco rode la lana’ e anche ‘ver- micello che si nutre nel grano e lo vuota’. Moveremo dunque da *tineolu, che riduce in d- il t- venuto a tro- varsi tra vocali nella composizione, mentre continua schiet- tamente nell’ altra voce mer. tingolu ‘tarma’ e anche ‘marmeggia, verme del cacio’, così come tineu gli tingu ‘pidocchio delle piante’, senza dire di tinga tinea nel comune senso di ‘tigna’. L'elemento ascitizio ti- ritor- nerebbe nel mer. ti-dingu “nuca”, se questa entrerà in fa- miglia con le voci precedenti, con una figurazione ideolo- gica, che pare già accennata nel tignone del vocab. it., col significare ‘la parte deretana de'capelli della donna’.

22. log. tirriolu ‘bestiola animaluccio’ e sue diverse attribuzioni a nomi d’animali.

Lo allega lo Sp. vc. con questa significazione generica e nell’Ort. I 5i ne come etimo il gr. Ovgroy, che dovrà leggersi 9ngtov, e credo che colga nel segno, chè da tal base ben ne discende, con suff. di diminutivo, il log. zir- riolu o tirriolu, per la nota vicenda del t- e della sibi- lante. la continuazione della voce greca nel sardo deve fare difficoltà, quando si consideri che essa non è del tutto estranea al vocab. lat., se questo conosce l’agg. theriacus Ongiaxos da Onpiov, che si è perpetuato nelle lingue romanze. Inoltre anche i significati specifici assunti di poi, hanno attinenza col concetto fondamentale di ‘piccola bestia’, poi-

Nuove postille sul lessico sardo. 245

chè non possono considerarsi che la stessa voce, per quanto diversi nell’attribuzione, il log. zirriolu Ozieri ‘cerambice’ ins., ziriolu ‘corriere grosso” ucc., sett. tiriolu ‘occhioni’ ucc., sass. zirriola o zirriora, log. zirriolupedde o tiriolu- pedde ‘pipistrello’, cfr. alipedde e alibedde st. sign.

23. mer. trdila, tráina ‘vitella’.

Il log. e mer. trau ‘toro’ muove da tauru con lo scem- piamento del dittongo, come in laru lauru e la metatesi di r. Ora il mer. trdila non ne sarà che un ulteriore derivato, quasi *taurila per *taur-ula; e l’altra forma, pure mer. traina non sarà che la stessa voce tráila con “* in n. Un altro derivato di tauru che passa a indicare la femmina, é taurica, che al piem. túrgia, val soan. turgi ‘vacca sterile’ Arch. gl. it. III 14-15.

24. log. upa, uppa ‘ombra volume’, auna ‘ombra gruppo’, ecc.

Manifesta appare la connessione ideologica tra questa serie e l’it. cupo, che il Pieri, Supp. Arch. gl. it. V 124 crede forma accorciata del prt. di ‘occupare’, venuto al significato di ‘denso’ ‘folto’ ‘oscuro’ e quindi ‘ombroso’; e un tal etimo parrebbe confermato dal srd. comune akkup- pare ‘farsi cappuccio’ detto dei cavoli e delle lattughe e da kupelta che dice ‘lattuga cappuccia ’, in perfetta congruenza con l’it. accuparsi ‘farsi cupo’ cioè ‘farsi denso’ Arch. gl. it. XV 135. Se non che il *p* mantenuto incolume, anzi geminato, invece d’essere scaduto a b, ci induce a ri- tenere che non sia voce antica del territorio sardo, ma un accatto posteriore dall’ it., donde p. es. è stato preso il log. kappone mer. kapponi capone, che ha il suo legit- timo riflesso nel mer. kaboni ‘gallo’. Ammesso l’imprestito, la forma più semplice appare il log. upa o uppa, che lo Sp. ve. allega col senso di ‘ombra’, che è prodotta appunto

246 Pier Enea Guarnerio, Nuove postille, ecc.

dal ‘folto’ degli alberi e non sarà che cupo, fognato il c-, come spesso nel log. |

Non così chiara riesce l’altra accezione di ‘volume’, però le forme con l’aggiunta di un a- iniziale dovuto all’arti- colo (sa upa s’aupa), confermano l’etimo; aupa infatti dice ‘densità, gruppo, ombra degli alberi’, e aupare ‘esser denso, fronzuto’ e ‘aggruppare unire’, kaula aupada ‘ca- volo stipato’ ‘cavolo cappuccio”.

Aggiungonsi: appupare Nuoro ‘adombrare’, kaddu ap- pupadore ‘cavallo ombroso’, appupadittu Bitti ‘pauroso ombroso’, che spettano alla stessa famiglia, ma hanno pa- tito qualche commistione di non facile dichiarazione.

Milano, nel gennajo del 1900.

C. NIGRA.

IL DIALETTO DI VIVERONE !.

(Circondario di Biella, Piemonte).

me ee -

Viverone è un borgo di poco meno che 1800 abitanti, situato sul lago di questo nome, detto anche « lago di Aze- glio », tra la bella morena della Serra, che lo separa dalla regione Biellese, e la sponda sinistra della Dora Baltea, che lo separa dall’Alto-Canavese. Esso si trova nella stessa regione (ma più a valle della Dora) in cui sorge Piverone, la patria di Giovanni Flechia. Il nome, qui ricordato, del compianto amico e collaboratore del prof.” Ascoli, varrà, spero, ad ottenere a questo modestissimo lavoro l’indul- gente accoglienza a cui lo scarso interesse che può presen- tare non gli darebbe diritto.

La fonetica e la morfologia del dialetto di Viverone sono in gran parte comuni ai vicini idiomi del Piemonte e del Canavese. Se ne separano tuttavia per var) caratteri, al- cuni dei quali lo ravvicinano ai dialetti del Basso-Monfer- rato, del Basso-Piemonte e della Lombardia. I più spiccati di questi caratteri sono qui appresso indicati.

I vocaboli citati ad esempio parranno forse soverchia- mente numerosi per uno studio sommario, qual è il pre-

1) [Debbo le seguenti notizie sul dialetto parlato a Viverone alla paziente collaborazione del Teologo D. Giuseppe Clerico, il quale con- senti a distrarre per poco la sua mente da stud) più geniali racco- gliendo per mio uso i vocaboli e le forme grammaticali del suo na- tivo idioma.)

248 C. Nigra,

sente, Non saranno però del tutto superflui, poichè potranno tener luogo di saggio lessicale.

a)’. Il viveronese, al pari del basso-monferrino, del valsesiano, e di altri idiomi limitrofi, invece dell’e atono d’uscita, usato nell’Alto-Piemonte ed in gran parte del Canavese, ha costantemente î: Nomi al singolare, agri ‘acre’, alegri, aspri, ds'embri ‘dicembre’, fodri ‘fodero’, kwadri ‘quadro’, ladri, libri, liti, ‘lite’, lustri ‘lustro’, magistri, magri, mari ‘madre’, medri ‘modello’, nuvem- bri, pantikosti * pentecoste”, pari, ‘padre’, pejvri ‘pepe’, poli ‘cardine’, povri ‘povero’, f. ‘polvere’, previ ‘prete’, sandri ‘genero’, sandri ‘cenere’, satembri ‘settembre’, singri ‘zingaro’, subri (can. subêr) ‘mastello’, sukri * zuc- chero’, sumbri ‘fosco’, tandri ‘tenero’, ulobri ‘ottobre’, vandri ‘venerdì’, vedri ‘vetro’, ecc. Sostantivi feminili al plurale: amji ‘zie’, dmuli ‘ampolle’, antani ‘striscie di fieno falciato’, as'ji ‘utensili’, ancu-i ‘acciughe’, anji ‘ani- tre’, assali ‘ascelle’, bali palle’, baluati ‘travéggole’, ba- rasi ‘lande’, bardeli ‘predelle’, barikuli ‘occhiali’, barli “cáccole”, berti ‘gazze’, bidri ‘ventraje’, bissi ‘biscie’, bjavi ‘biade’, bjuli ‘betulle’, borla ‘biche’, braji “brache’, büri ‘frane’, capeli ‘cocci’, capi ‘chiappe’, cdpuli ‘chiac- chere”, cus'eli ‘carrucole’, coki ‘campane’, dovi ‘doghe’, duji ‘brocche’, erbi ‘erbe’, eri ‘ajuole’, ewi ‘acque’, fa- lospi * faville’, fardbuli ‘favole’, farleki ‘sberleffi’, farvaji ‘briciole’, fdudi ‘falde’, feji ‘pecore’, fiji ‘figlie’, fjastri ‘figliastro’, /leci ‘freccie’, foji ‘foglie’, fraji ‘fragole’, frandi ‘fionde’, fümeli ‘femmine’, fumni ‘donne’, furfi ‘turbe’, furs'ini ‘forbici’, futi ‘errori’, gabji ‘gabbie’, Hd- muli ‘tarli’, garmati ‘ceste’, gajdi ‘gheroni’, jajofi boc- caccie’, gasst ‘occhielli’, gati ‘gatte’ e ‘bruchi’, gavji ‘ca- tini’, geti “uose’, grafi ‘sgraffe’, Grimeli ‘semi di zucca ecc.’,

*) Si consulti per questo paragrafo l'articolo postumo di Flechia sulle «atone finali nel dialetto piveronese» in Arch. Glott. XIV, p. 111 seg.

Il dialetto di Viverone. 249

Groji ‘gusci’, gesi ‘chiese’, goli ‘baldorie’, tvoli ‘ugole’, kavagi ‘caviglie’, koji * cotenne”, krapi ‘nuche’, kussi ‘zuc- che”, kwaji ‘quaglie’, kwari ‘spigoli’, kwassi “treccie”, kwissi ‘panelli di noce torchiati’, landi ‘lungaggini’, len- dri ‘lendini’, lengwi ‘lingue’, les'i ‘slitte’, litri ‘lettere’, lobji ‘balconi in legno’, logi ‘scrofe’, los'ni ‘lampi’, madi ‘macchie’, madoni ‘suocere’, maji ‘maglie’, mani mani- poli’, manji ‘maniche’, marani ‘inezie’, maravaji ‘mara- viglie’, mareli “matasse”, mas'eri ‘muriccie’, maski ‘stre- ghe’, massoki ‘grappoli’, minsi ‘milze’, mingranje ‘emi- cranie’, mirdudi ‘specie di biscie’, mis'ini ‘medicine’, mjassi ‘migliacciuole’, mjoli ‘midolle’, moli “mäcine, molle da fuoco, mufli ‘pantofole di stoffa’, mugi mucche’, munji ‘monache’, naji ‘natiche’, nati ‘turaccioli di sóvero”, nici ‘nicchie’, ninsoli ‘nocciuole’, nori ‘nuore’, noki ‘mazzoc- chi’, noni ‘moine’, núki “nuche’, oki ‘oche’, pansi ‘pan- cie’, paroli ‘parole’ e ‘pajuoli’, parpenji ‘palpebre’, passi ‘abeti’, partiji ‘partite’, pati ‘cenci’, pateli ‘busse’, pajassi ‘pagliericci’, peri ‘pietre’, pertji * pertiche”, pesse ‘pezze’, pejli ‘padelle’, pinuli ‘pillole’, pkariji ‘beccherie’, ploji ‘buccie’, priati ‘pignatte’, prüssi ‘cingallegre’, psiji ‘ve- sciche’, puati ‘bambole’, puli ‘pollastre’, punci ‘punte’, rdkuli ‘cavilli’, rampi rampji ‘salite’, rans'i ‘falci’, rd- puli’ ‘raspolli’, rapji ‘rughe’, raski ‘raspi’, reski ‘lische, reste”, ressji ‘seghe’, res’i ‘rose’, rijs’eli ‘membrane del- l'addome’, rjundeli ‘malve’, rojdi comandate’, ru-i ‘ruote’, runduli ‘rondini’, rust ‘rigagni’, rùs'ji ‘risse’, sabji ‘sab- bie’, sajati ‘saette’, sani * bicchieri’, saftiji ‘salassi’, skasi ‘scheggie’, skrivs'i ‘scriminature’, sleri * aratri”, somi àsi- ne”, spani ‘spanne’, sótuli ‘tréttole’, spejs'i ‘spese’, spluvi ‘scintille’, stali ‘stalle’, stejli ‘stelle’, stejvi ‘tegole’, stissi ‘stille’, straji ‘fenili’, strivassi ‘sferzate’, stubji ‘stoppie’, strüsii ‘treggie’, sulati ‘peduli’, sürbi sürbji ‘tifoni’, su- stri ‘ripari’, tajoli ‘carrucole’, tampi ‘fosse’, tapi ‘zolle’, taveli ‘mattoncelli’, tejli ‘tele’, tejs'i “tese”, témpori ‘tém- pora’, tiniveli ‘succhielli’, tinoli ‘geloni’, tis'ojri * cesoje”, 80

250 C. Nigra,

tivoli ‘tegole’, tnaji tenaglie’, tnebri ‘tabelle delle tene- bre’, toti ‘signorine’, trapati ‘pastoje’, trati ‘pillacchere’, truti ‘trote’, tumeri ‘tomaj’, turtuli ‘tortore’, ui ‘uve’, uli ‘olle’, ungi ‘unghie’, unsi “oncie’ urtaji ‘ortiche’, varveli * bandelle”, vasseli ‘botti’, venji ‘vene’, verni ‘on- tani’, vejri ‘ghiere’, vilji ‘vigilie’, vipri ‘vipere’, viri ‘giri’, viroli ‘vajuolo’, voti ‘volte’, vreri ‘impannate’, walbi re- gioni’, wati ‘corpetti’, wisci ‘verghe’, ecc. Plurali fe- minini di singolari mascolini: fiji ‘fiche’, (sing. masc. fi), pumi ‘mele’, (sing. masc. pum), pejri ‘pere’, pessji *pe- sche’, snugi ginocchia’, brassi ‘braccia’, ossi ‘ossa’, punt ‘pugna’, diji ‘dita’, evi ‘uova’, strassi ‘stracci’, aneli “anella”, bueli ‘budella’, fili ‘fila’, fusi ‘fusa’, korni ‘corna’, sarveli ‘cervella’ 1. Aggettivi plurali feminini: amari ‘amare’, amis'i ‘amiche’, alegri, aspri, duti ‘alte’, bassi, beli ‘belle’, biovi ‘azzurre’, bjundi, bjuti ‘nude’, bravi, brüski, brüli ‘brutte’, bürbi daccanto a furbi ‘furbe’, bu- renfi ‘gonfie’, ceri ‘chiare’, cini ‘chine’, citi ‘piccole’, corni ‘sorde’, cuki ‘ebbre’, debli ‘deboli’, druvi ‘fertili’, duwi ‘due’, diri ‘dure’, dusse ‘dolci’, fati ‘insipide’, faust ‘false’, fjapi ‘floscie’, foli ‘pazze’, fragi ‘fredde’, fraski ‘fresche, garbi ‘incavate’, Hargi ‘pigre’, grami ‘cattive’, grandi, revi, grist ‘grigie’, Gubi ‘gobbe’, gduni gialle”, govni ‘giovani’ jüssi ‘aguzze’, kandji ‘candide’, kart, kdudi ‘calde’, kors'i ‘tardive’, kotji ‘soffici’, kruvi ‘crude’ kuli ‘quelle’, kussi ‘queste’, kwadri, kwanli, künci ‘sporche’, largi, latini ‘snelle’, lesti, lingeri ‘leggiere’, lungi, lurdi ‘sbalordite’, magri, malavji ‘malate’, mati ‘matte’, mau- nati ‘sudicie’, moli ‘molli’, muci ‘spuntate’, muki ‘mo- gie’, mus'ini ‘molliccie’, muli mute’, neki ‘malinconiche’,

1) Alcuni di questi nomi hanno nel plurale le forme mascoline dac- canto alla feminina: snugy, ev, anej, buej fij füs horn; ma nell'uso prevale la feminina. I pl. fem assi (sing. masc, ass. ‘asse '), ussi ‘usci’, niji ‘nidi’, spiji ‘spighe’ (sing. masc. spt), dovranno la loro desi- nenza feminina nel plurale a spinta analogica.

Il dialetto di Viverone. 251

nevi ‘nuove’, nossi ‘nostre’, nuvissi ‘novizie’, muni nes- sune’, patanù-i ‘nude’, pjati ‘piatte’, primi, prunti, pùri ‘pure’, rasci ‘ruvide’, rejdi ‘rigide’, reri ‘rare’, rissi ‘crespe’, rubji ‘giallognole’, russi ‘rosse’, saki ‘secche’, salvaji ‘selvaggie’, sani, sareni ‘serene’, s'bursi ‘bolse’, scassi ‘strette’, selji ‘liscio’, sküri ‘oscure’, snuri ‘si- gnore’, s’erbi ‘incolte’, tandri ‘tenere’, tardi, tropi ‘troppe’, lirgi ‘sterili” (dicesi di vacche), uit ‘tutte’, vas'ivi vuote”, verdi, viski ‘accese’, vivi ‘vive’, vivje ‘vivide’, voji ‘vuote’, vossi vostre’, wersi ‘sbilenche’, wevi vedove’, vs'ini vi- cine”, ecc. Participj plur. fem.: ardyi ‘ardite’, finiji, kusiji e küs’üvi ‘cucite’, santiji ‘sentite’, sburdiji ‘spa- ventate’, sauriji ‘saporite’, scurniji ‘assordate’, wariji sguarite’, drsvit-i ‘ricevuti’, bejou-i bevute’, batüvi bat- tute’, malüvi messe”, sarnúvi ‘scelte’, spurs'ùvi ‘sporte’, vnitvi ‘venute’, ampranduvi e amprejsi ‘apprese’, ran- divi e rejsi ‘rese’, kunfundiivi e kunfùs'i, drmanùvi e Ärmas'i, rumpüvi e ruti ‘rotte’, cuduvi e Cossi ‘chiuse ’, scudiivi ‘schiuse’, les'uvi e leti ‘lette’, suspandúvi e sù- spejsi ‘sospese’, lunditvi ‘tosate’, turs'uvi ‘torte’, visti ‘vedute’, muns’üvi e munci ‘munte’, uns’üvi e unci ‘unte’, punci ‘punte’, kejci ‘cadute’, kujici ‘colte’, frici ‘fritte’, dici ‘dette’, das'dici, ‘disdette’, drici ‘dritte’, faci ‘fatte’, koci ‘cotte’, doci ‘garbate’, das’doci ‘disadatte’, suci ‘a- sciutte’, kwaci ‘quatte’, mas'ci ‘miste’, strans'isvi sirenci o straci ‘strette’, tans'úvi e tenci ‘tinte’, ecc. Pronomi fem. plur.: sniji ‘mie’, lu-i, su-î, nossi, vossi: Pronomi enclitici: drfd-si (can. drfa-se) ‘rifarsi’, drpatd-si ‘rifarsi d'una perdita’, dntaja-s-ni ‘addarsene’, pjd-ni * pigliarne”, fa-mi ‘fammi’, da-ji ‘dagli dalle’, fd-ni ‘farci, farne’, fe-vi ‘fatevi’, da'-m-ni ‘dammene’, di-j-ni ‘dirgliene’, mdn- da-j-nt 0 ndnda-n-ni mândagliene”, pruvé-v-ji ‘provate- veli, provatevele’, andúm-s-as-ni ‘andiamcene’, ecc. In- finiti: bali ‘battere’ (piem. bate), codi ‘chiudere’, drobi drimbi ‘aprire’, koji ‘cogliere’, kos'i ‘cuocere’, kunassi ‘conoscere’, kradi ‘credere’, tors'i ‘torcere’, pjovi piovere’,

252 C. Nigra,

godi ‘godere’, mordi, mati mettere’, kas’i ‘cadere’, les’i ‘leggere’, munsi ‘mungere’, nassi ‘nascere’, tassi ‘tes- sere’, ärguns’i ‘raggiungere’, pjans'î ‘piangere’, pendi, fris'i ‘friggere’, uns'i ‘ungere’, skrivi, lami ‘temere’, trami ‘tremare’, sami ‘gemere’, travuni (piem. travunde) ‘tran- gugiare’, dasponi ‘disporre’, ridüvi ‘ridurre’, stendi ‘scen- dere’, skundi ‘nascondere’, vagi ‘vedere’, ecc. Inoltre dunki ‘dunque’, sempi ‘sempre’.

B) Possiede il viveronese un suono ottuso a, che sta tra i suoni di a ed e, e tiene il posto del così detto muto piemontese é, a cui s'avvicina: angal ‘angelo’, drsata ‘ri- cetta”, bakk ‘capro’, bana ‘capanna’, banati ‘intingolo’, barbaskd ‘balbettare’, bjatt ‘biglietto’, brana * pruna”, capp ‘tiepido’, darseti ‘diciasette’, dars'ld ‘sgelare’, fata ‘fetta’, fragg ‘freddo’, frassa ‘frattaglia di porco’, frask ‘fresco’, gadu ‘garbo’, grilatt ‘vassojo’, kalas'u ‘fuliggine’, karna ‘tacca’, kavast ‘capestro’, kunsaj ‘consiglio’, lana ‘legna’, lantaga ‘lenticchia’, laska ‘carice’, malas'u ‘larice’, massa ‘messa’, massala ‘mascella’, mujata ‘lamiera di ferro’, natjd ‘nettare’, palatt ‘piastrella’, pan ‘pegno’, passa ‘abete’, pallata ‘brachetta’, pissatt ‘merletto’, radna ‘redina’, raf “refe”, rama ‘remo’, rasé ‘ruvido’, sa'das ‘sedici’, saga ‘secchia’, sakk ‘secco’, san ‘segno’, sapp ‘ceppo’, sarcd ‘cerchiare’, savaj ‘aculeo’, savjata ‘salvietta’, scupata ‘schioppetto’, skas'a ‘scheggia’, spass ‘spesso’, staka ‘stec- ca’, stamana ‘stamigna’, stapa ‘piallaccio’, straga ‘stri- glia’, tabi ‘tiepido’, tacé ‘tetto’, tana ‘tigna’, tilatt ‘car- tello’, Inaska * bagolaro”, tragatt ‘maneggio occulto’, trabi (can. tribi) ‘gramigna’, tra'das ‘tredici’, trijata ‘mezza- luna (strumento)’, tudask ‘tedesco’, ugata ‘ribes’, ügatt ‘occhiello’, uraga ‘orecchia’, vaga ‘veglia’, vala ‘vela’, vana ‘vigna’, varga ‘verga’, vassa ‘veccia’, vasku ‘ve scovo’, vas'u ‘ticchio’, vjulata ‘violetta’, ecc. Questo suono non deve confondersi con quello dell’@ breve atono meta- tetico o prostetico (äl- är- än- äm-) che è chiuso, meno di- | stinto, e si pronunzia con particolare rapidità, come in

Il dialetto di Viverone. 253

änfargd ‘raffreddare’, drvird ‘rivoltare’, dmbuli ‘umbi- lico’, dljam ‘letame’, älvd ‘levare’, álsiva ‘lisciva’, ecc. Questo suono esiste pure nei vicini dialetti pedemontani, e nei lessici è anzi non di rado rappresentato da un semplice apo- strofo(’), come ’nfrejdé "rviré 'mpasté 'lsia ecc. L’apostrofo parrebbe equivalere ad una soppressione del suono iniziale; ma questa in effetto non s'ha se non nel caso in cui la pa- rola precedente termini in vocale.

7) Il suono à esiste nella sua legittima funzione brügd ‘ruggire’, brütt ‘brutto’, bi ‘bure’, füs ‘fuso’, juss ‘acuto’, lum ‘lume’, pandù ‘appeso’, rús'u ‘ruggine’, sambür ‘sambuco’, ün ‘uno’, ecc. Ma invece dell’ö pie- montese, succedente all’ ò tonico libero, qui si ha é: be ‘bove’, eli ‘olio’, ev ‘uovo’, fe ‘fuoco’, le ‘luogo’, fas'el ‘fagiuolo’, seli ‘liscio’, ecc., oppure l’é aperto: ddl ‘duolo’, nóv ‘nove’, kör ‘cuore’, pól pod ‘può’, vdl ‘vuole’ sola ‘suola’, mola, prova ecc. Il suono à, quando occorre . nel viveronese, è importato, come in krös ‘cavità’, can. piem. id., o figura soltanto nel nesso -dj: möjr ‘maturo’ = can. meür, ströjr ‘becchino’ = monf. strur piem. sutrur = *sub- terratore-, buvrôjr ‘abbeveratojo’, pòj ‘paura’.

9) Nel viveronese, come in generale negli altri dia- letti dell’Alta-Italia, i nessi iniziali s+ consonante (vs’ ks ps ml tn tl ecc.) non tollerano dinanzi a loro altra conso- nante. Quando il caso se ne presenta in viveronese, il nesso assume dinanzi a la vocale copulativa a: Va-skulé, s'a- skulé ‘lo scolaro, questo scolaro (e per contro al re, iss re ‘il re, questo re”, l’egg, s’egg ‘l’occhio, quest occhio”), n'a- stival ‘uno stivale’ (e per contro an funs ‘un fungo’, n'urubi ‘un trivello’), dl’a-mlun ‘del popone’, a l’a-vs'in ‘al vicino’ ecc., t'a-stendi ‘tu stendi’ (e per contro a't da- stendi t'antendi) ecc. Questo q copulativo diventa appena sensibile, quando il nesso è preceduto da consonante che non appartenga all'articolo o al pronome: kwatt “skulé ‘quattro scolari’, sett “ksui ‘sette focaccie’ (ksua = ‘cre sciuta’), l'a face “spatüss ‘ha fatto sfoggio’ ecc. Se il nesso

254 C. Nigra,

è preceduto dall’ articolo plurale feminino (tj, dinanzi a vocale j o al) questo passa in ji: ji spali ‘le spalle’, dji spust ‘delle spose’, ant ji stre ‘nelle strade’, suji spundi ‘sulle sponde’, (e per contro: ij o al ges'i ‘le chiese’, dij o dal mari ‘delle madri’, dj’ungi ‘delle unghie’, ant tj o ant al vani ‘nelle vigne’, anl’j’erbi ‘nelle erbe’, su) kareji ‘sulle sedie’ 7’ eri ‘sulle ajuole’). Se il nesso è preceduto dall’articolo plurale mascolino (ij, dinanzi a vocale 7’), questo passa pure in ji, o il nesso assume di- nanzi a la vocale copulativa a: ji skwadrun o j'a-sk- wadrun ‘gli squadroni’, dij vs'in e dj'a-vs'in ‘dei vicini’ (per contro ij ken ‘i cani’, jomni ‘gli uomini).

e) Il n gutturale occorre nel viveronese popolare, come in canavese, solo quando è finale (pan ‘pane’, fen ‘fieno’ ecc.), e non quando è libero tra vocali o in posizione dinanzi a consonanti che non siano gutturali o palatine, quando è raddoppiato, come in ann ‘anno’. Si distingue perciò il viveronese dal piemontese e dal monferrino nel trattamento della consonante nasale intervocalica nelle desinenze -dna -Ina -una ecc. In queste desinenze, mentre la nasale ri- mane intatta in canavese e nel viveronese, essa si guttu- ralizza, come è noto, in piemontese (smana ‘settimana’, vene ‘vieni’, kassina ‘cascina’), e in monferrino si rad- doppia, riassumendo il primo n il suono gutturale, e il se- condo il suono dentale (kassinna kassenna, lenna ‘luna’ ecc.).

¢) La formola CL si riflette per g gg: egg ‘occhio’, vegg ‘vecchio’, pjegg ‘pidocchio’, snugg ‘ginocchio’, fnugg ‘finocchio’, frügg ‘chiavistello’, üga ‘ago’, ugd ‘gugliata’, uraga ‘orecchia’, saga ‘secchia’, küger ‘cucchiajo’ ecc. Ma, come in piemontese, non mancano due altri esiti: c cc: maca ‘macchia’, duca ‘adocchiare’, ücada ‘oc- chiata”, «caj ‘occhiali’, specé ‘specchio’, kavicc (daccanto a kavaga) ‘cavicchio’; 2.º j: tnaje ‘tenaglie’, wal ‘pun- golo", maja ‘maglia’.

7) Il nesso latino CT riesce in é cc: une ‘unto’, an- dricé ‘aprico’, face ‘fatto’, dicé ‘detto’, docé = doctu

Il dialetto di Viverone. 255

garbo’, dricé ‘dritto’ daccanto a drett ‘accorto’, facoira = *factoria ‘forma per il cacio’, kocc ‘cotto’, nocd ‘notte’, nuca ‘nottata’, pecu ‘pettine’, lacc ‘latte’, lacd ‘allattare’, lacatt ‘animella’, lecé ‘letto’, kwacé ‘quatto’, kundücc ‘acquedotto’, ficé ‘affitto’, fica ‘affittare’, fricc ‘fritto’, fricell ‘fritella’ ecc. (= 9 gg: rügd ‘ruttare, rügg ‘rutto’, ma can. rücc). Non assimilati: ott ‘otto’, coi derivati utobmi, das dott, utanta, utdv; frùtt fruta, truta ‘trotta’, palt patto’, |

+) Come nel piemontese e nel canavese, così nel vi- veronese i nomi mascolini, terminati al singolare in | (Il) escono al plurale in j in seguito a fusione di l coll’antico 7 desinenziale. Così pdl ‘palo’, pl. pdj, kavall kavaj, bell be), ninsél ‘lenzuolo’ ninséj, fil fij, sutil sulij, moll mo}, foll foj, Roll koj, döl ‘duolo’ doj, mul müj, kassül ‘me- stola’ kassuj ecc. - Nei plurali mascolini, il cui singolare è terminato in altra consonante, le vocali toniche a a 0% . si alterano per ‘metafonesi’, cioé per effetto dell’antico à desinenziale, a differenza di quanto accade nel piemontese, che non se ne risente. Avremo così: I. d in é: kan ‘cane’ pl. ken, Galt pl. gett, karr kerr, sakk sekk, rüfjan rüfjen, tráv trev, kdus ‘calcio’ kéus, s'gaff ‘schiaffo’ s’geff, bjank bienk, grand Grend, bus'jard ‘bugiardo’ bus jerd, daskdus ‘scalzo’ daskéus, gdun ‘giallo’ géun, mars ‘marcio’ mers, kdud ‘caldo’ kéud, larg ler§, brdv brev !), matt ‘ra- gazzo’ mett, bass bess ecc. Questo mutamento s'avverte anche nei plurali, mascolini che feminini, dei nomi in d: fem. bkd ‘beccata’ pl. bké, bud ‘bucato’ bué, tld ‘età’ lé, kund ‘cognato’ kuné, strá stré ecc. masc. frà ‘frate’ fré, suldá suldé, pká peccato’ pké ecc.; particip) plur. masc. e fem. ande ‘andati -e’, torné ‘tornati -e’, ecc. Non mancano però le eccezioni, cioê i plurali che hanno

1) Gli aggettivi mascolini grand bráv. e qualche altro, quando sono al plurale in proclisi, conservano intatta la vocal radicale: grand omni, brâv askulé, e per contro omni ÿrend, skule brev.

256 C. Nigra,

la stessa forma dei singolari: pass ‘passo’ e ‘passi’, bank ‘banchi’, ran ‘ragni’, taljan ‘italiani’, ka ‘case’, e pochi altri. Per contro l’Alto-Canavese ha pess benk reni taljen ke. II. a (= é) in ¢: garalt ‘garretto’ pl. gariti, bjatt ‘biglietto’ bjitt, purkatt * porchetto’ purkitt, kavaj ‘capello’ kavij ecc. Gli aggettivi cangiano nel plurale masc. l’a in ej: maunatt ‘sucido’ maunejt (ma anche maunilt), spass ‘spesso’ spejss, sakk ‘secco’ sejk, stracé ‘stretto’ strejc, fragg ‘freddo’ frejg, ecc. III. ó, dinanzi ad esplosiva semplice o doppia, che non sia palatina, si cangia, al plu- rale, in dj: guvnott pl. guvnojt, Qublott ‘bicchiere’ ÿu- blojt, tinivlott ‘succhiello’ tinivlojt, rokk ‘macigno’ rojk, tokk ‘tozzo’ tojk, tropp trojp, dvôt ‘devoto’ dvojt, pôk pojk, nokk ‘gonzo’ nojk, skolt ‘ramo’ skojt, sopp ‘zoppo’ sojp, ecc. E così dinanzi alla fricativa labiodentale sorda, stoff ‘stufo’ stojf, Hoff ‘goffo’ gojf. Negli altri casi l’6 resta intatto nel plurale. IV. «, nella stessa posizione, o di- nanzi al nesso n + esplosiva, passa in dj: fund ‘piatto’ pl. tojnd, lung lojng, fund fojnd, bjutt ‘nudo’ bjojt ecc. Pa- rimente l’-un di singolare al plurale -6n: bjun ‘tronco d’albero’ pl. bjon, mun ‘mattone’ mon, ravissun -on, lirun ‘ajrone’ -on, e così maskun ‘stregone’, muntun ‘mucchio’, mutun ‘montone’, patjun ‘cencio’, parpajun ‘farfalla’, puvrun ‘peverone’, bun ‘buono’, s'gárun ‘dissipatore’, ladrun ecc. | ı) La prima persona del presente indicativo sta sempre nella sua schietta ragione etimologica, e priva perciò della vocal finale. Così: à port ‘io porto’, cam ‘chiamo’ mang ‘mangio’, äncov ‘inchiodo’, möjr maturo’, krovl ‘crollo’, bovr ‘abbevero’, ressj ‘sego’, kolj ‘corico’, kunass *co- nosco’, sern ‘scerno’, sirens ‘stringo’, per ‘apparisco’, les ‘leggo’, sam ‘gemo’, tam ‘temo’, krass ‘cresco’, drob ‘apro’, drpuliss ‘ripulisco’, dnsett ‘assiedo’, men ‘meno’, sterr ‘sotterro’, ven ‘vengo’ u ‘ho’, su ‘so’, ecc. dubbio se il n di sun ‘io sono”, che è pure in can. e piem., rap- presenti il m del lat. sum, cfr. Meyer-Libke, Gram. II

Il dialetto di Viverone. 257

S 209, 210. il j di faj ‘fo’, staj ‘sto’, daj ‘do’, vaj ‘vado’, dij ‘dico’ apparterrà alla desinenza personale].

x) Le terminazioni dell’ infinito -dre -tre escono in -4 -t, come in lombardo: warnd (can. wernar, piem. monf. gwerné) ‘governare’, ini (can. tnir, piem. int) ‘tenere’, ecc. Per contro öre si riflette in -ej (can. -éjr): avej ‘avere’, duvej ‘dovere’, pudej ‘potere’, savej ‘sapere’, vale; ‘va- lere’, vulej ‘volere’.

A) Dilegui di vocal protonica. I. Nel verbo: änsell änseli ‘insello’ -i, infinito änsld ‘insellare’, änfell dnfid ‘imbrattare’, ämmarell ämmarld ‘ammatassare’, dmmus- sell - üssld ‘aggomitolare’, änsan änsnd ‘insegnare’, dn- kaden -dná ‘incatenare’, bejv ‘bevo’, bvuma ‘beviamo’, das'bell das'blà ‘guastare’, daspér -prá ‘disperare’, dars'el dars'lá ‘sgelare’, dastaj dastjá ‘stigliare’, dev dvuma ‘debbo dobbiamo’, das'vagg -vagi ‘sveglio -gli’ dasgá ‘svegliare’, ferr feri fra ‘ferro -i -are, Gabell Gablà ‘con- tendere’, köv kvd ‘covare’, kunass kunsü ‘conosco cono- sciuto’, lavor laurd ‘lavorare’, lév lvá ‘levare’, lij liji lid ‘lego leghi legare’, nij niji njá ‘annegare’, pij pjá ‘pi- gliare’, men meni mná ‘menare’, martell martlá ‘mar- tellare’, muv mu-i mvá ‘muto -i -are’, puv pvd ‘potere’, spuv spvd ‘sputare’, (ma s’barüpd ‘spaventare’, starnu-á ‘sternutare’), pejl plá pelare’, pejs pejs’i bs'à ‘peso -i -are’, rabell -beli -bld ‘trascinare’, rastell -stlá ‘rastrellare’, s'garbell -blá ‘scalfire’, stripell -plá ‘stracciare’, sakk sakt ské ‘secco secchi seccare’, san snd ‘segnare’, sgarfan -fná ‘graffiare’, sen seni snd ‘ceno -i -are’, set std ‘stare’, sterr steri strá ‘sotterrare’, sammen -meni -mná ‘semi- nare’, sel s'lá ‘gelare’, sköv skvá ‘scopare’, ten teni tnt ‘tenere’, ven veni vont ‘venire’, traves lravsá ‘traver- sare’, ve ve vrü ‘voglio vuoi voluto’, vagg vagi vgá ‘ve- gliare’, vag vjuma ‘vedo vediamo’. Questo fenomeno, che, come s'è accennato, è comune ai dialetti limitrofi, è tut tavia meno esteso nel piemontese, che ha, per esempio,

seté pès'é traversé gélé levé lijé pijé séké s'grafinié kuve 81

258 C. Nigra,

skuve puvé dés'vijé bejvuma ‘beviamo’, volü lavuré e altri. II. Nel nome: baktá ‘bastonata’, bká ‘rimbec- cata’, blassa ‘bellezza’, blatt ‘belletto’, brata ‘berretta’, das'blun ‘dissipatore’, ds’embri, fidlin ‘vermicelli’, fnera ‘fienile’, fnugg ‘finocchio’, frê ‘fabbro-ferrajo’, frugg chia- vistello’, kadnass ‘catenaccio’, kapldn, kardlin, kastlatt ‘castellina’, ksent ‘lievito’ =cresc-, kurilá ‘coltellata’, lod ‘lievito’, mnd ‘manata’, mniss ‘spazzatura’, mnüga ‘bon- cinello’, msun, mietitura’, ms'úra, pcinata ‘pettinella’, péi- nin ‘scardassino’, pkd peccato’, pkarija ‘beccheria’, plissa ‘pelliccia’, ploja ‘buccia’, pnass ‘spazzatojo’, pnell ‘pen- nello’, praia ‘pignatta’, prá ‘sassata’ =*peträta, prana ‘lastrico’, prél ‘ventriglio’, prüka ‘parrucca’, psija ‘ve- scica’, rablada ‘trascico’, séuptd ‘schioppettata’, sküdlin, smana, smens ‘semenza’, smansata ‘semenzina’, snest ‘si- nistro’, snugg, snisja ‘cinigia’, snur ‘signore’, spluva ‘scintilla’, stanta ‘settanta’, ströjr ‘bechino’, ilé ‘telajo’, Inaje, tren ‘terreno’, triss ‘terriccio’, urgin ‘orecchino’, vlü ‘velluto’, vrera ‘impannata’ = vitr-, vrilá, vsin ‘vi. cino’.

a) Altri fenomeni prodotti dalla posizione dell’ accento. I. 6 tonico, aperto o chiuso, passa in u nelle forme arizotoniche: ändor ‘indoro’ ändura ‘indorare’, änfodr -fudrá “foderare”, âncôv äncud ‘inchiodare’, dm- bors -bursá ‘imborsare’, dmbroj -brujd, imbrogliare”, dm- brokk -bruka ‘imbroccare’, änfork -furka ‘inforcare’, dn- forn -furnd, ändabjdl -bjula ‘ingabbiare, abbindolare’, dn- koll -kula ‘incollare’, änkrosj -krusjd ‘incrociare’, dn- nivdl -vuld ‘annuvolare’, änsolk -sulká ‘insolcare’, án- toss} -lussjá ‘attossicare’, ärkord -kurdä ‘ricordare’, ärmoll -muld ‘mollare’, ärpös -pus'a ‘riposare’, bocce buca ‘truccare’, bodr budrd ‘mescolare, impinzare’, bogg bugia ‘muovere’, bovr buvrd ‘abbeverare’, das'9roj -Grujà ‘sgusciare’, dastorb -turba ‘disturbare’, docc ducd ‘adoc- chiare’, dom dumá ‘domare’, dovr duvrá ‘adoperare’, fjoka ‘nevica’ fjukd ‘nevicare’, for furd ‘forare’, frosé

N dialetto di Viverone. 259

fruscà ‘fregare’, furmjöl -mjuld ‘formicolare’, galopp -lupd ‘galoppare’, kmod kmudd ‘aggiustare’, kolj kuljá ‘coricare’, kolm kulma ‘colmare’, krovl kruvld ‘crol- lare’, logg lugd ‘alloggiare’, los'na ‘lampeggia’ lus'ná ‘lampeggiare’, :oj mujá ‘ammollire’, ndmin numind ‘nominare’, dblij «bligà ‘obbligare’, pacokk -cukd ‘in- fangare”, papott -putá ‘accarezzare’, patokk -tukd ‘per- cuotere’, pastrocé -strucd ingarbugliare”, pikott -kuld ‘pi- luccare’, port purtd ‘portare’, pós pusá ‘posare’, prov prouva ‘provare’, ravjöl -vjulá ‘rotolare’, ribott -butd ‘gozzovigliare’, rob rubd ‘rubare’, roj rujá * rimescolare”, rol ruld ‘avvolgere’, scopp scupd ‘scoppiare’, sfros sfrus’d ‘frodare’, s'jol s'guld ‘sgocciolare’, skarabocé -bucd ‘sca- rabocchiare”, skon skund ‘soffocare’, skortj skurtjd ‘scor- ticare”, skot skutd ‘ascoltare’, smort smurid ‘smorzare’, sopj supjd ‘zoppicare’, spos spus'd ‘sposare’, stoff stufà ‘stufare’, tajokk -juka ‘tagliuzzare’, talocc -lucd ‘barcol- lare’, larbol -bulá ‘intorbidare’, tarmol -muld ‘tremo- lare’, toré turcá ‘torchiare’, lorn turnà ‘tornare’, trov truvd ‘trovare’, virol -rulá ‘gironzare’, voj vujá ‘vuo- tare’, vol vuld ‘volare’, akors akurs'uma ‘accorgiamo’, drsolv ärs’ulvuma ‘risolviamo’, cod cuduma ‘chiudiamo’, dascod -Cuduma ‘schiudiamo’, drob drubù “aperto”, god gudù ‘goduto’, koj kujuma ‘cogliamo’, kos kus'uma ‘co- ciamo’, pjov ‘piove’ pjuvw ‘piovuto’, tors tursu “torto”, dorm durmi, ‘dormire’, mor muri ‘morire’, sort surtt ‘uscire’. II. e tonico, aperto, in posizione, passa in a nelle forme arizotoniche: dmpress -prassá ‘af- frettarsi’, änsere -sarcá ‘accerchiare’, argent -gantd ‘inar- gentare’, drs‘ent -s'antd risciacquare’, burenfi -anfjd ‘gon- fiare, das mentj -mantjá ‘dimenticare’, ferm farmá ‘fer- mare’, kmens kmansá ‘cominciare’, kweré kwarcá ‘coper- chiare’, pens pansá pensare’, ressj rassjd ‘segare’, serk sarkd ‘cercare’, serr sarà ‘serrare’, wern warnd ‘go- vernare’, dmprend -prandü ‘appreso’, drfend -fandü ‘fesso’ daskend daskandü ‘disceso’, dastend -tandù ‘di-

260 C. Nigra,

steso’ pend pandù ‘appeso’, tend land ‘teso’, rend randiy ‘reso’, sern sarni ‘scelto’, strens strans' ‘stretto’, tens tans’ ‘tinto’, vend vandu ‘venduto’, sent santi ‘sentire’, serv sarvi ‘servire’. III. a originario passato in é tonico per fusione con 2, ritorna ad a nelle forme arizotoniche: änger ängard ‘agghiajare’, änvjer änvjard ‘avviare’, per pari ‘apparire’, scer scard ‘ve- dere’, s’der s’dard ‘sciupare’. IV. e tonico, aperto o chiuso, libero o in contatto con suoni palatali, passa in è nelle forme arizotoniche: gen gind ‘in- commodare’, ced cidu ‘ceduto’, neg nigá ‘negare’, preg prigá ‘pregare’, selj siljá ‘lisciare’, specc spicá ‘aspettare’, acelt acitá ‘accettare’, daspres'j -pris'já disprezzare’, ku- regg -rigü ‘corretto’, prulegg -tigù ‘protetto’, les lisuma ‘leggiamo. Anche la formola dialettale -a’gg, equivalente all’ ital. -éggio, cangia la in è nelle forme arizotoniche: managg manigà ‘maneggiare’, spassagg spassigd passeg- giare’, starsagg -sigá ‘scarseggiare. V.a tonico, equi- valente ad e, si cangia in a nelle forme arizoto- niche: matt maluma ‘mettiamo’, e così i composti skumall ‘scommetto’ ecc., lassj tassja ‘tessere’, sam samuma ‘ge- miamo’, fam tamuma ‘temiamo’, tramu ‘tremito’ tarmulá ‘tremolare’, sandri ‘cenere’ sandrd ‘cenerata’, sakk sakd ‘seccare’, pask puskd ‘pescare’ ecc. VI. dj tonico si cangia in uj nelle forme arizotoniche: solo esem- pio a me noto: mdjr ‘maturo’, mujrd maturare’. VII. Il nesso dialettale rizotonico esplos.+ ra (= re) passa in esplos. +ar nelle forme arizotoniche: fram farma ‘fermare’, änfragg dnfargà ‘infreddare’, stragg stargà ‘stregghiare’, krapp karpd ‘crepare’, krad karduma ‘crediamo’, krass karsuma ‘cresciamo’, s'bram sbarmuma ‘spremiamo’, tram tarmuma ‘tremiamo’.

[Come supplemento a queste note, si aggiungono qui i Paradigmi delle principali forme ver bali viveronesi.]

I. Verbi regolari. Desinenza in -are: infin. massd ‘ammazzare’; partic. pass. massa; pres. indic. i mass ‘io ammazzo’, q't massi

Il dialetto di Viverone. 261

‘tu ammazzi', al (la) massa ‘egli (ella) ammazza‘, i massuma, i massej o massé, a massu; imperfetto indic. massava, -avi, -ava, -avu, «avi, -avu; fut. massrú, massré, massrd, massruma, massri, massran: pres. congiunt. massa, +, -a, -u, «i, -4; imperf. cong. mas- sejs, -gisi, -ejs, -eisu, -gisi, -gisu; condiz. massrija, -riji, -rija, -riju, -riji, -riju; imperat. massa, masse. Desinenza in -ère: tundi ‘tondere';} partic. pass. tundu; pres. indic. tund, tundi, tund, tunduma, tundi, tundu; imperf. indic. tundija, «iji, -ija, -tju, -iji, -iju; fut. tundru, ecc. come nella precedente conjugazione; pres. cong. tunda, come sopra; imperf. cong. tundgjs 0 tundiss, -ejsi O -issi, -gjs O 155, -gjsu O “ISSU, -gisi O 1881, -ejsu O issu; condiz. tundrija, come nella precedente conjugazione; imperat. tund, tundi, Desinenza in -Bre: valgj ‘valere; partic. valu; pres. indic. val, vali, val, valuma, val, valu; imperf. indic. valija, come nelle precedenti conjugazioni; fut. valru ecc.; pres. cong. vala ecc. come sopra; imperf. cong. vulgjs o valiss ecc. come nelle precedenti conjugazioni; condiz. valrija ecc. come sopra; imperat. val, vali. Desinenza in -ire: infin. parts ‘partire’; partic. pass. parti; pres. indic. part, parti, part, partuma, part, partu; imperf. indic. partija ecc. come sopra; fut. partru, partre ecc. come sopra; pres. cong. parta ecc. come sopra; im- perf. cong. partiss, -issi, «iss, -issu, -tssi, -tssu; condiz. partrija ecc. come sopra; imperat. part, parti. II. Verbi ausiliari: a) Verbo sostantivo, infin. essi ‘essere’: partic. pass. stacc ‘stato’; pres. indic. sun, é, é, suma, si, sun; imperf. indic. era, eri, era, eru, eri, eru; fut. sarù, saré, sard, saruma, sari, saran; pres. cong. sija, -i, «a, -u, À, -u; imperf. cong. fuss, fussi, fuss, füssu, -i, «LU; condiz. sarija, -iji, -ija, -iju, -iji, iju; imperat. siji, ste O stg). 8) Verbo ‘avere’, infin. avej; part. pass. avi”; pres. indic. u, e, à, uma, gj, an; imperf. indic. eja, eji, eja, eju, eji, eju; fut. aru, arg ard, aruma, art, aran; pres. cong. abja -ji, -ja, -ju, -ji, ju; imperf. cong. ejs, ejsi, ejs, ejsu, Ejsi, gisu; condiz. artja, -iji ecc.; imperat. abja, abjé. III. Verbi in -isco: visti ‘ve- stire’; particip pass. vistt; pres. indic. vistiss, -issi, -iss, -issuma, -issf, -issu; imperf. indic. vistissija, -iji, -ija, -iju, “it, tju; fut. vistissru, -issre, -issrd, -issruma, issri, -issran; pres. cong. vi- stissa, -issi, -issa, -issu, -issi, issu; imperf. cong. vistississ, -ississi, ississ, «ississu, -isstssi, -ississu; condiz. vistissrija -issriji, -issrija, -issriju, -issrij, issirju; imperat. -vistiss, -issi. Si conjugano se- condo questo paradigma kapi ‘capire’, suffri ‘soffrire’, wart ‘gua- rire’, drpuli ‘ripulire’, rivert ‘riverire', übids obbedire, fini ‘finire’, e altri simili. È però da notarsi che alcuni verbi di questa serie usano di preferenza, in certi tempi e modi (imperf. indic., futuro, é

262 C. Nigra, Il dialetto di Viverone.

condiz.), la forma semplice, priva della caratteristica -iss. Cosi patt “pa- tire”, ha nell'imperf. indic. patija ecc., nel fut. patirú ecc., nel condiz. patirija ecc.; parimente kap: ‘capire’, ha nel condiz. kapirija ecc. al- ternantesi con Aapissrija ecc. IV. Verbi irregolari. Sono qui dati i paradigmi di alcuni soltanto tra i verbi irregolari, cioè di quelli più usati. a) ändd ‘andare’; partic. pass. dndd; pres. indic. vaj, ve, va, änduma, ändej o dindé, van; imperf. indie. ândava o ândeja, -avi O -eji, -ava O eja, «vu O -eju, -avi 0 -eji, -avu O -eju; fut, ând- [a]rú -ré, «rd, -ruma, -ri, ran; cong. vaja, -ji, -ja, ju, «Ji, -ju; imperf. cong. ändejs, -ejssi, -ejs, -ejsu, -ejsi, ejsu; condiz. ändrija o ändriss, -riji o rissi ecc.; imperat. va, ândej o ändg. A) ‘fare’; partic. pass. facc; pres. indic. faj, fe, fa, fuma, fei, fan; imperf. indie. feja; fut. fará; cong. faja; im- perf. cong. fejs; condiz. farija o fariss; imperat. fa, fe e fej, y) std ‘stare’, part. pass. stadé; pres. indic. staj, ste, sta, stuma, stej, stan; imperf. indic. staja, -ji, ecc.; fut. starù, staré ecc.; cong. staja -ji ecc.; imperf. cong. stejs ecc.; condiz. starija O stariss ecc; imperat. sta, ste o stej. Il verbo dd ‘dare’ segue la stessa formazione. d) di ‘dire’; partic. pass. dice ‘detto’; pres. indie. dij, diji, di, ds'uma, ds, diju; imperf. indic. ds'ija; fut. dirt o ds'iru; cong. dija; imperf. cong. ds'ejs o ds'iss: condiz. dirija o ds'irija o ds'iriss. imperat. di, ds. e) vit ‘venire’; part. pass. vi; pres. indic. ven, veni, ven, viiuma, vit, venu; imperf. indic. vfiija; fut. vfiiru; cong. vena; im- perf. cong. vñiss; condiz. vñirija; imperat. ven o vgni, uni. 0) vulej ‘volere; partic. pass. vr#’ pres. indic. ve, ve, vél, vruma, vri, volu; imperf. indie. vrija; cong. voja; imperf. cong. vriss; condiz. vrija O vriss. n) savej ‘sapere’; partic. pass. savıd: pres. indic. su, se, sa, suma, sei, san; imperf. indic. seja; fut. sarù. cong. sapju; imperf. cong. sejs; condiz. sarija. 9) duvej ‘dovere’; partic. pass. duvu’; pres. indic. dev, devi, dev, duvuma o dvuma, devi o dvi, devu; imperf. indic. dvsia; fut. duvru; cong. deva; imperf. cong. dvejs o dviss; condiz. du- vrija o duvriss. «) vaÿi ‘vedere’, partic. pass. vjw o vist; pres. indic. va), vadi, va), vjuma, vii, vagu; imperf. indic. vÿija; fut. vdiru; cong. vaga; imperf. cong. vgejs o vjiss; condiz, vdirija.

Manca in viveronese, come in canavese il perfetto passato sem- plice, di cui era rimasta qualche traccia in tempi non antichi, nel piemontese. Questo tempo è ormai surrogato in tutta la regione pe- demontana come in altre, dal participio passato, preceduto dal pre- sente indic. del verbo ‘avere’.

G. GRÓBER.

EINE TENDENZ DER FRANZOSISCHEN SPRACHE.

Das Lateinische hat im Uebergange zum Italienischen der Reihe nach seine auslautenden Consonanten m, s, c, t, d aufgegeben. Das Italienische fordert in zusammenhängender Rede vocalischen Auslaut, lässt nur facultativ !) Liquida im Auslaut zu und, zum Zeichen dieser idiomatischen Be- schränktheit oder articulatorischen Gewöhnung, dem conso- nantisch schliessenden Wort einer fremden Sprache, das es aufnimmt, den Vocal nachklingen, der ihm von eignen Wörtern ähnlichen Ausgangs her geläufig ist. Zu jener Ge- wöhnung ist es allmählich gekommen, Denn jene lateinischen Auslautconsonanten schwanden nach und nach. Liegt nun in solch radicaler Lautentfernung, in jener andauernd in einer Richtigung sich vollziehenden Lautbeseitigung nicht eine von Generation zu Generation sich vererbende Tendenz? Die Tendenz, articulatorische Hindernisse bei der Aufrei- hung von Worten im Satze zu beseitigen, die auf ein we- niger gemessenes Sprechen in jüngerer Zeit deutete, als es früher üblich gewesen, mit der freilich nicht einmal die Behandlung der Consonanten im Wortinlant Schritt gehalten hätte, da hier im Wortauslaut unmögliche Consonanten wie s (festa) oder Pausen im Wort hervorrufende Mutagemina-

1) Der Dichter apocopiert o, e regelmässig hinter /, r, n (m), der alte Prosaschriftsteller thut es bei mehreren auf einander folgenden voci piane.

264 : G. Gröber,

tion (fat-to) belassen worden ist? Hier die Worteinheit durch Hemmung des artikulatorischen Luftstroms, die mit der ar- ticulatorischen Pause und dem Mundverschluss bei ein- tritt, gestört, dort durch Beseitigung von Hindernissen ähnli- cher Art die Satzgliedeinheit erreicht? Aber der so gern auf die romanischen Sprachen angewandte Schönheitsbe- griff würde diesen Widerspruch noch weniger lösen, und was bliebe zur Erklärung der Erscheinung sonst noch übrig, als die Tendenz der Herausbildung einer allen Fäl- len angepassten Form des Auslautes? In Wirklichkeit ist jener Widerspruch auch nicht vorhanden, da der Wortac- cent die Worteinheit auch bei den mit Pause gesprochenen Silben herstellt, und ein Grund insbesondere spricht dafür, dass es sich bei Lautveränderungen gleicher Art, die in ver- schiedene Zeiten fallen, nur um unbewusste Verfolgung eines vorschwebenden, nicht auf einmal zu erreichenden Zieles handelt, an dem aufeinanderfolgende Generationen durch vererbte Sprechweise festzuhalten genöthigt sind.

Jener Grund ist, dass sich alle romanischen Sprachen der silbeschliessenden Consonanten im Auslant wie im In- laut zu entschlagenversucht haben, wenn sie auch dem End- ziele, der Beseitigung der geschlossenen Silbe, in verschie- dener Weise, z. Th. nur nahe gekommen, oder gar, wie romanische Mundarten, besonders die, gebildeter Sprache am fernsten gerückten, ihm wieder untreu geworden sind. Dagegen blieb andern Sprachen, z. B. den germanischen, solche Tendenz fremd, weil in ihnen nicht nur geschlos- sene Silbe im Wortin- und Auslant überwiegt sondern auch nicht zu beseitigende consonantische Flexionselemente und in Menge Stammelemente im Wortauslaut von jeher stan- den, die als Träger des Wortsinns erhalten bleiben muss- ten, während Flexionssilben im Lateinischen den Wort- stamm in seinem Bestand schützten, als häufigere flexivische consonantische Wortauslaute aber nur noch m, s, t, andere Consonanten dagegen im Auslaut nur ganz vereinzelt vor- kamen.

Eine Tendenz der französischen Sprache. 265

Hinsichtlich der Beschaffenheit des Silbenauslautes steht oder stand das Rumänische dem Italienischen am nächsten, das Rätoromanische ist auf der altfranzösischen Stufe ste- hen geblieben, wie auch die südwestromanischen Sprachen, während der Erbwortschatz des Französischen seit dem Aus- gang des Mittelalters zur offnen Silbe nicht nur im Aus- laut, sondern auch im Inlaut gelangte, also vollkommen offensilbig geworden ist. Denn dem erbwörtlichen Franzö- sischen fehlen Silbenschlüsse im Inlaut, wie sie die Grup- pen isch oder dsch oder ts z. B. bewirken im ital. fac-cia, rum. ghiala, rät. glatscha, altfrz. fache, prov. facha, cat. sel- vatje, span. hecho, port. braco, um nur einen Typus anzu- führen, neufrz. aber fa-ce u. dergl. Dabei hatte das Franzö- sische einen weitren Weg auf der Bahn der Offensilbigkeit. Denn es hielt nicht nur an den z. B. auf italienischem Bo- den früh aufgegebenen Flexionszeichen s und t im Auslaut noch im Mittelalter fest, liess sie mit anderen Consonan- ten zusammentreffen (sec-s, fait-s; cep-s; amas-t) und jeden Verschlusslaut in den Auslaut treten (sec, fait, cep; lonc, port, champ ete.), sondern es duldete anfangs auch eine Consonantenhãufung im Wortinnern, indem es vor-und nach- tonige Vocale fallen liess (tesl’monium, misc'lare; evesc’ pum, presb'trum, epist'la 1); sept’mana etc.), wie sie in kei- ner andern romanischen Sprache zugelassen worden, gleich- zeitig aber im Fränkischen und in den andern germani- schen Sprachen vorhanden war.

Die Offensilbigkeit war im Inlaute durch Vereinfachung jener Consonantengruppen zu erreichen und sie wurde allmählich dadurch erreicht, dass zunächst der In- laut nach dem Wortanlaut geregelt wurde, d.h,

1) Wenn Elfrath in der fleissigen Ausführung seines von mir RZts. HI 306 angegebenen Themas dar 1. c. vor epist'le gesetzte Komma mit der Kommasetzung in meinem Artikel verglichen hätte, würde er erkannt haben, dass epist'le von mir an jener Stelle mit Bedacht gewählt ist, und würde mir den Vorwurf erspart haben, dass ich in epist'le ein Erbwort gesehen hätte.

266 G. Gròber,

die Consonantengruppen wurden auf wortanlautfähige, d. 1. einfache Consonanten oder auf Muta oder Fricativlaut + r,l (nur dr, tr, vr) oder auf isch, dsch, zurückgeführt, Zwei- und Mehrconsonanz, die mit m, n, |, r, s anhob, blieb zunächst noch bestehen, da jene Laute keine Silben- schliesser sind, wogegen bei mit Muta anhebender Zwei- oder Mehrconsonanz Muta auf Vocal reduciert wurde (facta > fai-te, frig'da > froi-de, tex're > teis-tre) oder fiel (cappel- lum > cha-peau, sap'dus > sa-de, sept'mana > sel-mana > se-maine; mittere > me-tre. Von der jedenfalls gleichzei- tig so behandelten mit Muta anhebenden Zweiconsonanz im Auslaut blieben nur einfache Muta (Tenuis) oder s, weil an- lautfâhige Consonanten, úbrig (factum > fait, mittit > met, septem > set; siccum > sec; cippum> cep; frig'dum >> froit). Ebenso fiel Muta im Inlaut zwischen jenen Liquidis schon in der vorlitterarischen Zeit der franzôsischen Spra- che (galb'nus > jal-ne, test'monium > fes-moin, misc’lare> mes-ler ; bei Muta + Muta zwischen Liquiden, die erste Muta (presb'trum > pres-tre), bei Muta + Muta hinter produci- blen Consonanten die zweite Muta (episc'pum > eves-que) 1).

Aber die Tendenz ging weiter. Im Auslaut bestehen noch in der litterarischen Zeit der französischen Sprache mit Li- quiden und s anhebende Zweiconsonanzen, die die Endsilbe schlossen, solange der Schussconsonant laut war. Unter diesen sind ¢ und s z. Th. Flexionsmittel, die so lange ar- ticuliert werden mussten, als sie im andern Falle, hinter Vocal, nicht aufgegeben wurden, und Ersatz für sie nicht im ständigen Gebrauch des Subjectspronomens (vgl. je, iu, il parle -s, -t) und des Artikels beim Nomen im Plural (les, des) gefunden war. So blieben auch die, Stämme hinter

1) Danach gehören der vorlitterarischen Zeit vermuthlich auch schon an Formen wie tems tens für temps (so Alexius, Hoh. Lied.), cors für corps (Passion Chr.), sers für serfs (Alexius); während parts, charns u. dgl. sich länger halt (jors seit Sponsus und Alexius); blans für blancs liest man im Hob. Lied.

Eine Tendenz der französischen Sprache. 267

Liquidae beschliessenden Tonlosen, s, t sowie c, p; f noch laut. Die Richtung auf die Herstellung der offnen Silbe macht sich aber alsbald bei den Liquidae vor Muta, s und f bemerkbar. Im 10. Jahrh. beginnt die Nasalierung des Vocals vor gedecktem Nasal, da schon im Leodegar an und en für sich gereimt werden; am Wortende früher, als am Silbenende im Wortinnern, da im Rolandslied die Reim- bindungen in männlichen Tiraden zwischen Vocal + Nasal und oralem Vocal ungleich seltner sind, als in weiblichen Tiraden. Im Alexiuslied sind sie bei a Nas., und e Nas. über- haupt gemieden. Die Vocalisierung von ! vor Conso- nant folgt nach. Sie reicht noch ins 10. Jahrh. zurück 1); die ältesten Beispiele zeigen sich, vielleicht zufällig, im Wort- auslaut (Girau u. dgl). Nächstdem verstummt s vor Consonant, seit dem Anfang des 12. Jahrhs. (Philippe de Thaon). Zur Beseitigung von r wird vor | wenigstens (Challes, paller) im 13. Jahrh. der Versuch gemacht ?). Früher schon ist in picardischer Mundart ¢ vor s (amés << amatis, amez), im 13. Jahrh. ist es auch im Süden die- ses Mundartgebietes, zugleich mit t und d vor sch (seche, cheval; large, manger, leger, ja), in Inlaut wie Auslaut aufgegeben worden, während isch und dsch in der Nähe germanischer Sprache, in ostfranzösischen Dialecten (tchin: chien, dgent u. s. w.) und in England bleiben (engl. chief, genteel etc.). Auch die übrigen Consonanten, die vor flexi- visches s zu stehen kamen, blieben ohne Rücksicht auf ihr sonstiges Hervortreten im Auslaut nach den Handschriften des 12. Jahrhs. unarticuliert (sas: sac-s Alexius, dras: drap-s, chies: chief-s, tes: tel-s). Hiernach bestand im 13. Jahrh. nur noch Einconsonanz (cp, fs, |r) oder mit r anhebende Zweiconsonanz (rc rp rt, rf rs) im Wortauslaut. Im Wort-

1) G. Paris in Romania 17, 428.

*) In ostfranz. Mundarten erfolgt sie in viel weitrem Umfang (vgl. boène: borne, paitchi: partir, podjon: pardon; auslaut. vo: vert, po: par, aivoi: avoir u. dgl.).

268 G. Gröber,

inlaut erschien ebenfalls nur noch r vor silbenanlautfihigen Ein-und Zweiconsonanzen (char-tre u. dgl.), d. 1. vor Con- sonanzen, die als Wort anlaute möglich waren (s. 0.). Da r als Mundöffner die Silbe nicht schliesst, so konnte das Princip der Silbenöffnung sich nur noch gegen die ein- fachen oder hinter r articulierten Auslautconsonanten keh- ren. Sie waren, wurden Worte nun pausenlos im Satze oder in Satzgliedern unter Herstellung einer Satz- oder Satzgliedeinheit gesprochen, störend. Es musste das zur Aufrechterhaltung der Worteinheit früher ım Inlaut an- gewandte Verfahren der Beseitigung oder Vocalisierung des in Wort- und Silbenanlautgruppen nicht vorhandenen Con- sonanten einer Auslaut-Anlautgruppe erneuert werden, die ja Satzinlautgruppe bedeutete, wenn auch vor dem Wort- anlaut offne Silbe geschaffen werden sollte. Denn es traten Fälle ein, wie sac-plein, trop-grand, petit-prêtre; neuf-jours, ses-frères; bel-père, oder auch arc-boutant, ne-orp-ne mut, part-destre, cerf-volant, cours-rapide oder jornd’ui). Daher fiel wiederum, weil der Wortanlaut, wie bisher, intact blei- ben musste, die erste Muta oder Fricativa der Auslaut- Anlautgruppe (secundiren Inlautgruppe): sa'plein, tro'grand, peti-prétre; neu'jours, se’freres, und | wurde vocalisiert (beau pere). Hinter r aber wurde, ebenfalls wie früher, der mit dem consonantischen Wortanlaut unverbindbare zweite (Schluss)-Consonant unterdrückt (ar’-boulant, ne or'ne mu, par’destre, cer'volant, cour’rapide, jor'd'ui). Man geht wohl nicht fehl, wenn man im Schwinden des auslauten- den t (z. B. in amet) das este Anzeigen einer Sprechweise erkennt, die auf Herstellung der Satzglied- und Satzeinheit abzielte!). Denn dass jenes ¢, das im Picardischen so lange fortbesteht, vor Consonantanlaut nur aufgegeben sein sollte, weil es zwischen Vocale tretend (z. B. amet-avons), wie

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1) S. was Henricus Stephanus in dieser Beziehung über schnelles und langsames Sprechen bemerkt (Thurot, Prononciation française Il p. 13).

Eine Tendenz ‘der französischen Sprache. 269

intervocales t (z. B. amata > amede, amee), hätte behan- delt und analogisiert werden miissen, scheint nicht erweis- bar !), da dieser Fall viel seltner ist, als das Zusammen- treffen des auslantenden £ mit consonantischem Anlaut (ci- tet-molt-grant), und auslautendes ¢ im Participium und Ad- jectivum nicht allein auftritt. Jedenfalls liegt in der An- nahme, dass amet-avons wie amata behandelt werden konnte, die Anerkennung der Satzgliedeinheit auf einander bezoge- ner einander folgender Wörter. Da auslautendes ¢ nun nicht erst in den Reimen Philippes v. Thaon, wo es oft?) schon unberücksichtigt bleibt, vernachlässigt sein wird, und der Anfang dazu überhaupt nicht in der Pause gemacht werden konnte, die nach dem Reimwort statthat, so handelt es sich bei der Unterdrückung des auslautenden t um eine Er- scheinung wenigstens des 11. Jahrhs., wo demnach die Unterdrückung des auslautenden Consonanten spätestens begann. Sie setzt mithin die in die vorlitterarische Zeit des Französischen fallende Entfernung der Muta im Inlaut fort (s. o.). Danach mag bei rn n aufgegeben worden sein (jorn zu jor, Stephanusepistel), das schon vor s (jorz aus jorns) nicht mehr galt. Die Vocalisierung des auslautenden | (ll), die hinter Diphthong nicht üblich ist und auf ell, ell, qll (beau, cheveu, fou) im grössten Theile des französischen Sprachgebiets beschränkt blieb, tritt erst im 13. Jahrh. her-

) Mall hat (Compoz S. 87) noch nicht widerlegte Gründe gegen die Annahme des allmähligen Verklingens verschwindender Laute vorgebracht. In die complicierten Consonantengruppen, in denen der Schwund Regel ist, wird man schwerlich verdünnte Arten eines Con- sonantengenus hinein zu construieren vermögen, wozu man noch immer das anglofranzösische auslautende th (für t) glaubt rechnen zu sollen.

2) Es hält sich am längsten in der 3. Sgl. des Verbums auch hinter Vocal, weil seine Function gefühlt und durch seine Articulation verhindert wurde, dass die 3. Sgl. mit andern Verbalformen gleich- lautete. Darum sagte man altfrz. auch tes neben tel, nu-s neben nui, während neufrz tel(s) =tel, die Gleichgiltigkeit gegen das Flexions- element -s bekundet.

270 G. Grôber,

vor, wo nun das Londoner Document!) die allgemeine Re- gel ausspricht, dass die auslautenden Consonanten nur in pausa laut (vgl. des heutige plus, tous), sonst aber, bis auf 7º?), also auch schon s, in Satzgliedeinheiten verstummten, nach den Beispielen mieuz vaut boyre, apres manger. Meh- rere Lehrer der gebildeten franz. Sprache im 16. Jahrh. schreiben auch die Aussprache des auslautenden /, f und c vor consonantischem Anlaut vor ®) (tel, boeuf, avec) in heuti- ger Weise, wobei sie jedoch den halbvocalischen Character von und f betonen. Die Volkssprache machte mit ihnen nach Henricus Stephanus‘) aber so wenig Ausnahme wie der Londoner Tractat, der die Volkssprache im Auge hatte, also Recht haben wird. Nicht berücksichtigen konnte er den Fall, wo der vor flexivischem s geschwundene stamm- auslautende Consonant (sas: sac-s; dras: drap-s u. 8. w.) wieder ins Leben zurückgerufen wird, was übrigens nur dann statthat, wenn der Consonant auslautfähig war, wie bei sac, boeuf, tel (bei drap-s u. dgl., neben drap, gesprochen dra, ist die Restitution des Consonanten vor s nur graphisch), denn dieser Vorgang scheint erst dem 16. Jahrh. anzuge- hören.

Correlat zur Londoner Regel ist nun aher, dass in Satz- gliedschaften der auslautende Consonant vor vocalischem Anlaut gehört wurde, und noch unausgesprochen bleibt es, ob man in diesem Falle den Schlussconsonanten im Sinne der heutigen Liaison als Anlaut der nachfolgenden Silbe ar- ticulierte, wonach der Auslaut erst vollkommen offensilbig war. Ferner ist der Regel zwar der Fall cheff)d'œuvre, aber nicht auch die den massgebenden Einfluss des Wort- anlauts wiederum documentierende Aussprache von che-

‘) Ausg. Stürzinger, Orthographia gall. (1889) S. 17.

7) und m, n, wobei er den vocalischen Charater des Nasalvocals verkennt.

*) S. Thurot, Prononciation française II S. 4 f., etc.

*) Das. II S. 14.

Eine Tendenz der französischen Sprache. 271

f'lieu, oder von leur-s'amis neben verfs) onze heures zu entnehmen, Dinge indessen, die hier nebensächlich sind.

Von der Liaison sprechen alle Grammatiker des 16. Jahrhs. !). Sie wird schon früher üblich gewesen sein, prägt sich aber in der mittelalterlichen Schreibweise nicht aus. Das Zusammenschreiben proklitischer mit andern Wörtern hat seinen besonderen Grund. Heute ist sogar die Neigung den Auslautconsonanten auch vor vocalischem Anlaut ver- stummen zu lassen wenigstens in anspruchsloser Rede, die den Hiat nicht scheut, sehr weit entwickelt. Andrer- seits festigt sie im Untergang begriffene Auslautconsonanten, wenn heute por’ c’épic für früher übliches por’ épi(c), avec für avé?) gesagt wird, nicht nur ave’ c’eux und ave’ c’lui, sondern auch avec moi, obgleich es eine Anlautgruppe cm nicht giebt. Der Grund für solches Schwanken und für solche Restitution von Auslauten, die der Regel von der Offensilbigkeit des französischen Auslauts widerstreben, ist ersichtlich. Es handelt sich lediglich um Stammauslaute. Werden sie aufgegeben, so fallen Stämme mit .andern Stämmen zusammen, es entstehen Homonyma, durch die die Rede undeutlich wird, vgl. por(c) mit por(t), ave(c) mit avai({) u. dgl. 3). Daran nimmt die Volkssprache ge- ringen Anstoss, die denn auch für jene gekürzten Formen von den Grammatikern verantwortlich gemacht wird, grös- seren die Sprache der auf ihre Rede achtenden Gebildeten, die den Neigungen der Volkssprache nur bis zu einer ge- wissen Grenze folgen kann und Homonyme z. B. schon aus gesellschaftlichen und sittlichen Rücksichten zu vermeiden sucht. Auch eine singuläre Inlautgruppe wie in lorsque *) u. ä. werden hierin ihre Erklärung finden.

1) S. das., L c. I S. 3.

2) S. das, L c. II S. 127.

*) S. die Zusammenstellung von Homonymen von Zlatagorskoi, Dictionnaire des homonymes de la langue francaise, 1882.

*) Ueber früheres lorque s. Thurot 1. c. Il S. 20.

272 (1. Gröber,

Sieht man von jenen einzelnen Fallen, wo c (und rc; sac, arc) in pausa (oder vor Consonant) laut ist, ab, so ist ausser r (und rCons.: part, d. i. par’) nur noch l (und ls: tels, d. i. tel) und f (neuf) in solcher Stellung regelmäs- siger Auslaut, wie schon die Grammatiker des 16. Jahrhs. lehrten, also kein silbeschliessender Auslautconsonant im Erbwortschatz der französischen Sprache mehr vorhanden und somit die Offensilbigkeit vollkommen erreicht.

Als offensilbige Sprache hat sie nun einen grossen Vorzug vor den andern romanischen und den lebenden Sprachen überhaupt voraus, den nämlich, dass sie die musikalisch vollkommenste, d. h. die für den Gesang und für die mu- sikalische Composition geeigneteste ist, wobei ihr noch zu Hilfe kommt, dass sie den Wortaccent hinter dem Satzac- cent und rhetorischen Accent und die Quantität der Silbe hinter der rhetorischen Quantität in zusammenhängender Rede zurücktreten lassen kann. In Folge davon geht kein Laut im französischen Gesang verloren, wie im Deutschen z. B. Muta vor Muta, in Wörtern wie häckte hakte häckt häkt, wo die k-Laute implosiv sind, also nicht gehört werden, und der Hörer aus dem vernommenen há-te, hä-te, há-t, ha-t das gesungene Wort zu errathen gehalten ist, oder im Italienischen bei Geminaten wie lt (fatto), cc (vacca), wo die beiden Silben durch Pause getrennt werden, die un- mittelbares Verstehen ebenfalls beeinträchtigt. Entgegen- kommen würde demselben der deutsche und italienische Componist, wenn er dem Vocal vor Muta seine Quantität beliesse, bei häkt fatto also nur eine kurze, bei häkte fato nur eine lange Note oder Aequivalente sich gestattete. Aber seit langem bilden sie ihre Melodien ohne Rücksicht auf den Text, so dass der Sänger in die Lage kommt statt häckt: häkl, statt fatto: fato und umgekehrt hakt: als häkt und fato: als fàto zu singen. Dass der Musikgebildete solche Wortenstellung, die ausserhalb der Kunst belacht werden würde, hinnimmt, ist Sache der Convention. Die offene Silbe, die rhetorische Quantität und der rhetorische Accent im

Eine Tendenz der französischen Sprache. 273

Französischen gewähren dagegen dem Componisten voll- kommene Freiheit in der Behandlung der Vocale, da er, ohne befürchten zu müssen missverständlich zu werden, z.B. fai-te und faî-te, fai-t und pré-t mit kurzer oder langer Note auf der Stammsilbe versehen kann und nur bei stummem e auf eine Quantität beschränkt ist, natürlich dass sich auch der französische Componist diese Beschrän- ung nicht auferlegt der Hörer aber versteht den gesun- genen Text unmittelbar, da auch die im Auslaut vorkom- mende Muta, als liierter Anlaut, ohne Unterbrechung durch Pause vernehmlich wird und seine Sprechweise mit der Singweise übereinstimmt.

Diesen Vortheil giebt die Sprache nunmehr wieder preis, seitdem sie in gewöhnlicher Rede, im Auslaut wie im In- laut, e muet unterdrückt, und dem Princip der Offensilbig- keit entgegen, wieder geminierte Muta z. B. in cuppa aus coupe pas (nach P. Passy), oder Muta am Silbenende vag(ue)ment, cett(e) lettre, poch(e)d(e)sa... oder monde wie mont u. dgl., wie zur Zeit ihrer Berührung mit ger- manischer Sprache im frühen Mittelalter, spricht, Ob die nothwendige Artikulation solcher Consonantengruppen in den immer zahlreicher gewordenen, in immer grösserem Umfang ins Volk gedrungenen gelehrten Wörtern die Ur- sache der Durchbrechung des alten Princips geworden und das Articulationsvermögen der Franzosen über die frühere idiomatische Beschränktheit hinaus zu entwickeln vermocht haben oder was sonst zur Beseitigung des e muet geführt hat, muss ihnen selbst zur Beantwortung anheim gegeben werden.

CESARE DE LOLLIS.

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DELL’-A IN QUALCHE DIALETTO ABRUZZESE.

—— + ——————

È mio proposito indagar qui brevemente le combinazioni in cui l’-a, che di regola in tutti i dialetti abruzzesi non facienti parte del gruppo aquilano !) si continua per e muta (e), rimanga in quegli stessi dialetti inalterata. A fondamento delle mie indagini porrò il dialetto di Casalin- contrada, mio villaggio natio, non solo perchè esso mi sia più familiare che gli altri, ma anche perchè sia tra quelli che maggiore e miglior campo offrono a tale indagine. S’intende però che non mancherò d'allegare a riscontro altre varietà dialettali, quando o la mia personale espe- rienza o pubblicazioni fatte da altri mi soccorrano.

Sopravvive -a: 1. Nelle forme femminili d’articolo deter- minato e indeterminato e degli aggettivi pronominali di- mostrativi: la, ‘na, sta, ssa, kela fémmene *), dic. a: une, con valor di numerale, kueste, kuesse, kuelle, usati da soli con schietto valor di pronomi, in risposta alla domanda: «quale donna (féemmene)? » 2. Nelsost. femm., quando, oltre che praceduto dalle forme aferetizzate dell’agg. pro- nominale dimostrativo sia seguito da quelle piene (cf. FI-.. NAMORE, Vocab. abruzz.* p. 22, al § 141): sta fémmena kueste, ssa f.kuesse, kela f. kuelle. 3. Nel sost. e nel- l’agg. che siano in stretta union sintattica, nell’uno o nel- l’altro a seconda che l’uno o l’altro preceda: la, ‘na, sia ecc. fimmena bbelle; la, "na, sta bbella fémmene ?), e, per allegare un esempio nel quale si combinino sost. ed

276 Cesare de Lollis,

agg. originariamente di declinazione: la, "na ecc. forta febbre; la, na ecc. febbra forte*). E qui forse andranno considerati composti quali koccapelale testapelata, facéa- nere, kodarrose codirosso, su cui si sarà analogicamente formate peltarrgse pettirosso, quantunque nell'uno e nel- l’altro, mi sorprenda -rr- 5). 4. Nel sost. e nell’agg. femm. simultaneamente, quando il secondo sia, per ragion d'in- tensità, espresso due volte: la, ‘na, ecc. fémmena rossa (= grossa) rosse; la, na ecc. febbra forta forte. 5. Nei so- stantivi plurali continuanti le forme neutre latine, quando però, s'intende, vadano uniti all’agg. (cf. n.° 3): le fikera freshe, le pera mezze, o a sost. semplici o composti che ne determinino la specie a mo’ di aggettivi: le pera rospe, le pgra bpnkrestejane. 6. Nei numerali cardi- nali continuatori di triginta, quadraginta ecc.: (renda juorne trenta giorni, kuaranda juorne, nuvanda ju- orne. 7. In qualche avverbio come «appena », quando si combini in stretta unione con altra parola : appena nate, ap- pena viste, appena juorne allo spuntar del giorno; e que- sto numero quasi potrebbe esser compreso nel 3°. 8. Nella pers. del cong. pres. dei verbi «potere» e «volere» adoperata con valore preciso di ottativo: possa muri de súbbete che io, o tu, o egli possa morir di subito, mujaddt’ non voglia Dio (cf. FINAMORE, op. cit., p. 29, $ 168), per la prima delle quali formule è da notare che l’-a s’& esteso analogicamente alla 2* pers. plur.: puzzeta muri’ de sub- bete. E sotto questo numero accenneremo anche, solo perchè il primo elemento della composizione era in origine una voce verbale, i composti come: kakazekkine cacazecchini (di uomo ricchissimo), vutafadde voltafaccia, pisasgtte uomo che si piscia addosso.

In tutti i casi che precedono l’integrità dell’-a sarà do- vuta alla proclisia paratattica 9) che a quella vocale fa la condizione di protonica, sufficiente per la sua preserva- zione: (cf. sumarelle di e a some, kasarelle di c. a kase). E non appena le ragioni di proclisia cessino, l’-a torna a

Dell’-a in qualche dialetto abruzzese. 277

sbiadirsi in -e, avendosi di c. ai nn.' 1 e 2: kuelle [sott. fémmene] ke statev’a ssendi..*; dic. al n.º 3: ‘na fem mene de ferre, 'na febbre de kavalle; di c. al n.º 6: trende, kuarande, nuvande, assolutamente usati in risposta alla domanda: «quanti? »; dic. al n.° 7: appgne je dicese ka appena gli disse che, o: je l’ave’ 'ppene dette ka glie l'aveva appena detto che; di c. al n.° 8: 'okke se le tenge ‘nna mende che se lo tenga [bene] in mente, 'okke se stende zitte che si stia zitto, e, per uscire dall’-a di congiuntivo: se stateve zitte zitte.

Ma v’ha dei casi nei quali la proclisia, altra legge di fonetica assoluta o sintattica possono, da sole, fornirci una spiegazione sufficiente, trattandosi di un -a desinenziale affatto estraneo alle basi latine presumibili secondo le re- gole ordinarie della morfologia neolatina. Il quale compare:

9. Nei plurali dei sostantivi maschili seguiti dall’agg. possessivo, posposto sempre nell’abruzz. anche fuori d’en- fasi al sost. (cf. FINAMORE, op. cit. p. 22, § 140*): li, sti, ssi, kli vuva mi’, ti”, si (che vale anche per la 3* ps. pl.), nuostre, vuostre, i, questi, codesti, quei buoi miei, tuoi, suoi (loro), nostri, vostri; li tiemba mi’, ti’, si’, nuostre i tempi miei, tuoi, suoi, nostri; dove non sarà il caso di so- spettare la continuazione dell’-a di tempora del quale sarebbe sopravvissuta agevolmente tutta la terminazione -ora (precludendo, s'intende, il varco alla dittongazione della vocale accentata dovuta all’influsso dell’-2) in un territorio che ci dà: fikere da *ficora ecc....; e per allegare un esempio di proparossitono: l'ugmmena mi, ti, si, ecc. 10. Nei plurali dei sostantivi maschili, i quali, oltre ad esser preceduti dalle forme aferetizzate del pronome dimostrativo son seguiti da quelle piene: sti vuva kiste, ssi vuva kisse, | keli vuva kille; sti tiemba kiste, ssi tiemba kisse, keli tiemba kille; st’ ugmmena kiste, ss’ugmmena kisse, hel- l’ugmmena kille 11. Nei plurali dei sostantivi femminili che si ritrovino nelle condizioni dei maschili di cui al $ 9: le vakka mi’, ti’, si, nuostre, vugstre; le femmena mis

278 Cesare de Lollis,

iv’, st, ecc. 12. Nei plurali dei sostantivi femminili che si ritrovino nelle condizioni dei. maschili di cui al $ 10: ste vakka kiste, sse vakka kisse, kele vakka kille; ste f¢m- mena kiste, sse femmena kisse, kele femmena kille ”). Or data l’indole di tali dialetti poco inclinata all’epitesi di -a *) ricorrente in più o men larga misura in altri dia- letti dell’Italia centrale o meridionale *), parrebbe próprio trattarsi di terminazioni di neutro plurale con valore di «quantita» o «collettività, » delle quali in zone anche le une dalle altre distanti del territorio romanzo si son ve- nute a più riprese discoprendo le propaggini 1°). Ma sorge subito il quesito: saremmo noi debitori di queste belle reli- quie di terminazioni neutre latine alla condizion proclitica, che, determinandosi in quelle precise combinazioni, garentiva l'integrità dell’-a finale? Se così fosse, si potrebbe quasi sospettare in questi dialetti, dissimulata dal solito -e indi- stinto quando la proclisia venga a mancare, la confluenza delle varie forme di plurali femminili e maschili nell’unico tipo originariamente riservato al neutro, in -a. E un tal sospetto non avrebbe del troppo improbabile in territor) ove la predilezione per le uscite neutre è caratteristica, manifestandosi nell’ordine morfologico per via dell’integrità gelosamente serbata e della estensione analogica larga- mente operata della terminazione in -ora !!), e trasparendo nell'ordine sintattico 1?) a traverso la costruzione quasi normale del soggetto plurale col verbo al sg. 1°). Senza dir poi che esso può anche essere avvalorato dal riscontro di altri dialetti, come l’umbro, dato che proprio ad esso vada riferita l'antica Confessione lalino-volgare riboccante di tali forme neutre 14), come il siciliano !5), nel quale però la prevalenza del neutro non va oltre il maschile, e il corso 16), o: di linguaggi, come il rumeno, nei quali quella confluenza è sulla via di divenire un fatto compiuto 1"). Ma, per persuadersi del contrario, basterà considerare che tali forme recano in le tracce dell’azione metafo- : netica alle quali in questi dialetti è normalmente affidata

Dell’-a in qualche dialetto abruzzese. 279

la distinzione del pl. dal sg.; e d’altra parte aver l’occhio al n.° 3, nel quale si afferma e si esemplifica l’integritä dell’-a in grazia della proclisia determinata dall’union sin- tattica tra sostantivo ed aggettivo. Chè per una congruenza di fonetica sintattica la quale non mi pare ammetter ra- zionale contraddizione, si sarebbe dovuto avere anche: li vuva nire i buoi neri, l’ugmmena bune gli uomini buoni, le vakka nire le vacche nere, le femmena bune le fem- mine buone; precisamente come s'ha: le pékera bbianke le pecore bianche, le fikera bbianke à fichi bianchi, esem- plari dove la continuazione del neutro lat., sia pur di co- niazione analogica nel secondo caso, non saprebbe esser revocata in dubbio. E s'ha invece: li vuve nire, l'ugm- mene bune, le vakke nire, le fémmene bune. | Diremo dunque che una ragion sintattica speciale ha da esservi perchè in quelle due combinazioni prevalga la ter- minazione neutra -a: e sarà che in esse il senso della col- lettività impera assoluto, incontaminato da qualsiasi specifica attribuzione o qualità: che dove queste incominciano, inco- mincia la distinzione, la partizione, e il partitivo soppianta il collettivo 18). Poichè nel caso contemplato ed esemplifi- cato sotto i nn.' 9 e 11 il concetto della proprietà 19); nel- l’altro, contemplato ed esemplificato sotto i nn.' 10 e 12, il concetto di «specie», la cui espressione è affidata alla ri- petizione dell’aggettivo pronominale dimostrativo, si fondono con quello della collettività quando pur non si voglia dire che lo rinvigoriscono e lo rendono più compatto. Ma la ragion sintattica, da sola, non sarebbe riuscita a tutelare l'integrità dell’-a di terminazione neutra, se, avendo a sua portata la ragion fonetica, non avesse potuto contare sul suo appoggio: tant'è vero che di contro a li vuva si s'abbia li vuve de kuille, dove pur non essendo punto variato il valore ideale del sost. se n’altera la figura fonetica, ve- nendo, per l’espression del possesso mediante il genitivo, a mancare la condizione della proclisia; avverandosi insomma qui nell’interesse della sintassi quella medesima concordia

280 | Cesare de Lollis,

tra fenomeni morfologici e fenomeni fonetici che nella fles- sione nominale si avvera quando la metafonesi rende pos- sibile, mediante la modulazione della vocale accentata, la distinzione del numero.

L’esame degli aggettivi pronominali esprimenti quantità, i quali con intenzione io ho relegati qui in fondo, confer- merà quanto siam venuti dicendo, nel senso che appunto per ragion del loro significato di collettività manifestano in questi dialetti una spiccata tendenza ?°) ad assumere davanti al sost. masch. sg. (del femm. sg. non è il caso di discorrere, perchè avrebbe -a pel n.° 3) e al sost. pl. masch. e femm. quella stessa terminazione di neutro pl. che i so- stantivi assumono solo quando debbano significare colletti- vità. E invero abbiamo: |

13. « quanto » *!) (e mi par quasi superfluo aggiungere che con «quanto » in qualsiasi sfumatura di accezione non andranno uniti sostantivi singolari, sian maschili sian fem- minili, che non abbiano implicito il valor di collettivi: «olio », «farina», pane», «danaro»). a) interrogativo: kuanda pane, suplde, piastre (la «piastra» è una vecchia moneta del valore di cinque lire) vu’? (Archi: quanna sbal- ténne de cócce t'ajjo fatte fa’? quante sbattute di testa ti ho fatte fare? FinamorE, Novelle, II 53); b) ipotetico: pe kkuanda pane, suglde, piastre pozza tene’; c) ammirativo: kuanda pane, suglde, piastre té! (cf. nap. Dio, quanta stelle "n cielo! D1 Giacomo, Ariette e sunette, p. 11, e perfino: Quanta vota int’ ’o bicchiere Quacche lacrema è cadula!, Di Grac. 104; dove non credo che 1'-a di vota sia dovuto a error di stampa, pensando al doa via o trea due volte o tre dell’ant. gen. FLECHIA, Arch. Glott. X 158 e al tria volta dell’ant. lomb. rilevato dal SALVIONI, Arch. Glott. XIV 245); d) in correlazione con «tanto»: Néi sta landa stelle ngile (in cielo) pe kkuanda vpte Vaje viste (Napoli: Ma quanta vote a scrivere m’’o metto, io dico, dov'è sottinteso : «tante volte»; Di Grac. 89); Spinoso: Nun noi so’ tants santi 'mparaviso Quanta notte mmi sonno ca ti vaso Cas.

Dell'-a in qualche dialetto abruzzese. 281

e IMBR. 228; e) assolutamente, sia che si sottintenda un sin- golare collettivo, sia che un plur. masch. o femm., sicchè alle domande kuanda ne je? o Ruanda ne vu’? (sott. vine, o uojje, farine, vuve, vakke) si possa aver le risposte: kuanda ne ti’, kuanda ce ne po’ vulé pe’ écinÿe perzone, o anche: kuanda kkiù me ne pu’ dd;; f) ancora assolu- tamente, ma con pretto valore avverbiale: kuanda face bbelle! quanto (come) faceva bello! kuanda paré’ (pareva) brutte! kuanda si’ ffesse! (Chieti: Mazzetti de viol’ quanta sci’ bell’, Cas. e ImBr. I 180; Vasto: canda vu’ matte tt? ANELLI, Fujje cit. 18); g) in correlazione, ma pur sempre con valore avverbiale: kuanda kkiu jisse ndocce, kkiu me ngocce pure ji’ (cf. Vasto: canda cchiu std, la näive ve cchiù furte, ANELLI, Fujje cit. 30; Spinoso: quanna cchiu granna fai billizzi cresca, Cas. e IMBR., I 228).

14. «tanto.» 22) a) interrogativo: a kke serve landa strille? tanti strilli? a kke serve tanda fémmene tante fem- mine? b) ammirativo-interrogativo: landa kuatrine te'!? tanda piastre te'!? (Francavilla al Mare: ha fatte tanda nozze e nno mm'à date manghe nu lözze, FINAMORE, No- velle, II 44; Napoli: asciutta tanta lacreme spuntate dint’ a chille bell’uocchie, Di Grac. 70) c) in correlazione con «che»: m'abbejese (m’incomincid) a ppijá tanda picce (capricci) ke jv j'avive da dice; m'abbejese a fa’ tanda Sigreje ke ji’...; o in correlazione con se stesso: tanda vakke te’ kuille sole e ttanda ne te’ tulle l’ivetre 'näimbre; d) as- solutamente; cioè con valore avverbiale: tanda facese e ttanda decese ke..., dove più limpida che mai è l’eco del neutro latino; e ttanda ce vg!? o che ci vuol tanto!? e) ma quando l’avv. accompagni un agg. qualificativo assume la terminazione -e se il soggetto è mascolino: é 'n'ome tande bbone; -a se il sogg. è femm.: ’na femmena tanda bbone; nel quale uso al casalese oltre il chietino (NY mi li vedé tanta bell’, Cas. e ImBR. I 180) e il lancianese (na fijje tanda bbrutte, FINAMORE, Novelle, I 66) s’asso- ciano anche qualche dialetto del gruppo aquilano (Accu-

3

282 Cesare de Lollis,

moli: ‘na signora tanta ranna, in PAPANTI, 62) e il sici- liano: (tanta bella [sott. «aquila»] ke..., SCHNEEGANS, 168).

15. «poco» a) Ha una regolare flessione: poke 'rane poco grano, puke kuatrine; poka farine, puke fémmene; b) ma un residuo di plurale neutro parrebbe potersi sospettare nelle forme sostantivali ‘na poke, kela poke, nelle quali il concetto del collettivo soppianta quel del partitivo essendovi la parte considerata in sè, senza più alcun rapporto col tutto: ddmmene ‘na poke dammene un po’; damme ‘na poke de kuesse dammi un po’ di codesto; mendse "na poke de suldite vennero un po'di soldati (Chieti: "na poche de quatrine, FINAMORE, Novelle, II 28); s'a pejjate kela poke de 'gnúreje e se n'a jite s'è preso quel po’ po’ d'in- giurie e se n’è andato; dove non ripugnerebbero delle basi latine: illa pauca, eccu’ illa pauca, pur essendo le- cito sospettarvi semplicemente un’attrazione analogica verso na 'näigne un pochino, che è per suo conto sicuramente un bel continuatore di una forma neutra latina insi- gnia ?) (con i da ? per influsso del -j- postonico; e na 'nZigna anche in Montenerodomo, FINAMORE, Novelle, II 2; ma in Villa S.* Maria: ’na 'nzegna, Pap. 58) nel senso di «mostra», «scampolo»; e cf. il tosc. scampo- letto per «pochino» 24); c) sembra dovuto veramente, come già sospettò il Finamore (p. 27, $ 157) al tacito in- flusso dei sostantivi femminili sottintesi (cf. 14e) la termi- nazione -a dell’avv. «poco» in combinazioni come: poka vedule kara tenute (modo proverbiale estraneo, se la me- moria non m'inganna, al parlar casalese) dove non si po- trà sottintendere che la fémmene 35), e a proposito della quale opportunamente si ricorderebbe il fiorentino quella po’ di roba ”; é poka bbelle? se sende poka bbone, formule anch'esse estranee al cas. e dove pure non si potrà sottin- tendere che un sost. feram. (cf. 14e) 2°); d) ma come un caso di contaminazione flessionale, in cui s’abbia quasi un compromesso tra le combinazioni b) e c) sembra doversi ritenere l’altra: kela puke de kuatrine (cf. Finamore, Voc.*,

Della in qualche dialetto abruzzese. 283

p. 27, $ 157) dove il concetto di quantità ha cercato da una parte la sua espressione nella forma neutra del dimo- strativo e dall’altra nella forma maschile (e come tale umlautizzata) dell’agg. pronominale: su per giù in simil modo, ma, in un certo senso, inverso, che nell’ engadino tuotla queaus, tuotia lur cunseilgs (cf. AscoLi, Arch. Glott., VII 441).

16. E vada qui, benchè io non riesca ad accertarla che pel ter., la forma in -a dell’agg. pronominale « nessuno » in unione con un sost. masch., a riscontro della quale mi basterà invocare il núllia lad. (cf. AscoLIi, Arch. Glott. VII 441): e ’jji d'ahaje falle nisciuna strapazze; ne 'mm' hi bbandunate mi a ’nnisciuna pericule, a nnisciuna bbe- sugne (cf. I Captivi di T. Maccio Plauto tradotti in volgare ter. da G. SAVINI, p. 31).

Ora finalmente uno sguardo agli indeclinabili, che, siano essi preposizioni o avverbj o congiunzioni, andran considerati insieme per la eventuale reciprocità d’influssi. La espan- sione del tipo in -a che per ragione analogica si verifica in larga parte del territorio neolatino 7") parrebbe dover essere qui più vivamente promossa dal fatto che buon nu- mero di preposizioni, le quali, usate da sole, terminano per la solita vocale indistinta e, si usano per lo più in composizione, che finisce per divenire incosciente, con ad: accanto quindi a sopra e il suo corrispondente solta, i cui -a non sopravvivono se non nella ripetizione che se ne fa con valore avverbiale: sopra sopre a fior di, sotta sotte alla chetichella **) (ma in Lecce e Caballino: sotta stella nnuciva, Cas. e IMBR. I 245; in Paracorio: sutta maligna stidha, ib. 246), 'nira (intra de me ecc....), fora (solo però in ripetizione: fora fore, o in frase: fora Kriste fatta eccezion per Cristo; altrimenti: fpre), prima avanti (prima juprne, avanti giorno), s ha: 'nniend’ a-mme in- nanzi a me (ma, con valore avverbiale: ‘nniende 'nniende), avand a mme, allal a mme, 'mbacéa-mme, in faccia a me, nfondr’'a mme) vecin'a mme, sopr'a mme, mmezz'a nn

284 Cesare de Lollis,

in mezzo a noi, tra noi. Ma in concomitanza coll’ azione analogica opererà anche nel nostro caso e la tendenza degli indeclinabili ad assumer l’-a epitetico comune a tanti parlari, e in qualche modo corrispondente alla ten- denza del pr. del fr. e dello sp. ad assumer negli iden- tici casi un -s, e la necessità, che sarà pure da rico- noscere in qualche caso causa sufficiente, da sola, di un tale effetto (cfr. p. 288, n. 8), di arginare l’irruenza della proclisia col sostituire alla vocal finale indistinta -e la vocal piena -a *). 17. «come» koma facéme? come facciamo? koma fi’? (Chieti e Francavilla al mare: coma va? FINAMORE, Novelle, parte II 33, 40, 44; Lanciano: e ccóma je diche? id. ibid. 150; Vasto: coma tenéte tult ‘a ddw’ ‘ss’ ucchie vi? FINAMORE, Novelle, II 58) in tono di pura interrogazione; ma anche coma ve’ ve’ come vien viene, sekonde koma le vu’ secondo come lo desideri (Villa S.* Maria: so’ minul’a prigarti che m'insignissi coma ti ti? chelle che dice, Pap. 58), a kelu state koma stave in quello stato come (in cui) era ridotto; nei quali esempj tutti s ha il valore ideale di «modo come»; di c. a: ko- me-lle (cf. campb. cummette, in D' Ovipio, Arch. Glott. IV 180), kome-kkuille, kome-Ffrangiske, nei quali s'ha la semplice funzione comparativa e, col debito effetto della consonante geminata per ragion d’assimilazione, la compo- sizione con et, come nel rom. e nel tosc. (cf. D’Ovıpıo, op. é loc. cit., e AscoLı, Arch. Glott. XV 224) ®) e in un’antitesi di pura apparenza col nap. che adopera komma (tu si comm’a chell’erba; nw’ cchiù comm'a na vota Di Grao. 47, 52) dove l’abruzz. ha kome e, viceversa, komme (comme va? comme va? povera giuventu, comme fenesce! ; Di Giac. 9, 68) dove l’abruzz. ha koma: dico di pura ap- parenza, perchè del nap. komma e dell’abruzz. kome è identico il valore ideale e analoga la formazione, essendo il primo da quomodo+ac, il secondo da quomodo+et (cf. AscoLi, ibid.). E se al semplice komme nap. l’abruzz. risponde con koma, ciò avviene perchè in questo caso

Dell'-a in qualche dialetto abruzzese. 285

mancando la combinazione con qualsiasi altro elemento, l’indeclinabile ha ceduto alla tendenza sopra enunciata di assumere un -a, e forse anche all’influsso analogico di kuanda quanto interrog. col quale può venire a trovarsi in intimo rapporto ideale, come si vedrà or ora.

Con un perfetto parallelismo ideologico e formale a koma e kome l’abruzzese ci offre gna e gne: gna facéme? yna fi come fai? (Vasto: si gna hé? ANELLI, Fujje, 54; S. Vitto- rino (Caramanico): ‘gna va?, Finamore, Novelle II 47), gna ve ve’ (cf. ANELLI, ib. 14), sekonde gna le vu (Vasto: ‘gna le tendime ni come li teniamo noi, FINAMORE, Nov. II 58; Bucchianico: pi sapajje gna pu fe per sapere come puoi fare, ib. 52; Chieti: gna la femmene senti quescle, Pap. 54; S. Vittorino: ‘gna ‘pri la stanzije, disse la mogghie come aprì la stanza, disse la moglie, FINAMORE, Novelle, II 46; Palena: gna-caila arrevette a Cipro, ib. 57), di c. a: gnette, gne-kkuille, gne-Ffrangiske (Vasto: la ndive di Innare è forte gne Vacciare, ANELLI, Pro- verbi vastesi, 14; S. Vittorino: sendétte lu spirete 'gne nnu vóve, FINAMORE, Novelle, II 54). Or come si spie- gheranno tali forme? Ad esse fanno esatta corrispondenza nde nda (cf. FINAMORE, Voc.? p. 224, s. v.), nne nna (cf. ib. p. 232, s. v.), varietà le cui propaggini si estendono dal teramano prossimo al Tronto (S. Omero, Tortoreto ecc.) fino a Scanno, sulle creste dell'Appennino abruzzese men remoto dall’ «urbs». E poichè nda ha il significato fonda- mentale di « quanto » comparativo e ammirativo (magnéva nda 'nu cielle mangiava quanto un uccello; nda é bjelle quanto è bello, Fin. Voc.? 224) e nde quello affine di «come», e il trapasso dal concetto di quantità a quello di qualità non riesce punto ostico, saranno, per via di afe- resi, da quantu *), di cui ci è nota la propensione da una parte ad assumere un -a (cf. n.° 13) e dall’altra ad unirsi e formare un tutto con et (cf. p. 264, n. 30). Sicchè insomma sian da stabilire le equazioni nda: nna: gna; nde: nne: gne 8).

286 Cesare de Lollis,

18. «dove». Prende -a in interrogazione, sia col va- lore di moto a, sia con quello di moto da: da -dduva vi’? addova (oppure: addonna) vi? da ddova vi’? (Montene- rodomo: de dova sete? Finamore, Novelle, II 6). Ma an- che fuori d’interrogazione: lu poste addpva (più frequente però, la forma apocopata: add9” se trove (Atri (provincia di Teramo): lu pajése dunna staté la mojje, FINAMORE, Novelle, II 64).

19. «quando». Offre anch'esso un -a e allorchè sia in- terrogativo (kuanna vi’? quando vieni?) e, fuori d’inter- rogazione, in protasi: kuanna le vide dijje ka quando lo vedi, digli che... (Chieti: quanta li sent ‘stu miu cor’ cantd, Cas. e ImBr. I 180); Ruanda ma’ te le pinze quando mai (= meno) te lo pensi (Vasto: canda ma’ ti la pinz’ é nu malanne, ANELLI, Fujje, 60).

Sturla (Genova) 20 febbrajo 1900.

Dell'-a in qualche dialetto abruzzese. 287

NOTE,

!) Per l'integrità dell'-a finale in aquilano v. Rossi-Cask, Il dial. aquil. p. 27.

?) Sarebbe più propriamente da scriver fämmgng e nella riga se- guente Akuäste; ma di tali e di altre consimili sfumature, che sareb- ber numerosissime in un vocalismo accidentato com'è quello del dialetto di Casalincontrada e differenzierebbero talmente le forme allegate dalle corrispodenti italiane e dalle basi latine da render sempre necessaria la traduzione, mi si permetterà di non tener conto in questo saggiuolo che volge intorno a un tratto del tutto speciale di tale dialetto (cf. del resto Arch. Glott. It., XII 3, n. 4).

Una tal condizione è propria anche del cerignolese, pel quale cf. ZINGARELLI, in Arch. Glott. It. XV 231.

*) In abruzz. è normale, come del resto in altri dialetti d'Italia (cf. p. es. Arch. Glott. It. XIII 312, 323, 340), il passaggio dei fem- minili di terza in prima declinazione.

5) FINAMORE, Op. cit. p. 244, registra pettarrósce o patarròsce. Un altro e ben più curioso composto il cui primo elemento offra l'uscita in -a è la pummadorg il pomidoro (cf. nap. pummalorg) anche nel senso collettivo di insalata di pomidori cotti o crudi, dove, a prescindere dal fatto già assai significativo che il sost. è al genere femm., non credo che la vocal piena -a-, di contro all’ -i- della forma it. pomidoro risultante piuttosto che dall'indebolimento vocalico esemplificato in MevER-LiBKE, Gr. d. Rom. Spr. II 587, dall'adattamento della forma del pl. al sg., voglia servire da vocale d'appoggio in sostituzione d'al- tra indistinta, come vediamo servire in certi dati casi (cf. p. 288, n. 8): chè per via di composizione s'ha invece: kulgsbusatg cul bucato (nomignolo), mussesporke musosporco, uokkjgstuortg occhistorti, kol- lestortg collotorto. E per mio conto inclinerei a riconoscervi la reli- quia, tanto più preziosa in quanto il nome, come la cosa, non può es- ser che relativamente recente, d'un neutro plurale collettivo poma dal quale si sarà poi estratto un sg. femm. del tipo della 1.º decli- nazione, come pckgrg da pecora. (Un semplice puma m' é offerto

288 Cesare de Lollis,

da Sambatello, Calabria Ult., in CASETTI e IMBRIANI, Cant. pop. I 216; © pomma col preciso valor collettivo dell’it. “la frutta" fu rilevato dall'Ascoli nel soprasilvano, Arch. Glott. It. VII 544; cf. del resto anche Canello, ibid., III 403).

6) «“ A” finale scade in e muta, come le altre vocali, ma, nell'u- nione delle parole, è ripristinata »: ecco la regola enunciata dal Fi- NAMORE, Op. cit. p. 10, $ 4, il quale a base dell'opera sua pose il dialetto di Lanciano.

7) Non sono in grado di precisare l’estensione topografica del fe- nomeno, sul quale, per la sua materiale esiguità, par che non abbia fatto presa la penna degli editori di testi dialettali abruzzesi. Sono però in grado di affermare per mia personale esperienza ch'esso è anche proprio del dialetto di Chieti città (cfr. del resto I} Fezio, giornale umoristico, 14 gennaio 1900: li rignanta nusctre e Strenna popolare dello stesso giornale pel Natale 1899: l’entenziona sf), e dei comuni circostanti: Casalincontrada, Roccamontepiano, Bucchianico, Serramonacesca; mentre sull'autorità del FINAMORE mi pare di poterlo anche attribuire al lancianese, poichè nel suo Vocabolario?, che ha a base quella varietà dialettale, egli registra (p. 22, $ 140) senza al- cuna preoccupazione del fenomeno che qui si contempla: sta nghe le huaja si (ma poco appresso, $ l4la: sti mise quiste, della cui genuinità io quasi oserei dubitare). L. ANELLI, Fujj’ ammésche, so- netti in dialetto vastese, Vasto, 1892, p. 68, mi offre: li murta tu”. Io stesso poi lo estesi molti anni fa al teramano, allorquando per esso, benchè a tutt'altro proposito, allegai un: "ni ssg Aidkkigra kisse. Ma errai, chè nessun esempio a conferma di ciò mi offre la preziosa versione dei Captivi del Savini; e il volgarizzatore stesso, interrogato da me per iscritto, rispondeva con estesa lettera del 16 gennajo 1900: «in ter. i sostantivi plurali, si maschili che fem- minili..., seguiti dall'aggettivo possessivo, o dalla forma piena del pronome dimostrativo in ripetizione, hanno costantemente le loro desinenze in e muta, alla francese... Per la nostra città è regola fissa, e credo sia anche pel contado ». Aggiungeva però essergli da persona competente attestato pel dialetto di Città &. Angelo « paese al di del Vomano, il cui dialetto quindi sente più del chietino che del ter. », la formula: « li vuva mi».

®) La sillaba epitetica è piuttosto -ne che figura in scing, nong (lar- gamente poi, anche in altre voci, specie verbali, nelle antiche Cro- nache aquilane), e direi che ad -a, la quale è anche in questi lin- guaggi la vocale dotata d'una più forte individualità ch’essa fa va- lere o sopravvivendo o rivivendo o sostituendosi, all'uopo, ad altre, non si faccia ricorso se non nel caso molto speciale dell’illetterato che, dovendo o volendo parlar italiano, per non ridurre, in nesso di

Dell'-a in qualche dialetto abruzzese. 289

sintassi o di composizione, la vocale d'uscita al suo solito g, le so- stituisce la vocale a: con che si può ben dire, essendo a la più piena delle vocali, che egli raggiunge il proprio scopo nel miglior modo e colla minor fatica possibile. Come esempj valgano il pe’ usa mije per uso mio, mia patre, mmija marite che i novellatori compulsati dal FINAMORE (cf. Tradizioni popolari abruzzesi, vol. 1, novelle, parte I, pp. 62, 150, 151, 153), son lieti di sostituire, quando figli di re par- lano o a re si parla, ai dialettali pe use me’, pdireme, mariteme: e il modo di pronunciare il nome proprio di famiglia chietina Vitaku- lonna in vece di Vitocolonna, e il titolo professionale espresso in- sieme col cognome del professionista: Pavukata Zekkg l'avvocato

Zecca. S'ha, è vero, anche donna Stefene accanto a do” Stéfeng: ma l'-a sarà anche qui frutto d'un’affettazione letteraria che consiglia di ripristinare l'-n e quindi di darle davanti ad s- impura un appoggio vocalico.

*) Pel romanesco non avrei ora da allegare che forme di agg. pos- sess. sg. (il pl. tua della comunissima formula: li mortacci tua non sarebbe qui a suo posto) offertemi dal BELLI, ediz. Morandi, ad aperta di libro: tata tua (I 73), Titta mia (I 42), dov’& pur sempre sospet- tabile un influsso della terminazione -a del sost. sulla vocale finale dell'aggettivo pronominale; e mia me o mio, tua tuo si lasciano age- volmente rintracciare in dialetti dell’Italia meridionale: mmia nu’ bidi me non vedi, lu mmia cori ardenti, passu pi’ tia, lu core tua, in Nardò (Cas. e ImBR. I, 299, 300, 332); in Salice: lu tua piattu, lu tua nume (ib. 310), lassi mmia lasci me in Lecce e Caballino (ibid. 304). Ma nel siciliano, com’ è noto, l’opitesi di -a ha luogo di regola in sostituzione di altre vocali d'uscita (cf. ScHNEEGANS, Sicil. dial. 66-67 e A. CREMONA, Il dialetto di Castrogiovanni, p. 29).

19) Ricorderò solo in grazia della complessità o larghezza della trat- tazione, W. MEYER, Die Schichsale des lat. Neutrums, pp. 46, 48, 49, ecc.; AscoLI, Arch. Glott, It. VII 439-42; Mever-LùBKE, Gramm. der roman. Spr. II 17, 51, 63; III 36; Tt. Gr. 183-184, 191-200.

1) Cf. AscoLI, Arch. Glott. VIN 119.

18) Il Frnamore, Vocab.?, p. 25, n.° 149, parrebbe sentire nell'egua- glianza materiale delle forme verbali di pl. e quelle di sg. un fatto d'origine puramente fonetica.

#3) Pure esprimendomi così, s'intende ch'io qui m'associo a quanto dice W. MEYER, op. cit. 169: « Unrichtig scheint es mir, wenn man sagt das ntr. pl. habe zuweilen das verbum im sg. nach sich; in diesen fillen handelte es sich nicht mehr um plural-, sondern um collectivform ». E solo così possiamo renderci conto dell'uso lat. del verbo al sg. quando, essendo soggetto il numerale sostantivale mille o più sostantivi espressi in successione, s'abbia un predicato al sg.

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290 Cesare de Lollis,

nel quale la pluralità del soggetto o dei soggetti confluisce ad assu- mere la compattezza del collettivo (cfr. DRAEGER, Hist. Synt. der lat. Spr. 179, 181). Pel neutro pl. che sulla via di degradare a femm. sg. con valor collettivo già si accontenta del verbo al sg. cfr. ScHu- CHARDT in Kunn’s Zeitschr. XXII 165.

14) Cfr. FLEcHIA, in Arch. Glott. VII 121-126.

15) Cfr. Gaspary, Litteraturblatt 1880, 386; W. MEYER, op. cit. 171; SCHNEEGANS, Op. cit. 158; MEYER-LüRkKE, It. Gr., 195.

16) Cfr. GUARNERIO, in Arch. Glott. XIV 190.

17) Cfr. W. MEYER, op. cit. 53.

18) E non altra, in sostanza, sarà stata la ragione per cui nella sintassi latina d'ordinario soltanto più soggetti astratti (collettivi, cioè, nei quali non era visibile commessura di parti distinguibili per qualifiche) potevano avere il predicato al neutro (cfr. DRARGER, Op. cit. 182). Ma più m'importa rilevare che nella larga esemplificazione fatta dal Nannuccı, Teorica dei nomi, di plurali colla terminazione neutra -a (vi comprendiamo anche quelli che rispondono a un sg. femm. in -a, nonostante l’ingegnosa ipotesi del compianto BIANCHI, in Arch. Glott. IX 377) essi, quando non sono espressi da soli, sono accompagnati o da numerali (tre coppia, cinque zona, mille tristanza, doi vescovata), o da aggettivi possessivi (alle sue orecchia, suoi fa- scia, tutti li suoi peccata), o da agg. quantitativi (molte fiumana, tante malora, spesse via, mante via, et attri profeta, tutti i re e duca, tutti i regna, tutti gli altri dimonia); e solo, e di rado, li accompa- gnano qualificativi che con essi si compenetrino in modo da formare quasi un composto (cfr. malaugurio, malafede), e che perciò prece- cederanno sempre il sostantivo stesso (quattro gran monarca, i mal profeta, grosse balestra, quasi *balestroni, ai quali faran bella com- pagnia le mortal peccata cit. da MEYER-LUBKE, It. Gr. 194; e prin- cipali vitia, criminali peccata della Confess. lat.-volg. cit.). Esempj quali l'unghia smorte (dove del resto altri legge: Vunghie), l’adun- che lor ugna, le cave tempia, le sagge t., le mascella velenose, l’ugna larghe, lu. fesse,i quali si potrebbero agevolmente moltiplicare, non valgono ad infirmaro la mia osservazione: poichè si tratta di sost. esprimenti parti del corpo, le quali hanno in implicito il concetto del collettivo, anzi, più precisamente, per una buona parte, di col- lettivo duale (due braccia ecc.), e quella figura neutra han quindi as- sunto per tempissimo, entrando poi tutto in modo definitivo nella lingua scritta (ctr. MevER-LiBKE, It Gr. 193). In vestimenta vilissimi, registrato pur esso dal Nanntccı, chi sa che non abbia da sentirsi l'influsso di vestiti; in Ze labbra vermiglia di Brunetto Latini mi par si debba riconoscere una grossa concessione alle esigenze della rima (: ciglia).

Dell'-a in qualche dialetto abruzzese. 291

19) Sarà soverchio ardimento citare anche qui a riscontro l’uso to- scano, nel quale abbiamo i plurali ambigeneri mia, tua, sua (procli- tici ed enfatici) da alcuni sospettati (cfr. MEYER-LüBKE, Gr. d. rom. Spr. I 111; 6 It. Gr. 213), da altri (cfr. D'Ovipro, Arch. Glott. It, IX 53 n) risolutamente definiti come continuazioni del neutro plurale latino? Per me, a inclinar verso la risolutezza del D'Ovidio m'in- duce la bella rispondenza abruzzese che singolarmente si precisa e s'avviva mediante la traduzione degli esempj ch'egli e il MEYER- Lüsxe allegano: Zi fratiella mi’, li fijja mi’, le sorella ti’, li fatta mi’, du’ caviella si’, li pienna mi’, le bung surella mi’, le mana mi’; sentendo per mio conto un’ identica ragion sintattica nella continua- zione dell'-a neutro lat. nel tosc. e nell'abruzz. quando si avveri la combinazione sost. + agg. poss.; ed unica differenza di figura risul- tandomi questa: che nell'un caso la desinenza si continui (0 si rav- vivi) di regola nell'aggettivo pronominale, nell'altro, nel sostantivo. Il romanesco ha l'imprecazione: li mortacéi tua, e usa le forme dua, sua suoi: li futtacci sua (cfr. BELLI, ediz. cit. I 73); ma si ri- mane incerti se non siamo in presenza di altri casi epitetici (cfr. sopra a p. 289, n. 9). E rilevo, senza trarne conclusioni precise, per l’Italia meridionale quattro ammici mmia in Bagnoli Irpino (Cas. Impr. I 209); sti mmia guai in Spinoso (ibid. 312).

39) Non se ne parla come di una singolarità caratteristica, poichè, per non ricordar altro, s'ha ogna nell’ant, it., nullia nel lad., memja nel soprasilvano (cfr. AscoLr, Arch. Glott. VII 537), trea tanta nel- l’ant. gen. (cfr. id. ibid. 441 n.); ugna nell'ant. lucchese (cf. PIERI, Arch. Glott. XII 113) tanta, quanta, poca nel catalano d'Alghero (cfr. GUARNERIO, Arch. Glott. IX 349).

21) Già il D'Ovrpio, a proposito del campobassano, scriveva (Arch. Glott. IV 172 n); «se non è avverbio -(quande je’ bbella! quande la ug’ grossa? quantam vis?) il “quanto” ha sempre il valore di quot”; ma è sempre terminato in -a, che dev’esser continuazione della voce di plurale neutro (quanda libbre tie'?). Dicasi lo stesso appunto di tandg -a ». Le riserve da farsi in campb. per quande avv. si vedono non valere per l'abruzzese (cfr. n.º 13 e).

#) Lo ZINGARELLI, Arch. Glott. XV 232, nota pel cerignolese tanta tiembg, ma spiega quell'-a per l'analogia, se mal non comprendo, dell'-a che rivive (in luogo di £) nel primo dei due femminili che si succedono in stretta union sintattica.

33) Pel pl. neutro di insigne passato a femm. sg. sia pur con signi- ficato affatto differente da quel che qui si contempla v. W. MEYER, op. cit. p. 100. Pratola Peligna ci offre (FinamorE, Novelle, II 68) “nu nsigne un poco, che sarebbe di singolare peregrinità se dal sg. insigne, d'uso raro già nel lat.; ma sarà piuttosto una riconiazione

su “nu poke.

292 Cesare de Lollis,

24) Il FINAMORE, Voc.?, 234, s. nzégne, allegò l'etimo «basso lat. ensenium, dono, regalo ».

25) Ma all'incontro il cerignolese, (cfr. ZINGARELLI, op. cit. p. 232) ci offre: pouca cibbe.

2) In FINAMORE, Voc.?, 308, s. ugne" trovo notato: ugne ppoca tande di tratto in tratto. Ma non volendo riconoscere in quell’-a una vocale d'appoggio provocata dalla forte proclisia, una termina- zione avverbiale (cfr. p. 283) si potrà pensare all'influsso analogico di espressioni come “na vota tandg per una volta tanto, dove un -a del tutto legittimo si trova nell'identica posizione.

1) Cfr. Mever-Lüsre, Gr. der rom. Spr. Il 642, e rispetto ai dia- letti it. in ispecie Arch. Glott. IX 164, 255; X 165; XIII 109, 343.

22) Che l’-a non sia dovuto qui unicamente a ragion proclitica mi par sufficientemente provato dal fatto che si ha -g non -a in sembre sembre, forzg forag, ecc.

2) Cfr. D'Ovipio, dove in Arch. Glott. IX 53 n, a proposito di «-a epitetici oppur sostituentisi ad altre vocali finali », allega il milan, indova dove, il lad. nua, l'abruzz. donna ecc. E s'intende che gli esempj si potrebbero agevolmente moltiplicare e pel mezzogiorno e pel settentrione d'Italia.

%) E, si potrebbe aggiungere, nel piem., che accanto a kuma ka s fa? come si fa? ci dà: a fa hume l’aut fa come gli altri. L’AscoLI, loc. cit., insieme colle formule com’e tte di Roma e Toscana, com'a tte di Napoli, considera le due, avvicendantisi nell'uso tosc., tutt'e ddue, tutt’a ddua. E di queste ultime il cas. conosce solo la prima, alla quale fan bel riscontro le altre risultanti dalla composizione di qua n- tum+et (kuand’e tie quanto te) omnis+et (ugn'e ttande ogni tanto; ch'è anche campobassano, cfr. D'Ovipio, Arch. Glott. IV 180, ugn'e ccend'anng ogni cento anni), mentre la seconda m'è attestata per Lanciano e per Vasto dal FinamorE, Novelle, I 61, 62, 63, 65; II 58.

3) Il FINAMORE, Voc.” 234, s. nda, registra anche i significati di « quando » (nda mid? quando mai?) e « dove » (nda vid dove vai?); e se intorno all’etimo del primo non si può esitare, pel secondo mi par più che probabile l’etimo ad +de+ unde (cfr. Casalincon- trada; addonna vi’f).

#3) M'imbarazza in verità alquanto nella figura definitiva il # da da nn + a. Ma ciò nonostante questa mi par sempre la più proba- bile spiegazione: pure riconoscendo la possibilità di trarre, sempre per via di aferesi, nda da un *comenda che a sua volta sarebbe da *comente (cfr. il minta registrato dal SALVIONI, Arch. Glott. IX 226 per la Vallemaggia); o di riavvicinare, ancor qui pel tramite del- l'aforesi paratattica, gna all'ant. it. quegno quegna (pel quale cfr.

Dell'-a in qualche dialetto abruzzese. 293

Riv. di fil. rom. 1 275, 11 54; Giorn. di fil. rom. I 47; Arch. Glott. It. Ill 9ln, e VII 450n.; Rom. XX 322) del tutto conveniente pel suo significato di « quale » e con non troppo sforzo riducibile a quel valore di congiunzione che finì appunto per assumere « quale » = come.

ERRATA-CORRIGE.

p. 282, riga sestultima, leggi: sende A p. 285, riga terzultima, invece di 264 leggi 292.

PIO RAJNA.

LA LINGUA. CORTIGIANA.

Dante ha parole di fuoco contro le corti ed i principi del tempo suo. Ma se dalla realtà presente leva gli occhi all’ideale e a ciò che crede essere stato di fatto in antico, principi e corti gli appariscono fari di luce. Quindi anche dove si studia di dar corpo alla sua idealità in fatto di lingua, eccolo rannodarla alle corti in doppio modo, desi- gnando cioè quell’elettissimo tra i volgari che vuole desti- nato alle manifestazioni più alte del pensiero, come au- licum e curiale!). « Aula domus est regia», dice Isidoro e ripetono i glossari del medioevo; e questo concetto si riflette ben chiaro nel discorso di Dante ?). Quanto a curia, presumerebbe di indicar coloro che si raccolgono dattorno al re ed al principe in genere. Però l’uno che l’altro vocabolo esprime a noi «corte»; che se il primo ci pone innanzi più propriamente un edificio, il secondo delle per- sone, tra 1 due sensi non c’è modo di tracciare una linea netta di divisione, e soprattutto avviene che curia, più in- determinato, più mobile, invada il dominio che aula inten- derebbe riservato a sè.

Di quali parole sarebbe servito Dante se avesse dovuto rendere poi in volgare ciò che aveva detto latinamente, non oso decidere: forse avrebbe partecipato un pochino egli stesso

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1) De vulgari Eloquentia, I, xvir, 1; xvini, 2-4. 3) Ib., 1, xvi, 2.

296 P. Rajna,

all’imbarazzo in cui mette un traduttore moderno. Che cor- ligiano nel lessico dantesco non si mostri, mi darebbe poca noia, se non fosse che colà dove sentiam tratti con più forza a ricorrerci, cioè per far italiano curiale, il curia- litas che gli è messo accanto come suo astratto e che la ragione del senso e il confronto del Convivio !) portano a interpretare cortesia ?), ci spinge verso un cortese, fiacco d'altra parte al bisogno. Se da un certo qual scrupolo fos- sero presi anche gl'interpreti, favorevoli od avversi, che il pensiero dantesco ebbe nel cinquecento, io non so dire; trovo bensì naturalissimo che, scrupoli o non scrupoli, il cortigiano sia loro uscito dalla penna; così da quella del- l’autore del Discorso o Dialogo sulla lingua, che mi con- terrò dal riassegnare al Machiavelli’) fino a che non co- nosca i motivi per cui all’attribuzione netta ancora si ribella il Tommasini *), come da quella del Trissino, tra- duttore e dissertatore.

Sull’autore nondimeno del Discorso e sul Trissino, in- sieme col fatto e colla teorica antica, agiscono un fatto e una teorica recente: una teorica che mette capo ad un uomo di mediocre levatura, e al quale tuttavia, grazie ad essa, bisogna consentire nella nostra letteratura un posto abbastanza ragguardevole. Chi mai, all’infuori di qualche eruditissimo, conoscerebbe Vincenzo Calmeta, se non fosse per motivo della « Lingua Cortigiana » ?

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1) II, x1; pag. 146 nella serie delle edizioni stereotipo Barbèra.

2) Il cortigiania del Trissino (un vocabolo usato anche dal Casti- glione e dal Caro e probabilmente abbastanza comune al tempo loro) a Dante non sarebbe attribuibile. Piuttosto che adottarlo, il Cittadini nella sua versione manoscritta pose un ben altrimenti riprovevole cortigianaria.

*) V. Rendic. della R. Accad. dei Lincei, Serie V, Cl. di sc. mor. ecc. Il, 203 sgg.

*) Si leggeranno nel secondo volume, già stampato pressochè per intero, dell'opera sul Segretario Fiorentino.

La Lingua Cortigiana. 297

Vincenzo Colli!), soprannominato e probabilmente so- prannominatosi « il Calmeta » °), dovette nascere intorno al 1460, a Castelnuovo, dicono, tra Voghera e Alessandria. Le notizie che lo riguardano si sono in questi ultimi anni fatte copiose 3), pur presentandoci finora un’ immagine fram- mentaria. Rimatore e prosatore, pregiato da molti contem- poranei e punto pregevole agli occhi nostri, portò attorno le sue doti letterarie, e insieme con esse l’attitudine volon- terosa alla trattazione di affari maiuscoli e minuscoli, per le corti italiane. Ed egli ben può dirsi per eccellenza «uomo di corte»; non proprio l’« uomo di corte» medie- vale, ma qualcosa di non troppo dissimile, che ne è la continuazione modificata dalle diversità dell'ambiente. Prima accade di trovarlo in Roma; quindi a Milano, qual segre- tario di Beatrice d'Este, la giovanissima moglie di Lodo- vico il Moro. Morta di ventun’anni Beatrice all’albeggiare del 1497, il Calmeta si trapiantò di nuovo a Roma, e per cinque anni ed altrove fu aggiogato al Valentino {). Caro

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1) La forma « Collo», usata da lui medesimo nel firmarsi (V. Lu- zio e RENIER, Mantova e Urbino, Torino-Roma, 1893, p. 96 n. 2), è da giudicare al modo medesimo come il « Machiavello », « Guicciare dino », ecc. Si tratta cioè dell'uso aggettivale del casato.

*) Che « Calmeta » sia soprannome, non so chi potrebbe dubitare per poco che osservi e rifletta; e credo che tutti me lo assentiranno altresì preso dal «Calmeta, pastor solennissimo », musico-poeta e gran sapiente, del Filocolo boccaccesco, 1. v (IL 243 nell'edizione Moutier).

°) Si veda in particolare Luzio-RENIER, op. cit., p. 96-103; Cran, Un decennio della vita di Messer Pietro Bembo, Torino, 1885, p. 51- 54, e « Dizionarietto Biografico » premesso al Cortegiano del Casti- glione, Firenze, 1894; Percopo, in Rass. crit. della Letter. it., I, 143-48. Autobiograficamente istruttiva anche la biografia che il Calmeta scrisse dell'amico suo Serafino Aquilano, ripubblicata e illustrata da M. Menghini nel t. I delle Rime del poeta abruzzese, Bologna, 1896, p. 1-38.

*) Un problema speciale, che io devo qui lasciare in disparte, su- scitano le pratiche ch'egli condusse in Milano sul cadere del 1499 presso il re Luigi XII contro il Valentino e il padre suo, e in fa-

vore della Madonna di Forli, Caterina Sforza. 96

298 P. Rajna,

di giä alla duchessa Elisabetta, passö poi ad Urbino, ed ivi rimase fin quasi alla morte, che lo colse, in Roma ancora se non erro, a mezzo il corso del 1508. Tratto spiccato della sua vita riesce il grande favore in cui lo ebbero le maggiori donne del tempo: Beatrice, Elisabetta, e insieme con esse anche la sorella dell’una e cognata dell’altra, Isa- bella Gonzaga; nobili e gentili sembianze, frammezzo alle quali produce effetto singolare il veder sporgere il truce suo viso Cesare Borgia.

A colei tra queste ‘donne a cui fu maggiormente e più lungamente legato, ad Elisabetta, il Calmeta dedicò nove libri Della Volgar Poesia, «ne i quali», dichiara un giu- dice ben attendibile, Gio. Maria Barbieri, « s’altro non si contiene che quello, ch'io n’ho veduto per un compendio ritrattone per mano di un valent'uomo, essi non si have- ranno mai da prezzare per un’opera scolpita dalle nove muse » 7). Eppure a noi cuoce che quei libri siano perduti, o almeno smarriti ?); giacchè con vivo interesse vi legge- remmo la parte a cui si riferisce il Bembo nel primo libro delle Prose ?), per bocca del suo proprio fratello Carlo.

Avendo cioè Ercole Strozza, solenne scrittore nella lingua latina e fino a quel tempo dispregiatore della volgare, ma- nifestato agli altri interlocutori del dialogo il grande im- barazzo in cui, volendo scriver volgare, lo metterebbe l’in- finita moltiplicità di « forme et quasi faccie» che il volgare gli presenta, « Egli si par bene», soggiunge ironicamente Carlo, « che voi non habbiate un libro veduto, che il Calmeta composto ha della Volgare poesia: nel quale egli, affine che le genti della Italia non stiano in contesa tra loro, sentenza sopra questo dubbio di qualità, che niuna se ne può dolere. » E pregato dallo Strozza di spiegare « che sen-

&

1) Dell’origine della Poesia rimata, capo 1, p. 29.

2) Li ho cercati anch'io senza frutto in biblioteche parecchie, e, segnatamente, com'era doveroso, nel fondo Urbinate della Vaticana.;

*) Carte xi v.° sgg. nell'ed. principe del 1525.

IT!

La Lingua Cortigiana. 299

‘tenza » sia «quella sua così maravigliosa », dice esser « questa; che egli giudica et termina in favore della Cor- tigiana lingua: et questa non solamente alla Pugliese et ‘alla Marchigiana, o pure alla Melanese prepone: ma an- chora con tutte l’altre della Italia a quella della Thoscana medesima ne la mette sopra, affermando a’ nostri huomini, che nello scrivere et comporre Volgarmente niuna lingua si dee seguire, niuna apprendere, se non questa. » Scoppia a parlare il Magnifico Giuliano de’ Medici: « Et quale Do- mine lingua Cortigiana chiama costui? conciosiacosa che parlare Cortigiano è quello, che s’usa nelle Corti: et le Corti sono molte: perciò che et in Ferrara è Corte, et in Mantova, et in Urbino: Et in Hispagna, et in Francia, et in Lamagna sono Corti, et in molti altri luoghi. Laonde lingua Cortigiana chiamare può in ogni parte del mondo quella, che nella Corte s'usa della contrada, a differenza di quell’altra che rimane in bocca del popolo, et non suole essere così tersa et così gentile. —— Chiama, rispose mio fra- tello, Cortigiana lingua quella della Romana Corte il nostro Calmeta; et dice, che perciò che facendosi in Italia men- tione di Corte, ogniuno dee credere che di quella di Roma si ragioni, come tra tutte primiera; lingua Cortigiana esso vuole che sia quella, che s'usa in Roma, non mica da Ro- mani huomini, ma da quelli della corte, che in Roma fanno dimora.» Oppone ancora il Magnifico, che nella Corte di Roma sun persone di molte nazioni e provincie; e che il Papa stesso « quando è Valentiano, come veggiamo essere hora; » (il dialogo suppone tenuto nel dicembre del 1503;) « quando Genovese, et quando d'un luogo, et quando d’altro. » E Carlo allora chiarisce come il Calmeta intenda per Lingua Cortigiana, «non la Spagniuola, o la Francese, o la Me- lanese, o la Napoletana da se sola, o alcun’altra; ma quella, che del mescolamento di tutte queste è nata; et hora è tra le genti della Corte quasi parimente a ciascuna comune. » Questa «nuova openion sua », prosegue poi Carlo, aveva il Calmeta esposto a Messer Triphone Gabriele; il quale

300 P. Rajna,

gli aveva chiesto, «come ciò potesse essere, che tra così diverse maniere di favella ne uscisse forma alcuna propria, che si potesse et insegnare et apprendere con certa et ferma regola ». Il Calmeta aveva addotto la lingua greca comune, ‘uscita quinta dai quattro dialetti: esempio di cui non s'era appagato Triphone Gabriele, osservando che, oltre ad es- sere in Roma le lingue, in cambio di quattro, tante da potersi difficilmente numerare, esse vi si venivano mutando di continuo; sicchè con Papa Alessandro la città era piena di gente venuta di Spagna, e «a’ nostri huomini et alle nostre Donne hoggimai altre voci altri accenti havere in bocca non piaceva, che Spagniuoli »; e con un Papa fran- cese «la Cortigiana lingua . . . incontanente s’infrance- serebbe ». Ma il Calmeta aveva persistito, e continuato, senza frutto, a difendere la sua Lingua Cortigiana; contro la quale il Magnifico lancia poi ancora un dardo, da cui non gli pare esserci scampo, ponendo il principio, non po- tersi « dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore » ; e facendone l’applicazione: giacchè « di nessuno si sa, che nella Cortigiana lingua scritto habbia infino a questo giorno. »

Il Bembo espone dunque e confuta al tempo stesso le idee del Calmeta; sennonchè, stando al Castelvetro, nel quale inclino ben fortemente a riconoscere anche il « va- lent? uomo » compendiatore che s'è udito menzionare dal Barbieri, suo concittadino e amicissimo !), egli ne sarebbe stato, malignamente, espositore infedele,

In quelle sue (Giunte alle Prose, di cui Messer Pietro avrebbe fatto volentieri a meno, pone dapprima il Castel- vetro ?), fondandosi sulla conoscenza diretta dell’opera cal- metiana, che a buon conto il Calmeta «non parla mai

————r —r————-——————r

1) Da carte e libri del Castelvetro, conosciuti a Lione, emanera bene anche l’accenno che all'opera del Calmeta fa il Corbinelli nella prefazione all'edizione sua della Bella Mano di Giusto de' Conti.

*) P. 214 sgg. nell'edizione basileese del 1572.

La Lingua Cortigiana. 301

della Imgua volgare in generale . . . , ma sempre in ispe- tiale di quella con la quale solamente si scrivono i versi». Nega poi che da lui si voglia « che del mescolamento delle lingue delle diverse nationi che sono in Roma, italiane & non italiane, o pure italiane sole, se ne generi una lingua, che egli, appellandola cortigiana », sostenga da preferire a tutte le altre nostre. « Anzi... primieramente commenda oltre a tutte le altre lingue d’Italia la fiorentina, & vuole che il poeta ottimamente l’appari, & appresso studi con grandissima diligenza & giudicio Dante Alighieri, & Fran- cesco Petrarca; & ultimamente lo conforta, che si riduca in Corte di Roma, dove... potrà affinare la lingua già appresa & da’ fiorentini & da’ predetti scrittori, lasciando se quella lingua già appresa cosa rea havesse, & prendendo, se le altre lingue d’Italia havessono cosa bona.» E dell’ uf- ficio assegnato per tal modo alla Corte Romana, questo per il Calmeta è il motivo, che ivi, a suo credere, nelle persone dei cortigiani spettanti alle varie provincie, vengono a con- venire nella forma loro più eletta le favelle di ciascuna di esse; sicchè il Poeta può adempiere comodamente in un luogo solo ciò che altrimenti dovrebbe peregrinando per tutte le Corti, come fecero l’Alighieri e il Petrarca, che il Calmeta «ci propone per autori ottimi di quella lingua cortigiana, della quale egli ragiona. »

Cosa pensare della divergenza? Nessun dubbio che l’erudito modenese nulla ci dice che non fosse nell’opera del Calmeta, mentre il Bembo, che quasi di sicuro non l’aveva punto dinanzi scrivendo, mal poteva sfuggire al pericolo delle inesattezze. Ma sebbene l’autore delle Prose nutrisse risentimento verso chi, venuto a cognizione degli studi suoi preparatori in questa materia delle lingua, colla Volgar Poesia gli aveva rubato le mosse, sono restio a credere che ne volesse a bello studio deturpare il pensiero !). La dove c’è pervertimento, esso non dev’essere intenzionale.

n . —— -

1) Cfr. Cran, Un decennio ecc., p. 52-4,

302 P. Rajna,

Ciò non basta tuttavia. Se i ragguagli del Castelvetro sgor- gano immediatamente da una fonte pura, quelli del Bembo non vogliono ritenersi derivati unicamente di lì. Alla corte urbinate, dove il Bembo e il Calmeta si trovarono abba- stanza a lungo compagni, non può ammettersi in nessuna maniera che la questione della lingua non fosse molte volte discussa. Tempo e persone ce lo dicono in modo evidente; e il posto che a cotale questione è dato nella rappresenta- zione ideale che dei ragionamenti che si tenevano ci mette innanzi il Castiglione col suo Cortegiano (1. I, c. xxvul- XXXIX), può servir di riprova. E dal Cortegiano par rica- varsi anche un indizio specifico significativo per noi. Tra le cose che il Castelvetro crede attribuite falsamente dal Bembo al Calmeta, v'è il paragone della Lingua Cortigiana colla xo greca considerata ne’ rapporti suoi coi quattro dialetti, attico, dorico, gionico ed eolico. Di ciò nel trat- tato della Volgar Poesia non era parola. E sta bene che non fosse: anche il Bembo, si badi, lo fa addurre 14 dove il Calmeta disputa a viva voce con Triphon Gabriele. Ma sarà mai caso che quello stesso paragone sia invocato an- che nel Cortegiano in sostegno di idee sostanzialmente conformi? Certo non si tratta di una nozione ben recon- dita; ma la coincidenza è pur sempre notevole. Quanto al non essere quel paragone posto nel Cortegiano in bocca al Calmeta, non è una circostanza che punto mi faccia ostacolo. Al Calmeta è dato ben poco posto nel libro, nes- suno nella discussione sulla lingua; oso dire perchè non era lui davvero l’uomo a cui il Castiglione avesse piacere di commettere la difesa delle vedute che gli erano care, e che d'altronde collimavano colle sue fino ad un certo segno soltanto.

Sicchè il Castelvetro è da giudicare una guida al tempo stesso più sicura e meno informata. Presso di lui la teo- rica calmetiana, del pari che suoni più distinti, li anche meno acuti, in quanto alla Corte di Roma è commesso sem- plicemente l'ufficio di affinatrice. Ora, non è punto invero-

La Lingua Cortigiana. . SU

lsimile che a presentare le cose in questa forma più tem- ‚perata il Calmeta fosse indotto precisamente dalle discus- ‘sioni che sera trovato a dover sostenere. Si direbbe per- sino che con quel suo affermar che Dante e il Petrarca fossero esemplari solenni di Lingua Cortigiana, egli volesse rispondere all’obiezione presso il Bembo affacciata come argomento finale dal Magnifico, che a siffatta lingua man- cassero gli scrittori.

Questo modo indiretto e facilmente impugnabile di invo- care l’Alighieri dice bene che ne mancava uno più diretto, ossia che del De vulgari Eloquentia non s’ aveva cono- scenza alcuna. Non appena il trattato sbucherà dal suo . nascondiglio la questione della lingua sarà oramai tutta combattuta dattorno ad esso. Non è dunque dovuta a deri- vazione l’analogia tra le idee del Calmeta e quelle dell’Ali- ghieri !); analogia non piccola, nonostante che s'accompagni con un’opposizione esteriore, in quanto la teorica veste da una parte carattere guelfo, mentre dall’altra ci apparisce ghibellina. A concepire le cose com'egli fece, il Calmeta fu portato dalla nascita e vita non toscana, e dal lungo pra- ticar per le corti; e dati i concetti, veniva per lui addirit- tura ad essere imposta quella denominazione di Lingua Cortigiana, in cui l’aulicum e il curiale risorgono. Imma- ginare una conoscenza dissimulata per adornarsi delle penne dantesche, non è lecito, fatta ragione dei tempi. Ed anche le circostanze d’indole materiale portano alla conclusione medesima. Bensi, posta la conformità intrinseca ed estrinseca, non poteva poi evitarsi una mescolanza nelle menti altrui. E mescolanza si produsse altresì colle opinioni, professate (a parole molto più che a fatti, alla maniera di Dante) dal Castiglione ?); il quale, nonostante che in nessun luogo,

1) Cfr. l'«Introduzione » alla mia edizione critica maggiore del De vulg. Elog., p. 1, n. 3.

3) Si veda in particolar modo, tra i capitoli citati, il xxxıv, e in- sieme la seconda parte della lettera dedicatoria a D. Michel de Silva.

304 P. Rajna,

forse appunto per non confondersi col Calmeta, usi l’espres- sione « Lingua Cortigiana », si vede condannato dal Tolo- mei nel Cesano ad esserne il paladino 1).

Contro la lingua Cortigiana concepita alla maniera come dovrebbe secondo lui averla intesa il Calmeta, cioè per la lingua che si venga foggiando nella Corte di Roma, il Bembo ha addotto la ragione della somma instabilità; con- tro di essa presa in senso più largo e indeterminato, Lo- dovico Martelli, il sagacissimo avversario levatosi a oppu- ‚gnare l’Epistola del Trissino de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua Italiana, mette in campo la svaria- tezza de’ modi come nelle corti si parla e la conseguente ‚inafferrabilitä di quel predicato idioma, «che tanto mi pare che chiamar Cortigiano si deggia, quanto il fumo odorifero delle sagrificate Vittime, sagrificata carne chiamar si deve?)». Guarda nettamente le cose sotto l’uno e l’altro aspetto °) il poderoso autore del Discorso o Dialogo machiavel- liano: « E se tu mi allegasse », dice egli a Dante, «il par- lar curiale, » (un «curiale» che è già stato reso con « cor- tigiano ») «ti rispondo, se tu parli delle Corti di Milano o di Napoli, che tutte tengono del luoco de la patria loro, e quelli hanno più di buono, che più s'accostano al To- scano e più l’imitano...; ma se tu parli della Corte di Roma, tu parli d'un luogo dove si parla di tanti modi, di quante nationi *) vi sono, se li può dare in modo alcuno re-

') P. 18 nell'ed. orig., p. 24 nella ristampa Daelli. Qui almeno c'era convenienza sostanziale. Ma non è accaduto anche al Trissino, al pertinace propugnatore dell'italianità della lingua, di essere fatto invece portabandiera della denominazione « Lingua Cortigiana »? V. le Opere di G. B. GeLLI, Firenze, 1855, p. 309.

*) Carte 5 v.° nell'edizione originaria.

*) Nel Bembo, come s' è visto (p. 299), dal secondo, affacciato nel- l'iaterrogazione del Magnifico, s'erano staccati gli occhi avanti di fermarli.

*) S'abbia a mente che «nazione » nel cinquecento si dice anche d'ogni provincia e città: « nazione veneziana », « ferrarese », « fio- rentina », ecc.

La Lingua Cortigiana. 305

gola. » !) Sembra dunque che la Lingua Cortigiana non ab- bia concretezza nessuna, sia un mero fantasma; sennonchè avviene altresì che se ne parli in maniera diversa, perfino dalle medesime persone.

« Dimmi un poco », ha chiesto prima a Dante il suo strin- gente interlocutore, «che vuol dire in quella lingua cu- riale morse?» E Dante ha risposto « Vuol dire mori», dando modo all’avversario di mostrargli che da lui il vo- cabolo non è già adoperato in questo senso, bensì qual voce del verbo mordere, giusta l’uso di Firenze. La testimo- | nianza è di singolare valore, perchè viene da un fiorentino, e da un fiorentino cosiffatto. Ma quantitativamente ci offre ben altro il Trissino, il quale, a chi volesse, permetterebbe di riempire addirittura i magazzini.

Capitale il passo alla fine dell’Epistola già menzionata, quando lo scrittore rende conto della pronunzia ibrida a cui s'è voluto attenere e che mediante 1 suoi arjifici di nuove lettere (tra i quali, qui a me torna di riprodurre soltanto, e solo negli esempi, w ed e per i suoni larghi di fronte ad o ed e per i chiusi ?)) viene a rappresentare distintamente:

. In molti vocaboli mi parto da l’uso Fiorentino, e li pronuntio secondo l’uso Cortigiano; com'è hwmo dico, e non huwmo; wgnt, e non ogni; composto, e non compo. sto; fwrse, e non forse; her, e non hor; biswgna, e non bisogna, vergugna, e non vergogna; sposa, e non spwsa; lettera, e non lettera; swgno, e non sogno; Regno, e non Regno; senza e non sanza; et alcuni altri simili; come ne la nostra Sophonisba si può vedere. In alcuni altri vo- cabuli pol sono quasi che troppo Fiorentino; come è porre dico, e non pwrre; pose, e non pwse; meco, e non meco; e così dico teco, seco, me, te, se; e non teco, seco, me,

e

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1) A carte 136 v.°-137 r.° nel codice originario di Giuliano Ricci, che è il Palatino E. B. 15. 10.

*) Così nella prima fase. Più tardi, quanto ad w e o, la pratica sarà rovesciata, V. la mia « Introduzione » al De vulg. Elog., p. xxxvni.

37

306 P. Rajna,

te, se; et anchora leggie, tiepido, allegro, debile, stette, disio, sicuro, cuwre, et altri molti simili; come ne la pre- detta Sophonisba si vede; ne la quale tanto ho imitato il Toscano, quanto ch'io mi pensava dal resto d'Italia poter essere facilmente inteso; ma, dove il Tosco parea far difficultà, l’abandonava, e mi riduceva al Cortigiano, e com- mune. Il che quanto io abbia saputo fare al giuditio d’al- - tri starà; io certamente l’ho tentato. » E qui si seguita di- cendo con molte parole, non tutte ben nette, come, fioren- tineggiando, si sia dato il suono largo ai dittonghi ie e uw !); conchiudendo poi che si reputa «manco riprensibile pec- cato l’accostarsi troppo al Toscano, che ‘| discostarsi troppo da esso». Tale si legge questo passo nell’ edizione ro- mana originaria del 1524; mentre nella ristampa vicentina, da assegnarsi al 1528 ?), esso, per motivi secondo me pu- ramente tipografici, è scorciato d’assai 5), |

A una promunzia «Illustre e Cortigiana » in contrappo- sto colla Toscana, si riferisce come a cosa di fatto il Tris- sino anche a proposito di sc dinanzi a e in un luogo non chiarissimo dei Dubbii Grammaticali: «et essendo tale pronunzia particulare di alcuni popoli di Toscana, e non Illustre e Cortigiana, lasciaremola, secondo che trovata l’ab- biamo » *).

A cotali affermazioni riguardanti la fonetica, viene a met- terne accanto delle morfologiche la Grammatichetta. Si consideri questo duplice paradigma di « soggiuntivo reddi-

_—»

1) S'avverte tuttavia (ed è avvertenza gradita) che anche presso i fiorentini l'e di ie «non è pienamente grande et aperta; ma declina verso la chiusa ». E il medesimo par volersi dire dell'® di sea.

3) Le ragioni ce le fornisce l'avvertenza dello stampatore, quando ricorra alla p. Lx della mia «Introduzione » al De vulg. Elog.

*) Mediante lo scorciamento, I’ Epistola entra in un foglio di quat- tro carte. Se non fosse per ciò, perchè toglier nulla, una volta che le cose dette, non escluso l'o stretto di sposa, rispondevano alla pronunzia che il Trissino ancora praticava?

*) Carta 7 v.° (II, 211 nell'ediz. Maffei delle Opere).

La Lingua Cortigiana. 307

tivo», cioè di condizionale: « nel sing. io honoreria, tu honoreresti, quello honoreria, nel plur. noi honoreressimo, vot honorereste, quelli honoreriano. E toscano, nel sing. io honorerei» ecc. La contrapposizione qui offertaci si ri- pete negli altri casi analoghi: «io haveria, tu haverestt, quello haveria honorato ... E Toscano... 10 haverei... honorato» ecc.; «io seria... honorato ... E Toscano, 10 serei... honorato»; «io seria stato... honorato ... E To- scano,... 10 sarei stato... honoralo»; «to leggeria... E Toscano,... io leggerei »: e così di seguito. Similmente, dopo essersi poste ai luoghi loro le forme ch'io honore, quello honore, quelli honoreno, ch'io honorasse, che noi honorassemo, ch'io leggesse, che noi leggessemo, e leg- geno, leggesseno, senteno, sentisseno, s'insegna che gli e della prima serie di terminazioni si possono mutare in 12, quelli della seconda in 0, e che «questa mutazione di e, in é, et in o, è secondo la lingua Fiorentina». occor- rono assegnazioni espresse perchè s’abbia da ravvisare Cor: tigiano e Toscano quando al «Passato indeterminato » ci si leggei, leggeo, leggerono, e lessi, lesse, lesseno 3), e al Participio passato leggiuto e letto.

Chiaro poi, considerati i criteri da cui la lingua del Trissino è governata, che al Cortigiano appartiene anche ciò che nella Grammatichella, pur presentandosi senza com- petitori, dissente dalla toscanità: come a dire 1 presenti leggemo, sentimo. E movendo di qui, si può uscire dai can- celli della teorica e raccogliere a piene mani da ogni scrit- tura del letterato vicentino, in quanto è manifestamente da assegnare al Cortigiano tutto ciò che poco o tanto dissente dal Toscano, e anche solo: propriamente dal Fiorentino.

1) Quanto a lessero (propriamente l'esempio è scrissero) e alle uscite analoghe, che del pari s’ammettono, della 3.º di plurale dell'imper- fetto del soggiuntivo e del condizionale in tutte le coniugazioni (amas- sero, amerebbero, ecc.), sono assegnate alla «lingua Siciliana e Pu- gliese ». V. anche Castellano, p. 45 nella ristampa Daelli.

308 P. Rajna,

Prendo così, per esempio, J Ritratti nell’ edizione romana del 1524, dove pertanto w dice o largo, e seguendo l’or- dine del testo, rilevo, in aggiunta e talora a dichiarazione del già visto: et dinanzi a vocale, e dinanzi a consonante constretto intentione ecc. ne congiunzione hora avverbio, accanto, nonchè ad hora sostantivo, ad anchora, alhora?) commodamente salisfare eliandio ogniuno deggia, deggio devete differentia ecc. Gentilhomini Advenne labro eterne lun- tano, alluntanare pictori essendo elesse, elette excellente saperanno, saperele ongie, unghie diffundeno equale extende humeri pos- satura ‘del collo etate devrebbe faccendole. Ciò nelle prime dieci pagine. Di seguitare più oltre lo spoglio e di ridurlo a disposizione sistematica, non è questo il mo- mento per me.

Sicchè da un lato pare che una Lingua Cortigiana non esistesse, dall'altro ci si fa propriamente innanzi. Come si concilia la contraddizione?

Un linguaggio vero e proprio con fattezze stabili e che a tutti apparissero le medesime, non c’era di sicuro, nep- pure se ci si rinchiude nella Corte Romana. Ricorriamo a Paolo Cortese, protonotario apostolico, uomo di Curia se altri mai, avvezzo fin da fanciullo alle famigliarità prela- tizie ?), nato di un padre capo degli Abbreviatori pontifici egli stesso. Che se la famiglia era di S. Gimignano e se nella quiete di quei colli Paolo si ritrasse a vivere quelli che furono per lui gli ultimi anni, già fin dal 1430 all’incirca i Cortese avevano preso dimora in Roma’). E cresce an-

nn

1) Un'altra distinzione notevole nel che, a cui si attribuisce l'e largo - quando risponde al quam latino. Con fondamento nella pronunzia, o senza di esso? Vien fatto di considerare che l'e è largo anche attual- mente nel che esclamativo. :

4) Si veda un passo d'una sua lettera riferito nella biografia pre- messa al De hominibus doctis nell'edizione del 1730: p. 111.

* De homin. doctis, ed. cit., p. 47; De Cardinalatu, proemio.

La Lingua Cortigiana. 309

cora opportunità alla testimonianza sua l’aver egli raccolto in casa propria un’Accademia letteraria, esaltata nella Vita di Seraphino Aquilano dal nostro Calmeta, tutto glorioso di averne fatto parte. Ora, nell'ampia opera De Cardina- latu, uscita nel 1510 (fu finita di stampare quando l’autore era già morto), un lungo capitolo, il nono del 1. II, s’in- titola De sermone; e si tratta diffusamente dell’uso che i Cardinali devono far spesso «Italica locutione» e s'in- daga « Quod nam maxime sit sermonis probandum genus », senza che una Lingua Cortigiana ci si mostri per nulla. Si parla bensì di partigiani di un volgare ricercato e latineg- giante, e da loro si dissente, respingendo d'altra parte i bar- barismi e i solecismi plebei di qualsivoglia provincia. E dei parlari regionali si fa una compendiosa rassegna, ferman- dosi maggiormente sul toscano e dandogli la palma. E dun- que di certo il toscano che si preferisce di sentire sulle labbra cardinalizie: non un toscano sguaiato; bensì il to- scano affinatosi per fatto degli scrittori, tra i quali si ce- lebrano specialmente Dante e il Petrarca, anteponendo il secondo per ciò che spetta a eleganza di forma. Ed è utile il vedere come alla mente del Cortese il volgare scritto e il parlato s'affaccino insieme e indistintamente (del Boccac: cio pure, del Villani e del Bembo accadrà poi che si toc- chi), sicchè le cose che egli ci dice riescono applicabili anche all’uso letterario, ed anche proprio, se si vuole, al poetico, da essere termine di confronto ben legittimo per le stesse dottrine calmetiane della Volgar Poesia giusta l'esposizione del Castelvetro.

Se una speciale Lingua Cortigiana non s’aveva in Roma al tempo di Alessandro VI e di Giulio II, meno che mai si può immaginare che ci fosse durante i Papati Medicei che tennero dietro, di Leone X e di Clemente VII: quando la Corte s'era riempita di fiorentini; quando, secondo la rappresentazione del bellunese Gio. Pierio Valeriano, ossia Giovan Pietro Bolzani, che scriveva sotto Clemente e met- teva la scena al tempo di Leone, in Roma non si poteva

310 P. Rajna,

più vivere « dapoi che son usciti fuora certi soventi, certi eglino, certi uopi, certi chenti, e simili strani galavroni », e quando un pover’ uomo del vecchio stampo non poteva passeggiare per Parione senza che «questi giovanotti dot- tarelli » porgesser l'orecchio, e riprendessero e canzonas- sero tutto ciò che non fosse toscano !).

Sta bensì che (lasciando stare il Bembo, malamente af- ferrabile) parla in altra maniera ii Castelvetro ?). In mezzo all’intricato viluppo in cui lo trae il bisogno prepotente di sempre contradire, egli si riduce a dar corpo a ciò che aveva rimproverato acerbamente al Bembo di far dire al Calmeta. «La... moltitudine » convenuta a Roma, «non pure da tutte le parti d’Italia, ma da tutte le parti del mondo », vi ha costituito da tempo immemorabile « una forma nuova di lingua », artificiale e distinta dalla favella indi- gena, con «sue leggi, & sue regole», della quale fanno uso i prelati e la loro numerosissima clientela, e che si tramanda giù giù senza gravi mutazioni. Essa, per effetto della prevalenza italiana, è riuscita italiana e non fore- stiera; segue in gran parte il toscano, « perciò che i primi cortigiani, dotati di sottile intelletto, come il più di loro sono, videro che, se così facevano, erano per essere più lodati, che se fosse usata la proferenza confusa di Lom- bardia, o d'altra contrada » ; prende dal latino « molti corpi di parole» e «molti modi di dire» «per potersi fare in- tendere agli stranieri cortigiani »; e alla latina inflette al- cune forme verbali, «come Dicete, Facete, Dicere, Fa- cere ». Sennonchè, trasportata dal mondo delle costruzioni fantastiche a quello della realtà, questa Lingua Cortigiana del Castelvetro non è, a mio giudizio, che il parlare stesso di Roma, piegato a forma più toscana per via della grande moltitudine che dalla Toscana era accorsa e per ragione

ent sesti ii uurm____y____r________r____——_________y ___—_———— —————_——r_r_—_—_—_r_rT_————_——————————————— ——————

1) Dialogo della Volgar Lingua, stampato a Venezia gran tempo dopo la morte dell'autore, nel 1620; p. 11. *) Ed. cit., p. 220-223.

La Lingua Corligiana. 311 altresì delle azioni letterarie a cui i parlanti di condizione elevata erano troppo naturalmente soggetti, e cosparso di latinismi per il contagio curiale e chiesastico. E il volgare romanesco co’ suoi affini ci subito ragione del dicete, del facete, del dicere. codesta favella perde nulla di dignità ad essere giudicata in siffatta maniera; essa che, per sentenza appunto del Castelvetro, non era «da usare altrove che in Roma, o in ragionando con altri che con prelati & cortigiani, o in iscrivendo ad altri che a prelati & a cortigiani per potere accattare la gratia loro ».

Più o meno affinato o corrotto, il parlare di Roma aveva di certo avuto posto anche nella Corte assai più multiforme della prima metà del secolo. Ma non era esso davvero la Lingua Cortigiana di cui tanti s'erano fatti propugnatori. Questa era costituita da un insieme di tendenze negative prima ancora che positive. Sotto la bandiera della Lingua Cortigiana si raccoglievano tutte le opposizioni al pretto toscanesimo e fiorentinismo. Su quella bandiera stavano scritte due parole, Universalità e Nobiltà, le quali dove- vano esser norma alle esclusioni ed alla scelta. Ma la ban- diera era variopinta, anzi addirittura iridescente, e tessuta del resto di filo fiorentino essa stessa, se ne rendessero poi, o non se ne rendessero ben conto coloro che la sventola- vano. Ché il gran fondo del linguaggio era per tutti for- nito da Dante, dal Boccaccio, dal Petrarca, per non dire dei tanti minori: più grato ai Cortigiani il Petrarca, perchè di sicuro meno idiomatico!). E grazie per un rispetto in particolar modo al Petrarca, per un secondo allo studio del volar alto, per un terzo all’antitoscanesimo, la Lingua Cortigiana faceva buon viso a non poche forme poetiche ?),

1) «... Nel Petrarca», farà dire il Trissino da Giovanni Rucel- lai (Castellano, p. 38 nell'edizione Daelli), «è molto del parlare co | mune, e poco del particular nostro Fiorentino. » E su questo punto ritorna più oltre con osservazioni particolareggiate (p. 46).

7) A questo proposito, e a quello di cui s'è toccato prima, giova riportare un brano del Martelli, nel luogo citato a p. 304: « Il Pe-

312 | P. Rajna,

Il sentimento poi antitoscano apriva volentieri le porte a elementi provinciali; con fedeltà alle dottrine, allorchè in essi convenissero parecchie parlate, oppure quando pa- ressero più integri e regolari, il che avveniva soprattutto se meglio vi si rispecchiava il latino !). Giacchè nel latino tenevano di continuo gli sguardi, non tanto perchè il latino, noto ad ogni persona colta, giovasse all’universalità, quanto perchè il colorito latino sembrava conferire alla no- biltà più di qualsivoglia altra cosa. La regolarità gramma- ticale, ch'era in sostanza ancor essa un aspetto della na- biltà, poteva condurre ad adottare perfino forme fittizie. Delle voci forestiere non parlo, dacchè rispetto ad esse non c é differenza nessuna fra non toscani e toscani ?).

Tutto ciò si contemperava in modo singolarmente vario. Ma se pertanto quello che veniva a resultarne non era una lingua, bastava esuberantemente a suscitarne l'apparenza, una volta che il tanto discorrere aveva reso famigliari col concetto e che l’esistenza di un vocabolo dava concretezza all'idea. E se ci si chiude entro certi confini di luogo e

———

trarca adonque schifatp in parte un largo modo di scrivere, che forse in Dante conobbe, di che fu il Boccaccio meno schifo, scrisse nella Fiorentina lingua, alquanto ristretta, et di più adorneza arric[c]hita, usando ancora molti vocaboli gli quali poetici chiamar si possono, et deono, conciò sia che ne le prose non si convegnano, come etian- dio nelli latini adviene, et questa è quella ch'eglino chiamano cor- tigiana. »

1) Mi limiterò a riportare queste parole del Trissino nei Dubbii Grammaticali, alla fine del capitolo «Se le lettere Italiane si denno dividere, et ordinare come la latina, 0 nö»: €..... Quando le pa- role sono in dui o più diversi usi, secondo le diverse lingue di Ita- lia, quello uso a pare, che sia da elegere, e da stimare più Il- lustre, e Cortigiano, il quale più al latino s'accosta ». Il medesimo viene a dire il Castiglione, così nella lettera dedicatoria (p. 6-7 nel- l’ed. del Cian), come nel capitolo xxxv del |. I. E si vedano altri esempi alla fine del capitolo xxxıx.

*) Si confrontino il cap. xxxıv del Castiglione e l’ultimo capoverso della parte introduttoria dello scritto machiavelliano. |

La Lingua Cortigiana. 313

più ancora di tempo, qualcosa da arieggiare un uso veniva pure a disegnarsi. Così non riesce di spiegazione difficile quanto s'è raccolto dalle opere del Trissino. è difficile troppo il ritrovare nelle categorie che si son venute enu- merando o adombrando, le ragioni, complesse non di rado, degli elementi singoli. Senza dar qui luogo a una spiega- zione completa, che riuscirebbe lunga e in non piccola parte superflua, rileverò come dal modo come si pronunziava, ed erroneamente credeva essersi pronunziato in antico il latino, provengano per lo più, o ricevan rincalzo, gli o ed e non toscanamente larghi 1), mentre son dovuti al consenso delle favelle non toscane (ignare a quel tempo di aver dalla loro i diritti della fonetica storica) quelli stretti di sposa e lettera. Il condizionale in -ia è ad un tempo pro- vinciale e poetico ?); ma è provinciale soltanto la prima persona plurale in -essimo. Provinciale è del pari il leg- giuto, favorito insieme dalla tendenza a forme analogica- mente regolari, promotrici altresì del leggei, leggerono *). Quanto al morse del Discorso o Dialogo, si poteva sentire a Siena, a Pisa, a Lucca, a Bologna, e in non so quant'altri luoghi 4). |

Le idee cortigiane servivano spesso assai a mascherar l'ignoranza; e professate a rigore producevano povertà o

1) Trissino, Dubbii Grammaticali, alla fine del primo «Dubbio » o capitolo: «E che i latini non havesseno detti elementi,» (l’e e l'o «ottuso ») <a ciascun perito di leggere il latino può essere mani- festo; conciò sia nel leggerlo non si pronunzia mai se non lo o, e lo e, kiaro, et aperto, perciò che Ijaltri non hanno. »

*) V. Castellano, p. 45 nell'ed. Daelli.

*) Codesta tendenza essendo generale, s'intende che forme da met- tere con leggei, leggiuto, e anche proprio leggiuto, s'incontrano spo- radicamente in Firenze stessa. Una copiosa raccolta offre il Nannucci, Analisi critica dei Verbi italiani, p. 204-219. E si veda leggiuto an- che nel Dizionario della Lingua italiana del Tommaseo.

*) Che morse scrivesse il Pisano Cavalca, morse il Caro, è nelle regole; curioso bensì cha morse uscisse una volta anche dalla penna del fiorentino Giambullari. V. NANNUCCI, op. cit., p. 227.

38

314 P. Rajna, La Ling. Cort.

goffaggine. Anche in forma più temperata nocquero non poco alla letteratura italiana. Ciò non vuol dire che in quei criteri della Nobiltà e della Universalità non ci fosse del buono e del vero. Col fatto era loro prestato largo, fin troppo largo omaggio da coloro stessi che ne combattevano i sostenitori. Con una pretta parlata locale una lingua let- teraria non può mai identificarsi a lungo. E se da una parte è potente il bisogno, inestimabile il beneficio, del rin- ‘frescarsi alle sorgenti vive, dall’ altra intorno alle sor- genti non si può tutti raccogliersi, e bisogna che di le acque, non più così fresche, e turbate bensì, ma fatte insieme più copiose, da altri contributi, si diramino ad irrigare e fe- condare un vasto paese. Di queste opposte necessità e di ciò che da esse deriva si è venuti facendosi coll’andare del tempo più consci; ed è bello il vedere come modernamente, all’opposto di quel che di regola avveniva nel campanilesco cinquecento, i più caldi sostenitori del fiorentinismo ad ol- tranza si siano avuti per l'appunto lontano da Firenze. Quanto ne gioirebbe l’anima di Dante, e con quale effusione il testimonio degli abbracciamenti di Sordello e Virgilio abbraccerebbe gli avversari (avversari anche se loro acca- deva di vestirsi da pietosi interpreti) delle teoriche profes- sato nel De vulgari Eloquentia!

P. E. PAVOLINI.

UNA SUKTAVALI GIAINICA ANONIMA,

Il ms. G. 135, A della Biblioteca Nazionale di Firenze contiene un’antologia di circa 150 versi edificanti, simili per il contenuto e per la forma a quelli del Sindurapra- kara, da me tradotto, e del quale 8 strofe si ritrovano in questa raccolta. Parecchie delle altre si leggono, con qual- che variante, nella Subhäsitävali ed in raccolte congeneri: non meno di 52 corrispondono ad altrettante strofe degli Indische Sprüche beethlingkiani. Resterebbe così un’ottan- tina di versi la cui pubblicazione non sarebbe inutile con- tributo alla gnomica giainica. Se non che, se non è sempre agevole sicuro il curare l’edizione di un testo in base ad un solo ms., l’impresa diventa più che ardua, quasi impossibile, quando il ms. sia, come. il nostro, di una in- credibile scorrettezza, tanto da trovarvisi appena qua e un pdda scevro di errori. Basti un esempio per tutti: la trascrizione del v. 41, più sotto emendato, e che non è certo dei peggiori che s'incontrino nel nostro ms.:

ya ripavinasanim sa mrtiharä | pamcaidriyäkürsani

caksucraumttalaläfadainyakarani | veragyasapatanim

bamdhümnäm tyajati vedecagamani | cäridratrabidhvasani

mäneti prati sarvabhütadamini | pränaprahäri ksudhä Da queste 80 strofe, più o meno facilmente emendabili, ne ho scelte una ventina, delle più graziose e caratteristiche, e tali che varranno a dare un'idea dell’indole di tutta la raccolta. Motivi principali della quale sono l’insaziabilità

316 P. E. Pavolini,

degli umani desideri, la fugacità della vita, della bellezza, della felicità, la necessità della liberazione dal samsära, raggiungibile solamente mediante la meditazione, la reli- gione, e l'esercizio delle più pure e nobili virtù. Qualche verso profano si è infiltrato nella raccolta morale: e ne ho trascritto uno (1'85º) di un particolare interesse, come quello che tontiehe unà curiosa caratteristica etnografica.

J.

(5) dharmah kalpadrumo loke, dharmaç cintâmanir nrnäm dharmah kämadugdhä dhenur, dharmah kim ’ksayo [nidhih.

II.

(6) räjyam, susampado, bhogäh, kule janma, surüpatä, mändityam, äyur, ärogyam dharmasyai ‘tat phalam

[viduh. III. (7) dharmo duhkha-davänalasya jaladah | so’ py eka- [cintâmanih dharmo roga-mahôragasya Garudo | dharmo ’vipaj- | [jälakah

dharmah praudha-pada-prado Jinapado | dharmo [dvitiyah sakha dharmo janma-jarä-mrti-ksaya-karo | dharmo hi carma-

[pradah. IV. (17) nänäyonim vrajitvä | bahuvidham acubham | vedana [vedayitva samsäré cäturange | jard-marana-yute | dirghakalam ca [mitva

anyonyam bhaktayitva | jalacara-khacar | -neka- [yonisu jato

Una süklävali giainica anonima. 317

labdho yo mãnusatvam | na carati sutapo | nigcito 80 [varäkah.

V.

(18) !mänusyam, 3 varavamçajanma, *vibhavo | *dirghäyur, [5 arogyata, 6 sanmitram, 7 susutah, çucih ® priyatama | ? bhaktic [ca Tirthamkare, 10 vidvattvam, !! sujanatvam, 1? indriyajayah | satyä- [vadane rats

te punyena vinã trayodaça gunäh | samsärinäm [durlabhäh.

VI.

(22) no danam vihitam, tapo na caritam | cilam ca no [palitam tattvätattva-vicäranä ca na krtã | no bhavana bhävitä sevä sädhu-Jinasya, bhaktir amala | na 'kãri tirtham | [cubham ha kastam! viphalo gato nara-bhavo | ’ranye yathä [malati.

VII.

(28) gurúpadeçãh cruti-mandanäni satyam mukhälamkaranam ca yosäm karâmbuje kankanam eva danam sarvânga-çrngãra-karam ca cilam.

VIII.

(34) sarvesu jivesu dayäm kuru tvam sattvavaco bruhi, dhanam paresim ca’brahmasevam tyaja sarvakälam: parigtaham mufica, ku-yoni-bijam.

318 P. E. Pavolini,

IX.

(36) dharmavato hi jivasya bhrtyah kalpadrumo bhavet cintimanih karmakarah, kämadhenus tu kimkari.

X,

(37) dharmena putrapauträdi sarvam sampadyate nrnäm grha-vähana-vastüni räjyälamkäranäni ca.

XI.

(41) ya sa rüpavinäcini smrti-harä | paficèndriyàkarsani caksuh-crotra-laläia-dainya-karani | vairägya- [sampätani bandhünäm tyajati, videca-gamani | caritra-vidh varesini mim eti prati sarva-bhüta-damani | präna-prahäri [ksudhä.

XII.

(60) lobhena ratrau sasukham na cete lobhena lokah samaye na bhunkte lobhena kale na karoti dharmam lobhena patre na dadati dhanam.

XIII.

(64) crisarvajfia-padArcanam, gunijane | pritir, guror sunrtà maitri jantusu, duhkhitesu ca daya | Siddhânta-tattva- [crutih pätre däna-vidhih, kasäya-vijayah | sidharmikesv [adbhutam vatsalyam, satatam parôpakaranam | karyam |bhavadbhih sada.

Una süklävali giainica anonima. 319

XIV.

(70) danena bhogän, dayayä ca rüpasn dhyänena moksam, tapasê 'stasiddhim satyena väkyam, praçamena püjäm vratena sanmãrgam upaiti martyah.

XV.

(73) nare pracakri, tridaçesu vajri mrgesu simhah, praçamo vratesu mato mahiblırtsu Suvarnaçailah bhavesu manusya-bhavam pradhänam.

XVI. (85) Dhakkah svártha-parãh, Svaçã jada-dhiyo | dhürtä [| Mahãrastriyo Gaudä kärya-vicaksanäh cruti-parä | Vairätikäh [kubjakah Kälingäs tu catha, Varah sumanasah | Karnataka [nisthura antar-güdha-nibaddha-vaira-hrdayäh | präyo nara [Gurjarah XVII. (91) no vaidyä na ca bhesajam na ca pità | no bändhavä [no sutãh na ’rtho na svajano na va parijanah | carirakam no [balam na bhistã kula-devatä, na janani | premänubandhän- [vita

no caktah sphutitam suräsura-varäh | samdhätum [äyur-balam.

320 P. E. Pavolini, Una suktavali giainica anon.

XVIII.

(118) mämsam mrgänäm, dacanam gajänäm phalam drumänäm, cikuram ca gonäm atyanta-rupam yuvatijanânim gunädhikä vaira-karä bhavanti.

XIX.

(124) samgrâma-sãgara-karindra-bhujanga-simha- durvyadhi-vahni-ripu-bandhana-sambhavani caura-graha-jvara-nicacara-cakininam nacyanti Pañca-parames/hi-pade bhayäni.

XX.

(137) caksur na trptam bahu-divya-rúpaih crotram na trptam bahu-nãda-gitaih nasa na trptä vara-gandha-väsaih svadair na trptä rasanã sadai ’va.

Firenze, R. Istituto di Studi superiori.

I. GUIDI.

UNA SOMIGLIANZA FRA LA STORIA DELL’ ARABO E DEL LATINO.

Sul finire del VI secolo dell’éra nostra, la lingua araba era gia parlata da si lungo tempo ed in si grande esten- sione di paese, che è naturale supporre vi fossero fra le molte tribù, grandi differenze di dialetto, e ben più nume- rose ed importanti di quelle ricordate dai grammatici. Se- nonchè lasciando da parte le iscrizioni di Ola (Libyan), di Safa e affini, ed una o due altre, troppo poche e troppo incerte per poter trarne conclusioni precise, i monumenti che ci rimangono della lingua araba, anteriori al VII sec., cioè, quasi esclusivamente, le poesie anteislamiche, ci mo- strano una lingua che può dirsi la medesima dappertutto. E tuttavia, se si eccettuano gli Arabi che abitavano l’estremo nord-ovest della penisola, la poesia era coltivata dalla maggior parte delle tribù arabe.

Confesso che un tal fatto non mi pare che possa spie- garsi se non ammettendo l’esistenza di una specie di lin- guaggio poetico, il quale, formatosi a poco a poco, restò poi stabile e fisso, grazie specialmente al metro ed alla rima. Codesto linguaggio in uso generale presso tutti i poeti, era però, secondo le varie tribù, più o men diverso dalla lingua da esse parlata e volgare. Gli Arahi erano per loro natura assai amanti della poesia, la quale può

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322 I. Guidi,

dirsi che entrava a far parte degli stessi usi della loro vita, come, p. es., nel pianto solenne dei morti, nelle for- mole imprecatorie (higã”) ecc. e le gare poetiche, come quelle famose della fiera di ‘Ukaz, ci rendono testimo- nianza di questo loro amore alla poesia. Credevasi che il poeta ricevesse ispirazioni soprannaturali, onde era gran- demente rispettato, ed in affari gravi la tribù si atteneva a quello che il poeta decideva.

Altra prova dell’amore degli Arabi per la poesia sono i numerosi rãwi, i quali, in caso contrario, non sarebbero sorti avrebbero prosperato, come non avrebbero fiorito i rapsodi, se il popolo greco non avesse preso grandissimo piacere alle recitazioni dei cicli epici o dei versi giambici. Onde vediamo che spesso varie persone di una medesima famiglia erano poeti, come p. es. Zuhayr, l’autore della mu ‘allaga, il suo figlio Ka *b ecc. non troppo dissimilmente dagli ‘Oumeidac di Chio.

Considerando dunque la grande propensione degli Arabi per la poesia, il diletto che prendevano nell’ascoltarla, l’a- doperarla, dirò così, quotidianamente, e le gare cui pren- devano parte poeti di disparate tribù, mi par ben naturale il supporre che si formasse e man mano si perfezionasse un linguaggio poetico comune a tutti. In circostanze simili anche altri popoli, naturalmente propensi alla poesia, hanno formato un linguaggio poetico, come, p. es., il così detto dialetto epico greco, che non rappresenta integralmente alcun dialetto ellenico parlato, ma che pur era general- mente inteso. La poesia provenzale ha un tipo comune di lingua, il quale sarà stato molto simile al limosino, ma non era certo il puro limosino ed ancor meno il dialetto dei vari paesi, dove tuttavia i trovatori cantavano ascoltati con grande diletto; sarebbe difficile moltiplicare gli esempi.

L'uso di una lingua poetica anche dove essa dovrebbe supporsi meno intesa, non può negarsi, quantunque sembri strano. La poesia corale dorica era recitata anche in

Una somiglianza fra la storia dell’arabo, ecc. 323

teatro, in paese non dorico; l’elegia tonica di Tirteo era divenuta poesia popolare a Sparta.

La lingua delle poesie anteislamiche è già così ricca e perfezionata che dobbiamo supporla preceduta da un lungo periodo di lenta formazione. Ma, mancandoci ogni docu- mento, sarebbe perdersi in vane congetture il voler deter- minare in qualche modo questo periodo, nel quale a poco a poco, dalle semplici assonanze del sag‘ si passò al ragaz ed agli altri metri più complicati, e da brevissime compo- sizioni a lunghe ed elaborate poesie. Quel che non può, a mio credere, negarsi è la grande influenza della civiltà sassanide, della greco-romana e del cristianesimo, esercitata specialmente per mezzo degli aramei. Numerose popolazioni arabe abitavano sui confini ed oltre i confini dei due grandi imperi; ed i piccoli regni di Hira e di Gassan, non che le vicende politiche e la coltura dell’Arabia meridionale diedero non lieve stimolo al sorgere della letteratura araba e del linguaggio poetico, alla cui formazione contribuirono le tribù più dotate di fantasia poetica e nominatamente quelle del Nagd e regioni circonvicine. Questo linguaggio ha certamente avuto influenza anche su quello del Corano, ma già dal I sec. dell’egira in più cose doveva essere di- verso da quello parlato nelle città e dalle tribù stabilite sui confini e mescolantesi con popolazioni di altra lingua. Assai somigliante invece doveva essere al parlare degli Arabi puri, i quali conservavano ancora regolarmente le vocali finali nella flessione del nome e del verbo, secondo i vari casi ed i varî modi. Anzi nell'uso regolare e co- stante di queste vocali finali consisteva probabilmente la maggior differenza fra la lingua parlata nelle città e quella dei beduini puri. Quindi è naturale ritenere che siccome "a'gama significa parlare alla guisa di un ‘agami, cioè non nel puro arabo, cosi ‘a‘raba significhi parlare alla guisa dei beduini puri, dei veri Arabi, specialmente per le vo- cali finali; donde l’origine del nome ’iräb dato ad una parte della grammatica araba.

324 I. Guidi,

Gli antichi filologi che fissarono la lingua e la gram- matica araba, avevano dunque un fondamento nella lingua delle antiche poesie che diligentemente raccoglievano e stu- diavano, non che nel parlar vivo dei beduini puri, e se fis- sarono forme che non erano più quelle usate al loro tempo nelle città, non per questo il loro lavoro può tacciarsi di arbitrario. Ciò affermo in generale; che qua e abbian mo- dificato e ridotto ad uniformità, non giustifica punto quella taccia data al loro lavoro. È noto poi che una parte della grammatica araba, nella quale si è voluto vedere un pro- cedere affatto arbitrario degli antichi filologi, cioè la de- terminazione dei nomi diptoti e triptoti, ha una conferma nei nomi propri nabatei.

Al lavoro compiuto dai filologi arabi per fissare la lingua, specialmente nelle vocali finali, mi par che faccia un qual- che raffronto quanto è avvenuto nel latino, nel III e II secolo avanti l’èra volgare.

La lingua latina si veniva modificando dalla sua forma antichissima, e per essersi cambiata radicalmente l’accen- tuazione, la quantità delle vocali finali era alterata, e molte lettere finali, specialmente M S T non si pronunciavano più, ed erano omesse nella scrittura. Non poche altre cose mostravano chiaro lo sviluppo, o decadimento che dir si voglia, del latino, quando sotto l’influenza greca, sorse la letteratura romana. Grazie specialmente all'introduzione dei metri giambici e trocaici e sopratutto dell’esametro, si arrestò quel decadimento con una pronuncia fissa ed una scrittura meglio regolata, e si restituirono vocali brevi che spesso erano omesse, e nominatamente le lettere finali, Co- minciò dunque per il latino un periodo di lingua letteraria che rimane, per la sostanza il medesimo in una letteratura durata tanto tempo, ed alla quale hanno avuto parte autori nativi di paesi disparatissimi, mentre la lingua parlata e volgare seguiva naturalmente diverse vie nel diversi paesi. Non dissimilmente presso gli Arabi accanto alla lingua letteraria fissata dai filologi, vivea e nei varî paesi si mo-

Una somiglianza fra la storia dell’arabo, ecc. 325

dificava il parlar volgare, il «sermo rusticus» per così dire, che porse occasione fin agli antichi filologi di scri- vere monografie sugli «errori del volgo» e che solo nel nostro secolo si è cominciato a studiare scientificamente, in ispecie nei suoi tardi derivati, i numerosi dialetti del- l'arabo parlato.

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FEDERICO GARLANDA.

SUL DIALETTO BIELLESE NELLA VALLE DI STRONA').

I. VOCALI TONICHE.

A

1. Generalmente si mantiene: rana rana, stanza, anima, funtana aqua fontana, lavri labium, plurale levri (ma anche lavrt), kaval.

2. Le desinenze degli infinitivi -are si mutano in e: Saute saltare, auze alzare, ecc.

3. Dal suffisso -arius abbiamo, secondo l'ipotesi del- l'Ascoli, airus e quindi e: marge, kaple, kalie caliga- rius, fre ferrarius, barbe, grane, liame letamaio, pre petrarium, secondo l’etimo del Flechia, stanine, esempio

*) Il torrente Strona, nel Biellese, ha un breve corso; nasce dalla catena delle prealpi biellesi e va a gettarsi nel Cervo, altro torrente biellese, e con questo va a confondersi nel Sesia. La vallata della Strona femminile nella parlata locale) è quasi nel mezzo del ter- ritorio biellese, fra il Cervo a occidente e la Sessera a oriente. Si divide propriamente in due parti: a nord, la valle di Mosso, a sud quella di Cossato. Anche per la sua situazione geografica, il dialetto di questa vallata (con alcune lievi variazioni fra la parte nord e la parte sud) rappresenta in modo tipico le principali caratteristiche del dialetto Biellese.

328 Federico Garlanda,

di desinenza innestata sur un diminutivo, invece di slase, Que, nome di borgata, Quario, Mie, altra borgata, Miliario, Pasque, borgata, Pasquario.

In molte parole (quasi tutte con significato letterario, ecclesiastico o forense) il suffisso -arius eri: sakarteri secretarius, lunert lunarium, velárineri, seminers, vikeri vicarius, süderi sudarium, inventeri, missiu- neri, santueri, kunfessigneri, vukabuleri, ecc.

4. ar tonico di regola passa in er: ker carus, rer rarus, amer amarus, mer mare, erbu arbor, kerpu carpino, mermu marmor, berba barba, lerÿ largus, erka arca, berka barca, skerpa scarpa, ecc.

Anche as tonico passa in es: nes naso, esu asino, pes pace, furnes fornace, tes taci, ecc.

Tuttavia, se alla r segue immediatamente d ot, ono l, Pa si conserva: lard, tard, bastard, busiard, gultard ghiottone, mustarda, Rikard, Barnard, part, quart, parla, karn. Unica eccezione è il dialetto di Trivero, dove anche in questi casi a passa in e: lerd, pert parte, quert quarto, perla parla, kern carne.

5. Alacris, gravis, macer fanno alegrv, anche, con aferesi, leQru, ÿrev e megru. Ape ev; aqua, eua; aquila, eula; castanea, kastina.

E

6. Lunga: si mantiene di regola con suono aperto: regula, re, rei, rete; chiuso in búleia, buteda apotheca.

Dinanzi a | si muta in ei: kandeila, teila tela; così pure In seira sera.

Dei verbi in -ere alcuni passano nella terza classe: temmi timere; o nella quarta: fasi tacere; altri fini- scono in ei: pudei, vulei, avei... E cosi anche verum vei.

7. Breve, fuori di posizione o in posizione debole di- venta e: dare de retro, preia, con metatesi da petra, Peru Petrus, Tiresa, tilegru telegrafo.

Sul Dialetto Biellese nella Valle di Strona. 329

8. Breve, in posizione: diventa e: kastel, bel, fer fer- rum, temp, tecé tectum, pecc pectus, erba, dent...

Lo stesso avviene quando la posizione è romanza: ben, pien, ferla ferula, vena veniat, kena catena, ecc. Perd, a Bioglio, dove l’n non si nasalizza, dicono ben, vena, kena, len lenis.

In alcune parole, specie dinanzi a doppia, diventa e: penna, benna, kresst crescere.

9. er seguito da d, ¢, n, |, si muta ina (Cfr. n.° 4), tranne che a Trivero: uarna gubernat, kuarta coperta, marlu merulus, starna avis externa (?).

I

10. Lunga: si mantiene sempre: dik dico, spiga, skrivi scribere, fidik, [iec ur] ficatum, riva ripa, mira, vivi vivere.

11. Breve, fuori di posizione: si conserva: titul, ma- gnifik, luciferu. Ma spesso, mediante il dileguo di conso- nante intermedia, si combina con vocali successive: sei sitis, pets picis.

12. Breve, di posizione: passa in e: streé o strenc strictus; sen sinus; verd viridis.

Cosi pure col gruppo ne’ ng',: vensi vincere, fenzi, lengua.

Nel gruppo eccu-iste, eccu-ille l’u si rinforza e Ji si dilegua: kust, kul.

Eccu-ille, eccu-illa ci dànno anche, passando per kiell e killa, cel e cella.

L’z si muta qualche volta nel suo affine ü: lümmi limen, früld frittata, subié sibilare.

O

13. Lunga: diventa u: amur, limur, kuruna, vus vox, karbun, pevrun peperone, sul sole e solo.

40

330 Federico Garlanda,

14. Breve, fuori di posizione: come é ci e, così à ci o: fora; ma qualchevolta passa in 6: rösa rosa, focus, locus, kaplö capoluogo. Oculus ec (cfr. n.° 17 sotto u tonico).

15. Breve, in posizione: si conserva: korp, korda, korn, kossa coxa, ort hortus, orgu organo, riorda reorta? il secondo fieno; sort, mort, mol.

Nei gruppi n + consonante, o m+consonante, si muta in u: prunt promptus, riund ritondus, lung longus. L'in- fluenza della nasale perduta si sente in kust costo, kusta constat.

U

16. Lunga: si muta in &: un, ünik, kina, mul, figura, skur oscuro.

17. Breve, fuori di posizione, rimane u: sua, tua, Qula.

La desinenza -uculus, passando per la forma -oculus, da ac: zneé genuculum, bee buculum; ma pidé peduculus.

18. Breve, in posizione: uw: lurd luridus, vulp, furka, krusta, aust augustus.

Però, spurcus spork, forse per influenza del nome pork.

Au

19. Si cambia in o (9 in posizione): posa, tor, po paucus, fo fagus, *fau; oku avica, *auca; éios clausum, ÿodi gaudere, or aurum; lobbia laubia, incost encaustum, frolla fragula, *fraula.

Kua deriva da cauda per il canale di coda. Au si mantiene in kausa, lauda alauda.

Ae

20. Passa in e: prest praesto, predika.

Sul Dialetto Biellese nella Valle di Strona. 331

Oe

21. Da e: pena, fen.

Foemina da fumna e fumbra.

Il dialetto ha molta simpatia col gruppo mbr: fumbra, fimbria fibula, númbri numerus, kukumbri cucumer, kambra camera; e col gruppo ndr: zendri genero, sendri cenere, tendri tenero.

II. VOCALI ATONE.

A

22. Protonica Iniziale. 1. D'ordinario si mantiene: abate, animal, asnet asinetto.

2. Aferesi: druue adoperare, piem. duvre, rive arri- vare, Nibele Annibale, varizia, avarizia, Agnolo, Toni Antonio, mis amico, ran aracneus,

23. Protonica Interna. Generalmente si conserva: kartun carrettone, krave caprarius, pratecca praticula.

Anche davanti a 7 si conserva: rusmarin, margarilta. Talvolta si elide: Katlina Catarina, zaffran safaran, Ga- sprin Gasparino, Massran Massarano.

Nota Kastneia, nome locale, castagneta.

Nota anche sudisfe satisfacere, lúserta lacerta.

24. Postonica finale, si conserva. Interna, generalmente si elide: Stew Stefano, garofu garofano, kumpra com- para, sukri zuccaru, sautdvu saltavano, mangu mangiano, port-lu pörta-lo, kerpu carpano.

Sénapa sindvra, anas (anatis) dnia, arabo ardb.

332 Federico Garlanda,

E

25. Protonica iniziale. Spesso cade per aferesi: Nok Enoc, spece expectare, gesa ecclesia, vangeli evangelium, Miliu Emilio, mina emina, strival, e anche stival, da aestivale, spendi exspendere, slima, skovi ex-cu- tere.

Si muta in 7 in iris da ericeus, inépst da encau- stum.

26. Protonica interna. Il più spesso si elide: kartun carrettone, snur seniore, fre ferrarius, dne dena- rius, kastlas castellaccio, fnestra fenestra, dvente diven- tare, dvia debebat, kandlin cardellino, nvu nepote.

Raramente si muta in 2: ginestra genista, Tiresa, lilejru telegrafo.

Re nei composti perde l’ e, e quindi l’r, per poter es- sere pronunziato, premette un suono affine ad un e molto indistinto: erfe refacere, ernue renovare, ermue re- mutare, ecc.

27. Postonica interna. Il più spesso si elide: zendri ge- nero, Sendri cineris, lendri tenero, vesp vesper, zi- neivru ginôpero, ripra vipera, passra passera, lessra, é metat. Irressa tessera.

Dinanzi a vocale di regola si cambia in î: lanca, Gabbia, ressia resecat.

Talvolta diventa tonica e si conserva: kadréÿa cathe- dra, risipélla risipela.

28. Postonica finale. Si elide: dman de mane, enkò (e anche encò) hodie, tard tarde.

29. Iniziale. Generalmente appartiene al prefisso in e si pronunzia con un suono incerto tra l’e e 12, che rappre- senteremo approssimativamente con e: empini implere

Sul Dialetto Biellese nella Valle di Strona. 333

(passando per plenus), enküsu incudo, entune into- naro, empreisa impresa.

Si elide in nimis inimicus, rundulina hirundo, storia, slamatin ista mane.

30. Protonica interna. Si dilegua in vsin vicino, endvine divinare, /lec filectum, smie similare, sente semi- tarium, liberta, bontà, villa, nubilla, e sim.

Si mantiene in w'dine ordinare, desvige = desge deex- citare, dial ditale, numine nominare, litide.

31. Postonica interna. Generalmente si dilegua: sals o anche sars salic-is, debli debilis, Polto Ippolito, sod solidus, verd viridis, lurd luridus, skorza cortice, kunt comit-is, ost hospit-is, post positus.

Si mantiene: #mid umido, spirit spirito, medik medico, sindi (e sindik) sindaco, subil subito.

32. Postonica finale: quando è segno del pl. maschile si elide: bun boni, lüv lupi.

0

33. Iniziale. Si muta per lo più in « toscano: usteria, ublige, uférta, ufri offerire.

34. Protonica interna. Si cangia in u: kulur, dulur, furnes fornace, buell botellus, rusá rosiata da ros» muline molinarius; coclearius krüge, krigie, küge e kige.

35. Postonica interna. Si elide l’o, ovvero si elide tutta la sillaba finale mutando Po in #: arboris ci erbu, roboris ci rul.

Il suffisso -eölus, ital. -wolo, 6: fasö phaseölus, fiô filiolus. Molti cognomi in 6 furono tortamente italianiz- zati in oglio: Agnoglio da Nö, Agnolo; Terzoglio Terzö, Terzuolo; Robioglio Rubiö, Rubiolo, Rubeolus; i catasti antichi scrivevano Rubiolo.

36. Postonica finale. Si clide,

334 Federico Garlanda,

U

37. Iniziale. Di regola si mantiene: undd undata, umbrus umbrosus, ungun unghione, usüra, urina, uvaggi, ecc,

Aferesi in Bert da Uberto, e in Baudino, cognome, da Ubaldino.

38. Protonica Interna: Diventa ü: kústodia, kira, gudizi, dürezsa duritia, fúsina fucina, Güstin Augustinus.

39. Postonica interna: Generalmente si mantiene: popul, bennula bellula, donnola, trupula, tabernakul, miraku, pinakul, napula da cunapulum? la cunetta, 11 fosso che fiancheggia una strada. Cfr. vinapula, vinello di nessun pregio.

(Noto di passata l’errore invalso nell’uso della parola pinakul, la quale, mentre significa la parte più alta della guglia, viene usata per indicare la volta dell’atrio della chiesa).

40. Postonica finale. Si elide: frút fructus, korn cornu.

Au

41. Au lat. dau: gudu gaudütus, urigga auricola, pusa, pausato. Au rom. pure à: üsel avicellus *aucellus,

Ae

42. Ae i: istd aestas, ijual (anche üdual) aequalis, dimoni daemon, quistiun quaestio, siulla (anche Sigulla), caepulla, buni bonae, ecc.

Eccez. Aeramen aram.

Sul Dialetto Biellese nella Valle di Strona. 335

IN.

CONSONANTISMO.

J,

43. 1.º Iniziale. Si muta in go in z: G'esu Jesus, gene e ane Janaurius, gust justus, gure e züre jurare, gue e zue jocare.

2.º Interno. Da anche g e 3: mag e muz majus, güne e zune dejunare; ma ie adjutare.

Il suono g prevale nella parte settentrionale della val- lata, il suono 3 nella parte meridionale.

44. Preceduta da consonante e seguita da vocale luogo a vari gruppi che considereremo a parte a parte:

a) Gruppo lja. ja: famija, fija, fjö filiolus, kampija campilia, Sajan Saliano, Vjan Viliano, Kastiun Castilione,

b) Gruppo nja. Da na: kampana, havana cavanea, ran aracneus, stan stannum, *stanium, ban bal- neus, tena tinea, kaslina castanea, stamena stami- nea, specie di stoffa.

In alcune parole, dotte o importate, resta intatto: Toni, kapitani, testimoni, dimoni, ecc.

c) Gruppo mja. Si conserva in sümmia scimia.

Del resto il gruppo mja è quasi sempre di formazione romanza: stummie, miulla midollo, miarola (miliarola, specie di uccello, e anche malattia migliare).

d) Gruppo rja. ra: era area, varole variolus, per parium, masera maceria, fnera foenaria, pera scodella (zuppiera), buskera. Sono frequenti questi nomi in -era denotanti l’uso a cui serve un luogo o un arnese.

336 Federico Garlanda,

e) Gruppo sja. DA sa: Ambrös Ambrosius, parsun prensione, gesa ecclesia, sresa cerasea, base ba- slare.

f) Gruppo tja. Ora zia: amicizia, gustizia, rigu lizia liquiritia, avarizia ...; ora 22a: freskezza, purezza, grandezza, ecc.

nti da ns: kansun, prüdensa, Lurens Laurentius.

sti ss: ostium uss, bestia bissa.

rti rs: squarsé ex-quartiare, da sversa ex-ver- ticare.

Però Martius Mars.

q) Gruppo dja. ga: rag radius, gurna diur- nus, gal ditale, ma più comunemente dial.

Però, se il d è preceduto da vocale, d’ordinario si di- legua: mild medietas, enkö (anche encô) hodie, stuje studiare, nettare.

h) Gruppo c'ja. Ordinariamente sa: Kastlas Ca- stellaccio, iris ericeus, astüs astuculum, *astu- clum, pesa picea; pesa è nel dialetto il nome generico delle piante resinose; lümasa lumacea.

Talvolta zza: sfazzá sfacciato, marluzz maris lucius.

i) Gruppo quja e kja. Dànno sa: las laqueus, bras brachium, tersia trichea.

Quietus kiet.

I) Gruppo g ja. In generale 3a: funz fungeus, sunza axungia.

Ma corrigia kureia, Georgius, G'orz.

in) Gruppo pja. Il più spesso si conserva: sapient, sapia sapiat. Altre volte da bbia: pübbia populus, *poplus, kubbia copula, stubbia stipula,

n) Gruppo bja. Si conserva: rabbia, sabbia, lobbia laubia, fibbia fibula, dbia habeat, (bia si dice comune- mente di una pianta: che bella bia! = che bella vita! che bel fusto! e il tronco tagliato si dice biun); rubbi rubeus, babbi babulus.

o) Gruppo vja. Alcune volte si conserva: diluvi, abrevie, enviare mettere in via, ciament, Valsivia lixivia.

Sul Dialetto Biellese nella Valle di Strona. 337

Altre volte g: linger leviarius; oppure passa in bia: gabbia cavea, arbi alveum. L’j scompare in piova pluvia.

Gulturali.

45. Gutturale forte k. Iniziale, generalmente si conserva: karn, korp, küra, kunt.

Si digrada in: grass crassus, gat catus, Gabbia cavea, page pacare, sjure curare, sjur secure.

Interna, tra due vocali si digrada in certe zone dialet- tali e si dilegua in altre: furmiga e furmia formica, ur- tiga e urtia ortica, spija e spia spica, psiÿa e psia vescica, ambulig, ambulin, ambuli umbilicus, salve) e salve) silvaticus, mani e manfi manico, karie e karÿe caricare. Si oscilla tra la legge piem. e la lomb.

Bulicare, passando per *bulie, ci di buge. Collocare kulie e kurie.

Kutifetta, da cutica, si pronuncia anche puligetta (cfr. XS = TEUS, ECC.).

46. Ce, cl palatall, Iniziall, pigliano un suono linguale: Sena cena, sers circulus, Sert certus, sérfei che- refillum, passando per cerefillum. Interne, pigliano il suono dell’s: düsent ducentum, franseis francese, prinsi principe, disne decenare, piasi placere.

47. M gruppo cl gg: urigga, auricula, agugga = gugga =ugga euga acucula; ma bög e bòé buculum.

48. Gutturale impura q. Si conserva in quat quatuor, qual, quintin, Quarena, Quitenÿ. Diventa gutturale forte in küsine; gutturale debole in «Qual, segui sequi: si di- legua in ava aqua, saue exaquare, eula aquila.

49. Gutturale debole q. Iniziale si mantiene: Gula, gall, garófu.

Interna, si conserva in regula, fatiÿa.

Interna tra due vocali si dilegua assai sovente: Aust Augustus, real regalis (o non piuttosto da res? infatti

41

338 Federico Garlanda,

in francese réal e non royal), leal legale, veg e vei (vago aperto). Nei catasti sono detti vaghi i siti aperti e piuttosto ventosi: onde a torto un comune detto Vei ebbe il suo nome italianizzato in Veglio.

50. Ge, gi palatale, iniziale si muta in 2: zendri ge- nero, zla gelato; interna, si muta in i o cade: pats pa- gense, saiétta, Biella Bugella, maiestru = meistr = mets magister.

Labial.

51. Labiale forte p. Iniziale generalmente si mantiene: parvost praepositus, Peru Petrus, ecc.; talvolta si digrada: butega apotheca, sburs pulsus, bolso; spe- cialmente dinanzi ad 7, come brina pruina, bruse pe- rustiare.

Interna, di rado si conserva: suprdn soprano, Suprana nome locale, papa, kerpu carpano, ecc.

Passa in v in kaviun, capitone, caput, levri leporis, rava rapa, krava capra, kravili caprile, peivri piper, pevrun peperone, zineivri ginepro, lüv, lüvera lupus, savei sapere, povri pauperis.

Si dilegua in: Vesku Episcopus, ku capo, Ku d'Villa, Ku d' Moss Capo-Villa, Capo-Mosso, nomi locali. L’anni- versario è detto kudanna capo di anno.

52. Labiale debole b. Iniziaie, si mantiene: bd bue, be- stia, biet biglietto.

Interna. Spesso si digrada in v: fava, kavall, cèrvel e servel cerebrum, maravia mirabilia, skrivi, taverna taberna, nivu nubilum, svens subinde, sovente, tavan tabanus; si dilegua in Jakku Jacobus, rul roboris, negli imperfetti: sentia, legia, dsta dicebat, ecc. Tabula ci taula e tola. Cubitus, passando per *cumbitus, ci da gummi.

Si assimila all’! in stalla da stabula *stabla; mentre l'E si assimila al d in stabbi stabulum.

53. Labiale f. Iniziale, si mantiene.

Sul Dialetto Biellese nella Valle di Strona. 339

Interna, si dilegua in fursigi forficina; passa in p in kulp colaphus; diventa v in stivia stufa.

04. V. Iniziale, si mantiene: vakka, vulp ecc.

Interna, si conserva: lave, cov clavus, ÿrev, növ no- vum, dv ovum, lavu avolo, con l’articolo concresciuto, seiv sebum 0 sevum; anche dopo l od r: nerv nervus, kun- serve servare. Finale, si rinforza in f in serf cervus.

Diventa % in alcune parole d'origine germanica: warde guardare, vera guerra. Così pure in uaste vastare. Si di- legua in rial rivus, pau e peur pavor.

A differenza del fiorentino, si conserva in molte parole terminanti col suffisso -ivo: nativ, suliv solativo, senziva, gengiva.

Dentalı.

55. Dentale forte t. Iniziale, si mantiene; però, tunc dunka, dukka.

Interna, tra due vocali si dilegua: spá spata, spola spatula, spaula, in tutti i participii passati, amd, beivü, seni, ecc.; in bue'l, botellus, sira strata, se satis, pra prato, andi ândito, debbi debito, ser sitis, kuja e kuiÿa cutica, ania anatis, biula betulla, peila patella, beil batillus, frel frater, vel vitellus, beia bieta, feia, foeta pecora, mungia moneta, Kastaficia e Kasineia ca-

stagnetum, C'ereie e Säreii Cer retum, Ruvei Roveto. Si digrada in pudei potere, ma anche puei, ladri latro, riorda da reorta, il secondo fieno.

D'ordinario cade quando è seguita Immediatamente dar: peri patre, meri matre, Peru Petrus.

56. Il gruppo ct ci é: skric, scrip-tus, passando per *scrictus; fric fric-tus, die dic-tus, lac lactis, tec tectum, ex-suctus, drié di-rectus.

58. Il gruppo tl: interno gg: vegga vetula, ségga e sigga situla; finale, ¢: vec, vetulus.

59. Dentale debole d. Iniziale, si conserva: dric dire- ctus, dare de retro, dmeia dies dominica,

340 Federico Garlanda,

Interna, tra due vocali, si dilegua in: miulla medulla, reis radicis, misina medicina, trent tridente, krua cruda, kei cadere, strasue extra-sudare.

Tepidus ci ¢ébbi; tepulus ci cep, passando per *teplus, *tlepus; così nel Bolognese copula ci ciopa passando per *copla, *clopa.

Spesso si dilegua dinanzi ad r: kareia = kadrega, da ca- thedra, square = fe la squera quadrare, con s prostetico, pulero puledro, detto specialmente d’un giovane aitante e robusto; quaranta quadraginta; quaresma quadra- gesima.

Altre volte, davanti all’r e dopo nasale, si inserisce d; Zendri genero, sendri cineris, tendri tenero.

Il d passa in J in sigala cicada, e forse abbiamo mu- tamento did in r in vauri, regioni incolte, da vauda, ted. wald (?).

Bladus biov.

60. Dentaie 8: si conserva sempre: sett septem, sird strata, sciöp stloppus, ecc.

Prostetico in: squesi quasi, square quadrare, sburne acciecare. |

61. Z diventa s in ris oryza; g in gelus zelosus; 2 in jaza gaza.

Lo 4 nasce spesso da dc'e, dei: ünzi undecim, quinzi quindecim, zia dicebat. Nasce da tia nelle desinenze zia, ziu: malizia, benefizi, artifizi, malizius, ecc.

Liquide.

62. L. li gruppo pla pia: piuma, pianta, pianzi, pian, ecc.

Il gruppo bla bia: biank, biund, ecc.

ll gruppo gla ga: gas glacies, sgai ex-gladio, gand glande.

li gruppo cla ca: cav clavis, cuenda siepe da clu- dere, cov clovus,

Sul Dialetto Biellese, nella Valle di Strona. 341

L dilegua in quasi tutte le parole sdrucciole in -ùlus: diau diabulum, lavu avulus.

Il nesso al seguito da consonante au: aut altus, mauta malta, kausina calcina, ause alzare, faus fal- sus; kaulis kot, ma kaulifiur, kaulera. Salicis sars.

L passa in r e viceversa in rigulizia liquirizia; in kurie e kulie collocare.

Si elide in smie similare.

63. R si muta in! in piligrin peregrinus, in Ka- tlina Catharina, rul robur, Rulei roboretum, nome locale.

Si muta in » in kandlin cardellino.

Si dilegua in rastel diminutivo di rastrum, in pau pavor, e in tutte le desinenze degli infiniti ame, leggi, senti, ecc.

Si inserisce in balestra, ginestra, strival stivale.

Va soggetta a molte metatesi: strambin settembrino, durvi deoperire, Sressa Sessera, krava capra, frev febbre, ma anche fevri, entréÿ integro.

J. DYNELEY PRINCE.

THE MODERN DIALECT OF THE CANADIAN ABENAKIS

—r_ -——_!

The existing representatives of the Algonquin or Algic race may be separated linguistically into three divisions, i. e. the Blackfeet of the extreme west whose idiom differs . most greatly from all the other dialects !); the Cree-Ojibwe of the middle west which embraces a number of closely allied linguistic variations ?), and the Abenaki races of the eastern coast, one of whose languages it is the purpose of the present paper to discuss. It should be noted that the Algic languages like all American idioms are polysynthetic.

This name Abenaki ‘land of the dawn or east’ is the common native appellation of the Algic tribes of Lower Canada and Maine, as well as of the Delaware or Lenäpian septs®) who were once the dominant people from the Hudson to the Potomac. Thus, the Abenakis of Canada and the Penobscots of Maine call themselves and their kindred Wonhbanaki *) (Abenaki is merely a French corruption); while we find the forms Wabanaki among the Passama- quoddy-Maliseets of Maine and New Brunswick and the widely spread Micmac tribe of eastern Canada, and Wa- panakhki among the Delawares. There has been some dis-

1) Cf. J. W. Tims, Grammar and Dictionary of the Blackfoot Lan- guage, London, 1889.

*) Cf. HorpEen, Grammar of the Cree Language, London, 1881; Wn- son, The Ojebway Language, Toronto, 1874.

* Cf. Brinton, The Lenäpe and their Legends, Philadelphia, 1885; A Lenäpe-English Dictionary, Philadelphia, 1888.

For the pronouns, see below.

344 J. Dyneley Prince,

pute as to the exact meaning of this term. Among the Canadian Abenakis it is explained as being derived from wonhban ‘day-break or east’ and aki ‘land, country’, but both the modern Abenakis and the Passamaquoddies use it also in the sense of ‘a man from the east”. A precisely parallel usage is the modern Abenaki term Nibenaki which means both ‘land of the south’ and ‘man from the south’. When we compare, however, the other gentilic forms of this dialect, we find that to apply a noun ending with the word-aki-ki ‘country’ to persons belonging to that country is not as a rule in accordance with the genius of the lan- guage. Thus, we find Paston-ki! ‘the United States’ but Pastoni ‘American’; Molian ‘Montreal’, but Moliani ‘a Montrealer’, etc. It appears from these and many similar forms that the true gentilic ending is - This apparent discrepancy has led Brinton, for example, to deny absolute- ly that Wonhbanaki can ever mean ‘people of the east’ *. It is quite possible, howerer, that such terms as Wonhba- naki, Nibenaki when applied as gentilicia actually contain the gentilic -: contracted in the last syllable, e.g. that Wonhbanaki ‘man from the east’ should really be pro- nounced Wonhbanaki-i. It is interesting to note in this con- nexion that as early as the seventeenth century, Algic Indians who came to Montreal retained the tradition that they had at one time owned territory toward the east, from which they had been driven by the Huron-Iroquois. Indeed, it is highly probable, both from the significant name Abenaki- Wonhbanaki and from the common tradi- tions of all the Algic tribes, that the origin of the parent nucleus of their race was somewhere on the eastern coast, possibly in the neighbourhood of Labrador.

The Abenaki Indians of Canada, with whom we are especially concerned, now number scarcely more than

1) Paston is the Indian form of Boston, It is used for all the Uni- ted States Territory by Abenakis and Passaquoddies. *) The Lenäpe and their Legends, p. 256.

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 345

300-350 souls, nearly all resident at the Indian village of St. Francis, near Pierreville, Que. These people who are the only clan retaining the ancient intertribal appellation as a distinctly local term, are, together with their Penob- scot kindred of Maine, the sole representatives of the once powerful nation which until the middle of the seventeenth century ranged the forests of New Brunswick and New Hamp- shire with but little hindrance from the whites. The Abe- nakis of Canada are the direct descendants, with some admixture of French and other blood, of the majority of the savages who escaped from the great battle of the Ke- nebec in Maine, where, on Dec. 3rd, 1679, the English general Bradford finally overthrew their tribe’). In conse- quence of this severe defeat more than seven hundred sa- vages were killed or mortally wounded and the greater part of the survivors betook themselves to Canada where they began to arrive in Jan. 1680. A certain number of them almost immediately settled in the present village of St. Francis which they named Arsikantekro, lit. ‘river where no human beings are’ ?) probably owing to the fact that just before their arrival the Iroquois had massacred the former French inhabitants of the place. The modern Pe- nobscots, who now live in a similar village at Oldtown, Me. on the Penobscot river, are in all probability the descendants of those of the early Abenakis who submitted themselves to the victorious English in 1679.

Fortunately for philologists the Abenakis accepted the Roman Catholic religion very early in their history, as

1) TRUMBULL, Indian Wars pp. 96-7.

*) Arsikantekw is composed of the elements arsi ‘empty’: kan, an infix which signifies ‘cabin’, and the suffix -tekw which always means ‘river’; of. tego ‘wave’. The modern form of tho word is Alsi- gontekw which the Indians wrongly connect with als ‘shell’ and translate ‘river where shells abound. Als appears, however, as ess in the older language. See on this subject. Git, Notes sur les Vieux Manuscrits Abenakis pp. 13 ff. Montreal, 1886.

42

346 J. Dyneley Prince,

the activity of the Jesuit missionaries has supplied us with copious examples of the language in its ancient form. The best known of these works is undoubtedly the Dictionary of Father Rasles published by John Pickering from the author's original manuscript, but there are at least six others still unpublished in the possession of the mission of St. Francis, the most important of which is a much fuller dictionary by Aubèry who was in charge of the Abenaki mission from 1709 until 17551). Owing to the fact that most of the Indians now speak and read French, there are very few literary specimens of their modern idiom ?) which is, however, still vigorously alive at St. Francis and at Oldtown, Me., although, as was but natural, the Abenaki and Penobscot dialects have differentiated very perceptibly during the centuries of separation.

It is the purpose of this paper to discuss briefly the chief peculiarities of the Abenaki idiom as it is now spoken, illustrating as far as may be done within such limits the differences between the language of the last cen- tury and the idioms of to-day and to a certain extent be- tween the Abenaki in general and the kindred dialects, especially the Passamaquoddy of Maine. Nearly all the material for the present article has been gathered orally from Abenaki and Penobscot Indians *).

The phonetics of these dialects are comparatively simple. In pronouncing the Indian words in the following paper, the consonants should be sounded as in English with the exception of kh = German ch in ach, nh = the Fr. nasal n,

!) These have all been described by Gill (op. cit.). Aubéry’s dic- tionary is at present in the possession of the Very Rev. M. C. O'Brien, V. G. Bangor, Me.

*) Especially New familiar Abenaki and English Dialogues by Jo- seph Laurent, Abenaki Chief, Quebec, 1884. There are also a few devotional cards containing R. C. prayers and aspirations.

*) Chiefly at Bar Harbour, Me. I have also made extensive use of Laurent's work, but always after testing the material orally.

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 347

‘which represerts a voice-stop, not unlike the Arabic ayin, and | which after a, o and w has a sound like Polish |. Hisa medial aspirate similar to the Arabic medial He and p, t, k are voiceless tenues. The only weak consonant is initial so which is barely sounded and which consequently falls away in combinations; thus, wonhbi ‘white’ is pronounced almost as onhbi and the compound word -wigamigw ‘house’ generally becomes -igamigw, unless preceded by a pure dental; thus, kaoz-igamigw * cow-house”, but k'bahodwiga- migw ‘prison’ (‘house of detention’). The only phonetic change of importance between the modern and the an- cient dialects is the change of original 7 to /. So far as I am aware, the only Algic idioms which still use 7 are the Montagnais language of Labrador and a dialect of the Cree spoken near James’s Bay, which approaches closely to Montagnais. The Abn. vowels are pronounced as in Italian. We must note, however, that the apostrophe represents a very short % like that in the Eng. ‘but’. The intonation of the Abn. is very monotonous, as every syllable has practically the same accented value, unlike the Passama- quoddy which shows an elaborate system of tones. The ac- cent of the Penobscots is slightly more nasal than that of the Abenakis of Canada.

The principles of polysynthetic word-formation are too well known to require elaboration in a limited article like the present treatise. It is sufficient to note that all poly- synthetic idioms build up words and often sentences from original radicals which were in all probability primitively monosyllabic, either by means of prefixes and suffixes which were themselves once separate words, or, by combining the radicals with other radicals. It is therefore not proper in a treatise on a language like Abenaki to allude to «parts of speech » such as nouns, verbs, etc., as the ori- ginal words were really only « indifferent themes» ') which

—— mam eee mm

1) Cf. Brinton, Lenipe, p. 89.

348 J. Dyneley Prince,

may be used practically in any sense, be it nominal or verbal. To illustrate this, let us take the following exam- ples in Abn. Given the root Vkiz, the primary signification of which is probably successful action, we find a) kizi ‘al- ready, after’ and also used as the regular sign of the past in verbs; cf. kizinamito ‘he has seen it’, b) kizito ‘he has made it’ and c) kizos ‘sun, moon, month’; also kizokw ‘day’ where the idea seems to be the beginning of a period of time. The word kizonhban ‘daybreak’ from kiz + wonhbap shows this satisfactorily. I may add that the term. -os means ‘month’ or ‘period of time” as seen in Temaskik-os * July”, lit. ‘mowing month’ and that this same root Vlemski or simply /lem is seen in the verb ntemskizonhwa ‘I mow’; cf. temeskezowonhgan ‘mowing’ and tamahigan ‘axe’, etc.

On the other hand, although there is no theoretical dif- ferentiation into parts of speech, it is necessary for con- venience to use the accepted terminology in treating the grammatical peculiarities of these dialects.

The best method of studying the multitudinous variations of the Algic languages is through the substantival forms !), because the so-called verb of Algic speech is rather a par- ticipial system than a truly verbal series of conjugations. The fundamental principle of all the Algic dialects is their division of nature into two classes which we may call ani- mate and inanimate. To denote these, they employ, in all the declinable parts of speech, two distinct sets of endings which are, however, practically identical in nouns, adjectives and verbs. It must be remembered, however, that certain objects which we should regard as animates, such as, for example, the sun, moon and stars, some articles of apparel, particu- larly those borrowed from the whites, and fruits, are classed by the Indians among the animates. This is of course due to the natural tendency of uncultured peoples to personify

1) For an admirable treatise on the substantive in Old Abenaki, see M. C. O'BRIEN, Collections of the Maine Historical Society.ix. pp. 261-294.

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 349

and thus ennoble natural forces or objects which are espe- cially cherished. For this reason, some Algic specialists have called the two classes noble and ignoble, but as the division is undoubtedly based on belief in the presence or absence of life in the object spoken of, I retain the more logical terms. Grammatical gender is absolutely unknown in the Algic dialects. When it is necessary to differentiate between a male and female animal, this is done by pre- fixing or suffixing some determinative word. Thus, in Abn. p’ziko aionhba is ‘bull-buffalo’, but p’ziko al-Pha is ‘cow- buffalo’. The feminine of human beings is usually made by suffixing some form of the word for woman, e. g. kin- james ‘king’, but kinjames-iskwa ‘queen’ !).

Turning to the Abn. substantival inflexion, we see that the ending of the an. pl. of nouns is -k and for the inan. -l, both of which may be preceded by the vowels a, o, and è according to the ending of the nouns. Those ending in b,j, , n, p,s, or < usually take the pl. in -ak, -al; ct. als-ak ‘shell’, but wakonhlikws-il ‘wheel’, while those in m,n, kw, and gw are inclined to -ok, -ol; cf. p'hanem-ok ‘woman’, ménahan-ol ‘island’, wanibagw-ol ‘leaf’. This is not invariable in the case of final -m or -n, however, as we find aples-akuain-ak ‘apple-tree’ and also skamon-al ‘grain’. Those in -ak, -ag (-k, -g) generally take -ik, il; cf. wi- zawonhgamak-il ‘strait’ and askitameg-il ‘cucumber. These endings ik, 4l are essentially those of the participles which have a -d, -t termination. These consonants usually pala- talize in 7: e g. nottahasid, but pl. nottahasijik ‘miller’. Other nouns ending in -{ are apt to take the -ak-, -al ter- mination, as wejat-al ‘nerves’. Nouns ending in a vowel add simply -k, -l as soga-k ‘lobster’ sata-l ‘blueberry’, but these terminating in -o or -i take -ak, -al almost invariably, e. g. msazesso-ak ‘white spruce’ anaskemezi-ak ‘oak’ and

*) The word Kinjames is merely a corruption of ‘King James’, the first king with whom the Abenakis had prolonged relations.

350 J, Dyneley Prince,

wdopi-al ‘alder’. In the ancient language the pl. termina- tion appears as -ak, -ar, but we find also -uk, -ur with monosyllables having a diphthong or long vowel and in some dissyllables and trisyllables with a long or accented penult; cf. müs-uk ‘moose’, agwiden-üur ‘canoe’.

Similar vocalic variations occur in all the Algic idioms based, as I believe in most cases, not on vowel harmony nor vocalic differentiation, but on the natural affinity of certain consonants for certain vowels. I admit, however, that in examples like Abn. ménahan-ol ‘island’ and ska- mon-al ‘grain’, the principle of vocalic differentiation, so prominent in the Finnic agglutinative idioms, may be pre- sent. It is clear, morever, from a careful study of these changes that the correct plural ending in Abenaki can be learned only by practice.

A highly important feature of the language, second only to the far-reaching differentiation of animate and inani- mate nouns, is the combination of both the substantives and verbs with the personal pronouns, by means of which most of the inftexion is carried on. I give below a com- parative table of the personal pronouns in Abn., Passama- quoddy and Lenâpé. It will be noticed that these three languages, like all their Algic congeners, have two first persons plural; An exclusive and an inclusive, the first ot which implies that the person or persons addressed are not included, e. g. I and they, and the second includes both the speaker and the person addressed, as well as a number of others; I, you, and they.

Abenaki. Passamaquoddy. Lenape. ] Nia Nil Ni THOU Kia Kil Ki HE SHE ' Ag'ma (anc. wa) Négum Nika (Nikama) IT WE (excl.) Niuna Nilun Niluna WE (incl) Kiuna Kilun Kiluna YOU Kilwawonh (anc. Kirwa) Ktlwau Kiluwa

THEY Ag’monhwonh (anc. w'wa) Négumau Nekamawa.

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 351

The primitive stems of the first, second and third per- sons are respectively n, k, and :0 or o which are prefixed above to certain demonstrative elements practically iden- tical in all the dialects, and which are equally capable of being prefixed, both to nouns, to denote the possessive re- lation, and to verbs, to indicate conjugational inflexion. It will be observed, however, that the separate pronoun of the third person is represented by a demonstrative particle (ag'ma, negum, nika). This has nothing to do with the original wa, but is probably a combination of certain well known demonstrative particles. The following diagram will illustrate satisfactorily the Abenaki and Pass. method of combining the pronominal prefixes n, k, w (0), with the an. and inan. forms of the substantive, as well as with the same forms of the verb.

ANIMATE.

Abenaki. N’ndmihon nd-onhgem ‘I see my snow-shoe' k’ndmilion kd-onhgem ‘thou seest thy snow-shoe’ undmihon üd-onhgem ‘he sees his snow-shoe' anc. unamihanhr ud-angemar n’namihônna nd-onhgem-ena ‘we (excl.) see our snow-shoe* knamihônna kd-onhgem-ena ‘we (incl.) see our snow-shoe” k’namihöwo hd-onhgem-owo ‘you see your snow-shoe’ unamihowo Ud-onhgem-owo ‘they see their snow-shoe’ anc. unamihawanhr ud-angem-awar

Pass. N’nimtha nt-agim K'nimtha kt-agim W’nimthal wt-agim’l N’nimihdnna nt-agin’n K nimihânna kt-agim’n K’nimihdwa kt-agim-uwa Unimihawal wt-agim-uwal.

PLURAL

N’ndmihonk nd-onhgem-ak ‘I see my snow-shoos’

K’namihonk kd-onhgem-ak ‘thou seest thy snow-shoes" iindmihonk ud-onhgem-a ‘he sees his snow-shoos ' N’namihönna-wak nd-onhgem-enawak we (excl.) see our snow-shoes' k’namihönna-wak kd-onhgem-enawak we (incl.) see our snow-shoes’

352 J. Dyneley Prince,

k’namihöwonk kd-onhgem-owok ‘you see your snow-shoes’ tinamihowonk ud-onhgem-owonh ‘they see their snow-shoes' anc, unamihawa ud-anhgem-ewa. Pass. N’nimthak nt-agim-uk

K’nimthak kt-agim-uk

W’ nimihak wi-agim

N’nimihännawuk nt-agim-unuouk

K’nimihännawuk kt-agim-unuwuh

K’nimihdwak kt-agim-uwok

Unimihdwa kt-agim-uwal.

INANIMATE.

Abenaki. n’ndmiton nlamdhigan ‘I see my axe’ k'namitón ktamdhigdn ‘thou seest thy axe’ undmitôn utamdhigän ‘he sees his axe’ n’ndmitonana n’lamdhigdn-na ‘we soe our axe' k’ndmitönana k’tamdhigdn-na ‘we see our axe’ k’ndmiténonh k’tamahigan-owonh ‘you see your axe” undmitononh utamahigan-owonh ‘They see their axe’ Pass. N’nimiton ntumuhign K'nimiton k’tumuhig’n W’nimiton w'tumuhig'n N’nimiténén ntumuhig’nén K’nimiténén k’tumuhig’nen K’nimitönia k’tumuhig’nuwa W’nimitönia w'tumuhig-núwa

PLURAL.

n’ndmiténal ntamähigän-al ‘I see my axes’ k’ndmitönal k’tamdhigdn-al ‘thou seest thy axes’ undmitönal utamdhigdn-al ‘he sees his axes’ n’namitondna-wal ntamdhiganna-wal ‘we (excl.) see our axes’ k’namitondna-wal k’tamdhigdnna-wal ‘we (incl.) see our axes’ k’namitonal k’tamahigan-owonhl ‘you see your axes’ undmitönal utamahigan-owonhl ‘they see their axes’. Pass. N’nimitén’l ntumuhig’n’l

K’nimitén’l ktumuhig’n’l

W’nimitén’l w’tumuhig’n’l

N’ nimitonénewul ntumuhig’nun

K’nimitonenewul ktumuhig nun

K’nimitönia k’tumuhig’nüwal

Unimitônia w’tumuhtg’nuwal.

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 353

It will be observed that when the noun begins with a vowel, a dental d or t is generally inserted after the pro- nominal prefix. This is peculiar to all the Algic idioms and applies in Abn. also to nouns beginning with / as kd- lonhd- waonhgan ‘thy language; Pass. kt- ladwewagon. It should be noticed also that nouns denoting a part of the body and beginning with m lose this m before the pron. prefixes; thus, mhaga ‘body’, but k'aga ‘thy body’, etc. In ancient Abn. we find in the case of nouns commencing with w the third per- sonal prefix a instead of «; thus, awigwam ‘his house’, but mod. uwigwom. This is plainly vocalic differentiation.

Before proceeding especially to the distinctively verbal inflexion, we should comment on the following seven mo- difications of the substantive which appear in Abenaki.

1. Most noteworthy of these is the obviative or accu- sative ending which appears only when the animate noun stands in connexion with a third person. This accident, which is peculiar to all the Algic dialects, is denoted in the ancient idiom by the endings ar, ür, » which the mo- dern speech has changed to simple -a. In Penobscot and Pass, however, the original 7 appears as Lin the singular. The following three instances will illustrate the application of this form. It occurs; a) when the noun is the object of a transitive verb in the third person, e. g. OA. una- mihanhr aremusar; Mod. unamihon alemosa ‘he sees the dog’; Pass. unimihal ha-aswul ‘he sees the horse’; b) when the noun is connected with the third personal prefix 0, w in the sg. or pl., i. e. ud-anhgem-ar, Mod. ud onhgem-a * his snow-shoe’, and c) when it is necessary to express an in- direct object or a dative. Thus, in OA. akwirdawanhr sa- wanhgan namesar ‘the eagle swoops down on the fish’, Mod. umilonhn alnomba-a awikhigan ‘he gives to the man a book”. We should compare here the Penobscot wechinikasinil Ponce Pilatal ‘he was tried before Pontius Pilate’ and Pass. umilan haaswul skidapyil ‘he gives the man a horse’. In the modern Abn. and the Lenâpé there is no distinction

43

354 J. Dyneley Prince,

between the endings of the obv. sg. and pl., but in OA.) and Pass, the pl. has a distinct form; OA. ud-aremus-a ‘his dogs’, Pass. ha-aso ‘horses’ (obv.).

It should be noticed that there is no trace in Abn., Pass. or Lenâpé of the so-called Sur-obviative or third third person of the Cree and Ojibwe.

2. The locative in Abn. -ek, -k, denotes the place where and may be translated by a number of prepositions, e. g. at, from, in, into, on, to, through, under, etc., most of which are expressed in the verb itself. The following examples will illustrate the use of this accident. a) It generally means ‘to, unto’ with verbs of motion; cf. n'paionh wig- womek ‘I come to the house” but some verbs of going do not require that the place-name shall be locative. Thus, ndelosan Molian ‘I am going (to) Montreal’. b) It means ‘from’ in such instances as wajih'la-an wigwomek ‘he comes from the house’, naudosa wigwomek ‘come out of the house’, where the idea ‘from’ is really in the verb. c) At or in a locality is always expressed by the locative, e. g. sanoba odanak ‘the man is in town’. d) In OA. the loc. could be used adverbially in such expressions as presege ergiruk ‘as large as a pigeon’, but 1 find no trace of such a usage in the modern dialect. The loc. may be regularly affixed to nouns with the pronominal prefixos and suf- fixes. Thus, uwigwomek ‘in his house’; k'wigwomnek ‘in our house”, etc.

3. There is no form of vocative singular in modern Abenaki, but we find distinct traces of such a modification in the older language. The voc. plural, however, the cha- racteristic ending of which is -tok, still survives in Abn. and Pass.; thus, Abn. nidombamtok! ‘O my friends!’ Pass, nidabétuk. I am inclined to connect this (-{ok, -tuk) with the dubitative -{ok, -itok, appearing in Cree, Algonquin and Ojibwe verbs. This nidombamtok would mean ‘my friends

1) OA =Old Abenaki,

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 355

as many of you as there may be’. This dubitative force of -tok has been lost in the Abn. idioms,

4. The possessive suffix -m, -im, -om; probably identical with the demonstrative pronominal element seen in ag'ma ‘he, she’ is very common in Abenaki. Thuz, nkaoz-em ‘my cow”, nd-a-as-om ‘my horse’ etc. This form occurs in all the Algic idioms except Blackfoot.

5. The sign of the diminutive in OA. was -is append- ed to nouns ending with a consonant or -u; as temehi- gan-is ‘little axe’. This usually appears in the modern dialect as -sis, cf. noxkwa-sis ‘little girl’, but often as -is, as in pzo-is ‘wild cat”, from 930. We may compare Le- näpe -tit, -khikh in okhkekh-tit, okhkekhikh ‘little girl’. To denote an extreme diminutive sense this -sis is frequently reduplicated, as awonhsis-sis ‘very little child’,

6. Abenaki nouns may have a past termination. Thus in OA. we find the endings -a, exclusively with sing. ani- mates, cf. n'mitonhgwesa ‘my dead father’, -e, used with both animates and inanimates only in the singular, e. g. kd-akina-we ‘our lost land’and ga, pan for animates and inanimates in both sing. and pl.; thus Nanhranht-swaniga ‘the old Norridgewoks’ and Mari-Sose-piskwe-pan ‘Mary who was the wife of Joseph”. In the modern dialect, how- ever, we see the earlier inanimate -e changed to -a, as in nib'na ‘last summer’ and the ending ga affixed to nouns of both classes, to denote a past condition; n'mitonhgwesga ‘my dead father’; n'pask-higanga ‘the gun I had”, etc.

7. Finally, we note in Abn. and Pass. the moveable future sign -ji (-ch) which may be affixed indifferently ei- ther to nouns or verbs; cf. Molianji nd-elosan ‘I shall go to Montreal’, or Molian ndelosanji. This appears also in Pass. in such forms as kluik-húmulch sepaünu apch or ktuik-humul sepaunu apch ‘I shall write to you to-morrow’.

So far as I am aware, there is no interrogative state in either Abn. or Pass. This occurs very prominently in the Algonquin dialect of Ojibwe,

356 J. Dyneley Prince,

In all the Algic dialects the genitive relation is expressed by means of genitive apposition; cf. sanoba uwigwom ‘the man his house”, i. e. the man's house”.

The simplest form of the verb from which all the other modifications may be said to be formed is the imperative. Thus, from the animate form namiha ‘see thou’, which is inflected namionhj “let him see’, namionhda ‘let us see’, namiökw ‘see ye' and namionhdij ‘let them see’ we get the present n'namihon, etc. In the same way, from the ina- nimate namito (namitoj, namitoda, namitogw, namitodij) we get the inanimate forms n'namilo, n'namiton, etc.

There is practically only one tense in Abenaki verbal inflection, i. e., the present and this is really a parti- ciple with prefixes and suffixes. This appears, however, in four distinct forms; the animate definite, the inanimate def., the animate indefinite and the inanimate indefinite. Of these we have already given examples of the animate and inani- mate definite forms (see above). Thus, in order to express the idea ‘he sees the snow-shoe’ they say unamihon onhgema, but ‘he sees a snow-shoe’ is namiha onhgema; in the same way unamiton tamahigan ‘he sees the axe’ but namito tamahigan ‘he sees an axe’. As the two definite forms have already been illustrated, I give herewith the indefinite con- jugation.

ANIMATE INDEFINITE.. INANIMATE INDEFINITE. n’namionh mosbas ‘Isee a mink’ n’namito wigwom ‘I see a house” k’namionh mosbas » k’namito wigwom »

namia mosbasa *) » namito wigwom *) » n’namionhb’na mosbas » k’namitob’na wigwom » k’namionhb’na mosbas » k'namitob’na wigwom » k’namionhba mosbas » k’namitoba wigwom » namiak mosbasa » namitoak wigwom »

As will be noted by a comparison of these forms with those of the definite conjugation the points of difference in

mn

1) Obviative. 7) Not obviative because inanimate,

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 357

the indefinite verb are in the third person sing., and throughout the plural. Although there is really only one tense, we find a number of endings which may be affixed to the present to express past relation, as well as the fu- ture, conditional and subjunctive ideas. These are, for the past, -b (ab, -ob, -onhb), as n'namitonab pask-higan ‘I saw the gun’, for the future -ji, already mentioned above, as n'namionji mosbas ‘I shall see the mink (or a mink)’, for the conditional -ba, n'namitonba wigwom ‘I should see the house’ and for the subjunctive -assa, pl. ossa, as unami- tonassa wigwom ‘that he might see the house’ or k'na- mitonanossa ‘that we might sec’, etc. As already stated, the particle kizi is also used as a prefix to denote the perfect past as n’kizi-namilon wigwom ‘I have seen the house’. Besides these modifications, there is also a well developed passive voice which is expressed by adding the suffix-gwzi to the present tense, as n'namiogwzi ‘I am seen’, namitogwso ‘he is seen’, plural k'namiogwzibna ‘we are seen’, namiogwsoak ‘they are seen’, etc. The tense endings -b, ji, and -ba are regularly affixed to this form as in the active. The ending -zi, third person -20, is the regular reflexive termination; cf. nd-agakim-zi ‘I teach myself”, e. g. ‘I learn”.

The most difficult features of the Abenaki verbs are un- doubtly the treatment of the tenses and of the complicated participial system when the forms are combined with the per- sonal pronouns as objects of the verbal action. This can best be shown by a sketch of the present tense as it ap- pears when so combined and of one of the participal va- riations. It will be noted that in the combined forms, the second person always takes precedence over the first, and the first person over the third. Thus in k'nâmiol ‘I see thee’, k'namiob'na ‘thou seest us’ k'nämihiba ‘you see me’ and k'nämiob'na ‘you see us’ the prefixed k is the pronoun of the second person. In such forms, however, as n’namion ‘I see him”, k'namionna ‘we see him”, the first person

WE (incl.) YOU THEY

THEY

HF WE (excl.) YOU THEY

ME

h'nämihi

n’namiok

k’nämihiba

n’ndmiogok

h’namihiu

n’nämiogowe

k’namihippa

n’nämiogowiak

namihian

namiyit

namihiba

nämiidit

THEE kh’ n&miolt *)

k’nämiok

A’nämiölb’na

k’nämiogok

k'nâmiolo

R’nämiogowe

k’nämiolöb’na

k’nämiogowiak

THE PARTICIPLE.

nâmiolan

nâmiog-an

namiolak

THE ABENAKI V

Him (an.) Ir (inan n’namionh n’nämiton k'namionh R’nämiton unämionh undmiton h'namionna ke’ n&mitonan k'namiowonh k’nämitononl unämiowonh unämitononk

NEGATIVE FO n’nämionhwe nimitowea k’nämionhwe nâmitowe unâmionhwe unämilowes k’nämiowinna hºnamitowens k’namiowiwonh unamiowiwonh unämilowss

nämiök nämitök

nâmiho-an nämilo-an nämiho-an ndmito-ar nâmiod nâmitok nâmi-ok nämito-ak nämionkw ndmitowoke namiddit namitôdit

1) The consonant È is so nearly silent that it may be omitted in forms like A'namioi-k’nen

(H INCORPORATED OBJECT.

incl.) You k’nämiolba

ob” na

iogonna k’nämiogwon k’nämiolb’na

iob’na

iogonnawak k’nämiogwok

YS WITH nda ‘NOT.’

k'nâmioloppa iopp’na iogowinna k’nämiogowiwon k’nämiolöb’na iopp'na togowinnawak h'nâmiogowiwok

THEM (an.) n’nämionk

k’nämionk

unämionk

k’nämionnawak k’nämiowok

unämiowok

n’nämiowiak k’nämiowiak unamiowiak k’nämiowinnawak

k’nämiowiwok

unämiowiwok

THEM (inan.) n’nämitonal

k’nämitonal

unämitonal

k’nämilonanawal k’namitonowal

unamitonowal

n’nämilowenal k’nämitowenal unamitowenal h’namitowenanawal

k’namitowunowal

unämitowunowal

360 J. Dyneley Prince,

appears in the first place. The sign of the negative is the infixed o-vowel which appears occasionally as « and occa- sionally as -ow-. Thus, we have nda k'nâmiol-o ‘I do not see thee’, nda k'nâmihui ‘you do not see me’, nda k'nâmiowinnawak ‘we see them not”, etc. The word nda ‘not’ must precede all these negative forms. The tense en- dings -b, -ji are affixed regularly to all these combined forms; thus, knämiolob ‘I saw thee’, knamiolji ‘I shall see thee’ knamiowokji ‘you will see them’ etc.

The use of the participle in Abn. is most varied. It may be used to take the place of the relative pronoun as wa noxkwa k'zalmok ‘this is the girl whom I love’; wa noxkwa k'zalmóan “this is the girl thou lovest’, etc., or it may be used simply to denote the action of the verb governed by a preposition, 1. e. what we should call the infinitive rela- tion, as n'paionh waji namiolan ‘I came in order to see thee’, or it may appear as a conditional, as namiolana ‘if I see thee’, namihiana “if thou seest me”. The accom- panying paradigms will illustrate the general form of the participial modifications, in the singular.

The negative of the participle is formed in the same way as the negative of the finite form; cf. nda namiolowana ‘if I do not see thee”. To construct the conditional from the above participial forms the a-vowel is added, which has the effect of changing a final é to d and k to g; thus, namiyu becomes namiyida ‘if he sees me’ and namiok becomes namioga ‘if I see him”, etc. The subjunctive par- ticle -za, -sa may be affixed to these forms, in order to express the idea ‘perhaps if I-’ e. g. namiokza noxkwa ‘if indeed I saw (or should see) a girl”.

It should be noted finally in this connexion that the -d, -t and -k endings of the animate and inanimate third per- son he-it are the regular adjectival endings. Thus, we find wonhbigit sanoba ‘a white man’, but wonhbigek asolkwon ‘a white hat (inan.)'. Adjectives in these dialects are nearly all participial modifications and agree with their nouns in

The modern Dialect of the Canadian Abenakis. 361

class and number, except a few so-called inseparable forms like k'chi “big”, e. g. kchi sanoba ‘big man’, which are indeclinable.

I should be remarked that practically all the verbs in Abn. are conjugated after the same model, a few minor differences excepted like the use of the definite endings -dam, -damen or -em, -emen for -to, -ton in the third person inanimate; cf. nk'zaldamen wigwom ‘I like the house” nk'zaldam wigwom ‘I like a house” or n'wajone- men wigwom ‘I have the house’, etc.

The numerals in Abenaki up to five present three forms, i. e. a form used only in counting, and participial forms for the animate and inanimate. Thus, we find pazekw, one, mis “two”, nas ‘three’, iaw ‘four’ and nonhlan ‘five’, but

pazego sanoba ‘one man’ niswak sanobak ‘two men' pazegwen asolkwon ‘one hat’ niznol asolkwonal ‘two hats’ n’loak sanobak ‘three men’ iawak sanobak ‘four men’

n’henol asolkwonal ‘three hats’ tawnol asolkwonal ‘four hats...

nonnoak sanobak ‘five men‘ nonnenol asolkwonal ‘five hats“.

Above five the numerals are indeclinable, as ngwedonhz sanobak ‘six men’. There is no trace of peculiar numerals used only with certain classes of substantive, for example, for round objects such as occur in Ojibwe. !

In order to illustrate the relation in which the Abenaki stands to the other Algic languages I give here a table of the numerals as far as ten, in five of the idioms,

ABN. ALGONQUIN. CREE. Pass. LENAPE. Pazekw peshik piak nekwt ngutti nis nisho nishu tabu nisha nas niso nistu sist nakha

1) Cf. in Ojibwe the ending -minug which is employed only for globular objects in connexion with numerals; thus, nanominug chisug ‘five turnips’ but nantishk wabigin ‘five breadths of cloth', the en- ding -shk being applied especially to breadths of cloth.

44

362 J. Dyneley Prince, The modern Dialect, ete. ABN. ALGONQUIN. CREE. Pass. LENAPE. iaw neu newu neu newo nonhlan nanan nialul nan palenash ngwedonhz ningotwassi nikutw ssik hamachin guttash tonbawonhz nizhuwassi nishwassik lewig’nuh nishash nsonhzeh niswassi yınaneu og’mulchin khash noliwi shangaswi shakitat eshwnadek peshonk mdala mitaswi mitat m’tellen tellen.

Asa furtlier illustration of the close resemblance between the modern Abenaki and the Penobscot and Passamaquoddy I give here in conclusion a short anecdote in all three languages with interlinear translation.

Abn.

Pen.

Pass.

Nijia ndonhdokaokw nauwat kizgat nizigad’n awodowak m’dea- ulinwak.

Nijia ndonhdonhkéukw nauwat kizgong’sigad’n awodihid’wak m’deaulin’wak.

Nsiwes ntulag’nöd’ınak piche kiskakesigd’n madndoltitit mteau- Unwuk.

English. My brother told me long ago there quarrelled certain wi-

Abn.

Pen.

Pass.

zards.

Pezgowa unihlawa umonhjip-hon m’nahanok adali mospiguk adali

Pezgowal unihlaonhl umontijip-hana m’na‘noge edali spaségek edali

Beskwol une‘p-hania umojep-hdnia mnd'nok ed'li spaségek nitt ed’li

Englisch. One (of them) they killed. They brought him to the island

where there was a steep ledge of rock; There.

Abn. poldidit.

Pen. Pass.

poldihidit. poltitit,

English. They ate him.

WHITLEY STOKES.

—- --

THE LEBAR BRECC TRACTATE ON THE CONSECRATION OF A CHURCH.

The following tractate is edited from the lithographic facsimile of the Lebar Brecc, pp. 277, 278, a ms. in the library of the Royal Irish Academy, Dublin. The ms. is of the fourteenth century, but the composition of the tractate may safely be placed in the eleventh, when Old-Irish was passing into Early-Middle-Irish. This appears, not only from the reference to wooden altars, but from the following Old-Irish forms: the gen. sg. of the fem. article, in/n;a $ 18, 26, 37 and the nom. pl. of the neuter article in/nja 17, dat. pl. in -aib, önaib 4, infixed pronouns: do-m-beir S 10, do-t-choisc 18, no-das-cain 25: suffixed pronouns: berth-e 10, berth-i 37: numerals: teora 23, 24, cetheora 18, 25: adverbs in cétnaidu (gl. primo 7). In compound verbs the three conjugations are still distinguishable in the present indica- tive active. Thus:

1. o- stems: ai-raig 2, 4, 6, 7, 36, com-butg 10, do- m-beir 10, do-t-coise 18, do-feith 32, do-nig 18, fris-gair 31, co frecair (= frith-gair) 31. t-aur-caib 32.

2. à stems: ad-anna 18, do-derna 18, tind-scna 14, tinn-sena 28, 30, in-tinn-scna 29, 35, in-tinn-scana RT.

3. 7- stems: a(s)-sréi 37, 38, 40, do-fo-rni 18, 27, 33, 40, do-forti 18, do-rime (leg. -i) 18, 23, do-gni 10, 34.

Relative forms: sg. dsas 10, chanas 27, bis 31, 37, téte 33. Pl. dsta 8, 23, dstai 34.

364 Whitley Stokes,

PI. 3 simple: dsait 4, 7, 14, canait 27. Compound: com- racat 14, to-egat 40, do-taegat 40. Deponent: do-coiscedar (leg. -etar) 29.

Passive sg. 3: chanar 9, canair 35; as-relhar, co ndén- tar 33, coisecarthar 17, legihar 32, 33, scribthar 33, airimther 20, forcnider 14, 28, dognither 33. P1.3: ado- pretar, fo-dailter 25, fodaliter 26, forcendaiter 27.

Perfect act.: ad-chuadumur (leg. -amar) 32,

t-preterite: as-ru-barimar 36, at-ru-barimar 24.

The above are Old-Irish forms. But the Middle-Irish pe- riod is indicated by the use of the nom. pl. sacairt 27, for the acc. pl.: the nom. pl. of the fem. article for the masc., (na tri sacairt, na tri sailm, 27), the pres. ind. sing. 3 in -ann, -dsann 1 (O. lr. -dsa), the absolute ending in the compound verb fdcbaid 27, the non-deponential do-t-coise 18; the 3d pl. filet 11, 12, the pret. act. pl. i atrubrumar 25: the misuse of the numerals fem. di for masc. dd 25, 27, and masc, tri for fem. teora 18: the occurrence of pro- sthetic f before accented vowels. This last corruption is probably due to the transcribers, and has therefore been removed wherever it occurs.

Our tractate has already been edited with a translation and an instructive introduction by the late Rev. T. Olden, in the Transactions of the St. Paul's Ecclesiological Society, London 1897-98, vol. IV, pp. 98-104, 177-180. But a se- cond edition is desirable for the following reasons: first, Mr Olden's text and translation are not always quite cor- rect: secondly, because the tract is valuable not only to ecclesiologists, but to continental Celtists, and to the latter the facsimile and Transactions above named are not easily accessible; and, thirdly, no one (so far as I know) in the United Kingdom. can find out anything about the Liber Episcopi on which the Irish text is founded. Some learned Italian, German or French ecclesiologist will now, perhaps, identify it.

In editing the text I have extended the contractions, but

A Tractate on the Consecration of a Church. 365

expressed the extensions by italics, 1 have used hyphens to separate the transported n and ¢ from words beginning with vowels: I have severed the proclitics from the words to which, in the ms. they are respectively prefixed: I have divided the text into numbered paragraphs: and whenever I have corrected a scribal corruption, I have given in a footnote the lection of the ms.

W. S.

366 Whitley Stokes,

COISECRAD ECLAISE. (Lebar Brecc, p. 2772).

INcipit coisecrad eclasi indso,,

§ I. Line andso dorigensat hécnaide eolcha um chäirech- tair toraind n-eclasi, do erslocud eolais coisecartha eclasi no daurthaige nui, co taisceltar asin line-sea cia mét fotha asa n-ásann !) coisecrad eclasi 7 cia lin fotha ásas?) as cach fotha dib, 7 cia hord fil forsna fothaib 7 forsna fôd- laib äsas ?) uadib o thus co deread.

§ 2. IS amne didu taisceltar erslocud in eolais sin asin line -i- sic disponitur. exsurgit nunc ordo. Atraig innossa in t-ord consecrationum -i- in via coisecartha na n-ilchoi- secartha-son na heclasi in daurthige nui.

S 3. Cia lin in uird sin? Ni ansa. Ochtduplex (leg. Ocht- triplex?) -i- ochtfiltech fo thri -i. tri hoct. conad he a cethar -xx: fo sodain.

§ 4. Can didu atraig in t-ord sin? Ni ansa: ex quinis radicibus -i- onaib mecnaib coicdib -i- ásait *) na -iiii- fódla fichte coisecartha na heclasi ho choic fhothazb.

§ 5. It e na cóic fotha:

Pauimentum,

et altare cum instrumentis suis,

et consecratio deforis cum .xır. psalmis canticum. et asparcio aque intus,

et asparcio deforis.

') Ms. asa nfhasann. *) Ms. tasas. °) Ms. fasait.

A Tractate on the Consecration of a Church. 367

THE CONSECRATION OF A CHURCH.

Here beginneth the consecration of a church.

§ I. A tractate, here, which wise men, learned as to the characteristics of marking out a church, have com- posed in order to expound the science of consecrating a new church or oratory, so that from this tractate may be ascer- tained what is the extent of the subject out of which grows the consecration of a church, and what number of subjects grows out of each subject, and what is the order of the subjects and of the subdivisions that grow from them from beginning to end.

§ 2. Thus then the exposition of this science is as- certained from the tractate, i. e. sic disponitur. Exsurgit nunc ordo, now arises the ordo consecralionum, 1. e. the consecrated via of these many consecrations of the new church or oratory.

§ 3. What is the number of that ordo? Not difficult. Octuplex (Octriplex?), i. e. thrice-eightfold, i. e. three eights: so that thus it is twenty-four.

§ 4. Whence, then, arises this ordo? Not difficult, ex quinis radicibus, i. e. from the five roots, i. e. the four -and-twenty divisions of the church grow from five subjects.

$ 5. The five subjects are:

The Floor,

And the Altar with its furniture,

And the consecration from outside with the twelve [psalms] (canticum),

And the Aspersion of water inside,

And the Aspersion from without.

368 Whitley Stokes,

§ 6. Cid ém frisi casmail in t-ord ochtfilltech fothri atraig asna cóic fothaib? -i- ni ansa. similis uirgulto rudi. is casmail don fualascach maeth -i- amat atraig ilar flesc o uathmecnaib !), sic na födlaı ona fothaib.

§ 7. Toegam tra for corp ar line beos, Hoc modo pri- mus exsurgit vel primo -i- in cetnaidu atraig em ord in choisecartha eclasi solius -i- na heclasi oenda -i- in làir. Cia lin in uird sin? Ni ansa, septiplex -i- sechtfilltech. ar amal ásait?) secht flesca a hoenmecon. sic secht fédla coi- secartha asin làr na heclasi.

§ 8. Cadeat na secht fódla hisin ästa®) asin lar ba cho- smailius secht flesc a hoenmecon ?

§ 9. I. Ni ansa. is i in cétna fodal em, Intréit a hainm -i- quando dicitur ‘INtroibo in domum tuam, Domine’ usque ‘Laudabo te’, 7 inni chanar iarum i ndorus in daurthige conice in crand mbith co canar Pater noster amal rogab uli in t-ord isin libar escuip. IS ead tra chanar iar ndul dar crand mbith et ‘Factus est in pace locus eius’ et ‘Do- mus mea domus orationis uocabitur.

§ 10. II. IS hi in fodal tanaise dsas *) asin lar -i- coise- crad usci 7 salaind dogni in t-escop cona thincetul 5) còir asin libur escuip airm a mbi in caingel, 7 combuig in sa- laind hi tri, 7 dombeir i n-usce, 7 berthe in dechon i n-usce sin combi fon altoir.

§ 11. III. IS hi in tres fodail in choisecartha ásas ®) asin lar «i. sailm 7 orthain filet isin libur escuip, ad [e]iecien- dos demones,

1) Ms. fhuathmecnu. *) Ms. fasait (f dotted). *) Ms. fasda dotted). *) Ms. fasas. *) Ms. thincedul, but tincetul 8 17. 5) Ms. fasas.

A Traclate on the Consecration of a Church. 369

S 6. What, then, does the twenty-four-fold order re- semble, which arises from the five subjects? Similis vir- gulto rudi: it is like the tender shrubs, i. e. as many rods arise from white-thorn roots, sic do the subdivisions from the subjects.

§ 7. Let us now enter on the body of our tractate. Hoe modo primus exsurgit, vel primo, i.e. in the first place arises the Order of the consecration of a church solius, that is, of a single church, 1. e. of the Floor. How manyfold is that order? It is septiplex 1. e. sevenfold, for as seven rods grow out of one root, so do seven subdivi- sions of consecration grow out of the Floor of the church.

§ 8. What are those seven subdivisions which grow out of the Floor in the likeness of seven rods from a single root?

§ 9. Not difficult. This indeed is the first subdivision, ‘Introit’ (is) its name, i. e. quando dicitur * Introibo in domum tuam Domine’ (Ps. 65, 13) usque ‘Laudabo te’, and what is sung afterwards before the oratory as far as the threshold-beam until a Paternoster is sung, as the whole Order is in the Bishop's Book. This, then, is what is sung after crossing the threshold-beam, both Factus esi in pace locus eius (Ps. 75, 3) and Domus mea domus orationis uocabilur (Mat. 21, 13).

§ 10. This is the second subdivision which grows out of the Floor, i. e. the consecration of water and salt, which the bishop performs with its proper chant out of the Bishop's Book in the place where the chancel is; and he breaks the salt into three, and puts it into the water, and the deacon brings that water, so that it is under the altar.

§ 11. This is the third subdivision of the consecration which grows out of the Floor, i. e. the psalms and prayers which are in the Bishop's Book for casting out devils.

370 Whitley Stokes,

§ 12. IV. IS à in cethramad fodal in coisecartha 4sas !) asin lar -i- sailm 7 orthain filet isin libur escuip -i- ald] maledicendos demones.

§ 13. V. IS hi in cóiced fodal äsas ?) asin lar -i- or- thain choisecartha in läir fessin, amal rogab isin libar escuip.

8 14. VI. IS hi in sesed fodal in coisecartha àsas *) asin lar -i- ind apgitir scriptha fodi isin lär, is as atinnscna in célna apgitir asin uillind airtherdescertaig co forcni- ther isin uillind iartharthuaiscertaig. Tindscna immorro ind apgitir thanaise asin uillind airt[hJairthuaiscertaig co forcnider isin uillind iart[h]airdhescertaig, cu comracat na di hoo im-medon in läir co mbi..... lair...

§ 15. IS hi in secht(mad fodal in chois)ecartha äsas *) asin lar... (ro)gabsat isin libur...

8 16...... altaris instrum..... (sext)ublex -i- exsur- git 5) -1. ordo consecrationis ©) -i- coisecartha na haltora cona n-aidmib. Cia lin in uird sin -i- sextuplex sefilltech -i- ama! asait") flesca a hoen (bun) nd a hoen mecon is amlaid Asait 8) fodla coisecarrtha asin altoir cona haidmib.

§ 17. IS hi in céfna fodal coisecartha na haltora -i- ablu 7 usce 7 fin comes[cltar a n-oenlestar immalle 7 coisecar- thar amal rogab tincetul a coisecartha isin libur escuip, 7 is aire coisecarthar in[n]a tri sin i tosach, fobith it e adopretar fuirri dogrés ic oiffrind.

§ 18. IS hi in fodal tänaisi äsas asin altoir -i- coise- crad clair na haltora budessin -i- doforni in [t]epscop fes- sin cetheora crossa cona scin i cethri hardaib infnja al-

a ara q _———_——_——— nn.

1) Ms. fisas. *) Ms. fasas. ©) Ms. fásas. *) Ms. fasas. °) Ms. oxsurgia. °) Ms consecrationem. ?°)Ms. fásaid. °) Ms, fasait.

A Tractate on the Consecration of a Church. 371

§ 12. This is the fourth subdivision of the consecration which grows out of the Floor, i. e. the psalms and prayers which are in the Bishop's Book, i. e. for cursing devils.

§ 13. This is the fifth subdivision which grows out of the Floor, i. e. the prayers of consecration of the Floor itself, as is in the Bishop's Book.

§ 14. This is the sixth subdivision of the consecration which grows out of the Floor, i. e. the Alphabet written twice on the floor. The first Alphabet begins from the south-eastern angle and ends in the north-western angle. But the second Alphabet begins from the north-eastern angle, so that the two Os meet in the middle of the floor !). Or... floor...

§ 15. This is the seventh section of the consecration which grows out of the Floor... are in the Book...

8 16. ... altaris instru... sextuplex, i. e. sixfold, i. e. exsurgit i. e. Ordo consecrationis, i. e. of the consecra- tion of the altar with its furniture ?). How manyfold is that Order? Sextuplex ‘sixfold’, that is, as six rods grow out of one bole or out of one root, so do the six subdivisions of the consecration grow out of the Altar and its furniture.

§ 17. The first subdivision of the consecration of the Altar is this: the Host, the water and the wine are mixed together in one vessel, and consecrated according to the rite of Consecration in the Bishop's Book. The reason why those three things are consecrated at first is because they are offered continually at the Mass.

§ 18. The second subdivision that grows out of the Altar is the consecration of the Table of the Altar itself. The Bishop himself marks four crosses with his knife on the

1) The rite of inscribing the Abecedarium is mentioned by Gre- gory in his Liber Sacramentorum, and its inferior date is said by Martene to be A. D. 989. See Smith's Dictionary of Christian Anti- quities, i. 430.

*) Literally, ‘implements'.

372 Whitley Stokes,

tora, 7 doforni tri!) crossa tar a medon ina altora -i- cross tar a medon tair oc a hor, 7 cross tar a medon tiar oc a hor, 7 cross tar a firmedon fessin, 7 donig clar na altora anuas cusin usce 7 cusin fin 7 cusin abluind, 7 inni a mbi don uscî dofórti im fotha, 7 doderna in altoir dia anart bec co mbi tirim, 7 adanna inchis il-lestar bec forsin altoir, 7 canaid ‘Dirigat[ur] oratio mea sicut incensum’ usque ‘uespertinum’, amal dorime isin libur escuip, 7 ongaid co n-oloe choisecartha na -uil- crossa tóraind isin altoir, et dicit: ungore altare de oleo sanctificato, cosin tinchetul dot-coisc ?) isin libur escuip.

§ 19. III. IS i in tress fodal asas?) asin altoir -i- coise- secrad na n-anart 7 a suidiugud for in altoir.

§ 20. IS hi in cethrumad fodal asas*) asin altoir -i- coi- secrad ind impertoir -i- na méisi, breit bec dia n-ai- ri[m]ter corp Crist.

§ 21. IS hi in cóiced fodal sas”) asin altoir -i- coise- crad in choilig, ut dicitur in libro episcopi.

1) leg. teora? ?) leg. do-d-coisc? *) Ms. fasas. *) Ms. fasas. 5) Ms. fásas.

A Tractate on the Consecration of a Church. 373

four corners of the Altar’), and he marks three crosses over the middle of the Altar, namely, a cross over the middle on the east at its edge, and a cross over the middle on the west at its edge, and a cross over the middle on the west at its edge, and a cross over its centre’), And he washes the Table of the Altar down with the water and with the wine and with the Host. And he spills what remains of the water round the base, and wipes (?) the Altar with his small linen cloth until it is dry, and he kindles incense *) in the small vessel on the Altar, and he sings ‘Let my prayer be set forth in thy sight as the incense’ down to ‘evening sacrifice’ (Ps. 140, 2), as it enu- merates in the Bishop's Book”, and he anoints with con- secrated oil the seven crosses which he marked on the Altar, et dicit ‘Ungore (leg. ungere?) Altare de oleo sanclifi- cato’, with the form which follows it in the Bishop's Book.

S 19. This is the third subdivision which grows out of the Altar, the consecration of the altar-cloths, and the setting them on the Altar.

8 20. This is the fourth subdivision which grows out of the Altar, the consecration of the Impertor, i. e. of the slab, or a little cloth in which the Body of Christ is received.

§ 21. This is the fifth subdivision which grows out of the Altar, the consecration of the Chalice, ut dicitur in Libro Episcopi.

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1) The altar must, therefore, have been of wood; consequently, as Mr Olden observed, our tract must have been composed before A. D. 1186, when wooden altars were prohibited in Ireland. e

?) i. e. seven crosses in all, not five, as contemplated by the Synod of Dublin, A. D. 1186.

*) The mention of incense here is the only one in Irish ecclosia- stical literature, if Mr. Warren [The Liturgy and Ritual of the Celtic Church, p. 127] is right in his account of the matter, Olden, ubi supra. The word occurs, spelt ingchis, in the Milan glosses, ed. Ascoli, 141°2.

374 Whitley Stokes,

§ 22. VI. IS hi in sesed fodal äsas asin altoir -i- coise- crad coitcend fil isin libur escuip forsin altoir cona huilib didmib imalle.

8 23. O ra rédigsem tra na da fotha thoisechu dorime ar line cusna teora fódla déc ästa!) estib -i- a secht asin làr, a asin altoir, redigem innossa a tress fotha cona fodlaib amal dorime in line -i- qualuor ministeriorum ec- clesiasticorum ?) triplex exsurgit -i- atraig ord coisecartha quatuor ministeriorum eclesiae -i- na ceithri timterecht n-e- clastacda.

§ 24. Cia lin side? Ni ansa. triplex -i- defilltech [leg. trefilltech]. IS e cosecrad *) 7 doefis atrubartmar isna fo- thaib riam, 7 it teora födla fasta ass, condat -x- ur. fodla sâmlaid asna tri fothaib dorurmisium. conad da fotha 7 ocht fbdla ardunta do rediugud iarum.

8 25. Ceist. cadeat na -iiii- fodla eclasdacda atrubrumar isin tres-fothu-sa? Ni ansa -iiii- fódla fodailter occa coise- crad dianectair 7 cetheora fodla fodailte [ar medon -i-], na di salm déc, canticum occo cona n-urfoclaib. IS aire is triplex in t-ord sin, fobith is triar chanas 4‘) na salmu sin dianectair 7 triar didu nodas-cain 5) ár medon.

1) Ms. fasta. *) Ms. etlasisticorum. °*) Ms. consecra. *) Ms. chanus. °) Ms, nodoscan,

A Tractale on the Consecration of a Church. 375

§ 22. This is the sixth subdivision which grows out of the Altar, the general consecration, according to the Bishop's Book, of the Altar together with all its furniture !).

§ 23. Now, as we have explained the two chief subjects which our tractate enumerates, together with the thirteen subdivisions growing out of them, that is, seven out of the Floor and six out of the Altar, let us now explain the third subject with its subdivisions, as the tractate enumerates (them), i. e. quatuor ministeriorum, ecclesiaslicorum (ordo) triplex exsurgit, i. e. there arises a (triple) order of con- secration guatuor minisleriorum ecclesiae, 1, e. of the four ecclesiastical ministrations,

$ 24. What is this complement? Easy (to say). Double [leg. Triple]. This is the consecration and good science ?) which we have declared in the subjects before, and there are three subdivisions which grow thereout, so that there are sixteen *) subdivisions thus (growing) out of the three subjects that we have enumerated. So that two subjects (Aspersion inside, Aspersion outside), including eight sub- divisions, are to be explained hereafter.

S 25. Question, what are the four ecclesiastical sections which we have mentioned in this third subject? Easy to say. Four sections are allotted in the consecration outside, and four sections are allotted in the middle (of the church) i. e. the twelve psalms, a canticle with them, with their

1) Mr Olden notes the absence of the ceremony of the inclosure of relics of the saint to whom the Church was dedicated, and sug- gests as a reason, that the early British and Irish Christians only dedicated their churchos to living saints. But according to Walafrid Strabo, Columbanus once placed in an altar the relics of St. Aure- lia (Mart. II 13, 6, cited in Smith's Dictionary of Christian Antiqui- ties 1. 429).

2) doe-fis: cf. doi-duine «i. dagduine, Cormac’s Glossary.

*) seven out of the consecration of the Floor, six out of the con- secration of the Altar, three out of the consecration out of doors: sixteen in all.

376 Whitley Stokes,

§ 26. Ceist, cia cruth fodaliter in [t]sailm sin hi -ilii- f6- dla? Ni ansa. Atdt di chetfaid ann la hugtaru coisecartha in[n]a heclasi.

§ 27. IS hi cétfaid in cetna lochta -i- teit in trescop 7 di sacart leiss asin eclais sechtair 7 facbaid tri sacairt isin eclais im-medön. Teit-sium tra 7 a di sacart timchell a- thuaid !) conice in telcholumain anair, 7 doforni in t-escop croiss cona scin isin tulcholumain anair, conid asind aird osin anair intinnscana lais i[n] coisecrad dianechtair, et dicit prius: “Fiat pax et habundantia in domu tua, Do- mine, 7 canait a triúr ina degaid: Ad Dominum cum tri- bularer clamaui’, et ‘Levaui oculos”, et ‘Laetatus *) sum in his, Canaid an airfocul remeperta i forcend na tri salm fo Gloir 7 ‘Sicut erat in principlilo nunc et semper’, 7 a canas in triar anechlar iss ed chanas na tri sacairt ar medon, i tochomaitecht fo chutruma friu, 7 is im-medon in tslessa andess forcendaiter na tri sailm tóisechu sin iler a medon 7 anechtair.

8 28. Tinnscna iarsuidiu aurfocul na tri salm tänaise asin aird sin iter a medon 7 anechfair -i- Domine mis- s[fer]ere nostri, 7 it è na tri sailm cantar and: ‘Ad te leuaui oculos meos’. ‘Nissi quia Dominus’, ‘Qui confidit ”. co forcnider im-medon 7 anechtair oc doras eclasi aniar fond erfoccul remeperta, fo Gloir et ‘Sicut erat’.

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1) Ms. athuaig. *) Ms. letadus.

A Tractate on the Consecration of a Church. 377

antiphons. Therefore this order is triple, because it is three that chant these psalms outside and three also that chant them in the middle.

§ 26. Question. In what wise are those psalms divided into four sections? Easy to say. There are two opinions held by authors (who treat) of the consecration of a church.

§ 27. This is the opinion of the first set. The bishop, accompanied by two priests, goes out of the church and leaves three priests in the church inside. Then he and his two priests go round from the north as far as the front pillar in the east, and the bishop marks a cross with his knife in the front-pillar !) in the east, and from that point in the east begins by him the consecration from outside. And first he says: ‘Let there be peace and plenty in thy house, O Lord’ (cf. Ps. 121, 7), and the three of them chant after him ‘When I was in trouble I called upon the Lord’ (Ps. 119, 1) and ‘I have lifted up mine eyes’ (P. 120, 1), and ‘I was glad when they said to me’ (Ps. 121, 1). At the end of the three psalms he chants the an- tiphon aforesaid, with the Gloria and ‘As it was in the beginning, is now, and ever shall be’, and what the three chant outside is what the three priests chant within, in accompaniment equally with them. And at the middle of the south side those three first psalms are finished, both within and without.

§ 28. After this begins the antiphon of the second three psalms from that point, both within and without, to wit, ‘Lord, have mercy upon us’, and these are the three psalms that are chanted there ‘Unto thee have I lifted up mine eyes’ (Ps. 122, 1), ‘If the Lord had not been” (Ps. 123, 1), ‘They that put their trust’ (Ps. 124, 1), so that an end is made, within and without, at the western door ?) of the

1) Hence, and from other such directions, Mr Olden infers that the church contemplated was built of wood, not stone.

*) ‘The door’, says Mr Olden, ‘is in the West, as in the earliest Irish churches, which, in general, had only one entrance".

46

378 Whitley Stokes,

§ 29. INtinnscna atherruch im-medon 7 anechtair ón dorus aniar aurfoccul na tri salm docoiscetar !). -i- Erit uxor tua sicu? uitis habundans in lateribus domus tuae IN conuertendo Dominus. Nissi Dominus. Beati omnes co forcnedtar ?) im-medon 7 anechtair im-medon tslessa na eclasi atuaid *) fon aurfoccul cetna, fo Gloir 7 Sicut erat.

$ 30. Tinnscna didu im-medon 7 anechtair asin aird-sin atuaid *) aurfoccul na tri salm ndedinach -i- Sperat Israel in Domino et hoc nunc et usque in saeculum. Sepe expu- gnauerunt me. De profundis clamaui. Domine non est, co forcneder iter» im-medon 7 anectair ocun taulcholamain anair fon aurfoccul celna fo Gluair

S 31. Canar -i-... on taulcolomain sin an(air.....) imbelaib in tsacairt bis..... nar. Tollite portas (principes uestras et eleuamini, portae aeternales, et introibit) rex glorie. Frisgair in sacart is[s]ruithe bis isin eclais im-medon Quis tibi iste rex glorie? Co frecair amuig in sacart bis for laim cli in epscuip: Dominus uirtutum ipse est rex glorie.

§ 32. IN lucht tra isa cetfaid atchuadumar do thindscetal in coisecartha on cholamain anair. issed dofeith do, fobith is airechdu in rann airtherach. Ar cid anus airechda 7 anus sruithe legthar i talum -i- Parrdus Adaim, is ed adbar bid he cend in betha 7 bid a n-airther no beth. Is anair

-

1) Ms. docoiscedar. ?) leg. forcneder etar? cf. 8 30. * Ms. atuaig.

A Tractate on the Consecration of a Church. 379

church with the aforesaid antiphon (and) with a ‘Glory’ and ‘As it was”.

8 29. Again begins, within and without, from the door in the west, the antiphon of the three following psalms, to wit, ‘Thy wife shall be as a fruitful vine upon the sides of thy house’ (Ps. 127, 3), ‘When the Lord turned again’ (the captivity of Zion, Ps. 125), * Except the Lord (build the house’, Ps. 126), Blessed are all they (that fear the Lord, Ps. 127), so that an end is made, within and without, at the middle of the northern side of the church, with the same antiphon (and) with a ‘Glory’, and ‘As it was’.

$ 30. Then begins, within and without, from that point in the north, the antiphon of the three last psalms, ‘Israel trusts in the Lord from this time forth forevermore” (Ps. 130, 4), ‘Many a time have they fought against me” (Ps. 128, 1) ‘Out of the deep have I called unto thee’ (Ps. 129), ‘Lord, I am not high-minded’ (Ps. 130), until an end is made both within and without, at the eastern front-pillar, with the same antiphon (and) with a ‘Glory’ (and ‘As it was”).

$ 31. There is sung, i. e.... from that eastern front pillar... before the priest who is... ‘Lift up your heads, O ye gates, and be ye lift up, ye everlasting doors, and the King of glory shall come in’ (Ps. 23, 9). The oldest priest who is within the church answers: ‘Who is this King of glory?’ (Ps. 23, 10). Then the priest who is on the bishop's left hand answers: ‘The Lord of hosts, He is the King of glory’ (Ps. 23, 10).

§ 32. Now those whose opinion we have mentioned (de- clare) that the beginning of the consecration (is) from the eastern pillar. This is what brings them to this (declara- tion), because the eastern part is the noblest. For what is read to be the noblest and most venerable thing on earth? Adam's Paradise. This is the reason: it is the end of the world and it is in the east it should be. From the east also begins the adoration of Christ's Cross by every

380 Whitley Stokes,

didu tinnscna âdrad Cruiche Crist da cach eclais, fil o chroich siar co fuined. Is anair didu taurcaib grian as comainm do Crist. Is anair didu legthar tetacht do Cris in die iudicii. Is anair didw scribthar ind apgitir isin tegdais im-medon.

$ 33. Aniar immorro o dorus eclasi tinnscna a coise- crad anechtair -i- isin lucht aile do ugdoraib, 7 is fodail cetharda tete forsin eclais dianectair oca coisecrad 7 forsna salmu canticum -i- on ersain descertaig aniar cusin mbend- cobar iart[h]arthuaiscertach, o suidiu cusin mbenncopur airthert{hluaiscertach, o suidiu cusin mbennchopur air- t[hJerdescertach, 7 is andsin doforni in t-escop crois asin tulcolomain anair 7 on bennchopur airterdescertach anair don benncopur iarthardescertach, 7 dognither amedon 7 anechtair in fodail cetharda !) sin don eclais 7 dona sal- maib fon cosmailius cé/na.

8 34. Ocus is aire is triplex in t-ord-sin, fobith is triar dogni in t-ord sin amedon 7 anec[hJtair, 7 it födla déc amne äsdai ?) asna fothaib remepertaib. Ocus canar Domini est terra on bennchobur iarthardescertach conice in dorus usque dum dicitur Atollite, co ndentar a n-imfrecra reme- perta iter in triar cétna amedon 7 anec[hJtair.

§ 35. IS aire tra is on dorus aniar intinnscna in coi- secrad anec[h]tair lasin lucht-sin, arna beth fecht fãs aniar

———— —————_——_— Ò =

1) Ms. cechtarda. ?) Ms. fäsdai.

A Tractate on the Consecration of a Church. 381

church from the Cross back to the west. From the east, too, rises the sun, which is an appellation of Christ 1). From the east, also, we read that Christ will come on doomsday. From the east, too, the alphabet is written in the edifice inside.

§ 33. However, according to another set of authors, the consecration of a church from outside begins from its western door, and it is a fourfold subdivision which relates to the church on the outside at its consecration and to the psalms canticum. That is, from the south-western doorpost to the north-western pinnacle ?), thence to the north-ea- stern pinnacle, thence to the south-eastern pinnacle and ’tis there that the bishop marks a cross on the eastern front-pillar and from the south-eastern pinnacle in the east to the south-western pinnacle. And inside and outside that fourfold division of the church and of the psalms is made exactly alike *).

$ 34. And that order is triple because three persons perform it within and (three) without, and thus there are sixteen subdivisions growing out of the subjects aforesaid. And ‘The earth is the Lord’s’ (Ps. 24, 1) is chanted from the south-western pinnacle as far as the door until ‘Lift up your heads’ is said, and the aforesaid correspondence is made between the same triad within and without.

§ 35. Now the reason why the consecration from outside begins from the western door is, according to that set (of authors), that there may not be (any) time vacant in the

1) see Lives of Saints from the Book of Lismore, p. 361. Mr Olden says that in the hymns of the Greek Church the Virgin is described as Ming toù mAlou Xeistoù.

*) Mr Olden remarks that ‘The mention of pinnacles renders it pro- bable that the wooden churches of early times had some pretensions to ornament’ He refers to the passage in the Boroma (Rev. Celt. XII. 115). What is that groat and pinnacled (bennchoprach) house I see? ‘That’, said the nun, ‘is Kildare’.

*) literally ‘under the same similarity’.

382 Whitley Stokes,

cen cetul neich don coisecrad. Ocus ind introit cétna ca- nair oc dul isind eclais, is i chanair oc dul innte in fecht sin.

§ 36. Redigem a cethrumad fotha cona fódlaib, amal atfét ar line, id est quinque grad[u]um uirorum !) [ordo] triplex -i na coic graid ferda -i- atraig ord consecra- tionis ?). Ceist, cid a lin side? Ni ansa. triplex -i- trefiltech, conid he a noi déc amne asna *) cet[hJri fothaib. Ocus is e aspersio intus inso asrubartmar as cethrumad fotha in c[hJoisecartha.

8 37. It é na cóic graid ferda -i- in coicer bis occa ‘i. epscop 7 tri sacairt 7 deochan. Gabid in deochan in lestar bis fon altoir cosin usci 7 cosin saland coisecartha, 7 berthi remi don aird airtherdescertaig inna eclasi, 7 do- forni in t-escop cona scin crois isin capur airtherdescer- tach isin slis andess, 7 asrei didu usci choisecartha.

§ 38. Biid tra croeb de hisóip il-láim cach fir dona sa- cartaib *), 7 asrei fer dib in damdhabaig tis cosin usci, 7 asrei fer aile in sliss, fer aile in drumcli.

S 39. IS aire is triplex in t-ord sin, fobith is tréde as- rethar 5) ann 7 is triar asrei, 7 canait uli in urfocculsa ®): ‘Asperges me hisopo’ usque ‘dealvabor’, Misserere mei Deus secundum magnam co forcend, 7 a n-urfoccul cétna fair fo Gloir 7 Sicut erat, 7 inni as dir do ina dhiaid in libro episcopi.

§ 40. Dotægat iarum don ochair iarthardescertaig inna eclasi. 7 doforni in [t-Jepscop cona scin croiss isin capor

ee mn —— ---——r —P— ———»———_———> nn mn

1) Ms. feimorum. *) Ms. consecrationem. °) Ms. osna. *) Ms. tsacartaib, with punctum delens over the initial t. °) Ms. asre- thtar. *) Ms. furfocculsa, with punctum delens over the initial f.

A Tractate on the Consecration of a Church. 383

west without chanting somewhat of the consecration. And the same introit that is chanted when (first) entering the church is chanted on entering it this time.

$ 36. Let us now explain the fourth subject with its sub- divisions, as our tractate declares, that is the triple order quinque graduum virorum, the five grades of men, i. e. the order of consecration arises. Question, how manyfold is it? Easy to say: triplex, à. e. threefold: so thus there are nineteen (subdivisions growing) out of the four subjects. And it is this Aspersion within, which we have mentioned, that is the fourth subject ot the consecration.

§ 37. These are the five grades of men, i. e. the pen- tad which is at it, namely, a bishop and three priests and a deacon. The deacon takes the vessel that is under the altar with the (consecrated) water and with the consecra- ted salt, and carries it forward to the south-eastern angle of the church; and the bishop marks with his knife a cross on the south-eastern rafter in the south side, and then sprinkles the consecrated water.

$ 38. Now there is a branch of hyssop in the hand of each of the priests, and one of them sprinkles the font below with the water, and another sprinkles the side, and another the ceiling.

§ 39. The reason why this order is triple is because three things are sprinkled and three persons sprinkle. And they all chant this antiphon: ‘Thou shalt purge me with hyssop and I shall be clean’ (Ps. 50, 9) ‘Have mercy upon me, O God, after thy great goodness’ (Ps. 50, 3) to the end, the same Antiphon thereon, with a ‘Glory’ and ‘As it was”, and what pertains to it afterwards in the Bishop's Book.

$ 40. Then they go on to the south-western corner of the church, and the bishop marks with his knife a cross into

384 Whitley Stokes,

ndescertach aniar inna airchini, 7 asréi in crois-sin cosin usci, 7 toegat don ochair iartharthuaiscertaig don tsliss atuaid !), 7 doforni in[t]epscop crois cona sein isin capor n-iarthair atuaid !).

[Caetera desunti].

1) Ms. atuaig.

A Tractate on the Consecration of a Church. 385

the south-western rafter in its airchine, and he sprink- les that cross with the water, and thet them go on to the northwestern corner of the north side, and the bishop marks with his knife a cross into the north-western rafter...

mm nt or nn

47

386 Whitley Stokes,

GLOSSARY OF THE RARER WORDS,

ad-oprim, J offer, orthotonic form of idpraim, pass. pres. ind. pl. 3 adopretar 17.

airchini 40, dat. sg. meaning obscure. Mr Olden thinks it stands for the gen. sg. of aircine, which he renders by pyx, dimiu. of arc, Lat. arca. And in ecclesiastical Latin arca and its diminutive arcula are certainly used for a box in which the Eucharist was reserved.

air-focul 27, antiphon, aurfocul 28, aurfoccul 29, 30, erfoccul 28, ur- foccul 39, pl. dat. urfoclaib 25. For the meaning, Mr Olden com- pares canait uli in urfoccul-su 39, Asperges me hisopo, with cle- roque canente antifonam Asperges me Domine, Drogon's sacramen- tary, cited by Abbé Duchesne, Origines du Culte Chrétien, p. 466.

airther-descertach 33, 37, south-eastern, airther ‘versus orientem’, Ascoli Gloss. pal.-hib. XXIV.

airther-thuaiscertach 33, north-eastern.

amne 2, thus, Ascoli, Gloss xl.

ar-dúnta 25, included?

atherruch 29, again, = athirriuch, aithirriuch Asc. Gl. cc.

atinnscna 14, begins.

benn-chobar 33, 34, benn-chopur 33, pinnacle.

bi -i- tairsech threskold, Dav. 57. di bi, L. U. 101* 27, sith-bi. LL. 231º 45: see crann bith.

capor rafter, sg. dat. capur 37, acc. capor 40. See L. U. 121* 37. Cymr. cebr, ceibr, Corn. keber (gl. tignum), O. Br. cepriou (gl. tignae, gl. laquearibus), mbret, guepr ‘chevron’, now cebr. From med. Lat. ca- prio, and cf. capriolus vox architectorum, Ducange.

côtnaide prime, adv. in cétnaidu (gl. primo) 7.

cóicdib (gl. quinis) 4, pl. dat. of cóice 1?

crann bith 9, threshold-beam. The bith may be gen. sg. of bi, q. v.

dam-dabach (lit. oxtub), font, acc. sg. damdabaig 33 pl. n. damdabcha L. U. 95%, dat. damdabchaib (gl. torcularibus) MI. 24º 9.

dé-filltech 24, twofold.

descertach aniar 40, south-western.

do-choiscur I follow (Strachan, Deponents, 20), pl. 3 dacoisceadar 29. In do-t-choisc 18, the verb has’become active.

do-dernaim J ripe? pres. ind. sg. 3 doderna 18.

dearnaim J handle, O'R.

do-egaim I go to, imperat. pl. 1 to-egam 7, pl. 3 toegat 40. see detoegaim infra,

A Tractate on the Consecration of a Church. 387

doe-fis 24, good knowledge (skr. sadvidyd). -

do-fedim I bring? sg. 3 do-feith 32.

do-fornim (to-fo-rindim) J cut, carve, mark, orthotonic form of töirn- dim: pres. ind. sg. 3, doforni.

do-fortim (de-f.) I spill, orthotonic form of doirtim. Pres. ind. act. sg. 3 dofórti 18.

do-nigim J wash, pres. ind. act. sg., donig 18. Verbal noun tonach.

do-toegaim J go on to, pl. 3 dotaegat 40.

drum-cli 38, a ceiling. druimmchh (gl. laquear) Sg. 542 19,

eclastacda 25, ecclesiastical, deriv. of eclais, Asc. Gl. lxx.

ar-slocud 1, exposition = ersolcud ‘actus aperiendi’, Asc. Gl, ccxv.

ferda 36, 37, consisting of men, ferdo *virilis’, Asc. Gl. cccvil.

fir-medón 18, very middle, centre.

iarthar atuaid 40, north-west, iarther Asc. Gl. lxxvI.

iarthar-descertach 33, 34, 40, south-eastern.

impertoir, gen. sg. 20. The gloss suggests that this was either an Antimensium à. e. a consecrated slab of wood (so according to the Syrian use), or a Corporale ‘the cloth on which the elements are consecrated in the Eucharist’.

inchis 18, incense: from Lat. incensum, the c being aspirated from the analogy of inchosc, inchruth etc. ind ingchis, Asc. Gl. Ixxxvın.

intréit F. 9, 35, from Lat. introitus ‘tho anthem at the beginning of the eucharistic office’.

hisoip 38, dat. sg. hyssop.

line 1, 2, 7, 23, 36, borrowed from Lat. linea, but here meaning ‘trac- tate’ or ‘treatise’: nom. pl. is ed adfiadat lini, Fiacc’s h. 12. Hence indlinech ‘linearis’, Asc. Gl. clxviil.

ochar edge? corner? dat. sg. ochair 40.

ocht-filltech 3, 6, octuple.

secht-filltech 7 (gl. septuplex).

se-filltech 15, (gl. sextuplex).

taul-cholomain 30, tel-cholumain 27, tul-cholumain 27, 33 front pillar.

tetacht 32, advent, tetacht Dubgennti, Ann. Ult. 350.

tinchetul 10, 17, 18, usually ‘incantation’, but here, apparently, a chanted form or rite.

to-chomaitecht 27, accompaniment.

tre-filltech 36 (gl. triplex). uath-meccon 6, wliite-thorn root, uath ‘spina alba’, Asc. Gl. ccxxvi.

JOHN SCHMITT.

e

Pılıxöov-risico.

Nel greco medievale la voce gfixov, secondo Du Cange, significa : fatum, sors, fortuna, periculum, eiuaguévm, woiga. Per lo più si presenta in forma neutrale: zo @ebtxo (v) pov, il mio destino. Volendo poi precisare il concetto di un destino favorevole o contrario, si aggiunge l’aggettivo xælôv o xax6v. Coll’accento sulla prima sillaba @itxo si trova nel Meursius e Du Cange, e in un passo nella raccolta di Jeannarakis !). Ma la regola 6 di porre l'accento sul- l’ultima; la combinazione con un pronome aggiunto: 70 6ılıxo uov, e così lo troviamo quasi sempre, poteva suggerire l’accentuazione to gibixo gov, specialmente se si considera che nei mss. contenenti testi volgari l'una ac- centuazione si confonde coll’ altra. Quanti fin ora si oc- cuparono di é«x6: Meursius, Du Cange (p. 1297), Korais (Atacta II p. 166), Byzantios *) e ultimamente Bernhard Schmidt, Thumb *) e Gustavo Meyer *) si accordano nel

1) Kal dilıxo uov unewes Jeannarakis, Kretas Volkslieder, Leip- zig 1876, n.º 176,2; ma ib. 309,4 to getcxo rom. - Bernhard Schmidt, das Volksleben der Neugriechen, Leipzig 1871, pag. 221 e Nota I si dichiara in favore dell'accento sull'ultima.

2) Zxagiatos BuZavtios®, Asfixov ins xa ruas EA. diadéxtov, Atene 1857.

®) Thumb, Zur neugr. Volkskunde, der Klidonas, nella Zeitschrift des Vereins für Volkskunde, 4. Heft, 1892, pag. 399.

*) Gustav Meyer, Neugr. Studien IV, p. 76; Sitzungsberichte der K. Akademie der Wis. in Wien, phil.-hist. Classe, Bd. CXXXII, 1895.

390 J. Schmitt,

derivar la voce greca dall'italiano risico (rischio). Ma una tale derivazione, tanto naturale in apparenza, incontra alcuni ostacoli che meritano essere considerati nel loro insieme.

I. La spiegazione della stessa voce italiana può destare dubbii. Diez (Et. Wb.* p. 271) osserva: «lo spagnuolo risco = scoglio, rupe erta, conduce al latino resecare = tron- care, mozzare; un’altezza ripida fu immaginata come una cosa recisa, tronca. Non altrimenti la voce skär = scoglio nello svedese si collega con skära = recidere. » Non è qui il caso di indagare per qual procedimento del verbo latino resecare si sia potuto estrarre l’italiano risico. Che anzi crediamo senz'altro poter affermare quest’ultima voce dover riconnettersi direttamente col termine frequentissimo nella lingua dei marinai e mercanti del Medio Evo, con risi- cum *). La quistione deve dunque piuttosto formularsi così:

1) Du Cange (Henschel) s. v. risicum, risicus, riscus = periculum, alea, discrimen. Le diverse combinazioni sono: vel faciet portandum in aliquod viagium, ad fortunam vel risicum (riscum in ms.) ipsius mutuantis. Haec omnia risico et periculo haereditatis et haere- dum. Teneatur ejus periculo, risico et fortuna. Galli dicunt.: d mes risques et fortune, e aggiungiamo i termini usati nella lingua commerciale: a suo rischio e pericolo, ingl.: at your risk and peril e l'equivalente: auf Ihr Risico nel tedesco. Così le formole usate nei documenti notarili del medio evo si perpetuano. La medesima voce e sparsa nelle lingue balcaniche. Nell'Etymol. Wörterbuch der albanesischen Sprache di Gustavo Meyer troviamo: rizikò, rizik = Ge- fahr, rizikonem = wage, aus ngr. dexoy und aus bulg. se. rizik Zufall und dies aus it. risico. Nell’arabo vi è la voce rizq = ricchezze, buona fortuna nel Devic, al quale rinvia Skeat, an Etymol. Dict. Per averne una nozione più dettagliata, mi rivolsi al mio amico, il prof. Hans Stumme, alla cui gentilezza debbo la spiegazione se- guente: «il senso fondamentale é razione, secondo la derivazione del persiano rôzek, rézeh. Altri significati sono: vitto, mantenimento, viatico, stipendio, cose necessarie alla vita, pane quotidiano, la so- stanza etc. Dal significato : provvedimento dalla parte di Dio, quello di fortuna, ricchezze poteva facilmente svilupparsi». Questi ul- timi tre si accordano con quello di @&xo, cfr. § VII; ma non vorrei con tutto ciò precisare la relazione, se ve n'è, fra la voce greca e l'araba,

Pıkıx 0v- risico. 391

da dove proviene il basso latino risicum? Certo non è preso dal patrimonio antico e fa l’impressione di essere, come viagium etc., un riflesso del volgare parlato. Può essere penetrato per mezzo di una lingua straniera. In ogni modo deve essere in rapporto col suo corrispondente öıtıxöov, e forse la spiegazione storica di questo può inse- gnarci quale sia la vera relazione fra l’uno e l'altro di questi termini. E vi sono indizii sufficienti per ritenere che la voce greca non può senz’altro essere considerata come un prestito fatto dal greco all'italiano.

II. Con grande verosimiglianza essa si spiega dal greco stesso, se teniamo conto della sua semasiologia alquanto complicata nel decorso dei secoli. Nella lingua antica la dite di una montagna corrisponde al latino radix, intendendosi con essa il fondamento sopra il quale riposa la montagna, oi rroorodes, modes opovs, il piede d'un monte, le pied de la mon- tagne, der Fuss eines Berges, e in neogr. parla ancora oggi di oa) o più precisamente si dice éetofoùve op- pure zodia tod Bovvod. Anche nel pgr. ricorrono le ra- dici del mare ?). Un fondamento che può sostener il peso di una montagna può immaginarsi facilmente come com- posto di una roccia solida o di un complesso di scogli, il che, del resto, corrisponde alla realtà. Or nel mondo greco dove montagne, promontorii ed isole rocciose si confon- dono nell’amplesso del mare, si produce il fenomeno ben noto, che le radici di una montagna si stendono sopra la terra, dove sono visibili, mentre gli ultimi contrafforti perdono invisibilmente sotto il livello del mare. Nell’uno di questi casi si chiamano piedi, nell’altro scogli di mare,

ee -— —- a ew nt —————— ee ann 00

1) K’&mao’ avtaga ota Bouya xai xarayvec ’s ton piles. Jeannarakis 193,8: vi fu nebbia secca sulla cima dei monti e nebbia umida ai loro piedi; roù fovvov 1 dita, Jean. 188,1.

?) Così Oppiano, Hal. 4, 544, parla delle radici del mare ed in- tende il suo fondo:

Letetae Es vedras pilas «Aus, v9’ ausvnvais nnhauvor mpovrmper Ev lAvcı nentnvlaus.

392 J. Schmitt,

e scogliere, se formano una catena. Sono appunto questi scogli sottomarini che costituiscono un pericolo molto grave per la navigazione. Tanto è vivace questa immagine presa dalla vita marittima che parliamo nel senso figurato di uno scoglio (e in ted. Klippe), volendo alludere a qualche grande ostacolo. Per ora teniamoci a questo: che presso un popolo essenzialmente marittimo quale è il popolo greco, i pericoli che rinchiude il mare dovevano acquistare im- portanza nella lingua nautica, e da questa certe locuzioni potevano passare nella lingua comune. Il piede di una montagna e la sua radice sono cose identiche, così almeno nell'uso del greco volgare. Ma parlando di una radice, è naturale che si presenti piuttosto l’idea di una cosa na- scosta, e così colle radici di una montagna si potevano facilmente intendere anche i contrafforti che si stendono sotto le acque.

III. La voce dite potè in un tempo aver il senso di scoglio; prova ne sia il suo significato odierno, conservato nel dialetto di Sfakiá nell’isola di Candia !). Ma come propriamente si deve spiegare l’aggettivo guftxdc, diventato sostantivo? In pgr. significa: appartenente alla radice, in modo da far pensare a una parte della radice o una cosa che in qualche modo si riferisca ad essa; alla parte insomma presa per il tutto. Ma vi è una via più sicura. La sostantivazione degli aggettivi -ıxös, in ispecie dei fem- minili che qualificano arti e mestieri, è per l'antico greco conosciutissima : Ti uovo, T lazer, 7 yvuvaotiat (sc. téyvn); ma é meno conosciuta la continuazione di questo uso nella lingua moderna: © Booxıxn, 7 Wagixt = mestiere del pastore, del pescatore, Jannaris $ 1070, e $ 1071, dove sono pure esempi di neutri plurali: ra mAvosixe (sc. Aerırd

1) IIaiovovv ta La xai céovovviar 's ron elles, ’s te yapazıa

Jeannarakis 90,8: le tempeste spingono le pecore all'incontro delle pietre e degli scogli (zapaxıa). Qui Ole e yaedxe sono voci paral- lele e perciò sinonime.

Pıkıx ov-risico. 393

o il medievale dmvégua) la paga per la biancheria ta dÃe- ovixd, danaro per macinare, ma raramente si usa il sin- golare -sixo. A questi aggiungiamo alcuni mascolini sostan- tivati: of revevuatixoi: una scuola di medici, e nel neogr. revevuatixos confessore; da aqévrms (pgr. avdévens) fu ca- vato 6 dpevrixós il signore, 0 dyevrıxos ov, mio padre. Non trovo un esempio del neutro sing. da accompagnare con qu tiv; ma teniamoci al fatto generale che gli aggettivi in -«x06 hanno una forte tendenza a divenir sostantivi. Una forma- zione come 6 dilexos (sc. Ados, Bodxos, oxônelos) doveva nell'origine significare uno scoglio connesso colla radice di una montagna, o più semplicemente uno scoglio ben ra- dicato. Osserviamo che l’accusativo tov gelexdv diventa nel volgare to guixó, il v non potendo sussistere nella chiusa della parola davanti a spiranti e liquide, e forse deve la forma neutra ad una tale origine, massimamente se l’accusativo, come accade, è più in uso degli altri casi. Del resto, il cambiamento di genere è comunissimo nel neogr : 0 fovvòs, oggi ro fovvò; cf. 6 e ro Mdos, bvrros, ö cidneos, to cidroov nel Hatzidakis, Einleitung p. 356, 3. Si può anche pensare a vo gubixov (sc. Aidos, Addo.)

IV. Per avvalorare un tale argomento, ci proveremo a sostenerlo coll’esempio di consimili formazioni, e anzitutto di un aggettivo cavato da dite e qualificante un sostantivo nel senso di pietra, scoglio. Nel Porfirogenneto (X° S.) de adm. imp. 75, 21 troviamo il passo: uégov avtodt (Tod goayuoÿ) nésoat eioi Orlixaiar vial vyoiwy dixny énogawomevat, E quistione di scogli radicati nello stretto del fiume Da- napris che impedivano la navigazione. Nell’apparato critico Peditore accenna alla forma che ritengo preferibile: guia uaios 1) e questa pure la troviamo nel Digenis I (X° o XI° S.)

') Meursius e Du Cange si riferiscono a questo passo s. v. ge xalos = periculosus (!). M. osserva: ita corrigo; male (?) est in ms. out- maias e Du C.: perperam in ms. guatx. Sophocles spiega: ee xaïos (pelıxos) rooted, immovable (rock.).

48

394 J. Schmitt,

xai avexddicev adtry eis rréroav diliuaiav, la mise a se dere sopra un sasso grosso. Ancora nelle canzoni di oggi troviamo la medesima combinazione: Zagaxyves tm Piykuce al verso 1255: “mo 6ılımıo xapaxı Jeannarakis 126, 28; un Saraceno la fissò da una roccia alta. Na few uuav néroa ou, ib. 188. 4. Kai evoioxe néroes oibumés, nel Dige- nis, Sakellarios ta Kvresaxd (Atene 1891) pag. 16, v. 76. Nella raccolta di Passow, Popularia Carmina: pégves Audagıa olwusa dévrea Eegolwnéva, 124, 4: un torrente che porta seco grandi sassi ed alberi sradicati e così anche 387, 6 colla variante G£œurva. Nel mio giardino ety’ Evas Bodos, maluos, Udo. Olwpévo 144. 7. Betoxw xAugdxı govr- totò xai Örlmuvıo ide, 138, 2: trovo rami ombrosi e un gran sasso (per dormire), colla variante Ono. La tortola fa il suo nido dewpeò Lao, 405, 8. Tio vavow métoa bitouid... ve xérow 406, 4. Abbiamo dunque: dilixaos, Gubiuaïos, diliuios, Brlımvıös, Gelepecos, Qu- Couvıös!) e il participio ouwnévos, e sempre con mérea, Ader, Pedxos; tutti questi aggettivi sono sinonimi di qu Lixös, sono rarissimi e non si combinano se non col con- cetto pietra, scoglio. Tuttavia non troviamo un deo As- dee; se vi fosse questo, si potrebbe coll’analogia di esempi come 6 nmvevpatixds, O dyEvrixög pov, estrarne un sostan- tivo 0x0 nel senso di scoglio. Ma la ragione per la quale non lo troviamo s’indovina: @e{txo, non era forse più nel volgare considerato come un aggettivo, essendo già trasformato in un concetto astratto; quindi la creazione di nuovi sinonimi.

V. É dunque stabilito che gsuxo nel senso di scoglio, che doveva essere il primitivo, non si rincontra nei testi

1r— ———————_—.—_——— mm

1) “Pelguaios diventa ossitono ıuıds (come véos diventa weds), pel fatto che le vocali o piuttosto i suoni e,i+ vocale si fanno consonanti o semi-consonanti. Poi l’influsso del participio oewuéros produce la forma ibrida pos, la quale in alcuni dialetti suona 6empurids, il 4 essendo = uy davanti a palatali.

Pıkıxov- risico. 395

del greco medievale; e lo troviamo invece metaforica- mente usato quasi sempre nel senso di fortuna, destino. I} modo in cui una tale trasformazione di senso potera aver luogo, ce lo insegna lo spagnuolo; ivi abbiamo risco 1) = scoglio ripido accanto a riesgo = pericolo, ardimento. Diez, loc, cit., dice espressamente che sia un termine preso della lingua dei marinai, che, come tale, aggiungiamo, era più che alcun altro destinato a diffondersi in paesi molto lontani dal suo luogo di origine. Gli scogli sottomarini, ripetiamo, sono il grande pericolo dei naviganti, il pericolo per eccellenza. Ma lo spagnuolo fa una distinzione fra il pericolo e "agente che lo produce e per ciò ebbe ricorso a due forme diffe renziate. Fra queste due la primitiva risco è anche quella che avvicinandosi più a risicum e @&txov, ha un aspetto più letterario, e sarà forse da considerare come un pre- stito. Nel greco non v’& ch’una forma sola, e questa doveva in origine avere il senso di scoglio, dovendo il primitivo precedere il figurato. In ogni modo, l'uso metaforico delle nostre lingue e più efficacemente quello dello spagnuolo dimostrano come la transizione di senso poteva prodursi; non è quindi necessario, per giungere dal concetto di sco- glio a quello di pericolo di ammettere un influsso straniero, essendo che un tale fatto poteva avverarsi sullo stesso suolo greco.

Rinunciando a far ipotesi e tenendoci strettamente ai fatti positivi, dovremmo dire: l'italiano ed il greco non

1) Da risco è cavato l'aggettivo riscoso = scoglioso; e ricordiamo pure la voce riscus nel Du C. = ager incultus et pascuus, che può riferirsi al piede roccioso di una montagna o un pendio adatto alla pastura; riscus = latebra, invenerunt riscum seu cavernulam (e può essere una fessura o caverna di roccia). Mi sia qui permesso di rilevare nel medesimo Du C. la voce plus = limbi vestis, che può suggerire l’idea di una «cosa recisa » o della parte estrema di una cosa (cf. la spiegazione che fa Diez s. v. risico e il confronto con skär) quale è appunto il margine e l'orlo di un abito. La voce pontica gitixoy Neugr. stud. IV = porto pericoloso, si fonda, come pare, sugli scogli che rinchiude un tale porto.

396 . J. Schmitt,

conoscono che il senso figurato, il solo spagnuolo ha con- servato il primitivo risco; dunque l’origine è spagnuola. Ma vi sono ragioni intrinseche che parlano in favore della voce greca. Che una parola volgare possa rimanere per secoli allo stato latente non è una grande meraviglia se teniamo conto della poca considerazione ch'ebbe l’idioma volgare presso i letterati della nazione dal medio evo fin a oggidi.

VI. Mentrecchè le lingue neolatine conservano ancora il senso di pericolo, ardimento, quello appunto del medievale risicum che può dirsi il figurato primario, il greco ha var- cato anche questi limiti, come già dissi, e guttxov è diven- tato il sinonimo della Tvxm, la quale si era già collegata col concetto della Moiga, come dimostra l’apostrofe di Cal- limaco 1), v. 703:

Kiooua tig Tuyys dvorvyés éxAwodn pov xai Moigas dove la Tvyn entra nelle funzioni della Moga. Anche questa transizione del figurato primario a quello secondario é chiara, Pel marinaio che si affidava al mare tempestoso, gli scogli, certo, erano un grande pericolo, ma egli li poteva evitare, sia per la propria abilita, sia per il favore del tempo e di altre circostanze che non sono nel potere dell’uomo. Tuttavia era un ardimento, un rischio, e per giungere salvo al porto, molto dipendeva dalla fortuna e dal caso. E più di tutti il marinaio, proverbialmente superstizioso, era inclino a confondere il caso colla sua sorte predetta dalle Moigas, col suo gospoyedypnua, iscritto secondo la credenza popo- lare nel libro del destino ?). Così l'immaginazione sempre desta del popolo greco creò una nuova potenza, la quale era chiamata a condividere il dominio ab antico tenuto dalla Tvxm e dalla Moiga; il ‘Pitixo, in origine l’astrazione

1) Kaddiuayos xai Xoevoodoin, Collection de romans grecs publ. par SPYR. LAMBROS, Paris 1880,

*) Rinvio al capitolo: Die Moeren und die Tyche nol Volksleben di BERNHARD SCHMIDT, p. 210-221, spec. p. 215.

Pibix6v-risico. 397

prende un carattere personale !) e nelle sue funzioni di- venta l’uguale dei demonii, genii ed altre figure ancora così vivi nelle credenze popolari della Grecia.

E naturale ch’una tale intrusione di una nuova potenza abbia lasciato il suo riflesso nella lingua. Così nel neogr. o&ixdgus corrisponde esattamente all’ antico tvyngos, che ancora esiste. Negli uggettivi composti può aver luogo una sostituzione di prefissi, p. e. evrvyys e dvorvgns si trasfor- mano col mezzo di prefissi più intelligibili in x@4otvyos e xaxotuxos; poi il secondo elemento costitutivo può essere sostituito dal suo sinonimo: xaAógosos, xaxógoros e final- mente: xadogilixos 0 xaxopibixos à).

VII. Fuori di queste vi sono altre evoluzioni semasio- logiche di minor momento, ma anch’esse degne di essere notate. Thumb nel suo articolo citato, descrive gli oracoli degli abitanti dell’isola di Egina. Colà è costume fra le ra- gazze di raccogliere in una secchia oggetti loro apparte- nenti, tutti bene segnati, i così detti onuddıe. La secchia così riempita si copre e si lascia fuori la notte, esposta alla luce delle stelle. La mattina poi si apre il cosi preparato xAndovas (pgr. xAnduw), una giovinetta recita i distici di rito in questa cerimonia e nel medesimo tempo un ra- gazzo tira fuori dalla secchia i onuádia e li restituisce a cui appartengono. Ognuna delle ragazze riferisce a se stessa

!) THUMB, loc. cit. p. 399 allude al suo carattere personale che si esprime in locuzioni come: Ti Aéyec TO gubtxo pov;

*) Altri derivati sono: gcfxdew, Du C. periculo exponore; ano ge- Uxov (Du C. accentua anche cimo degixov): forte; gejwres = radicato, lo stesso che dewuévos (cf. yoartos-yoaupévos): va En TOUS movous purevroës xal pulwras tas YAlıpsıs. Intort. 252; eifwua nel pgr. = radice, ciò ch'è radicato, origine, ha oggi nel cretese il senso di acclivitd, via conducente in monte: xai naigveı 6 veos to Pilwum xi O xãgos thy nAayıada. Jeannerakis 153,3, il giovane va sulla montagna e Caronte scende il declivio. Anche qui deve annidarsi l’idea fon- damentale di una via rocciosa ed erta.

398 J. Schmitt,

il contenuto dei versi detti cosi alla ventura e vi scorge l’annunzio del suo futuro destino. Questi versi alludono quasi sempre al matrimonio e si chiamano ta Gulıxd; ed è da notare che questa denominazione si può anche esten- dere ai oquedia,

Vi sone dunque trasformazioni di senso primarie, secon- darie e via dicendo. Lasciamo per ora l’ipotesi che si fonda sulla derivazione di risico, e prendiamo come punto di par- tenza la combinazione che supponiamo valere per il greco volgare, cioè: a) ro g&ixov (sc. Accor) nel senso di: cosa ben radicata, scoglio. Se questa si ammette, tutto il resto si segue in un ordine molto naturale. Abbiamo dunque: b) il pericolo (minacciante la navigazione); l’ardimento oppure l'abilità per superarlo; c) il caso, la fortuna, con senso per lo più indeterminato; d) il destino, la sorte, il fato, concetti che si confondono col caso; e) l’annunzio del de- stino per mezzo dei onuddır e f) questi medesimi !), Ag-

') Confrontiamo lo sviluppo in alcuni punti parallelo di fortuna. Dante usa questa voce nel senso di caso, destino, poi come perso- nificazione: una intelligenza celeste che governa le sorti degli uo- mini. In genere s'intende la buona fortuna; pensando ai beni. della fortuna, si usa nel senso di ricchezze. L'idea del pericolo prove- niente dalla fortuna non si abbandona, ma si passa dall’astratto al concreto, dal pericolo all'agente che lo produce, e questo è la tem- pesta, chiamata fortuna di mare, cf. Dante Purg. XXXII, 116: come nave in fortuna, e Boccaccio; Theseide I, 67: i marinai, il cuì legno già rotto per la fortuna sentono affondare. Osserviamo inoltre che gli esempi citati nella nota a p. 390 colla combinazione fortuna e risicum (e talvolta periculum) non sono semplici pleonasmi; piuttosto c’è da supporre che nei documenti notarili i pericoli della navigazione erano specificati: fortuna voleva dire tempesta e risicum = naufragio pro- veniente dall'urto contro scogli. Cf. la locuzione: a rischio di mare e di gente (Tommaseo) = pericoli che vengono dal mare e dai pirati. La voce italiana è entrata nel neogreco, ma non nel suo senso primi- tivo, e ciò per la ragione che questo concetto era sufficientemente espresso da zuyn © moiça; ma nel senso di tempesta è usatissimo sotto la forma di goprovva, poverovra, Neugr. Stud. IV.

Pıtıx 6 v-risico. 399

giungiamo qui alcuni esempi raccolti in scritture volgari per dimostrare l’uso di questa voce. !)

a) (Ouuuaias mérgas etc. cf. § IV).

b) Ovdèr êsevoeis eis dilixòv xeiterae 1] oTqareia;

xai 070405 éEevoeL ungaviav xai medsrec movygiay,

TOUS dvdpecmpévovs xaralei x’ Erraipve thy avdeiav Tous. Chron. Mor. 3577 sgg.: l’arte di guerra dipende dall’abilita; e colui che sa adoperar artifizii e finezze può vincere i più valorosi. Forse il senso poco determinato della parola per- mette di tradurre anche così: non sai che il successo nelle armi dipende dalla fortuna?

c) Caso, fortuna:

Kai av ayn dro cov éoulixod tov neiyxine va nu. Chron. Mor. 3641.

Mn va Exvyev TO Gibixov va êvixa o Huréouos. Imb. II 351.

Ovrws To Eyes To dilixòv xt OUTOG TO Eyes O xbcuos,

GAhov vpwver oruegor, gaunicver averov aAdov. Ro- boam 53.

Nei due primi versi il senso è: se avviene il caso che...; il terzo ricorda il concetto di Dante della fortuna Inf. VII, 68 sgg. spec. 82.

1) Abbreviazioni generalmente usate: Chron. Mor.- Recherches hist. sur la principaute fr. de Moree, ed. Buchon, Paris 1845, T. II. Ro- boam - Bibliothèque grecque vulg., Tome I, p. 11, publ. par E. Le- grand. Erotocr. - ‘Egwroxgctog moinua Eowrixtv cuvredêrv meça Birlévilov Kogvaoov Venezia 1832; fra le tante edizioni, cf. Krum- bacher, Byz. Litteraturgeschichte 871,1 mi servo di quella che mi è accessibile. Imb. I. - Histoire de Imberios et Margarona, ed. Wag- ner, Paris 1874. = Imb. II. - Ariynows “Hunegiov xai Mapyagwvas publ. par Spyr. Lambros, Collection de romans grecs, Paris 1880. Infort. - Aoyos... mepi duotuglas xai sur. nella medesima Collezione. Dig. III. - Acryynow... Ayevî, nella medesima. Dig. I. - Les exploits de Digenis Akritas, publ. par C. Sathas ed E. Legrand, Pa- ris 1875. Kanel. - Xiaxa avadexta, od. Kevedadsis, Ateneo 1890. - Nelle citazioni dalla Chron Mor. mi sono attenuto ai risultati delle mie collazioni.

400

J. Schmitt,

Buona fortuna:

n

Kal ovx êExovorv Egılıxov va Exovv xahov avdéveyp. Chron. Mor. 6611.

Av Èv to dilixv cas... va Eumy (cò Boégpos) eis TM xiav. Imb. I, 47.

Kai ro xado mas Goubixo Exauev 0, te êyivm. Erotocritos p. 24, 6.

Ma Sélnoev 7 uoïoa mov... to duixò pov va yaddoyg.

Kanellakis p. 123, 7 e ib. p. 124 co 6ulıxow Tic uoioas; Jeannarakis 176, 2.

Fortuna contraria:

d) 1.

2.

T.

8.

~ x N ~ Exei tow nuee Egılıxov vo ovx TAnılev va Tod ELF.

Chron. Mor. 3770.

Jéher êxeivo tov xargov To mixeogottixo tov Ero-

tocr. 8, 3.

To Qubixo ov TO xaxò va feito, Kanel. p. 128, 1.

Tov Jeov noéne va evyapiotàs duotws To ditixov dov Chron. Mor. 279 Prol.

Kai av dwon O dios xai TO Quitxov xai neoduproy eis totto. ib. 5311°

. FEN 0 Feòs xai 7 polpa uns, Fede To dino trys, Kanel.

n.º 77, 17.

. Alloiuovo ori; poîga pas, xgiua oto dilixò was. Pas-

sow 511, 33.

. K’ êndoyue vo goulixo x’ uoiga va Bady Erotocr.

11, 25.

. Kai doxivıoa qm polpa uov va Beit,

To otlixo pov v’ avadeuatito. Kanel. p. 126.

Kai tiv tuyn éudyeto xai To 6oslıxo ton Ero- tocr. 48, 14.

To dilixò tov Goymoev did va arıualn. Dig. III 1778.

Na duÿs vo guuxo cov. Kanel. 19. 4. Notiamo in

questi passi alcuni esempi curiosi del parallelismo neo- greco; questo consiste ncl ripetere il medesimo concetto due o più volte per mezzo di sinonimi, Così troviamo nei versi 1, 2, 3 Iddio e la sorte da Iddio distribuita, e nel

Pıkıxov-risico. 401

secondo verso 0x0» prende quasi il senso di divina prov-

videnza. Nei versi 4, 5, 6 il guuxov è contrapposto alla

uoïoa e nel alla zuyn.

e) ‘Avoizete tov xAfdova... va frîj to guixo ton Thumb, op. cit. p. 395 Jeannarakis 309, 4. To Pyakoıno cow otlixaoiwv, nel romanzo di Karkavitza, ‘H Av- yeon p. 88.

f) Byavovve ta ovtixe Thumb, ib. 399.

VIII. Conclusione. Rileviamo alcuni fatti ancor essi in favore di un’origine greca.

a) In un’opera scritta nell’ anno 1156 da Michele Glycas e indirizzata all’imperatore Emanuele Comneno (ed. Legrand, Bibl. gr. vulg. Tome I) troviamo al verso 198: Yuyn mov xaxogitixe, corrispondente al verso parallelo 196 YuxT mov xaxotuyeoe: anima mia sfortunata. Osserviamo 1) cho questa voce occorre un mezzo secolo prima dell’inva- sione dei Franchi in seguito alla quarta crociata nel 1204; 2) che già occorre in forma di un composto e 3) nel senso figurato, il che fa sopporre che il senso primitivo fosse già diffuso molto prima della redazione dell’opera di Glycas. 4) nel testo non occorrono, per quanto io sappia, voci italiane.

b) È noto che il greco volgare abbonda di voci ita- liane, quasi tutte penetrate sotto la forma veneziana; solo nell'isola di Chio può trattarsi di forme genovesi (Neugr. Studien IV). Or ci si aspetterebbe il veneziano riscgo o il genovese rezego piuttosto che risico. Infatti, di rezego abbiamo il riflesso nel greco géteyo = pericolo, nel dizio- nario di Somavera e negli Analecta di Kanellakis p. 324, 16. Non è raro il caso che una forma neolatina si mantenga accanto, o s’innesti a una forma già esistente nella lingua, e questo accade principalmente delle voci latine, per causa della stretta parentela; notiamo p. e. il lat. mecyxnı byzant.; motyximas volg.; motyximtooe accanto di mpivromos ital., metvrouras forma ibrida, srosyxındooa e mowrortoca. Ma oéteyo, forma italiana e localmente circoscritta, non poteva

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402 J, Schmitt, “Pitex ov-risico.

soppiantare, n& nel medio evo oggi, il comunissimo gelexo, Notiamo ancora che il greco non conosce un riflesso di rischio, assai più comune di risico. In quanto alla tras- posizione dell’accento cf. quoixós, pYorxòs fisico, tisico.

c) Nel dialetto pontico che sta fuori della sfera d’in- flusso neolatino, abbiamo géfcxov = porto pericoloso Neugr. _ St. 76. Tenendo conto del carattere antiquato del pontico, c'è da presumere che qui il senso primitivo si sia con- servato, un porto pericoloso essendo appunto uno pieno di sassi e di scogli (cf. le denominazioni: “Prjovixos x047ros, un golfo nell’ Illirio; ‘Piles un promontorio, Pois città con un porto, tutte nel diz. di Passow. Cf. anche elope = acclivio già menzionato, nel pgr. = cite.

Spesso si incontra la grafia dodx0v (p. e. nell’ Eroto- critos), la quale più che altro esprime l’imbarazzo degli scriventi che cercano di collegare una voce d'origine ignota con una di un suono simile, con gouléw, dodwdrs etc.

I lessicografi Ménage s. v. risque e Stephan Skinner s. v. risk non vengono a conclusione. Il Ménage dichiara di non conoscere l’origine; non ammette l’etimologia fantastica di Ferrari; alea, aliscere, riscare quella di un altro: rixo, rixum, risicum. Skinner nell’Etymologicon linguae angli- canae (Lond. 1671) giustamente preferisce la derivazione dallo spagn. risco a quella dal lat. rigeo. A proposito di 61&ıx0v osserva: ut fortasse non absurde deflecti possit a gr. Öinto pro dvagoirto tov xUfov. E Du Cange s. v. de- Cuxctgerv: porro vox oecexoy videtur formata a jactu aleae, ex voce dixrewv; ma s. dele » si riporta all’italiano risico. Questa discordanza fu già osservata dal Ménage; essa di- mostra chiaramente che Du C. non dava gran peso a questa sua spiegazione dall’it. risico.

Lipsia-Conuewitz, Aprile 1900.

ERRATA-CORRIGE p. 394, r. 4: le parole al verso 1255: van riportato alla r. 1, davanti alla parola xai r. 9: virgola dopo géœmua r. 16. Leggi: veiow p. 396, r. 17. Loggi: Moîea r. ultima. Leggi: un'a- straziono.

P. G. GOIDANICH.

INTORNO AL DIALETTO DI CAMPOBASSO. !)

1. Lat. ef il, öl wf +-a, -e-o.

Come continuatori di lat. e[ i[+-a, -e, -o e di lat. af à +-q, -e, -0, nel campobassano il d’Ovidio e cd ei 9 ed ou. « E lunga. 4. Per lo più e ». Es. puteca (bottega) ji crede (credo), -ete (desin. di 2 plur.). «Spesso ci». Es. la chia- neila, reita (‘finestra con inferriata’ da rele con a ana- logico), la chiuppeita (pioppeto), seira masseira e slaseira (sera, stassera), Treisa (Teresa), lu dureire (il dovere); nei riflessi di -ensi-s, -enso-: pajeise (territorio coltivabile) ma «pajese ‘borgo’», Larenese, meise (mesc) ji peise (peso) accanto a spesa (p. 147 segg). «O lungo. 34. « Spesso 9: sole ecc......» Ed è il riflesso costante quando «siavi a finale: jora, «pelosa ecc. e resta nei rispettivi plurali ». «35. È ou nel suff. ‘one’; lejoune, prufessigune ccc., e nel «suff. ‘ore’: remoure reloure (dolore), seroure (sudore). «Però: ampre pe l'amore ca per ciò che, córe fiore. E «contro al num. prec.: crouna (corona rosario)» p. 153.

iL + -a, -e, -0 = e, gi; ij veve (bevo) ‘inmece (invece) pera (pera); ma peipe (pepe), seita (sitis) neiva (nivis), deita pl. di dite (dito) p. 150-1.

ul + -a, -e,-0 = 0, ou; lppa (lupa ‘gran fame’) addo' ‘dove’ «50. 11 riflesso conforme a quel dell'o del n. 35 l’abbiamo «in nouce, crouce» ib. p. 155.

1) Sui materiali raccolti nello studio del p' Ovipio, Fonetica del dialetto di Campobasso. Arch. Gl. It, IV 147 segg.

404 P. G. Goidanich,

Questa duplicità di riflessi ripugna ai criteri linguistici d’oggi. Ogni più disperato tentativo di sistemarla ricorrendo alla diversa efficacia di suoni contigui o della fonetica sin- tattica e poi a livellamenti analogici falliva come ognuno può persuadersi leggendo l’abbondante esemplificazione.

La soluzione è un’altra ed indiscutibile.

Dalla dichiarazione dell’ illustre romanista napolitano ch'egli «vivendo da molti anni lontano dal luogo nativo » aveva dovuto « raccapezzarsi fra una folla di reminescenze » messo in sospetto che si trattasse di due dialetti affini e limitrofi e non di uno stesso dialetto, ricorsi per informa- zioni sulla pronuncia campobassana al mio scolaro Nicola Mastropaolo di Campobasso; e fui da lui accertato che a Campobasso i riflessi di el, à[ ed ö[, %[ in parossitoni con -a, -e, -0 finali sono e 9, e non altri mai; nel contado invece sono ei ou, o, più perfettamente, in bocca del mio scolaro do ée, e non altri mai. Di due dialetti diversi si tratta; non credo che di « un intonaco letterario » sul dia- letto di città perchè sopratutto q ed e sono in bocca di tutti, colti e non colti, a Campobasso e perchè la tendenza al- l’ortoepia delle vocali è ben mediocre fra noi.

2. I riflessi di -orio, -oria. d’Ovidio ib. p. 153: «-ORIO, «-ORIA danno -ure -ora (cfr. n. 3): vendature forte vento « (q. ‘ventatojo’), nnaspature aspo, cusature (soffiatojo) * ci- « lindro di ferro cavo in cui si soffia per attizzare il fuoco’; «chettpra caldaja (q. ‘coctoria’), putatora, schiamaigra «schiumino. Però: Prejatoreje, magnatoreje scorpacciata, «'n gernetoreje girovagando; e rasugle rasojo ».

Prejatoreje è di origine dotta; magnaloreje e il seguente sono latinismi d’indole burlesca. Strano molto è r'asugle di contro al napol. rasule. Potrebbe essere un imprestito dialettale: nel vicino Abruzzo 6 + u ed à + u si son confusi.

3. è [ed é], à [ed à] + -i, -u.

a) In parossitoni si ha costantemente ié, ug.

Ess. per è: siere (sing. e pl.) piede (pedös sg. pede), diende (sg. dende), viende (ventus), -ielle (-ello, -i), tu pierde (perdés), 1." pers. ji perde.

Intorno al dialetto di Campobasso. 405

Ess. per 6: buone (sg. e pl. maschile; fem. bona, -e). tu muore (it more) vugje (bovês, sing. vgve); upsse (osso; pl. jossa); cugppe (zoppo, -i, f. coppa, pl. -e), tu dugrme (ji dorme).

b) Nei proparossitoni si ha invece un doppio ri- sultato te ed e up ed 0: miedeke tienere piekure jennere suocere singolari e plurali. Ma: stomeke, moneke!), de- ceme, mumende. Il Meyer-Lübke dice (It. Gr. 32): « Viel- leicht ist monacus monaci zuerst zu monacus monici ge worden und hat so im Singular das a die Diphtongierung verhindert, vgl entsprechend stomeke ».

Prescindendo dall’incertezza di una simile ricostruzione monacus monici, essa non si raccomanda perchè non spiega deceme mumende e perchè Ie e l’o non hanno impedito la dittongazione in tienere piekure, jennere, mentre -e, -0, -a stanno pur su una stessa linea quanto agli effetti sulla tonica *), La ragione di questo duplice trattamento è sug- gerita dal vocalismo di cendeseme, pateteke (lento), deb- bele. In tutti e tre i casi l'e è anormale, perchè continua- tore di è risulta i od e non mai e. Dunque di imprestiti letterari si tratta, fuor di dubbio. Ora vediamo che pur queste voci letterarie non seppero resistere alla forza del sistema morfologico secondo il quale ad un e del sing. cor- rispondeva un plur. ie: il plur. di debbete è diebbete, di pateteke patietece. Saranno anche manche (malgrado il pl. mugnece) stomeke, deceme, mumende imprestiti lette-

1) Nel leccese strölecu, arrofalu (caryophyllon), cófano (cophinus, tino per il bucato), mönecu, Morosi, Voc. lecc. Arch. Glot. It. IV 132; nel barese mongke (NITTI DI Vito, Il dialetto di Bari, p. 8), nel ta- rantino monçhg orgeng stomeke; (DE Noto, Appunti di fonetica sul dialetto di Taranto) e finalmente nel napolitano monghg stomgkg, mug- ngci. Per i quali tutti vale la spiegazione sopra data per il campo- bassano.

2) Parimenti nessun’ efficacia mostrano sulla tonica dei proparossi- toni i ed w di penultima, Es. femuangna, semgna, pedgta, petigla (pic- tula), Agnngla (cunnula).

406 P. G. Goidanich,

rari; v'è alcun impedimento d’ ordine semasiologico a crederlo. :

3. Effetti di -a, -e, -o su é 6 tonici.

a) è[ o[+-a, -e, -o danno in parossitoni e q. Es.

pede, preta, ji preje (precor); kpre, jome (homo), prpva.

Invece in proparossitoni e in sillaba coperta si ha e 0; es. je medeke, lepere, pecura; socera, movere; ji perde, verme, funestra; ji porte, kossa, forze (forse).

Ora vi è un argomento per credere che e 0 siano pas- sati per la trafila di e q. I verbi della prima con radicale è ö hanno nella plurale e o, i verbi delle altre classi te up: ess. prejene chjekene sbelene abbelene addeven- dene, volene portene; invece stiennene (stendono) duprmene. Non si può pensare che la differenziazione e/ie 0/uo sia dovuta alla e all’ delle desinenze sano tono, per quel che abbiamo detto sopra a proposito di deceme moneke. si può ricorrere all’analogia del singolare perchè il singolare, per ragione fonetica, aveva uguale vocalismo in tutte le coniugazioni: ji slenne tu Stienne jisse stenne come ji addevende tu addeviente jisse addeventa ; ji preje tu prieje jisse preja come ji tenghe tu tie jisse tg ecc.; ji porte tu puorte jisse porta come ji dorme tu dugrme jisse dorme ecc. Non resta quindi che questa ipotesi possi- bile: che la differenza nel vocalismo tra volene portene e dugrmene, tra prejene addevendene e stiennene risalga ad un’età in cui la forma del plurale non aveva ancora ricevuto la rideterminazione dell’-o, e quindi a ed u delle sillabe -ant -unt stavano nella sillaba finale. Ma da *pré- gant volant si doveva ottenere *prejan *vplan; e se oggi si ha prejene volene vuol dire che l’e o l'o dei proparos- sitoni sono di età recente e derivano da anteriori e ed 9.

Questo però solo per le sillabe scoperte si può provare; perchè se noi abbiamo nei parossitoni di tonica scoperta (pede sora) forme critiche per la forma anteriore di vo- lene, in sillaba coperta, se non seguono -2 -4, abbiamo non 9 e ma sempre o e (pellu kossa ecc.).

Intorno al dialetto di Campobasso. 407

Però siccome noi vediamo che tanto in sillaba scoperta quanto in sillaba coperta a cui seguisse -i -u si ebbe ugual- mente le dittongazione (ie up‘) possiamo abbastanza ra- gionevolmente supporre che si sia avuto 9 ed e anche in portene addevendene e simm.

b) Questo passaggio di e ed 9 ine ed o ha conferma anche dai casi di e > e o> go davanti a vocale o in jato. Vedi per gli esempi il numero seguente.

4. I riflessi di tuus suus subirono l'efficacia analogica dei riflessi di meus in doppio grado.

a) Meus mei, mea, meae danno normalmente mie’ mejja mejje. mejja, -e staranno per mea o meia (confr. ji sapejja, tu sapije, meuza = milza, douce = dolce).

Invece fuus suus dovevan dare tu su. Ma il femm. tua sua dava normalmente fova > tova sova > sova (v. n. 5), forme tali a cui poteva normalmente corrispondere un maschile tug’ suo’. E poichè fova sova avevano accanto a se mgjja con un maschile normale mie’, sulla proporzione di mie-mejja si creò un lug’ sud’ sa tova sova.

b) Per più energica spinta analogica si crearono poi su mie’ mejja, tie’ sie’ tejja sejja.

o. nove. Dovrebbe essere nove. Si ebbe 9 per lo stesso processo dissimilativo che tova meuza, ecc. da tova meuza ecc. |

6. cita=aceto. Per falsa etimologia: la cite in luogo di l’acite. La cite poi fu riformato in la cita per analogia (confr. reta da rete, sora da sore, pella da pelle ecc.). Il processo morfologico è comunissimo, cfr. fr. l’ordure, it. l’orbacca abruzz. la lénele Vedera e simm.).

7. Comune col napol. e coll’abbruzzese ha il campobas- sano una curiosa forma neutrale nei dimostrativi: masch. quille quiste quisse, femm. kella, hesta kessa, neutro hesse, helle, keste.

Il d’Ovidio (ib. p. 152 n. 2) osservava:

« Nonostante la bella simmetria morfologica, queste serie danno molta pena alla fonologia. Se quanto all’ uscita le

408 P. G. Goidanich,

voci neutrali coincidono con le maschili, quanto all’evolu- zione della tonica, e al dileguo dell’elemento labiale che le precede, esse coincidono invece con le femminili. Si tratta dunque forse di antichi plurali neutri? O di femi- nili coll’ellissi del nome ‘cosa’?» In entrambe le ipotesi, Pa finale si sarebbe affievolita giusta il n. 61. E al n. 61, che tratta di « all’uscita, si dice: A «è, si può dire, l’unica vocale che vi si regga; benchè pur v'abbia una pro- nuncia così cupa ed incerta da rasentare quasi l’e, quante volte vi si scorra senza alcuna enfasi: terra, fune- Stra ecc.».

Ma poichè in realtà si dice sempre kesse per il neutro e non mai kessa, l'ipotesi non può correre.

Il Meyer Lübke esprime un’altra opinione:

«Das -ud (u) der neutra ist also zu o geworden zu einer Zeit, da das us (uw) der maskulina noch « lautete demge- miss wird der betonte vokal der neutra anders behandelt als derjenige der maskulina » (It. Gr. p. 24); sarebbero dunque queste, forme come lo spagn. lo, aquello, port. îsso, isto (i per effetto di -u) e simm.

Io mi accosto nella sostanza alla prima delle due ipotesi emesse dal d’Ovidio. Solo per causa della finale -e invece che ad ista illa ipsa riconnetto le forme meridionali ad istaec illaec (*ipsaec): istaec ed illaec, non meno che ista ed alla, erano, come è noto, nella lingua popolare (Plauto) sing. femm., pl. femm. e neutri. Queste doppie forme si saran continuate nei dialetti del mezzogiorno; solo che coincidendo con la forma del fem. sing., esse saranno state considerate come femminili; e poi *illaec istaec saran ri- maste avanzi isolati solo nell’uso neutrale, e sole *ista *illa per il femm., per l’analogia potente dei nomi.

Aggiungo che anche in altri dialetti italiani si ha lo stessn fenomeno: toscano «questa è bella» «mì piace questa» «la sarà bella » ecc., ecc.; e simili frasi si riscon- trano anche nei dialetti settentrionali. Qui potrebbe esser dubbio che forme originarie sian continuate; ma le forme

Intorno al dialelto di Campobasso. 409

meridionali ci guidano a pensare che siano originarii neutri plurali.

8. jelle, jgsse. jelle ‘ecco li’ (=‘ellum’) dovrebbe esser jelle (confr. jennere; jelteke f. jetteka); manca però il dittongo nell’enfasi, regolarmente; confr. te! = tieni! (‘ec- coti'!) ma tu tie; l’j è protetico. Ma jesse non può essere da un énipsum. questa forma alcun’altra succedanea esiste nel latino; e un *ipsum, supposto forma precedente, avrebbe in ogni modo dato îsse; jesse sarà invece una forma nuova coniata su jelle per analogia delle serie quille quisse 1).

9. Mene da minus é f. lett. I dialetti meridionali esprimono il comparativo ‘meno’ con la perifrasi ‘chix poke’.

10. Alterazioni analogiche nella conjugazione.

a) è si riflette come 6 in ji secute tu sicute (söquor), ji Senne tu Sinne; un & come un È in ji abbele tu abbiele, lore abbelene (lat. völäre); un 6 come un 6 in ji m'nzore tu te 'nsugre; un è come un 6 ji lprne tu turne (confr. attugrne).

L’irregolarità è dovuta a una spinta analogica. é ed 6 in sillaba protonica danno e u, e vengono cosi a coinci- dere con le forme a tema con & 6-penze, pienze dava peniame penzale penzava ecc. penzave ecc. penzarrija ecc. penzate part. (penzd inf.) venne vinne dava (venneme) vennele vennejja ecc. vennive ecc., venesse ecc. vennar- rija ecc. ecc.

Altrettanto si dica per 3/0; porte puprie avevano ac- canto a (purid) purtate (pp.) purlanne (ger.), pur- lave ecc. purtave ecc. ecc., e kannske kanuse similmente (kanusceme) kanuscete, kanuscejja ecc. ecc.

Date confusioni simili una confusione parziale di para- digmi era si può dire inevitabile.

3) Cfr. ora anche Ascorr, Arch. Vol. XV, p. 307, n. 2. Io mantengo l'opinione che è nel testo. [Nota aggiunta il 26 gen. 1901]. 50

410 | P. G. Goidanich,

spere spiere, ’rrizele ’rriziele potrebbero anche essere vocaboli di origine letteraria, ed essere nella coniugazione, il riscontro di moneke stomeke deceme debbete della de- clinazione, |

b) lette part. di légge (leggere) è forma dotta [lectum (sost.) = lielte]; d'origine letteraria è tutto il verbo; e la forma popolare del part. pass. è poi leggute (Ma- stropaolo).

c) Desinenza di e plurale.

«eme è anormale per -ime nel pres. ind. [vedeme]; -ite anormale per -ete nel cong. imp. [durmassite]; il primo é riconiato su vedele, il secondo su durmassime. L'ana- logia fu provocata dalla identità della vocale predesinen- ziale delle due persone nei pres. di 1* [puriate purtame] negli imperf. [-avame, -avate] e anche nel cong. imperft. [purtásseme purtaseve.)

d) 2* pl. del perf. isteve (= lat. tstis).

È analogica sulla sing. iste = «isti; doveva essere -gste [-ve).

La spinta la diedero i perf. di 1*: [sg. purtaste, pl 4 pur- taste ve] e di [durmiste durmisteve].

e) La seconda plur. nelle forme aoristiche.

La proporzione durmiste durmisteve provocò la conia- zione di durmise-ve su durmise (imp. cong.) durmarri- Seve su durmarrise (condiz.).

f) Alquanto piü complicata & la ricostruzione della storia del perf. nella 1* e 3* plurale. Quale debba essere la via s’intravede a prima giunta: -emme ed grne devono essere analogici su stemme Sterne; non così ovvia è la genesi di codeste due forme di stare nd il momento del contatto psicologico dei vari paradigmi col paradigma di stare, contatto dal quale fu determinata l'analogia.

Seguiamo quindi gli indizi che ci sono offerti. Evi- dente è la grande efficacia che ebbe anche qui (e la coin- cidenza con altri dialetti data la frequenza di sto come au- siliare non è molto strana) il perfetto del verbo stare: l’a-

Intorno al dialetto di Campobasso. 411

nalogia in questo dialetto è spinta fino alla 1* cong.: pur- tatte. Anche qui le forme in -ette consiglieranno di partire da uno *stetuit. Anche qui le forme ve- . demme, durmemme, purtarrimme rispetto a purtame ve- deme purlavame purtasseme mostrano che la lunga mm è dovuta come nel toscano alla progressione dell’accento (avvenuta per ragione di analogia, habuimus vidimus su habuistt habuistis vidisti vidistis). Un'azione ana- logica degli altri verbi su stare è anche provata dalla sua conjugazione: pres. steme Stete imp. slejja stije; perf. stive; cong. imperf. stesse slige, Su questi indizi tentiamo la nostra ricostruzione, Partiamo dalle forme verisibilmente esistite: slelui, ste- testi, steluil, steluimus, stetistis, stetuerunt. Subito possiamo facilmente arrivare a tre delle forme seriori: da sfetuil a 3* sing. stelle, e per perdita dissimi- lativa del [te] da s{te]tisti, s[teltistis, a 2 sing. stiste, 2 plur. steste (poi stiste, per la via sopraccennata). Già im questo stadio dato vediste vedeste durmiste (2 pl. durmi- . ste) e stiste sleste potevasi aver per conseguenza la esten- sione analogica dell -elte di stette a vedette durmette. Avvenuta la progressione dell’accento in habutmus, vi- dimus ed ottenutisi *avimme *vedimme, *stetimme e anche per estensione analogica parlamme, era possibile che sui paradigmi parlaste, parlaite, 2 pl. parlasle parlamme si facesse, per la spinta di stette, da stetimme la forma più abbreviata stemme con l’aferesi (dinamica) del -ti-. 1). Passiamo ora alla 3 plurale. *Parlaron ecc. poterono per la simiglianza dei paradigmi parlave-stive, parlaste- stiste, parlatte-stelle, parlamme-stemme, parlaste-stiste produrre un *steron accanto a *slellero?) e un *parldi-

1) O forse vidimus ecc. diedero videmo ecc. e poi vede'mmg ecc., questi finalmente per quanto è detto sopra al N. 3°, vsdemmg ecc. | [Nota del 26. 1. 1901]. |

*) Qui non si aveva stietterg perchè il primo è in stetérunt era ori- ginariamente atono. |

412 | P. G. Goidanich,

tere(n) accanto a *parldro(n). La vittoria fu per *steron

.e *parláron. Da *sleron a Sterne si arriva poi facilmente:

due eran le forme continuatrici di Steron: sleron e stero

- (in pausa); la prima fu rideterminata con l’o di siere come altrove e fini a Sterne come figurate finì a fiurde; stere

e sleltere scomparvero sterne diventò sterne, secondo il num. 3. Giustificati così stemme e sterne il resto, il processo analogico, non alcuna difficoltà.

11. L'infinito cosidetto ‘sincopato’.

Comuni in tutta l’Italia meridionale son le forme di in- finito prive del -re !). Di una sincope non é il caso di parlare. Sarà invece un abbreviamento, indipendente da ogni ragione meccanica. Da che promosso? Che si tratti di un’analogia provocata dalle doppie forme di ‘esse’ esse ed essere mi par poco probabile. Si tratterà di un accor- ciamento enfatico simile a quello che nei nomi propri al vocativo: nap. Franci! (Francesco!) Tótô (Totonno) ecc. bella fe’ (‘buona donna’) o nelle esclamazioni ’mbé (eb- bene?!) Si sarebbero originati questi infiniti accorciati in frasi come: « Kaje a fd? » « puozze muri »!

Le forme ‘accorciate’ sono costanti come si sa e ho no- tato nei verbi in -dre, -ere,.-ire in facere dicere, inco-

stanti invece nei proparossitoni. Il fatto conferma l’opinione

‘che si tratti di accorciamenti enfatici; la natura di questi

è il tacersi delle sillabe dopo l’accento?); ma questo solo nei parossitoni in -äre -ére -ire si poteva fare senza ledere il

nucleo significativo della parola. Solo nei più frequenti

1) E precisamente del -re son privi tutti gli infiniti in -dre, -êre, ire e alternano forme con -re e senza -re negli altri infiniti, nei pro- parossitoni. Ess.: purtá vede’, durmi, sta (camp. sta), i (camp. ji) inol- tre solo fa, move -moverg (camp.), dicerg e di.

3) In alcuni dialetti si arriva sino all'inverosimile, per dir. così, in questi accorciamenti. Nel reatino E' si adopera per il vocativo di Emma e di Ettore, Ba’ per Barbara. Per curiosità ricorderò questo scherzo che corre in quella regione: Ba be a be po bi se non bo be ba (Barbara, vieni a bero; su bevi; se non vuoi bere, vattene). |

Intorno al dialetto di Campobasso. 413

facere e dicere si andò più in là; ma certo la forma del participio fa-tto ditto avrà agevolato l'estensione del pro- cesso.

Create forme di infiniti senza -re per analogia mor- fologica si cominciò a usar forme senza -re anche nei proparossitoni. L'origine di questi è dunque seriore e di natura diversa.

Pisa, marzo 1900.

W. MEYER-LÜBKE.

ETYMOLOGISCITES.

Afr. besaine, obw. bazeina ‘Bienenkorb’.

Unter den wenig zahlreichen romanischen Neubildungen mittelst des ja auch im Lateinischen seltenen, weil unur- sprünglichen Suffixes -enu, die ich Rom. Gramm. II § 451 zusammengestellt habe, befindet sich auch afr. besaine, obw. bazeina. Da Carisch auch mazeina angiebt, so lag, so lange die französische Form unbekannt war, der Gedanke nahe, von mansum Behausung” auszugehen, worsus dann mzei- na, mbzeina, bzeina und schliesslich bazeina entstanden wäre. Allein das afr. besaine zeigt, dass eine derartige Reihe nicht der tatsächlichen Entwickelung entspricht, dass vielmehr die b-Form die ursprüngliche, die m-Form die jüngere, vielleicht an mazun angelehnte ist. Somit ist dem Suffixe auch die Basis entzogen und das Wort bedarf einer erneuten Untersuchung.

Die gemeinsame Grundlage der zwei einzigen bisher be- kannten Formen !) ist bêsêna oder biséna. Lateinisch kann das wohl nicht sein. Zwischen Vokalen ist altes s zu r geworden, nur ss hat sich gehalten und nach langen Vo- kalen Vereinfachung erfahren, so dass also von den drei

1) Pallioppi verzeichnet eng. masein ‘Speckseite’ das natürlich ganz anderen Ursprungs ist. Es geht auf medius zurück und deckt sich mit dem Rom. Gramm. II $ 451 angeführten piem. mezeina, lomb. mez- sena das dieselbe Bedeutung hat.

416 W. Meyer-Lubke,

vom romanischen Standpunkte aus möglichen Gestalten das Lateinische nur béséna zuliesse. Dieses béséna aus besséna könnte aber wiederum nur aus böllösna oder börtlösna entstanden sein, einer Form, die in der Vorgeschichte des Lateinischen ihres gleichen nicht hätte, die man vielmehr als eine ganz unmögliche Konstruktion bezeichnen kann. Lateinischer Ursprung ist danach ausgeschlossen.

Wenden wir uns dem Germanischen zu. Vergleicht man afr. faleise aus falisa, so liegt der Gedanke an *besina nahe. Allein der Vergleich passt nicht. Die germanischen Wörter lehnen sich in ihrer Betonung möglichst an die romanischen an; wo also eine lateinische Entsprechung da ist, ist diese massgebend. Nun giebt es keine Paroxytona auf -esa, folglich wird fülisa zu fale'sa. Dagegen fehlt es nicht an Proparoxytona auf zin, folglich hätte ein germanisches besina seinen Ton behalten, wäre also zu afr. besne ge- worden, wird doch selbst dlina zu aune. Wir müssen also bei besena bleiben, damit ist aber auch die Möglichkeit ger- manischen Ursprungs erledigt, da das Germanische kein Suffix -ön- hat, es auch gar nicht haben kann.

Bleibt das Gallische. Fragen wir auch hier zunächst nach dem Suffixe, so werden wir sofort vom historischen Stand- punkte aus die Frage bejahen miissen, und was uns die vergleichende Grammatik lehrt, das sichert uns das Irische, das Kymrische, und, was noch wichtiger ist, das Altgal- lische selber.

Beginnen wir mit dem letzteren. Von dem Volksnamen Carnutes bildet man entweder ein lateinisch. Carnutensis oder scheinbar auch lateinisch Carnutinus oder endlich Car- nutenus. Ueberblickt man die Belege, die bei A. Holder Altkeltischer Sprachschatz I 799-800 zusammengestellt sind, so ersieht man sofort, das Carnutinus jiinger ist und im Ganzen Texten oder Zeiten angehört, wo î auch die Wie- dergabe von é ist. Die entgegengesetzte Annahme, dass -énus eine falsche Schreibung für nus sei, wird durch die Häu- figkeit, das Alter von -enus und vor Allem dadurch ausge-

Etymologisches. 417

schlossen, dass eine solche falsche Schreibung zu den gròs- sten Ausnahmen gehört. Wenn somit Carnulenus ein gut gesichertes Adjektivum ist, so wird man doch sagen miis- sen, dass es nicht eine lateinische Beildung sein kann, da sie im Lateinischen jeglichen Vorbildes entbehrt. Dass Car- nutenus, nicht Carnuténus, zu lesen sei, wird durch die viel häufigere Schreibung mit e und bis auf einen gewis- sen Grad durch das heutige Chartrain gesichert.

Es ist dies nicht die einzige, aber die durchsichtigste gal. lische Bildung auf -enus. Ihr zunächst kommt Epenus als Name auf Münzen, in dessen erstem Teile man ja mit ziem- licher Sicherheit gall. epos ‘Pferd’ sehen darf. Aber auch unter den Namen, die Holder a. a. O., 1440, 27-36 als mit -&no gebildet verzeichnet, steht mehr als einer, den ich eher -6n0 zuteilen möchte, so Leuceni. Und die matronae Nersihenae C. I. R. 626, und andere auf -enae, die man bei Holder II, 493 schönzusammengestellt findet, gehören sie nicht auch hieher? Ganz entsprechend kennen nun auch die vollständig überlieferten keltischen sprachen ein Suffix, das auf urkelt. -eno -ena zurückgeht, vgl. Grammatica Cel- tica 334, 776, 895.

Urkeltisches & ist aus indogerm. ei entstanden, -eno- führt also auf -eino- zurück, so dass jenem Epenus im Lateini- schen, wo altes ei zu è geworden ist, Equinus, jenem Leu- ceni ebenso Lucini entsprechen würde. Allerdings ordnet Brugmann Grundr. 11 8 68, 2 die lateinischen Worte unter ina unter, aber kaum mit Recht. Die Sache verhält sich folgendermassen. Das Lateinische, das Germanische, das Slavische und das Albanesische haben altes ei zu ? gewan- delt und so mit altem 7 zusammenfallen lassen, so dass diese Sprachen in der Frage nach der ursprünglichen Form gar nicht in Betracht kommen können. Dagegen scheiden die übrigen: skr. è und 7, avest. ae und 7, griech. e und 4, kelt. e und 2, lit. é und y. Sehen wir uns nun um, wie sich dazu das Suffix verhalte, so finden wir nach Brugmann im Indischen fast nur die Vertreter von -no, im Avest. nur

51

418 W. Meyer-Lübke,

von -eino, im Griechischen nur von -?no, im Littauischen endlich von -ino und -eino. Das Keltische zeigt ebenfalls ‘eno, ob -ino ist fraglich.

Kehren wir wieder zu besena zurück. Dass das Suffix auf gallischen Ursprung weist, ist wohl zweifellos. Auch zwischenvokalisches s kann gallisch sein, da das indoger- manische s in dieser Stellung im Gallischen noch unverän- dert bestand. Für den Stamm eine Erklärung zu geben bleibt dagegen schwierig, so lange nicht in den heutigen keltischen Sprachen Entsprechungen gefunden sind und so lange man nicht weiss, ob der Stammvokal é & oder : ist. Nimmt man letzeres an, so liegt der Gedanke nahe, gall. bis-eina sei gleichen Stammes mit lat. fis-cus; geht man von besena aus, so würde lat. ferula aus fesula und deutsch besen begrifflich nicht unpassend sein, aber das sind ganz unsichere Vermuthungen. Vorläufig müssen wir uns be- guigen mit etwelcher Sicherheit das Wort besena ‘Bienen- stock’ für das Altgallische ermittelt zu haben.

frz. frelon.

Die auf Ménage zurückgehende Ableitung von frz. fre- lon ist, obschon sie de Billigung von Diez erhalten hat, aufzugeben teils wegen der doch wenig einleuchtenden Be- griffsentwickelung, da gerade bei der Hornisse der ‘schlanke Bau des Tierchens’ kein unterscheidendes Merkmal gege- nüber anderen Insekten von ähnlichem Aussehen ist, teils mit Rücksicht darauf, dass die östlichen Mundarten, die fragilis zu frale werden lassen, kein fralon kennen. Im Dictionnaire général wird furlone bei Isidor zugrundege- legt und dieses zweifelnd in fur leo zerlegt mit Rücksicht darauf, dass Varro fur für crabro gebraucht, und mit einem Hinweis auf fourmi-lion. Aber dieser Hinweis stimmt wieder nicht, denn der fourmi-lion ist ein Insekt « dont la larve se tient au fond d'un entonnoir qu’elle creuse dans la terre, et fait sa proie des fourmis ou autres insectes qui y tombent», wie im Dict. gén. erklärt wird, wogegen die Hornisse die Ameisen ım Frieden lässt.

Etymologisches. 419

Sehen wir uns zunächst nach den dialektischen Formen um, so finden sich bei Rolland, Faune populaire de la France, III 272 folgende, die ich in einheitlicher leicht verständlicher Schreibung wiedergebe.

l. furselu, fursalu, fuselü, fusulu in Südfrankreich (Toulouse, Montpellier u. s. w.).

2. frolö, frölö, fuld, folö, fülö, füyo, förlö, ferlò in Nordfrankreich und zwar von Westen bis Osten. Dazu käme noch manche andere, so bringt Horning aus Tan- nois furlô ‘Hummel’ und verweist auf ostlothr. fulo (Zs. XVI 473).

Dass alle diese Wörter zusammengehören und dass sie auf fursleone zurückgehen, mit dem in den Reichenauer Glossen crabrones glossirt ist, unterliegt wohl keinem Zweifel. Die Umgestaltungen sind unbedeutend, ja, was bei einem solchen Namen viel heissen will, solche die sich in- nerhalb der iiblichen Lautentwickelungen bewegen. Sie zeigen aber auch, dass man das lateinische Wort nicht in furs leones zerlegen und nicht fur im ersten Teile sehen darf, da ja doch das % von fur als % wenigstens gelegent- lich noch auftreten würde, Allerdings scheint der Schrei- ber jener Glosse selber etymologisirt zu haben, denn die romanischen Formen geben auch nicht den entferntesten Anhalt für ein -leo-, weisen vielmehr auf -lo- zurück.

Also fruslône oder furslöne ist die Grundform des Wortes. Nun findet sich in den althochdeutschen Glossen ed. Stein- meyer und Sievers I 333 furslo, das, wie Kluge Grundr. d. germ. Phil. I 332 mit Recht bemerkt, ein germ. horsló wiederspiegelt, das sich denkbar genau mit lat. crabro deckt und denselben Stamm zeigt wie die Weiterbildung, die sich als nhd. ‘hornisse’ erhalten hat. Wie aber verhal- ten sich furslo und horslo zu einander? Germanisches h vor Vokalen ist im Romanischen nie zu f gewordon, son- dern im Norden als h- geblieben, im Süden verstummt, wogegen allerdings hr zu fr wird. Somit müssen wir ne- beneinander horslo und hroslo (hurslo und hruslo) anneh-

420 W. Meyer-Lübke, Etymologisches.

men, und zwar ist die letztere Form namentlich bei den Goten und Franken, die auf dem Boden des alten Galliens festen Fuss fassten, gebräuchlich gewesen, daher sie denn die Grundlage für die nord- und südfranzösische Bezeich- nung des Insektes abgab.

SILVIO PIERI.

APPUNTI ETIMOLOGICI.

I. Verbi in -eggiare.

Di questi vien data oggi una spiegazione, che non par del tutto persuasiva. Si ammette un -idiare da -éew, in quanto i verbi greci di questa categoria si fissarono nel latino dell’età cristiana; v. M.-LiBKE, It. gr. 306 (cfr. Rom. gramm. II 246). Un -izare così nato riesce di certo assai verosimile; ma non par che si potesse mai scomporre in -id-iare, se non per l’analisi d'un filologo (-éw =-1d-j0); ed esso non doveva dare all'italiano e forse da principio non diede altro che -ezzare. Tentando di nuovo il problema, co- mincio dal richiamar l’attenzione sopra qualche verbo, in cui l’-ezzare od -eggiare è o pare esser da -idiare di base latina, con -id- parte integrale del tema e non già elemento derivativo. Ad olezzare e lez3- allezzare da *olidiare (‘olidus’), di che v. Arch. III 392, s’aggiunge ora, se ben ci siamo apposti: orezzare da *horridiare (‘horridus’), cfr. qui più innanzi s.v. Un terzo è il lucch. lampeizare e it. -eggiare, che ricostruisco in lampidiare!); e fanno un ot-

1) Un *lampida -ada appar tutt'altro che inverosimile, potendo anche aver qui operato l'attrazione degli agg. in -idu. Il M.-LùBKE, It. gramm. 308 in lampeggia propende a riconoscer *lampadiat con iscambio di suffisso.

422 Silvio Pieri,

timo riscontro, in Italia il pist. lampaneggiare (cfr. lâm- pana), e in Iberia il port, lampadejar, ambedue per ‘lam- peggiare’. Un altro verbo in -ezzare ricaviamo dal pist. traghezzato, agg. per lo più di pelle a strisce diverse, che è *tigrezzato (cfr. il sinon.it. tigrato), con metatesi della liquida e simultaneo passaggio alla serie de’ verbi in {ra-; ed anch’esso potrà bene avere un -$3- etimologico (tig ride). Alla stessa categoria morfologica anche apparterrà spetez- Zare, volg. tirar peti, che deve corrispondere a un metate- tico *expetidiare (da pêditum, cfr. il sicil. piritu ecc.). Restiamo incerti, perchè n'é ignota l’origine, se vada con questi verbi: spulezzare e -eggiare svignarsela (cfr. Arch. XV 184 s. puleggio). Dovrebbe "invece star qui di certo, se non vi sospettassimo un provenzalismo, l’inveggiare -idiare di Dante, e, se gli aggiustassimo qualche fede, quell’arc. lan- gueggiare languire, che ha esempj di Fra Guittone e Iaco- pone. Ricorderemo finalmente, malgrado la diversa vocale, il lucch, merizzare e it. iggiare.

L'-izare di greca origine si continua schiettamente i in tre verbi, importati dal cristianesimo ma di tradizione volgare, che son battezzare, martorezzare e scandalezzare; e a questi possiamo aggiungere i non bene assimilati, ma che pur qualche cosa provano: poetezzare e profetezzare. A ciascuno dei cinque si venne a collocare di fianco la va- riante in -eggiare. Notevoli per l’-ezzare analogico, dimo- strante l’efficacia ‘attrattiva’ d’esemplari come quelli che fino a qui ho ricordato: polverezzare e spolv-; speltorei- Zare; amarezzare, all. ad -eggiare; con cui anche vada: marezzare dare il marezzo (forse un venetismo della tipo- grafia, cfr. Arch. XV 138 s.amar-), all. a mareggiare on- deggiare 1).

Altri verbi in -eggiare, ove questa uscita appar di va-

1) 11 M.-LùBKE, lt. gramm. 308 n, spiega oresäare o amaressare di- rettamento da sost. in -ez30 -a; e in battezzare poet- profet- vede un' amalgama d’-izzare ed -eggiare.

Appunti etimologici. 423

ria ragione ma non meramente analogica, sono: alleggiare (= frnc. alléger da *alleviare 1), arc. scoreggiare batter con la ‘scoreggia’ (corrigia); e d’etimo incerto: dileg- giare (cfr. Kört. 2435); a tacer d'un raro arc. asseggiare (che sarà = frnc. assieger).

Da questi fatti par che si possa inferire una tutt’ altra dichiarazione di quell’uscita -eggiare, che divenne così pro- duttiva. L’ italiano possedeva parecchi verbi d’origine latina in -ezare od -eggiare, ed alcuni d’origine greca con la prima uscita. Ora dall’una parte il ricorrer qualche volta 33 e gg in forme allotropiche (razzo e raggio, ecc.), dal- l’altra l’essere il secondo suono assai più frequente nella lingua, furon causa che allato ad -ezzare sorgesse l’analo- gico -eggiare e poi prevalesse all’altro nell’applicazione. dovremo trascurare l’impulso che a stabilire il secondo esito a fianco del primo potö venir per avventura da pa- recchi verbi in -azzare ed -acciare, che costituiscono una serie, foneticamente e in parte, pur idealmente parallela (molto più se sono allotropi, come spiegazzare e -acciare, e simili).

Quasi superfluo che s’ avverta, come i verbi in -izzare (frnc.-iser, ted. -isiren, ecc.) siano di formazione interamente letteraria e appartengano perciò a uno strato più superfi- ciale, e assai meno antico, della lingua.

II. l. ammaccare, magagna, ecc.

Credo che l’esistenza d’un lat. volgare *maca -cca (cfr. baca -cca, ecc.), cioè del ‘positivo’ di macùla (cfr. mazza da *matea, onde mateola, ecc.), si possa dimostrare assai

4) Son persuaso da un pezzo che sia bbj il solo esito toscano di tvs" (cfr. Suppl. Arch. V 180).

424 Silvio Pieri,

verosimile). Da codesto sost. vorrei, innanzi tutto, ripeter l’o- rigine d'ammaccare?), che è, si noti bene: ‘contundere o per- cuoter lasciando un segno’, e solo per estensione vale anche ‘schiacciare o pestare’; ed è per gran parte identico di significato a macolare (v. Arc. III 352). Tutt'uno per sostanza materiale e ideale, dovrà a ogni modo esser lo spagn. macar, che si dice anch’esso dei frutti. E *maca -cca allo stato ‘isolato’ avremo per avventura nel com. maga (anche rammentato come ‘merkwiirdig’ dal Diez s. ma- gagna) o nello spgn. maca ammaccatura dei frutti, toppa ?). Per magagna difetto, guasto, -agnare guastare (lucch. ma- cagna -are), mandati insieme col prov. maganhar e col frnc. ant. mehaignier, mutilare, si pensò, come è noto, a un germ. man *hamjan ‘hominem mutilare’, onde il nome risulterebbe qui un deverbale (v. Diez, Mackel 53-4). Ma l'identità etimologica dei tre verbi suddetti potrà bene esser solo apparente, giacchè l’accezione di ‘mutilare’, assegnata come arcaica al verbo it. da qualche Vocabolario, non ha altra base, a quanto io ne vedo, che l’autoritä del Salvini (Annot, ‘Fiera’, 1, 4,3); e posto che qualche volta occorra realmente negli antichi scrittori, sarà lecito di pensare a un provenzalismo. Ora, rispetto alle voci italiane, credo che si debba muover dal nome e che il sign. fondamentale sia ‘macchia’ (cfr. marachella, Arch. XV 217, a cui equivale magagna in più frasi); e propongo *macanea, da collocare

1) A ogni modo questa ricostruzione parrà meno ardita a chi av- verta, che tutte le voci prese in esame qui sopra son già dal Kôrting (nm. 4957) considerate come procedenti dalla stessa rad. mac, che 6 in mac-üla 6 uacosy.

*) Con cui va smaccare svergognare, avvilire (metaf.); mentre il semplice maccare è un venetismo (vnz.e pad. macar, ecc.), passato al Voc. it. con esempio del Cennini (cfr. D'Ovipio, Rom. XXV 297-8).

*) Anche il GrôBER, Vulg. Substrate s. maccare, ammette che possa il nome aver preceduto il verbo. Naturalmente, il nome per noi sarà primitivo, ove significhi macchia, difetto, contusione', ma non se sta per ‘maciulla’, come l'ant. frnc. mache © maque.

Appunti etimologici. 425

nell’istessa categoria morfologica, a cui appartengono le basi di campagna e montagna ecc. (cfr. M.-LüBkE, Rom. gramm. II 501). Si consideri sopra tutto che magagnare, in quanto si dice anch’esso dei frutti, equivale esattamente ai verbi italiani che precedono (v. Petrocchi). Del resto, che il ter- mine provenzale e il francese siano nell’ordine ideale con- ciliabili coll’ italiano, non si vorrà stentare a concedere (da ‘guastare’ a ‘mutilare’ il cammino è breve); e quanto alla fonetica non par da escludere in modo assoluto, che alla base da me indicata possa risalire anche il termine antico francese !).

2. 4330, ECC.

azzo, chian., maniera di fare (per esempio: nun me piäce | lu’ azzo, non mi piaccion le tue mosse sospette, à tuoi gesti; lo congsco a l’azzo, ho penetrato il suo divisa- mento ai segni esteriori; BiLL1). Sarà, credo, actio (cfr. ge- stus -us), vale a dire un altro nomin. imparisillabo (cfr. l’ arc. stazzo -sso, ‘stazione’ e ‘stabbio’, da statio; ecc.). Superfluo l’insister sulla perfetta congruenza ideale de’ due termini. E coll’art. agglutinato n’avremo probabilmente I’ it. lazzo, atto o gesto che muove a riso, voce non molto an- tica negli scrittori e rimasta fin qui oscura, dove par dun- que risultare normale lo zz (sordo), ad essa proprio anche in altri dialetti (cfr. Arch. XV 213).

ne & n —————@A Sc

1) G. Paris, consultato in proposito, con pronta cortesia rispondeva: ‘macaniare donnerait reguliérement en français maiaignier, qui pourrait peut-être se réduir à macignier, et du verbe on pourrait tirer maaing maaigne, d'où meaing meaigne. Mais l'A fait difficulté, car elle ne manque jamais dans les textes anciens; en outre on de- vrait avoir quelque fois maiaignier. Il faut aussi tenir compte de I'm finale en anglo-normand, persistant dans l'anglais to meim' (25 gonn. 1900).

426 Silvio Pieri,

3. bárgia.

bdrgia, arc., giogaja de’ buoi; (al plur.), carne sotto il : gozzo de’ becchi (Volg. di Palladio); bargiglio e -iglione (per lo più al pl.), carne sotto il becco de’ gallinacei, (arc.) c. sotto il gozzo de’ becchi. La sostanza etimologica é da cercare di certo in barba (cfr. il sinonimo vnz. bárbole e barbagola, ecc.), come fu veduto da un pezzo (Ménage). Ma ad una derivazione diretta di bargia da *barbea ecc. (cfr. Zamb. 111-2, Arch. XIII 404) s’ oppone invincibilmente, io credo, la fonetica toscana, che avrebbe consentito sol *bar- bia ecc. Bisognerà muovere da barbiglio e -iglipne!), e cercare qualche sinonimo per la cui contaminazione si po- tesse alla labiale protonica sostituir la palatina. E ci soc- corre súbito il ben antico gorgia canna della gola, pappa- gorgia carne sotto il mento delle persone grasse, e anche ‘bargigli del tacchino’ (Petrocchi). La contaminazione era favorita da r precedente all’esplosiva così nel nome ‘attrat- tore’ come nello ‘attratto’. E in bargia vedremo il primi- tivo desunto da’ derivati.

4. bergolare.

bergolare, chiacchierare; be'rgolo, chiacchierone. La prima voce sarà *verbulare o *berv- (‘verbum’; cfr. il montal. sverbicare, st. sign.; e riguardo alla gutturale : pdr- golo *). Il nome sarà un deverbale.

1) Non metto l'asterisco a codesto formo, perchè da qualche parte devon trovare (le adopera il Forcellini s. palea). Il sen. barbiglione grottajone o gruccione (‘merops apiaster’ di L.) merita d'esser qui ricordato.

*) V. Paropi, Rom.XXVII 218. Egli, parlando dei riflessi di ver- bum, omette l'it. verbo che, in quanto dice ‘parola’ in più d'una frase, è certo di tradizione volgare (cfr. GRÖBER, Vulg. Substrate 8. v.).

Appunti etimologici. 427

5. bolso.

bolso, malato di polmoni, che tosse e difficilmente re- spira (propriam. del cavallo), prov. bols con lo st. signifi- cato. Il Diez, s. v., da pùlsus, senza esitare; e con lui lo Zamb., 926, ed altri (ma non però il Grôber, v. Vulg. Sub- strate s. v.), per quanto un b iniziale da p appaja tutt'altro che verosimile. L’etimo è vùlsus (‘vello’); e fa meraviglia che sia sfuggito così a lungo in tanto fervore d'indagini, posto com’è nitidamente dal FoRCELLINI, che cita l’esempio di Vegazio (Veter. 3, 66), ove si parla de'cavalli ‘graviter tussientes et vulsi’. Vale dunque ‘schiantato’ (cfr. ‘ho una tosse, che mi schianta’, e sim.); ed è un altro bello e si- curo esempio di d da v iniziale, da aggiungere alla co- spicua serie che ce n’ha fornito il Paropı, Rom. XXVII 197-240.

6. bucchio.

bucchio, arc., pelle, la tunica della cipolla (cfr. il lucch. bucchia buccia). Rispecchia *lo]bucülu, da lo bus (40865), v. Georges, con discrezione dell’articolo. N’abbiamo un’ ef- ficace conferma per quella dichiarazione di buccio -a, che ci era data genialmente dal Diez (= *lo]buccio -a, cfr. Kört. 4864).

Un'intima ragione di verosimiglianza par che persuada a connetter con questi il loro sinon. guscio -a, involu- cro di nòci e mandorle, dell’uovo e della testuggine, ecc. A un *lo]vüceo -a s'adatta bene il lomb. güss -ssa, rmgn. ÿoss -ssa (il frac. gousse invece, se indigeno, riverrebbe ad -úcea). Ciò posto, si dovrebbe credere accattata la forma toscana, e che si modellasse, per la consonante di mezzo, ad altre voci con $ corrispondente a ss emiliano e lombardo (uscio, fascio, ecc.).

428 Silvio Pieri,

7. cajo.

cajo, cajgne, aret., legno marcescente, cavernoso si che compresso cede (Franc. Corazzini). Sarà dunque, presa la causa per l’effetto, caries che, come ‘tarlo’ e in forma di diminutivo, appar molto diffuso tra noi (cfr. Arch. I 74 n). E risulta un esemplare per più rispetti osservabile.

8. carpone.

carpone -i, con le mani e co'piedi (aggiunto ad ‘an- dare’, ‘camminare’, e simili). Il Diez, s. v., chiede se pro- venga da carpo parte della mano; il quale è un termine pe- culiare dell’anatomia (da x@grros, probabilmente non passato mai in carpus, che infatti non è registrato dal Georges). Il Kört. 1688 codesta dichiarazione per certa. Ci appa- rirà invece senza alcun dubbio erronea, ove si ponga mente all'arc. carpare, che vale anch’esso ‘andar carpone’ (Si mi spronaron le parole sue, Ch’ i’ mi sforzai, carpando appresso lui; Pura. IV 49-50). Già il classico latino, con certi suoi usi di carpöre (quali ‘c.terram pedibus’, ‘c. alis aera’, ecc.), preludeva al verbo italiano. E carpone sta a carpare, come sdrucciolone striscione tastone tentone voltolone zoppt- cone -i e gli arc. riddone trottone -t ecc. stanno ai corre- lativi lor verbi in -are. La giusta etimologia fu già intuita dal Bembo. [Una ben diversa spiegazione ci offre ora il Nigra, Arch. XV 281].

9. catriosso.

calriosso, è l’ossatura del torace (detto per lo più degli uccelli). Lo Zamb., 866, da quatri-osso, senza dir nulla a dichiarazione del supposto etimo !). Penso che significasse

1) Altri non a ragione aveva sospettato già in catrigsso un sinon. d'aliosso, interpretando per ‘osso di quattro facce’ (v. Tramater). Po-

Appunti etimologici. 429

in origine la spina dorsale, che è quasi l’anima del ‘ca- triosso’, indicata come “osso, a cui s'attacca la coda’. Da caudae ossum si poté venire a catriosso, come da codione si venne di certo a cotrione (cfr. Petrocchi e Arch. XII 123). L’a della prima protonica non sarebbe d’ostacolo.

10. cianta.

cianta, cionta. In cianta, scarpa messa a ciabatta, ciabatta (e dovè dapprima dir ‘piede’), vedremo un bel- l’esempio di contaminazione, e cioè ciampa piede, gamba, lucch. (da cui l’it. inciampare ecc.) + pianta piede. L'arc. cionta, che occorre nel Pataffio, ne’ sonetti del Burchiello e nel Cir, Calvaneo e che dal Voc. it. si dichiara come ‘per- cossa, bastonata, perticata’, vale veramente ‘pedata’ (cfr. calcio). Rinveniamo così un altro di quegli esemplari, e ormai son parecchi —, che mostrano 9 da A’ in questa stessa formola (cfr. Arch. XV 215 s. gangola).

ll. ciompo.

ciompo. Secondo il Voc. it. è ‘pettinatore o scardas- satore di lana’; e poi, per estensione: ‘sciatto, vile, dap- poco’ (oggi ‘grullo’, v. Petrocchi). Sennonchè col primo significato, qual termine proprio dell’arte della lana, non par che ciompo occorra negli scrittori. Verosimile perciò, che sia originaria e principale l’altra accezione, e che co- desto nome s’attribuisse in segno di scherno e disprezzo dai nobili e dal popolo grasso agli artefici della lana, quando cominciarono ad alzar troppo il capo (cfr. gli Straccioni di Lucca). Per forma e per significato potrebbe ciompo stare

trà esser bensì che catriosso, per la sua molta somiglianza di suono con aliosso (rispetto al quale v.BrancHI, Arch, XIII 190-1), ci spieghi la cons. iniziale doll’ arc. galiosso, donotante ciascuno de’ sette conj o guglie, d'osso o di legno, che s'usavano in una specie di giuoco (ac- cezione propria altrosi d’aliösso; v. il Voc. ital.).

430 Silvio Pieri,

a un *ciompare, come il lucch. cip'mpico, disadatto, sta a ciompicare (v. Arch. XII 128); ma anche potrebbe senz'al- tro essere un’applicazione di ciampa (cfr. qui cianta e cionla), in senso di ‘piede grosso’ o ‘piede schiacciato’ (cfr. il frnc. pied-plat per ‘uomo spregevole e dappoco”).

12. ciospo.

ciospo, pist. Si dice in senso ironico e dispregiativo, d'un uomo che ha pretensioni galanti: ‘è un bel ciospo’; ‘guarda, se vo’ sposar quel bel ciospo’; ecc. (v. Fanf. u. tosc. e Petr.). Equivale dunque a ‘bel cesto’. E sarà lo stesso che cespo coespes, a cui per la trafila d’un vb. *ciospare si riconnette il lucch. ciospo disadatto; v. Arch. XII 171 n. Ma qui rimane a trovare da quel derivato rizätono si possa ripeter l'o.

13. citela.

citela, chian., rosolaccio (con forma italianeggiante: ci- tole o scitole, Dom. MAzziaRI appr. Targ.-Tozz.). Si deve porre tra i nomi volgari del rosolaccio indicanti * bam- bola, puppattola’, dei quali parlava testé il Niera, dandone la giusta ragione (v. Arch. XV 122) !). E citino fiore del melograno, scitino frutto del carrubo, della cassia e del tamarindo (v. Petrocchi) avranno la stessa origine?

14. fuscello.

fuscello, pezzetto di paglia o sim. Non da *fustellus, (Kört. 3540), come poneva già il Salvini, da fustiello (sic; Zamb. 486), ma da *fusticellus (cf. fusticùlus, che dice appunto ‘pezzetto di legno’).

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1) Cfr. il son. ant. citola bambina (anche in doc. di San Sepolcro, 1378; Franc. CoRAZZINI). Oggi sen.o ar. (o anche mt. pist.) citto -a. Ma ct- tela per ‘ragazza’ è tuttora del chianajuolo, almeno in quanto vi s'oda: che bella citela, che bel pezzo di fanciulla (BiLLI)!

Appunti etimologici. 431

15. gavine.

gavine e gavigne. La dichiarazione di queste due voci offerta dal Nigra (v. Arch. XIV 281) non è forse una delle sue meglio riuscite. Infatti gavine, che par voce più propriamente pisana e lucchese, non vuol dir gángole, glan- dule del collo gonfiate e poi suppurate, come dânno i Vo- cabolarj, ma quelle ‘cicatrici’ o meglio quei ‘solchi’, inde- lebili, che ne rimangon dipoi. Sicchè, aver le gángole o le gavine è lo stesso, in sostanza; ma con la prima espres- sione si contempla la causa, e con la seconda l’effetto. E gavigna è termine ben distinto per significato dal predetto, e vale le ‘cavità’ che sono sotto le ascelle (v. il bell’arti- colo del GHERARDINI, Voci e man, di dire italiane, II 256-7). In ambedue i casi riverremo dunque a cavu, anzichè a capult]; e gavine andrà coll’arc. cavina -erna, sen. cavina o gav- fogna, lucch. gavina via fonda (cfr. Suppl. Arch. V 122 s.cavu), e con qualche altra voce simile. È vero bensì che i derivati da ‘cavu’ s'incontrano, e spesso si confon- dono, con quelli da ‘caput’, come l’emil. e lomb. kavan cesto, romagn. java viluppo di fila; it. gavetta per ‘ga- mella” e per ‘matassina’; ecc.

16. gazéurro.

gazzurro, arc. strepito allegro, ruzzo. Sarà un nuovo esempio di ‘contaminazione’, da gazzarra + Zurro. Di qui ing- e ringarzullıre-rsi, poi (con assimilaz. della li- quida) -azzullire -rsi-, mettere o entrare in solluchero; da -azzurlire per via di Zurlo -rro (cfr. il lucch. cimurlo -rro, ecc.), con metatesi che potè essere agevolata dal si- nonimo ing- e ringalluzzire 1).

un + tm

*) Il quale, se fosse originario lo #5, che par vi s'oda qualche volta v. Petrocchi), anzichè proceder da gallo, - come tutti sentiamo e cre-

432 Silvio Pieri,

17. grance' vola.

grance' vola, pesce margherita (specie di crostaceo assai simile al ‘granciporro’; v. Tram.). Lo Zamb., 987, pone per base un *grancipóra (da ‘cancer pagurus”). Avremo piut- tosto *cancricùla (cfr. granchiella, un’altra specie di granchio, e lo spagn. cangrejo, granchio di mare, da *ca n- cricùlus, Kôrt. 1560), venuto con metatesi antica a *cran- cicüla, e poi a-ipùla per dissim. (cfr. Pit. casipola ecc., Arch, XIII 361 n). Deve esser voce del litorale adriatico su- periore (vnz. grance ola; cfr. ce’ola da cöpüla).

18. imbuto.

imbulo, apparecchio da riempir vasi. Il Diez, s. v., ri- chiama l’etimologia del Ménage (da butis), e mette a ri- scontro il sinon. imbottatojo. Credo si accostasse al vero il Mussafia, Beitrag 89 n, che sospettava in imbulo il prt. passivo d’imbuöre, con sign. attivo (cfr. Kört. 4099). Ma a parer mio dovremo francamente porre a base un *im- bütolr]; cfr. sarto da sarto[r]. Sarà un altro de’ nominativi imparisillabi conservati dall italiano. E varrà dunque, con bella proprietà, ‘il riempitore’; cfr. il tosc. imboltavino ecc.

19. intirizzire.

inlirizzire, arc. -izzare, fare o diventar rigido. Si deriva giustamente da infero (tutto d'un pezzo, rigido); cfr. interito, arc. -ato, intirizzito. Ma ammetter che sia formato dall’astratto interezza, come vorrebbe il Zamb., 1258, non si può per la ragione del diverso zz e per altre; e appar-

diamo -, sarebbe invece per metat. da ing- e ringasiullire. Sonnon- chè si deve trattar veramente d’una tardiva e timida azione di que- st'ultimo verbo su quello.

Appunti etimologici. 433

terrà piuttosto alla serie analogica assai recente de’ verbì in -ZZare (v. qui, in principio).

20. intruschiar e.

intruschiare, aret., intrudere, insinuare, intricare (rifl.). E *intrusicúlare (‘intrisu’); cfr. Vit. incischiare ecc.

21. mandracchia.

mandracchia, arc., puttanella. Se la voce è indigena, lo ndr vi deve esser sorto per evoluzione fonetica, giacchè codesto gruppo manca allo schietto latino (AscoLi). Ora, ammesso un *meretracùla (=-icúla, cfr. cornacchia ecc.), ne derivava facilmente *mardracchia, poi mandracchia per dissimilazione (cfr. il tosc. antro, da artro altro).

22. mantrugiare.

mantrugiare, trattar con mano, brancicare. È man[u] *trusiare (‘trisu’), quasi ‘spingere o urtare con mano’. Per la ragione ideale, cfr. toccare Arch. XIV 337.

23. mazzeranga.

mazzeranga e mazzdnghera, sorta di pestone di legno per assodare ed appianare il terreno una sottil mazza diritta, commessa obliquamente ad un legno colmo e piano nel fondo); di qui mazzerangare e mazzan- gherare. Credo che si debba partir da mazzánghera, e che dal lato morfologico questa concordi in tutto e per tutto con pozzdnghera (-anica; v. BIANCHI, Arch. X 368, Suppl. Arch. V 25 s. Pisanus). Dal suffisso avrà il valore quasi d’un collettivo, come a dir ‘mazza composta’ o sim. (c’è anche una specie di manubrio). Per la metatesi, cfr. il lucch. pi- salanca altalena, che ad ogni modo non si potrà separare

434 Silvio Pieri,

dall’equivalente sen. e ar. bicidncola (v. BEHRENS, Met. 29)!). In modo ben diverso il Zamb., 758, ragione di mazze- ranga (mazzar-), ch'egli mal definisce, forse in servigio della proposta etimologia, come ‘strumento rustico fatto d’unä mazza curva’. Alla stessa categoria morfologica penso che spetti il nome seguente.

24. meldngolo.

melángolo -a, arancio forte, arc. specie di popone, che secondo il Zamb., 1433, è d'origine ignota. Da mölum -a (cfr. melarancia e mellone). Un bell’omeötropo di questo è melángola, in quanto designa lo ‘erigeron viscosum’ (detto anche melácciola e melajola, v. Targ.-Tozz.). Da melle, avendo ‘foglie viscose in modo, che vi rimangono attaccati i moscerini che vi si posano”. Il sign. di ‘arancio’ è pur dell’arc. celrdngolo, formato alla stessa guisa, da citrus.

25. nicchiare.

nicchiare, gemere per le doglie del parto, brontolare per malcontento, arc. scricchiolare (Ann. Caro), montal. stronfiare dalla fatica, sen. puzzare. Penso a *nictùlare, da nictöre indicante lo ‘squittir del cane da caccia sul fiato della selvaggina’, promosso per avventura dai sino- nimi eiúlare e ulùlare. La convenienza ideale quasi non potrebbe esser maggiore (cfr. guaire, in quanto si dica di persona); e un *nict’lare metteva capo di necessità al verbo italiano ?). Il traslato a ‘puzzare’ è proprio di molti

1) Si registra anche un maszalanga (v. Petrocchi), che starebbe al pist. maszdngola mazzuola da spazzar sassi, nello stesso rapporto che il primo al secondo di cotesti due termini.

3) Se non è una riduzione ‘sui generis’ del verbo italiano, river- rebbe a *nicticare il bol. fikkär (nekkı, p. sing.), lamentarsi, scricchiolare, cigolare. (A me non par che la fonetica osti; ma cfr. Arch. XV 107).

Appunti etimologici. 435

verbi che indicano un suono (a cominciar da sonare, v. Malm, VI 49 e la nota del Biscioni, bol. sunär, puzzare fortemente; e v. Arch. XII 132 s. rigno; ecc.);.e cadon per- ciò, a ogni modo, per nicchiare in codesta accezione, l’ipotesi del Caix e quella recente del Nigra (v. Arch. XV 119-20).

26. ore2320.

orezzo e rezzo!), ombra, fresco, venticello (arc. an- che: freddo, bujo, sost.); orezzare, arc. stare al fresco, spirare che fa il venticello. Quanto al nome (giacchè non dice parola del verbo), il Diez s. aura, pronunziando egli forse zz (sordo), propone *auritium; il Canello (v. Arch. III 392) ne fa un derivato di *auricare, ciò che oggi nessuno più ammetterebbe ; e il M.-Lübke (v. It. gramm. 74 e 143) muove da *auridium ?). Credo che si debba metter da parte aura e pensare a tutt'altro. Aggiunto a luogo, or- rido nel lacch. val ‘freddo e umido per mancanza di sole’ (e così, del resto, anche nell’italiano, se aggiunto a valle, a caverna, o sim.), onde poi ‘che è a tramontana o a bacio”, significato che già traspare in horridu (cfr. il ‘nulli datur omnibus aevis tam procul a patria horridiorve locus’ d’O- vidio; e c'è poi horror per ‘frigus’ e ‘tremor ’). Ora, a veder mio, orezzare rispecchia *horridiare, che avrà detto naturalmente ‘stare all’orrido’; e il nome risulterà un deverbale. Per lo sdoppiato 7», cfr. coreggia e scoreg- giare; e può forse aver ragione anche dall’aferesi, che av- venne in rezzo per discrezione dell’articolo (lo reázo, indi pur l’orezzo e oreszare *); senza dir che la culla di queste

1) D'oreggio par che s'abbia un solo esempio del Bembo, il quale crodè forse codesta la forma meglio toscana. Fa bel riscontro al bat- teggiare -zzare dello stesso Bembo (v. D'Ovipio, Rom. XXV 297 n).

*) Non è detto esplicitamente, ma sottinteso così da non lasciar dubbio; e si rileva dal paragone de’ due luoghi indicati.

*) Non riesco a rintracciare un arezzo citato dal Diez, ma ad ogni modo ci darebbe poco disturbo, e sarebbe anche spiegabile per via d'un concomitante *arezza, il quale avesse l'a dall'articolo.

436 Silvio Pieri, voci, come pare c’inculchi anche l’o'rrido sopra citato, potè essere il dial. lucchese, dove codesto fenomeno è bene

antico e anteriore ai nostri primordj letterarj (cfr. Suppl. Arch. V 55s. Murrianu).

27. pagella.

pagella, aret., paniuzza. Ne rivive il lat. pagella, ed è bella conferma di pdnia da pagina (v. AscoLı, Arch. X 465). ‘Nessuno possa uccellare alle pagelle presso i fiumi e fiumi- celli’ (Riforme e Provvisioni di San Sepolcro, fine del se- colo XIV; Franc. CORAZZINI).

28. pagliolaja.

pagliolaja, arc., giogaja de’ buoi. Il Caix st. 131 dal plur. del sinonimo lat. palear. La sostanziale identità delle due voci parrà di certo non dubbia; ma palearia non poteva riuscir che a *pagliaja. Si dovrà, credo, pensare a metatesì d’un dimin. seriore *paglidjola, promossa dall’uscita del tutto insolita, giacchè il nome così ‘non aveva rima”. Del resto, un *paleolar starebbe a *paleola (cfr. pa- gliuola -uzza), come palear a palea (in quanto questa è il ‘bargiglio de’ gallinacei’).

29. puppattorino. puppattorino,lucch., la parte interna all’estremità delle

dita. Occorre nella frase ‘leccarsi i puppattorini’. È *pol- pattolino (‘pulpa’). Cfr. polpastrello e polpacciuolo.

30. rabbrezzare.

rabbrezzare, pist., mettere insieme in qualche modo, raccapezzare. Con metat. di 7, da *rabberzare = ravver-

Appunti etimologici. 437

zare (cfr. rabberciare, Paropı Rom. XXVII 220) !), con quel trapasso ideale da ‘accomodare, ravviare’ a ‘racca- pezzare’, che ritroviamo uguale del tutto in rimediare; cfr. ‘rimediare un poco di pane, cento lire’, pist. ‘rabbrez- zare” 3).

31. raganella, ecc.

raganella, ecc. Da raucu son derivati nell’alta e media Italia var) nomi della ‘marzajuola’ (‘anas querque- dula’ di Linneo): ven. e ver.roketo, mant. roketi, cremon. ru- kett, parm. rokkett e rokkell, mod. e bol. rukkett (onde lucch. rocchetto, Massaciuccoli). Ad essi, con doppio suff. diminu- tivo, s aggiunge il ven. racoleta; e di formazione non di- versa, il pur ven. raÿanela, raÿ- e riÿanelo (q. *raucolella -0, con vl da L-L), chius. raccanella. Molte altre forme del- l’alta Italia corrispondenti a un *garganella -o (lomb. dar- ÿanel, ecc.) ripeteranno la loro sillaba iniziale, anzichè da querquedula, da gargozzo ecc. (‘gola’; a indicare la voce chioccia o ‘gutturale’ dell’ anitra) 3), L’ it. raganella rana degli alberi (sen. racanella, bol. ranganeila, ecc.) pro- cederà dalla stessa base e per la stessa ragione ideale (cfr. il march. raganella raschiare di gola, raucedine, bol. raga- neila rantolo) 4). L’ equivalente ven. e pad. rácola deve es- sere il positivo estratto dal diminutivo (pad. anche racoleta,

eee

1) Come è ben noto, la comune pronunzia toscana oggi arso, verzo, e anche eccelso, polzo occ., per arso, eccelso, ecc.

*) L'equivalente arabrelläre, che s'ode insieme ad arabressãre, chian. (a prostetico), sarà rabbellare -ire, con senso di ‘accomodare’, modificato da rabbrezzare.

*) Questi nomi dialettali, da me in parte verificati per la giusta pronunzia, ho da E. H. GraLIoLI, Avif. it. 312.

*) Di *racolella si dové il 7-2 dissimilare in n-l (anzichè in r-l, come ci saremmo aspettati), stante il r iniziale. II Tommaséo an- che rdgana, che sarebbe anch'esso un ‘estratto’ (cfr.il testo); ma credo si tratti d'un errore, giacchè l’esempio ivi recato del Redi si riferisce alla rdgana pesce di mare (‘draco marinus’, dgaxacva): v. Tramater.

438 Silvio Pieri, Patriarchi; e v. qui sopra). Ovvia l’accezione metaforica di

‘tabella da sonare’ ; cfr. il lucch. tráccola cioè ‘taccola’ (Arch. XII 134), ecc.

32. róciolo, ecc.

róciolo, pist., zolletta di zucchero o di farina dolce; e anche in generale ‘cosa appallata e rotonda’ (NER.). Da *ro- tjolo (róta); come truciolare, staccar dal legno con la pialla sottili falde arrotolate, deve esser da *derotjolare, cfr. Arch. XV 220 s, trottola (in altro modo il Caix st. 168). La stessa voce pare il lucch. gráciolo, per lo più zolletta di farina dolce, con 5 prostetico (cfr. grágnolo ecc.) ed a che sarebbe sorto in gracioloso. Rispetto alla convenienza del proposto etimo, cfr. fondo e rotondo -us, i quali non meno che ‘circolare’ valgono anche ‘sferico’.

33. rulicare, ecc.

ruticare, are, muovere, rivoltare, rigirare (rifl.). Pro- babilmente è *roticare, per -ulare, sorto « dapprima nelle forme rizätone. Con la medesima diffusione d’ x, s’ebbero, come io credo, gli aret. s' drucchiare (Redi)!) es drul- lare (Franc. Corazzini)?), da *e]x-de-rot’lare (cfr. il si- non. sdrucciolare). E il sin. sdrucolare, montal, (sdru- gueldre, chian.) potrà essere un ‘dissincopato’, o anche dover la sua gutturale a dissimilazione. Lo stesso verbo è sdrulicare, sen. (Giuliani), con metat. mutua e con quella alterazione morfologica che rivediamo in col- o coricare. In modo diverso il Caix st.153. Per qualche altro verbo da rota, cfr. Arch. XV 220 s. trottola.

1) Così sull'autorità del Caix al luogo cit. appresso, dove dal Redi si ripetono stru- e sdrucchiare, mancanti al Fanf. u. t.

3) Il Corazzini scrive veramento sdrulare; ma deve essere un er- rore, forse di stampa.

Appunti etimologici. 439

34. Sbonchio,

s’bonchio, lucch., macchia d’inchiostro; s'bonchiare, macchiar d’inchiostro. Il sost. sembra star bene in compa- gnia di scarabocchio e di sgorbio (v. Niara, Arch, XIV 278), giacchè riverrà di certo a *s'-bovonchio, che deve esser tut- t'uno per la sostanza col lucch. bofonchio * vespa crabro’ (v. Suppl. Arch. V 111; e per la contrazione, ib. 231). Ma esso, anzichè ripetere il suono iniziale da’ suoi sinonimi, ci apparirà piuttosto un deverbale.

35. scalmana.

scalmana, malanno per sudore represso dopochè uno s'è riscaldato; scalmanare -arsi, pigliare una ‘scalmana’. Lo Zamb., 197, da scal[da]mane + -o, sorta di giuoco fan- ciullesco (!). A base sta invece calma col sign. suo origi- nario di ‘ardore’ o ‘caldo grande’ (xaúua), come ben vide già il Muratori. In forma non derivativa è il sinon. verbo arc. scalmare -arsi, (cfr. il metaur. scalmarse scaldarsi, si- cil. scarmdrisi riardersi per lo scirocco, ecc.). Sul già equi- valente caldana (v.il Vocab.) si dovè modellare un cal- mana, onde scalmanare e poi il deverbale.

36. scerquo.

scerquo o -rco, sen., rovescio d’acqua, gran versamento di sangue o d'altro (v.Fanf. u. t.e Petrocchi). Sospetto che sia, mutato il genere, una cosa sola coll’it. serqua (da si- liqua, Kôrt 7464), che è ‘dozzina’ e più spesso ‘gran quan- tità in generale’. N'avremmo un altro esempio di s da si (cfr. scempio ecc.).

440 Silvio Pieri,

37. sgangasciare.

sgangasciare, arc., slogarsi le mascelle (per le risa); e di qui: sgangasciamento. Vi riconosceremo senza dif- ficoltà: sganasciare + sgangherare. Usitatissimo in questa accezione ‘sgangherar le mascelle’ (oggi anche ‘sganghe- rarsi’).

38. sghembo, ecc.

Festo nel Compendio di Paolo Diacono ha: ‘stlembus, gravis, tardus; sicut Lucilius pedibus stlembum dixit, quum refert equum pigrum et tardum’; ed è la sola attestazione che si conosca di questa oscura voce (cfr. LINDSAY, The lat. Lang., ıv 150). Ora io sospetto che essa, variamente alterata e ‘contaminata’, continui in più d’una voce italiana; e che, se codesta parentela non venne fatto di scorgere, si debba all’essere impropria la dichiarazione data da Festo e poi riportata fino ad oggi in tutti i Vocabolarj. Di fatti, in quello ‘stlembum pedibus’, se l’agg. valesse davvero ‘gra- vis, tardus”, riuscirebbe superfluo il ‘pedibus’, che ha invece tutta l’aria d'un complemento di limitazione, proprio come in ‘aeger pedibus' o ‘claudus altero pede”. E poi, a consi- derar bene le parole che seguono, par di certo più probabile che esso agg. designi una qualità o condizione, la quale può essere in un cavallo pigro e tardo, anzichè la stessa di lui tardità. Credo dunque che s’abbia a intendere ‘storto, obliquo’, e che questo vizio de' piedi fosse indicato da Lu- cilio come una causa della lentezza del cavallo. E stlem- bus, in tal caso, risulta sinonimo all’it. sghem bo. Da co- desto etimo, a tutto rigore, la fonetica esigerebbe *schiembo ; ma per la sonora gutturale, cfr. arc. schimb- all. a sghim- bescio, che (comunque s’abbia poi a dar ragione della se- conda parte) è per avventura riconosciuto da tutti come corradicale a sghembo; e circa la semplificazione del dit-

Appunti etimologica. 44]

tongo, essa non farà specie più che tanto in idioma quale è l'italiano, che non tollera il ditt. dell’è in posizione. Diranno poi i germanologi, se l’aat. slimb, storto, ent. schlimm -emm, proposto ad etimo di sghembo (v. Diez s.v.), derivi o no anch'esso dall’agg. latino. A ogni modo, spiegando in tal guisa sghembo, n’appare anche più verosimile e chiara la connessione con quel suo equivalente così diffuso per l’ Italia, il quale accenna ad una base *scalembo o sca- lembro (mant. s'Galemb, bol. sgale'mber, ecc.; v. LORCK, Altberg. Sprachdenk. 174) !), ove l’epentesi d’a s’aveva fa- cilmente dal normale sclembu = stlembu (per la ragion generale, v. AscoLI, Arch. III 456 ss.).

39. sgrollgne.

sgrollgne, lucch., acquazzone. Il Caix pensava ad etimo tedesco (cfr. Kôrt. 7319); ma altro non abbiamo qui che scrollone, acer. di scrollo (da scrollare crollare; lucch. an- che sgrollare, v. CASENTINI, Vita di S. Zita, 14). E cfr. Vit. scossone st. sign.

40. squillâre.

squillâre, chian., sdrucciolare, sguizzare. Il Caix pro- pose una base germanica (cfr. Kört. 8878). Credo che sia tutt’ uno coll’it. squillare, in quanto valse ‘volar con pre- stezza’ (PuLci, Morg. XIV 49: ‘E lo smeriglio si vede squil- lare Di cielo in terra, e la rondine ha innanzi’; dove, com'è manifesto, squillare si potrebbe anche tradurre con ‘sdruc- ciolare’ o ‘sguizzare’); e che esso non sia se non squil- lare sonare (cfr. Kört. 7525), in senso metaforico ; cfr. sci- volare da sibilare, Arch. XV 219. In modo analogo il sicil.

———————————— tt: ——-- ut à - —— -. . _ = —T eee -—

1) Da aggiungere ai molti rappresentanti, che ivi s' adducono, di codesta voce, è il lucch.sgualembare star mal pari, dar le volte (cfr. Fanf. u. t.). Il berg.s’Jalembe’r rispecchierà *scalembario.

54

442 Silvio Pieri,

squigghiari (che sembra squillare + squagliar[si] in senso metaf.), vale a un tempo ‘strillare’ e ‘scappare, spulezzare’ (Traina).

41. sollemme, ecc.

sollemme, chian., pian piano, adagio adagio. È sollé- mnis -e, passato a funzione d’avverbio. E in effetto l’andare od operare ‘con solennità’ è sempre un andare od operare ‘pian piano’. Risulta un altro notevole esempio di prodotto labiale di MN (v. Suppl. Arch. V 124-5). Tutt? uno con questo sarà Vit. lemme lemme, st. sign. La prima sillaba do- vette cadere, perchè scambiata col prefisso (sub-) o comun- que giudicata non indispensabile al senso, massime all’in- valere della ‘dizione duplicativa”. E si noti che è termine familiare e scherzevole. Lo Zamb., 692, proponeva lene!

42. spilluzzicare.

spilluzzicare, prendere a bocconcini. Lo Zamb., 1195, ne fa un derivato di spillare. Risale esso invece senza dub- bio a uno *spiluccicare di f. a. (cfr. qui s. stuzzicare), col solito s preposizionale e | raddoppiato (ma cfr. il chian. spi- luzzechire), da piluccare (v. Diez s.v.), che da ‘spiccar (l’uva) a chicco a chicco’ venne a significare anch’ esso ‘prender (cosa da mangiare) a pezzetti’.

43. spreparato, ecc.

spreparato, sen. spettorato, spettoracciato. Da parare addobbare, in quanto venga a ‘coprire’ e ‘fare intoppo, ri- parare’, s’ ha spreparato, che varrà dunque: non coperto davanti (e c'è anche il vb. sprepararsi, v. Fanf. u. tosc, e Petr.). Non separabile da questa l’equival. voce lucch, spa- raciato, che il Caix st. 159 riconduceva a spallacciato, dichiarazione mal conveniente dal lato ideale, perchè uno

Appunti etimotogict. 443

che sia ‘sparaciato’ non ha scoperte le spalle, ma mostra scoperto il petto per lo sparato della camicia. Starà dun- que in luogo di *sparacciato, formazione per analogia su scollacciato, spettoracciato, ecc. A sdoppiare il éé concorse di certo il fatto dell’esser diventato oscuro il sign. della pa- rola; e cfr. il pist. scaciare scacciare !.

44. stempeggigne.

stempeggione, chian., spinta, spintone. È con metatesi da spenteggione. Cfr. il sen, spinteggiare dar delle spinte.

45. stuzzicare.

stuzzicare, toccar ripetutamente e con insistenza. Da *toccicare (cfr. il lucch. tuzzicare), iterativo di toccare (v. Nıara, Arch. XIV 337), con « dalle forme rizàtone esteso alle rizotoniche, e con 33 da *CC* come in bezzicare ecc. Circa l'altre etimologie fino a qui proposte, cfr. Kört. 7783.

46. svercignare.

s'vercignare, pist. (mt.), versare. Con s intensivo, da *verscignare (per *versi-) iterativo di ‘versare’; cfr. stin- lignare da ‘stentare’, lucch. storcignare da ‘storcere’, ecc. V’d osservabile il sı? che è venuto a s (onde a é, forse per dissimil. dalla cons. iniziale; ma cfr.il sen. rivercio rove- scio).

1) Dove per altro, considerando cho il lucch. dice soltanto ‘rima- nere scaciato’, cioè deluso (a bocca asciutta o con un palmo di naso), ho qualche sospetto che potesse influire il cacio di ‘monsieur le cor- beau’!

444 Silvio Pieri,

47. tonchio.

tgnchio, baco delle civaje. S'è assai fantasticato su que- sta voce (v. Tramater, Zamb. 1300), la quale pur non deve esser altro che l’arc. Tonchio, da Antonio (Buonarroti, ‘Fiera’ 2, 2, 4), comunque codesta forma accorciata s'abbia poi a dichiarare; e di ciò persuade il lucch. giannino baco delle frutta, moden. s’vane’n baco delle castagne (Guiglia), da Giann- e Giovannino, ecc. 1).

48. trasto.

trasto, aret., impiccio, impedimento. È transtrum. Cfr. ‘mettere un bastone tra’ piedi. E anche v. Suppl. Arch. V 191-2. 49. trespiggiare.

trespiggiare, -iggire, sen., andare pian piano pur fa- cendo un certo rumore. Penso a “strepiggiare, con metat. del solito s preposizionale, da *trepidiare (‘trepidu’). Per altri verbi del dial. senese, i quali pajono a questo corra- dicali, v. Arch. XV 216-7.

50. tufea.

tufea, chian., nebbia densissima, che occupi luoghi bassi (Billi). In veste italiana sarebbe *ufaja. Da typhus (zUçpoç), fumo, esalazione (cfr. Kört. 8458). L'u è dovuto alla seguente labiale. ol. viluppo.

viluppo, fila raccolte assieme in disordine, cosa rag- gomitolata e intricata; di qui avvil- e di]sviluppare.

1) Un bell’argomento di studio offrirebbero i nomi proprj di per- sona, che divenner nomi comuni, - per lo più con applicazione ger- gale in origine -, anche d'oggetti inanimati.

Appunti etimologici. 445

Credo che la spiegazione di questo enimma (cfr. Zamb. 1393) si trovi nell’onomastica delle piante, dove il ‘convolvolo’ figura come vil- e filucchio, vil- e filuppio (v. Targ.-Tozz. ed altri), di cui le ultime forme attestano, comunque sia esso da dichiarare, un *volupùlu, parallelo a *volucùlu (cfr. Kört. 8812), da aggiungere per la singolarità del suf- fisso alla serie data dal Flechia (v. Arch. IV 381-5). Ora sul pl. viluppj -ppî si rimodellò facilmente il sing. viluppo (cfr. loppo, all. a loppio ‘acer campestre’; opúlus). Ideal- mente, nessun altro etimo quadrerebbe meglio.

Se —a____ 6

G. DE GREGORIO.

ETIMOLOGIE.

1. basso lat. bladum.

Lit. biada (ant. biado), il prov. blat-z, il franc. blé (ant. bled, bleif), coi riflessi vernacoli di queste voci (milan. ven. piem. biava etc.) e i derivati (it. imbiadare, fr. emblaver, prov. bladaria, ant. franc. blaîrie), erano da Diez (Zt. Wört., v. biado) attribuiti ad ablatum; che dal senso di « portato via (dal campo)» avrebbe assunto quello di « biade », « grani ».

Per quanto speciosa tale etimologia, massime dopo che Körting (Lat.-rom. Wörterb. 34) volle appoggiarla all’ant. fr. les ablais, essa non appagò i piu. Il Littré, ad esempio (Dict. de la l. fr.) riconobbe che in ablais (ablaier, abla- ver) si abbia piuttosto una forma derivata che non la forma originaria di blé.

E il Gröber (Vulgärlatein. Substrate rom. Wörter in Arch. f. lat. Lexik. I 251), pur molto concedendo alla base immaginata da Diez, non credette poterle lasciare l’a ini- ziale, non giustificata da nessun riflesso. La base *blatum, che diremmo concessiva, pare ormai invalsa; e tra gli altri A. Horning l’ammette (Zeitschr. f. rom. Philol. XXII 482) quando addita *blatea per l’ant. franc. blaice, e per le altre forme di origine normanna, che le si connettono,

Ma se *blatum ha il vantaggio di mancare della vo- cale iniziale, resta una forma ipotetica, mentre ablatum

448 (7. de Gregorio,

è voce latina. Con essa poi non si vengono ad eliminare le difficoltà di ordine semantico e fonetico, che ci vietano di accettare ablatum, dato che si suppone in *blatum una forma popolare o aferetica di questa.

Infatti il senso originario della voce, che è quello di «portato via», è già troppo generale o vago, perchè si possa connettere con quello di « portato via dal campo». Fra questo poi a quello di «biada» o «granaglie» si frappone altra distanza, più che rispettosa. E, insomma, la connessione non è naturale; non convince.

Dal lato fonetico abbiamo sempre la difficoltà del é, che si suppone sonorizzato, mentre di regola in ita- liano si conserva forte (Diez, Gramm.I 209), e mentre ivi di regola si conservano forti tutte le consonanti (W. Meyer-Lübke, Gramm. d. I. rom. I 383), almeno nell’ ita- liano meridionale e centrale. Infatti, tolto lido, che «non è punto toscano », grado, che tiene ii d di gradire, strada e lado (che va corretto in lato), tutti gli esempi, recati dall’ ultimo autore citato, presentano t e non d: suff. -ito, vite, vita, suff. -ulo, ruta, suff. -ato, suff. -eto, seta, loto, lieto, rota, gota.

Invece, sappiamo bene che d persiste nel toscano (Meyer- Lübke, I 388). Tenendo poi presente la osservazione esat- tissima del Grôber, che «die Formen mit v sind lokal beschränkt daher secundär », saremo subito condotti a bladum; voce esistente nella bassa latinità e di senso molto adequato.

Ma un ultimo particolare ci farà decidere per bladum, che si ritiene di origine celtica, e ci costringerà ad esclu- dere *blatum e ablatum. In nessun vernacolo siciliano esiste voce, che possa attribuirsi a questa base supposta. O come mai il «granaio d'Italia» non avrebbe posseduto una voce, d’impiego così comune, come quella indicante le biade, i grani?

Del resto bladum è voce storica, ed ha anzi una ricca documentazione nella letteratura medievale. Occorre fre-

Etimologre. 449

quentissima ad es. nelle carte notarili degli Svevi ed altrove, anche sotto la forma di blava (cfr. p. es. Hist. patriae monumenta ed. juss. Reg. Car. Alberti T. XXII, Aug. Taurinorum, Bocca, MDCCCXCVIII a p. 145 e passim), ed ha il significato che proprio ci bisogna, Infatti Du Cange la definisce « quodvis triticum, etsi differet a fro- mento, quod blé froment vulgo dicitur, puriori scilicet nec aliis granis mixto tritico ».

Quanto alla filiazione nella famiglia indoeuropea, essa fu, secondo il nostro avviso, ben determinata già dal Grimm (citato da Diez e da Körting), che attribuiva l'origine della voce al celtico blawd farina, a cui non si capisce come Diez affermi che «das roman. wort nicht gemäss ist», mentre sono soltanto le biade che si possano macinare, e che diano la farina. E bene si appose Thurneysen (Keltoro- manisches p. 49) quando, accettando l’idea del Grimm, at- tribuiva il m. cimbr. blawt, moderno blawd, corn. blot, più recente bles, bret. bleut, bleud, blet a una radice blät, che per via delle forme dell’ant. irl. mláth, med. irl. bla'th molle, lituano miltai Pl. farina (Cfr. Brugmann, Grundriss zw. B. I 475), pare connessa colla radice *malt, conte- nente l’idea che è in « mahlen ».

Certo, bladum non è documentato nella classica lati- nità; entra tra le denominazioni dei cereali, comuni al terreno indoeuropeo, come |’ orzo, il grano, il miglio. Tut- tavia si può pensare che la sua radice sia abbastanza pro- fonda. E a questa congettura siamo condotti non soltanto | dalla congruenza fonetica, già rilevata, ma anche dalla identità nel processo evolutivo del significato, offertaci da altre denominazioni simili, e in ispecie da quella del più antico dei cereali conosciuti, il miglio. (Cfr. O. Schrader, Reallexikon der indogermanischen Altertumskunde, erst. Halbb. Strassburg, K. J. Trübner, 1901, p. 291). Il lat. mt- lium infatti (gr. wedtvy, lit. malnos) originariamente im- porta «frutto da macinare» (lat. molere, lit. mdlti) (Schra- der op, cit. p. 374).

55

450 G. de Gregorio,

2. it. gagliardo, fr. gaillard, prov. galhart, sp. port. gallardo.

La supposta radice celtica *gala (Kört. 3562) ha lo stesso inconveniente, che per lit. gala rilevava il Diez (v. gagliardo): avrebbe potuto dare galardo. Così la voce é dichiarata di origine incerta da Hartzfeld-Darmesteter (Diction. général) e da Salvioni (Romania, XXVIII 97), che si limita a ricordare l’abruzz. guajarde e |’ ant. piemont. goagliardo, non senza avvertire che ivi occorra pure la forma con ga-, e che l’abbruzzese può aver subito l’in- fluenza di guaglione.

Se il gua- trasparisse nel riflesso di qualche lingua, si potrebbe pensare a una base cominciante con va-, come ad es. sarebbe valeat, astrazion fatta dalla difficoltà mor- fologica. Cfr. it. guadare, guaina, guastare da vadare, vagina, vastare. Ma anche nei riflessi dialettali, tra cui può mettersi il sic. guagghiardu (e va-), il gua sembra di fase secondaria.

Intanto, che -ardo sia il noto suffisso, che è in testardo, codardo, bigliardo, non è messo in dubbio da alcuno, com- preso W. Meyer-Lübke (Gramm. d. 1. rom. II 606). E che nella sillaba mediana si ‘abbia bisogno di una 4 dopo ! è pure assodato e riconosciuto, perchè il suono mowillé del-

Vit. gli etc. ci conduce subito a ll at voc. !). Allora due voci

ci si presentano: galea e Gallia.

Se si scegliesse la prima potrebbe congetturare, che *galeardo da « portante la celata» o da «atto a portare la celata, l'armatura» sia passato a significare « uomo vi- goroso ».

Ma non si comprenderebbe come galea, senza conti- nuazione nel romanzo, abbia potuto darci un composto; e

1) De GrEGoRIO, «Se l'it, -gli- delle voci dipendenti da basi con CL rifletta questo nesso consonantico», in Studi glottol. ital,, Torino, Loescher, 1899, I, 17.

Etimologie. 451

l’ant. fr. jaille contrasterebbe con gaillard, per quanto si pensi al doppione jalon, galon, e a una possibile infiltra- zione dall’ italiano.

Più probabile sembra Gallia, che ha già continuazione, oltre che nelle voci geografiche ed etniche, anche verosi- milmente in gaglioffo, spiegato da Galli-offa. L'ultimo ele- mento di questo composto spiegherà la differenza del signi- ficato con gagliardo; e si abbia pur presente che in Italia i Galli aveano fama di robusti, tanto che erano preferiti come gladiatori. |

Casi di analoga formazione si hanno, infine, in savotardo nato in Savoia e savoiarda, sic. saviarda, specie di pasta dolce, nizzardo cittadino di Nizza e nizzarda cappello di paglia da donna, senza cupola e di tesa larga.

3. it. tovaglia ant. fr. toaille, fr. touaille, sp. toalla, prov. port. toalha.

Nei nostri Contribuli 1), notando alcune difficoltà, che s'incontrano nell'ammettere la base tedesca additata da Diez, Kôrt. 8455, proponévamo con molto riserbo, tabula (+alia). Quanto però al suffisso, eravamo certi, come siamo tuttavia, che Pit. -aglia (il fr. -aille etc.) voglia dire - alia (Cfr. vestaglia, avvisaglia, anguinaglia etc.).

La parte radicale tova- postula foneticamente un tova o toa, proveniente dalla espunzione di qualche consonante tra 0 e a. Ma di consonanti, che tra vocali passino, nel- l’ant. it. e nel franc., a v, o si elidano, noi abbiamo il g; cfr. Pit. rovo accanto a rogo, il sic. juvu accanto a jugu, il messin. pavari per pagari, il fr. ou da ogu (Meyer-Liibke Gr. des l. rom. I 391). E così pure abbiamo che v inter- vocalico si scambia con g (cfr. it. sevo, sego da sebum); il che mostra la facilità con cui questi suoni possano vi-

1) Contributi alla etimologia e lessicografia romanza con ispeciale considerazione ai vernacoli siciliani, in Studi glottol. ital. I, pp. 159 sgg.

452 G. de Gregorio,

cendevolmente sostituirsi. Quando poi pensiamo che il lat. barbaro tobalia, citato dal Tommaseo-Bellini, possa solo indicare una forma scritta, l’etimo toga non presenterà nessun inconveniente di ordine fonetico.

Ma l’idea contenuta nella voce toga era quella stessa contenuta in tegere, vale a dire l'idea di «coprire». La toga non avea cuciture, nd maniche, e si gettava a di- rittura sulla persona per coprirla. Essa aveva forma oblunga, e colore generalmente bianco; anzi, per i candidati a qual- che carica, bianco candido (da cui candidati). Chi non vede le relazioni sicure con la tovaglia?

4. franc. bléme.

Per questa voce Diez (Lt. Wörterb. II c, bléme) proponeva l’ant. nordico bldmzi, colore turchino, supponendo che l’ant. franc. bleme sia più fedelmente etimologico di blesme, e che l’ant. fr. blemir significhi propriamente percuotere «schlagen (blaue flecken machen)». Questa derivazione veniva accettata da Bugge (Romania III 146), da Aug. Scheler (Anhang II c all’ Et. Wörterb. di Diez, v. bléme) e da Körting (Lat-roman. Wörterb. 1236), che espli- citamente afferma: «das s in altfrz. blesme ist nur gra- phisch. »

Se non che J. Anglade, nella III‘ delle sue Notes lan- guedociennes (Revue des langues romanes T. XLIII, N. 1-2, 1900, pp. 67-68), occupandosi di un fatto fonetico, che a noi qui non interessa discutere, e prendendo di mira l’oc- citanico bleime = fr. bléme, ant. fr. blesme, nega che il s sia soltanto grafico nelle forme dell’ant. fr., che lo scand. bldmi possa dare il fr. bléme (cfr. Mackel, Die german. Elem. in der fr. u. prov. Sprache p. 43), e, insomma, dichiara che «l’étymologie du mot est incertaine ».

Veramente Mackel bene osservò che i verbi blesmar e blesmir, connessi con blesme, presentano un s innanzi m nei più antichi manoscritti.

Etimologie. 453

Nell ant. pr. é vero che non occorre *blesme; ma Ray- nouard (Lexique roman., 2, 226,2) ci appresta vari esempi di blesmar, che a forma riflessa, se blesmar, s'incontra due volte in Flamenca (secondo E. Levy, Suppl. Wörterb. v. blesmar).

Nell’ant. fr. poi, blesme è documentato, a cominciare dal XV secolo (A. Gréban, Mystère de la Passion, 25434, se- condo Godefroy). La forma verbale blesmir si trova nel Roland (La gent de France iert blecée et blesmie, Ch. de Rol. éd. Müller, 590, secondo Godefroy), e blesmer nel senso di «rendre livide» secondo lo stesso Godefr. trova in Rois, p. 289, éd. Ler. de Lincy.

Questi dati mostrano chiaro che l'elemento s è etimolo- gico, e in ciò noi non possiamo che sottoscriverci all’ af- fermazione del Sig. Anglade.

Quanto all’etimologia della voce egli non la indaga, solo contentandosi di osservare che tanto nel francese che nel provenzale si tratta probabilmente di un prestito, contratto nella stessa epoca.

A noi invece riesce agevole di stabilirla unificando bleime con le voci dell’ant. pr. blaime, blaimar, date da Mistral; le quali voci, oggi non più in uso nel dialetto di Lézignan, vengono legittimamente attribuite a blas(phe)mare, ma vengono considerate diverse di blême.

Noi partiamo dal fatto che blas(phe)mare ha dato il fr. blasmer, blämer (da cui blasme, blame) prov. cat. bla- smar, it. biasmare biasimare (Kört. 1245). Sappiamo ora che blasphemare ha pur dato il prov. blaimar, blaime. Non ci resta che annettere in questa stessa famiglia l’ant. fr. blesmer e il prov. blesmar.

Su dI non può farsi questione, perchè questo gruppo, che in it. passa in bi resta intatto nel fr. e nel prov. (cfr. it. bianco col fr. blanc, it. biondo col fr. blond, it. biasimare col fr. blâmer).

L'aferesi della sillaba centrale è un fatto ovvio per queste lingue, che appunto in blas(phe)mare si è riconosciuto.

454 G. de Gregorio,

L'unico dubbio potrebbe cadere sull’atona pretonica. Ma 1 casi di a pretonica, che passi al suono di e, scritto an- che at, non sono infrequenti, Oltre quelli in cui si può credere l’i provenga da c (fr. faisser prov. faissar, fr. laisser prov. laissar, come fait da factum) abbiamo p. es. aiger da *nasiare (Romania XXIX 162), saison da satione- (Kort. 7176), maison, raisin.

E con e, ora muto, abbiamo: cheval, chereu, grenier, grenade, grenée, grenouille da ranuncula.

Insomma, sebbene a pretonica in genere non si alteri, può esser trattata come a tonica, e non soltanto nel lore- nese (Meyer-Lübke op. cit. I § 349). Quanto poi allo scambio grafico di ai con e abbiansi p. es.: fr. braise e brese (it. bragia), ant. fr. vairole e verole, fr. vérole (it. vaiuolo da variola), ant. fr. fere!) e faire, nessance ?) e naissance, ant. fr. alerte e alairlte’).

Ma vi ha un punto di vista, donde il fatto di blesmer allato a blusmer ci si mostrerà in piena luce. È il punto di vista allotropico, che permette di spiegare tante devia- zioni dalle rigide esigenze della fonetica, e non ha bisogno di essere qui lumeggiato, dopo le tante opere sul soggetto. (Es. aimant-amant; évier-aiguère aquarium; chenal-ca- nal; chenille-canicule; chétif-captif; flairer-fleurer; aigu- acul; caison-casson; chever-caver, cremailliére-cramail- lier; guérite-garile etc.).

Questo sia detto rispetto i suoni: rispetto al senso le cose procedono ugualmente liscie; e tra «oltraggiare» e «fare impallidire» si ha un rapporto non soltanto logico ma, diremmo, fisiologico.

La relazione supposta da Diez gli era suggerita dal bi- sogno di coonestare, dal lato semantico, la supposta base

1) Nel ms. Rawlinson poetry 241, pubbl. da P, MEYER (Rom. XXIX, N. 113, p. 13, v. 291).

3) Ibid. p. 9, v. 12.

*) Cfr. De Greaorio in Zeitschr. f. rom. Phil, XXV 113.

Etimologie. 455

blämi, se non anche dal doppio significato della voce te- desca bläuen «dare una tinta azzurra » e figurat. « basto- nare per bene». Ma l’ant. fr. blemir non ha il senso di percuotere («schlagen»), quello di insudiciare (besch- mutzen), e la relazione immaginata da Diez viene contra- detta e disdetta dal significato del fr. bléme, pallido, giallo, e del fr. blémir, impallidire. Come mai l’azzurro si sarebbe cangiato in giallo?

Questo adunque è da noi ammesso con sicurezza, che ant. fr. blesmer (da cui il deverbale blesme, fr. bléme) significhi «oltraggiare». Se l’idea del «pallore» si sia svolta in seno alla stessa forma verbale, o invece in seno al deverbale, costituisce una ricerca secondaria per il nostro assunto. ci può preoccupare il valore riflessivo assunto da blémir, quando abbiamo jauntr, noircir, blanchir.

In conclusione: il passaggio fonetico da blas(phe)mare a blaismer, blesmer (btéme) è legittimo e non lascia dubbi; il passaggio ideologico da «oltraggiare» a «fare impalli- dire» è più che naturale, ed appaga con la luce della evidenza.

Palermo.

E. G. PARODI.

IL TIPO ITALIANO ALIA RE ALEGGIA.

Bianco Bianchi, del quale non saranno per lungo tempo dimenticate le profonde ricerche sulla toponomastica della sua nativa Toscana, chiuse la sua utile e nobile vita di studioso con una memoria!), dove si manifesta più che in qualunque altro suo scritto quel carattere del suo ingegno, che ne fece la forza e un po’ anche, come accade, la de- bolezza; cioè l’istintivo bisogno di ridurre tutto a sistema, fino a giungere, di conseguenza in conseguenza, alle più ardite e più inaspettate conclusioni. Invero, non solo ardita ma audace parve a molti la tesi fondamentale di codesto suo ultimo lavoro, cosicchè non gli mancarono critiche vi- vaci; ed anzi io stesso mi disponevo a discuterne il me- todo e a confutarne minutamente le singole affermazioni, che mi parevano più pericolose, quando ad un tratto il

1) Storia dell’1 mediano, dello 3 e dell’1 seguiti da vocale nella pronunzia italiana; frammento d’ un’ opera intorno ai criterj di- stintivi dei barbarismi, ed alle arbitrarie deturpazioni della lingua italiana; nell’Arch. glottol., XIII, pagg. 141-260. La memoria rimuse incompiuta per la morte del Bianchi, e solo ne fu pubblicato ancora un secondo pezzo, postumo, ib., XIV 301-324. Ma più di questo è da vedere, per le questioni delle quali qui si tocca, l'articolo inti- tolato Anticritica, ib., 121-130, ch'è la risposta del Bianchi alle ob- biezioni mossegli dal Moyer-Lübke, Zeitschr. f. roman. Phil., XIX 131 sgg. Nelle pagine che seguono, scriverò anch'io spesso, per seguire il Bianchi, j in cerbjo alja, ecc.; di solito però mi conten- terò, per questa semivocale, dell’ i.

56

458 E. G. Parodi,

povero Bianchi soccombeva alla malattia, che da qualche anno lo travagliava, e la tristezza della sua morte mutava il gridio della polemica in un generale compianto. Dalle note raccolte quando io pensavo di dover discutere amiche- volmente con un vivo, estraggo ora alcune osservazioni, che mi sembra possano stare da sè; e mi ci risolvo, con- siderando che di esse, per poco che valgano e se qualcosa valgono, spetta al Bianchi una parte del merito, perchè mi furono suggerite dalla lettura del suo lavoro, e dagli esempi che vi sono raccolti e acutamente illustrati.

Il rimpianto glottologo, svolgendo e deducendo fino alle sue più lontane conseguenze una nota teoria dell’Ascoli, cercava di render ragione foneticamente d’una lunga serie di vocaboli italiani, dove un î non etimologico appare tut- tora o ha lasciato sue traccie; e d'una serie non meno lunga di vocaboli dove l’i è bensì etimologico, ma il suo esito non è conforme alle leggi più note dell’evoluzione po- polare. Abbiamo innanzi tutto conjo, dal lat. cúneu: si di- rebbe un mezzo latinismo, messosi ai fianchi del popolare cono. Ma il Bianchi, parendogli inverosimile che certe voci potessero venir mai dimenticate dal popolo, vuol vedere in cono il discendente del solo ablativo lat. cùnj0; e in conjo invece un discendente altrettanto legittimo del nominativo e dell’accusativo, contratti secondo la già ricordata teoria ascoliana: cúnju (nomin. e accus.) fcúni, anzi cóni (per fusione con congiu), donde, con epentesi dell’z, *coini. Qui il dittongo, pur conservando breve l’o, tornò poi a scempiarsi, perdendo la sua semivocale «sotto l’azione dissimilatrice o riassorbente dei casi contrapposti », ossia in primo luogo dell’ablativo originario cono; al quale si deve pure in gran parte se al nuovo coni fu riappiccicato un *-0, conj-o, riconducendolo nell’analogia dei nomi di 2." declinazione. A un dipresso si spiega nel modo medesimo alja ala, dove l’-i non è etimologico: il punto di partenza sarebbe un lat. *ali-s, donde *ali, svoltosi poi su per giù come conjo. Altrove invece l’i si propaggina nella sillaba

Il tipo italiano alidre aléggia. 459

esterna dall’interna, nella quale era sorto sviluppandosi da un i originario, o anche da un ù, o infine da un gruppo di consonanti: nidu-s ni'do nidj-o; prúna pru'na *prunja prugna o arsüra arsu'ra arsurja; cerbu-s (per cer- vu-s) cer'bo cerbjo, e via discorrendo 1).

Lasciando da parte alcuni vocaboli, italiani e romanzi, sui quali aveva attirato l’attenzione già l’Ascoli, e con essi il suffisso ital. -ieri, poi -iere, che non si spiega colle norme più note, un gran numero degli esempi del Bianchi rien-

1) Questo è il nucleo dello studio del Bianchi, ma naturalmente lascio da parte molte cose che non mi riguardano in modo diretto. Sia detto di passaggio, che non pare sia ancora sciolto in modo sodisfacente il piccolo ma duro problema di Us’epjo Eusebio, nome del quale il Bianchi stesso cita le antiche forme Useppo (a. 1278) e Useppi, genitivo (a. 1277). Egli porrebbe come fase originaria U'sepi, sdrucciolo, e vorrebbe normale il p da è, fondandosi su Jacopo e canape. Ma un tal fenomeno, dell’ assordamento d'una consonante sonora nei proparossitoni, se per il -d- è ora comune in alcuni dialetti toscani (dcito, ece.), non so che si possa attestare per altre consonanti, e non è di tutta la Toscana pare abbastanza docu- mentato nei testi antichi, nemmeno di quei tali dialetti. Forse, per cdnape può supporre che sorgasse già nel latino da un nomin. cannap-s, estendendo il p a tutti i casi; e, a giudicare, non tanto da principe senapa upupa, quanto dall’altre consonanti sorde, credo che in italiano non si sarebbe poi alterato. Certo véscovo ha sue ragioni speciali. Riguardo ad Useppo Usepjo, io non dubito che sia stato contaminato con Giuseppe o Giuseppo, dove il doppio p ha la me- desima origine che la doppia di Davidde; e infine Jdcopo, che non ha nessun carattere di popolarità, credo rappresenti nel modo mi- gliore che fosse possibile il latino Jacob. Aggiungo ancora che il n. loe. Cagliari, di cui il Bianchi, 221, fa molto conto, non è po- polare neppur a Cagliari, dove la città si chiama ‘il Castello’ Ca- steddu; e che probabilmente non è se non la pronuncia spagnoliz- zante d'un antica grafia Callari: questa si trova per es. nel pisano Ranieri Sardo, Arch. stor. ital., S. I, VI, P. 22, 88, e altrove. Secondo mi afferma il Dott. Pintor, il nome Cagliari non è comune che a Sassari, e solo dalla fine del sec. XVII, in piena dominazione spa- gnuola. Infine, il castell. prana per prena, Bianchi, 228, non sarà una saccenteria, dove e fu preso per d=a?

460 E. G. Parodi,

trano nella vasta categoria delle voci non popolari; e pro- babilmente il Bianchi stesso sarebbe stato meno proclive a giudicarne in modo diverso, se non avesse trascurato di confrontarli coi vocaboli affini dei dialetti dell’Alta Italia o del francese, È possibile ed anche facile cedere alla ten- tazione di attribuire un'evoluzione normale a molte parole, quando non si esca fuori dalla nostra lingua letteraria, dove l'evoluzione fonetica spesso si riduce all’integra con- servazione dei suoni latini; ma basta un moderato uso del metodo comparativo perchè molte illusioni svaniscano. Il Bianchi spiegava a un dipresso come conjo i vocaboli genjo, rimedjo, e perfino nomi di persona, venuti in uso assai tardi, come Emiljo Miljo, Aureljo Leljo; ma chi potrebbe indursi a battezzare per vocaboli popolari i francesi génie, remede, o i nomi pr. genovesi Milju, Orelja, dove, a tacer d'altro, è conservato intatto perfino il 1? Ma egli era tratto fuori di strada dal concetto che si faceva della po- polarità’ delle parole; e non pensava che il bisogno di farsi intendere e più ancora un istintivo sentimento di amor proprio o vogliam dire di dignità personale, induce, non solo il popolo, ma tutti i parlanti a pronunciare un dato voca- bolo come lo pronunciano coloro che pajono, per quel sin- golo caso, meglio informati e più autorevoli. Ora sarà il medico, che suggerisce i rimedii, ora il prete, che impone i nomi al neonato, ora lo speziale o il droghiere o il me- sticatore, che naturalmente sogliono chiamare le sostanze che vendono col loro nome solenne.

Gli esempi del Bianchi che rimangono, credo possiamo continuare a dichiararli nel modo più semplice e più ov- vio, cioè come ampliamenti suffissali, ora molto antichi e di ragione morfologica (cerbjo, cornjolo, pruna), ora piut- tosto recenti e dovuti a conguagliamenti analogici (arsurja usurja, vocaboli contadineschi, rifatti su ingiurja, ecc.: cfr. gli antichi paralleli -arja -ara, -erja -era, ecc., e insieme qualche caso rimasto, come emisfero -rjo, impero -rjo, vi- tupero -rjo, o infine i lucchesi carbonaro sartoro, Pieri,

Il tipo italiano alidre aléggia. 461

Arch. glott., XII 1161). In alcuni casi è possibile che le alterazioni provengano dal plurale in -i, che è identico pei nomi in -0 e pei nomi in -20.

Ma, pur dopo aver fatte tutte queste distinzioni ed escluso ciò ch'era da escludere, rimangono alcuni esempi, i quali non si adattano a nessuna speciale categoria, e che è me- rito del Bianchi aver riconosciuto come anormali, cioè come privi ancora d’una dichiarazione sodisfacente. Il suffisso di alja ala, di celja, di rinviljo, di nidjo, di smanja, non potrebbe senza difficoltà paragonarsi, rispetto alla categoria morfologica, con quello di cerbjo, di faggio, di prugna ?); e neppur si vede quale attrazione analogica potesse aver presa su codesti vocaboli. D'altra parte, vocaboli tardi non sono, perchè ci vengono incontro fin dai primissimi secoli, e qualcuno è ben circondato di formazioni analoghe nomi- nali e verbali; tanto meno si potrebbero dire d’origine

1) A toglier via tutte le difficoltà ci vorrebbe uno studio compiuto del suff. -io-. Ma nei nomi di animali non mi pare sieno veri pro- blemi Lapja acc. a lapa, velja o avelja acc. a -vela (che sarà la forma primitiva, alterata con l'inserzione di un 7 in averla: l'otimo del Bianchi, 202, 214, è insostenibile); il lucch. scrofja, Pieri Arch., glottol., XII 174, per scrofa. Bisogna però tener conto, per la diffu- sione dell’ -i-, anche di picchio, badalischio, e via discorrendo. Invece l'antico castorio, dotto o semidotto, rientra nelle serie generali -ario: -aro, ecc. Pei nomi di piante è da confrontare il Thomas, Ro- mania, XXV 381, o anche per nomi d'altro genere; solo che in questi ultimi il toscano, e specialmente il fiorentino, è assai più restio alla derivazione che non il francese o il provenzale. Pei vocaboli d'origine moderna, è inutile parlare di carminio che deve l'i a minio; o del lucch. spassio, Pieri, loc. cit. che sorge dalla contaminazione con spazio; ma bilia bile, ib., dovrà qualcosa a bilioso, e il bilia del Bianchi, 194, 210 (che non può certo venire da vitilis) ha tutte lo apparenze d'un vocabolo importato. In tal caso confronteremo il suo -lja con quello di un altro gallicismo omofono, bilia biliardo (anche nel ligure e altrove bilia biliardu), come press’ a poco ha già fatto il D'Ovidio, Arch. glottol., XIII 405. Per l’incerta otimologia si può vedere il Nigra, ib., XV 99 sg.

*) Cfr. ancho Meyer-Lübke, Rom. Gr., II 449.

462 E. G. Parodi,

dotta; eppure in essi, a giudicarne coi criterii più usuali, lo sviluppo fonetico appare mancato. Io credo adunque che bisogni tentare altre vie; credo cioè, per dir subito il mio pensiero, che i sostantivi citati si rifoggiarono sui verbi, alja su aljare, nidjo su nidjare; e che i verbi poi rappre- sentino le forme arizotoniche di *al-idj-0, *nid-idj-ö; cosic- chè la pronuncia antica doveva essere aliare nidiare, con vocale schietta !).

È noto che lo Schuchardt, partendo dalle ricerche del Mussafia sul Presente romanzo, giunse a riconoscere nel suf. it. -eggiare (fre. -oyer, spagn. -ear, port. -ear ed -ejar) il suffisso greco-lat. -IZARE, del quale trovasi nel lat, tardo anche la forma -IDIARE (baptidiare, gargaridiare, ecc.) ?). Questa non è senza dubbio che una delle tante grafie a rovescio, e cioè baptidiat è sorto da baptizat, pel con- fronto di zaconus ozie con diaconus hodie; ma essa rende abbastanza esattamente la pronuncia reale, che forse non fu troppo diversa da quella del nostro g italiano, o po- niamo dg. Più tardi, nelle sillabe protoniche, lo z origina- rio come il DJ originario, lo 3 ed il as si ridusse a poco più d’una semivocale: baptidg'at ma baptiiare; co- sicchè, accanto ad aleggia nideggia, si ebbero, per rego- lare sviluppo fonetico, aliamo nidiamo (cfr. S. Friano, metà, ecc.) *); e dalla serie graduante aleggia aliamo aliare si estrassero infine due tipi distinti, aleggia aleggiare e altare dlia. Siamo dunque nello stesso caso del portoghese,

!) Accennai già a questo mio concetto nel Bullettino d. Soc. dant., HI (1896), p. 100 n.

3) Vedi il Literaturbl. f. germ, u. roman. Phil., 1884, col. 61 sgg.

*) Vedi Canello, Arch. glottol., III 346 n., e poi Moyer-Lübke, Ital. Gr., 142. Tra gli esempi di gj protonico caduto dovrebbe porsi anche il pisano aggreare * appioppare, aflibbiare, detto di per- cosse’, Pieri, Arch. glottol., XII 154, so potesse unirsi insieme con aggreggiare ‘far impeto' o coi vocaboli affini dell'Alta Italia, che si- gnificano affrettare, aizzare', ricordati dal Salvioni, Arch. glottol., XII 385, XIV 204.

Il tipo italiano alidre aléggia. 463

che nel suo doppio suffisso -ear -ejar, che si scambia senza norma determinata, rispecchia l’antica alternazione delle forme arizotoniche e rizotoniche di -IDJ-, -éa cioè, come crede il Meyer-Liibke, ed -ejdr, o piuttosto, come invece cre- derei io, -éja ed -edr *). Del resto, altri verbi graduanti non mancavano all'italiano: manúca manicare, digiuna desi- nare (che si risolvette in due verbi differenti anche di signi- ficato), ajuta aitare o atare, che ha esso stesso un DJ pro- tonico, e dette origine ad ajutare e ad atta dia; anzi si con- fondono in certo modo proprio colla serie che studiamo i riflessi di meridjare, che furono, da una parte meriggia meriggiare, dall'altra meriare méria (insieme col sost. méria ombra, che il Fanfani e il Petrocchi dànno per vivo anche nel fiorentino odierno, in espressioni come andiamo alle merie, stare a prendere le merie) ?). In alcuni dei nostri verbi la forma arizotonica fece dimenticare l’altra del tutto, es. celiare célia, che non ha accanto un *celeggia; e qui pure ci soccorre un buon riscontro in sdrajare, che l’Ascoli fa risalire a *dis-radjare, e che non ha accanto un ri- zotonico *sdraggio; forse anche in abbajare, pel quale bi- sogna pur porre, comunque si spieghi, un *ad-badjare, e in ammajare, sul quale è fatto il sost. majo 3). Ma l’e- sempio migliore, perchè il più affine foneticamente, è de- siare desto, che se anche non si voglia ricondurre a *de- sideriare *desidriare, con caduta dissimilativa del r, deve in ogni modo risalire a una fase anteriore *desi- djare.

Accanto a verbi che terminano in -iare, ne troveremo

1) Non so come si possa dubitare che il tipo postonico sia in portoghese rappresentato da hoje, vejo, seja, enveja, desejo. E ci sa- rebbe da dir qualcosa pur sullo spagnuolo e sul francese.

*) Nel Sermini, Nov. XVII, p. 221 (dell'ediz. Vigo, Livorno 1874), anche meriana, cioè, come si legge poco prima, nella stessa pagina, «dopo desinare, in su l'ora di meriare ».

5) Ma annojare è un po' sospetto, e ad altri parranno forse so- spetti anche abbajare e ammajare majo.

464 E. G. Parodi,

alcuni con -eare; e qui 1'-e- ha bisogno di giustificazione. Certo, da un -iiare antico s'ebbe anche in Toscana anzi- tutto -ezare, *al-ei-dre, ecc.; ma mentre lo sviluppo fonetico esigeva in tutta la provincia, davanti a vocale tonica, l’as- similazione dell’-e- alla semivocale seguente e la loro fu- sione in un’unica vocale -i- (cfr. Frridno con liénda, niente e poi con meità), potè talvolta conservarsi nei nostri verbi il più antico -e- per l’azione attrattiva del rizotonico -e'ggia : per es. potè salvarsi code(i)dre per maggior conformità colla tonica di *codéggia, col quale formava una serie continua, Non è necessario ma non è neppur inutile ag- giungere che nei dialetti meridionali della Toscana, e un po’ anche negli occidentali, la maggior frequenza delle protonico poteva favorir la conservazione di codesti -eare alquanto più che non avvenisse nel fiorentino. Ma non ci è concesso di determinar troppo, perchè manchiamo di compiuti spogli lessicali dei varii dialetti toscani, e abbiam dovuto star contenti alle nostre letture e a quel poco che 1 soliti Vocabolarii ci dànno.

Spero ad ogni modo che anche questo poco basti a sta- bilire la verosimiglianza della mia congettura; e passo senz'altro ad enumerare gli esempi che ho raccolto, co- minciando dai casi che mi pajono più sicuri.

abbrustiare ‘tener alquanto alla fiamma gli uccelli pe- lati, per levar via la peluria che resta”, ‘tostare’. E del- l’uso toscano; ma il Vocabolario ne reca un esempio di Daniello Bartoli, col senso di ‘arrostir leggermente la carne”. Il primitivo brustare si cita con la sola autorità dell’Avventuroso Ciciliano, attribuito a Bosone da Gubbio, p. 62 (dell’ediz. Silvestri, 1833): «brusterà il mondo», ma l’unico codice legge bruscerà; e alla sua antica esi- stenza crederemo piuttosto in grazia del senese brusta brace spenta, brustino tritume della ‘brusta’; cfr. Caix, Studi, 78. Sarà probabilmente un derivato del partic. lat. *bustu-s (combustus, perustus), già divenuto *br- ustu-s per contaminazione col radicale germanico brus-,

Il tipo italiano alidre aléggia. 465

che, come suppose il D’Ovidio, deve aver qualche parte in bruciare, *brus-iare!). Da *brustare si derivarono abbrustolire, abbrusticare; nulla impedisce di credere che ne provenisse anche un *brust-idj-are, che anzi è con- sigliato dal senso frequentativo del nostro abbrustiare. Altro modo di spiegare questo verbo non vedo; poichè sarebbe uno stento supporre che si traesse dallo sconosciuto brustare, rifacendolo su altri verbi in -iare. Esso e angu- stiare sono i soli in -ustiare; poco potrebbe aver fatto ada- stiare, p. 473 sg.; e all’attrazione di rastiare, di cincistiare mistiare fistiare si potrebbe credere solo per un tempo piuttosto recente, dal quale dovrebbe pur esserci perve- nuto qualche esempio della forma non alterata *brustare. Per il prefisso, v. nidiare annidiare, p. 469.

aliare, cfr. aleggiare; sost. alia aliaccia, probabilmente anche aliotto ‘girello della zimarra o altra veste intorno al braccio”. Del sostantivo alia si trova pur qualche esempio in testi veneti, cioè nel Gandolfo persiano *), alia alie 41, 66, 91, e nella versione tosco-veneta del Fiore di Virtu *), aile 1061; ma credo sieno toscanesimi. E in Toscana verbo e sostantivo furono comunissimi, come in parte sono; si potrebbe dimostrarli più senesi, poniamo, che fiorentini; il che sia detto pure per gli altri vocaboli di questo gruppo, © in special modo per aviliare, celiare, guerriare, nidiare. Non credo quindi possa venire in mente ad alcuno di ricor-

1) D'Ovipio, Note etimologiche (talento, sculier, caporale, cucire, Perugia, Tronto); Napoli, 1899 (estr. dagli Atti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli, vol. XXX). Si vedano le pp. 56 sg. dell'estratto. Il tema germanico puro à conservato in brusio Caix, Studi, 229.

*) Libro del Gandolfo persiano delle medesine de falconi, pubblicato da G. FERRARO (Scelta di curiosità, ecc., disp. 105); Bologna, Ro- magnoli, 1877.

*) Fiore di virtù, versione tosco-veneta del Gadd. 111 della Lau- renziana, edita da G. ULRICH; Lipsia, 1890.

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rere per spiegarli a fenomeni speciali di qualche singolo dia- letto. Se, p. es., nel senese appare talvolta guastio (Zeuschr. f. roman. Phil., IX 537), esso ha la sua ragion sufficiente nei numerosi votio, guatio e poi contio accontio scontio (contiare raccontiare scontiare), ontia, e anche bontià, metià, ecc., che ricorrevano nel parlare di Siena; e se questi son tutti o aggettivi o nomi astratti, pur potevano promuovere, coll’aiuto di zanio (e dei comuni tornio, pernio, che hanno accanto torno, perno), e un po’ anche coll’aiuto di scudiere, Visolato scudio mettiamo che sia esatto della Tavola Ritonda Polidori, 5. Ma quanto siamo lontani dalla fissità e dalla resistenza dell’-i- di alia (o di nidio), il quale penetrò perfino nelle forme rizotoniche, dando vita a un alieggiare!

boccheare, boccheone, cfr. boccheggiare. Il primo de- v'essere proprio dei dialetti meridionali della Toscana, perché io l’ho sentito più volte da una lucignanese: Guardi il cane come sbadiglia! (o per fame o per altro). E tanto che bocche'a! E si dice anche delle persone. Inoltre nell’ inedito Vocabolario aretino del Redi si trova che nel contado d’Arezzo andare a boccheone significa ‘andar a zonzo’ ‘andar vagabondo’. Dei due esempi che il Redi trae dalle Stanze di Cecco del Pulito, il secondo «quando i’ vedo a buccheone, Come fa’ 1 chèn c’ ha perduto il pa- drone », mi par lasci sempre intravedere il senso originario.

celiare celia, cfr. Bianchi, 192, 206. All’etimo ch'egli propugna, cel-are, mi sembra che non si possano fare serie obbiezioni; e dalla medesima origine sarà pure cil-ecca, far c. ‘beffare uno, mostrando di volergli dare una cosa, e non dandogliela’. La vocale aperta di celio sarà estratta dalle forme arizotoniche del verbo, secondo il solito rap- porto levo: levare, ecc. In origine adunque si sarà detto *cele‘ggio celiamo, e il suffisso risponde benissimo al si- gnificato.

codiare ‘andar dietro a una persona senza che se n’ac- corga, spiandolo”. Il Tommaseo aggiunge ‘quasi andare alla

Il tipo italiano alidre aléggia. 467

coda’, e l’etimo sarà appunto *cod-idj-are!). Ebbe vita ri- gogliosa, e agli esempi dei Vocabolarii, che vanno dal sec. XIV in poi, se ne potrebbero aggiungere molti altri, dalla Novella del grasso legnajuolo, dalla Catrina, ecc. Assai più importa che si trova anche la forma codeare, in due esempi del pisano Da Buti, il commentatore di Dante: «Di costui discese Fabio Massimo, che indugiando e tenendo a bada Annibale, ricoverò la repubblica de’ Ro- mani, straccandolo 17 anni, e codeandolo sempre qua e per l’Italia ». Qui, come nell’altro esempio (v. il Vocab.), il significato si conserva più vicino all’origine, più gene- rale: ‘andar dietro’, sia pure con intenzione ostile. Il con- fronto di codiare con codeare esclude, se non erro, ogni dubbio intorno al suffisso, del quale d’altra parte non si potrebbe imaginarne uno più conveniente. Si può aggiun- gere che questo verbo, come del resto la maggior parte di quelli che studiamo in questo gruppo, si usò di solito nelle forme arizotoniche, Anche la mancanza d'un sostan- tivo *codia fa di questo esempio uno de’ meglio dimostra- tivi; esiste però codione ?).

gambeare: «e stassi tutto ’1 di su per le banche a gam- beare » Sermini, Nov. XII, p. 177. Certo significa ‘dime- nare oziosamente le gambe”.

querriare, cfr. guerreggiare. E frequentissimo negli an- tichi, anche in prosa, s'intende, e in special modo nella

1) Tra i significati di coda, che meglio spiegano il nostro verbo (stare in coda, ecc.) ricorderò quello di ‘séguito’: « missere Gual- tieri, con coda di venticinque uomeni da cavallo e da trenta fanti », Ranieri Sardo, loc. cit., 140.

*) Il senese codrione, che par da unire col castellano codirone, rappresenta forse un compromesso fra questo e codione. C'era però anche la coppia postione postrione, ove entrambi i componenti hanno apparenza di legittimità. Senonché postrione mi è noto solo perché lo cita di su un codice trivulziano l’editore del Libro di Cato o tre volgarizzamenti del libro di Catone de’ Costumi, ecc. (Milano, 1829); p. 9 in nota.

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frase guerra guerriata ‘guerra di badalucchi’. Si legge ancora nel Machiavelli guerra guerriabile; e infine non è raro il nome pr. Guerriante. Non c'è dunque ragione sufficente per crederlo un’importazione francese. Anche in Bonvesin trovasi un inguerriavi e, nonostante l’in-, po- trebbe giudicarsi come il verbo italiano; tuttavia sarà più prudente non metterlo in conto !). Occorre negli antichi testi anche guerreare, e nulla di più semplice che consi- derarlo come un riflesso del prov. guerrejar guerreyar o del fre. guerreyer guerroyer; ma credo sia necessario distinguere. Nella lirica o nelle traduzioni o nei testi ricchi di gallicismi, esso potrebbe senza dubbio e anzi dovrebbe di solito, per prudenza, considerarsi così; ma per es. il querreante dei Bandi Lucchesi, 4 non debbiano andare stare usare ne la terra de Lerici, in altre parti inimici e guerreante al Comune di Pisa, ecc. »), se si con- fronti col codeare del Da Buti, acquista un’aria di legit- timità, che fa rimanere sospesi. Anche nel Novellino Pan- ciatichiano, edito dal Biagi, si trova guereando, p. 29, ed è un testo che pende verso i dialetti occidentali; ma troppi sono i gallicismi di cui è infiorato, perchè ci fidiamo della sua autorità.

maneare s-maniare, cfr. maneggiare. Del primo, che si trova nei Vocabolarii, ma senza esempi, non so che dire; quanto al secondo, credo che a tutti pajano decisive le os- servazioni del Bianchi, 213, che lo stacca da manta e lo congiunge con mano. Adunque smaniar d'ira, frase che si trova già ne'testi più antichi, significava “agitar le mani’ e, poi, ‘agitarsi in tutta la persona per l’ira’. Che dal movimento delle mani si passi a quello di tutto il corpo, è troppo naturale; ma forse non è inutile ricordare un consimile e anzi più ardito trapasso del veneto manecar,

*) Non parlo delle forme corrispondenti romanesche, guerriare, ecc., che sono normali.

Il tipo italiano alidre aléggia. 469

nel Renard pubblicato dal Putelli, v. 6051): la capra co- mincia «con le corne a maneçar », cioè ad adoprarsi, a di- fendersi. Un nuovo e più lontano punto d’arrivo del nostro smaniare è indicato nell’es. veneto: «una pestelentia in tanto teribel mente smanià, che, ecc. », Arch. glott., II 283. Ad ogni modo, la ‘mano’ è sempre ben presente e mani- festa nelle frasi del vivente uso toscano, ricordate dal Bianchi, e il suffisso -eggiare o -iare è quasi necessaria- mente richiesto dal senso frequentativo del verbo.

nidiare annidiare, nidio nidiata nidiace nidiandolo. Il primo è dato dal Petrocchi come vivo in montagna e nel contado, coll’es.: è il tempo che nidiano, e nidid an- nidid nidio si dicono nel Montale; del resto furono tutti e in parte sono così frequenti, che non abbisognano di di- fese. Sono senza dubbio caduti dall’uso letterario, benchè non dall’uso popolare, il verbo e il suo deverbale imme- diato nidio; ma nessuno direbbe mai o nidata o nidace. Può, a dir vero, far difficoltà il prefisso di annidiare, poichè tra i verbi in -eggiare quasi nessuno è munito di altro prefisso che s-; ma bastano accaneggiare appareg- giare e, benchè così raro e probabilmente individuale, in- saleggiare (acc. a saleggiare), infine rimaneggiare (a tacer di rappareggiare ricosteggiare rifiammeggiare) per to- glier di mezzo l’obbiezione ?). Si badi però, che se anche non trovassimo nei verbi in -eggiare nessun esempio di codesti prefissi, a- în- re-, non avremmo il diritto di esclu- dere ch'essi potessero abbarbicarsi ai verbi in -iare della stessa serie, la cui origine non appariva più manifesta, cosicchè si confondevano con quelli in -iare d'altra pro- venienza, che è quanto dire con quelli in -are. Così an- nidare traeva con annidiare, avvilare avviliare e poi ravviliare rinv., e via discorrendo.

*) Nel Giornale di filologia romanza, II 153 sgg. * Anche in spagnuolo abalear abandolear abastardear abocadear acanonear, ece., enconrear ensenorear.

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roteare ‘volgere e volgersi in giro’, con esempi di tutti i secoli, e, com'è noto, anche di Dante; ora non potreb- b'essere adoperato che con discrezione. Però, passi come quello del Villani « per arroganza si misero a roteare con le schiere loro verso la parte di Castruccio », lo mostre- rebbero penetrato nell’uso comune; e così anche il signi- ficato che prese, di ‘far la ruota colla coda’, com'è in un esempio dell’Esopo adoperato dalla Crusca: « la cornacchia, non sappiendo levare sua coda e roteare, cominciò a can- tare in sua maniera». Raro è invece roteggiare, con cui va un sostantivo roteggio. Il nostro verbo è notevole, per- chè il solo in -eare che abbia avuto qualche fortuna nella letteratura, e inoltre perchè se ne trasse un presente sin- golare rótea, sul modello aliare: dlia e anche straziare: strázia.

scapeare, pers. scapéa (e chiuso?) ‘il crollare stiz- zoso del cavallo, che si ribella alla briglia’; vivo nel se- nese (Fanfani, Petrocchi). Il Petrocchi pure, come se- nese, l’intrans. scapeggiare, con senso più generico ‘scoter il capo, disapprovando’: Che scapeggi? Se vuoi, è così. Mi pare uno degli esempi migliori.

scapponeare far una ramanzina, e scapponéo ramanzina. Si cita il Salvini, scapponéala la rimbrotta, e «Le fa fare... un nobilissimo rampognamento, 0, come volgar- mente noi Fiorentini diciamo, uno scapponeo». Da cap- pone? Se scapponeo fosse un derivato in -6riu, come mi pajono piagnisteo e frignisteo, difficilmente ne sarebbe uscito fuori un verbo; e d'altra parte il tipo non è il me- desimo. Si confronti il seguente.

sguffoneare beffare, burlare, con un esempio del Maga- lotti: « Non lasciò già sua Altezza, quando glielo chiesi, di sguffonearmi ». Da gufo, nonostante il doppio f?

spinteare dar spinte, spingere, con un esempio dei Fio- retti: «chi lo spinteava di qua e chi di là». Benchè sia, a quanto pare, un ara Aeyduevor, si difende assai bene da se, per la sua evidenza. Nel senese dicono tuttora spenteg- giare o spinteggiare.

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vilio a basso prezzo, aviliare ravv. rinv., rinvio. Il primo verbo è frequente negli antichi, nel senso di ‘tener a vile’ e, come riflessivo, di ‘farsi vile, umiliarsi’, ossia, come anche dicevano, avilarsi. Oggi s’usa rinviliare solo per ‘scemare di prezzo’, è rinviliato, o hanno rinviliato il grano; e a Pistoja suona ravviliare. Pei prefissi si veda nidiare. Il deverbale è rinvilio; con esso va l’aggettivo vilto, del quale pure un esempio antico il Nannucci, Teorica dei nomi, 743. Forse in quest'aggettivo resta la testimo- nianza dell’antico *viliare, senza prefisso, sia ch’ esso stia a *viliare come gonfio a gonfiare, o, se una differenza c'è, come porto portato a portare; sia che invece rappresenti il sostantivo deverbale, fatto aggettivo.

I verbi che seguono presentano, o per un verso o per un altro, maggiori difficoltà; parecchi anzi non sono da me ricordati se non per scrupolo di esattezza.

amarre, pers. amaria, in rima. Vedi il seguente.

ammaliare, 3* pers. ammdlia, ma si trova in rima nella Tancia ammalta; fu usato fin dai primi secoli e anche da Dante. Tutti lo traggono da multa; cfr. maliardo, ecc. Si domanda: i nomi col suffisso greco-lat. -ia dànno origine a derivati verbali? La risposta non è delle più semplici. Se ci restringiamo ai vocaboli, che hanno o ebbero diritto di cittadinanza nella nostra lingua e che non possono pro- venire da altra fonte, ed escludiamo anzitutto smaniare, che già abbiamo spiegato diversamente, ci restano: angheria angheriare o angar., avaria avariare, inoltre armoniato Dante Conv. III 8, secondo alcuni codici, fantasia fantasiare, salmodia salmodiare. L’ ultimo non si trova nemmeno in tutti 1 Vocabolarii (non è, per es., nel Fanfani); ma il Pe- trocchi lo registra a ragione, perchè è voce dell’uso, poetico, se vuole, ma non solo poetico. Altri potrebbe anche, o per scherzo o sul serio, foggiarsi un melodiare o un pulinodiare; e il Carducci disse assai bene, non so se per il primo, li- taniare, nell’Ode Alle fonti del Clitumno («Quando una strana compagnia ... procedè lenta, in neri sacchi avvolta,

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litaniando »). Raro è fantasiare, altra creazione individuale, poco meno del precedente; isolato è armoniare. Invece an- gariare e avariare non danno luogo a dubbi, e sono tanto moderni quanto antichi. Senonchè, o si considerino da stessi, O si paragonino sia con le formazioni letterarie, di cui abbiamo detto, sia col neologismo razziare, da razzia, sug- geriscono questa regola: che la lingua estrae di rado verbi dai nomi in -fa, e ad ogni modo solo quando ogni altra maniera di derivazione le sia interdetta, cioè quando man- chi un nome di apparenza più primitiva. Certo, a frugare nelle Rime più antiche, o anche nelle più antiche prose, potremmo raccogliere qualche esempio, che parrebbe far contro alla nostra regola; ma o sono esempi illusorii o sono formazioni individuali. Troviamo buffoniare e accanto ad esso buffonia: io non ardisco certo dare importanza a que- sto verbo e gabellarlo per la forma arizotonica di buffoneg- giare, come forse farei se ce ne fossero esempi più numerosi o più significativi; ma il sostantivo buffonia ha secondo me anche minore autorità. O l’uno o l’altro o tutti e due po- trebbero essere formazioni individuali, arbitrarie, lettera- rie: non ce ne possiamo curare. Lo stesso dicasi di gran- diare (del quale si trova solo la 3* pers. grandia, usata in rima dall’Orlandi), nonostante grandeggiare, e del sost. grandia, nonostante grandioso; lo stesso di pazziare, che forse fu foggiato dal Buonarroti, che lo adopera nella Fiera. Son tutti vocaboli che non potrebbero aver importanza, se non quando fossero confermati e difesi da buoni esempi, e solo in tal caso dovrebbero considerarsi come derivati in -idjare. Ci sarebbe ancora foliare o folliare, negli antichi rimatori, al quale sta accanto folleare: questo sarà di prove- nienza straniera, e il primo può essere un accomodamento alla toscana; cfr. Caix, Origini, 252. Lo stesso su per giù diremo di signoriare segnoreare, e inoltre di goleare go- liare, di vaniare vaneare, che ha accanto un sostant. vanta, usato dal Boccaccio, di amariare, di verdiare: quantunque l'uno o l’altro sieno nei primi secoli abbastanza frequenti,

Il tipo italiano alıdre aléggia. 473

e non ne manchino esempi anche in prosa, resta sempre molto probabile che sieno foggiati su tipi stranieri o, in parte, dell’ Italia meridionale. È di tipo diverso ombriare far ombra, del quale c’è un antico esempio: esso ricorda il noto ombria, usato anche oggi dai contadini, e comune a molti dialetti italiani; con questo va il raro aggett. om- brioso. Già il Flechia, Arch. glottol., VIII 400, pensava per questi vocaboli (e pel piem. umbrius, ecc.) à un agget- tivo *umbr-ivu ombrio (che citano con un esempio, come sostantivo), e grande è la tentazione di derivarne diretta- mente anche l’antico verbo ombriare, sebbene manchino derivati consimili all’italiano (ma cfr. il genov. tardiar, che ricorderò sotto corteare). Nondimeno esso potrebbe benissimo appartenere ai gallicismi o meridionalismi come signoriare, ecc., insieme col suo contemporaneo ombreare, che si trova un pajo di volte nel Fiore.

Concludendo, noi non abbiamo trovato esempi sicuri, che ci diano il diritto di affermare senza esitazione che am- maliare è un derivato di malta. Ma si può chiedere: la connessione di malta con male è così evidente che questo aggettivo dovesse di necessità rappresentare per il popolo quel primitivo, al quale, quando esiste, si rivolge per la derivazione verbale? E siccome non saprei rispondere con piena asseveranza di sì, lascio che ognuno giudichi a modo suo. À me pare molto probabile che ammaliare derivi di- rettamente dal lat. malus, che già gli s'avvicinava pel senso, fin dai tempi classici, nelle espressioni lingua mala, carmen malum; ed equivalga quindi per la forma allo spagn. malear, anzi propriamente all’arc. amalear.

aspriare, una o due volte nella Storia lroiana di Guido Giudice, secondo la Crusca; cfr. aspreggiare. Ma non pos- siamo farne molto più conto che dei verbi come folliare, ecc., enumerati dianzi.

asliare ‘aver astio’, anche rifless.; adastiare ‘affrettare, eccitare, provocare’, ‘aver astio’, anche rifless. Di sostan- tivi c'è, oltre il noto astio, l'antico adastiamento provo-

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cazione, o simile. Il primitivo ad-astare significa ‘affret- tare’, e più di rado ‘eccitare, provocare’; l’avv. ad asto a gara, con sollecitudine, ha nel Vocabolario un esempio di Guittone e uno del Quadriregio. Il verbo adastiare, frequentissimo nei primi secoli, piacque ancora al Bembo ed al Magalotti. Di asta» affrettare, c é qualche esempio anche negli antichi dialetti, cfr. Arch. glottol., VIII 328, e così di adastar, cfr. Seifert, Glossar zu d. Gedichten v. Bonvesin da Riva, 3. Ivi trova pure adasto astio. In Toscana forse adastare e adastiare furono in origine di- stinti pel significato, adoperandosi il primo solo per ‘affret- tare’ e il secondo piuttosto per ‘eccitare’, ecc.; ma fin dai primi testi invadono scambievolmente l’uno il campo del- l'altro, senza forse confondersi del tutto; infine adastare scomparve’ (almeno dalla lingua, mentre il Redi lo ricorda come aretino, col senso: ‘procurare con parole quasi da scherzo di ricercare ciò che qualcuno abbia nell’ animo”); ma adastiare non salvò più a lungo, se non fissandosi nel significato di ‘aver astio’. Che esso risalga a un *ad- ast-idj-are è possibile, e il suffisso ci spiegherebbe assai bene la particolare accezione del suo significato; in tal caso astio avrebbe da esso il suo -i-. Tuttavia non oso spingermi fino ad una recisa affermazione, per varii motivi; tra i quali è che astio poteva esser facilmente attratto da odio e anche da invidia, e dar poi origine esso stesso ad -astiare (ma si urterebbe in difficoltà cronologiche); o che astiare possa dipendere invece da un *astio (ma non credo si trovi, e astivamente è sospetto).

bancheare, un unico esempio: « Per banchear, cioè met- tere i banchi a una galea di banchi 26 di lunghezza », ecc., nella Nautica mediterranea di Bartolomeo Crescenzio, ro- mano. E sarà un romanismo. Cfr. mommeare.

buffoniare beffare, con un esempio antico, buffonia in una prosa antica e nel Quadriregio. C'è accanto buffo- neggiare. Vedi però ammaliare.

campeare campeggiare, con un esempio nelle Croniche

Il tipo tlaliano aliáre aléggia. 475

del lucchese Sercambi, edite dal Bongi !): «Io sempre stimai che ciò facesse per campeare il verno alle spese di Lucha » I 359. Difficilmente dal rarissimo prov. campeiar.

cariare accarezzare, con un esempio della Storia tro). di Guido Giudice. Troppo poco.

corteare cortéo, e ricorteare ricortéo ; cfr. corteggiare. Il verbo ricorleare assunse un significato speciale, che forse non fu ignoto anche al semplice corteare: ‘far cor- teggio ossia séguito alla sposa, la prima volta ch'esce im- palmata’; si vedano i Vocabolarii e inoltre i Bandi Luc- chesi: «le predicte cose non si extendano a fanciulle o fem- mine le quali si menano a marito, o ricorteiasseno » 52; inoltre 124. E corteo nell'odierno aretino vale « accompa- gnatura di una sposa novella, che va a rimettersi in santo dopo il primo parto », Billi, Poesie giocose in dialetto chianajuolo, less. Il nostro verbo entrò dunque ben addentro nell’ uso; e nondimeno sarebbe temerario voler asserire che non sia di provenienza forestiera. Nei dialetti dell’ Alta Italia esisteva cortiar, cfr. Arch. glottol., XII 397; e il Salvioni, incoraggiato dal genov. tardiar (oggi tardija’, che forse risale a tardiu tardivo ?), vorrebbe derivarlo da cortivo, che in veneziano significa ‘corte’ (della casa). Ma, se è singolare un tal sostantivo, come sembra al Meyer- Lübke, Rom. Gr., II 541, anche più singolare riuscirebbe un verbo derivato da esso. E d'altra parte in genovese appare cortiar, ma non cortio. Forse non è che un acco- modamento del verbo francese-provenzale.

Qui, per non andar troppo per le lunghe e non disgiun- gere ciò che può essere unito, ricorderemo gli altri verbi d’origine francese o provenzale, che per la loro forma este- riore sembrerebbero della nostra serie. Affine pel significato

1) Sono i numeri 19-21 delle Fonti per la Storia d’Italia, pubbli- cate dall' Istituto Storico italiano.

9 C'è anche un bellun. intardivar. E per il modo di derivazione, ricorderò il piem. boschiant, che sarà da boschio.

476 E. G. Parodi,

a corteare e non meno cortigiano di esso, è donneare, che pur penetrò anche nei dialetti veneti, assumendo signi- ficati particolari. Ricordo lt deniava si divertivano, Arch. glottol., III 278, e nei Testi pavani, editi dal Lovarini 1) « perchè me dunie-vu la mia fante?» 2, e «dunigiar le tose » 131, cfr. 135; inoltre il Calmo, il bellunese Cavas- sico, che lo adopera tutti i momenti, il Beitrag del Mus- safia, 53, ove ha già il suo posto anche l’od. friul. duned donneare, spassarsi, divertirsi. Ma in tutto ciò non vi sarà proprio nulla d’indigeno? Altri verbi d’origine gallica, o suì tipi gallici accomodati, abbiamo enumerato sotto am- maliare: qui si aggiunge galeare ingannare, gabbare, che ha due esempi di Guittone, e ricopia certo il provenz. ga- liar gualiar; otriare, che ha però accanto un ottoleare, meno sicuramente straniero; sfrondeare. Infine galantiare è un tardo spagnolismo. Si vedano anche bancheare e mommeare.

cuculiare beffare, burlare; cucúlio cuculo, pistoiese, se- condo il Nerucci, Saggio sul vernacolo montalese, 67, ma probabilmente anche fiorentino, e già adoperato dal Pulci, nel Morgante maggiore; a Siena cuculiata, e anche cu- culto il cuculiare; cuculiatura, ricordato come fiorentino dal Salvini. È un problema di difficile soluzione, se il so- stant. cuculio provenga dal verbo, che in tal caso appar- terrebbe alla nostra serie, o se invece non sia avvenuto il contrario. È naturale che le mie preferenze sieno per cu- culiare, che crederei più antico del nome; ma non so ad- durre che una sola ragione, che cioè nel caso opposto difficilmente si sarebbe conservato nel popolo anche il so- stantivo cuculo e perfino cucule. Anche la mancanza di un *cuculare par significhi che cuculiare non è una de- rivazione diretta dal nome, ma una derivazione suffissale.

dilefiare, vocabolo contadinesco. Così nel Cecco da Var-

1) Antichi testi di letteratura pavana, pubblicati da E. LOVARINI; Bologna, 1894 (nella citata ‘Scelta’ Romagnoli, disp. 248).

Il tipo italiano alidre aléggia. 477

lungo, ottava 3: «s’io credessi dilefiar di stento » ; dove il Marrini interpreta ‘scoppiare, morire’, riferendosi a un altro esempio della Tancia, e aggiungo: « È questa una voce tutta propria de’ contadini e della nostra plebe... Adesso... è molto usata dal popolo, e dalle nostre donne particolar- mente, che dicono tutto di: Oh che tu dilefi; che tu possa dilefiare ». Io ricordo questo verbo, ma non c'insisto, e non pretendo davvero di persuader tutti, supponendo che sia uscito dalla fusione di due altri verbi, dile(guare) e un supposto *(ligue)fiare (*ligueféggio). Tanto più che verbi in -fare, così derivati, non se ne trovano.

donneare, vedi s. corteare.

estremiare ‘far dimagrare”, con un solo esempio antico.

folliare e folleare, vedi s. ammaliare. Anche nei dia- letti: foliando nella Maria egiziaca, edita dal Casini, fo- liosa mente nel Tristano veneto. Nostro è folleggiare.

galantiare e anche il sostant. galantéo. Ce ne sono al- cuni esempi, dal Salvini in poi, che cita per confronto lo spagn. galantear. E questo è senza dubbio il suo prototipo. Nella Fiera del Buonarroti si trova galanteggiare.

giorneare ‘perdere la giornata o il tempo in ciarle”. Lo avrei collocato fra i più sicuri, se ne conoscessi qualche esempio; ma i Vocabolarii lo ricordano così, nudo nudo.

invece accolto coll’autorita del Doni il derivato gior- neone: «andava così occhiando, come spensierato gior- neone ». Si può confrontare boccheone p. 466, derivato di boccheare.

goliare goleare, frequente nelle antiche Rime. In Iaco- pone anche un goleggiare; toscano era invece golare. Vedi s. ammaliare.

grandiare, vedi s. ammaliare.

incatriare ‘fare un graticolato, un catro”, vocabolo della montagna pistojese, cfr. Nerucci, Saggio cit., 90, Cincelle da bambini, 77, e per l’etimo Salvioni, Zeitschr. f. roman. Phil., XXII 467. Viene cioè da crates, it. grata (e an- che crala, craticola), con metatesi del r: *-catrare. A

478 E. G. Parodi,

Pistoja dicono incraticchiare e più comunemente incatric- chiare per ‘arruffare e annodare i capelli’; catricola per craticola è nelle Storie pistolesi. Cfr. Caix, Studi, 357, ov’é pur ricordato scatricchiare sbrogliare, e scatricchio pettine rado. Io propendo a vedere nel verbo incatriare il nostro suff. -idj- e solo mi rende alquanto perplesso il dubbio che l’-i- possa esser dovuto a una fusione parziale di -catrare con incatricchiare. Cfr. il seguente.

infilziare, o meglio infizzia, invece di infilzare; appar- tiene al Montale, Nerucci, Saggio cit., 91. È probabile che abbia sentito l'attrazione di altri -ziare, che son piuttosto numerosi in verbi dotti o semidotti: deliziare giustiziare indiziare iniziare offiziare periziare propiziare seviziare, viziare e straviziare; inoltre daziare, graziare e rin- graziare, saziare, spaziare straziare, screziare, oziare negoziare.

interriare, accanto ad interrare; ma il primo si fissò specialmente in certi sensi speciali, che saranno ad esso originarii; cioè ‘riempir di terra nei vani’ o ‘spalmare di terra’ («i casamenti di Domasco quasi tutti sono interriati di fuori », ecc.), onde il sostantivo interriato terrapieno, nel Segni. Anche più caratteristico e più esclusivamente proprio di interriare è il significato ‘interrare i panni colla terra del purgo, quando si vuol cavarne l’unto e sodarli alle gualchiere’; donde, come dicono, venne all’aggett. in- terriato il senso metaforico ‘impallidito e squallido’, per somiglianza colla terra di purgo, che serve al detto lavoro, la quale è bigia e di color di cenere. Così, nel Sacchetti, «diventarono, che parvono interriati », e nel Firenzuola «smorto e interriato, ch’e’ pareva un corpo uscito d’una sepoltura », e nel Bellincioni « Pallide, scure, interriate e smorte Veggio le labbra». Si potrebbe dunque supporre che si distinguessero in origine interrare e *terriare da *terr-idj-are, e solo più tardi si mescolassero variamente insieme, Nondimeno restano molto dubbi, specialmente pen- sando a invelriare ‘dar ai vasi di terra la vernice detta

Il tipo italiano aliáre aléggia. 479

vetrina’, e agli altri riflessi italiani e romanzi di vitreus; e inoltre a inferriare inferriata, ecc., e agli altri riflessi di ferreus (tra i quali anche il sostantivo, Arch. glottol., XII 403, Romania, XXV 384).

mommeare ‘beffare, scherzare buffoneggiando’, secondo un esempio del Caro. Sarà marchigiano?

ombriare ombreare, v. corteare.

ottoleare concedere e simili, è già nel Vocabolario, ma si potrebbero citarne altri esempi da testi di dialetto occi- dentale, ove ricorre anche nella forma otteleare. Benchè sia un pretto gallicismo otriare, nulla c’impedirebbe di credere che *auctor-idj-are avesse pure un suo riflesso indigeno in Italia, e c'incoraggerebbe a riconoscerlo in of- toleare la persistenza dell’-o-. Bisogna pensare che i de- rivati di auctor son di quasi tutta la romanità, e che lo spagnuolo ha, se non altro, otorgar.

pastiare ‘dar da mangiare’, cfr. pasteggiare. Non ne conosco che un solo esempio, dal cod. Laurenz. Gadd. Rel. 180, che contiene un Viaggio d'oltremare: «anno a pa- stiare grandissima quantità d’arabi» f. 21 v. Un altro codice ha pasciere.

pazziare, v. ammaliare.

pindeare è, secondo il Petrocchi, termine pistojese, che significa ‘dar la baja”. Sarà qualche formazione scherzosa di letterati?

rovistiare rovistare, con un unico esempio del Malman- tile. Può essere fatto su cincistiare fistiare mistiare, ecc. Cfr. abbrustiare.

sbafiare sbaffiare, termine contadinesco per sbafare ‘man- giare molto’, intrans. e trans., ch'è a sua volta termine pisano e lucchese. Può essere rifatto su scuffiare, taffiare, che hanno il medesimo significato, e anche sugli altri po- chi in -ffiare. Per la sua etimologia, ba/fa, è da vedere il Mussafia, Beitrag, 31, e, se si vuole, anche 1 Arch. glottol., XIV 17.

scassiare cassare, pistojese. Se ne può far lo stesso giu-

480 E. G. Parodi,

dizio che di infilziare, benchè verbi in -ssiare non ne esi- stano.

scorbiare e sg. ‘fare uno scorbio o sg.” cioè ‘una mac- chia d’inchiostro’; cfr. Bianchi, 204, che giustamente lo trae da corbo. Si noti che non esiste un corbio.

scoteare, «i? no scoteo » nella Canzone di Ruggieri A pu- gliese Umile sono. Cfr. Mussafia, Rassegna bibliogr. d. let- ter. ital., VII 95 sgg. È un meridionalismo.

sfrondeare, una volta in rima in Buonaccorso da Mon- temagno. È tirato sul tipo francese-provenzale. Cfr. cor- teare.

signoriare si trova ne'testi più antichi, in prosa; invece signoreare par soltanto in uso presso i primi rimatori. Cfr. ammaliare.

stimiare stimare. Un solo esempio nel Memoriale del Portoveneri, testo pisano, pubblicato nell’Arch. stor. it., S. I, VI, P. 2º: «non stimiato » 327.

tendiare attendare. Due esempi del solito Guido Giudice, che ci ha già dato aspriare e cariare.

torniare tornire, nel Varchi, e torniatore nel Vasari; tornio (acc. a torno, e così torniajo e tornajo); poi tor- niare circondare, usato anche dal Caro (torniandolo), in- torniare, frequente negli antichi, insieme con intorneare (Villani, Buti, Boccaccio, ecc.); ora attorniare e anche con- torniare. Siccome il gruppo nj resta intatto, non possiamo dire se tornio e torniare sieno molti antichi, e ci è così tolto uno degli elementi principali di giudizio. Certo non è difficile che tornio provenga dal verbo, che tal in caso sa- rebbe la forma arizotonica dell’antico torneggiare tornire. Nelle altre lingue predomina il nostro suffisso, tourno- yer ecc., spagn. tornear tornire. Cfr. anche Bianchi, 203 n.

torriare, con un solo esempio del Salvini, in poesia; forse val qualcosa di più intorriare; cfr. torrione e il n, loc. Torreone nella Chiana, dove il Bianchi vede, non so se giustamente, il suff. -ariu, Arch. glottol., XIII 188 n. Per- suade poco, e cito per un di più lo spagn. torrear, torreon.

Il tipo italiano alidre aléggia. 481

vaniare e vaneare, cfr. ammaliare.

zazzeato. Un unico esempio nel Boccaccio, Novella del Prete da Varlungo e della Belcolore (VIII 2): «Ora av- venne un che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or zazzeato, scontrò, ecc. ». Altri co- dici hanno zazzeando (ma cfr. zacconato poco dopo); e probabilmente non è che un’imitazione e un’erronea, credo, interpretazione del Boccaccio l’esempio, che citano il Tom- maseo e il Fanfani, dalle Prose fiorentine: « E per questo e perciocchè voi sete stato zazzeando, io non v'ho scritto un pezzo fa, che non sapevo di qual clima voi foste»: cioè ‘gironzando’. Io intenderei zazzeato a un dipresso per ‘affannato’. Sembra lo stesso verbo, ma con un suffisso diverso, sazzicare ‘armeggiare, cincistiare’, che il Nerucci, Saggio cit., 262, attribuisce al contado aretino (io lo cono- sco da Lucignano) e fu adoperato dal Guadagnoli, nel Menco da Cadecio: «zazzichê tanto per trovalla » mi diedi tanto da fare. Che questi due vocaboli abbiano qualche relazione con ciacciare acciacciare affaccendarsi, metter bocca in tutto, ciaccione ciaccino ‘che si affaccenda senza scopo’, ecc.? Il Caix traeva questi ultimi da aginarsi, Studi, 135, ma non si vede come !). Io avrei messo zazzeare nel primo gruppo, se ne fosse più sicuro il senso e l’etimologia ?).

1) Altra cosa sarà l'ant. azzicare, che par vivo a Lucignano, al- meno in una forma nazzicare. Nel Sermini, Nov. XVI, p. 206, è un zazara, che par significhi ‘piccola masserizia, carabattola': «Non ci rimane zazara a sgombrare ». Suggerisce anche per zazzeare, ciac- ciare, l’etimo di tdttera, ted. od. Zotte.

*) Tralascio coccodeare sc. il cantare dei polli, o checheare, com'ò nel Serminì, Nov. XVI, p. 206. Inoltre non ho ricordato strabiliare fra i verbi di questo gruppo, perchè non so cosa pensarne, sebbene sia sempre assai debole la mia fede nell'etimo -variare, che ne proposi dubitativamente in Romania, XXVII 212, E ho escluso ar- fiare, forma contadinesca del pistojese arraffiare, che risponde al let- terario arraffare: troppi sono i graffiare graffio, raffio, granfia, ecc., perchè si possa venir in chiaro di nulla. Un infamiato del Cellini è senz'altro da infamia, e si trova anche nell'antico veneto. Più at-

482 E. G. Parodi,

L'enumerazione è finita; non so se parrà riuscita la di- mostrazione. Ma se così fosse, ne verrebbe quasi natural- mente un corollario: il suff. -¢o italiano, di calpestio fol- gorio tramenio e tanti e tanti altri, è sorto dalle forme arizotoniche dei verbi in -idjare, in un tempo in cui con- servavano ancora l’apofonia originaria, ed è quindi fratello germano di -e’ggio (insieme col quale risponde all’-éo spa- gnuolo). E per la forma ci vengono subito in aiuto desto e il maremmano merito meriggio ; questo specialmente, perchè gli sta invece di fronte méria, pers. sing. e sostantivo 1). Si può immaginare adunque che, per es., un folgorio si svolgesse da *folgoriare, in un tempo in cui anche nelle prime persone poteva sentirsi *folgorio *folgoria, almeno come forma secondaria, meno frequente e meno stabile, ac- canto al regolare e comune folgoreggio; e che questa stessa forma in -éggio col suo accento o poco o molto contribuisse a far estrarre un -{o tonico dall’-i- atono di *folgoriamo *fol- goriare *folgoriando. Che aiuti gli venissero fin da prin- cipio anche da -{o = -ivu, non si può facilmente negare asserire; ma non pajono ausiliarii di grande importanza i due o tre sostantivi, non bene corrispondenti pel signifi- cato al nostro suffisso, che si potrebbero ricordare: pen- dio, gemitio (e gemitivo) ‘quel po’ d’acqua che in certe grotte trapela dalla terra’ e ‘il luogo stesso dove questo avviene’; ombrio ‘ombra’ e ‘luogo ombroso’, che appena

trattive avrebbe per me il sostant. mitidio o metidio, che si legge anche nel Bestiario moralizzato, edito dal MAzzATINTI e dal Monaci (Rendic. d. R. Accad. dei Lincei, 1889, fascic. 10 e 12), di dialetto forse aretino-castellano : « (il satiro) a gran metidio se piglia » Son. 13, cioè, pare, ‘(solo) con grande astuzia’ (oppure ‘con grande diffi- coltà"?). L'etimo a cui s'avvicinô il Bianchi, cioè meditari, può tenersi in conto; ma metódus ha per me maggiori diritti (cfr. il lomb. smétiga, Salvioni, Miscellanea nuziale Rossi-Teiss, pp. 414 sg.). Però ci vorrebbe un derivato *metid-idj-are *metidiare, del quale non rimane traccia. 1) In pistojese sméria gran caldo * * stellone* o simile.

Il tipo italiano aliáre aléggia. 483

appena si può dir attestato; forse paratio. Potevano però aver qualche efficacia anche le espressioni a caldio, a ba- cio, a solatto, ecc.

Comprendiamo ora perché il suffisso to abbia la sua vera e propria sede nei verbi della coniug., e perchè così rare e, di solito, così tarde sieno le sue incursioni al di fuori. Si potranno raccogliere nei Vocabolarii dell’uso letterario forse 60 o 70 esempi di derivati in -fo, che dipendono da verbi in -are; e fra neologismi, reali o pretesi, e tosca- nismi si potrà crescere codesta cifra di qualche altra decina; ma di fronte a così grande moltitudine non sapremmo collocare che appena pochi solitarii, come annitrio e ribollio (nella Tancia), da verbi in -ire, o come distendio contadinesco (nella Tancia), scontorcio (nella Fiera), l’antico repetio o repitio, i fiorentini battto scotio fottto, da verbi della 3°; forse alcuni altri. Sembrerebbero derivati direttamente da un nome, /ragorto, rumorio, polverto, diavolio, brusto, brividio; ma il penultimo risale certo a un *brusare, come ho già detto, se non proprio a un *brusiare; su polverio ci sarebbero forse da fare anche riserve d'altro genere, ma ad ogni modo ha accanto impolverare spolverare, come brividio o, per ricordar la forma del contado, brigidio, ha accanto un rabbrividare; infine l’od. diavolio risponde all’indiavolio del Sacchetti, che dipende da indiavolare, il quale sopravvive almeno in indiavolato. Quanto agli al- tri pochi e ci sarebbe da aggiungere, forse più notevole di tutti, socerio ‘il far da suocera, trovando a ridire su ogni cosa” non credo possa far meraviglia, se la rela- zione fra gridio e grido, fra rimescolio e riméscolo (so- stant.), inoltre fra lavorio e lavoro paresse così evidente da indurre a far da rumore anche un rumorio. E non vo- glio, nemmeno sotto l’ombra della congettura, richiamarmi a un possibile *rumorare 0 *rumoriare; sebbene possa dirsi che talvolta derivazioni consimili, anche se non esi- stono, sono in certo modo intravedute e supposte da chi parla, mentre le oltrepassa procedendo più oltre.

484 E. G. Parodi,

Il Meyer-Lübke, Rom. Gr., II § 471, Ital. Gr., 8 529, vorrebbe riconoscere nel nostro suffisso -Zo il riflesso to- scano di quell’ -5rium, che diede un certo numero di astratti con tema verbale alle antiche lingue della Francia e che ebbe anche molta fortuna nei nostri dialetti, specialmente del" Alta Italia. Io non dirò che siamo un po’ lontani per il senso, e che da noi il suff. -5rium, estratto, secondo me, da un certo numero di vocaboli latini, come impropérium vitupérium adultérium (oltre a ministörium desi- dérium) ha conservato di solito un significato peggiorativo, che non è proprio dell’ -fo toscano, essenzialmente diminu- tivo. Sarebbe un trapasso di significato, al quale la stessa Alta Italia potrebbe spianarci la strada. Noterò piuttosto che fra i due suffissi la differenza morfologica è profonda 1);

*) Non à rilevata dal Meyer-Lübke la differenza capitale fra I’ -eri (cere, ecc.) dei nostri dialetti e il tosc. «io, cioò che questo è un derivato verbale, e quello invece nominale. Si osservino i milan. o lomb. bacaneri baccano, bagageri bagagliume, bordeleri quantità di checchessia’, anche emiliano, moscheri e verseri versaccio' ‘smorfia’, che conservano l'antico valore di concreti, temperi ‘acquazzone ' ‘temporale senza grandine' (che potrebb'essere foggiato su intem- péries, intempöriae), il bergam. com. monferr. emil. romagn. aqueri aquere acquazzone, il piem. bruteri, il monferr. bunomere ‘uomo bonario”, i com. braseri brascheri ‘quantita di brace viva”, brojeri ‘rigoglio di foglie d'ortaggi' (con broja tallo fogliuto), fra- scheri fronzeri ‘quantità di frasche o di fronde’, fregieri ‘freddo grande e continuato’, il monferr. rabadere ‘chiasso, disordine’ (estratto probabilmente da rabaddn, genov. ramadán frastuono), ecc.; e si confrontino coi tosc. piagnisteo frignist o e con altri che ricor- derò qui sotto. Che talvolta -eri sia messo in relazione con verbi, può essere e son deviazioni facili a comprendere; ma la sua origine nominale è manifesta anche nel significato. Il suo valore fu dap- principio di collettivo concreto, e quindi, piuttosto che con o, si può paragonare con certa applicazione toscana del suffisso nominale -ajo: il milan. moscheri, per es., risponde a moscajo, il piem. brutert a porcajo, sebbene questo sia più generico (e si ricordino ancora birbonajo, propriamente ‘accolta di birboni', ma ora ‘cosa mal fatta’, concimajo ‘luogo puzzolente” puzzo, decerajo canajo cavallajo cialtronajo cicalajo formicolajo passerajo pettegolajo ‘chiasso, tram-

Il tipo italiano alidre aléggia. 485

e che inoltre non è finora dimostrato, con la desiderabile sicurezza, che il risultato fonetico di -érium sia in To- scana -fo, quasi ultimo punto di arrivo della fase interme- dia -iejo.

Raccogliamo i vocaboli toscani che mostrano un & pas- sato in -i- nello jato. Troveremo anzitutto |’-é- in jato ori- ginario, davanti -0 -a ed -e, cioè i ben chiari mio mia mie, rio ria rie, Dio, cria; ben chiari, dico, da quando diven- nero tali in grazia del D’Ovidio 1). Forse è del medesimo tipo fio, benchè in antichi testi, di dialetto occidentale, si trovi anche feo, e a Siena feio; e infine si aggiunga il se- nese die e dia deve, che si trova anche in qualche testo pistojese. Quanto agli esempi di è in jato non originario, si ridurranno a un dipresso agli esiti della desinenza -ériu

busto, disordine, ecc., come s'avrebbe in un'accolta di beceri, di cani, e via discorrendo'). Solo di rado si tocca -ajo con -t0: attribuiscono a Colle di Valdelsa puzzoho ‘persona che puzza'; è un astratto dive- nuto concreto, cfr. lavorto. Ma non è ignoto alla Toscana lo stesso -drium, anche a tacere di piagnistgo, ecc, Antica voce è putidero, per la quale dicono oggi a Siena puszitero ‘un composto di coso putride e fetenti' (Fanfani) ‘puzzo’, e ad Arezzo, secondo il Redi, puzzidero, usato anche come ingiuria; ma sarà fatto su cimitero, che in qualche parte assume un significato consimile. Nel Redi è inoltre brigidero ‘freddo grande’, e frequente appare nel vecchio senese lavoriero, sebbene col significato generico di ‘lavoro’ (che ha ed ebbe pure nell’Alta Italia). Notevole che questi vocaboli, como spesso quelli derivati con -6rium, hanno apparenza dotta o semi- dotta: non sarà però da dimenticare il tipo fiera feria; e insomma son necessarie altre ricerche, anche fonologiche. Quanto a lavoriero, mi si conceda di dire che, secondo me, deve risalire a un *labo- rérium, foggiato di buon'ora su ministèrium (oltrecché su mo- nistörium, ecc.), e ch'esso ebte gran parte nelle sorti del suffisso,

quale gli deve in parte il suo significato collettivo; mentre vi- upérium e altri (in cremasco e altrove, ghe n'è ‘n vetupere ce n’ è un buscherio) tendevano ad offuscare le sue buone qualità e a farne un peggiorativo.

1) Vedi Arch. glottol., IX 36 sg., 48 sgg., e, per le forme plurali diei, riei, la Romania, XVIII 594 n.

486 E. G. Parodi,

-éria: il tosc. centr. gumea, aret. (6 umbro) gomeja gomea (gomea già nel trecento) voméria, Arch. glottol., II 347 sg. (cfr. 448), XIV 239, civea da *civöria, comunque si spie- ghi, e forse cibreo, ib., II 306 (cfr. Caix, Studi, 273), poi scaleo, e meglio ancora il senese papejo, ora papeo, *pa- périu, nel senso di ‘lucignolo’. Nel" Avventuroso Cici- liano, che pur è testo fiorentino (cod. del sec. XV), trovasi papeo proprio per ‘carta’, p. 240. Lascio da parte altri vo- caboli più incerti, p. es. bambinea ricordato dal Canello, Arch. glottol., III 304 (a tacere dell’incertissimo gron- dea del Boccaccio, ib. 307). Un è, che in origine non gli spettava, prese probabilmente statéra, rifoggiatosi in *statéria, a quanto parrebbe, giudicando dal veneto stadiera, staliera ecc., Mussafia, Beitrag, 110, e dall’ an- tico genov. staera; e l’è è sicuro pel più antico pistojese, rappresentato dalla traduzione di Albertano, che ha sta- tieia, 4: più tardi, in un Inventario dello spedale di S. Ja- copo di Pistoja, del 1362, troviamo invece statea, come nel senese e nel lucchese. E la breve attribuiremo senza troppi scrupoli anche a capistejo capisteo, a cristeo, a Ba- tisteo. Infine mi pare che devano esser collocati qui pia- gnisteo frignisteo. La norma fonetica che da tali esempi possiamo ricavare à questa: un antico -fej- si scempia, in tempo relativamente tardo (determinato a un dipresso dalla traduzione dell’ Albertano), e si riduce ad -gj- o ad un sem- plice -e-. Si può per confronto ricordare lo scempiamento dell’-ie- nel fiorent. lei (senese liei), sebbene le sue condi- zioni pajano così diverse. Forse è per esso da tener conto della semi-atonia, alla quale può scendere nel mezzo del periodo; ma poichè, in fondo, e lei e più ancora costei e colei son pronomi enfatici, sarà pur da pensare, per ren- dersi ragione della perdita del dittongo, ai casi in cui essi risultavano davanti a vocale. Le condizioni erano allora identiche a quelle che abhiamo considerato: costiej-avrà, come slalieja. Qualcosa di simile è da dire per sies ds e sex, dei *débes, senese diei.

Il tipo italiano alidre aleggia. 487

Tra i vocaboli enumerati, l’uno o l’altro potrà parere sospetto, perchè forestiero o semidotto; ma sarebbe vera- mente singolare, se tutti, dopo essere entrati nella corrente popolare, si fossero a un tratto fermati a mezza strada. credo che mi si voglia opporre papfo, che un vocabo- larietto senese manoscritto del secolo scorso pone accanto a papéo, mentre ora in città non pare che si conosca e nell’antico senese si trova solo pape(j)o. Si attribuisce papio a Montepulciano e so che è di Lucignano, e può essere che appartenga anche ad altre varietà dialettali e che in queste abbia ragioni fonologiche; nel qual caso si unirebbe col chianajuolo Salutio S. Eleuterio, n. loc., ricordato dal Bianchi, Arch. glottol., IX 397 n. Ma fonologici o analo- gici che sieno, non possono aver importanza di fronte a papeo e agli altri esempi di -e0, non possono cioè essere buoni testimoni di una norma generale toscana. Se si deve credere al Petrocchi, se cioè fosse vero, com'egli afferma, che del senese è anche papiro, codesto papio non sarebbe forse altro che il legittimo risultato di *papiriu, come l’aret. pio e il comune piuolo sono i fedeli riflessi d'un *piriu. Ma, ripeto, è possibile che nella Toscana più me- ridionale -e(7)o, passando, come fa, per -e(j)o, diventi -20; del che sembrano buoni indizi anche 1 cortonesi cappellio e calzolio (Zuccagni-Orlandini; cfr. Pieri, Note sul dialetto aretino, 25), sorti da cappelle(j)o calzole(j)o.

Non resterebbe dunque, per chi usi della necessaria pru- denza, che il fiorent. macia macéria; il quale da solo do- vrebbe dimostrare che lo sviluppo normale di -èrju fu in Toscana -io. E certo è esempio importante, benchè paja ci fosse in ant. lucchese maceja; e forse non tutti si per- suaderebbero che il suo -eja, come suppose il D’Ovidio, sia stato sostituito con un -ta d'altra provenienza, benchè tale supposizione non abbia nulla di temerario. Io voglio am- mettere che macia rappresenti l’esito normale di macéria, (per via di macieia, ch’é in una carta mugellana del 1084); ma paragonandolo con gomea e civea e cogli altri, mi

488 E. G. Parodi, Il tipo italiano alare, ecc.

persuado che la miglior conservazione e anzi la prepon- deränza, che in esso appare, dell’elemento f del dittongo, sia dovuta alla palatale precedente, che lo difendeva da ogni intacco assimilativo e gli dava anzi la forza necessar'ia per imporre la sua coloritura anche alla vocale contigua. Così macia è regolare ma non è meno regolare cive'a; e il suffisso -{o dev'essere tenuto in disparte e avere una sua propria dichiarazione, sia quella che io ho tentato di far valere o sia un’altra, che l'avvenire tiene ancora nascosta nel suo grembo !).

4) Non ci riguarda direttamente la storia dell’ è’ in jato; ma pos- siamo ammettere per esso che, almeno davanti ad a, soglia mutarsi in -i-. Gli esempi sono tutti di nomi di luogo, Pulta Fontia, Bianchi, Arch. glottol., IX 397 n., cfr. Pieri ib., XII 171. Anche in genovese la distinzione è ben netta fra le varie serie: è’ in iato originario si conserva, ma scade ad î in iato non originario con a (pria pietra, garia), confondendosi coll’ 6’ (Andria). Non è il fenomeno italiano e non ha motivi identici; ma può giovare non dimenticarsene. Chiu- derò accennando che non mi persuadono affatto i pretesi esempi toscani di -aja in -ta, abetia, Fostia, ecc., Arch. glottol., IX 397 n., Caldia (=Caldiva?), ece., ib., Suppl., V 234. Altra cosa sono gli esempi cortonesi citati, cappelho calsoho.

E. GORRA.

l’ALBA BILINGUE

del codice vaticano Regina 1462.

Troppo facile impresa è il presagire che il lettore, alla vista del titolo che sta in fronte a queste molte pagine, due cose penserà mestamente: che io sarò per rifiutare tutte le interpretazioni che sinora furono date del ritornello dell'ormai famosa «alba bilingue» vaticana; e che più o meno peritosamente ne metterò innanzi (ahi!) una nuova, la quale troverà tosto, se anche non sarà in tutto « di- spettosa e torta», chi la «saetti di tutta sua forza», e la seppellisca in sul nascere. Nessuno però vorrà, io spero, aspettarsi che la nuova interpretazione abbia punto per punto a scostarsi da tutte le altre. Essa vorrebbe tuttavia aprire, se fosse possibile, un nuovo campo all’ indagine, poichè quello sinora percorso è stato avaro di frutti.

E affinchè più spedita abbia a procedere la mia tratta- zione, dirò subito i principi fondamentali sui quali intendo che sia basata. (a) Il ritornello è giunto a noi quanto mai alterato e guasto da copisti inesperti o saccenti; epperciò, sotto una rattoppata veste d’accatto, esso (b) cela un testo dialettale e popolare, e quindi facile e piano; (c) il quale spetta a noi di scoprire col soccorso della comparazione più ampia degli altri componimenti congeneri, vuoi romanzi e non romanzi, a noi pervenuti.

« Alterato e guasto è giunto a noi il testo del ritor- nello » come prova il fatto che esso è inintelligibile. Non curò di comprenderlo il copista che lo ha a noi tra-

60

490 E. Gorra, mandato, se ne curarono altri che precedettero senza dub- bio il nostro. Infida e oscillante è la divisione delle parole, e di esse non sempre esatta e uniforme la trascrizione; incerta è la ripartizione dei versi e malsicura la interpunzione. Nessuno può di ciò dubitare !). Eppure quale senso di pro- fondo rispetto dinanzi a tanti spropositi! Quasi direi, di sacro terrore, come se il testo fosse stato tal quale con- segnato a un fortunato mortale da un Geova fra i nembi del Sinai! Comprendo il rispetto pei manoscritti; ma quando noi ci troviamo dinanzi una lezione unica ed errata, perchè dovremo chiamare sacrilega quella mano che, col soccorso di documenti autentici, tenta di scoprire l’intelligibile di sotto all’inintelligibile? ?).

«Il nostro ritornello cela un testo dialettale e popolare, e quindi facile e piano ». Mi oppongo perciò recisamente all'opinione, ad esempio, del Rajna, e suppongo per l’ap- punto l’esistenza di «un originale romanzo » donde il ri- tornello fu preso «testualmente » 5). Ai copisti attribuisco la forma «goffa e artificiosa» che il ritornello è venuto a

1) Della grafia del codice e del copista hanno discorso bene il LaisT- NER p. 415, il Ragna, pp. 68 n; 77-78; 84; e G. ScHLÄGER, Studien "ber das Tagelied. Lin Beitrag sur Litteraturgeschichte des Mittelal- ters. Jona, 1895; p. 71 n.

2) Mi varrò di un'ipotesi. Un copista di un'opera «latina», il De Vulgari Eloquentia, giunto di fronte a un verso provenzale di Ar- naldo Daniello lo ha conciato in tal guisa (II, 2, 6): Laura amara fal hruol brancum danur. Supponiamo che nessun manoscritto ci avesse conservato altra lezione. Quali ire non avrebbe suscitato colui che con sole congetture avesso proposto di leggere, come in realtà si deve: L’aura amara fals bruoills brancutz clarzir? Frattanto io noto cho qui il gruppo iniziale cl di clarsir venne fuso in una lettera sola: «!.

*) Non dirci però col LAISTNER (p. 420) che «der Refrain ist si- cherlich eine Entstehung aus dem Volksmunde »; mi accordo col Monaci (Sull’alba bilingue ecc., p. 479) nella divisione ch'ogli fa del motivo e della glossa. Il concetto fondamentale di un componimento del genere del nostro suol trovarsi più completo, come vedremo, nella « glossa » o testo, che non nel «motivo » o ritornello.

L’ Alba bilingue. 491

poco a poco assumendo. Ignari del volgare in cui esso era scritto, incapaci di comprenderne il senso, essi foggiarono parole, come bene ha osservato il Laistner, di cui ciascuna avesse per un significato, o ricordasse nel suono qualche voce o romanza o latina che già loro era nota’).

«Alla comparazione dei componimenti congeneri » sarà da ricorrere se si vuole dare un'interpretazione che non abbia ad essere fantastico frutto del nostro cervello. Poichè i testi a noi pervenuti indubbiamente contengono « motivi » e frasi tradizionali, di cui alcuni sono antichi, altri anti- chissimi. Di siffatta comparazione, che fu sinora trascurata del tutto, io mi varrò nel modo più ampio, e spero, non senza qualche vantaggio. A tal uopo chiamerò a raccolta oltre alle «albe» romanze anche le « albe » tedesche, che sono assai numerose, senza preoccuparmi della questione se l’antica poesia lirica tedesca sia più o meno originale, se più o meno risenta |’ influsso della lirica neolatina. Poi- chè, o noi abbiamo dinanzi una produzione poetica spon- tanea e genuina e in tal caso essa ci offre pel genere poc- tico nostro esemplari di grande valore; ovvero abbiamo a fare con testi che derivano da modelli romanzi, e in tal caso essi possono rappresentarci originali andati perduti ?). Ed ora, dopo queste premesse, accingiamoci all’esame (che deve di necessità riuscire alquanto minuto, e di ciò chiedo venia al lettore) del ritornello in questione, e ad un tempo dell'intero componimento a cui esso appartiene 5),

-— —-—r—+—+——FF——.+.--—-+-P_P————————==—uuanìzzz; ;— .- nee ——— ne _———

!) Taccio dei componimenti bilingui o trilingui che il medio evo ci ha tramandato, e osservo soltanto che in nessuno di essi l’autore si 6 proposto di far cosa incomprensibile a tutti.

3) Certo è da usare cautela, e non é da dare a un solo riscontro quell’importanza che hanno molti raffronti; anche qui la « maggio- ranza » avrà ragione sulla « minoranza ».

®) Ecco l'elenco dei testi che mi serviranno nell'indagine. Mi at- tengo quasi sempre all'ordine soguito dallo ScHLAGER, non trascu- rando, per comodità del lettore, neppure quei testi che pur non es- sendo propriamente «albo », possono diffondere qualche lume sulla

492 KE. Gorra,

L'alba par [part]. La nostra attenzione è subito richiamata da quell’articolo con cui il ritornello ha prin- cipio; e non già perchè la sua presenza offra qualche cosa di strano, ma appunto perchè, come fu osservato più volte, esso è il solo articolo determinato che qui compaia dinanzi a un sostantivo. Tutti gli altri nomi (mar, sol, te- nebras e, per alcuni, anche part e poy) ne sono privi, sebbene non tutti mostrino la forma latina. Perciò parve al Rajna che non possa «trovar scusa un numero così cospicuo di deviazioni dall’uso romanzo, fossero pur legit- time tutte prese ad una ad una, quando vengano ad accu- mularsi in due soli versi, che non si direbbero scritti in

—— —— e mama

discussione. Nelle citazioni posteriori mi varrò del numero progres- sivo che ora premetto ai singoli testi. Albe provenzali profane: 1. En un vergier sots folha d’albespi; 2. Quan lo rossinhols escria; 3. Us cavaliers si iazia; 4. Reis glorios, verais lums e clartatz; 5. Ab la gensor que sia; 6. Dieus, aidatz; 7. S’anc fui bela ni prezada; 8. Drutç, qui vol dreitament amar; [9. l'alba attribuita a Serveri de Gerona, finora inaccessibile]; 10. Per grazir la bona estrena; 11. Ab plazen Pessamen; [12. Serena di Guiraut Riquier]. Albe pro- venzali religiose: 13, Vers Dieus, el vostre nom e de suncta Ma- ria; 1l. Ar levatz sus, francha corteza gens; 15. Esperansa de tots ferms esperans; 16. Lo pair’ e ’L filh e?l sant espirital; 17. Qui vuelha ses plazer. Albe francesi: 18. Cant vei l’aube dou jour venir; 19. Entre moi et mon ami; 20. Un petit avant le jor; 21. Gaite de la tor. Per altri brevi testi francesi rimando alla Memoria dello ScHLAGER (pp. 61-70). Per le « albe » tedesche mi sono specialmente valso, oltre che dello studio del Bartscu, Die romanischen und deut- schen Tagelieder (in Gesammelte Vorträge und Aufsätze, Freiburg 1883, p. 250 e segg.), dell'importante lavoro di WALTER DE GRUYTER, Das deutsche Tagelied, Leipzig, 1887, che trova il suo complemento nel resoconto di R. M. MEYER (in Zeitschrift fur deutsches Alter- thum, vol. XXIX, p. 232 sgg.), e che non del tutto serenamente fu giudicato da H. Giske (in Zeit. fur deutsche Philologie, vol. XXI, p. 242 e sgg.). Taccio delle « albate » di altro regioni, perchè o meno sicure, o meno confacenti allo scopo immediato del mio lavoro.

L’Alba bilingue. 493

volgare, bensì nella più smaccata lingua fidenziana». E il Rajna si propose di rimediare in parte a queste omissioni, le quali ridusse di quattro a due, che sono, egli dice, « ben giustificabili ».

Orbene, io sono d’avviso che il critico insigne si era qui messo sulla via buona. Ma egli, invece di percorrerla sino alla fine, ha deviato dopo breve cammino, tratto dalla persuasione che noi abbiamo dinanzi non un ritornello vol- gare, ma l’opera «goffa e artificiosa» di un «poeta eru- dito». Ma che nel testo si debbano ricercare «tutti» gli articoli 10 sono fermamente persuaso, anche dopo la pub- blicazione di più recenti lavori intorno alla sintassi del- l’articolo nelle lingue romanze !); anche dopo che dell’uso di part (voce del nostro testo) in funzione di preposizione sarà raccolta maggior copia di esempi che, per quanto lo sappia, non si sia fatto sinora ?). Prima di acquetarmi

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1) Vedi ad esempio A. ToBLER, Auffälliges Wegbleiben des bestimm- ten Artikels (in Vermischte Beiträge sur französischen Grammatik, „weite Reihe, Leipzig, 1894, p. 96 e segg.); W. MEYER-LUBKE, Gramm. der rom. Spr., III, SS 38, 126, 143 ecc. I grammatici hanno potuto documentare l’omissione dell'articolo determinato dinanzi a voci quasi d'ogni maniera: lanche, cheval, chevaus; asseles, espaules, face, bouche, char, pies, langue; geldons, cheminz; feme, rois, signe de la crois, feste, heure; chien, panter, cignes; terre; orgues, envie, convoi- tise; sol, Deus, diable, ecc., ecc. (Cfr. anche Diez; Gram. rom. Spr. 0.8 ediz. Bonn, 1882, III, p. 779 e segg. e Romania, 1899, 294-96).

2) È noto come part non solo non esige l’articolo o la preposi- zione dinanzi a se, ma può anche rifiutare e l’uno e l’altra dopo di se. Taccio di part davanti a nomi di luogo: PEIRE VIDAL (BARTSCH, Chrest. prov. 111, 26), Raimox Vipat (ibid. 217, 26), GUILHEM DE PEITIEU (APPEL, Prov. Chrest. n.° 59, v. 16; e n.° 60, v. 13), BER- TRAN DE BORN (Ediz. SrimmixG”, I, 13; XVII, 44; XXI, 50), GUILHEM MoxtanHagor, (ed. CouLet, III, 19) occ. Dinanzi a nome comune, nel senso di «al di sopra di» ma seguito dall'articolo trovo part in GuIRAUT DE SALINHAC (part totas las domnas, BARTSCH, Op. cit. 216, 16), in PEIRE GuILLEM (tro part l’anca ibid. 269, 20), nella Flamenca (ibid. 269, 20), in G. MontTANHAGOL, III, 12; VIII, 35; IX, 10), in BER- TRAN DE Born (XXI, 42). E sanz'articolo, prima e dopo, lo vedo ad

494 E. Gorra,

a risultati che trovano un conforto, per quanto valido, sol- tanto nella grammatica, mi par doveroso di studiare col soccorso dei testi, al nostro affini per natura e argomento, gli elementi onde esso potrebbe ragionevolmente constare. E questi testi mi sembrano mettere fuor d’ogni dubbio che la frase l’alba par(t) dove significare non «l'alba di la da», sibbene «l’alba appare» !). L’uso costante delle «albe» e delle descrizioni che dell’apparire del mattino ci ha con- servato la poesia narrativa c'insegna che il fenomeno è sempre espresso da un «sostantivo » (alba, giorno) accom- pagnato da un «verbo », il quale suol essere, nel proven- zale, o venir, 0 ser, e naisser, 0 vezer, 0 parer?) Ecco gli esempi che ci danno le «albe»: 1. oi deus, de "alba! tani tost ve!; 3. el jorns ve; ieu vei lo torn venir; 7. quieu vei venir l'alba Et crit quan vei l'alba; 13. la nuech vai el jorns ve; E l'alba... ven bel'e complia; 15. el iorns ven apres l'alba; 18. Cant voi l'aube dou jour venir; SCHLAEGER, 61: ainz que

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esempio in G. MONTANHAGOL (de part onor III, 19; part pretz VIII, 20, oltrechè: part sa valenza XIII, 29); ecc. Un esempio che farebbe assai al caso nostro, perchè part vi regge mar accompagnato da un aggettivo, l'offre BERTRAN DE Born, ma (aihme!) qui fa capolino l'ar- ticolo (tro lai part la mar salada XI, 37). Tuttavia questo esempio non guasta quanto a tutta prima parrebbe. La frase part umet mar nel senso di «di dall’umido mare» rimane sotto il rispetto grammaticale prettamente volgare, c provenzale per giunta. Credo inutile toccare dell'etimologia di part, per la quale rimando al Diez, E. W. II, 397, e al SucHIER, ap. SCHMIDT, p. 336. Piuttosto avverto che non cito per disteso so non quelle pubblicazioni che per ra- gione di data o di altra natura non trovano menzione nei lavori del Rasna (Studi di filol. rom. II, p. 67 e segg.), o del Monaci (Ren- dic. dell’Accad. dei Lincei, Classe Scienze Mor. Stor. e fil., vol. I, p. 475 e sgg.; p. 785 e segg.).

1) E perciò mi accordo qui risolutamente col Meyer (Romania XVI, 606), e col Paris (ib. XXII, 627).

1) Insisto su questo punto anche perchè vedo che il SuCHIER nella sua recente Geschichte der fransösischen Litteratur (scritta in colla- borazione col BircH-HrrscHFELD), Leipzig u. Wien, 1900, pag. 14-15, continua a intendere part per «jenseits».

L'Alba bilingue. 495

jorns soil venuz; p. 66. venuz est li jors de paix; 4. ades sera Valba; 14. qwapropchatz s’es lo jorns clars; SCHLAEGER, 68: Est-il jour?; 5. lo jorns clars E bels c'ades nais; 2. quieu vey Valba el jorn clar; 5. l'alba par; E l'alba el jorns par; 17. l'alba... que fai lo torn parer; SCHLAEGER, 62: l'abe capeirt au jor. Il verbo parer (pareir) occorre con singolare fre- quenza nella poesia narrativa, e qui l’epica francese darà naturalmente ampia messe: Al matin par son Valbe quant li jorz lor apert (Voy. Charlem. 239, 248); Devant l’aube aparant ains qu'il fust aiorne (Berle 409); clere parut l'aube (Amis et Am. 2169); Quant il vit l'aube aparoir (Partenop. de BI. 663); E quant venc Vendema que'l gaita de la tor Escridet autamentz que paria Valbor (ANE- LIER, Guerre de Navarre 1445); Au matinet quant clers parut li jors (Amis et Am. 858); Faut ke li jors cler aparut (Perceval 1828); Quant li jors pert al matinet (Partenop. de BI. 7389) !). Confermano questi esempi quelli che ci sono forniti dalle « albe » tedesche: der Tag geht auf; er dringlauf; er kommt; er naht; er schrei- tet zu; er bricht auf; der Morgen kommt; er geht auf; das Morgenroth dringt durch den Hag; es tagt; es ist Tag; der Tag bricht an; der Tag scheint; der Morgen scheint; der Tag scheint dem Mädchen an die Wangen, ecc.?). E giova anche notare che alcuni antichi poeti tedeschi considerano l’apparire del primo albore come fenomeno indipendente dal nascere del sole; il giorno e il sole, di conseguenza, come due diverse

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1) Meno frequento è l'uso di altri verbi; più spesso forso occorre esclairir (Roland 667, 2845; Aiol 10856, Erec 1420), Cfr. per questi osempi Max KUTTNER, Dus Naturgefuhl der Allfransosen und sein Einfluss auf ihre Diehtuny, Berlin, 1889, p. 30 e segg. Numerosi esempi provenzali trovo nella Chanson de la Croisade contre les Albigeois, ai vv. 5212-14; 5286; 5828; ecc.

2) Cfr. DE GRUYTER, op. cit. pp. 98 e segg.; 57 o segg.; 101 e segg.

496 E. Gorra,

fonti di luce !). Perciò sembra si debba legittimamente concludere che la locuzione Valba par(t) significa « l’alba appare» e non altro. Resta però ancora il quesito: si deve leggere par o part? La seconda grafia prova a’ miei occhi soltanto che un é dupo par esisteva indubbiamente nel testo originario. Che poi questo ¢ debba unirsi con quello che segue, sembra a me, come dirò, potersi a buon diritto con- getturare.

* + +

tumet mar. Che significa ciò? Non altro si dirà che: «il mare si gonfia ». Ma già il Rajna ha mosso valide obbiezioni a questa interpretazione ?), ed io aggiungo che può sembrare per lo meno strano che un « poeta erudito » abbia ad una forma verbale prettamente latina dato per soggetto un sostantivo romanzo. Che poi costui possa aver scritto realmente mare e non mar è reso inverosimile dalla intenzione che dal ritornello appare manifesta di far rimare fra loro par mur clar, tre voci prettamente ro- manze. Credo dunque che il tumet altro non sia se non il travestimento di forme alla loro volta schiettamente volgari. Cerchiamole. Il manoscritto reca non precisamente tumel mar, sibbene part (taccio di par) um et mar dove però Vet é rappresentato con la solita sigla. Nui dovremo dunque leg- gere: part um et mar ossia, per quel che s'è detto, [par] um et mar (non umet). Nessun problema dovrebbe suscitare il sostantivo mar. Eppure vien fatto di domandarsi: È questa menzione del mare in una descrizione dell'alba una remi- niscenza di scuola, ovvero proviene essa dalla considera- zione della realtà delle cose? Certo un «poeta erudito » a malincuore si sarebbe lasciato indurre a descrivere l’alba

1) Cfr. O. Liinina, Die Natur, ihre Auffassung und poetische Ver- wenduny in der altgerm. und mittelhochd. Epik bis sum Abschluss der Blütezeit, Zürich, 1889; pp. 8; 35 e segg.

3) Pag. 71, n.2.

L'Alba bilingue. 497

o l'aurora senza far menzione del mare, poichè innumere- voli esempi si affollavano nella sua mente !). Anzi la man- canza di tale menzione dovrebbe stupirci. Ma, d'altro canto, se il ritornello proviene dalla poesia di popolo, tale men- zione dovrà al contrario attribuirsi a poeta dimorante in re- gione donde al mattino appariva il tremolar della marina. E infatti v'è un’alba provenzale in cui si fa ricordo del mare, la quale è opera di un poeta che nacque e abitò per l'appunto in paese marittimo. Alludo all’alba di Raimon de la Sala, del quale dice un biografo che «si fo us borges de Marseilla et trobet cansos et albas et retroenzas». Il ritornello dell’unica alba che di questo poeta ci é perve- nuta, suona per l’appunto: L’alba par El jorn vei clar De lonc la mar, E Valb'el jorns par (dove per curiosa coin- cidenza vediamo pure rimare le tre parole par clar mar). Orbene, perchè dovremo noi ritenere che questo abitante di Marsiglia abbia desunto la menzione del mare da ricordi di scuola, anzichè dallo spettacolo quotidiano che gli si presentava dinanzi, o anzichè da un canto d’indole popo- lare ove lo spettacolo era descritto?

Ma se mar non presenta difficoltà, può sorprendere in- vece la mancanza dell’articolo determinato che lo preceda ?). Io però mi sono domandato più volte: E se l’el altro non fosse se non una falsa lettura di el? Supponiamo un copista il quale fosse avvezzo a usare nel proprio dialetto soltanto

» E non soltanto desunti da autori classici. Anzi alcune altre scritture, che propriamente sono descrizioni del mattino, dovevano esercitare un fascino irresistibile. Alludo ai Tetrastica de Aurora et Sole (A. Riesz, Anthologia latina, Lipsia, 1868-70; vol, II, p. 66 e segg.). Quivi loggo, al n.° 579: Aurora Oceanum croceo velamine fulgens Liquerat: al n.° 580: Sol.. ab aequo reis Tethyos ortos equis aquis; al n.º 581: Extulit Oceano caput aureus igniferum sol; al n.° 582: Cum sol igniferos currus e gurgite magno Sustulit; al n.º 583: Emicat Oceano Phoebi rota clara relicto, ecc., ecc.

*) Sebbene una tale mancanza possa ampiamente documentarsi (cfr. p. 493, n. 1).

61

498 E. Gorra,

la mar e mai el mar, e che fosse venuto nella persua- sione essere il nostro ritornello una mistura di volgare e di latino; certo quanto mai spontanea gli doveva venire in mente la correzione di el mar in el mar; mentre te- merario gli sarebbe parso lo scrivere addirittura la mar. Se questo non parrà strano ad ammettersi, riuscirà piana anche la interpretazione di tum. Dietro a tum io vedo un anteriore lum. Ma questa, sebbene sia voce molto fre- quente nelle albe, e quanto mai acconcia al nostro argo- mento, non sembra dare un senso qualsiasi. Può la frase lum el mar significare ad esempio: «splende il mare» o « illumina il mare » ? Può equivalere al dantesco: « Quando colui che tutto il mondo alluma » (III 20 1)? Io ne du- bito; e col soccorso del testo che già conosciamo vorrei domandare se lum non potrebbe giudicarsi provenuto da un anteriore lunc. Dice Raimon de la Sala: de lonc la mar; e il nostro testo forse aveva in origine lunc el mar, Un copista avvezzo a dire nel proprio dialetto lonc, potè facilmente mutare un esotico lune in lum, donde tum che aveva il grande merito di presentarsi come voce latina !).

x è *

atra sol Poy. Già il Laistner e il Rajna notarono che nel nostro ritornello il sole sembra stare a pigione. La parola sol, scrive il Rajna, «opportunissima in appa- renza per il contesto», non è «così opportuna invece in realtà; chè, altra cosa è l’alba, altra il levar il sole» (pp. 80-81). Ma così non la intesero altri, e poichè vi sarà, fino alla consumazione dei secoli, chi vorrà ad ogni costo

1) Le trasformazioni che io proporrei sono dunque le seguenti. Da un primitivo: L’alba par lunc el mar derivarono le lezioni: *Palba par lunc et mar *l’alba par lum et mar l’alba par tum et mar l’alba part um et mar l’alba par um et mar. Le due ultime lezioni sono documentate dal nostro manoscritto, il quale ci fa « bellamente » assistere alla trasformazione di un part in par.

L'Alba bilingue. 499

vedere nel nostro ritornello il sole, voglia perdonarmi il lettore se io mi indugio alquanto sull’argomento.

Che il sole debba o possa essere menzionato in una de- scrizione dello spuntare del giorno, non solo sembra a tutta prima assai naturale, ma poteva crederlo indispensa- bile chiunque facesse a trascrivere, senza molta atten- zione, il nostro componimento. Oh quante volte non men- zionano i classici latini, nel descrivere l’aurora, il sole! E i già ricordati Tetrastica de aurora et sole non rin- carano, per così dire, la dose? Si rileggano gli esempi che ho già addotti qui sopra (p. 497, n. 1), e si aggiungano quelli che riferisco qui in nota!), e poi mi si dica se un copista, per poco che fosse saccente, poteva non sentirsi tratto per i capelli a scrivere sol, colà dove si leggeva qualcosa di simile, a lui poco chiaro. Quella menzione di Febo al prin- cipio del canto è in gran parte colpevole del malinteso, sebbene il primo verso dica a chiarissime note che il sole non è ancora nato (Phoebi claro nondum orto iubare).

1) N.º 585: Ezoritur Phoebus per fundens luce nitente Et maria et terras stelliferumque polum; n.° 586: Sol oriens currusque suos e gurgite tol- lens; n.° 587: Phoebus Atlanteis ec fluctibus aureus orbem Sustulit igniferum; n.° 588: Praevia flammiferi currus Aurora rubebat Extu- leratque alto gurgite Phoebus equos; n.° 589: Vix aurora suo rubefe- cerat aethera curru... Et vaga cesserunt sidera solis equis; ecc. Al- tri esempi si possono desumere dalla medesima Anthologia del RIESE, come dal vol. I, p. 250 (In laudem solis, v. 9: Sol rumpit tenebras; v. 36: Sol qui purpureo diffundit lumine terras); dal vol. II, p. 59, n.º 551: Nubila cum Poebus perfudit lumine claro Tum fit... ecc., ecc. Ecco dunque l’aurora e il sole indissolubilmente uniti. Nulla di più naturale perciò che si credessero uniti anche nel nostro componi- mento, che tante altre concordanze, a volte veramente mirabili, mo- stra coi testi qui riferiti, e con altri molti che sarebbe facile ad- durre. A questo si aggiunga che a traviare un copista o un lettore potè contribuire l'autorità dei testi religiosi e degli inni ecclesiastici, nei quali l'apportatore della salute agli uomini, il Redentore, è di norma detto sole che illumina le terre e le genti, e dove Maria, la stella del mattino, è detta madre del sole (cfr. ScHLAGER, Op. cit. p. 49 e segg.)

500 E. “Gorra,

Però potrebbe aver ragione lo Schmidt, al quale il nostru componimento offre l’esempio di una rappresentazione pro- gressiva dell’apparire del giorno, dal primo albeggiare allo sfolgorare del sole. La descrizione si svolge secondo lui in tre fasi: dapprima l’alba preannunzia l’apparire del- l’astro dietro i flutti del mare; poscia l’astro ammicca al di e al di sopra del colle; e infine appare sul cielo in tutta la sua maestà divina, fugando ad un tratto le ultime tenebre (p. 337). Ma lo Schmidt ha torto; e non già forse perchè queste ch'ei scrive siano « raffinatézze soverchie » ; non già perchè l’immagine che dalle sue parole risulta «se può parere ingegnosa e piacere a noi, gente del se- colo XIX, storicamente qui non è punto verosimile » 1). Piuttosto un ostacolo grave, insormontabile, vedrei nel testo medesimo del nostro componimento. L’autore non può avere grossamente contraddetto a se stesso. Infatti (e qui mi ac- cordo col Rajna) nel primo verso, espressamente si dice che il sole non è ancor nato; nel secondo che l’aurora incomincia a diffondere sulla terra un tenue lume; nel terzo che la scolta, il vigile, risveglia i pigri o i sonnac- chiosi. Nel ritornello si verrebbe a soggiungere in poche parole: « Ecco l'alba, ecco il sole»! Nella seconda stanza nulla è che si riferisca alla descrizione del fenomeno; essa

—— re ————r—--

1) Cfr. Rasa, pag. 70. Siffatta rappresentazione non disdice a uno scrittore del medio evo. Qui ricorderò l'inno di PRUDENZIO Nox et tenebrae et nubila, nel quale è appunto descritta « una progressione che dall'alba va fino allo sfolgoreggiare del sole» (se in senso reale o metaforico qui non importa), poichè nella prima strofe dice: Nox et tenebrae et nubila Confusa mundi et turbida Lux intrat, al- bescit polus; nella seconda: Caligo terrae scinditur Percussa solis spiculo; e, infine, nella terza: Sol ecce surgit igneus. E la stessa pro- gressione troviamo in Dante. Nel Purg. (I, 19), prima: Lo bel pianeta che ad amar conforta Faceva tutto rider l’ oriente, poi dice Catone (v. 107): Lo sol vi mostrerà che sorge omai, ove quell'omai e il con- testo dicono che il sole non è ancor nato, poichè L’alba vinceva l’ora inattutina (v. 105); alla fine (c. II, )) il sole appare e si alza: Già era il sole all’orizzonte giunto,

L’Alba bilingue. 501

contiene soltanto esortazioni agli incauti e ai pigri di guar- darsi dalle insidie di nemici (ostium insidie). Da ciò ap- parisce che un pericolo sovrasta o può sovrastare, e che esso s'avvicina nell’« ombra» o nel «barlume mattutino ». Nell’ultima strofa è di nuovo un accenno ai fenomeni ce- lesti che accompagnano il sorger del giorno, ma nessuna menzione del sole. Il pericolo si avanza naturalmente nel- l'ombra; perchè sia possibile scongiurarlo, deve il levarsi degli uomini precedere il pieno giorno, e di molto lo sfol- gorare del sole. Ora, come potrebbe il ritornello contrad- dire non solo, ma distruggere, come dirò meglio fra poco, il contenuto, l’essenza, lo scopo stesso del componimento a cui appartiene?

Ma v'è di piu. La comparazione c' insegna che nelle « albe» il sole non è mai menzionato. Ciò che si annunzia è l’appa- rire del primo albore, la prima punta del giorno. E questo è naturale, è logico per tutti coloro che sono usi ad osservare la realtà. Ecco gli esempi: 1. jorn ni alba no vi; 2. vey l'alba el jorn; 3. liorns ve; vei lo torn Apres l'alba; 4. qu'amenal jorn; l'alba; queren lo torn; tro al dia; alba nitorn; 5. tro al dia; 6. lo jorns clars; Valb'el jorns; 7. lro el dia; de si tro en l'alba; sui garda del dia; 8. enan lo iorn; enan l'alba; [9]; 10. don quier lo torn; ieu dezir l'alba; 11. E dezir Vezer l'alba; [12]; 13. quel jorn es aprosmatz; el jorns ve; l'alba ven bel’e complia ; 14. apropchatz s'es lo jorns clars e luzenz, Que lo nos a la dolz’alba amenat; Pero veiaz quals es lo jorns ni alba; Non auran mais lum ni clartat ni alba; 15. lay on estan tors e clardats et alba; quel iorns ven apres Valba; 16. aissı cum resplan l'alba; clardat et alba; on es clars jorns et alba; 18. Cunt voi Vaube dou jour ve- nir; hais... le iour; 19. tant k'il ajorna; il n'est mi jors; 20. Un petit devant le jor; je voi le jor; 21. tresqu'a jor; trop ma neu Vaube; Schläger 61 e sgg.: ains que jorns soit venuz; li jors n'est pas venuz; est-tl jors; Vabe c'apeirt au jour; la pointe du jour; A peine était-il

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l'aurore Que le cog chantait le jour. E come le albe ro- manze si comportano le albe tedesche. Dai poeti aulici, da quelli che il De Gruyter comprende nel primo periodo dello svolgimento dell’antica lirica, il sole «non è mai» men- zionato. Dai poeti del secondo periodo neppure. Però qui v'è un'eccezione, ma una sola eccezione, la quale tanto sorprende il De Gruyter, che espressamente annota: «im höfischen Tagelied fehlt die Sonne ganz» (p. 58). Menzione del sole fa una volta anche un poeta del terzo periodo, ma qui pure per eccezione. La norma stabilita da numerosi esemplari ‘è che il finir della notte e il cominciare del giorno sono anche qui designati colle espressioni che noi conosciamo dalle albe romanze!).

E che il sole debba essere elemento estraneo alla vera e propria alba lo comprende ognuno che voglia per poco riflettere sull'essenza di essa. Io non posso indugiarmi a discorrere delle origini prime di questo genere poetico; più oltre dirò perchè ad esso io risolutamente ascriva il no- stro componimento. Per ora mi basti osservare che il poeta, che derivava la sua ispirazione dall’osservazione della realtà o dalla poesia di popolo, non poteva lasciarsi trarre a confondere l'alba coll’apparire del sole, fosse esso un umile o un grande poeta. Qual’& il contenuto fondamen- tale dell'alba? E noto a tutti: ad evitare i pericoli di una sorpresa, a rendere possibile una difesa, o una fuga nel mistero dell'ombra, se non delle tenebre, fa d'uopo svegliarsi e sorgere sul primo far del mattino, al primo albore, appena si mostra la prima punta del giorno. Un solo istante d'indugio potrebbe riuscir disastroso. E perciò si porge attento l’orecchio al primo cinguettar degli uccelli;

1) Come ad 6sempio: es ist Tag; es ist am Tage; es tagt; es ist am Morgen; der Morgen kommt; die Nacht will hin, sie endet sich; der Morgenstern geht auf; der Morgenroth dringt durch; die Wolken färben sich; der Tageschein mehret sich; des Himmels Sphären hehren sich, ecc. Anche qui dunque sempre il sostantivo indicante il feno- meno seguito dal suo verbo.

L’Alba bilingue. 503

a qualunque segnale che possa essere indizio del finire della notte. Quindi ben a ragione ammonisce l’autore del- l’alba 8.º: « Drutç qui vol dreitament amar» si deve «enan lo jorn levar» ; poichè «fin amador s'eschai Ques leu enan alba»; e altrettanto a proposito grida la scolta francese: « Sus, or sus, or sus! Ainz que jors soit venuz » (Schlä- ger 61); o si lagna un amante di avere già udito l’allo- dola cantare «la pointe du jour» (ibid. 63). E meglio dei critici, comprese in che consiste la vera «situazione » del- l'alba lo Shakespeare, la cui «albata » nel Romeo e Giu- lietta si connette con tutta una letteratura che fu bene studiata !). E invero, immaginate voi un amante che, a fuggire le ire del marito geloso e le maldicenze del volgo, esce dalla casa della sua donna quando il giorno è già chiaro, quando il sole già sfolgora? Oppure dei soldati che, a deludere le insidie di un nemico che si accosta col favor delle tenebre, sorgono quando il sole è levato? O dei re- ligiosi che si levano a cantar mattutino quando il giorno è oramai pieno? ?). Il nostro componimento non lascia luogo a dubbio di sorta; esso parla di nemici insidiosi che si accostano nelle tenebre, e cui il primo albore ha reso vi- sibili. Si vorrà attendere il levare del sole prima di met- tersi in guardia o di premunirsi? Lo «spiculator » che fiso guarda nelle tenebre l’annunzio al primo albeg-

*) Da L. FRANKEL, Shakespeare und das Tagelied, Hannover 1893; cfr. p. 18 e segg.

*) A proposito dei quali religiosi la letteratura ci fornisce, se v'è bisogno, ampie testimonianze in quegli inni che sono canti non di veglia, ma di risveglio. Jam lectulo consurgimus Noctis quieto tem- pore dice S. Ambrogio (Tu Trinitatis Unitas). Il canto del gallo deve indicare la sveglia, dice Prudenzio: Ales diei nuntius Lucem pro- pinquam praecinit, e perciò il gallo è detto praeco lucis proxi- mae. Anzi Prudenzio espressamente ammonisce che Post solis ortum fulgidi Serum est cubile spernere; e che conviene levarsi Paulo ante quam lux emicet, poichè lo stesso Cristo praemonet Adesse tam luce prope.

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giare !); e se un astro è menzionato nelle albe o nei canti di risveglio, esso non è certo il sole, sibbene la « stella del mattino », la «stella di Venere», « Lucifero » 2).

Da tutto questo mi sembra si debba ragionevolmente concludere che la lezione atra sol è erronea. L’ originale doveva recare alrasel; ma un copista a cui era ignoto l'articolo maschile el, tratto in inganno o da reminiscenze di scuola, o dal primo verso del componimento, mutò l’alra- sel in atrasol, venendo in tal guisa a formar due parole che se non davano senso (atra sol), avevano però sembianze regolarmente latine; il che poteva pel momento bastargli *).

!) Esso mi richiama alla mente l'augellino che nel poema dantesco sta sull'aperta frasca in attesa del giorno « Fiso guardando pur che l'alba nasca » (III, 23, 9). E Dante ebbe ed espresse da par suo il sentimento del fenomeno di cui qui si discorre. E perciò ben sa di- stinguere gli «gli splendori antelucani» pei quali «le tenebre fag- giano da tutti i lati, E il sonno suo con essi» (Purg. XXVII, 109- 113); e l'astro di Venere nell'ora che precede al sorger del sole (Purg. I, 19-21). Quindi mi pare abbia ragione il Moore (Gli accenni al tempo nella D. C. Firenze, 1900, p. 69) laddove a commento di questo passo scrive: «È evidente che Dante ci vuol descrivere l'ora che precede il sorgere del sole presentandola con l'aspetto che era più famigliare, e, per così dire, caratteristico nella mente del popolo, il quale per abitudine associava a quell'ora lastro risplendente del mattino »; e perciò non mi appagano le obbiezioni che leggo nella Rassegna bibliogr. d. lett. ital., 1900, p. 232.

?) Taccio dei numerosi esempi classici che mi sono offerti in ispecie da Ovidio. Ricordo S. Ambrogio (Aeterne rerum conditor: Hox eritatus Lucifer Solvit polum cnligine; Aeterni coeli gloria: Ortus refulget Lucifer, Sparsamque lucem mentiat; Jam lucis orto sidere); i Carmina Burana (n.º 144); l'estela guazignaus di Marca- bruno, (cioè la stella del gallicinio, come bene ha dimostrato il CRE- SCINI), il passo di Guiraut de Borneilh: Qu’ en orient vey I’ estela creguda Qu’amenal jorn. Per Dante questa stella è «Lo bel pianeta che ad amar conforta». Numerosi esempi desunti dalle albe tede- sche reca il DE GRUYTER, op. cit. pp. 10, 29, 57-59, 101, 38; e dalle inglesi il FRANKEL, op. cit., pp. 53, 55. Cfr. anche BARTSCH, Vortr. u. Aufs. 270, 280, 294.

°) Perciò el poy come el mar; trovo quindi superfluo il tentativo del Rajna di spiegare, con ragioni fonetiche, ol per el. Quanto alla forma poy cfr. ad es. MEYER, Romania XVIII, pp. 423-24.

L'Alba bilingue. 505

* x +

Pas abigil. Eccocì al punto più oscuro del ritor- nello (e scusate se è poco!). Ma anche qui potrebbe darsi che le difficoltà fossero più apparenti che reali. Abigil, penso io, contiene senza dubbio la parola vigil. Ma vigil qui non è avverbio, aggettivo, nome proprio di monte come si è inteso sinora. Esso è nome comune, che risponde allo spiculator, al praeco del testo latino: vigil è la «scolta » !). Chi era il Vigil? Numerosi testi ci dicono

!) Che lo spiculator e il praeco del testo latino si equivalgano non so se alcuno potrà dubitare. Lo Schmidt nella sua versione tedesca del nostro componimento traduce nel primo caso «der wächter », e nel secondo « der herold»; ma ai due personaggi fa compiere il me- desimo ufficio. Lo Stengel invece traduce in ambedue i casi « der wachter » E che l’annunziatore del giorno fosse chiamato anche « praeco », non deve sorprendere. Taccio dell'inno ambrosiano In di- luculo ove del gallo si dice: Praeco diei jam sonat Noctis profun- dae pervigil, per far menzione di una carta latina (dell’anno 1264), ove la «gaita» (gatha) è anche chiamata « praeco »: « Item obtinue- runt modo et tempore suprascriptis, quod Consules dictae villae mit- tunt seu constituunt in dicta villa Gatham seu praeconem, cum eis videtur expediens et opportunum extitit, qui Gatha seu praeco officium sibi commissum debet regere secundum ordinationem consulum prae- dictorum » (Du Cange, Gloss. s. Gatha). É risaputo che il « praeco » era il banditore, il gridatore, cui spettava pubblicare gli ordini dei magistrati, invitare il pubblico agli spettacoli, agl'incanti ecc. Per ciò doveva talvolta il « prasco », l'araldo, annunziare anche l’appa- rire del giorno, risvegliare coloro cui poteva giovare l'alzarsi. Nel- l'Histoire du Chátelain de Coucy et de la dame de Fayel (ed. Cra- PELET, Paris, 1829, v. 1050) gli araldi svegliano al mattino i cava- lieri che devono prender parte a un torneo: « Car hiraut matin s’a- tornerent... Hiraut mainnent grant tintin, Par rues vont criant le cours: Or sus, chevaliers, il est jours»; oppure li esortano a recarsi presto a dormire, perchè al mattino saranno svegliati per tempo: «li hiraut dient: Signor, Ales couchier, quar le matin Vous ferons nous lever» (v. 1010). Nel Roman de la Violette (ed. MicHEL, Paris, 1834, v. 5865) gli araldi invitano alla messa: « Garchon d’armes et

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che il « Vigil» era appunto lo «spiculator ». Ecco perciò come io intendo il nostro componimento. Dinanzi al peri- colo delle insidie di nemici favoriti dalle tenebre, lo « spi- culator », il « praeco », il «vigil», vale a dire la scolta, sveglia alla prima punta del giorno i dormienti e sollecita i pigri. Il testo latino e il ritornello volgare esprimono questo medesimo concetto (sebbene quello contenga, come è nor- male, un altro pensiero di capitale importanza): «al primo spuntare del giorno, la scolta avverte che è tempo di le- varsi ».

A designare la scolta i testi latini del medio evo fanno uso frequente della voce Vigil. « Obolos, quos Vigiles ca- piebant» dice una carta del 1178; e un documento del 1211: « Custos vero turris et portarius et asinarius, et Vigil, qui de nocte turrim vigilabat » I vigiles dovevano scegliersi con cura, affinchè le vigiliae fossero fatte « per viros pro- bos et validos. » Della propria sollecitudine il « Vigil» dava prova in più modi. Un testo del 765 (si badi alla sua an- tichità) discorre di un uso ecclesiastico il quale richiama alla mente dello scrittore un uso militare. Nei monasteri i vegghianti « debent omni nocte vigilare, et Vigilias cum clava invicem notificare. Id est is, qui vigilias facil, debet clavae percussione subinde se vigilare indicare, quod etiamnun faciuni vigiles in Berfredis seu turribus ur- bium sub regni confinia », A similitudine della macchina bellica detta Belfredus, berfredus (a. fr. berfroy ecc.) si erigevano nelle città o negli accampamenti delle torri « în quarum fastigio excubant vigiles, qui eminus adven- tantes hostes pulsati, quae in eum finem appensa est, campana cives admonent, quo sint ad arma parati. Nec

n

hirebiel Lendemain à prime de jour Vont huçant, chou est lor me- stiers: Chevalier, ales au mostiers, S’oies messe. Anche in Shake- spears l’allodola è detta « l’araldo del giorno» (the herold of the morn); e nella nostra alba il « praeco» compie il vero e proprio ufficio della « gaita », dello « spiculator» della prima stanza. Questi « pigris clamat: Surgite »; quegli agli incauti « clamat surgere ».

L'Alba bilingue. 507

in eum lantum finem stalutae berfredis campanae, ul adventantes nuncient hostes, sed etiam ad convocandos cives, el ad alios usus, proul rei politicae curatoribus visum fuerit». Il « Vigil» era chiamato, oltrechè « spi- culator », «praeco », anche excubia (0 scubia)'), e tutte queste denominazioni cedettero col tempo il posto a un vocabolo di origine germanica; la qual cosa, trattandosi di usi specialmente guerreschi, ben comprende. Nel Glos- sarium lat.-gall. citato dal Du Cange (s. Gueta), Vigil è tradotto con veillant e con gaite*). Nei documenti latini il nome volgare si mostra sotto forme diverse (gaita, gatha, gacha, guacha, guaitator), e diversi o molteplici sono gli uffici o le consuetudini di queste scolte. Addurrò alcuni esempi che torneranno non inutili all’ indagine nostra. Dice un testo: Hae sunt consuetudines quas tenebal in suo tempore Comes Burchardus in villa et in Comilatu Vin- cocini... Isti omnes ila cum comite custodiebant ca- stellum, quod in unaquaque nocte habebat intra velus Castrum 5 Gaitas ecc.» Che doveva fare la guacha? « Guacha stet continue cum cornu in aliquo loco Arelatis, in quo concilium convenerit, qui buccinet ». E il guai- lator? « Ministrales... debent eligere duos Guaitatores vel plures ad voluntatem vicinorum suorum, qui custo- dient civilatem de nocte et precipiant quod ipsi Guaila- tores bene faciani guaitam *).

1) « Ab hoc tamen statutum excipimus notarios, scriptores et curso- res, et Ercubiam turris episcopalis ». Excubia era detta anche la « vi- gilia »: « Dicebant etiam Ezcubiam seu custodiam faciendam in dicto burgo de die vel de nocte, cum armis vel sine armis ad praefatum dominum regem seu praefatam curiam jure debito pertinere. Ed excu- biare valeva vegliare, « gaitare »: « Item habitatores castri et burgi debent excubiare et gaytare >.

*) Nel Donato provenzale leggiamo: « Gaita id est speculator » (STENGEL, Die ält. Gramm,, 6, 4).

*) Cfr. per tutte queste citazioni Du CANGE, Gloss. alle voci Vigiles, vigiliae, vigilias, vigiliarti, excubia, excubiae, gaita, gatha, gacha, ga- chare, guacha, guaita, guaitator, wactae, gueta, guetta, vete, gatha, ecc.

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Questi, ed altri testi latini che io tralascio, ci istrui- scono intorno agli uffici e alle occupazioni del « vigil », dello « speculator », del « praeco », della «gaita ». Il « Vi- gil» non è da confondere col «custos turris », col « por- tarius »; deve essere persona proba e gagliarda; deve dar prova della propria vigilanza o percuotendo il suolo con la «clava», o con altro rumore; deve col suono del corno, della campana o con grida svegliare e chiamare i soldati alle armi, convocare i cittadini a concilio; deve vegliare tanto di giorno quanto di notte; e può quando occorre avere compagni nel suo ufficio. Le quali notizie fornite dai testi latini sono confermate e chiarite da numerosi testi ro- manzi. Un notissimo passo del Roman de la Rose induce a supporre che la scolta poteva, cantando e suonando tutta la notte, sbizzarrirsi come più le andava a talento !). Fi- guriamoci quale doveva riuscire il frastuono quando le scolte erano più d'una ?)! Esse vegliavano «sino al fare del giorno » non solamente sopra le torri *), ma altresì sulla mura e intorno alla città ‘); e solevano o dovevano a volte vigilare non solo di notte ma anche di giorno 5).

Ma più ci importano quei testi volgari i quali ci infor- mano che ufficio della scolta era specialmente quello di annunziare il sopravvenire di qualche pericolo, l’appres-

1) Malebouche è messo a fare la guardia al castello che rinchiude Bel Accueil: « Il monte au soir as creniaus, Et atrempe ses chalemiaus, Et ses buisines et ses cors. Une ore dit les et descors, Et sonnez dous de controvailles As estives de Cornovaille ». (Ed. MICHEL, vv. 4504-9).

5 Tote la nuyt audiraz las gaitas faire maint crid (ANELIER, Guerre de Navarre, 3079).

*) Les gaites sor les tors monterent Qui tote nuit eschangueterent Jusqu'au demain au point del jor, Qui tuit leverent sans sejor (Cla- ris et Laris, 1296).

‘) Desus les murs montent les gaites Parmi la vil et d’entor Cor- nent et crient jusqu'au jour (ANELIER, Op. cit. 3194).

5) Quatre gaite a en la tor Qui veillent la nuit et le jor (Flore et Blancheflor). Ne pourront ouvrir que de la guette cornant au matin jusqu’à la nuit (Livre des Metier): ap. GoDEFROY.

L’Alba bilingue. 509

sarsi di un nemico inatteso. Nel Joufrois, ad esempio, « Les gailes qui es tors estoient Cornent, crient, quant il les [i nemici] voient: « Or sus» font il, «tost armez vos» ; Vez ja lor gent pres de nos. Que faitez vos? Alez, alez, Sor les chevaus montez » 1). Questi versi fanno tosto pen- sare al nostro componimento. Anche in essi l’appressarsi del nemico, il grido della scolta, e l’invito a porsi sulla difesa. Ma ciò che ancora più preme è il notare come im- portante ufficio della scolta fosse quello di annunziare l’ap- parire del giorno, di «corner le jour» come dicevasi in Francia. Il Du Cange cita il verso di Jean de Condé: « Quant la Gaite corne le jour», e noi già conosciamo quelli di Anelier : « Et quant vene l’endeman que ’l gaita de la tor Escridet autamentz que paria l’albor. L’alba e la gaita sono insieme ricordate nel Garin ?); il mattino e la gaita nel Perceval *) e nel Gaufrey *); il suono della gaita e il canto del gallo ancora nel Perceval 5).

E se, dopo questa breve illustrazione del personaggio che in questo momento ci occupa, vogliamo fare ritorno ai componimenti che ci interessano più direttamente, dobbiamo cominciare col confutare una opinione che sembra abbia sinora fuorviato tutti, se non erro, gl’interpreti. Fu creduto cioè che il ritornello della nostra «alba» soglia o debba riprodurre il canto, il grido dello « spiculator », del « prae-

1) Joufroy, ed. Horrmann und MunKER, Halle, 1880, v. 2961.

3) I, p. 219: Li aube creve et li jors exclarit... Li gaite corne qui les chalemiaus tint.

3) ... la gaite le jour courna Au matin, quant il ajourna (v. 41655).

*) L’endemain par matin, a la guaite cornant S’est adoube Robastre e Aliaume le Franc (v. 5411).

5) Desi qu’al matin que li gans Canta e la gaite corna (v. 41655). Rimando per questi esempi che non ho potuto riscontrare se non in parte a A. ScHuLTZ, Das hôfische Leben zur Zeit der Minnesinger, 2.2 ediz. II, 1889, p. 37, 47 e segg.; Frizt MEYER, Die Stände, ihr Leben un Treiben ecc., in Ausg u. Abh. dello STENGEL, n.° 89, p. 102 e segg.; e ai Dizionarii del Du Cange, del Raynouard e del Godefroy.

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co», nella sua forma diretta; il «vigil» stesso sarebbe il cantore !). Ma io comincio coll’osservare che le albe pro- venzali e francesi a noi pervenute, se poniam mente alla parte che esse fanno alla scolta (gaita, gaite), si dividono in due gruppi. Poichè nelle albe provenzali « amorose» entra di norma in campo la gaita, mentre essa manca di regola nelle «religiose» e nelle albe francesi. Dall’enu- merazione che pongo qui in nota ?) e dall’esame attento dei testi risulta evidente che il ritornello delle albe, con- siderate nella loro forma più genuina, non è posto in bocca direttamente alla scolta. Questo è un punto importante della questione e fa d'uopo chiarirlo. Ecco l’esame dei testi:

1) Scrive il Rajna « Un poeta erudito non poteva pensare a intro- durre in un'Alba latina un ritornello volgare, se delle Albe volgari per intero non ne fossero esistite. E dall'imitazione ci è dato argo- mentare di queste Albe qualcosa più che l'esistenza. Esse avevano come tratto caratteristico il ritornello, e un ritornello in cui appunto si ripeteva l’annunzio dell'apparire dell'alba, ponendolo in bocca ad una senlta; il che viene a dire che erano molto simili a quelle che nel medesimo territorio provenzale ritroviamo poi nel secolo XII e nel XIII» (pp. 86-87).

2) 1. Tro la gaita crida que Valba vi; Tro la gaita toque son ca- ramel; 2. Tro la gaita de la tor Escrida: Drutz, al levar Qu'ieu vey Valba el jorn clar; 3. Qu'ieu aug que li gaita cria: Via! sus! Qu’ieu vei lo iorn venir Apres Valba; 4. Il componimento è tutto un canto della «gaita »; 5. Gaita, s’ieu ti tenia... Gaita, dieus ti mal- dia... Quar tan cochas lo dia; 6. Be velhats E gaitatz Gait’; 7. Si fin amic non avia... E gaita plazen Que mi fes son d'alba; (parla la gaita:) Jeu sui tan corteza gaita... Per qu'ieu sui garda del dia... S'icu en un castel gaitava... Gaitan lejalmen E crit quan vei l’alba; 8. (nessuna menzione della g. ma il testo è frammentario); [9]; 10, 11, 12 (non possiamo attenderci qui la menzione della g.); 13, 14, 15, 16 (albe provenzali religiose; nessuna menzione); 17, 18, 19, 20, 21 (albe francesi; v'è menzione soltanto nell'ultima: Gaite de la tor Gardez entor Les murs...; Gaite de la tor Vez mon retor De la ou vos ooie). Nei frammenti francesi che lo Schläger riporta (pp. 61-70) una sola menzione; Deus, tant mal mi fait la guaite Ki dist: Sus, or sus, or sus! (p. 61). Di norma nei testi francesi l'ufficio del « vigil » è compiuto dagli uccelli che cantano ai primi albori.

L'Alba bilingue. 511

1. L'annuncio dell’ alba e il ritornello non possono essere posti in bocca alla «gaita». Nella prima stanza essi sembrano essere esclamazione del poeta; nella se- conda, la menzione della «gaita» e dell’alba è fatta dalla donna, e il ritornello sta ancora da sè, come nella prima strofa. Nella terza la «gaita» non è menzionata e perciò non le si può certo attribuire il ritornello; nella quarta nuova menzione della gaita «in terza persona»; nella quinta e nell’ultima nessun accenno.

2. La «gaita» è menzionata come «terza persona » dall’amante (uomo), e l'annuncio dell’alba è ripetuto da questo come udito prima della scolta; ma questa non entra in scena direttamente.

3. È l’amante (uomo) che si lagna all’udire la «gaita», ed è lui che ci ripete il grido di questa.

4. Qui entra in scena direttamente la «gaita », che é piuttosto un amico che veglia sui due amanti. Ma non ci rappresenta quest’alba (checchè ne possa pensare lo Schlä- ger) una fase relativamente tarda e artificiosa del genere?

5. La «gaita» è menzionata «in terza persona » dal- l'amante (uomo) nella terza e quarta strofa; e solo per essere maledetta.

6. La «gaita» entra in scena e sveglia i due amanti; ma essa è un amico confidente, e perciò quest'alba è da mettere insieme alla 4.º

7. La «gaita» è dapprima soltanto menzionata dalla donna; ma poi entra in scena e parla. Ma anche quest'alba mostra evidenti le tracce di un’ elaborazione personale del poeta.

21. La «gaita» è ricordata, ma chi può in questo componimento comprendere se essa parla o no?

Da questo elenco, e da altre cose che dirò in seguito (pp. 514-16), risulta che si devono considerare come frutto di individuali elaborazioni gli esempi in cui la gaita entra diret- tamente in scena col suo canto di risveglio. La forma più ge- nuina e la norma vogliono che essa sia soltanto menzionata

512 E. Gorra,

e il suo canto « ripetuto » da altra persona, e in « terza per- sona ». Questo accade nella parte latina della nostra alba: «Spiculator », « praeco », ecco la menzione della scolta ; «surgite», «surgere», ecco il suo grido indirettamente a noi riferito. E come nel testo, così anche nel ritornello: il « vigil» , la gaita è menzionata, e il suo grido « ripetuto». più meno di quanto accade in ispecie nelle albe 1, 2, 3. Anzi in quest’ultima la scolta è nominata per l’ap- punto nel ritornello.

Senonchè a non poche obbiezioni io devo ancora rispon- dere. E innanzi tutto il manoscritto legge abigil e non vigil. E sta bene; anzi, per essere più esatti, noi dobbiamo partire dalla forma pasabigil, poichè da tempo è scossa la fede nella giusta divisione delle parole dataci dal nostro copista. Or bene, in questo nesso pasagibil io vedo non solo la voce vigil, ma altresi l'articolo determinato che naturalmente doveva andargli innanzi. Se immaginiamo che originale avesse pasa | vigil, subito intendiamo come po- tesse derivarne un pasalvigil, donde, per l’accostamento o la fusione del ! col v, provenne quel b che tanto filo ha dato da torcere ').

Ma che significherebbe «passa | vigil»: «passa la scolta»? I testi ch'io ho addotto, e altri molti che si po- trebbero aggiungere, non sono ad attestare che della scolta si dice non già che «passa», ma che «suona», «grida», «canta» dal suo luogo di guardia? E la stessa parte latina del nostro componimento non ci conferma che lo «spiculator » clamat, e che anche il « praeco» clamat (clamans)? L'obbiezione sembra a tutta prima assai grave, ma non è. Nessuno può dimostrare che lo « spiculator » della nostra alba dovesse star fermo in un determinato luogo, come ad esempio sopra la torre di un castello. Le scolte erano poste anche a guardia delle mura su cui si

1) Già vedemmo come un ms. del De Vulg. El. abbia fuso un cl nell'unica lettera d (p. 490, n. 2).

L’ Alba bilingue. 513

aggiravano; e dinanzi agli alloggiamenti, in campo aperto, dove percorrevano, almeno per certo tratto, le fila dei sol- dati, chiamando in caso di pericolo alla riscossa. Ed esse vegliavano, passando, anche intorno ai castelli. Un testo latino, di cui già ho riportato solo una parte, ci narra di quel conte Burchardus il quale soleva di notte porre a guardia del suo castello cinque «gaitas»; «unam super portam subtus Castellum, alteram super portai juxta mansionem Salomonis, tertiam supra murum juata man- sionem Gisleberti: ei aliae due tota nocte circumi- bant castellum». Dunque delle cinque scolte, due s’ag- giravano tutta la notte intorno al castello. Esse « pas- sando » potevano e talora dovevano esser prime ad avvertire i pericoli, e ad alzar la voce verso i dormienti. Ed è correndo per le vie della città, già lo vedemmo, che gli araldi del romanzo del castellano di Coucy svegliano i cavalieri gri- dando : « Alzatevi, è giorno » !)! Nulla perciò ci vieta di am- mettere nel nostro ritornello una frase ellittica e di inten- dere: «passa la scolta (gridando) ».

E che con abigil avesse fine una frase, mi sembra farlo sospettare anche il modo della tradizione manoscritta. Il codice si arresta, nel ritornello della terza stanza, con quella voce. Perchè? Gl'interpreti hanno risposto in ma- niere diverse, ma nessuna è a mio avviso soddisfacente. Io credo che l’originale stesso si arrestava con quella pa- rola; l’autore, o altri per lui, interruppe il ritornello, che era superfluo ripetere intero per la terza volta, non a caso, ma dopo una frase che aveva un senso per sè, perchè era compiuta. E solo colla mia interpretazione una frase e il senso si chiudono dopo « pasabigil ».

deve d’altro canto fare ostacolo la pretta voce la- tina Vigil in un testo volgare, poichè essa avrà solo a

1) Aggiungo che un'ordinanza di Guglielmo il Conquistore prescrive che le città, i borghi, i castelli, singulis noctibus vigilentur et custodien- tur in gyrum (THIERRY, Storia della conq. Norm. dell’ Inghilterra, Milano, 1837, II, 106 n.). Vedi anche qui sopra, p. 508, n. 4.

514 E. Gorra,

poco a poco ceduto interamente il posto al germanico

wahta. %

* *

Ma qui io devo, per colpa di qualche interprete, aprire una breve parentesi. Finora ho considerato il nostro com- ponimento come una vera e propria «alba», nel senso in cui questo vocabolo comunemente s'intende, e per giunta, a quanto pare, per un’alba guerresca. Ma non così opina- rono il Laistner e il Rôthe; e lo Schläger più recentemente ha sulle orme di essi voluto provare che noi abbiamo a fare non con un’«alba», sibbene con un inno religioso. Come si vede, la questione cambierebbe d'aspetto, o almeno alcuni lati di essa dovrebbero venire studiati da punti dif- ferenti di vista. Ma io non esito ad affermare che qui si tratta di un malinteso. Ormai molti non sanno concepire «alba» se non come un canto di risveglio che mette in scena due amanti i quali devono dopo una notte d’amore separarsi di buon mattino, al fine di evitare i pericoli di una sorpresa. Ma questa è soltanto una specie del genere, sebbene specie antichissima, come provano ‘esempi desunti dalle letterature di molti paesi. Ma anzitutto non è punto vero che l’«alba» o l’«albata», se così più piace chia- marla, sia un vero e proprio «canto di risveglio ». Essa è un componimento poetico « narrativo » il quale ci rap- presenta la particolare « situazione » di alcune persone che al mattino, per qualche fine, si svegliano o sono svegliate. Questo componimento « narrativo » può accogliere, e quasi sempre accoglie, anche elementi drammatici, e può anche in processo di tempo divenire interamente drammatico. E questa è la forma che il genere viene assumendo nelle albe amorose; ma anche in molte di esse il canto della «gaita» è, come vedemmo, riferito indirettamente; dal che traspare l’origine prima. L’alba, qualunque ne sia il con- tenuto, consta di due parti essenziali: del testo vero e pro- prio e del ritornello. Nel testo si esprime la «situazione

L'Alba bilingue. 515

fondamentale » ; si dice il perché sia necessario levarsi alla prima punta del giorn»; si fa cioè menzione del pericolo immanente o imminente ; nel ritornello si enumerano, talora ripetendoli, i segnali che accertano essere prossimo il giorno. E questi segnali possono essere di più sorta; ma tutte le albe ci provano che essi si rivolgono alla vista e all’udito : epperciò ecco il primo albeggiare e l’impallidir delle stelle; ecco i primi rumori mattutini, il canto degli uccelli, il grido del vegliatore, il suono della campana. Questa è l’es- senza, la struttura dell'« alba ».

Ed è anche quella del nostro componimento. Lo Schläger è in tutto il suo lavoro manifestamente dominato da un preconcetto. Egli vuol dimostrare che tutte le «albe» ri- salgono ad un’origine unica, a un testo letterario, a un componimento «amoroso », all’epistola pseudo-ovidiana di Ero e Leandro !). Pretende lo Schläger che la scolta, la «gaita » sia il succedaneo di un personaggio che non solo è originario nell’« alba », ma che già nella forma prima è amico e confidente, la nutrice. Partendo da questa sup- posizione (che in realtà però si ritrova soltanto alla fine), il critico esamina e interpreta ad una ad una tutte le albe romanze, vere o presunte, a noi pervenute, e dall’ esame deriva quelle conclusioni che meglio devono giovare all’ in- tendimento suo. Più genuini, più prossimi alla forma prima sono quindi per lui quei componimenti ove la «gaita» è un confidente degli amanti; non meritano al contrario il nome di «alba» quegli altri ove la «gaita» manca, o l'ufficio di. essa è almeno in parte compiuto dagli uccelli che gorgheggiano in sul far del mattino. Non esistettero per lo Schläger se non albe amorose. E quindi egli nega l’origine e lo svolgimento dell’alba, quali i più sinora li inte- sero. La «gaita » è per questi dapprima il nunzio del giorno ai soldati di un campo, ai guerrieri di un castello, agli abi-

1) Forse lo Schläger fu condotto a tale opinione da quanto scrive il FRANKEL, op. cit., p. 113.

516 E. Gorra,

tanti di una città, di un chiostro e (involontariamente) agli amanti colpevoli. Le nuove condizioni sociali e i tempi mu- tati fecero che l’«alba amorosa » prevalesse su tutte le albe di altra natura e si perpetuasse nelle età posteriori. Ma poichè neppure colle migliori intenzioni sarebbe possibile trovare nella nostra alba tracce di due amanti che sono svegliati dopo una notte d'amore, non essendone il conte- nuto amoroso, non può, secondo lo Schlãger, il componimento essere un «alba». E poichè è innegabile la somiglianza, l’affinità che passa fra il nostro testo latino e non pochi inni religiosi (inni per l’appunto di risveglio) ei ne deriva che esso è non un'alba, sibbene un inno ecclesiastico.

Ma perché, domando io, non un’« alba religiosa »? Che la Chiesa potesse avere le sue vere e proprie « albe », anche senza ricorrere all’imitazione di testi profani, è cosa in- negabile. La «scolta» è personaggio che s’incontra nel Vecchio Testamento, nel quale essa compie uffici identici a quelli della scolta del medio evo; sia che vegli da una torre per annunziare l’arrivo di forestieri !); sia che levi il suo grido, tanto di notte come di giorno ?); sia che suoni la tromba ’), o stia a guardia delle mura, o s’aggiri di notte per la città 4).

E, nel medio evo, la Chiesa ebbe pure per costume di porre sulla torre episcopale una scolta, come s'usava nei castelli feudali”). Inoltre, e questo forse fa più al caso

1) Igitur speculator qui stabat super turrim Iezrael vidit globum lehu venientis et ait: Video ego ylobum, (Re, II, ec. IX, 17). Elevavit puer speculator oculos suos et asperit, et ecce populus multus ve- niebat per iter devium ex latere montis» (Samuele, II, c. XIII, 34). «Speculator vero in fastigio porte supra murum elevans oculos vidit hominem currentem solum et crclamans indicavit regem» (Sa- muel II, c. XVII, 24).

3) Isaia, XXI, 6.

5) Et constitui super vos speculatores, Et dizi: Audite vocem tubae (Geremia VI, 17). Cfr. anche Ezechiele XXXIII, 2-3.

*) Invenerunt me vigiles qui custodiunt civitatem (Cantico dei Can- tici, III, 3). Cfr. per altri riscontri DE GRUYTER, op, cit. p. 131.

*) Vedi, indietro, p. 506).

L’Alba bilingue. 517

nostro, nei monasteri si dava il nome di Vigiliarii o Vi- gilgalli («a galli gallinacei vigilantia ») ai monaci che vegliavano sugli altri al mattutino. Negli inni religiosi è per similitudine chiamato praeco diei, pervigil, nuntius diet il gallo; e speculator che veglia dall’alto, è Cristo !).

Tutto questo però non esclude che potessero compiersi anche dei travestimenti religiosi di albe profane, e mi sembra troppo arrischiato lo Schläger quando afferma che «l’alba religiosa provenzale non ha menomamente a ve- dere coll’alba profana, come quella che interamente poggia su fondamento biblico e chiesastico tradizionale» (p. 57). Manifesti rifacimenti religiosi di albe profane ci ha con- servato la poesia tedesca, la quale può di albe profane documentare anche parodie drammatiche ?). Ma ad onta delle somiglianze e delle affinità innegabili, di cui già toccai, che esistono fra il nostro componimento e i testi religiosi, e a cagione delle sue convenienze coi canti e cogli usi pro- fani, in ispecie guerreschi, e della mancanza di ogni ac- cenno a una coppia di amanti, io credo che si debba con- siderare la così detta alba bilingue del codice vaticano come il rifacimento di un'alba guerresca 5).

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1) Già ho riferito alcuni versi di S. Ambrogio e di Prudenzio cho giovano a questo proposito. Il canto del gallo, e precisamente quello del mattino, segnava anche il momento del riposo dopo lo veglie del sabbato nel tempo invernale: « Vigilias, quae singulis heb- domadis a vespera inlucescente sabbato celebrantur, idcirco seniores hiemali tempore, quo noctes sunt longiores, usque ad quartum gallo- rum cantum per monasteria moderantur »; Cassiani, De Institutis Coe- nobiorum (in Corpus Stript. Eccles., Mediol. 1888, Pars J), lib. III, c. 8.

*) Cfr. sull’alba religiosa anche Bartsch, op. cit., pp. 260 e segg.; 304 e segg.; DE GRUYTER, op. cit., p. 127 e segg.

®) Scrive lo Schläger (p. 77) che «in un canto guerresco sarebbe unico o sorprendente il grande rilievo che si alla descrizione del mattino »; e cho (p. 78) «il concepire il grido del» wächter» nel nostro componimento come scopo a se stesso, ciò che di per non sarebbe impossibile, non permette la seconda stanza colla sua allu- sione ad un pericolo trascinantosi nell'ombra del crepuscolo ». Ma

miraclar tenebras. Il manoscritto ha due volte « miraclar », tutto unito. Che questa si debba ritenere come un’ unica voce? Io non lo credo; anzi i testi a noi perve- nuti ci avvertono che il «clar» deve stare da sè; esso è per così dire l’aggettivo obbligatorio delle albe. Ecco gli esempi: 2. qu'ieu vey l'alba el jorn clar; 6. lo jorns clars; Valb’el jorns clars; el jorn vey clar; 9. la nuech vey clara e serena; 13. la nuech vai el jorns ve Ab clar cele sere; 14. lo jorns clars e luzenz; 16. on es clars jorns et alba; 17. selha del ver iorn clar. Esempi numerosi offre anche la poesia tedesca: den lich- ten Morgen sehen; den lichten Morgen erkiesen; der helle Morgen komint; der helle Morgen scheint ecc. !).

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anche queste difficoltà scompaiono dinanzi al concetto che io mi sono formato dell'essenza e del contenuto dell’« alba» come componimento letterario. Lo Schliger cade qui nell'errore medesimo di coloro che pensano che il ritmo modenese O tu qui servas armis, ecc., Bia pre- cisamente il canto dei soldati che stavano a guardia della città! (V. ora la giusta interpretazione che ne A. Restori: I} Canto dei sol- dati di Modena, in Rivista musicale italiana, vol. VI, 1899, p. 742 e sogg.; cfr. in ispecie pp. 752-754).

1) E colla poesia lirica pienamente s'accorda la narrativa, la quale anzi nel menzionare la luce del giorno, o del sole, o della luna, non sa tralasciare l'aggettivo « chiaro ». Clers fu li jurz e bels fu li soleilz, Roland 1002 (v. anche v. 3345); Bels fu li vespres e li soleilz fu clers (ibid. 157); Li jours fu biaus et clers, qu'il ne pluet ne vente (ADENET, Berthe, 2675); En este quant li jour sont bel et lonc et cler (Beuv. de H. 53); Li jours fu biaus et clers et gens (Cléom. 17412), ecc.; Clere est la noit et la lune luisant (Rol. 2512); Clere est la lune, les estoiles flamboient (ibid. v. 3659); Mult fu la nuit clere et douce et soues (Enf. Ogier 7294); Que la lune cler lor alume (Erec. 4900), ecc. (Cfr. M. KUTTNER, op. cit., pp. 34, 36, ecc.). E che si vuole di più? Neppure la parte latina del nostro componimento potè dimenticare l'aggettivo « chiaro » (Phoebi claro ecc.), che ha numerosi riscontri anche nella poesia latina. Si vedano i citati « Tetrastica de Aurora

L'Alba bilingue, 519

Dunque clar separato da quel che precede deve conside- rarsi come la lezione giusta. Ma anche la prima parte del composto, la voce mira, potrebbe trovare nei testi forme corrispondenti e la sua conferma, poichè è normale nelle albe l’uso del verbo «vedere » o « riguardare » !). Dovremo dunque leggere: «mira clar». Ma qui spunta un altro grave problema. Con quale sostantivo va unito l’aggettivo clar? Forse con tenebras? Ma questo è un nome femminile plurale, mentre «clar» è un aggettivo singolare di genere maschile! E per giunta manca qui pure quell’articolo de- terminato, di cui andiamo affannosamente ricercando le tracce. Però se mancanza v'è ?), essa facilmente si spiega. « Tenebras » è la pretta voce latina, pensò qualche copista ; l'articolo che le va innanzi è quindi una mostruosità, e fa d’uopo espungerlo. Ma per noi tenébras è la forma romanza, e perciò il testo devesi reintegrare così: «mira clar [las] lenébras »; vedi, chiare sono le tenebre»). La locuzione «clar tenebras », ch’ è stata proposta dal Suchier, parve al Rajna «esclamazione d’una breviloquenza efficace»; più accettabile quindi parrà la nuova locuzione. Quanto poi a clar per claras, potrebbero forse le lingue romanze offrire più di un esempio a conforto di simili sconcordanze *).

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et Sole»: Et clarum emicuit sole oriente iubar ; Emicat Oceano Phoebi rota clara relicto; Sol... claro reddit orbe diem; ecc.

1) 2. qu’ieu vey l'alba; sus! qu'ieu vei lo iorn venir; 4. qu’en orien vet l’estela creguda; etregardatz lasestelas del cel; 7. qu'ieu vei venir Valba; et crit quant vei l'alba; 14. Pero veiaz quels es lo torns ni l’alba; 18. Cant voi l’aube dou jour venir; 20. Car je vot le jor.

*) Confesso che prima di leggere l'articolo del Laistner, era a me pure venuta la tentazione di cercare nel miraclar l'articolo las, che tenebras ha il dritto di pretendere avanti a sè; ma l'esame dei testi mi persuase che clar deve restare. Perchè clar non claras v. pp. 496-7.

3) Non può giovarci la Rom. Gramm. del Meyer-Lübke (vol. III, S 137 e segg.); ma in dialetti italiani settentrionali, ad esempio, sono normali locuzioni come: « at ghe negar la leingua » (tu hai nero la lingua), ecc.

520 E. Gorra,

E qui sono finalmente giunto al termine della mia non breve disamina. Riassumendo, ecco come il ritornello a noi pervenuto:

L'alba par (o part) um et mar atra sol Poypas (o Poy pas) abigil miraclar tenebras,

deve ricondursi alla forma nella quale io penso sia stato dettato dall’autore della nostr’alba bilingue, il quale deve aver avuto dinanzi come modello un’alba interamente volgare:

L'alba par lunc el mar atras el poy;

Pasa ‘| vigil; mira clar [las] tenebras.

vale a dire: L'alba appare lungo il mare dietro il poggio; passa la scolta; mira, chiare sono le tenebre!).

Ma in quale dialetto, fa d’uopo ancora domandarsi, sa- rebbe scritto un ritornello in tal guisa ricostruito? Eccone 1 tratti caratteristici:

Fonetica: Vocalismo: a tonico intatto (par, mar, clar;

alba)

o tonico + ng ridotto ad u: lune long u-.

a atono finale permasto (alba,

mira, lenébras). e atono finale caduto (mar) u atono finale caduto (lune, clar

e poy)

n ———

1) Così inteso, il ritornello trova una logica e naturale corrispon- denza nel testo latino. Difatti al fert aurora lumen tenue risponde l’alba par; al terris la locuzione lunc el mar, atras el poy; al verso Spiculator pigris clamat surgite (cfr. praeco clamans surgere) la frase pasa ’l vigil; al verso dottamente grave Orienti tenditur septentrio la spontanea espressione volgare mira, clar las tenebras (che ricorda il clars es lo jorns delle albe romanze).

L’Alba bilingue. 521

Consonantismo: ng riuscito finale ridotto a ne (lunc). -lb permasto (dlba) cl iniziale intatto (clar). dj ridotto y (poy podiu-) Morfologia: Articolo masch. sing. el (el mar, el poy). » femm. plur. las (las tenebras) Sostantivo: regione del s flessionale (tene- bras; vigil ha conservato la forma latina) Genere: mar mascolino.

Tutti questi fenomeni dovrebbero trovarsi riuniti nel dia- letto di una regione marittima. La quale potremmo anche circoscrivere entro al suolo della Francia meridionale, senza peró tenerci obbligati a considerare il ritornello « necessariamente » dettato in provenzale. Frattanto pos- siamo dire: nella lingua «classica» dei trovatori no cer- tamente. Ma questo importa assai poco, poichè quel che oc- corre è di vedere se sia possibile documentare nel mezzodì della Francia quei fenomeni che a tutta prima più ci sor- prendono. E questo è forse possibile:

lunc per lonc troverebbe un riscontro, per ciò che spetta alla vocale tonica, nell’avverbio lung citato dal Raynouard (Lexique rom.) e forse nel loung dei dialetti moderni (cfr. Azais, Dict. des id. rom. ecc.; e Mistral, Lou Trésor dou fel. s. v.);

mar mascolino è documentato in provenzale dal Ray- nouard e dall’Azais.

el artic. determ. invece di lo fu ed è molto diffuso (cfr. Revue des langues rom. 111° S.; T. II, 1879, p. 114 sgg.; e Romania IX, 156-158).

Tutti gli altri fenomeni sono normali anche nella lingua dei trovatori ').

') Del metro del ritornello taccio di proposito, perchè infinita è la varietà degli schemi metrici della lirica popolareggiante e popo- lare del medio evo. 64

ERRATA-CORRIGE.

Pag. 496, lin. 5-6, leggi: esisteva indubbiamente nel testo da cui il nostro deriva.

C. MICHAELIS DE VASCONCELLOS.

YENGO (ENGO) ENGUEDAT ENGAR.

Ha tempos!) julguei ter descoberto em cequitale o etymo evidente do vocabulo archaico eguedat, empregado algu- mas vezes nos versos do mais antigo entre todos os poetas castelhanos de clerizia ?), e tambem no Poema de Apol- lonio *). A’ minha tentativa, cuja insufficiencia reconheço, não faltaram applausos de mestres como Meyer-Lübke, o qual lancära independentemente a mesma etymologia *), e G. Baist, embora est’ ultimo não deixasse de estranhar a singular evolução semantica de justiça natural a liber- dade e libertação de um prisioneiro *), Parece que todos concordaram em considerar a forma enguedad *) como variante secundaria, originada pela tendencia do vulgo de substituir pelo prefixo in-, en a atona inicial, opinando quanto ao sentido que para presos e captivos liberdade e equidade são synonymos.

Recentemente D. Ramon Menendez Pidal, numa brilhante

1) 1894. Fragmentos Etymologicos, n. 29. Separata da Revista Lu- sitana, III.

3) S. Dom. 76, 773; Loor, 118, 134.

3) Estr. 373.

*) Zeitschr., XIX, 227.

5) Jahresbericht, IV, 312: Der Form nach evident sequitas mit der seltsamen Bedeutung Befreiung.

6) Temos tres vezes enguedat, uma vez com a variante enguadat (?) e duas vezes eguedat, com a variante yeguedat (1).

924 C. Michaelis de Vasconcellos,

serie de estudos etymologicos '), descartou aquitate e propôs um etymo diverso. Tendo encontrado em foraes hespanhoes dos seculos XII e XIII dois termos, até hoje desconhecidos, que evidentemente formam grupo com enguedat: o adjec- tivo yengo no Fuero de Sepulveda engo no de Salamanca, cujo dialecto pertence ao leonês (no entendimento de livre, isento, immune) e engar no de libertar, rebaixou o sub- stantivo abstracto dos poetas ao posto de derivado; taxou de inadmissivel a supposta influencia do prefixo in-; e in- digitou como palavra-mãe o qualificativo latino genticus, de gente = nação, tribu, familia.

Embora tanto do ponto de vista phonetico como do se- mantico a minha equação aequitate > eguedad e a de genticus > yengo engo sejam aceitaveis, creio que ambos erramos. |

Contra a minha hypothese e a favor da do meu amigo pode-se allegar, que de eguedad não ha caminho viavel para yengo, mas sim de yengo para enguedad; e em se- gundo logar que, não subsistindo esses termos na linguagem viva dos peninsulares, carecemos da unica prova efficaz da sua popularidade que explicaria a substituição de e por en).

Contra a de D. Ramon levanto outras duas objecções. Não ha prova nem mesmo indicio algum de que genticus, exem- plificado nos diccionarios communs com pouco mais que os dois trechos de Tacito a que o auctor hespanhol allude, se empregasse na idade media, e evolucionasse do signifi- cado primitivo nacional, particular a uma nação, tribu ou familia, ou proprio della até denominar o indi-

1) Romania, XIX, 334-379.

*) Para remediar a falta de exemplos castelhanos entre os que citei nos meus Fragmentos, podia apontar formas archáicas como enridar por irritare, infurcion por offercion e as asturianas enritar, enquivoco, interno (= eterno), incultar (= occultar), inlegante (= ele- gante). A’ lista gallego-portuguesa accrescento agora enleger inleito inleição, incessivo (= excessivo), incagião, Infemia (= Eufemia), Inge- nio (= Eugenio).

Yengo (Engo) Enguedal Engar. 920

viduo livre, franco, nobre, privilegiado e isento, do mesmo modo como aconteceu com o synonymo latino gentilis, que designa nas linguas romanicas 0 que vem de boa gente |). Nem é provavel que um termo tão pouco usado e breve perdido fructificasse anteriormente, produzindo dois deri- vados.

Procurando no fundo da lingua mãe outro modello, e esse triplice e ja prompto, tanto de yengo = livre, li- berto, isento, como de enguedat = liberdade, e engar = li- bertar, lembrei-me de um grupo diverso de derivados da mesma raiz grego-latina gen (gerar, nascer) que deu gens, gentilis, genticus grupo composto dos termos principaes, e muito usados na linguagem juridica, que os auctores clas- sicos transmittiram aos medievaes para caracterizarem o homem que nasce livre; o estado social do homen livre; e o acto da libertação de um servo. Fallo de ingenuus ingenuilate e ingenuare, vocabulos aos quaes ha que ac- crescentar ingenuinus *), e na baixa latinidade os adjectivos ingenuilis 5), ingenualis 4), ingenuaticius *) e ingenuosos *), assim como non-ingenuus.

Vejamos a sua vida na peninsula.

No Forum Judicum onde quasi que não ha lei em que fosse dispensavel estabelecer distincção entre as tres classes capitaes da sociedade medieval a dos nobres, a dos homens livres inferiores, e a dos sujeitos a uma servidão

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1) Conf. yentilhomem, gentileza.

3) Vid. Gruter, Inscrip.

3) Ib., 538, 9. Cfr. Du Cange s. v.

* Du Cange s. v.

$) Ib., As casatas ingenuatisas, mencionadas numa doação de 991 (Esp. Sagr., XIX, 381) devem ser identicas aos mansus ingenuiles do quo trata Du Cange, i. é predios ou moradas do ingenuos ou libertos. Vid. Gama Barros, II, 362. Os servos et ingenuatisos, especificados num documento de 1014 (P. M. H., Dipl. 223), sao provavelmente libertos.

5) Veja-se o fim d'este artigo.

526 C. Michaélis de Vasconcellos,

mais ou menos dura e completa emprega-se em geral o termo ingenuus para designar o homem livre de na- scimento, fosse qual fosse a sua categoria e o posto que oc- cupava na hierarchia social); e libertus para o servo que conseguira a sua emancipação ?). Nas Formulas Visigo- thicas acontece o mesmo. De ahi em deante, durante os seculos VII a XII, tendo-se de marcar na monarchia neo- gothica innumeras vezes a mesma differença em escrip- turas de todos os generos (leis, cartas regias, foraes, te- stamentos, instrumentos particulares de doação e venda) os juristas e seus amanuenses e clientes continuaram a empregar a mesma terminologia. Com uma differença. Ingenuus passou a abranger os livres todos, sem olhar à origem da liberdade, tendo portanto (talqual o tivera nos auctores classicos) alêm da accepção original e restricta ao livre in genere ou por nascimento (eingeboren, frei ge- boren *), outro sentido generico que incluia os que haviam alcançado o estado ingenuo por manumissão. Nesse pe- riodo, da primeira reconquista christan, liberi et ingenui são synonymos e apparecem juntos em formula, em con- traposição aos servos *). Em sentido derivado ingenuus re- fere-se tambem ao isento de qualquer contribuição ou ser- viço privilegio que por via de regra se concedia aos nobres. Mas como naturalmente mais vezes houvesse ne.

1) No Livro V todo o Titulo VII De libertatibus et libertis está cheio de exemplos. Lastimo não poder verificar na antiga versão do Fuero Jusgo o termo ompregado pelo traductor.

3) Quanto a liber, ora designa o livre por nascimento, ora o livre por manumissao, sendo não poucas vezes incerto o significado. Cf. Gama Barros, II, 350 e Herculano, Hist. Port. vol. III.

®) Isidoro correctamente a definição seguinte: Ingenui dicti qui in genere habent libertatem non in facto sicut liberti (Etym. IX, 4, 46).

*) No Glossario de Du Cange ha exemplos de ingenuitas signifi- cando: ingenui status; libertas servo data per manumissione; immu- nitas; securitas; praedium liberum e ainda nobilitas, como titulo ho- norario concedido a uma rainha.

Yengo (Engo) Enguedat Engar. 527

cessidade de estabelecer os direitos e as obrigações do escravo manumisso para com o manumittente, é especial- mente com a significação de liberto que nos documentos peninsulares apparece ingenuus; ingenuitate no de manu- missão; ingenuare no de emancipar, libertar. O termo in- genuatus, embora mais correcto, não se generalizou. O nome especial da escriptura pela qual os donos, quer fiscaes, quer ecclesiasticos, ou particulares, conferiam liberdade plena ou restricta a servos, mancipios ou adstrictos à gleba (quasi sempre por vontade sua, e raras vezes por deter- minação legal) fôra até 711, e continuou a ser nos se- culos VIII a IX, charta ou chartula ingenuitatis el li- bertatis, em Hespanha como alhures.

Na excellente Historia da Administração Publica em Portugal de Gama Barros !) o leitor que desejar orientar-se sobre a condição das classes sociaes na peninsula, e espe- cialmente sobre a sorto dos escravos, encontra amplas e seguras informações que desenvolvem e rectificam em parte o que anteriormente fora exposto por Muîioz y Romero ?) e Alexandre Herculano *). Aqui hei de copiar varios exem- plos, tirados das obras indicadas, da Colleccäo Portugaliae Monumenta Historica, as Dissertaçoës Chronolbgicas, e a Espana Sagrada, alguns dos quaes se aproximam dos mo- delos conhecidos ‘) emquanto outros se affastam d’elles, ora pelo estylo elevado, ora por uma construcção extremamente barbara, que documenta a pouca instrucção dos clerigos que os redigiam.

897. Carta de doação ... quintamos nostro ganato el nostras villas et engenuamos nostros serbos... et dedi(t) ad ipsa filia mea C de meos serbos inter barones et mu- lieres ad deseruiendum sicut in mea V* exiruni ul

1) Livro III, Cap. II e Ill e Nota X-XIIL Rev. Lus. IV, 259.

*) Coleccion de Fueros Municipales o Del estado de las personas.

*) Historia de Portugal (Livro VII, Parte II e Notas XV e XVI; Livro VIII, Parte III).

9 Vid. Du Cange o o Elucidario de S. Rosa de Viterbo.

528 CgMichaëlis de Vasconcellos,

seruiant ad illa pro ingenuos dum uida uissceri e post ouito suo vadant ubi uoluerint etc. P. M. H: Dipl. No 12 Gama Barros Il 80; Hist. Port. II 436.

943. Carta de ingenuldade a uma serva parcialmente libertada ... Absolvimus te ab omni nexu servitutis qua- liter detersa caligo servili clara in aulam genuitatis re- splendeas et nos te liberam inter liberos staluo verum et inter ydoneos licenliam tribuo civium romanorum con- segui privilegium et ad imponendum capiti tuo nitorem ingenuitatis, Munoz, Del estado 2 ed. p. 82 n.

960. Testamento. tam villas quam seruus que ei ordinamus ingenuare Dipl. No 81.

971. Carta regia de ingenuidade a D. Garcia ... ut ipsas casas quas comparavit tuo patre... habeas ingenuas tu et omnes germanos tuos. -— Privilegios de la Corona de Castilla, Tomo VI No 213, apud Herc. III 439.

1019. Doagao ao Mosteiro de S. Eugenia de Gaudioso ... disponimus atque ordinamus ut omnis familia nostra qui de auiorum uel parentum nostrorum iure debiti manent servi uel liberti per diuersis locis vagantes in loco ipso sint servientes sicut ingenui... etc. Muñoz, Del estado 90, 2.

1025. Carta de ingenuidade a tres mancipias ui sitis liberas et ingenuas agendi manendi larem que fouendi Dipl. 258.

1074. Testamento a favor da igreja de Oviedo illa mea creatione que iam in preteritis diebus ingenuavi. Muñoz, Fueros, p. 141 n. 43.

1087. Testamento a favor do mosteiro de Moreira et illa V* de omnia mea criazon mando illa ingenuare pro remedio anime mee ul sedeat ingenua et libera et ubicumque uolueril in nomine domini deseruiat post parte ingenuitatis ad quemcumque uoluerit. Dipl. 681.

1094. Carta de ingenuidade Ego Leogundi... pro amore Dei facio tibi mancipia mea Gontina Guntesindiz carta ingenuitatis et absolutionis que sedeas ingenua et

Yengo (Engo) Enguedat enger. | 529 soluta ab omni faciendi... in quattor angulos terre ubi volueris perge... Dipl. 806.

1123. Carta Ing. ...tibi liberto nostro ...et fllüs luis adeo ingenuamus te in capite tuo ui sit ingenuus ab omni nexu... et ad aula ingenuitatis tue transfer sta- tuum tuum ubi uolueris. Del estado p. 84 n.

1134. Id. Absolvimus te... ab omni nexu... et in aulam ingenuitatis tue discernimus esse permanere ita ul ubi volueris iniendi manendi laremque fovendi vitam tuam transire volueris, liberam in Dei nomine habe|a]s potesta- tem etc. Coll. Doc. No 172, apud Gama Barros II 82 n.

1140. Id. (annera a um testamento). Hic est kartulam ingenuitatis pro remedio animas nostras. Id sunt filiis de ipsa mulier nomine Banu tres filias et uno filio hic est Maria et Godina et Honega et filio ejus nomine Pelagius. Et alio nostro mancipio nomine Peiro Fernandez et alia mulier nomine Godo Gundisalvez ingenuamus vivendi munendi Diss, Chron. III 52 No XII.

1141. Id. Et insuper conjuro vos Judices vel Seniores ul per istam Kartulam ingenuitatis affirmetis et ejus voce aseratis et pro nullo titulo que per Lex Gotorum a ser- vitio liberatus duplicia non sedeat crebrantado sed semper sit ingenus etc. Eluc. I p. 168, onde se copia outra de 1164, e se falla de outra de 1207 (?)

1151. Id. fazimus tibi mancipio nostro Petro Suari kartam ingenuitatis ef vades tu libero et persoluto dum vita vixeris. Coll. doc. No 198.

1155. Id. Ego Gelvira Velasquiz vobis Xemena et Murtino et filios de Vida Santeriz et Pater vuestro San- tero qui fuit de Portogale... facio vobis cartam inge- nuitatis et libertatis vobis el vestre hereditatis que habetis in Petrafita... ob inde ingenuo suos filios de Santero... ud sedeatis ingenuos etc. Munoz, Fueros 162.

1161. Doação ao convento da Alpendorada. Zi mando Jelvira Menendiz ingenuare... et mando ingenuare Exe- mena Menendez Diss. Chron. III 54 No XII.

530 Ca Michaelis de Vasconcellos,

1187. Id. Tibi mancipio nostro Gunsaluo Pelaiz qui es filio de Tarasia... ingenuo te ut sedeas ingenuo a ffacie Domini... ita ut de hodie die sedeas ingenuo; sic tibi soluo sicut et alia gens esse decerno atque con- stituo; et non eligo tibi alio domino nisi solo Deo uiuo et uero, et alio quem tu uolueris quem tibi meliorem egerit, maxima Dei abeat benediclionem. El insuper conjuro vos etc. como no doc. de 1141 Coll. Doc. No 246.

Quem comparar com estas amostras os exemplos em ro- manco castelhano que Menendez Pidal juntou, não poderá duvidar de que yengo (engo), engar, enguedat sejam repre- sentantes e successores directos dos termos ingenuus inge- nuare ingenuitate. Tantas e tantas vezes foram ociocdos pelos populares, da bocca de juizes, notarios, escrivães no portelo ou tribunal administrativo, ao lavrar dos autos que de servos os transformavam em colonos pessoalmente livres, às vezes em latim relativamente puro, 4s vezes em latim- barbaro, sobre cuja pronuncia infelizmente estamos mal informados. De resto, o trecho no Foro de Sepulveda, em que se determina que el Christiano que Moro o Mora eng(r)are!) et fijos non ovieren, el sennior herede todos sus bienes, não é outra cousa senão a applicação de um paragrapho do codigo visigothico, ainda parcialmente em vigor no sec. XII. E mandava que fallecendo o liberto sem prole nem testamento, ao patrono ou a seus filios rever- tesse toda a herança do manumisso ?) facto notado por Menendez Pidal.

1) Se bem que a lição engenoare seja paleographicamente inacei- tavel, Floranes nao desacertou, a meu ver, de modo algum, identifi- cando na theoria o verbo engre com ingenuare. Quanto & maneira melhor de resolvermos a abreviatura, não estou tao disposta como D. Ramon a votar por engare. Engrare por engnare, de *inguenare por ingenuare nao seria impossivel. Conf. sangre de sanguine e engle por eng’ne de inguine. Veja-se o final d'este artigo.

2) For. Jud. V, 7, 14.

Yengo (Engo) Enguedat Engar. 531

O segundo trecho que outorga certa immunidade a ho- mens de qualquer crença christiano, moro o judeo, yengo 0 siervo que viessem a habitar Sepulveda, emparelha com clausulas parecidas numa serie extensa de foraes leoneses, castelhanos, e portugueses do sec. XII e principios do se- guinte, em que municipios nascentes tentavam, sob o incen- tivo da liberdade e segurança aos non-ingenuos e a crimi- nosos, attrahir habitantes a logares despovoados por seculos de guerra !). Sirva de exemplo o foral de Freixo (1152): Maurum qui fuerit christianum uel seruum et ad fresno uenerit sedeal liberum ?). O da Covilhan (1186): et con- cedimus ut omnes christianos quamuis sil seruus ex quo in Coueliana habitauerit per unum annum, sit liber et ingenuo, tam ipse quam omnis progenies eius *). E ainda o de Bragança: (1187): et serui aut homicide aut adulteri qui in ciuitate uestra uenerint sint liberi et ingenui*).

Nos exemplos terceiro e quarto: ca yengos e francos e libres e quitos los facemos ca yengo e libre lo fago de toda premia yengo como synonymo dos mais termos citados, refere-se tambem à isenção de certas contribuições e obrigações.

No ultimo, que provém do Foro de Salamanca, moro engo significa, segundo Menendez Pidal, aquelle que sahiu de prisão 5). Mas prisão deve equivaler a prisão e servidão, exactamente como nos textos de Berceo. Para apreciar bem

1) Gama Barros II 84, foz a lista de duas duzias d'esses foraes portugueses, segundo o typo de Salamanca quasi todos, e alguns sogundo o do Avila. Cf. Herculano IV 267, 275.

1) P. M. H., Leges 378; Gama Barros II 85; Herculano IV 271.

8) P. M. H., Leges 459.

4) Ib. 463.

°) A respeito dos escravos sarracenos, chamados simplesmente mauros (sem servos) nos foraes, consulte-se Gama Barros II 89. Do mouro vendido no mercado pagava se um soldo de portagem, ou meio- maravedi; do mouro resgatado (qui se redimeret) um decimo. O mouro fugido que se acolhia a Freixo, Urros e mais alguns concelhos de Tras-os-Montes ou da Beira, tornava-se soltus et liber (Leges 378 e

532 C. Michaélis de Vasconcellos,

este pormenor, é preciso lembrarmo-nos, primeiro: de que na idade-media o captivo em geral entrava na classe dos servos e recobrava o estado de ingenuidade, se anterior- mente o possuira, no momento em que conseguia re- mir-se; e segundo, que a escravidão por captiveiro conti- nuou na peninsula para com os mouros, seculos depois de o progresso ter, lentamente, modificado e exterminado o estado de servos e libertos christãos, substituindo-os pre- cisamente pelos mouros colhidos na guerra.

Eis tambem o motivo porque na monarchia neogothica, no decorrer do sec. XII, a ingenuidade foi recebendo o nome de alforria; a carta de ingenuidade o de carta de alforria; o mouro engo transformou-se em mouro forro (hesp. mod. horro), passando o actus ingenuandi a ser acto de aforrar (hesp. ahorrar). Termos puramente arabes, de «, > horr = livre), tio peculiares As linguas hispanicas como os costumes de que se trata. na linguagem de alguns poetas e notarios, com pretensões a latinistas eru- ditos e que eruditos! é que ingenuus, ingenuitas e ingenuare se conservaram até meado do sec. XIII; directa- mente, e nos reflexos que nos occupam: engo ou yengo, enguedat, engar. Digo de alguns, pensando apenas nos re- dactores dos dois fueros explorados e em Berceo, porque não no Foral dos Mouros forros de Evora (1273) mas um seculo antes (1170) no dos Mouros forros de Lisboa, Almada, Palmella e Alcacer, os proprios notarios que os redigiam em latim, haviam-se servido da forma Mauri forri *) então corrente no vulgo.

Passo à parte phonetica da nova etymologia. Ao enves do que acontece com æquilate e genticus, esta é difficillima

—— n

424); o christianizado, bem se vê. Em outros foraes os servos mouros estão expressamente excluidos da immunidade concedida a servos christãos, fugidos e criminosos.

1) Cf. Dozy-Engelmann; e Sousa.

2) P. M. H. Leges 396 e 729.

Yengo (Engo) Enguedat Engar. 533

e esclarecer. Receio mesmo que appareca a muitos carre- gada demais de phenomenos estranhos. reflectindo em como as palavras em questão são semi-eruditas, e tendo em mente a perfeita concordancia do sentido, é que esses tor- nar-se-hão provaveis. Das formas de transição, pouco ou nada consta. Nas mais linguas romanicas ingenuus não se perpetuou como elemento hereditario. É o que torna tão melindrosa a analyse do processo !). A graphia engenuare ou engenoare num dos exemplos copiados não nos adianta nada. Varias vezes acha-se todavia escripto em textos ainda não aproveitados neste ensaio ingenio, inienio por ingenuo(s); ingenit por ingenui *); e inieniosos por inge- nuosos. Essa ultima forma occorre numa passagem pouco clara, mas onde parece fallam de criminosos bem-nados, de estirpe não-servil*). E essas formas com -i, irmanam com um grecismo synonymo de ingenuus isto é com eugenius ao par de eugenêus, que, levantado a nome pro- prio, em gallego-português vulgar ainda hoje se pronuncia Ingenio Ingenho *). Quer me parecer que ellas fazem vis-

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1) Körting não regista ingenuus no seu Lateinisch-Romanisches Wörterbuch. Ingenuo ingenuidade na accepcao de natural, sim- ples, sem malicia sao latinismos modernos.

?) No Foral de Castello de Pena-Ruiva (a. a. 1188) lömos: Et omnes qui habuerint aliqua inlicita mala super se de seruitiu uel homici- dium aut fornicium ueniat ad ista villa sedeant securos et ingenio (var. inienio). Leges 551. Na doação supracitada ao mosteiro de Santa Eugenia de Gaudioso (1019) temos primeiramente sicut ingenui, e pouco depois sicut ad alii ingenii. (Muñoz, Del estado 90, n. 2).

5) Na carta de povoação do Castro de Cardona (986), onde tam- bem se estipula a immunidade dos servos e criminosos que viessem juntar-se aos moradores, sao nomeados (juntamente com servos e servas) adulteros e ladrões ingenhosos, termo que mal pode tor a ac- cepção moderna de habeis, devendo portanto referir-se à classe so- cial a que portenciam, |

*, Du Cange regista ingenitus, com o sentido de ingenuus. Mas sendo exemplar unico considera-o fide-indigno. Em portugues ge- nitus subsiste em quegendo quejanda.

534 C. Michaélis de Vasconcellos,

lumbrar, vaga e indistinctamente embora, a coexistencia de formas derivadas directamente de -gen-, sem -u nem i-. Ingenus*, ingenilate*, ingenare* (ingeno ingenavi inge- nitum ingenare) ao par de ingenuus, *ingenius. Tal qual eugenius, digo evyevys, existe ao par de ev-yevecos. Ha mesmo mais do que esses parallelos gregos e o vulgarismo gallego. A variante ingenus não é inteiramente hypothetica. Surge pelo menos uma vez num documento medieval, per- tencente ao territorio galliziano, cujo idioma inclina par- ticularmente, como é sabido, para a ommissão ou metathese de -u e - em hiato !). Num testamento do anno 1046 certa Dona Trastina, prolix Pinioliz et Aduzindae, dispõe dos seus bens a favor da sua irman D. Sancha, e allega em redacção estropiada um paragrapho conhecido do codigo visigothico, dizendo: omnis injenus sive nobilli]s sive inferior(is) qui filio non relinquerit de rem suam faciel quod voluerit. 3). Pois bem, este injenus proparoyato- nico, bem se pode perfeitamente ter produzido tanto as formações castelhanas como a unica portuguesa de que ha vestigio, a qual propositadamente guardei para o fim.

Engeo, por engéo, com queda normal do n entre vogaes, occorre tambem uma vez na muito archaica Regra de S. Bento *), vulgarizada por um frade anonymo de Alco- baça, o qual por ventura fallaria regularmente latim, mas

Além das palavras communs a toda a familia romanica temos na costa occidental: contino; atinar com tino; ensinar; Janeiro (hesp. enero), janella, Manel, manada, maneiro, enfadar, antigo, atrever, mudar: na linguagom archaica bitalha (victualia) congra (congrua), nico, perpeto, provinco, spirital, igal, individo. Os gallegos modernos sujcitam ao mesino processo todas as palavras eruditas, dizendo eventalidd casalidd, efeitar, encestoso, defectoso, super fio, ecc. Cf. Cornu, Grundriss § 117.

?) Diss. Chron. I, Doc. XV, p. 216. Cf. For. Jud. IV, 2, 20.

3) Ineditos Port., vol. I. p. 255. Engeo, traduzido correctamente por ingenuo, nobre, figura de resto, no Glossario pequeno do vol. III; e de la passou para a odiçao moderna do Elucidario e a alguns tra- balhos philologicos.

Yengo (Engo) Enguedat Engar. 035

com certeza manejava a custo a lingua portuguesa. E no Capitulo 2.º (Qual deve seer o abbade) que, fallando contra 0 favoritismo, deixa estabelecido o seguinte: nem persõa del seia departida no moesteyro, nem huù chus amado que outro se nom quem in boos ffeytos melhor for achado e en obedeença. Non seia davanposto o engeo do serviço ou (= ao) convertente!). Logo em seguida cita-se o conhecido verso da epistola aos Galatos: ca servo ou livre, todos in Christo huus somos e hu Senhor ... ca non é apos el recebimento de persõas.

Quanto à forma castelhana creio que ella sahiu de ingénus, em virtude do uma metathese antiquissima (anterior à altera- ção do g), mas não mais violenta do que varias outras a que se procedeu no baixo-latim da peninsula, em parte indiscuti- veis, em parte geralmente aceites, posto que, como inégus, as formas intermedias não estejam documentadas. Inégus por in- negus (com negare e in'gitate) emparelharia com escripia de scirpéa?); malga de madiga por magida; e tambem com folguin golfin; empezar por énzepar (?); remedir redemir: derreter delerer ; davida dadiva; e com os modernos vulga- rismos portugueses manica maquina; estogamo estomago, vadago vagado; chil. sifico fisico *). Figura-se-me esta pelo menos a melhor maneira de explicar a conservação da guttu- ral branda. Resta ainda te de 7, pois yengo parece ter sido a forma preponderante, sendo engo apenas um leonismo do Fo- ra) de Salamanca, o qual apresenta tambem morto e messe por muerto e miesse. Se o verbo fosse conjugado yengo yen- gas yenga (o que ignoramos), constituindo grupo com as formações pliego de plico; friego de frico; riego de rigo; hiendo de findo; comienzo de cominitio; empiezo por en-

1) Em outra redacção posterior, do sec. XIV (Cod. Alc. 328) lê-se: No seia preposto ho liure ao servo, O original diz: Non praeponalur ingenuus ex servitio convertenti.

*) Romania XXIX, 350.

3) Cf. Cornu, § 244.

536 C. Michaélis de Vasconcellos,

ziepo de incipio 1); nieva de nival ?), nascidas por analogia com niego, tiendo e toda a extensa serie de verbos cuja radical tinha é (@ a), podiamos então admittir muito bem influencia sua sobre o adjectivo 3).

Se não existisse o parallelo português, podendo nós consi- derar isoladas as formações castelhanas, outra explicação seria possivel. Se, além de ingenuitate, se dizia genuilale, conforme se reconhece por um dos exemplos citados (s. anno 943), subsistindo ao lado de genuinus a forma ingenui- nus, e mesmo genuare ao lado ‘de ingenuare*), é licito suppòr houvesse tambem *genuus por ingenuus, e como variante *genus. E de genus nasceria *genicus > yengo e engo *).

Mas a coexistencia de engeo e o estado puramente hy- pothetico de genuus, genus, genicus não admitte tal expe- diente; nem tão pouco o de partirmos de inguenare por ingenuare, com metathese do u.

') Eu, creio que empezar vem de piesa.

*) Não me parece que nieve se funda em fieve; fieve pelo contra- rio se funda em nieva.

*) Não ligo importancia a ye/n/guedat.

*) Na citada carta de plena ingenuidade e liberdade, outorgada em 1155 a uma familia inteira de adscriptos e ás terras e bens que ella possuia ou chegaria a possuir no futuro, encontra-se a passa- gem: facio vobis cartam ingenuitatis el libertatis vobis et vestre her- ditatis que habetis in Petrafita... ut sedeatis ingenuos... tam et rem quem habueritis vel quem genuaverint. Entendo: «e do peculio que no futuro adquirireis, libertos » em harmonia com Gama Barres II 83 que diz: «posto que se nao use da palavra peculio, compre- hende-se ».

°) Genicus dava gengo jango em português, como genitus deu gendo e jando em quegendo quejando. Confesso desconhecer, a etymologia do nome proprio Inigo, escripto pelos antigos Innego Ennego Enhego, mas tambem Inego Ynego Enego, e do patronymico Enheguez En- heques, latinizadas com graphia embaraçosa para Enneco Eneco, En- neconis. Mas sempre apontarei as variantes Yenego no Poema do Cid 3394 3422, onde apparece ao par de Ynego (3417), e Yenego em documentos do Tombo de Santiago.

Yengo (Engo) Enguedat Engar. 537 Por isso proponho a filiacäo seguinte:

Engeo > ingenus variantes baixo-latinas do clas- yengo engo > in(n)égus sico ingénuus.

Considero enguedat como verdadeiro representante de inneguitate por ingenuilale, e eguedat como resultante puramente graphica da ommissão de um til.

Porto, Setembro 1900.

PS. D. Ramon applaude tudo quanto no artigo supra se refere à significação. Acha todavia deficiente a demonstra- cão phonetica, o que não admira. Ainda assim chamou a minha attenção para uma nota do editor do Foro de Sula- manca, na qual se encontra a variante ennego, que bem se ser importantissima para os meus fins. E diz: Engo e ennego: moro engo equivale a moro rescatado y tam- bien a moro converso (p. 75).

Procedendo a averiguações meu amigo apurou, porém, que nenhum dos tres codices restantes encerra o vocabulo ennego. No do Escorial g-IV-19, f. 43 leu: De mo engo: Moro engo uaya solto e non de portaye ni nada. No se- gundo Escorial P-III-2, f. 15" não se encontra mais variante que portage. No de Salamanca, de letra clara e limpa, está escripto: De moro engo. Moro engo vaya suelto e non den porlaie ne nada.

De onde tiraria o Snr. Sanchez Ruano a forma ennego?

V. CRESCINI.

DELL'ANTICO FRAMMENTO EPICO BELLUNESE.

Codesto prezioso cimelio delle nostre origini idiomatiche e letterarie, fino alla terza edizione del buon volumetto di Luigi Morandi sulla origine dell'italiano, non fu altrimenti conosciuto, mi pare, che grazie al testo edito della storia di Belluno compilata da Giorgio Piloni!). Ma quel testo, fatto comparire in pubblico ad insaputa dell'autore, non è pienamente conforme alla redazione definitiva dell’opera e non la comprende tutta ?). Il manoscritto completo è tuttora in possesso de' discendenti dello storico, i quali cortesemente m'hanno dato licenza di guardarci per entro e di raffron- tare la stampa al passo che più m'importava *). In quel punto, per ciò che riguarda il latino de’ vetusti ricordi, tra

1) Vedi, per es., F. Miari, Cronache bellunesi, Belluno, 1865, pp. 20-21; C. Cantù, Vestigia primitive della lingua e de’ dialetti italiani, negli Atti del R. Istituto Veneto, T. XVI, S. III, 216; G. I. AscoLI, Saggi ladini, nel" Arch. Glott. it., I, 411-12, n. 3. Curioso è che il CamBruzzi, St. di Feltre, Feltre, 1875, pp. 188-89, riporti il brano storico, nel quale entrano i versi bellunesi, ma salti via co- desti versi.

*) F. PELLEGRINI, Delle fonti della storia bellunese, tra gli Atti della r. Deputaz. Veneta di Storia patria, nell'Archivio Veneto, N. S., XVII (XXXIV), 431.

3) Nella bibl. civ. di Belluno (Raccolta Miari) c'è inoltre un esem- plare della Storia stampata con le correzioni autografe dello stesso Piloni (V. Cran, Rime di B. Cavassico, disp. 246 della Scelta di Cur. Lett., p. ccxLVI, n. 167).

540 V. Crescini,

1 quali è inserta la cantilena volgare, la corrispondenza è perfetta: lievi differenze invece riscontrai ne’ versi bel- lunesi, che nel manoscritto si leggono così (c. 78 v.):

De Casteldart haui li nostri bona part; j lo zettò tutto intro lo flume d'Art. E sex caualier di Taruis li plu fer, Con se duse?) i nostri presoner.

Ma, come oramai si sa da tutti, non il solo Piloni rac- colse la breve narrazione storica, cui spettano i versi fa- mosi. Il dotto bellunese ab. prof. Francesco Pellegrini, parecchi anni sono, fornì al Morandi la notizia di altre due trascrizioni dell’antico racconto fatte pur nel cinque- cento, quella di Giovanni Antonio Egregis e quella di Giulio Doglioni, bellunesi ancor essi e non meno amorosi cultori della storia cittadina ?).

Sennonchè ci troviamo sempre innanzi a tarde copie, per le quali non ci è dato raffigurarci sicuramente le genuine sembianze del documento primitivo. Quale fortuna poterne ricostituire la storia, e non aver più dubbio alcuno sopra la sua antichità, addirittura anzi sopra la sua esistenza, e ripescarne almeno una trascrizione fedele!

Mercê la bontà dello stesso Pellegrini, nella biblioteca del Museo civico di Belluno io potei conoscere un’altra copia della particola storica e della cantilena compresavi. A p. 261, secondo la numerazione moderna, della stessa miscellanea, appartenente alla Raccolta Miari, nella quale s'incontra la copia dell’ Egregis (questi codici del Museo bellunese mancano di segnatura), trovasi quella che fece Giovanni Maria Barcelloni, passionato raccoglitore pur egli delle memorie patrie, vissuto nella seconda metà del cin-

A

1) Sotto s di duse c'è un’altra lettera, che non seppi leggere.

3) L. MORANDI, Origine della lingua ital., 3.º ed., Città di Castello, Lapi, 1887, pp. 71-73, n. Vedi ancora E. Monacı, Crestomasia Ital. de’ primi secoli, I fasc., Città di Castello, Lapi, 1889, pp. 15-16; C. SaLvionIi, La cant. bellunese del 1193, nel volume nuziale Cran- Sappa FLANDINET, Bergamo, 1894, pp. 235-36.

Dell'antico frammento epico bellunese. 541

quecento. Ciò che subito attrasse la mia attenzione, nello scorrere il testo Barcelloni, fu una nota marginale, della mano stessa del trascrittore, la quale avverte come quegli avesse riscontrata la sua copia con la membrana autentica, accomodatagli, secondo l’espressione della nota medesima, da messer Dionisio Salcis, che l’aveva tolta seco dal con- vento di Vedana il 4 settembre 1577.

Ognuno scorge la importanza di codesta nota: noi sap- piamo finalmente per mezzo di essa donde provenisse e che fosse il documento, che gli eruditi bellunesi del se- colo XVI raccoglievano ne’ loro -zibaldoni con emula pre- mura; e possiamo rallegrarci di avere, se non l’originale, una copia almeno collazionata con esso. Riproduco quanto meglio posso (valendomi della fotografia che ne feci ese- guire) il testo Barcelloni !).

pri jhu X. Anno Dni Mill.mo centesimo nonagesimo Tercio jndictione .xj. die viii). jntrante mense Aprili, Prudentissimi milites, et pedites Bel- lunenses, et Feltrenses Castrum Mirabelli maxima ui occupauerunt; dies Jllud uero jnfra (dies) octo combusserunt, atque 1 omnibus Edifficijs jpum destruxerunt. jtem Eodem Mense Clusas queri ceperunt, et de- struxerunt, et Lvxj. jnter milites, et pedites, ac arc(e)atores, secum 1 vinculis duxerunt, et predam valentem duo millia librarum ha- buerunt, alios jnterfecerunt, et alios grauiter vulnerauerunt. jtem Eo Anno Castrum Landredi coperunt, jbi(que) vero plures homines jnterfecerunt, et .xxvj. jnter milites, et pedites, atque arc(e)atores secum 1 vinculis duxerunt, et Totum Castrum combusserunt, et funditus destruxerunt. aui gota DE CASTEL DARD (haui) li nri bona part, J lo (zetta) tutto jntro lo flumo (de I’) d'Ard, e sex Caualer de Taruis (di) li plui fer co se

*) Saranno in corsivo le lettere che dovetti aggiungere per com- piere le abbreviature; e tra parentesi rotonde le parole che il B. ha cancellate. Sotto la data 1193, nel margine, c'è un segno certa- mente notarile, che mi duole dover omettere.

193

[Segno notarile]

Nota hauer scon- trato la controscritta copiadall’autenticha imembrana con il so- prascritto segno fina al loco oue dice a- men, acomodatama (sic) da l’ecc.llmo messer Dionisio Sal- cis dotorqsll’ha tolta 1 conuento da vedana

1 di -4- 7mbre -1577. Arcatores

Bance

1196

Edifficium

042 V. Crescini, duse li nostre Caualer. Preterea Domum Bäce uj occupauerunt, et

eam destruxerunt, ot .xviij. latrones jnde secum duxerunt. Postea Dni anno .ii96. jndictione i4. die .vj. Exeunte mense Juni), dieti milites, Zumellarum et pedites Bellunenses et Feltrenses ad castrum Gurnelar juerunt,

jllud aut magna ui i vij. die ceperunt, et combusserunt, atque (cum)

1 oibus Edifficijam ?) destruxerunt: et cum maxima letitia domibus factum redierunt, et hoc Totum (factum) fuit fere sub Nobilissimo, et pru-

dentiss.° D. Gerardo Bellunensi Epo, anima Cuius sit locata 1 Para diso. Amen.

Codesta collazione (mi restringo a considerare il testo bellunese) mostra come la copia men fida fosse quella del Piloni. Le altre due, per contro, si scostavano poco dal- l'originale, massime quella del Doglioni. S’avverta come rimanga confermato aui per have dell’Egregis, e così li per di (li plui fer) dello stesso, e nostre (li nostre ca- ualer) per nostri?). Aveva scritto di plui fer anche il Barcelloni, che poi corresse; come aveva scritto pure de l'Ard, lezione che, d'altra mano, a guisa di variante, vidi sopra dard anche nella copia dell’ Egregis.

L’avvertimento marginale del Barcelloni era stato rile- vato già da altri ben prima di me. Nella raccolta bellu- nese di casa Buzzati (custodita, con assidua cura di no- tevoli incrementi, dall’attuale possessore prof. Giulio Cesare nella sua villa di s. Pellegrino presso Belluno), al f. 213 del libro intitolato e segnato Croce + (Cl. I, n.° 32 [A. V.

_ 23]), in margine al solito branicello di cronaca si legge:

Gio. M.® Barcelloni Not.° afferma ne’ suoi manoscritti d' aver col- lazionato la controscritta copia coll’ autentica in carta membrana tolta a Vodana ed averla ritrovata simile fino alla parola Amen.

1) Prima doveva essere stato scritto dal Barcelloni Edifficiis; poi egli procurò di correggere, secondo la membrana, Edifficium, ma, non riuscendogli, ripeté la parola in margine.

2) V. SALVIONI, op. cit., pp. 236-39.

Dell’antico frammento epico bellunese. 543

Codesto libro è una copia fatta il 1602, da Gio. Andrea Cavassico, delle notizie storiche raccolte da Bartolomeo Cavassico in un codice passato ora da casa Pagani al Museo di Belluno !); e la glossa in margine é di mano di Francesco Alpago, ricercatore della storia bellunese, vis- suto fin verso lo scorcio del secolo XVIII ?).

Ma ora è naturale che si domandi: chi era il Barcelloni e qual fede possiamo aggiustargli? Di lui sappiam poco. Per esempio, Florio Miari nel suo Dizionario storico-ar- tistico-letterario, Belluno [1843], lo dice raccoglitore di atti pubblici e memorie patrie, e soggiunge che mori il 20 febbraio 1580; poi nel catalogo degli illustri suoi con- terranei allegato alle Cronache bellunest inedite, nemmen lo ricorda più. Bisognerebbe rintracciare il nome e ricom- porre i casi del Barcelloni lassù nella sua stessa città, esplorandone le vecchie carte; ma per fortuna l’aiuto più necessario mi è porto qui nella solita mia sede da un ma- noscritto, che basta ad attestarci la diligenza e la since- rità del nostro erudito.

Fra i codici posseduti già dal compianto prof. ab. Luigi Padrin, ed acquistati recentemente dal Museo di Padova (Boll. del Museo di Pad., Sett.-Ott. 1900, p. 103), se ne trova uno che è tutto manifestissimamente di mano di G. M. Barcelloni. Esso è cartaceo, di mm. 290 x 210, di ff. 339, e contiene le cronache padovane de’ Gatari, il Liber de generatione ecc. di Giovanni da Nono, notizie sulle fa- miglie veneziane; e quindi memorie e documenti bellunesi spettanti a età diverse. Sfogliando il codice io perseguii curiosamente le note che qua e s’ incontrano e sono so- migliantissime a quella che vedemmo in fianco al nostro frammento storico e poetico. F. 26 v. del secondo opuscolo contenuto nel volume, in margine ad una lettera di Mar- silio da Carrara:

1) Su questo cod. v. Cran, op. cit., pp. XXXV-VII. 2) F. PELLEGRINI, Delle fonti ecc., p. 434.

544 V. Crescini,

Estrata da me Zuar m.* Barzellone nod.° Bellunese sotto di .12. lu-

glio 1577, dall'autentica accomodatami da m.° Franc.° de Trojan s. nominato Batel.

E in fondo il Barcelloni, non pago di aver copiato il sigillo carrarese, lo ritaglia dal documento autentico e lo cucisce alla sua trascrizione, avvertendo :

Questo cusito 1 qsto è l'autenticho sigillo che era nella autenticha littera di .S. registrata.

F. 203 v. del terzo opuscolo:

Copiate per me Zuan m.“ Barcelloni nod.° Bellunese accomodatami da messer Desiderio scolaro nel mese di Marzo 1574. 1 quorum etc.

F. 207 r.:

Ego jo.” maria Barcellonus not.” Bellunensis, suprascriptum Ex." Ex autentico Ex.° fideliter Ex." die) .xvis. Marcij. 1574. in quorum fidem etc,

F. 220 v.:

Ego jo.’ maria Barzellonus notarius bellunensis suprascriptum Ex.® Ex auttico î membranis mihi per Excellentissimum d. Georgium Pillumnum concordare iueni jdeo me subscripsi 1 die 3. marzij. 1577.

E così via via si trovan sempre le prove di una abituale esattezza da notaio coscienzioso, ai ff.' 221 v., 229 r., 230 v., 231 v. ecc. ecc. !). E non solo il Barcelloni ricopia, cer- tifica, ogni particolare circa gli originali delle sue tra- scrizioni, ma riproduce, come nel caso nostro, i sigilli de’ notai (ff. 211 v., 226 v., 227 r., 228r., 259 v. ecc.). mancano poi, tra le copie de’ documenti storici, i ricordi bellunesi, contemporanei, come questo (f. 237 v.):

1578. i3 luio. fece l'intrada il Cl.° messer Franc.° Loredano . Canc.° messer Franc.’ saluini da Oderzo Ladrone.

1) Consimili diligenze anche nelle notizie storiche messe insieme da un altro notaio frugatore di vecchie carte, Bart. Cavassico (CIAN, Op. cit., p. XXXVI).

Dell'antico frammento epico bellunese. 545

Nota che sotto qsto Loredano qsti del cons.º han hauto la sua vignola, perche han robato piu de ducati mille . . . . . . 5.

E dove non è sicuro di aver pienamente decifrate le vetuste membrane, il nostro notaio avverte: « prout legere potui» (f. 259 v.); e se non gli venga fatto di asseverare l'autenticità di quelle, timidamente dice « credo » (f. 335 v.):

. ox scripturis antiquissimis, Et Credo aucteticis . ...

Sicché l’ impressione, torno a dirlo, che fa il Barcelloni è questa: che gli si debba prestar fede, e che egli abbia veramente collazionato il branicello di cronaca e il fram- mento volgare con una membrana di tale aspetto da potersi tenere come originale.

Dove sarà andata a finire la membrana preziosa ?

Le carte del convento di Vedana, che fu soppresso negli ultimi tempi del governo veneto, sono custodite presso l'Archivio di Stato a Venezia; ma non tutte, m’avverte il cav. Riccardo Predelli; e fra quelle che rimangono, peggio ancora, non si trova il nostro documento. Era, del resto, facile imaginare che la ricerca dovesse riuscire infruttuosa : messer Dionisio Salcis non restituì più, molto probabilmente, a’ frati la pergamena loro sottratta. Chi fosse Dionisio Salcis m'è ignoto; ed oggi non riman più traccia a Bel- luno di un tale casato, se non è forse scaduto e sperso tra il popolo della città e de’ dintorni per guisa da far di- sperare che qualche discendente, ove pure esista, conservi le vecchie carte di famiglia ?).

4) Quanto a notizie personali, rilevo la paternità del Barcelloni: « filius D. Dominici » (ff.! 259 v., 269 v., ecc.); e al f. 256 v. questo ap- punto: « Nota che l'anno .1579. nel prine.º del mese di mazo essendo mass.° del S. Monte me fu impegnata una vera d'oro, ecc.»

3) Nel ms. padovano già Padrin, di cui mi sono prima servito, al f. 261 v. si legge: «Copia de vn sumario fatto de man de messer Zan batt.* Salcis». Tra le donne celebrate dal Cavassico c'è pure un'Antonia de Salcis. Vedi Cian, op. cit., p. xLv, e II vol., Scelta disp. 247, pp. 81, 92. Di Dionisio Salcis nessun cenno nel Dis. st. e

67

546 V. Crescini,

A Belluno, focolare anch'essa di umani studi nel cin- quecento, ferveva con quello delle lettere classiche e della poesia volgare, l’amore del natio loco e delle memorie paesane. I buoni frugatori, Giannantonio Egregis e Giulio Doglioni avevano già trascritto nelle loro miscellanee patrie, più o meno direttamente, il nostro testicciuolo cronistorico, ch’era unica o almen rarissima fonte delle geste bellunesi compiute sullo scorcio del secolo XII, sotto il governo di Gerardo de’ Taccoli, il bellicoso vescovo, rivendicatore delle ragioni di Belluno contro i Trevisani, morto in guerra per sostenerle, nel 11971). Il testicciuolo risaliva a que’ tempi remoti, e l’aveva steso qualche notaio, come indiche- rebbe il tabellionato riprodotto dal Barcelloni; qualche no- taio, ch'era stato in rapporto forse co’ frati di Vedana. Comunque, il convento lo possedeva; e a Dionisio Salcis non dovette parer vero che gli venisse fatto di trafugarlo o di ottenerlo in dono, così da possedere quell’inestimabile cimelio, di che tanto aveva inteso discorrere fra gli eru- diti concittadini.

Meglio, naturalmente, se il Barcelloni ce lo avesse il- lustrato con lo scrupolo che oggi usa, o ce n’avesse press'a poco accennata l’età: ma che dovesse trattarsi di vecchia scrittura ci persuade l’accorta diligenza del Barcelloni stesso. E se il documento ch'egli ebbe sott'occhio, non era

nel Catalogo cit. di FLorio MIARI, o nel Catalogo Ragionato delle opere de’ principali scrittori bellunesi, di Marino Pagani, Bel- luno, 1844.

1) Per la cultura umana di Belluno nel Rinascimento, v. Cran, op. cit., I, pp. xIII-v, e quanto all'amore della musa volgare, v. tutta la introduz. dello stesso Cıan. Non sarebbe più da noverare tra gli umanisti di Belluno Pontico Virunio, secondo P. PeRocco, Cenni storici sulla vita e le opere di P. V., fasc. I, Feltre, 1898. Non si trova affatto il nostro frammento nel ms. storico di Bartolomeo Cavassico già citato, sebbene s'incontri nella copia di quello pur cit., dovuta a Giov. Andrea Cavassico. Costui fece evidentemente qualche ag- giunta per suo conto. Per il tempo probabile, in che l’Egregis e il Doglioni trascrissero il nostro testo, v. MORANDI, 1. c.

Dell'antico frammento epico bellunese. 547

l'originale, doveva esserne almeno una copia antica !). In ogni modo ci sono ragioni d’ordine interno le quali suf- fragano a lor volta la vetustà dell'originale: ragioni indi- cate benissimo dal Morandi ed oramai comunemente ac- colte, che torni superfluo ripeterle. Solo aggiungerò che rafferma l’antichità del frammento la chiusa sua stessa: o come mai avrebbe raccomandata l’anima del vescovo Gerardo uno che gli fosse stato lontanissimo di tempo?

I versi bellunesi sul conquisto di Casteldardo risalgono dunque agli anni estremi del secolo XI{: e non ci fa me- raviglia il trovarli inseriti, frammezzo un testo latino, nella pergamena di un notaio.

Padova, 10. XII. 1900.

1) Il Piloni pote forse vedere anch'egli la membrana, per quanto riporti i versi volgari con minore esattezza degli altri (ciò che po- trebbe osser dipeso dall'idea pedantesca di emendarne la forma); e per quanto metta sotto l'anno 1196 anche i fatti del 1193. Certo pur le sue parole rispecchiano | impressione di un documento sincrono: «...registrarò vna particola (si noti bene) d' vna scrittura anticha nel modo che si vsaua in quelli tempi...» G. Pironi, Historia ecc., Venetia, Rampazetto, 1607, c. 100 v.

L. BIADENE.

—— mm

NOTE ETIMOLOGICHE.

1. capruggine, ruga e alcuni suoi derivati.

«Di alcuni nomi della capruggine» s'intitola una delle Note etimologiche e lessicali pubblicata recentemente da C. Nigra nell'Archivio gloltologico XV 105-6. In essa quel valentuomo, dopo aver raccolto i nomi che la capruggine ha in var) dialetti, la più parte dell'Alta Italia, nomi che manifestano sostanzialmente identici, e dopo aver detto che il loro etimo è rimasto finora oscuro, accenna al dubbio non sia questo per avventura da riconoscere nel tedesco sinne, ch'egli mette innanzi; ma soggiunge poi subito che così la scarsa ed incerta somiglianza di significato fra le ‘voci italiane e la tedesca come una difficoltà fonetica ren- dono assai improbabile quest'etimologia. Lascia quindi in- soluta la questione etimologica, contentandosi, com’egli dice, di aver recato, coi termini da lui riuniti, una semplice contribuzione lessicale. In nota l'Ascoli giustamente osserva che il vocabolo stesso italiano capruggine, per non dire del francese e provenzale jable, dei provenzali gaule, jaule pure addotti dal Nigra e aventi quel medesimo significato, è un problema etimologico, e dopo aver notato che, per quanto è della base, non potrà separarsi dagli equivalenti capurnalure, capernature caprennature dell’ abruzzese, caprenateure dell’agnonese, conchiude: « Risaliremo forse a sostantivi diversi, come *capera *caperina ecc.; dall'uno

550 L. Bradene,

de’ quali potè provenire il lat. caperare ‘corrugarsi’, già proposto dal Galvani, secondo che opportunamente ricorda lo Zambaldi (s. v.) ». Tralascia dunque anch'egli di spie- gare 1 nomi raccolti dal Nigra. Ora essi, così gli italiani come pure gli altri francesi e provenzali, si possono, a parer mio, dichiarare nel modo che segue.

La capruygine, parola ricorrente in antichi testi toscani e sempre in uso in qualche parte di Toscana, p. es. nella Valdelsa !), è definita nel Vocabolario del Tommaseo e del Bellini così: «intaccatura delle doghe, dentro alla quale si commettono i fondi delle botti, o d'altri vasi». E dun- que una specie di scanalatura, che ben si potrebbe chia- mare anche ruga, il significato fondamentale della qual ultima voce, come diremo meglio in seguito, è appunto quello di ‘incavatura’. Da ruga si ha già nel latino il verbo rugare, accanto al quale poté bene esistere, quan- tunque non sia registrato nei lessici, »wginare, come ac- canto a rugasus si ha di fatto ruginosus. Ora movendo da ruginare spiegano agevolmente i nomi dialettali della capruggine raccolti dal Nigra. Infatti »uginare potè senza molta difficoltà, e ne assegneremo più avanti la probabile ragione, mutarsi in r'eginare?), da cui si ricava il so- stantivo regina, non registrato neppur esso nei lessici, ma che è certamente la base, per tenerci soltanto ai nomi raccolti dal Nigra, del bresciano »'ezina e dell’alessandrino arseina. Poi regina andò soggetto a quell’aferesi che de- capitò anche altri vocaboli, all’aferesi della sillaba tema-

11 UE SG

1) Il Rigutini non la registra nel Vocabolario della lingua parlata e neppure il Petrocchi la come dell'uso vivo, ma essa è sempre adoperata dai bottaj almeno a Castelfiorentino, come mi assicura il collega prof. V. Niccoli della R. Scuola Superiore di Agricoltura di Milano,

*) Verrebbe fatto subito di pensare a rumore ridottosi a remor in testi antichi dell'Alta Italia e a rimore nell'Italia centrale (Arch. glott. III 453 n), ma questo non sarebbe ora l'esempio meglio op- portuno, sebbene anche di esso sia da tener conto.

Note etimologiche. 551

tica iniziale 7e- confusa coll’omofono prefisso; ed eccoci alle forme zina, zinna di altri dialetti e anche Zejna in quelli dove ¢ latino può ridursi a ci. Ancora: da reginare è lieve e conforme anzi alle tendenze dialettali dell’Alta Italia, il trapasso a regenare, e di qui regéna, gena, donde il zena veneto non rammentato dal Nigra ma non omesso nel Vocabolario del Boerio, mentre il zena di Ro- magna, dove e risponde a < latino, risalirà a gina. E il milanese gina, ginna? Non si vorrà di certo vedere in esso la diretta continuazione del latino regina, gina. Esso invece, come pure il sardo gina, deriverà bensì da regina ma attraverso la forma rejina, la quale, com'è risaputo, è anche quella per cui passò regina ‘sovrana’ per diven- tare reina nell'antico italiano e nel provenzale, reine nel francese. E jina, che è poi tal quale il nome siciliano, potè ben ridursi a gina nel milanese (SaLviont, Fonel. mil. n. 160) e a ina nel bresciano (cfr. per la caduta del j reina ‘sovrana ’). Del resto nel milanese si ha anche zinna non indicato dal Nigra, bene dal Salvioni (op. cit. n. 362) e che rappresenterà un'ulteriore riduzione di gina da jina. Resta il padovano e trentino zigna. Si tratta evidentemente di un deverbale di zignar da *ginicare, giniare derivato a sua volta da gina.

Una conferma che i nomi dialettali fin qui esaminati sieno da riconneitere a *ruginare derivato da ruga, si ha, secondo me, anche in quelli francesi e provenzali riportati in principio, e dei quali, come ivi è accennato, non è an- cora stata data l’etimologia '), ma che si possono ricon- durre regolarmente per ciò che concerne la fonetica, e con piena soddisfazione anche per il significato, a un altro pos- sibile derivato di ruga a *rugabulum. Dalla base ruga-

1) Veramente il Mistrat nel Dizion. prov. dopo la parola gaule, jaule, jable mette fra parentesi «lat. capulum », etimologia che ap- paga poco per il senso e foneticamente urta contro la difficoltà della riduzione di c- in g-. ll riflesso prov. di capu è cap.

552 L. Biadene,

bulu infatti non si sarebbero potuti avere che da un lato in francese e in provenzale ru- regable, rejable e dal- l’altro in provenzale ru- regaule, rejaule (cfr., se non è superfluo, per il doppio esito di -bul- dopo la tonica in provenzale, tabla e nebla accanto a taula e neula). Poi appunto con quella stessa aferesi della sillaba iniziale re-, a cui abbiamo visto essere andati soggetti i nomi italiani della ‘capruggine’, da un lato si sarebbe avuto gable (nell’antico franc.) e jable (franc. e prov.), dall’altro 1 prov. gaule, jaule, jaulo 1).

Non. altro poi che la continuazione di ru- reginare sarà il verbo francese rainer (per il mutamento dell’e in a si confronti ancora raina ‘sovrana’ invece di reina) rimasto anch'esso fin qui d’etimologia oscura (lo Scheler soltanto propose dubitativamente di derivarlo dall’antico francese rain ‘confine di bosco’, che si crede sia l’antico alto tede- sco rain ‘orlo’, mentre anch’ esso il termine francese, pro- babilmente sarà derivato da rainer!) e che significa « faire des rainures». E rainure, come ci apprende il Vocabo- lario del Littré, è termine usato nell’arte del falegname e indica la «scanalatura che si fa lungo lo spessore di una tavola per mettervi dentro una linguetta o per ser- vire d’incastro ». Come si vede è appunto la ‘capruggine’. E rainure è anche termine anatomico usato al plurale per dire le ‘cavità che si notano sulla superficie e per lo lungo

1) In provenzale, o propriamente nel limosino, si ha anche gaulho, goulho, definito dal MistRAL « creux l'eau sejourne, flaque, gächis, boue ». Ora anche questa parola risalirà a ri- regabulu, derivato da quella radice rig- da cui in italiano si ha rigagnolo. Per la caduta della sillaba iniziale e anche per il significato fa riscontro al termine provenzale il veneto gutolo « condotto d'immondizie che v'è lateral- mente ad ogni strada o calle di Venezia, dove si perde l'acqua piovana » (BOERIO), passato poi anche a significare, appunto come il termine provenzale, melma, putridume’ (Ive, Dialetti dell’ Istria, p. 87), e che non sarà se non ri- regatolo (rig-att-olo). Per il suffisso “atto aggiunto al medesimo toma si confronti il portoghese regato * torrentello ”.

Vote etimologiche. 553

delle ossa’. Siamo sempre al medesimo concetto, a quello di ‘ruga’. Con rainer e rainure andranno messi insieme naturalmente anche rainoir ‘lo strumento che serve a rainer’ e raineau, di cui vedasi il Littre.

Rimane sempre da spiegare il nome italiano capruggine. Che sia da riconnettere al latino caperare ‘rugare, cor- rugarsi’, come proponeva il Galvani, credo nessuno vorrà dubitare. Ma in qual modo? Si badi. Come invece di ru- gare par certo, dopo quanto si è detto di sopra, si sia adoperato »uginare per dire ‘far le capruggini’, così con perfetta analogia in alcune parti d'Italia invece del sem- plice caperare si usò caperinare, secondo risulta dai nomi abruzzesi capernalure, caprennalure ecc., i quali presup- pongono un tal verbo. Dunque come caperare e rugare in latino dicono precisamente lo stesso (FORCELLINI), così anche caperinare e ruginare. Questi due verbi di signifi- cato identico bene avrebbero potuto fondersi in uno solo, *capruginare, da cui si sarebbe potuto cavare caprugina ridottosi poi a caprugine, capruggine, a somiglianza de- gli altri nomi in -uggine. Sennonchè, a dir vero, siffatta spiegazione sarebbe originata soltanto dalla seduzione di far entrare in capruginare quel medesimo ruginare da cul, come s'è visto, deriva la maggior parte dei nomi dia- lettali italiani della capruggine. Ma è una seduzione a cui bisogna saper resistere. E come nell’Abruzzo dal solo ca- perare, caperinare si fece capernalure, così capruggine poteva formarsi, e si sarà anche formato, dal solo *capera col suffisso -ugine. La ragione della scelta del qual suffisso, che ha valore diminutivo ma anche collettivo (cfr. lanu- gine, caluggine), potrebbe essere stata questa: che la ‘ca- pruggine’ non è l’intaccatura di una sola doga, l’in- sieme delle intaccature di tutte le doghe.

Giacché la capruggine ci ha condotto alla ruga e ad alcuni suoi derivati, sarà opportuno continuare nominan- done alcuni altri finora, per quanto mi consta, non rico- nosciuti per tali. Tali invece, secondo me, sarebbero, per

504 L. Biadene,

incominciare dai latini, corrugus e arrugia (K6RTING Wb. 770° e Nachtr. 766, 770*), di ambedue i quali reca esempj il Forcellini da Plinio; arrogium (Kôrrtina Wb. 766), che compare già in documenti spagnuoli del 775 e a cui cor- risponde lo spagnuolo e portoghese arroyo, arroio; rugia frequente negli Statuti e in carte medievali massime del- l’Alta Italia, nei dialetti della quale continua sempre a vi- vere, naturalmente modificato secondo la varia indole dei medesimi (friul. roje, roe; ven. rogia e nell’alto trevigiano anche ru, lad. centr. roia, roa, ru; trent. roza; lomb. rogia, roza, ronza). Prima di far vedere come essi pos- sano discendere da ruga, gioverà rammentare che anche senza partire dalla prima radice di tale parola, radice in- torno a cui del resto sembra non si sieno messi bene d’ac- cordo i filologi *!), pare si possa stabilire che nel latino almeno il significato suo fondamentale sia quello di ‘cavità tanto o quanto prolungata’, di ‘solco’ ?). Rugae infatti, come si sa, si chiamano in latino e ‘le pieghe della pelle contratta della fronte’, quelle che noi diciamo appunto anche ‘solchi’, e le ‘pieghe delle vesti’. Soltanto movendo da questo concetto si può rendersi ragione che ruga sia potuto passare a significare, com’ à noto, fin dalla bassa la- tinità quello che dice anche ora in Francia (rue) e disse anche da noi nel medioevo, ‘strada’. E rughe si sono chiamate specialmente le strade di città, le quali, fiancheg- giate come sono da case, somigliano appunto a grandi solchi, a canali. Ora, tenendo presente questo significato fonda- mentale della parola, apparirà chiaro, credo, quello che sembra strano non siasi finora riconosciuto, che rugia del

1) Cfr. VANICER, Griech.-Latein. EWb. Il, 920, che cita in nota le opinioni del Brugmann e del Fick differenti dalla sua.

*) La definizione del Forcellini « Ruga proprie est plicatura et quasi porcae, non sulci, species in cute contracta, aspera et inaequali ut in senibus videre est » andrà probabilmente, con lieve trasposizione delle prime parole, modificata così: « Ruga proprie est plicatura et quasi sulci, non porcae, species, ecc. ».

Note elimologiche. 599

latino medievale significante appunto ‘canaletto, torrentello, gora’ non può essere nell’Alta Italia che la normale ridu- zione di rug-ula rugla. La voce rugia dunque etimologi- camente indica non l’acqua del torrente, l’alveo del medesimo. Una volta così spiegata rugia è spiegato anche arrugia ‘cuniculum subterraneum ex quo effuditur aurum ”, una galleria dunque, una specie di canale cuperto, un'a?- rugula, una piccola arruga, come si dice in Ispagna in- vece del semplice ruga ‘strada’. Questa voce arrugia, che il Forcellini, da cui abbiamo tolto la definizione test& da- tane, dice «hispanica» e «ad latinam consuetudinem tra- ducta », è dunque invece anch'essa di base latina e non si potrà dire spagnuola se non in quanto fu usata in Ispagna in questa forma e col significato che s'è visto. E poichè essa si è così atteggiata sul territorio spagnuolo, il suo gi non risalirà direttamente a -gl- come quello di rugia dell Alta Italia, ma rappresenterà invece la riduzione di j succeduto a sua volta a |. Notevole dunque questa voce, trovandosi già in Plinio, come testimonio dell’antichità della riduzione di -gl- a !. Da essa poi e da rugia non potranno disgiun- gersi arrogium e arroyo ‘ruscello’, come fece il Meyer- Lübke (Rom. Gramm. $ 21), il quale inchina a credere la parola di origine iberica. Quanto a corrugus, quando si sia rammentato che significa ‘fossa o canale nel quale si raccoglie l’acqua per lavare l’oro cavato dai metalli’, non si tarderà a riconoscere anche in esso un derivato di ruga o più esattamente di corrugare. Plinio inchinava a crederlo desunto da corrivare («corrugus vocant, a cor- rivalione credo» dice nel passo riferito dal Forcellini s. v.) e la sua opinione non sarebbe quindi esatta, ma in essa traluce forse un vago sentimento del vero, in quanto che rivare da cui rivus sembri veramente essere tutt'una cosa con quel rigare da cui viene l’it. rigagnolo. E questo rigare poi, se, come generalmente si ammette (ZAMBALDI Vocab. etim. 1067), deriva dalla radice indogerm. vragh ‘bagnare annacquare’, non ne deriverà, per così dire, se

556 L. Biadene,

non per metà, dovendo essersi fuso anche col rigare cre- sciuto dalla radice rig- che è nel lat. di-rig-ere!), e dal quale può bene essersi cavato riga, che non riprodurrebbe quindi, come si crede dai più (Kôrrtina Wb. 6921, Zam- BaLDI 1066), l’antico alto tedesco riga, bene avrebbe comune con questo la radice originaria ?). La convenienza di ammettere la fusione testé accennata dei due verbi rigare (se pure nella primissima origine sono davvero due!) mi sembra apparire chiara quando si pensi che i rivoli o ri- goli sono bensì fatti d’acqua ma a vederli sembrano righe o righi, e che quando diciamo di alcuno che le lagrime gli rigano il volto, intendiamo di dire che glielo ba- gnano ma tracciando delle righe. Ora fra rigare connesso con riga e rugare c’è di certo somiglianza oltre che di suono anche di significato, e vien fatto subito di pensare che ruginare siasì tramutato in riginare, reginare per influsso di ‘riga’. La ‘capruggine’ infatti se è una ‘ruga’ è in fondo anche una ‘riga’. Si potrebbe anzi chiedere perchè per ispiegare ì nomi dialettali della medesima mag- giormente in uso non si parta a bella prima da riginare derivato da rivare e riga. È pronta la risposta. A ca- pruggine risponde meglio l’idea di suga che non di riga, e inoltre l’alessandrino Zeina, che coincide coi nomi della capruggine nell’Alta Italia, come rammenta il Nigra 1. c.

ue

1) In uno degli antichi glossarj latini rigare è spiegato con dirigere e in un altro rigabant è dato come equivalente di umectabant (GOETZ, Corpus gloss. lat. IV 280, 14, V 631, 13).

3) Alla probabilità che sia avvenuta qualche confusione fra rigare ‘bagnare’ e rigare ‘tirar lince’ acconnô già il Pieri, Arch. glott. XV 188n e anche D. Zaccaria nel libro testo uscito L'elemento ger- manico nella lingua italiana, Bologna, Treves, 1901 (p. 401). E giacchè mi è occorso di menzionare questo libro, ne prendo occasione per dire che aprendolo a caso qua e o svolgendone poi in fretta alcune pagine mi sono persuaso continuarsi in esso a dare, come si 6 fatto fin qui, etimo germanico a non poche parole, le quali si dovranno ricondurre a base latina, come per alcune avrò l'oppor- tunità di mostrare nella seconda di queste note etimologiche.

Note etimologiche. 597

significa ‘il solco che fa nella pelle un legaccio stretto, o una piega dell’abito compresso sul corpo’, vale a dire ha appunto i due significati nei quali fu usato il lat. ruga. Del quale ci sono altre voci che confermano essersi alte- rato in riga. Infatti, che cosa altro sarà mai il toscano righello ‘spazio fra due letti o fra il letto e il muro” se non rughello 1)? E regghia registrato dal Redi nel Vocab. aretino col significato del lombardo r'onsgia (CHERUBINI s. v.) ci può esser dubbio che non derivi da rigula, regula in- vece di rugula *)? E righinelta ‘piccolo cornicione che si fa alle case per tutta la lunghezza della facciata sotto poco alle finestre di ciascun piano’ potrà dirsi che è soltanto ‘una piccola riga’ ? O più veramente, come il genov. zinna usato anch'esso, secondo il Nigra l. c. rammenta, per ‘orlo di tetto o di muro’, per ‘cornice’ dunque, non richiama l’idea di ruga, non nel significato originario di ‘solco’ ma in quanto l’idea di solco possa facilmente confondersi con quella del lat. porca e passar quindi a denotare ‘spor- genza?’ *) Di più: altri nomi dialettali della ‘capruggine’ raccolti dal Nigra I. c. e qui sopra non riferiti, significano anch'essi ‘intaccatura incavo’ ruga dunque.

Conchiudendo ripeteremo che ruginare si sarà tramu- tato in r'i- reginare per essersi venuta a confondere l’idea di ruga con quella di riga *).

1) Se ne ha la conferma nell'espressione veneta corrispondente, che è canesela del leto callicella del letto”.

3) Il Caix, Studi di etim. rom. n. 481 si era accontentato di spie- garla «Quasi *rigula da riguus ‘irrigatorio '».

®) Badando al significato che può avere il genov. zinna, il Nigra l. c. potè per un momento pensare, come s'è detto in principio, che la parola riproducesse il tedesco sinne ‘orlo di muro”.

“) Resterebbe da spiegare il lat. caperare, e ne arrischio qui ab- basso la spiegazione. L’Ascoli, come si è veduto, lo deriva da *ca- pera, invece il Vanicek op. cit. I 115 da *cap-erus, vale a dire da quella radice cap- da cui si ebbe il lat. capere. Col quale quanto al significato, per incominciare da questo, sembra convenir bene ca- perare. Se *capera infatti al pari di ruga dice ‘solco’, in quest'idea

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Io non mi sono proposto di rintracciare nelle varie lingue romanze tutti i derivati di ruga a prima vista non facilmente riconoscibili, e cercando se ne potranno aggiun- gere altri a quelli più sopra esaminati. Non lascierò per altro di dire che il molto disputato ruscello di Toscana, al pari del non meno disputato ruisseau (KürTING Wb. 7005 e cfr. anche 6950) francese (anticamente ruicel, russel e roissel, roisseaus, rossel), discenderà da rugulicello pas- sando per ruglicello, ruljicello'), rujicello, ruicello, ru- cello *). E a rucello corrisponde ruscello come bruscello a brucello.

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c'è quella di ‘cavità’ e quindi anche di ‘contenenza’, la qual ultima è appunto espressa dal lat. capere e anche dall’it. capire usato in senso proprio. Ma come si sarebbe formato caperare? Ecco. Non so o non rammento, e non ho ora il tempo di ricercare, se sia stato notato da altri che ci sono in italiano alcuni verbi terminanti in -erare (p. es. buggerare, spifferare e probabilmente anche chiac- cherare) i quali, quando -er- non sia già contenato nella base, come in Ziberare, si possono bene spiegare quali ampliamenti di verbi già in -are, a cui siasi aggiunto una seconda volta questo medesimo suffisso. Poi -arare, che in certi dialetti conserva intatto il primo a (cfr. il ven. buzarar accanto al tosc. buggerare) si tramutò in toscano facilmente in -crare. Se si può ammettero cosiffatto modo di for- mazione verbale anche in latino, sarebbe spiegato caperare, e re- sterebbe soltanto da vedere se la desinenza -are sia stata aggiunta a capere o non piuttosto, ciò che mi sembra molto più probabile, in analogia dei verbi italiani, a capare sortogli accanto con passaggio di conjugazione, se non già ad esso preesistente. Quanto a capera poi, sarebbe deverbale di caperare.

1) Precisamente come da *rug(u)lare si ha, accanto a rugghiare, anche rugliare. Ved. D' Ovipio, Arch. glott. XIII, 438. Con rugliare poi andrà messo insieme anche il cognome toscano Ruglioni.

3) Per la caduta dell'i si confronti, per citare un solo esempio, frate dal più antico fraile da frajile, fragile.

Note etimologiche. 559

2. ven. bovolo, ital. botolo ... burlare... arrabaitare ... ballare... barare e in generale i derivati del lat. bolutare, balutare per volutare 1).

ll ven. bovolo significa ‘chiocciola vortice cateratta mu- linello ghirigoro’, donde le dizioni a bovolo ‘a spire’ im- bovolar ‘inanellare’. Il Salvioni (Zeitsch». f. rom. Phil. XXII 466, Romania XXVIII 109) pensa che bovolo possa essere diminutivo di bove; ma quest’etimologia fa inar- care le ciglia, chè «il significato della base bove può difficilmente concordare con quelli di bövolo», come notò già il Nigra (Arch. glott. XV 280n); il quale invece trae la parola dal pliniano boa bova ‘serpente acquatico’, ri- flesso nel bl. boba ‘species serpentis’ del Carpentier » (op. cit. p. 279). Ma quanto meglio non si dichiarano tutti i significati di bovolo se lo ragguaglieremo a bodolo, bo- tolo, come il ven. covolo ‘ciottolo’ non è che codolo? Giacchè i più noti derivati di Dotulus, e in generale di quella che si suol dire radice bol- bod- (Körting Wh. 1296), esprimono sì, come comunemente si pensa, l’idea di ‘gonfio’, ma anche, e forse meglio, quella di ‘rotondo ravvolto’, da cui l’altra doveva facilissimamente svilupparsi. Ora se que- st’ultimo può essere, come non tarderemo nel più certo modo a persuaderci che sia, il significato fondamentale di botulus, vien fatto subito di pensare che in esso si debba riconoscere un deverbale di botulare per bolutare invece di volutare ‘voltare’ da volvere. E sarà questo un nuovo esempio da aggiungere a quelli raccolti dal Parodi (£o- mania XXVII 177 sgg.) del passaggio del v in d nel latino volgare. Della giustezza di tale congettura si ha su- bito una conferma nella facilità colla quale per essa si

*) [Come apparisce da ciò che diciamo nel Poscritto, questo titolo non è esatto, e meglio che di derivati del lat. bolutare, sarà da par- lare di derivati dalla radico bal- per val-.]

560 L. Biadene,

spiegano alcuni derivati di botulus spiegati in modo meno piano da altri. Così il Mussafia (Beitrag p. 34) per ren- dersi conto di quelli principianti da bold-, come p. es. boldon ‘salsiciotto’ dei dialetti dell'alta Italia, immagina che bo- dulus bodlus siasi poi ridotto a boldus. Invece, senza bi- sogno di ricorrere a una non comune metatesi, da bolu- tare si ha regolarmente boludar, boldar, donde bold-. Una poi delle migliori conferme della congettura dianzi esposta ci è offerta - e parrà strano dall’it. burlare. Questo verbo si suole far derivare da *burrula ‘bazzec- cola, baia’ (Körting 1425) diminutivo di burra (Körting 1424), che comincia ad apparire nel latino della decadenza e sarebbe sorto non si sa come. Invece mi sembra assai probabile che l’origine di burlare sia questa. Nel latino vol- gare esisteva il vb. bolutare per volutare e accanto ad esso, come già si potrebbe argomentare da bolulus, anche la sua riduzione metatetica botulare. Così bol- come bolu- lare potevano poi di leggeri ridursi per assimilazione vo- calica a bul- butulare, e vi si ridussero infatti, come ap- parisce dal chianajuolo e aretino butolare ‘voltolare per terra’ ricordato dal Redi e non del tutto esattamente spie- gato dal Caix (Studi n. 242). Ora l’uso promiscuo e indif- ferente di due figure così poco dissimili quale bulutare e butulare di un medesimo verbo, doveva far che con tutta facilità si fondessero in una terza, bululare, ridottasi poi per dissimilazione a burulare, donde Pit. burlare (cfr. urlare da ululare). Per il senso l'etimologia calza benis- simo, ché burlare qualcheduno significa appunto “avvol- gerlo avvilupparlo’ affine di trarlo in inganno. Ma che dico? Movendo da burulare non è spiegato benissimo il lom- bardo borla ‘rotolare ruzzolare” e con esso non sono spiegati tutti quelli che riconoscono subito come suoi derivati scor- rendo i dizionarj lombardi? E ora intendiamo bene che nel- l’ Inferno dantesco l’avaro rinfacciando al prodigo il suo vizio gli gridi: «perchè burli?» volendo dirgli « perchè butti via?» Non ho detto a caso bulli, chè quantunque si inchini a

Note etimologiche. 561

credere di etimo germanico Pit. buttare (Körting 1296), que- sto risalirà certamente a bulutare, bultare, non avendo in nulla d’inverosimile l’assimilazione consonantica e potendo ricondursi a quello di bolutare tutti i suoi significati, an- che se alcuni se ne sieno allontanati. E come bultare si ridusse a bultare così boltare a bottare, che è nell’ it. im- boltare, imbottire, in cui si ha il solito trapasso di signi- ficato da ‘involgere’ a ‘riempire gonfiare’. E da bultare buttare deriverà, 10 credo, anche bolle ‘otre vaso rotondo e gonfio’ fin qui tenuta d’origine oscura e, se mai, greca (Körting 1435) e il piemontese botta insieme all’equiva- lente it. bottiglia, tutte parole coll’o stretto, mentre il to- scano botta ‘rospa’ collo largo sarà da boltare e vorrà propriamente dire ‘la rigonfia’. Ora intendiamo che nel- l'Alta Italia si dicano butti le ‘gemme delle piante’, le quali sono rigonfiature e quasi bolle della corteccia dei rami e si capisce che facilmente la stessa parola sia pas- sata a significare ‘germoglio ramicello’ e che buttare possa valere ‘metter fuori le gemme e i primi germogli’. Da but- tare poi dovrà considerarsi come derivato buttar-are, bul- terare, donde così il bultero del vaiuolo, che è appunto una ‘bolla della pelle’ e per ispiegare il quale si ricorse nientemeno che all’arabo (Körting 1298), come il builero ‘mandriano dalla campagna romana’ che bulla, caccia, spinge innanzi a i cavalli.

Accanto a bolutare potè aversi e si deve anche aver avuto bolul-ic-are, bolutiare, boltiare. Di qui bolzone spe- cie di dardo arrotondato in punta’ fatto da altri risalire a base germanica (Körting 1414) ma che al Diez EW. 58 parve giustamente di dover riconnettere a bulla (bull tio). E come boltare si ridusse a bollare così boltiare a bot- liare e alPital. bocciare. Dire di qualcheduno che è boc- ciato agli esami vale quanto dire che è ributtato, rigettato. E come buttare nell’Alta Italia potè passar a significare ‘rompere la corteccia delle piante’ e in generale ‘germo- gliare’, lo stesso avvenne in Toscana di bocciare usato nella

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562 L. Biadene,

forma sbocciare, ma da cui si ha doccio e boccia ‘fiore non sbocciato’; e la boccia ‘palla da giuoco’ è anch'essa così chiamata perchè rotonda. E per la stessa ragione ideale per cui da boliare, bottare si ebbe in Piemonte botta e in Toscana bottiglia si ebbe qui da bocciare anche boccia ‘vaso di vetro tanto o quanto rotondo’. E da bulutiare, bul- tiare deriva il bucciare di sbucciare e buccia, che è pro- priamente la parte esterna di certe frutta che ne contiene, ravvolgendola, la parte mangiabile. Sennonchè bottiare po- teva ridursi anche a bozzare e di qui bozza creduta di origine tedesca (Kórting 1436) e tutti i suoi derivati.

A bo- butulare poi e alle altre forme sopra congettu- rate del medesimo verbo e uscenti in -ulure, per la solita illusione che -ul- fosse elemento suffisso, si credette di far corrispondere forme derivate direttamente da quella che ne pareva la radice, e da queste poi, per via di suffissi, si formarono, al solito, nuovi verbi e nomi.

E così a bo- butulare fa riscontro il provenz. botar, bu- tar, il sicil. sbutari ‘voltare’, e non dico il ven. butar, che può ragguagliarsi anche a buttare. Parimenti a bo- bulare risponde bulare, donde il ven. bulo ‘tronfio’ e bo- lare, donde poi bol-occ-are, bloccare ‘avvolgere, circuire, stringere in cerchio e quindi togliere le comunicazioni col- l'esterno a chi è circuito’ e blocco anche nel senso di grosso pezzo di ‘marmo’, creduti fin qui di origine tedesca (Körting 1258). E direttamente da bolare si cavò bolo, nome che si continua a dare in Toscana alla scodella della forma quasi di mezza sfera, rotonda dunque. Nello stesso modo bo- burulare deve esser sembrato derivare da bo- durare; di qui burattare e buratio, che, come tutti sanno, è quel- l’ oggetto di forma cilindrica e coperto di tela entro il quale si burula o bulula o buluta o rivoltola la farina per cernerla dalla crusca, e di qui anche boraccia così chiamata, al pari della botta piemontese e della boccia ita- liana, dalla sua forma rotonda, e borela nome della palla da giuoco nel Veneto, e di qui in generale tutti quelli che

Note etimologiche. 563

si dicono derivati di bura (Körting 1414 e ved. anche 1422). Già nel lat. si ha buris conservatosi nell’it. bure ‘stanga dell’aratro curva davanti”. Siamo sempre all’idea di rotondo. E come b(o)loccare da bolare, così da borare si fece b(0)- roccare, broccare e brocco fin qui fatti risalire a radice celtica (Körting 1353) e brocca in quanto dice ‘vaso per l’acqua’ ricondotto al greco quando non alla medesima ra- dice di brocco (Zambaldi p. 258). E alla stessa base risale il ven. broca ‘bulletta’ che ha la testa rotonda o gonfia, al pari del tosc. borchia, cioè bor(o)c(u)la, mentre bricco ‘vaso’ sarà b(o)r-icc-o. E movendo da altri significati che può avere borare si spiegherà ogni altro bricco e perfino briccone.

E poichè da quanto sopra si è detto si capisce come broc- care nell’Alta Italia potesse significare ‘sbocciare germo- gliare” e brocca ‘germoglio ramicello’ e poi anche ‘insieme di piu ramicelli’, non mi par dubbio che brolo, voce an- che questa usata specialmente nell’Alta Italia e nella Fran- cia meridionale e per la quale finora non si era saputo proporre che un etimo celtico (Körting 1356), sia derivato da b(0)r-occ-il-are, brocilare, donde poi regolarmente br'o- gilare, brojilare, broilare. Si badi che la forma della pa- rola nei testi latini medievali è appunto brogilus, broilus e negli antichi testi del" Alta Italia broio ridottosi poi a brolo e 'bruolo come voilo a voto e vuoto. Per il senso l'etimologia è soddisfacentissima, chè si chiama brolo un tratto di terreno, d’ordinario vicino alla casa, piantato d’al- beri. E in conferma di tale etimologia si può aggiungere che nell’aretino brolla è usato per ‘frasca’ e nel piemon- tese sbrole significa ‘sfrondare’ (cfr. Parodi, op. cit. p. 31 n).

Accanto a brolare si ebbe broliare e di qui broglio e imbroglio ‘viluppo’. Ritorniamo dunque sempre all’ idea di bolutare.

E insieme con bo- burulare e bo- bululare dovette aversi bo- burutare, giacchè da questo ridottosi a bor(o)dare si manifesta derivato bordo ‘ciò che è attorno ad una cosa,

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che la ricinge’ (sempre il concetto di bolutare) e quindi anche l’estremità della cosa stessa, fin qui creduto erro- neamente d'origine germanica (Körting 1287). E da bordo il verbo abbordare usato, oltre che nei significati più noti, anche in quello di approdare. Il qual ultimo è, inutile dirlo, derivato da proda, voce che secondo la recente ipotesi ti- midamente messa innanzi dal Pieri (Arch. gloit. XV 384 n) risalivebbe a base greca, mentre il Diez la credeva di etimo germanico e il Canello (Arch. glott. III 360) pensava potesse essere trasformazione del lat. prora, ma non sarà invece che deverbale di *prodare da b(o)rodare, quale che sia stata la ragione del tramutamento di br- in pr-!). Dunque bordo e proda etimologicamente sono la medesima parola. Sennonchè bordo doveva anche poter significare quello stesso che nell’Alta Italia butto e brocco e brocca ‘ger- moglio ramicello verghetta”, e di qui bordone ‘bastone dei pellegrini’, cioè ‘grande bordo’. E come, secondo si è ram- tato sopra, l’aretino brolla significa non ‘ramicello’ ma per estensione ‘frasca’ così il semplice borda, se è voce auten- tica (cfr. Arch. glott. XV 145 n), potè dire ‘ramo bastone randello’. E come da bastone si fece bastonare così si po- trebbe spiegare che da bordo o borda ‘bastone’ si sia fatto bordure ‘percuotere con forza’; sennonché di tale signifi- cato ci possiamo render conto anche pensando che bolla ‘percossa’ deriverà pur esso da bollare, bottare. E bordoni ‘giovani penne degli uccelli, peli’ risalirà anch'esso al me- desimo bordare. Questi sono come i butti, i brocchi della pelle. Ma quale la ragione della desinenza -one, se anzi il concetto è diminutivo? Ecco: non si tratterà di un diretto derivato di bordo ma di un deverbale di bordonare, che

*) Forse invece di abbrodare si foce approdare per influenza di prope, giacchè non si tocca la proda o riva senza avvicinarsi ad essa. Se questa congettura colpisce giusto, non si sarebbe avuto veramente da prima un verbo *prodare ma soltanto brodare, da cui broda al- teratosi in proda dopo la formazione di approdare.

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significa non come il semplice bordare ‘cacciar fuori qua e i bordi", ma cacciarli fuori in quantità e spessi in modo che se ne ricopra tutta la pelle. Seguitando, rammen- teremo che bolulare oltre che ‘volgere involgere’ significa ‘gonfiare riempire’ e ‘riempire’ si confonde col semplice ‘metter dentro’. Ora da b{o)rodare in quest'ultimo signifi- cato penso sia derivato brodo, creduto di etimo germanico (Körting 1361) e che significa non l’acqua chiara e lim- pida l’acqua in cui è stato messo dentro qualche cosa in modo da renderla torbida e densa. E così si capisce che broda significhi ‘acqua imbrattata di fango e d’altre immondizie’ e che Dante abbia potuto chiamare con tal nome la palude stigia. E così si capisce anche che alcuni derivati dialettali di brodare e burdare significhino ‘in- sudiciare’ !), E si può forse dubitare che non risalga alla stessa base anche l'italiano brutiare *)? Di qui brullo nel senso di ‘sudicio scuro nero’, mentre nel significato che an- che ha nell’italiano, di ‘deforme’ sarà da bfo)rulare per bolutare nel senso di ‘involgere’ e quindi ‘stravolgere e con- torcere’. Da bur(ultare poi, con caduta della consonante iniziale, che dovrebb'essere molto antica e non manca di persuasive analogie, inchinerei a credere derivato ware, per il quale si era pensato a etimo celtico (Körting 8522) §). Il significato di wrlare è appunto quello di dare una bolla (da bol(u)tare, si rammenti) contro qualche cosa, e a me nell’alta provincia di Treviso sembra di aver udito qualche

1) Ne cita parecchi, rimandando anche a coloro che ne hanno di- scorso, il Seifert, Glossar zu den Gedichten des Bonvesin da Riva, p. 1, s. v. aberdugar.

*) Ci si aspetterebbe brutare, da cui sarà veramento bruto, che si suppono siasi tramutato in brutto per il raddoppiamento della con- sonante postonica (Meyer-Lübko, Ital. Gramm. $ 267), avvenuto an- che in altre parole. Forse come accanto a but- si aveva butt- di le- gittima origine, così accanto a brut- si ebbe brutt-.

3) Giusto sarà invece ravvicinarlo, como altri fece (Zambaldi s. v.), al lat. urgere, di cui si ammette che la radice sia (v)#rg- per varg-, la quale in ultima analisi sarà poi var-.

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volta i contadini pronunciare s-burton invece di urlon ‘grande urto”.

Ritornando a bolutare, noteremo che la sua forma sin- copata blulare è registrata dal Du Cange, da cui si apprende che un’antica glossa spiega blutaverit con evacuaverit !). E s'intende. Quando si volta un vaso pieno lo vuota. E vuotare poi vuol dire fare il vuoto in genere, togliere tutto ciò che è in qualche luogo e di qui si passa al signi- ficato di ‘privare spogliare’. E non c’è quindi bisogno di derivare dal tedesco, come si suole fare, il bioto degli an- tichi testi dell’Alta Italia e che significa appunto ‘privo spoglio nudo misero’. Col medesimo trapasso di significato si comprende che anche brullo, brollo significhi ‘spoglio.

Accanto poi a bo- burulare poteva aversi, con facile metatesi, bo- bulurare, bo- bulrare donde bo- burrare. Ed ecco così determinata la provenienza di quella già malnota burra *), di cui si fece cenno in principio, ed eccone an- che riconosciuto il primo significato. Chê se bo- burrare, riconnettendosi in fondo a bo- bulutare, vuol dire ‘invol- tare riempire gonfiare’, borra è appunto tutto ciò che ‘riempie gonfia’.

Lascio di citare altri derivati di burra e borra oltre quelli facilmente riconoscibili e già riconosciuti per tali, ma non voglio omettere di dire che anche burro, per il quale non si seppe far altro che ravvicinarlo, come va cer- tamente rovvicinato (Körting 1433), a dutyrum, non sarà che bulurato, giacchè per fare il burro conviene sbat- tere il latte e sbattendolo lo si rivoltola, oltre che poi gli si una forma tanto o quanto rotonda e, alla vecchia maniera, lo fa entro un recipiente cilindrico, rotondo dunque, che potrebbe quindi anche chiamarsi burula. E

*) Il Du Cango rammenta anche che il Muratori riconobbe già la identità etimologica di blutare o bluttare con brutare o bruttare.

*) O burra non è altro che dura col raddoppiamento della conso- nante postonica?

Note etimologiche. 567

butyrum? Lo si crede tutt'uno col greco fovrvgov, ma potrebbe anche essere da butirar'e per but-il-are invece di bulolare, con iscambio di -il- invece di quello che pareva suffisso -ol-.

Ancora: ben potrebbe, secondo me, da butulare derivare il lat. bullare divenuto poi con passaggio di conjugazione, bullire, e di bulla e i suoi derivati neolatini (Körting 1410 e 1413). Quando l'acqua bolle non fa che avvol- tolarsi. Da bullare si fece bulliare riprodotto nell’antico italiano bugliare ‘sollevare agitarsi’ e di qui buglia e sub- buglio e buglione, che anticamente ebbe anche il signifi- cato del francese bouillon. Potrebbe quindi essere che brodo anzichè da borutare nel significato prima detto venisse da quello che poteva avere di ‘bollire’. Così per altro si spie- gherebbe meno bene broda.

E non basta. Viene ora il piu nuovo se non il piu bello. Invece di boldon nell’Alta Italia si dice anche baldon (Mus- safia, op. cit. 1. c.), e allo stesso tema si senti già da altri di dover riferire Vit. baldracca, che non sarà veramente se non bal(u)d(a)r-acc-a. Ora in tutte due queste voci nella prima sillaba si ha a invece di o e sorge il dubbio che bolutare siasi anche trasfigurato in balutare. È un dubbio che si risolve subito in certezza. Giacchè chi vorrà sana- mente disgiungere da bolutare il ballare dell’it. ri-baltare? E, si badi, la riduzione di bolutare a balutare, baltare, dev'essere antica, già latina, chè da quest’ultimo si può bene far discendere balteus nome, come si sa, del ‘cin- golo militare’, di un oggetto dunque avvolto intorno alla persona.

L’analogia poi delle trasformazioni di bolutare e di quelle di balutare è piena ed intera. Quindi: come bultare a but- tare così baltare poteva ridursi e si ridusse di fatto a battàre. Ed ecco in tal modo spiegata l’origine di quelle voci, la maggior parte dialettali, che il Parodi (op. cit. pp. 23-24) aveva tentato, non senza sforzo del loro signi- ficato, di ricondurre a bad'tare da baditare per va-

068 L. Biadene,

ditare da vadere, e delle quali basterà qui a me di citare l’it. arrabbaltare, che benissimo, anche per il signi- ficato, si lascia invece riportare a ad-re-ad-bal(u)tare. E a quella guisa che, a parer mio, bo- bullare da bo- but(u)lare, così non da altro che da bat(u)lare deriverà ballare rimasto fin qui tanto o quanto enigmatico e dai più ravvicinato al greco Baddewy (Körting, 1013) e da esso ballo ‘i giri e i vortici della danza’ e balla ‘cosa perfet- tamente rotonda in quanto sferica’ (siamo sempre dunque all’ idea fondamentale di bolutare) e i verbi imballare e sballare. Andiamo avanti. Come dovemmo ammettere che bo- bulutare avesse accanto a bo- bululare così si ma- nifesta necessario supporre l’esistenza di balulare accanto a balutare. E come a bo- bululare abbiamo visto rispondere il più semplice bo- bulare, a balulare fa riscontro balare. Ed ecco spiegata l’origine di tutte quelle voci nelle quali il Parodi (op. cit. p. 28), anche qui non chiaramente per il significato, credette di vedere dei derivati di ballis per vallis. Quando, per servirmi di un esempio citato dal Parodi, nel Veneto si dice del tempo che sbala, si vuol dire che ‘volta’ e si sottintende ‘al bello’. E quando nel Veneto si dice di alcuno che ha preso la bala ossia la ‘sbor- nia’, è lo stesso come si dicesse, espressione anche questa comune, che è sforno ossia stornato ossia rivoltato*). E allo stesso balare risaliranno, tranne ballare, anche tutte le voci che il Parodi (op. cit. p. 29) trae da ballu per vallus, fra cui anche balzare. Ma se baltare è, come non par dubbio che sia, bal(u)lare, non altro che bal(u)tiare, ba- Ku)ljare sarà balzare. E a bul(u)tiare riverrà anche la voce bazzom ‘vaso per l’acqua, il latte, il vino’ del la- dino centrale (Schneller, Roman. Volksm. 112), voce che

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1) Come si vede, non accetto la spiegazione del Lork, Altberga- maskische Sprachdenkm. p. 174, secondo la quale storno non sarebbe che il nome dell'uccello fatto aggettivo e applicato all'uomo, come è avvenuto del nome di qualche altro uccello.

Note etimologiche. 569

si manifesta subito imparentata col bozzon veneto e quindi coll’it. boccione e boccia.

Nei dialetti dell Alta Italia balare significa ‘tentennare’, e probabilmente il verbo è venuto ad assumere questo si- gnificato, perchè una cosa gonfia e tonda, una balla, sul piano sta difficilmente ferma, tende a muoversi, tremola. Ora il tremolare può essere anche un tremare rapido e forte, che produce il guizzo. Si pensi al tremolio delle stelle. Quindi non mi par dubbio che baleno ‘lampo’ tenuto dai più di etimo ignoto (Kérting 1013, Pieri, Arch. glott. XV 141) e dal Nigra voluto ricondurre recentemente all’ agg. *albenu da alba (Romania XXVI 556-7), sia veramente da connettere, come già propose lo Schuchardt (Romania IV 253), a balare, e sarà precisamente derivato da bale- nare per bal-in-are. La conferma di tale etimologia si ha nell’ altro significato che ha questo medesimo verbo, di ‘vacillare barcollare’. Inoltre: il tremare rapido di una cosa dinnanzi ai nostri occhi ha per effetto che non pos- siamo distinguerla nettamente, che dal tremolio rimania- mo quasi acciecati. Ed ecco così spiegato il bal-t-are che è in sbagliare, abbagliare, barbaglio (da barare + baliare) e che è certo da avvicinare ai derivati di bariu per va- rius, come fu già fatto da altri e ultimamente dal Pa- rodi, op. cit. 33-36, per la ragione da altri, a quanto mi consta, non detta, che baliare corrisponde a valiare, del quale variare non sarà che un’altra forma. E se, come nota il Parodi, op. cit. p. 34, nei derivati di varius c’ è anche l’idea di vagus, sarà perchè quest’ultimo, con tutta proba- bilità, non è che riduzione di valgus da valigare, val- ic-are, come vagina non sarà che valgina e avrà quindi, come io penso, lo stesso tema della variaruente spie- gata valigia, che in fondo sarebbe quello stesso di bolgia (bul-i(c)-a) e anche quello di bacino (bal(u)cino) e bacile. E da bal-(i)care sarà certamente venuto quel baccare, che è in abbaccare ‘accavalciare un fosso’ e bacco ‘salto’, come pensava il Caix, Studi n. 126. Il salto è un mezzo

10

570 L. Biadene,

cerchio, una volta che si fa nell’aria. Sennonchè dall’ idea di cosa rotonda e gonfia si svolge facilmente, e ne abbiamo citato già indietro qualche esempio, quello di ‘cosa cava”, di ‘vaso’. E così si spiega che da bdal(i)ca venga anche bacca ‘vas aquarium’ di Isidoro, da cui poi si fece bacca- rium e biccarium donde bicchiere. E perchè non avrà la stessa etimologia anche il lat. bacca, baca, nome di frutto rotondo? E poichè si è detto che bacca può dire anche ‘cosa concava, vaso’ si spiega che sia stato usato anche per ‘barca’ (cfr. Du Cange s. v.). E alla dimanda che fa il Parodi che cosa sia vacheta, che in un testo li- gure apparisce avere il significato di barchetta (Arch. glott. XV 80), sarà da rispondere che non è altro che val(t)chetia. Si avrebbe qui la stessa assimilazione consonantica, per la quale secondo me si ebbe in latino bucca e buca da bul- (i)c-a ‘cavità’.

Accanto a bu- borare si ebbe barare, cho dice press’ a poco bolutare ‘voltare’ e quindi ‘mutare di posizione e cambiare in genere’. E chi bara al giuoco cambia vera- mente le carte. Da barare in questo senso di ‘cambiare’ si è fatto barattare. Ma in barare, come in bolulare, c' é anche l’idea di ‘gonfiare’ e l’idea di ‘gonfio’ si confonde con quella di ‘mucchio’, ed ecco perchè dara nell’Alta Ita- lia significa ‘gran carico di merci’ e poi anche il carro su cui sono caricate. Ma nel tema di barare c'è, come già testè abbiamo detto per balare, anche l’idea di cavità, e così si spiega, senza bisogno di ricorrere, come si suol fare, a etimo tedesco (Körting 1125) che bara significhi ‘cassa da morto’. E da bar-ic-are sarà certamente barca creduta di etimo greco (Kórting 1052), così chiamata, al pari di bacca già sopra citata, perchè concava e curva. E una conferma di quest’etimologia si ha nell'altro significato di barca * quantità di materia ammassata’ da barare nel senso già sopra accennato di ‘ammucchiare’ sviluppatosi da quello di ‘gonfiare’. E da barare anche barile, di cui ora s'intende perchè sia parente della botte, e bar-acc-a, che vale pre-

Note etimologiche. 571

cisamente quanto trabacca (trabal-ic-a) ‘traballante’ e bar-occ-o ‘gonfio tozzo’ e barullare, barulla, barule, dei cui significati ognuno può rendersi ragione tenendo conto di quanto si è fin qui detto. Un notevole derivato di ba- rare nel senso di ‘ammucchiare confondere e anche tu- multuare’ è, secondo me, baraonda, per ispiegare la quale si ricorse nientemeno che all’ebraico (Caix, Studi n. 151 e cfr. Körting 1064), e non sarà invece derivata se non da barabundare dall’aggettivo verbale barabundus. La parola è certamente da un pezzo anche toscana (quale stu- dente non sa « La baraonda Tanto gioconda » del Giusti ?), ma in Toscana, dove vagabondo non si è ridotto a va- gaondo, la caduta del -b- ha dell’insolito e sorge quindi il dubbio che la parola sia venuta dall’Alta Italia. Giova ram- mentare che in qualche parte di Lombardia si ha l’avverbio aonda dal lat. abunde, come in provenzale abundare si ridusse ad aondar. Un altro derivato di barare sarà bar- uff-are, donde così quella ruffa da cui si ha arruffare, come l’altra ruffa che nell’Alta Italia dice ‘sudiciume e ma- lattia della pelle’. La ru/fa è qualche cosa di attaccato alla pelle stessa. Quest'ultimo significato di baruffare ‘attac- care’ si spiega movendo da quello di ‘gonfiare’ che, come abbiamo detto ripetutamente, è proprio di bolutare e quindi anche di barare. Le parti gonfie di qualche cosa sembrano come sovrapposte, attaccate alla cosa stessa. E se baruffare può dire anche ‘attaccare, attaccarsi’, meglio che dall’an- tilatino rufo per ruber, rubeus, come pensa l'Ascoli (Arch. glott. X 16), ruffiano mi sembra possa venire da ba- ruffiare, che sta a baruffare come nell’Alta Italia petuffiar a peluffar ‘percuotere’ (Schneller, op. cit. p. 162). Il ruf- fiano è colui che si attacca a una persona, le si struscia addosso, la adula. Ho detto adula, e se il lat. adulari deriva, come vuole il Vanicek, op. cit. II 915, dalla radice val- vol-, questa sarebbe, in fondo, quella stessa di ru/fiano (da bar- per bal- e questo per val-).

Come di fianco a durare si ebbe burrare, così di fianco

572 L. Biadene,

a barare si ebbe barrare e di qui barra e barricare e le barricate.

E a brutiare da borutare fa riscontro bratlare, che è nel composto imbrattare, e da quello il genovese bratia ‘fango’. Ma brata da barutare potè dire anche ‘ramo’ per la stessa ragione per la quale assunsero questo signi- ficato alcuni derivati di borare, come brocca, brolla già riferiti più sopra. E come borutare si ridusse a borudare, bordare, così barudare poteva ben ridursi a bardare, per il quale non si è saputo proporre che un tema nordico (Körting 1054). La bardatura del cavallo è la sella, l’ar- matura e tutto ciò di cui lo si cinge. Eccoci di nuovo a bolutare.

Sopra si è già cavato ruffa da baruffare, ma probabil- mente questo si sarà prima ridotto a biruffare, e il bi sarà caduto per l'illusione che fosse il prefisso bi(s). La stessa sillaba sarà caduta in rgcca ‘conocchia’ da bir-ucc-are, rocca “costruzione rotonda’ da bir-occ-are e roccolo nome di una specie di uccellatoio rotondo nell’Alta Italia, e in altri derivati dei verbi di cui abbiamo fin qui discorso.

S’intende poi che accanto alle forme di cotesti verbi principianti per b, si ebbero anche quelle principianti per v. E così a baliare fa riscontro valiare, da cui vaglio e a barare risponde varare “far sdrucciolare la nave sulle travi da cui è sostenuta perchè discenda in mare’. Sempre il concetto di bolutare ‘rotolare’. Superfluo rammentare va- licare e varicare, da cui varcare.

Piuttosto aggiungerò che alla stessa radice dei verbi e nomi fin qui menzionati risaliranno probabilmente alcune parole anche nella forma latina principianti per gal- gol- gul- e gar- gor- gur, nelle quali si avrebbe «apparente sostituzione di 9g a v, la quale veramente si risolve nello sviluppo di g innanzi a (cfr. Ascoli, Arch. glott. I 61 n. 129°). E quel fenomeno per cui nell’Alta Italia si dice sgolar invece di svolar ‘volare’. Ma io devo assolutamente smettere se voglio giungere in tempo di pubblicare questa

Note etimologiche. 973

nota nel volume per cui è composta, e non posso proce- dere più oltre nemmeno per accenni. Chiudendo, mi accon- tenterò soltanto di esprimere l'opinione che il nome gon- dola, per il quale non si è trovata fin qui un’ etimologia in cui tutti si acquietino (Körting 207), non sia che ridu- zione di vondola dal tema di volulare. Abbiamo già veduto che il nome barca risale a barare e burchio risalirà a burare e baltello, per il quale si è andato a pescare un tema nordico (Körting 1079), non sarà probabilmente che ballu)lello da balutare. Allo stesso concetto e alla stessa radice si dovrebbe il nome gondola; e così la poetica gondola veneziana sarebbe etimologicamente la stessa cosa della gustosa ma punto poetica bondola !) fatta di carne di maiale!

Poscritto. -- Questa nota risente della rapidità e fretta con cui fu concepita e composta. Sulle bozze ho fatto ora alcune aggiunte e avrei potuto farne molte più se il tempo non mancasse. Di mano in mano che esse spontanea- mente mi presentavano in copia, mi sono venuto per- suadendo che è per così dire sbagliato il punto di partenza della nota stessa. Nello spiegare le voci sopra riferite e le altre della medesima famiglia non si dovrà muovere, tranne per quelli che ne sono diretti riflessi, da bolulare o bo- tulare o bululare, si dalla radice bal- bol- bul- ridottasi poi a bar- bor- bur-, radice che in altra forma é val- vol- vul- ridottasi anch'essa a var- vor- e anche vur-. Queste radici primarie poi, aumentate di alcuni suffissi, diedero luogo ad altre radici, se così è lecito dire, secondarie: ball- barr- ecc. Quindi bululare presentatomisi alla mente tosto che incominciai a fermare l’attenzione su bolutare e botulare, non sarà da spiegare come ho fatto in principio, e non sarà invece che bul-ul-are, e così meglio che da

1) Superfluo rammentare non essere dondola che alterazione di boldola (Mussafia, Beitrag p. 35).

574 L. Biadene,

bat(u)lare verrà ballare da bal(u)lare e bullare da bul- (u)lare. Corretti questi errori, e non tenendo conto delle imperfezioni formali di vario genere, alle quali mi è ora impossibile di rimediare, il resto della nota spero rimarrà saldo. Forse ritornerò in seguito più pacatamente sull’ar- gomento, ma già in essa, così com'è, si ha la chiave per riconoscere la massima parte dei derivati della radice bal- o val-, di cui le altre non saranno che modificazioni. E, per conchiudere, potremo dire che a cotesta radice risale, per via di molteplici trasformazioni e accidenti, un buon numero di parole latine e uno assai più grande di neola- tine la cui connessione fonetica e ideale non era stata fin qui riconosciuta se non in parte; mentre le parole neola- tine, per restringerci a queste, erano quasi tutte state ri- condotte a basi non latine, ordinariamente germaniche, qualche volta celtiche, qualche volta greche e qualcuna di esse perfino a base araba e ebraica.

ERRATA-CORRIGE.

A p. 556, riga quartultima, invece di rivare leggi rigare. A p. 566, riga quintultima, invece che non sarà che bulurato leggi non sarà che participio sincopato e sostantivato di bulurare.

rc mim —————__—____ _______

F. L. PULLE.

A GRAZIADIO ASCOLI.

Postilla.

Bologna, marzo 1901,

Amico caro e venerato.

Permettete che alla risposta quale, per un altro ordine di pensieri, vi viene innanzi costà da Milano, io soggiunga in via di esplicazione questa nota, riguardante le ponde- rose questioni da Voi accampate nella vostra lettera dal Monte Generoso, e nel memorando discorso inaugurante i lavori del XII Congresso degli Orientalisti in Roma.

Sono due quesiti; e toccano insieme i due punti più ardui forse della statistica preistorica e della etnologia ne’ loro rapporti necessarii colla glottologia.

Il quesito delle proporzioni nel fatto degli scontri e delle mescolanze etniche nei tempi antistorici, che è a dire il quesito del rapporto quantitativo fra conquistatori e con- quistati nelle vicende dei popoli antichi, fu così posto da Voi per la glottologia. Ed appare, in una colla determina- zione qualitativa del coefficiente di razza, capitale per lo studio delle cause e del processo delle trasformazioni lin- guistiche. Perocchè in esso riposi il fatto naturale e stati- stico onde procede l’ordine di quelle che si soglion chia- mare le leggi storiche della parola.

Ma il numero è ciò che ancora manca all’antropologia ed alla etnografia preistorica. Più che darne, queste scienze

576 F. L. Pullé,

attendono norma dallo studio di quella che potremmo chia- mare la statistica archeologica; di cui Voi ritrovaste le spinte iniziali nella mente, qui veramente divinatrice, di Carlo Cattaneo. I tentativi fatti dal Beloch per determi- nare la popolosità dell’Italia in un evo relativamente noto potranno parere, nella specificazione delle cifre, non defi- nitivi; ma essi hanno fissato in massima un punto che ri- ferito ad altri che fissare si potranno, introducono il prin- cipio della prospettiva geometrica nel corso delle umane generazioni. Possiamo addurre ad esempio le proporzioni statistiche di una fra le regioni italiane che come la To- scana rappresenta, in una media bene temperata, la con- dizione italica nell’ordine dei nostri studii. La statistica dell’epoca romana augustina ci dava 400,000 abitanti per la regione VII (Etruria); senza badare a distinzione di liberi o di schiavi, perocchè la materia umana uguaglia nelle generazioni pel lavorio intermolecolare della vita d'una nazione. All’uscita di un periodo di 15 secoli, e cioè verso la metà del secolo XVI d. C. ove ci si offre una statistica attendibile, il numero degli abitatori della Toscana si volse intorno a 860,423. Solo nei secoli successivi la popolazione di questa regione si moltiplica con un aumento del 200 %, e sorte col secol nostro al numero di circa due milioni e mezzo.

In proporzione di queste cifre la popolazione dell’ Italia avrebbe dovuto essere nel secolo XVI di circa 10,000,000 di anime; che in rapporto coi 6,250,000 assegnati alla penisola comprese le isole dell’età augustina, è poco meno del doppio.

Ora tenuto conto del periodo di ristagno e di spopola- mento susseguito alla caduta dell'impero romano che ci spiega: da un Jato, la influenza che un piccol numero di invasori barbari, come ad es. i Longobardi, poterono esercitare; e dall’ altro la esigua cifra di aumento per 1 primi 15 secoli dell’era nostra in confronto degli ultimi tre noi possiamo farci una idea di quello che sia stato

Postilla, a G. Ascoli. 577

il numero degli abitatori dell’Italia risalendo lungo i se- coli più o meno noti dall’epoca republicana e da quella dei re, all’epoca infinitamente più lunga dell’Italia pre- ‘romana !).

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1) Punti salienti e caratteristici di siffatto accrescimento sono nel secolo XVIII d. C. (1745) ab. 1,060,125; secolo XIX (1819) ab. 1,366,459; (1861) ab. 1,967,067; (1896) ab. 2,317,740. Por questi studii v. G. BELOCH, la popolazione d’Italia nei secoli XVI,-VII,-VIII. Bul. de I’ Inst. intern. de Statistique III, 1888. Le opere notissime del REPETTI, dello ZUCCAGNI-ORLANDINI, del CAsTIGLIONI nella Statistica del Regno d’Italia vol. I, 1862. Le cifre furono messe insieme in un diligente lavoro di ATTILIO Mort nella Rivista geografica italiana V, 1, p. 38. Firenze 1898. Il calcolo della popolosità dell'Italia, com- prese le isole pei secoli antistorici si fece col processo seguente, partendo dai termini noti; secondo i criterii suggeritimi dal collega prof. Bárbera:

Sia a la popolaziono italiana al secolo d'Augusto, b al secolo de- cimosesto d. C., 1 l'incremento annuale per ogni milione, ed n il numero degli anni scorsi dalla prima alla seconda cpoca; si ha

raf! à, Applicando le cifre a = 6,250,000 ; è = 10,000,000; n = 1500, e facendo il-calcolo resulta » —313 abitante per ogni milione.

Se si corca l'accrescimento della popolazione da una generazione all'altra, supponendo che la generazione cangi ogni 30 anni, allora è n=50 ed r = 9439 anime per ogni milione. Infine se si domanda l'aumento secolare della popolazione avremo: na 15 ed r 31,829 abitanti per milione. L'accrescimento annuo, sotto l'aspetto teorico è il più esatto. Ora siccome al tempo di Augusto la popolazione italica ora di 6,250,000 ne consegue cho l'aumento annuo è stato, trascurando lo frazioni, di 1956 abitanti.

Trasportando ora questa proporzione per cammino inverso, risa- lendo dal secolo di Augusto in addietro, si ha, trascurando le frazioni, per un secolo innanzi C. 6,057,000; nel quinto secolo 5,346,000; nel- l'ottavo secolo ossia circa la supposta fondazione di Roma appros- simativamente una popolazione di 4,870,000 abitanti ossia 15 per chi- lometro quadrato; e risalendo ancora nel secolo decimo 4,570,000; e nel decimoquinto 3,926,000. Ciò che darebbe 12 abitanti per chi- lometro quadrato.

Le cause do’ perturbamenti che sono avvenute nello medie di que-

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hd

578 F. L. Pullé,

Le proporzioni che a questa stregua si debbono asse- gnare alle schiere apportatrici della lingua e della cultura ariana nella penisola sono ben più esili di quelle che si assegnano alle schiere barbariche di alcuni millenii più tardi. Giustamente Voi riducete tali proporzioni alla misura di altrettante famiglie, che solo dopo parecchie genera- zioni d’indigenato sarebbero concrete nei nuclei più ampli della gens latina, o del nome umbro-sabello.

Queste proporzioni ci accostano alla ipotesi assai vero- simile dell’Jhering che rannoda le secessioni dei gruppi destinati a formare le future egemonie degl’ indo-europei, all'istituto antichissimo del ver sacrum; tanto rispetto alle cagioni ed al processo di questo, quanto rispetto al nu- mero. Il fatto che la numerazione indoeuropea non era giunta al termine mille dimostra la esiguità della statistica, in uomini e cose, durante il periodo della unità; 0, come noi oggi amiamo dire, presso quel popolo dal quale la lin- gua ariana parti e si tradusse nell’ Indo-Iran e nell’ Eu- ropa; e, continuando, la esiguità delle supposte unità pre- etniche laddove il termine per mille non corrisponda an- cora, come ad esempio tra Greci ed Itali.

Sulla parvità numerica dei metanasti apportatori della lingua e della coltura ariana, non cade dubbio. Ma a noi preme di tentare l’altro quesito che si connette a codesto del numero.

Gli studi per una ricostruzione del periodo - primitivo indoeuropeo si fermano alla constatazione del nesso origi- nario in quanto riguarda la unità della lingua, un co- mune fondo del patrimonio mitologico ed un certo ordine di istituzioni. La ricerca scientifica riprende solo colla storia vera e propria delle diverse nazioni indoiraniche ed europee. Ma al loro riapparire nelle nuove età, questi

ate progressioni durante i secoli della decadenza dell'impero romano e delle invasioni barbariche si equiparano ai perturbamenti prodottisi per cause analoghe nei secoli primitivi, antistorici dell'Italia.

Postilla, a G. Ascoli. 579

popoli indoeuropei sono omai differenziati. L'analisi delle differenze, che sono la resultante, condurrà a scoprire il processo e le cause delle avvenute trasformazioni.

Ma sarebbe superfluo insistere sopra una dimostrazione della virtù impositrice della lingua e della coltura di pic coli nuclei superiormente organizzati contro masse numeri- camente maggiori. Storici e glottologici sanno dirci quanti legionari e coloni bastarono a stendere la lingua di Roma sulle larghe plaghe neolatine moderne. La comparazione del numero di questi può fare apparire, piuttosto che scarsa, abbondante la cifra di 1,000,000 che gli antropologi calco- lano dovesse essere quella dei parlanti linguaggi ariani nell’ epoca neolitica, dove oggi sono parlati da circa 600,000,000.

La popolazione dell’India moderna conta quasi 140 mi- lioni di parlanti favellanti ariani; ma quanti furono in realtà gli arii che ve li introdussero? Secondo il Taylor, mille- duecento anni prima dell’era volgare l’idioma ariano era parlato nell’ India solo da qualche migliaio di individui che rappresentavano tutta la razza ariana immigrata, sep- pure ancora immune da contaminazioni. Finchè la migra- zione rimase costretta nella valle del Kabul, tipo etnico, lingua e mitologia si mantennero relativamente purij ma quando gli arii ne uscirono per distendersi nella valle del- l’Indo s’iniziö il contrasto con gli aborigeni che erano di colorito bruno, salvo plaghe di precedenti invasioni ul- tramontane; e che dovevano essere altresì di cranio dolicocefalo come lo sono attualmente le tribù aborigene quelle delle foreste dell'India, i Veddas, gli Zingari, ecc.

Il presto mescolarsi degli elementi ariani cogli elementi indigeni è attestato a noi, oltrecché dal cumulo di noti- zie raccolte dalle fonti letterarie, massime dalla lingua, intaccata omai e profondamente già nel Veda da suoni delle famiglie dravidiche e kolariane. Da ciò procede la rapida sua risoluzione nei multiformi dialetti neo-ariani, Rapida tanto quanto rapido fu il distendersi della conquista politica.

580 F. L. Pulle,

Di pari passo col reagire e confondersi degli elementi fonetici della favella ha proceduto anche la mistura de- gli elementi antropologici. Oggidi tutti i popoli che si trovano al sud dell’ Hindu-Kush e pur parlanti idiomi ariani sono dolicocefali, mentrecchè i parlanti parimenti idiomi ariani a nord della catena medesima sono brachi- cefali o almeno sub-brachicefali. Così mentre gli Erani a nord del Caucaso indiano conservano la pelle bianca e i Turco-tatari e Mongoli conservano il fondo giallo, gli Indù al di quà prendono una tinta di bistro dovuta alla miscela degli elementi aborigeni negroidi. Infine gli arii del nord hanno di frequente gli occhi verdi, azzurri Q altrimente chiari, sono di pelo castano con qualche caso di biondo e a capello ondato o liscio; invece tra gli arii al sud gli occhi azzurri o chiari sono rarissimi, i biondi affatto sporadici e vi dominano 1 peli ricciuti.

Gli antropologi ne concludono che al nord dell’Hindu- Kush sopravive un tipo affine all'uomo Alpino della razza europea !), laddove prevale sopra un’area relativamente va- sta il tipo linguistico ariano; invece al sud si stende una branca estrema orientale della razza Mediterranea, che rag- giunge gli Afgani e gl'Indu. Essi non mettono dubbio che il tipo brahmanico non conservi le sue affinità etnica col ceppo onde uscirono i Berberi, i Greci, gl’Itali e gli Hispani, Lo stretto legame della casta e la selezione seco- lare hanno salvato il tipo, per quanto era possibile, del- l’uomo europeo quale ci viene descritto dei Brahmani odierni nella statura, nel profilo nella forma del cranio e in qualche caso, presso le donne di pura stirpe, nei ca- pelli biondi.

Ma quanti di numero? I rappresentanti dei conquistatori vedici, sopra 140 milioni di indiani non sopravivono più che

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*) Il capitolo che diremo geografico-etnologico del Mahabharata ricorda parecchie popolazioni montane di colorito chiaro, accennanti a caratteri somatici arianeggianti.

Postilla, a G. Ascoli. 581

in poche famiglie di Rig'aputri e di Brahmani di Benares e di qualche altro punto della valle del Gange. Le osser- vazioni moderne inducono dunque a concludere che l'India, come anche la Persia, volgonsi ai tipi asiatici, ora dravidici, ora semitici; e pure essendo ariane di lingua, non accol- gono più che quantità minime di sangue ariano.

Ora noi dobbiamo ritenere che un piccol numero di fa- miglie ariane abbia iniziata la conquista linguistica e poli- tica dell’Indostan a partire dall’età vedica.

Se la statistica non può ancora condurci fin là, noi tro- viamo pure qualche termine di confronto nelle liste dei gotra che secondo Acvalayna (Grautas. XII, 10 e segg.) si riducono al numero di men che cinquanta, riferendosi nelle loro origini e pochissimi capostipi intitolati dai sette Rsi, ossia: i Brgu col patriarca G'amadagni; gli Añgirasas sdoppiati nello stipite di Gotama e di Bharadvag'a: i golru di Atri, di Vicvamitra, di Kacyapa, di Vasistha, di Agastya.

Ed è noto come i celebranti nei sacrifici ripetessero le rispettive genealogie, facilmente raccomandate alla me- moria; e come pei matrimonii venissero specificati i gotra coi quali l’uno poteva contrarre legame e con quali no. La limitazione degli elementi genealogici al tempo dei Brähmana e dei Sutra sta a dirci quanto poche fossero le famiglie cui riducevasi la compagine primitiva della schiatta dei puri conquistatori arii. lxiveniamo alle propor- zioni che ci è dato intravedere pelle genti di Roma e pei nome degli Umbri, che abbiamo ricordati 1).

*) L'onomastica italica intervione a confermare la scarsità degli individui, in quella società primitiva pel fatto della adozione del somplice nome del padre, sotto la forma di un patronimico. La tra- dizione romana più antica ci prova che dapprincipio un individuo portava un solo nome, il quale alcuna volta era un diminutivo: Amulius, Faustulus, Romulus. Più tardi, nella fase storica 0 leggen- daria che sia rappresentata da Numa Pompilius, T. Hostilius, Ser- cius Tullius, dopo cioè che all'elemento protto romano eransi me-

582 F. L. Pulle,

Senza arrischiare cifre, ci accontenteremo dunque di affermare con Voi che quei complessi antichissimi di genti dal linguaggio indoeuropeo debbonsi immaginare come molto esigui. E riterremo sfatata la immaginazione degli scrittori che ha sempre veduto un' Europa antica piena zeppa di gente; sfatata la idea che nelle trasposizioni di nomi e di favelle sulla superficie geografica si abbiano a figurare sempre vere e radicali trasmigrazioni di folte masse, di correnti d'uomini, banchi di aringhe terrestri, come ha detto il nostro Cattaneo, che spinti quasi da un fato si vanno incalzando perpetuamente dal Caspio all’At- lantico, con un processo che è contrario a tuttociò che la storia conosce.

Ma dobbiamo noi concepire quei complessi di genti in- doeuropee nelle differenti loro stanze istoriche come altret- tanti poveri clan isolati, endogenéti, che solo coi millenii sieno diventati nazione? E che per non parlar più di po- poli del KV (latino quod) e di popoli del P (umbro pod)

scolati elementi sabelli (Pompil- di contro a Quinctil-) o etruschi (Tarcon- in. Tarquinius), si fe' necessario distinguere le persone col- l'aggiungere al nome individuale un altro epiteto, derivato dal nome del padre in forma di aggettivo mediante il suffisso -io, (-ius). Da questo poi si formò in seguito il nome gentilizio latino e, del resto, italico. Veggansi al proposito riassunte le opinioni del Búcheler, del Hübner, del Deeke, del nostro Kirner e del Nogara, dal prof. F. TAMBRONI in una geniale memorietta Intorno al suffisso -io di yentilisio latino e italico. Bologna 1900. °

Se possiamo valerci delle liste compilate dal Conway (Italic dia- lects), i nomi di genti ritenuti per latini, messi insieme da tutta l’am- pia tradizione epigrafica, numismatica, letteraria, comprese le rico- struzioni, sommano, al chiuderci della latinità, a non più di 150 i nomi gentilizii frequenti e bene accertati; a men di 200 i meno fre- frequenti o rari; a circa 250 gli sporadici, comparsi una sola volta, o altrimenti dubbi. Se dunque tal numero di nomi solo apparve per oltre 12 secoli di storia romana, non è certamente troppo scarso quello di 50 famiglio che assegnare si vogliano alla nazione ario- latina nel periodo preistorico, riscontrato al numero delle famiglie arıo-indiane del periodo pre-vodico,

Postilla, a G. Ascoli. 583

in contrasto istorico fra loro, s'abbiano a considerare tali divergenze fonetiche solamente come un mero vezzo di pronuncia che proprio di una famiglia, tale sia rimaso per tutti quando la famiglia fu diventata un popolo?

Preso assolutamente, ciò sarebbe contrario a quel con- cetto che il Cattaneo ebbe dei rapporti primitivi nella storia; ed a quello che di più certo possono affermarci la etnologia e antropologia. l’ Europa fu un tempo deserta di abi- tanti all’apparita dell’ indo-europeo; questi, dove si posò, sradicò completamente l’elemento aborigeno. La stessa esi- guità del numero dei conquistatori lo fa pensare. Come nel- l’ India, così nella penisola Balcanica e nella penisola Apen- ninica, così nelle altre plaghe europee, i metanasti ariani si imposero a genti preesistenti. Diverse nella forma, ma identiche nella sostanza, le istituzioni civili o sien note dai documenti o sien superstiti nelle tradizioni e nei costumi, mostrano dovunque un rapporto di genti divise per or- dini differenti e rispondenti a una diversa origine. La pro- prietà collettiva colla ripartizione del prodotto che è del sistema slavo; la permutazione periodica del terreno con lavoro e sfruttamento individuale dei Germani di Tacito; la proprietà individuale della terra insieme e del prodotto del sistema romano; la coesistenza di due ordini di sog- getti come lo schiavo ed il cliente di Roma, gli Iloti e i Perioiki della Grecia, in condizioni storiche e telluriche di- verse, implicano tutti un rapporto di vassallaggio di una popolazione sottomessa; la quale troppo grande rispetto al numero dei dominatori per essere fatta schiava, è lasciata sussistere in determinate condizioni economiche e personali ma colla imposizione di date prestazioni onerose.

E questo un tratto comune che, colla lingua e col patri- monio mitologico, rannoda la tradizione indoeuropea a’ suoi termini più distanti. In una colla esistenza di genti diverse nella comunità politica e civile dei centri ariani, ne resul- tano delle gradazioni tra le stesse classi assoggettate; le quali debbono avere avuto differenti origini storiche ed

584 F. L. Pull,

etnologiche. Si deve ritenere che fino dal tempo primo del loro arrivo, gli arii trascinassero con se elementi etero- genei, o per ragione di conquista o altra che si fosse, ag- gregatisi lungo il cammino; a quel modo che al calare dei Barbari sotto l'impero, alle famiglie germaniche più note- volmente schiette mescolaronsi gruppi etnici semigermanici, e orde di diversa e più remota origine.

Due sono dunque i fattori che ponno avere influito sulle modificazioni che il tipo indoeuropeo subisce nei differenti punti storici. O quello dei suoi contatti con altre schiatte lungo il periodo della migrazione; o quello del contatto colle stirpi alle quali contese, sul suolo della patria futura, l’ indigenato.

Senza dubbio la potenza trasmissiva della individualità fu assai forte negli eredi degli arii. Trattavasi di un tipo selezionato, per l’ isolamento iniziale prima, e poi per i caratteri sviluppatisi nella migrazione che furono special- mente: la disciplina, il sentimento della individualità, la monogamia. La selezione si intensifica nella differenzia- zione; la tenacia dei Brahmani e quella dei Romani alla tradizione endogenica ce ne porgono la misura.

Ma se tale resistenza alla contaminazione salvò i nuclei etnici indoeuropei e li portò quasi immuni al limitare della storia, essa dovè pure rilassarsi nell’ultimo adattamento sedentario col rompersi della piccola cerchia e compatta che avea consentito lo stadio migratorio. Perocchê alla ra- gione che Voi col Cattaneo avete accennata del numero, si connette l’altra cui l'antropologia ci addita e cioè la ra- gione della potenza di riassorbimento che, soccorsa dai coefficienti di ambiente, mantengono le razze aborigene; tanto forte che esse finiscono col ripristinare e sovraim- porre alla massa invaditrice i loro propri e ingeniti ele- menti biologici.

Eccoci così al punto sul quale i nostri pensieri consuo- nano perfettamente per quanto tocca il fenomeno linguistico. Una gente domata e conquisa perde, in certe condizioni, la

Postilla, a G. Ascoli. 585

propria lingua; ma assoggetta la lingua del vincitore alle abitudini del proprio organo orale. vale, su tal punto, insistere, dinanzi all’autore dei « Saggi indiani ». Nessuno si è meglio accostato agli sponsali della glottologia col- l’ antropologia quanto Voi in quel memorabile scritto; dove le ragioni etnologiche delle trasformazioni de’ suoni indoeuropei sopra la orditura fonetica delle articolazioni dravidiche traspaiono lucide si, e nel fatto in se e nel mo- vente suo fisiologico, che quasi ti par di assistere, dietro alla evoluzione della favella, alla degenerazione del chiaro e diritto profilo del conquistatore vedico nelle linee del- l'oscuro e prognato dravido. E ben valse lo invito che Voi, da par vostro e suo, teneste da Carlo Cattaneo di stabilire il confronto tra le vicende della lingua sanscrita e delle sue propagini, e quelle della famiglia latina; onde chiarire in qual modo le favelle aborigene riagiscano a decomporre le favelle importate.

E riduciamoci al quesito, se per noi solubile, del dove e in forza di quali elementi antropologici il fenomeno più che italico, europeo, da voi accennato del KV nel P, siasi venuto compiendo.

I tentativi per fissare un tipo antropologico dell’ uomo ariano non hanno approdato ancora a resultati securi: sia che si mirasse a trovarlo in qualcuna delle stirpi attuali di lingua e di coltura indoeuropea; sia che si provasse ad eruirlo da indizii ricorrenti presso gli uni e presso gli altri rappresentanti della tradizione ariana. Il profilo di un Homo europeus si delinea a stento tra la varietà dei tipi di razze esistenti all’epoca più remota ammissibile dell’ini- zio dei popoli ariani, ossia nel quinto o sesto millenio innanzi Pera nostra. Le menti ondeggiano ancora fra i due termini estremi della ipotesi scandinava dolicocefala, e della ipotesi brachicefala asiatica. Oggi meglio vale am- mettere che i popoli ariani della storia sieno prodotti della evoluzione di razze anteriori variamente temperate; pe- rocchè la unità di tipo se può reggersi nel seno di una

72

586 F. L. Pulle,

famiglia, si dissolve nella sfera di una nazione. L’antro- pologia preistorica pur risalendo per quanto le è possibile in addietro, non sa ritrovare un complesso che uscendo da breve spazio di numero e di territorio abbia conservato la omogeneità del tipo. E ciò vien confermato dall’ antro- pologia moderna con dati più sicuri e più prossimi che ca- dono in acconcio pel nostro quesito.

La carta etnografica dell Europa alla età presente ci offre un numero notevole di varietà esistenti. Vi si ritrovano parecchie razze allo stato di mescolanza che non sussiston più allo stato di razza pura. I caratteri isolati di una sola razza si riproducono singolamente in questa o quella com- binazione, ma sono rarissimi gli individui che li possiedano tutti ad un tempo. I popoli europei sono dunque mescolanze, in proporzioni differenti, di un certo numero di razze; e il Deniker ci delinea per 1 Europa moderna sei tipi di razze principali e quattro tipi di razze secondarie !).

1) La classificazione del DENIKER, Les races de l’ Europe. Bul. de la Societe d'Anthropologie de Paris. 1897 p. 292 - è la seguente: Due delle razze principali sono bionde o Xanthochroidi:

1.» bionda, dolicoc., di grandissima statura; R. nordica; nella Scandinavia, Scozia settentr., Irlanda, arcip. Faer-Oer sett., Frisia, Oldenburg, Schleswig-Holstein, Meklemburg, provincie baltiche russe, Tawasti della Finlandia;

2.* bionda, sub-brachicefala, statura piccola; R. orientale; Rielo- russi, paludi di Pinsk, e certi Lituani. Più mista nei Vielikorussi del sett. e centr. della Russia, e Finlandia.

Quattro razze principali brune o Melanochroidi:

3." bruna, dolicocefalissima, piccolissima statura: R. ibero-insu- lare: in Sardegna, Corsica, Sicilia, Baleari; attenuata Italia meridionale e Francia merid. (Angoumois, Limousin, Périgord).

42 bruna, brachicefalissima, piccola statura: R. occidentale o cevennola tipica nelle Cévenne, plateau centrale, Alpi occidentali; attenuata in Bretagna, Poitou, media Valle del Po, Toscana, Transilvania (Ungheria centrale?). Più snescolata nella zona dalla Loira al Dniéper passando pel Piemonte, Svizzera centrale e oc- cidentale, Germania del Sud, Carinzia, Moravia, Galizia, Volynia.

5.* bruna, sub-dolicoc., alta statura; R. litorale o Atlanto-medit. intorno al Mediterraneo da Gibilterra alla bocca del Tevere, e

Postilla, a G. Ascoli. 987

Codesta varietà si riassume per altri, come ad es. pel Ri- pley in tre tipi principalissimi: il nordico dolicocefalo o teutonico, il centrale brachicefalo o alpino, ed il meridionale dolicocefalo o mediterraneo. Triplicità riducentesi a due nella opinione che ci piace intitolare dal Sergi, cui anche il Ripley consente, di una affinità originaria dei due tipi dolicocefali: nordico e mediterraneo.

da Gibil. alla bocca del Guadaiquivir, golfo di Guascogna, bassa Loira ecc., non csiste mai più di 200-250 kilom. dal mare.

6.* bruna, brachic., grande statura; R. adriatica o dinarica Bosnia, Dalmazia, Croazia, Romagna, Venezia, Sloveni, Ladini (Ro- manci) da Lione a Liegi, Ardenne. Attenuata: basso Po, Boemia NO, Svizzera romanza, Alsazia, media Loira, Carpazii, piccoli Russi, Al- banesi, Greci, Serbi, alcuni del Caucaso.

Le quattro razze secondarie sono:

a) bionda, mesocef., alta statura; variaz. della razza nordica: Letto-lituani, Prusi or. Annover; Norvegia occ., Russia occid.

b) bionda, mesocef., piccolissima statura; variaz. della razza orientale: Polacchi, Kachoubi, Svezia e Silesia.

c) bruno-castagna, sub-dolico, alta statura; interm. fra nordica e occidentale: Irlanda O., Galles, Belgio O, Normandia, Picardia ecc.

d) castagna, sub-brachic., media statura; R. mista di a) e di di- narica: Perche, Champagne, Lorena, franca Contea, Lussemburgo, Ze- landa (Oland.), Renane, Baviera, Austria tedesca, Tirolo centrale, parte di Lombardia e Venezia ecc.

Ai tre tipi di razze del RiprLEy (W. Z.) The Races of Europa New York 1899; corrispondono presso gli altri antropologi rispetti- vamente:

1, Teutonico o nordico: dolico, leptoprosopo, biondo, occhi az- zurri, alta statura, naso stretto aquilino: sinonim. il dolicolepto del Kollmann, il Reihengräber della scuola Tedesca; il germanic della scuola Inglese, il kymric della scuola Francese; il nordico Deniker; | Homo europaeus del Lapouge.

2. Alpino o celtico: bracbic., eurignato, castano, statura media, naso vario, piuttosto largo e grosso; sinonim: celto-slavo Franc.; sarmatico von Holder, del Dissentis Ted., alverniate Beddoe; occiden- tale Deniker; H. Alpinus Lapouge; lapponoide Pruner bey.

3. Mediterraneo: dolico, lepto prognato, bruno, statura media e piccola, naso piuttosto largo; sinonim. iberico Ingl., ligure Ital., ibero- insulare e atlanto-mediterraneo Deniker.

588 F. L. Pullò,

Il tipo dolicocefalo ricinge tutto intorno 1' Europa insu- lare e peninsulare: dalle rive del Baltico alla Scandinavia, alla Danimarca, al lembo settentrionale dei Paesi Bassi, all'arcipelago Britannico !); e quindi dopo saltuarie proic- zioni nell’occidente della Francia, abbraccia tutta la peni- sola ispanica, le isole del mediterraneo occidentale e la Italia Meridionale, il Lazio e le riviere ligure e francese meridionale ?).

Per contro il tipo brachicefalo domina tutta | Europa continentale o meglio centrale, colle sue varietà: ceven- nola o occidentale, adriatica o dinarica, e sub-adriatica; e domina l’Europa orientale col tipo brachicefalo orientale e col sub-orientale o vistolino; a lor volta qua e chiaz- zati di cevennolo e di adriatico.

Non vogliamo sovraporre nomi antichi a codeste razze ora esistenti, per quanto la ragione ne sia prossima. Già da altri si chiamò celto-ligure la cevennola o occidentale; e noi potremmo senza tema di errare chiamare illirica, e per quanto riguarda l’Italia, veneto-messapia la razza adria- tica o dinarica. Vogliamo piuttosto limitarci a constatare per il caso nostro come:

la razza occidentale o cevennola occupa largo spa- zio col suo centro di indigenato e di diffusione nella Gallia, dagl’altipiani sud-orientali stendendosi specialmente a coprire le zone di maggiore altitudine e le penisole estreme, dove ha nell’Armorica pieno dominio. Oltre la Manica la razza cevennola non ha resistito alla com- pressione della gran zona nordica; ma la sua resultante campeggia ancora nell’ isola Britannica col tipo secondario nord-occidentale. Dove? Precisamente nel Wales, nel centro, e nel Cornwall, ossia negli antichi dominii dei Cambri, dei Britoni, dei Cornici. Nell’Ibernia non si riscontrano che lievi traccie del tipo nord-occidentale; quivi preval-

1) Nelle sue varietà: nordico e sub-nordico Deniker. *) Nelle varietà: ibero-insulare e atlanto-mediterranea Deniker.

Postilla, a G. Ascol. 589

gono caratteri antropologici nordici, che distinguono sen- sibilmente la gente dell’antico dominio iro-gaelo e scoto- gaelo da quella dell’anzidetto dominio britanno.

Non ne concludiamo che la razza cevennola piuttosto che la nordica debba essere stata la importatrice degli idiomi celtici; constatiamo solamente che in ordine al fenomeno del tralignamento della gutturale in palatina per entro il ramo celtico degl’indo-europei c’è una divisione ben mar- cata: sul dominio geografico della razza cevennola e della sua resultante e cioè nei dialetti gallico, aremorico-britone, cornico e cymrico, abbiamo la risoluzione P; sul dominio della razza nordica ossia nei dialetti iro- e scoto-gaelici abbiamo la conservazione del K.

Nell’ Italia la razza cevennola si distende al di qua delle Alpi occidentali per la Savoja nelle valli Piemontesi degli affluenti di sinistra del Po, e nel dominio che fu dei Libui, dei Leboi, e dei Lepontii. Per tutto il resto la gran valle Padana è occupata dalla razza adriatica o dinarica o dalla attenuata sub-adriatica ; ma nella parte peninsulare propria e specialmente nella parte centrale apenninica, il tipo ce- vennolo resiste trionfalmente, ed ha suo centro di indige- nato e di diffusione appunto nell’ Umbria. Nel restante della penisola gli Abruzzi, il Sannio, la Campania quasi per in- tero, e qua e frequenti e larghe isole nelle parti più isolate delle altre provincie, rivelano una antica diffusione del tipo. Verisimilmente il tipo aborigeno ibero-insulare, respinto dalla invasione brachicefala nei tempi preistorici, ha più tardi ripreso mano mano il terreno per la doppia azione, e ben nota, della prossimità al suo centro di irra- diazione della razza e del processo di riassorbimento del fondo primitivo.

E ciò produce tanto nel riguardo della razza ceven- nola, quanto della razza dinarica che indubbiamente coi Japigio-messapii erasi trapiantata nel mezzodì d’ Italia.

Nel Lazio, come si è detto, e su su fin dove arrivano le scoperte di ragione del Falisco, si stende (come per il li-

590 F. L. Pulle,

torale a mezzodi dell’Appennino dall’Arno a Nizza) una zona della razza subdolicocefala atlantico-mediterranea.

Ed anche qui una semplice constatazione. Prescindendo dal fenomeno ligure del Aiy- e del 48- che prende le me- desime disposizioni etnico-geografiche: 8 sul fondo cevennolo brachicefalo, y sul fondo dolicocefalo atlantico-mediterraneo, vediamo del ramo italico degli idiomi indo-europei 1 dialetti umbro-sabelli che sul dominio geografico della razza bra- chicefala ci danno la risoluzione della gutturale in P; mentre che su quello della razza subdolicocefala, ossia nel latino-falisco, ci presentano la conservazione del K.

Per la Grecia sfortunatamente ci mancano i dati etno- grafici moderni. Anche Voi, credo, foste con me a dolervi della repulsa che nel Congresso internazionale degli Orien- talisti pati la proposta di raccoglier gli studi alla costru- zione di una carta etnologica della penisola Balcanica. vale indagare se ragioni esorbitanti dal campo della scienza presiedessero o alla proposta o alla repulsa. Certo è che ne subisce danno il quesito glottologico e preisto- rico; e per un ramo si interessante della tradizione indo- europea.

Non possiamo dunque per la Grecia andar più in di semplici supposizioni. Con dati certi la etnografia odierna ci conduce solo per l’antico dominio dell’Illiria, che è oggi coperto dalla razza dinarica; ma chiazze di tipo cevennolo che dalle montagne getiche paiono staccarsi e scendere sulla destra dell’Istro nella Tracia, e chiazze di tipo sub-adria- tico che coprono tratti a mezzodi dell Illirico e più giù dell’antico terreno dei Dardani e della Macedonia, ci fanno credere che il tipo brachicefalo fosse penetrato bene in- nanzi nella Grecia, analogamente a ciò che avvenne nella contrapposta penisola apenninica. Probabilmente qualche zona marittima esterna, e specie quelle zone che guarda- vano l’Asia Minore e l’Egitto, rimasero sotto l’influsso de- gli elementi dolicocefali mediterranei. La coesistenza di teste brachicefale accanto a dolicocefale è bene attestata

Postilla, a G. Ascoli. 591

dalla statuaria greca. Onde l’Ellade offerse il caso analogo degl’Italo-Celti; e la evoluzione dei suoi dialetti si orientò da un lato pel dorico ed eolico al tipo del P, mentre i Ioni dolicocefali, tenner fermo al tipo di K.

Il riprodursi regolare e costante di questo fatto, che è il poco ma certo sovvenutoci dai confronti del dato glot- tologico col dato etnologico, sta a dirci:

1.° che il fenomeno del tralignamento della gutturale indoeuropea nella palatina si è compiuto su determinate zone europee, laddove il tipo etnico dolicocefalo si trovò a contrasto con un tipo brachicefalo;

che il differenziamento dell’ articolazione labiale copre il dominio di un fondo di razza brachicefala; e la persistenza o, rispettivamente, il ripristinamento dell’arti- colazione gutturale copre il dominio d’una razza dolicoce- fala, o temperatamente subdolicocefala.

E qui mi fermo. Non senza antivenire ad una domanda che mi par di legger nella vostra mente. V’ hanno altri casi del fonetismo indoeuropeo che possano dar la riprova di una corrispondenza geografico-etnologica di fenomeni arti- colativi?

Cercando alla prima in quell’ordine di fatti fonetici che sono o più complessi o più caratteristici di dati atteggiamenti articolativi, Voi già mi accennate alle cacuminali che, per comune consenso, non appartennero al patrimonio origi- nario dei suoni indo-europei. Ed in vero il processo inver- tito dell’articolazione cacuminale è opposto al processo prettamente dorsale delle articolazioni indoeuropee, o come noi preferiremmo dire, delle lingue dell’ampio dominio con- tinentale europeo.

Ma le cacuminali t, d, (n), s della espressione nostra; le cerebrali del Sievers; t?, d?, (nº), s? del Brücke, ti, dj, (n+), st dello Sweet invadono l’amfizona che cinge tutto il continente linguistico degli indo-europei; e vanno dagli idiomi dravidici così presto penetrati nel sanscrito, ai dia- letti neolatini insulari e del lembo peninsulare d’Italia, alle

592 F. L. Pulle,

falde pure insulari e peninsulari di dominio teutonico, che sono le angliche e piü specialmente le svedesi.

Non insistiamo sulle esplosive, su quanto i «Saggi indiani» da lungo ci appresero. Cito un ravvicinamento che il nostro Teza non mi imputerà se riporto, inter nos, da una sua lettera. È un guizzo, lanciato nello stile ge- niale e originalissimo di lui: ma é un guizzo luminoso !): «..... sulle affinità dei suoni, voglio rammentare alcuni

« 1) Per l’erre cerebrale dei tamulici il Pope nota: Ap- ply the tip of the tongue, and pronounce a rough R in which a Z sound will mingle.

«2) Sopra DR che diventa Z in un dialetto celtico è a vedere la Revue Celtique, XVI 205.

«3) Il Vietor, nella eccellente, anzi eccellentissima e piccola Englische Schulgrammatik (1894) dice: R nach D fast wie Z (=z); nach T mit teilweise Verlust des Stimmtons fast wie S (=s) z. B. dry, try. p. 19.

« 4) R. Lenz. Apuntaciones para un testo de ortologia. Chile. Annales de la Universidad 1894 LXXXVIII, 118: Il TR si pronuncia CH (c).

«5) Molti siciliani, certo quelli delle regioni vicine a Palermo, invece di quattro dicono qudco; almeno al mio orecchio.

« Non si può allargare o determinare? e non si può stu- diare e concludere?..... »

Allargare e determinare? Questo si fa di per se mediante la pura e semplice constatazione del fatto di una tale no- tevolissima deviazione combinatoria cacuminale di suoni ariani, laddove già ci apparvero formate altre articolazioni cacuminali: nell’amfizona cioè dolicocefalica della razza

1) La cura di conservare anche le buste delle lettere dell’Amico nostro mi ha posto in grado di stabilire che la data del sabato onde, brevemente, è segnata la lettera, corrisponde al di 30 novembre del 1895.

Postilla, a G. Ascoli. 593

dravidica, mediterranea e nordica, intorno al continente indoeuropeo 1).

Studiare e concludere?

Le osservazioni raccolte a Pisa sopra un certo numero di studenti che ivi convengono: da un lato, dai dolicoce- fali siculi, calabri, livornesi, apuani e liguri, e dall’altro lato dalle provincie brachicefale della Toscana e dell'Alta Italia, mi dettero:

che ai diametri e alla forma del capo corrispondono forma e diametri del palato. Un cranio dolico ci un palato a ferro di cavallo allungato; un cranio brachi ci un palato a ferro di cavallo allargato; e certa proporzione si mantiene fra le cifre del diametro fronto-occipitale del capo col diametro antero-posteriore del palato; e fra le cifre del diametro biparietale con quelle del diametro bi- laterale del palato stesso. Inoltre alla differente sezione piana risponde una sezione differente della volta palatina: di sesto più basso nei dolicocefali, di sesto più elevato nei brachicefali. Le disposizioni, quella che il Cattaneo avrebbe

————————————— "1— ——————@

= —r——— ——— ee ee me

1) Non so se il nome di popoli alla foce del Boristene e a mozzo il corso dell’Istro sotto la forma di Ja:yges possa venire accostato a quello dei “Iemvyes, i Iapigi d'Italia, e a quello dei Iapodes e Ia- pydos o lapides della loro madrepatria, dell’Illirico. Secondo la dot- trina dell'Ahrens, comparando ‘erg, -cyos con opvis, -Fos l'esito del nome italico si sarebbe risolto nel barbarico da -vy- -vd-. Noi cro- diamo di poter a mezzo dell’umbro /apuzkum intravedere nello tre . grafie -y-, -d-, 3 l'ondeggiamento che tradisce un'articolazione man- cante agli alfabeti greco-italici. Era forse la dentale originaria di Tanod- che nel mezzodì d'Italia sullo strato aborigine ibero-insulare tendeva alla cacuminale esplosiva -d-; o che nel particolare com- plesso risultante dinanzi al suffisso italico «co veniva a una spirante cacuminale riprodotta da -z-. Se poi un Apudi, Ap(p)uli continui il fenomeno ; e se vi sia rapporto di questo nome con Akedunia (La- cedonia) e Aquila, Aquileia e simili, onde si tradisca sul vivo un contrasto fra articolazioni dentali e cacuminali, gutturali e labiali, va ancora studiato. La determinazione del valore fonetico dell'umbro rs=d, o relativamonte i numerosi casi di din 7 latino saranno da trattarsi in questa osservazione.

73

594 F. L. Pulle. Postilla, a G. Ascoli.

detta le armonie, degli altri organi orali concordano colle linee fondamentali della struttura ossea. |

Ora se si consideri entro quali brevi confini si tengano i varga, e qual piccola differenza di processo articolativo basti a produrre effetti fisici esteriori sensibilmente diversi, si comprenderà come la disposizione brachicefalica nell'ab- breviata distanza del campo dei due varga trascini con relativa facilità il suono a corripere dal gutturale al la- biale. E come per contro nel dolicocefalo la lingua, più fa- cilmente inverted, arrivi più presto a toccare il vertice palatino. Forse in questa medesima disposizione riposa an- che la ragione del fenomeno del palatinismo che, opposto al labialismo, segue in ordine di geografia e di tempo non molto discosto il fenomeno cacuminale.

Coi mezzi di osservazione e di misurazione che mi fu- rono consentiti fin qui, non oserei avanzare di più. Ma il nodo del quesito sta qui certamente, e non isfugge alla sagace e profonda vostra meditazione.

Vostro F. L. PuLLÈ.

INDICI ANALITICI.

INDICI DEL VOLUME.

DI

C. SALVIONI.

I. Lessico.

LINGUE E DIALETTI INDO-IRANICI.

. agman 163.

. agraya- 13],

. agru 131, 135. . agvajus 160. s. ahlada- 130. mar. ayhol 134, mar. älhäd 130. s. angara- 134. mar. dngul 134. s. anguli- 134. s. antar 163.

s. argha-udaka 135. mar. askhi 134. mar. äsrä 131.

gw n m La

s. asthi- 134, 135, 220,

mar. dsu 131, 135, av. älars 156.

s. avapan 142, mar. dthi 134, 135. 8. ava-hräd 133. mar. avel 134.

pr. bada 139.

mar. badavanê 139. pr. bahini ecc. 136. s. bahus 159.

hind. baithat 136. apabhr. baittau 136.

pr. bambhana 138.

s. bandh 136.

s. barkara 137.

av. bäzus 159.

mar. beduk 138.

s. bhadra- 137.

s. bhagini 136.

s. bhagya- 143.

mar. bhäkh(a) 130.

beng. bhal 137.

mar. bhala 137.

s. bhalla- 138.

s. bhangura-vant- 137.

mar. bhas(a) 130.

s. bhasada- 134.

s. bhata- 133.

pal. bhattha 139.

mar. bhdvane 130.

mar. bhelané 138.

s. bhis 156.

mar. bhödand 137.

mar. bhösadi 134.

mar. bhramand 130.

s. bhrsta- 139.

8. bhrus 156.

mar. bhol 137.

mar, bhulané 137.

hind. bhulna 137. mar. bikat 132. s, bilam 221. mar. bindu 130. mar. bokad 137. pal. brahant 138. apers. brata 156. s. brhant- 138. mar. bud 138. beng. buda 139. pong’. budha 139. sindh. budbö 139. pr. bugghä 141. mar. bund. 130.

av. casman 164. mar. cidi 139.

m. ind. cmank- 140. s. cris 159.

s. gristi 139.

s. cvacrus 159,

s. cvds 163..

s. dacavadana- 142. apers. duhyäus 150. 3. daivalaya- 134. pal. dalha 133.

s. danda 133.

598

av. danhaom 159. s. dar 133.

mar. daranê 133. 8. darçana- 134. pr. däsana 135. pãiç. dasavatana 142, apers. dasta 158. oriss. del 131. mar. deul 134. pr. deulu 134. mar. dhakaländ 133. s. dhakk 133.

8. dhvaga 142. sindh. diari 135. beng. dit 131. mar. dila 13]. pr. dinna 131. mar. dolané 133. s. drdha- 133.

. dul- 133.

. dura- 134,

s. dvär- 157.

8. dyaus 157.

apabhr. evadu 139.

pal. gaha 138. apabhr. gâma 140. s. gandha- 136. mar. gânth 133. pr. ganthi 133. av. gaos 159.

s. gaula 134.

s. gaus 157.

s. geha 140.

pr. genhai 140. pr. ghaya 142. pal. givar eva 143. mar. gol 134.

s. granthi- 133.

s. grha- 138, 140. pr. grnhai 140.

s. guda 134.

Indici. I. Lessico.

pal. gula-kila 132-3.

mar. häd 135.

8. hansd- 157,

s. har 158.

8. -hasrıya- 158. s. hdsta- 158.

av. hava 160.

av. hazanrem 158. s. hemantd- 159. sindh. hiarö 135. s. himã- 159.

m. ind. hmal 140. m. ind. hval 140. 8. hyds 163.

mar. tgal 134. 8. jarimän- 157. 8. jambalas 221. 8. jas 157.

pal, Rakhavala 133. pal. RakRara 142. 8. Rakravartã 133. 8. kala- 134.

pal. kasati 138. pr. Rattãro 142.

s. havis 160.

pr. khambha 137 n. zing. khand 136. pr. khänu 137 n. mar. kheladu 138. pr. Atla 133.

a. köti 158.

. kram 216.

. Ardmas 216.

. krıda 132-3,

. krosty'- 156.

. krsati 138.

. ksas 158.

aa alan

mar. laboda -la 135. 3. laksä- 158.

8. lalita 134.

8. langh- 136. afgh. las 134n. afgh. lira 134 n. s. lopãçá- 157.

pr. madda 140. pr. madha 140. mar. madhané 140. mar. madhé 139. 8. maighas 142. pr. mala 140. mar. malanê 140, 143. mag. male 139 n. s. manduka- 138. pr. mangara 143. s. märgära- 143. s. mäsa- 157.

av. mata 156.

pal. matabhäva 139. s. mataka- 139. pal. mato 139.

pal. mattha 139. mar. mau 143. pãic. mekhö 142. mar. melavind 138. pr. mettha 140,

s. micla- 138.

s. mil 138.

s. mitra 140.

s. mrdh 137.

s. mrdu- 137, 143. s. mrsta- 139.

s. mrta- 137, 139. s. mudha- 137. pal. mudu 137.

s. munda- 138. sindh. muö 137.

3. murdhán 163.

mar. nãgã 130. hind. nagar 130. s. nagaram 130.

mar. nagna 130.

s. naptris 159.

s. nata- 133. mägadh. nayala 130.

hind. nayar,nair, 130.

hind. ner 141. mägadh. niada 141. s. nida- 133.

s. nikatam 141. mar. nirvedh 140. 8, nirvrta- 140.

mar. odhan? 134. mar. ô0kanê 137. mar, ola 131.

mar. opanê 142. mar. o-radan? 133.

pr. padhama 133. pr. padiggaha 133, hind. pahata 136. hind. palangari 135. s. pat 157.

mar. path 138.

pal. pateso 142, hindust. phandna 136. s. plihän- 158.

8. patis ecc. 220. peng”. pel 133.

s, pid 133.

pr. pil 133.

s. prabhata- 136.

. pradaiça- 142.

. prathama 133.

. pratigraha- 133.

. prstha- 138,

s. rägan- 140 n. s. rangh- 136. Ss rdsa- 157. pr. räya 140n. s. rgu- 131. mar. rîn 138.

Indici. I Lessico.

s. rna- 138. hind. rök 134.

s. sadanam 142. mar. säd? 139.

s. sädhvasa 142. pr. sagghasa 142. a. sahásram 158. 8. sakha 160.

s. sam-tti- 39.

s. sárdha- 139. pal. satanam 142. afgh. sil 134n, pr. solasa 133,

s. stambha- 137 n. s. sthänu- 137 n. m. ind. svank- 140.

apabhr. tâma 140. 8. tanus 159.

8. tatra 140.

pr. tattha 140.

s. tegas 140n. apabhr. tevedu 139, pr. teyas 140 n. afgh. tsalor 134n.

mar. u 131. mar. vb 141.

s. udán 163.

8. udghat 132. mar. ugavã 131.

mar. ughadan? 132.

mar. ugu 131. mar. “uk 131,

8. uRka- 131.

8. ukkista- 132,

8. uhsan 211,

ved. ulka- 133. pr. umha 141. mar. umatané 142. mar. un 14).

mar. unh 141.

599

8. unna- 131.

s. upavista- 136. 8. usna- 141. mar. usta 132.

8. ustra- 132, mar, ut 132.

mar. u-than? 132. pr. uvavitthai 136.

pr. vadda 139.

s. vadh 134,

mar. vdgh 130, mar. vdk 135.

pr. vaka 135.

mar, vdkad-a 139n. s. vakra- 135, 139 n. mar. valhândane 136. 3. vandhya- 130, pr. vangara 143.

s. vardh 136.

s. vurdha- 139.

s. vardhaka- 139. 8. varsa- 135.

pr. väsa 135.

mar. vedä 132. mar. velhala 136. mar. ven 140-41, ved, vês 159.

mar. veth 132. mar. vethã 142.

s. viddha 142.

8. vidha 134.

s. vidhana- 142.

s. vidhvan- 141.

s. vidyut- 141,

mar. vig 14).

pr. vigga 141.

mar. vighane 141. sindh, vigu 141.

8. vikata-

mar. vikräl 138, 139n. 8. vikramds 216.

8. vikrta- 138.

600 Indici. I. Lessico.

mar. vilhä 134. s. vinati- 130. mar. vindti 130.

mar. vithar 142. pr. vittälah 132. pr. vittäliya 132,

8. vyadha- 142.

av. yaos 159.

s. vis 159. s. vrddha- 136, 139. 8. yuha- 131. 8. visti- 132. s. orkis 159.

8. vit 132. 8. vrta- 140. av. 2a

8. vila- 132. s. ortti- 137, av. zasta- 158

mar, vitälan? 132. mar. vitambana 132,

aigy 163.

aiés 163. axtis 156. adonns 157. fac 157. aony 158. upons 156. ayeiuaros 159.

foie 157. Bus 157.

yoapeus 159-60. ywovtos 50-51.

deApis 156. derdoov 133. diagiuos 159. dody 157.

Zevs 157.

70n 155, meg cuxwroy 60-61. quatre 54. 74 160.

Ingiaxos 244, Pnoioy 244.

pr. vuddho 139.

pal. vutti 137.

LINGUA GRECA.

ix9vs 159.

xavua 439.

xteis 156.

xAwy 857.

xwovtes 50-51, 61.

uaxeos 156. udorus 156. uéyas 156. ueis 157. uélas 150. ur 157.

oiwves 159, osun 61. ogous 156.

mapephew 157.

zrayvs 150. nedóv 157. nodi s 159. nous 157. n06 155. zou 155. nos 157.

gay 157.

ngr. cedri 49. ngr. otxotoy Gl. ngr. oxore 49. ngr. oxorov 61, onAn» 158. cvxwrov 49 sgg.

tadas 156. tanewos 62.

téonv 156.

mgr. suuravor 62.

unee 163.

gory 158. quo 157,

gqapai 158. xequiv 159. gecueoivos 159. xsıuav 159. zeio 157. xsons 158. xéos 157.

zn» 157. x9duados 158. x9és 163. xiv 158. quuv 158. zoos 157.

abunde 571.

ac 284,

actio 425. *allicicare 94.

o. amiricatud 3. amita 248.

apis 229. appellere 7, 10. aquila 337.

arca 386. arrugia 554, 555. o. arvorsu hac 4. asillus 76. astrum 231. *attigicare TT. auctor 479. aurufex 89.

avis galaritus 206.

avus 339.

babulus 336. baca 570. bacca 570. balteus 567. bimus 159. boa -va 559. botulus 559 sgg. o. brato- 38. brevis 70. bruma 79. bulla 567. bullare 567. bullare 573. bullire 567. bura 563. buris 563. butyrum 566-7.

*caccabellus 234 n.

caligarius 327.

Indici. I. Lessico.

candidus 250. cantherius 92. caperare 550, 553, 557, 558 n. *caperus -a 557-8 n. capitulum 236-7. capo 245. capsa 81 n. capsus 81. caput 338. caries 428. carpere 428. caseum 80. cattus 233. caudica 93 n. caulis 341. cavus 431. chördus 330, 339. cibarius 231. cima 233. citrus 434. claudere 251. clava 86 n. clavellus 86 n. coagulare 232. coccum 234-5. coclea 234. coespes 430. collectus 251. *conuc’ la 237. cortex 238. cory tus 51, 61. cory tus 51. corrugare 555. corrugus 554. crabro 419. cras 163. crates 477-8. cubitus 338. cucullus 236.

601

LATINO E DIALETTI ITALICI.

cupreum 68. cusculium 237-8. cutis 249, *cutica 93 n.

defundere 94. *depanare 80. deponere 94. duecenti 337. dóctus 254-5.

favonius 78 n. *fécatum 43 sgg. *fedicum 43 sgg. *feticum 43 sgg. ferreus 479.

féta 248, 339. ficatum 41 sgg. *ficdtum 42 sgg. ficatum jecur 48. *ficitum 42 sgg. ficotum 51, 62. *fcótum 63. *fidicum 42 sgg. *fiticum 42. flamen 156. flamonium 156. foria 82 n. forum 157. fraga 248. fragilis 558 n. fur 157. fusticulus 430.

gelicidium 234. genitus 533 n, 536 n. genticus 524. gentilis 525.

gradi 216.

gratus 38.

74

602

hamula 248. hepar 54.

heri 163. hiems 159. horridus 435-6. humanus 158. humus 158.

incensum 387. ingenuare 525 sgg.

ingenuitas 525 sgg.

ingenuus 525 sgg. inguen 156, 530 n. 0. iniecto 4-5. insigne 291.

inter 163, intrusus 433. irritare 524 n.

*jacicare 93.

legenda 249. legitimus 98. lenticula 252. lien 158.

linea 387. lobus 427. locellus 88-9. o. loucarid 3 n. luscus 71.

*maca 423-5. *macca 423-4.

maceria 249, 335,

487-8. medicus 57. meditari 482 n. mel 434. *mélum 434. mens 157. merere 38. meridiare 463. messio 258.

Indici. I. Lessico.

metatus 231.

methodus 482 n.

milia 158. millia 158. motorium 217. mucro 217. myrta 63.

nesciocube 87 n.

*ne-fimite 27. *ne-gente 27. nictere 434. nihil 29, *ni-inde 27-9. niveus 88. *nivicare 88. novale 242.

oppidum 157. opulus 445,

pabulum 243. *nadulis 221. pagella 436. palanga 240. palear 436. parus 249. pastinaca 238. pecten 156. pecunia 223. pecus 223, pedica 93n. peditum 422. penes 163.

*netrarium 327.

phrygium 63. potiri 220. praesépe 88.

quantus 285. quercus 238.

*radica 93 n.

racusu 437-8, recuperare 68. reicere 93-94. *rejicicare 93. rigare 556-7. rigidus 251. rös 157. rubeus 336. rubidus 251. ruga 554. rugare 550. *ruginare 550.

sanguisuga 229-30. sécäle 58.

seges 243. serenus 73. serere 242, sibilare 441. sidus 231. siliqua 439. simitu 39. solidus 223, 251. stabulum 338. statera 486. statio 425. stellio 240-41. stillicidium 79 n. stimulus 90-91. stipula 91 n.

o. stircus 3. stlembus 440-41. stumbulus 91. *studiare 336. stumulus 91. stupere 67-9. stuprum 60. sugere 229, 240. super 163. sycotum 50. *sycótum 91.

tabella 249.

*taurica 245, 251, telebra 89 n. templum 92. tempora 92. *tempola 92-3. tepidus 340. tepulus 340. theriacus 244. tinea 244, toga 452. transtrum 444. trepidus 444. tremere 252,

o. tribarakattins 2.

abbaccare 569. abbagliare 569. abbajare 463. aberdugar 565 n. abbisui 229. abbordare 564. abbrevedatore 79. abbrustiare 464. abbrusticare 465. abbrustolire 465. abioi 230.

ablais 447.

abrét ecc. 78. acciacciare 481. accuparsi 245. adastare 474. adastiare 473-4. adasto 474, addonna 292, affacca 242. aggiaccare 94 n. aggreare 462.

aggreggiare 462 n.

ahorrar 532. akkuppare 245. alforria 532.

Indici. I. Lessico.

trusus 433, typhus 444. tympanum 62-3.

umbilicus 337.

vacivus 251. varius 230. vegere 212. vehiculum 93. verbum 426. vesica 210, vespa 213. vetustus 242.

LINGUE NEOLATINE.

algo’ 87.

algd 87.

alia 458, 465. aliare 465. aligsso 428 n. alipedde ecc. 245. allécher 94. alleggiare 423. allezzare 421. alminzone 233. altêna 88.

altre Martin 65-7.

amalear 473. amariare 471. ämbuli 253. dmido 63. amja 248, amingôni 233. ammaccare 423-4. ammujare 463. ammaliare 471, amsgnd 87 n. änfld 257. anjesula 230. annojare 463 n. äntajd-si 251.

603

victualia 534 n. vigil 212,

villus 85-6. viteus 94.

vitreus 479. vitulus 231-2. vituperium 485 n. voluta 89. vomeria 486. vulsus 427.

*sinzula 240 n.

antäna 248. anvjará 260. aonda 571. apolto 7, 10. appupare 246. arabrelläre 437 n. arangolu 231 n. aranzolu de s’arya 231 n. arcoldjo 75. archiléo 75. arga ecc. 241. argilestru 241. arezzo 435 n, arfiare 481. drpatd-si 251. arquillo 76. arraffiare 481. arrabbattare 567. arroyo «io 554, arruffare 571. arruga 555. ars'antá 259. arsenaille 222, arsenal 222. arsurja 459, 460.

604

arza -ga 230-31. arzeina 550. arzéll T6 n. arzillo 76. as'ji 248, askurpi 241. aspriare 473. asseggiare 423. assiderare 231. astar 474. astiare 473-4, dstio 473-4. dstra 231. astrdu 231. attecchire 77. aupa 245-6. aupdre 256. avélja 461. avérla 461. aviliare 471. azzicare 481 n azzo 425.

babbi 336. bacco 569. bacino -ile 569. badalischio 461 n. baffa 479.

bdla 230.

bala 568. baldon 567. baldracca 567. balenare 569. baleno 569. balla 568. ballare 568. ballare 573. baludta 248. baluginare 569. balzare 568.

bancheare 474, 476.

bara 570. baracca 570.

baraonda 571. bards’a 248. barare 570. barattare 570. barbaglio 569. barbágola 426. barbiglio 426. barbiglióne 426n. bárbole 426. barca 570. bardare 572. bardela 248.

bardu hapiddu 233.

bárgia 426. bargiglio 426. barikuli 248. barile 570. bdrla 248. barocco 570. barubinéa 486. baruffare 571. barulla 570. barullare 570. barulè 570. barra 571. barrare 571. barricare 571. barricata 571. batello 573. batteggiare 435 n. baseina 415 sgg. bazzom 568. bedustu 242. bergolare 426. besaine 415 sgg. bezzicare 443. bia 336.

biada occ. 447 sgg.

bidm 86. biame 86 n. biciâncola 434. bicchiere 570. bidra 248.

Indici. I. Lessico.

bikru ecc. 231-2. bilia 461 n. biliardo 461 n. bioto 566.

biov 340.

biov 250. bistradu 231. bitalha 534 n. biun 336. biu'm 86.

bjun 256.

bjut 250. blaice 447. blaime -dr 453. blairie 447. blans 266 n. blava 449.

blé ecc. 447 sgg. bléme 442 sgg. blesmar 453. blesmir 453. bloccare 562. blutare 566. bocckeare 466. boccheggiare 466. bofgnchio 439. bols 427.

bçlso 427. börla 248. boschiant 475 n. boccia 562. boccia 542. bocciare 561. boccione 568. boldon ecc. 560. bolgia 569. bolo 562. bolzone 561. böndola 572. boraccia 562. borchia 563. bordare 561. bordo 563-4.

bordone 564. borela 562. borra 566. botar 562. botta 561. botta 562. botte 561. bottiglia 561. bóvolo 559. bozza 562. bozzon 568. bratta 572. bricco 563. briccone 563. broca 563. brocca 563. brocco 563. brodo 565. brodo 567. broglio 563. broilo 563. brolla 563. brame 86 n. brása 231. bréva 78. brevat ecc. 78. brigidero 485n.

brigidio 78 n, 483.

brione 242, brivido 77 sgg. bröa 78.

brollo 566. brolo 563. bruciare 465. brullo 566. bruscello 558.

brusio 465 n, 483.

brusta 464. brustare 464. brustino 464, bruttare 565. brutto 565. bucchio -a 427.

Indici. I Lessico.

buccio -a 427, 562. budra 258. buffonta 474. buffoniare 472, 474. buglia 567. bugliare 567. buglione 567. bulo 562. bultigu 238. bunomere 484 n. bu'ra 248. burattare 562. buratto 562. burb 250. burchio 573. bure 563. burlare 560. burra 566. burro 566. buttare 561. buttero 561. butti 561.

caccavelle ecc. 234 n.

cáçia 81 n.

caisse 81 n.

cajo 428.

‘calcestre’ 79.

calcestruzzu 79.

campeare 474-5.

campeiar 475.

cânape 459 n.

cangrejo 432.

canterzu 92.

capistéo -éjo 486.

*capera 549.

capp 252.

capruggine 87, 549, 553 8gg.

*cdpsia 80-81.

cdpula 248.

capurnalurg occ. 549-50.

cariare 475. carminio 461 n. carpare 428. carpgne 428. cáscia occ. 81. cascina 80-81. casciône 80. casipola 432. cdslo 89. cdstol 89. castorio 461 n. catridsso 428-9. catro 477. cavina 431. cecero 63. celebro 89 n. célia 463, 466.

celiare 463, 466.

cépeau 225. cepiel 225. cerbjo 459, 460. cetrângolo 334. chaste 69-71. chauve 69-71. checheare 481 n. chettora 404. chevrette 213. child’ 87. choucroute 63. ciacciare 431. ciampa 429. cianta 429. cibre’o 486. cicigna 238, cigoa 240 n. cilaka 240. cile'cca 466. Cilizia 234. cima 62. cimurlo 431. cin 250. cigmpico 430. cidmpo 429-30.

605

606

cionta 429. cio'spo 430. cisne 63.

cita 407.

citela 430. citino 430. civg'a 486. Givrazu 231. cocca 93 n. coccodeare 481 n. codeare 467. Codi 251. codiare 466-7. codione 467. codirone 467 n. codrione 467 n. cófano 405 n. Coÿÿa 234. cogular 235. cokkula -u 234. concimajo 484 n. cdnjo 458. cono 458. corde ecc. 51. cornjolo 460. corteare 465. corteo 475. cortiar 475.

cortigianarta 296 n.

cortigiania 296 n. cortigiano 296. cortivo 475. cotrione 429. covolo 559. crata 477. crespe 70. crevette 213. criste'o 486. cucha 93 n. cuchettu 235. cucule 476. cuculiare 476. cuculio 476.

Indici. I. Lessico.

cueivre 68.

cugul 236.

cugulo 236.

cupo 245. Eusaturg 404. cusela 248,

E v. ancora s. ‘k°.

das'blá 257. davart 83. davida 535. degond 94. deniar 476. derreter 435. derrière 225. desiare 463. desw 463, 482. despartut 83.

desuglia ecc. 81 sgg.

devanadóra ecc. 89. desvarte 83.

deúsa 94. devinare 89. devôni 94. dghiavée 86 n. diavoho 483. dilefiare 476-7. dileggiare 84, 423. dileggio 84. dirigione 84. divigghia 85.

doc 251, 254-5. donneare 476. drimbi 251.

duja 248.

duned 476.

duvia 85-6. d’v’gghiöngh 85.

eguedat 523.

eis'é 83 n.

empesar 535, 530-6. engar 523 sgg.

engeo 534-5. engle 530 n.

engo 523 sgg. engoulevent 214-5. enguedat 523 sgg. enridar 524 n. gnviare 336.

epa 54.

epist’le 265 n. erba della pancia 24]. erba e brente 241. esclairir 495 n. escripia 535, estobar 68-9. estovoir 67-9. estremiare 477. étanchéite 211.

facoira 255. fagare 30. falospa 248. fardbula 248. forle'ha 248. fat 250. feche 43. fecuat 43. fecuot 57. fedi 43. fedich 56. fedico 43. fédie 44. fediR 56. fedjo ecc. 43. fee 44.

fégato 45 sgg. fegáto 43. fege 43, 57. fegier 57. feire 44, 57. feja 248.

feo 485. ferme 70. féteche 43, 59.

fetge 43. feure 57.

42 sgg. ficdt 42 sgg. ficdtu 42. ficdu 55. fidegh 43 sgg. fidge 43.

, fidigu 43 sgg. fie 43, 56.

42 sgg. fege 57. fenarola 238. fera 485n. fietu 55. ficure 57.

figd 42 agg. figdu 42 sgg. figado 42 sgg. figao 42 sgg. *fige 43.

figer 57. figgatu 42 sgg. figido 43. figne 56.

fijdd 42 sgg. filucchio 445. finzione 130. fio 485.

fiö 42 sgg. firie 43, 58-9. fiap 250. fogno 78 n. foie 44, 57-8. folguin 535. folioso 477. folliare 472, 477. forro 532. fortiku 238. fot 57. fourmi-lion 418. frale 558 n. frassa 252.

Indici. I. Lessico.

frelon 418 sgg.

frignistéo 484 n, 486.

frugg 258. frusta 259.

fugi 57.

fuifui 239. fuisessini 238-40,

fuis-fuis-fenu 238-40.

fulö ece. 419. fürfa 248. fusce'llo 430. furselu ecc. 419, fustinaja 238. fwèj 56.

gabld 257. Gadu 252.

gagliardo ecc. 450-51.

gaglioffo 451. galanteggiare 477. galantéo 477. galantiare 476, 417. galeare 476. galiar 476. galio’sso 429 n, galon 451. gambeare 467. gamula 248. garb 250.

garg 250. ÿarÿanél 437. ÿarngta 248. gasta 89.

gassa 248.

gatolo 552 n. gaulho 552 n. gaule 549, 551-2. Javan 431. gavetta 431. gavigna 431. gavine 431. gazzurro 431. gelizia 234.

607

gemito 482, ge pa 86.

gesso 63. Jgale'mber 441. gheppio 63. ghesszo 63. giannino 444. giavon 86 n. giavrina 87. giecá 93.

gina 51. giorneare 477. girare 62. glavadule 86 n. gna 285, 292, goder 214, godron 214. goga 234. gokka 242. göhulu ecc. 234 n. goldre 61. goleare 472. goleggiare 477. goliare 477. gomea 486. gondola 573. gorde ecc. 51. goulho 552 n. gousse 427, go'va 86. gráciolo 438. grado 448. gradola 75 n. grágnolo 438. grammárie 59, grançéola 432. grancévola 432. grandiare 472.

gu 87. guajarde 450.

608

gublott 256. guerriare 467-8. gumea 486. grimela 249. gummi 338. guscio -a 427. Oss -ssa 427,

hetge 43, 56. hidge 43, 56. higado 42 sgg. higddo 55. hipota 54. hitge 56.

hoge 72.

horro 532. husma 61.

thru 232. imbottare 561. imbottire 561. - imbrattare 572. imbroglio 583. imbuto 432.

ina 551. incatriare 477-8.

incatricchiare 478.

inciampare 429. indevenar 89. indeviá 85. infamiato 481 n. inferriata 479. infilziare 478. infizzid 478. ingarzullire 431. ingenhoso 533 n. insenina 73. insguu 87. intardivar 475 n, interito 432. interriare 478. interriato 478. intirissire 432-3.

Indici. I. Lessico.

intorriare 480. intruschiare 433. inveggiare 422. invetriare 478-9. istra 91 n.

ivola 248.

jable 549, 551-2. jaille 451. jalon 451.

jaule 549, 551-2. Jelle 409.

Jesse 409. jiccari 93.

jiju 232.

juste 71.

kaböni 245.

kag 81 n.

kagd 232.

kal- 232.

kaldu miñoni 232-3. kaligemuru 241. kaluka 232. kamingoni 233. kampija 335. hândi 250. kandhn 341. kannuja ecc. 237. harandttulu 232. karindtula 232. harna 252. kastila 238. kavan 431. herku 238. kigirista 236. kigua 240 n. kigula 240. hikela 240n. kilidafenu 240. kiligia 234. kilirasu 234. hirkusu ecc. 237.

koééula 234. kogone 235. koja 249. kokha 234-6. kokketta 234-6. hokhoi ecc. 234. hokkone 235. hokkorroi 235 n. kokkoroni 235. kokkorosta 236. kökoro 235. kokuli 235. home 284, kokkos 235 n. homma 284. kgnngla 405 n. köszuli 234 n. krapa 249. kraptka 236-7. krapiku 236-7. krovld 256. kruvld 259. kros 253. hkrunuka 237. ksent 258. hsua 253. hudanna 338. kugura 236. kugurista 236. kukkale 236. hukkurumeddu ecc. 236. hukkhureddu ecc. 236. kukkuru 234-6. kukkuruccu 236. kuljd 259. kund 250. hupetta 245. huskuga 237-8. kussa 249. kutiggtta 337. kwassa 249. hwissa 249.

E v. ancora s. ‘c’.

lache 70.

lagar 30.

lai 72-3.

laier 29-30. lado 448. lampadejar 422.

lampaneggiare 422.

lampezzare 421. landja 249. langueggiare 422. lanzinafenu 239. lanzinerba 239. läpja 461 n. large 69-71. laska 252.

lassinafenu 338-40.

lassinare 239. latan 250. lavoriero 485 n, lazzo 425. leémo 93. lemme lemme 442. les'a 249.

lido 448.

lirun 256. lisafenu 239-40. liselo 88-9. liserba 239-40. lisinai 240. loga 249. loppo 445. lo/na 249. louche 71. lümasa 336. lurd 250. luscengola 238. lusenda 82 n. lusnada 82 n.

maca 424. macar 424.

Indici. I. Lessico.

macagna 424. maccare 424. mache 424 n. macolare 424. maceja 487. macia 487-8. macieia 487. maddu 231. maga 424. magagna 423-5. majo 463. malas'u 252. maldvi 250. malear 473. malga 535. malie 216. mandrácchia 433. maneare 468-9. maneçar 468-9. mantrugiare 433, maque 424 n, marachella 424. marana 249. marela 249. mareizare 422. marein 415n. mas’era 249. masha 249, 256. massoka 249. mazeina 415. mazzalanga 434. mazzänghera 433-4, mazseranga 433-4. mehaignier 424,425n. meldcciola 434. melajola 434. melängola 434. melängolo 434. memja 291. mene 409, méria 463. meriana 463 n. meriare 463.

609

merio 482. merizzare 422, met 57.

me- mitulio 482 n. meszena 415 n. mignone 232. millia 291.

minta 292. mirauda 249. mirie 59.

mniss 258. mnüga 258. molentrazu 231. mommeare 476, 479. msun 258,

muc 250. mucronata 217. muga 249.

muk 250.

napula 334, nata 249.

natjá 252. nazzicare 481 n. nda nna 285, 292. negott 29. neiger 88.

nek 250.

nerto 63. nicchiare 434-5. nidiandolo 469. nidiare 460. nidio 459, 460. niente 207-9. nigrol 88. nikkár 434. nimic 29,

nipa 88.

niselo 88-9. nivello 89. nizzarda 451. noale 242.

nona 249.

15

610

nove 407.

nullia 283. nuvla 88. ’nzigng 291, 292.

ogna 291. ogre 71-2. olezzare 421. olubaga 84 n.

ombreare 473, 479.

ombria 473. ombriare 473. ombrio 482. ombrioso 473. onga 82 n. oreggio 435 n. orezzare 421.

ore zz0 435-6. orfreis 63.

oröbi 82 n. o'rrido 435. ortiju ecc. 238. osma 61.

ostriku 238. ottoleare 476, 479. otriare 476, 479.

pabarile ecc. 243. pagella 436. pagliolaja 436. pdnia 436. papejo 486. papeo 486.

papio 487. papiro 487. pappago'rgia 426. paputd 259. paratio 483. pastiare 479. parpenja 249, parzif 88. patanw 251. patela 249.

Indici. I. Lessico.

patuffiar 571, patukd 259. pazziare 472, 479. péca 93 n. pendio 482.

pesa 336. pettegolajo 484 n. pettgla 405 n. petuffar 571. piagnistgo 484, 485,

486.

picchio 461 n. pied-plat 430. pikutá 259. pinakul 334. ' pindeare 479. pio 487.

piritu 422, pisalanca 433. pistilloni 240-41. piuolo 487. ploja 249, 258. polla 76. polverto 483, postione 467 n. postrione 467 n. pozzanghera 433, prana 459 n.

pre 327.

prél 258. preveire 63. proda 564. provinco 534 n. prugna 459, 460.

prussa 249.

pudta 249,

pudda hukkuruécana 236

pummadore 287. puppattorino 436. putidero 485 n, putijetta 337. puszitero 485 n,

puzzoho 485.

quegendo 533 n, 536 n. quegno -a 292-3. quejando 533n, 536 n.

rabadere 484. rabbrezzare 436-7. rablé 257. ráca 93 n. racá 94 n. racanella 437. raccanella 437. rdcola 437-8, racoleta 437. rdgana 437 n. raganella 437-8. raÿaneila 437. rain 552. raina 552, raineau 553. rainer 552-3. rainoir 553. rainure 552-3. rampollare 76. randaneila 437. ransa 249. rapja 249. rapula 249. rasé 251, 252. rasuole 404. ravjuld 259. rebuddu 76. récer 94. recere 94. regato 552 n. regghia 557, rejd 251. rekd’r ecc. 93. remedir 535. remor 550 n. reska 249. rezevvere 94.

resina 550. re'3ão 435-6. ribaltare 567. riche 69-71. ricorteare 475. riga 556. rigagnolo 552 n, 555. rigare 556. righello 557. righinetta 557. riganelo 437. rijs'ela 249. rimbrigidire 78 n. rimediare 437. rimore 550 n. ringalluzzire 431-2 n. ringaszullire 431. rinviliare 471. riorda 330, 339. rivercio 443. rjundela 249. rocchetto 437. ro'ciolo 438. rocca 572.

rocca 572. róccolo 572. rófece 89.

rogia 554.

rojda 249.

roje 554,

roketo ecc. 437. rokk 256.

ronza 554, roteare 470. roteggiare 470. rovistiare 479, rubi 251,

rue 554.

ruffa 571. ruffiano 571. rugà 255. rugghiare 558 n, rugliare 558 n.

Indict. I. Lessico.

ruisseau 558. rujá 259. rumbula 236. rusa 249. ruscello 558. rusja 249, ruticare 438.

salijemuru 241. sambur 253. sanjunera 230 n. saron ecc. 84 n. sauve 70-71. savaj 252. savojarda ecc. 451. sbafare 479. sbafiare -ff- 479. sbagliare 569. sbalar 568. sbarúvá 257. sbocciare 562. s’bonchio 439. sbrolé 563. s‘broné 90. sbrostra 90. sbucciare 562. sburton 565 n. sbutari 562. scaciare 443. scalgo 486. scalmana 439. scalmarsi 439. scampoletto 282. scapeare 470, scapeggiare 470. scapponeare 470. scará 260. scária 89-90. séass 251, scassiare 479-80. scatricchiare 478. scatricchio 478. scempio 439.

611

scerquo 439. schimbescio 440. schirun 84 n. scilter 92-3. scitino 430. scitole 430. scivolare 441. scorbiare 480. scorbio 480.

| scoreggiare 423.

scoteare 480. scrofja 461. scudio 466. scuffiare 479. sdernar 90. sdrajare 463. sdrucchiare 438. sdrucciolare 438. s’drucolare 438. s’drulicare 438. s'drullare 438. seda 243.

sedare 243. sedarzu 243. segedare 343. seli 251.

senin 73.

seplé 225.

s’erbi 251. serqua 439, séssini 239. sföjra 82 n. sfrondeare 476, 480. sfrusd 259. sgalemb 441. s‘gale’mber 441 n. sgangasciare 440. s‘gard 260. sghembo 440-41. sgiavriner 87. sgorbio 480. s’grollgne 441. sgualembare 441 n.

612

sguffoneare 470. sguggher ecc. 84. sguillare 441-2, s’guld 259. sgurdinar 83n. sido 231.

siècle 129. signoreare 480. signoriare 472, 480. simingoni 233. Sinive’la 89 n. siridu 241-2. sirile 242. sirione 242. s'irnar 90. skoka 90. shokée 90.

shott 256. skrivs'a 249, skund 259. slera 249. slisci4 239. smaccare 424 n. smaniare 468-9. smeria 482 n. smétiga 482 n. smúrcé 90. smurtá 259. sobbuglio 567. socerio 483. soja 242.

sokka 242.

sokka de cardu 242.

sollemme 442. soru ecc. 84n. sotula 249. sparaciato 442. spassio 461 n, spenteggiare 470. spetezzare 422. spilluzzicare 442. spinteare 470. spinteggiare 443.

Indici. I, Lessico.

spluva 249, 258. sportelline 234 n. spreparato 442-3. spulezzare 422. squigghiari 442. squillare 441, stadiera 486. staera 486. staliera 486.

| stapa 252.

statea 486. statiea 486. stazzo 425. stecchire T1 n. stejva 249. stémbu 91 n.

stempeggione 443.

stéola 91 n. stichir 77. stimiare 480. stintignare 443. storcignare 443. storno 542. strabiliare 481. straja 249. striplá 257. strivassa 249. strompe 90-91.

stronbolo ecc. 9l. strucchiare 438 n.

strur ecc. 253. stupire 69. stupido 69. sturduj 90. stuzzicare 443. suber 248. suisui-fenu 240. sulafigu 230 n. sumbri 248. sundrà 82 n. surbile 242, sustra 249. s'vangn 444.

sverbicare 426. s'vercignare 443. sversa 336.

tabi 252.

tacá 77.

tachir 77. taffiare 479. tajola 249. taluéd 259. tampa 249. tampañu 63. tânkua 241. tapa 249, tapino ecc. 62. tapir 62. tardiar 475. taschin 91-2. tasino 92. tdttera 481 n. tavela 249. tecchire 17 n. tedile ecc. 243. teimpia 92. tempe 63. te'mpia ecc. 92-3. tempida ecc. 92. temperi 484 n. témpono 63. tendiare 480. terra bidusta 242. terra paperile 242-3. téte-chévre 214, tidarzu 243-4. tidingolu 243-4. tidingu 243-4. tignone 244. tilatt 252. timbene 62. timbre 62. timpanzos 63. tingolu 243-4. tingu 244.

tinive’la 89 n. tinola 249. tintula 240 n, tiriolu 245. tirriolu 244-5. tis’ojra 259. tnaska 252. tnebri 250. tnevra 89n. tompagno 63. tonchio 444, torneggiare 480. torniare 480. tornio 480. torrear 480, torreon 480. torriare 480. torrione 480, tovaglia ecc. 451-2. trabacca 570. tráccola 438. tragheszato 422. tráila -na 245. trami 252. trapati 250. traschia 79. trasto 444.

trata 250. travunde 252. trespiggiare 444. trépano 63. tribi ecc. 252. tribulina 88. triste 69, 71. trosse 226. trousser 226-7. trousses 226-7.

i. aitech 220. br. alc’ houéder 205-6. cimr. allmyn 207.

Indici. I. Lessico.

truciolare 428. tufea 444. tunvialla 89 n. turga 245, 251. tussicare 443.

wal 254.

upa -ppa 245-0.

urlare 560. urmà 61. usendda 82 n. usurja 460. utlage 72.

vacheta 570. vaglio 572. valicare 572. valigia 569. vaneare 481. vaniare 481. varare 572. varcare 572. varga ecc. 230. variare 569. varvela 250. vascella 93 n. vasenecola 89. vas'iva 251. vas'u 252. vauri 340. ve) 338. velja 461 n. vendaturg 404. venudole 89. verdiare 472. verna 250. vescovo 459 n.

CELTICO.

ai..amail 37, mi. amlaid 37.

br. aouredäl 207.

613

vetupere 485n. viéguelo 93. vigghia 85. vigil 505-7. vigliare 85. vigu 231. vilio 471. vilucchio 445. viluppo 444-5, vinopula 334, vivi 251. visza 94.

walba 250.

warnar ecc. 257, 259. wata 250,

wers 251.

wisca 250.

yengo 253 sgg.

sazara 481. saszeato 481. zassicare 481. zena 551. signa Sol. sina ecc. 551. Zinna 551. sinzula 240 n. siri 242. ziriolu 245. sirriolu 244-5, sirriolupedde ecc. 245. sua 81 sgg. sugliar 82. suma 94.

ai. dram 37. : i. arc 386. br. arwad 206-7.

614

cimr. asgurn 220. br. askourn 218, 220. celt. *asth- 220. corn, avel 37.

cimr. barcud 207. br. barged 207-8. br. bargéden 208. br. bargédi 108. corn. barges 207. br. barlen 208-9, celt. *barro- 207. gall. *besena 415 sgg. br. bili 217.

br. bilien 217. br. bionen 217.

gall. *bisena 415 sgg.

cimr. blawd 449. corn. bles 449. ai. brdth 38.

gall. Boaroude 38. cimr. brawd 38. gacl. brisgen 220. br. buoc’h 223.

gall. carnuténus 416, 417.

cimr. cebr, ceibr, 386.

br. c’houédéz 205. abr. cepriou 386.

cimr. ceroenhou 215.

corn. ceroin 215.

br. chtf 209.

br. c’houibu 209.

br. c’houil 209-10.

br. c’houilia 210.

br. c’houtl-kaoc’h 210.

br. c’houiliorez 210.

cimr. chwilen 210.

cimr. chwilio 210.

cimr. chwysigen 210.

ai. col-leir 37.

Indici. I. Lessico.

ai. com-maith 37. ai. co n- 36. cimr. craff 216. cim. cud 207.

br. dalé 211.

br. dalif 210-11. gall. dede 38. br. deviad 216. ai. digal 37.

br. ec’houeder 205. cimr. ehedydd 205. cimr. etdion 211. br. éjenn 211-12, br. eouec’h 212. gall. Epénus 417. gall. *epos 417. br. evel 37.

br. évez 212-13. corn. ewidit 205.

cimr. fal 37. br. fubu 209.

br. géoren 213. br. gód 214.

br. golvan 214-5. br. gourzaot 223. i. greinn 216.

br. grén 216, mbr, guepr 386. br. gwespéden 213.

cimr. gwysigen 210.

cimr. hedydd 205. cimr. hefyd 39. meimr. heuyt 39.

ai. imdu 40.

ai. in-bastaid 37, ai. in-chorpdid 37. ai. in-dairegdu 40.

ai. ind.-dirmith 37. ai. in-diglaid 37.

ai. ind-imdu 40.

ai. ind-immdae 40. ai. indlinech 387.

ai. in-tnasailchtid 37.

corn. keber 386. br. keseh 223.

br. Airin 215.

br. köd 214.

celt. *kram-o- 216. celt. *krem-o- 216. br. krenv 216.

i. laid 72-3.

br. lenn 208.

gall. Leucêni 417. cimr. Hosgwin 218. cimr. lost 218.

br. mal 216-7.

br. marc’h 223.

br. marz 226.

br. mechif 209. corn. medinor 217. br. migourn 217-20. cimr. migwrn 217. i. mudharn ecc. 217. br. mudurun 217. br. mugurun 217.

gall. Nersihenae 417.

colt. *od- 221.

i. odbrann 221. corn. odion 211. vann. oheh 220. celt. *otiko- 220. br. o- ouc’hen 211. br. ozac’h 220-21.

br. poull 221.

Indici. IT. Suoni. 615

cimr. poll ecc. 221. cimr. saw) 223-4. br. talier 255-6. br. seul mui 2234. br. taol 224.

br. safron 224, br. sioul 224-5. br. trédémars 226.

ai. samlith ecc. 37. br. sioulic 225. br. trézen 226-7.

br. sanal 222. br. spéó 225. br. trons 228.

br. santol 224. br. stéréden 213.

br. saout 212, 223. corn. suel 223-4. br. ufern 221.

br. sardonen 224,

br. satron 224. br. tál 225. celt. *wehk-to- 212.

LINGUE GERMANICHE.

got. auhsa 211. germ. *Alba 86. ted. pfuhl 221. ted. besen 418. ted. Aloben 86. ingl. pool 221. ted. blume 86. ted. Alotz 134, ted. quellen 76. ingl. cod 214. ingl. lag 72. ted. schlimm 441, ags. codd 214. aingl. laic 72. mat. schoche ecc. W. ags. cyta 207. got. laik 72. aat. slimb 441. ingl. estovers 69. ingl. mein 425n. ags. stille 224. ags. feoh 223. got. mêna ecc. 161. ingl. stover 69. aat. furslo 419. ags. micgern 219. ted. wachen 212. nord. hang 72. aat. nefo ecc. 161. ingl. weevtl 209. germ. *horslò 419. ted. ochs 211. ags. wibba 209. isl. kirna 215. aat. dd 211. ags. wifel 209. ingl. kite 207. ingl. outlaw 72.

LITUANO-SLAVO.

a. bulg. kamene 164. lit. menu ecc. 161. lit. zmu 159.

LINGUE NON INDOEUROPEE.

aben. aki 344. aben. -kan- 345. aben. -tekw 345. » als 345. » kinjdmes 349. » tem- 348. » arsi 345n, » -his- 348. » wonhban 344. » ess 345n. » tego 345,

II. Suoni.

à fuori di posizione, in e, 1: 328. d di dre, in e: 327. d, dato -î, in g o in i: 255, 256. a protonico in g, i: 89. a’, dato -i, in g, ej: 256. a- nel pracritico: 130,

616

ea in e: 275 sgg., 288.

“a conservato nella proclisia pa- ratattica: 276, e anche fuori di essa grazie all'idea collettiva che esso racchiude: 239 sgg.

-a per altre vocali finali negli avverbi: 292.

a viveroneso: 252; divenuto atono, in a: 260.

& viveronese: 252-3.

ae: 330, 334.

au tonico e atono: 245, 230, 334; in a: 245.

au germanico, in eo, 2a nell'ags.: 212; eronologia relativa del fe- nomeno: ib.

dj in e: 260; davanti a vocali, in a: 532 n.

aj atono, in e: 454.

a-0 in dj: 253.

a-w in bj: 253.

ALT ALD ecc.: 341.

dn° in g: 429.

dr in er: 328.

ACCENTO: 42 sgg., 44 sgg.; ri- sospinto dalla prima sulla sc- conda di duo vocali attigue: 253; in sede di quartultima: 94; nel verbo: All; di voci greche passato nel latino: 50-51, 61-2; di voci germaniche pas- sate al neolatino: 416; nella lingua abenaki: 347. Proclisia: 45, 255 n, 276-7.

Accidenti fonetici d'ordine sintat- tico o transitori: 82 n, 268 sgg., 275 sgg., 288-9, 486.

ACCIDENTI GENERALI: 132-3 (As- similazione); 133, 136 (Assi- milazione tra consonanti atti- gue); 133, 135-6 (Assimilaziono tra consonanti lontane); 222 (Assimilazione tra vocali di sil-

Indici. II. Suoni.

labe attigue); 240, 243 (Assi- milazione tra vocali di sillabe lontane); 433 (Dissimilazione); 238 (Dissimilazione medianto soppressione d’una delle duo consonanti dissimilate); 90 (Dis- similazione di due sibilanti me- dianto la riduzione di una di esse a 1); 75, 88-9, 90, 225, 238, 243, 341, 432, 437 (Dissi- milazione tra consonanti lon- tane); 142 (Aplogie); 206, 332, 422, 436, 444, 466 (Metatesi); 141, 207, 231, 260 (Metatesi tra consonanti attigue o della stessa sillaba); 231-2, 236-7, 238, 341, 478 (Metatesi da una sillaba all'altra); 240, 433, 436, 438, 443, 503, 561 (Metatesi reciproca); 130, 137 (Aspira- zione spostata); 256, 458-9 (At- trazione e Propagginazione); 83, 90, 210, 232, 233, 238, 253, 340, 438, 572 (Prostesi); 288 (Epitesi); 83, 87 n, 91 n, 341, 441 (Epentesi); 246, 339, 407, 425 (Elementi concrosciuti); 253, 285, 331, 332, 333 (A feresi); 222, 407, 427 (Caduta di suoni iniziali per l’illusiono che si trattasse di olementi formali); 442, 550-51 (Caduta d'intiera sillaba iniziale); 93, 93 n, 257-8, 265, 331, 332, 333 (Espunzione di vocali atone); 412 (Accor- ciamenti enfatici); 82 n, (Ridu- zione di voci servili); 209-10 (Contrazioni).

Analogia fonetica: 93.

Aspirate sonore in sorde; 143 n.

-b- in v: 338, in p: 459 n; dile- guato: 338.

Indici. II Suoni.

bh in h: 136. bj: 336. bl: 336, 340.

& in s: 337.

é preceduto da consonante, in s: 337.

-Ce in s: 94, 337.

cc in 33: 443, scempiato: ib.

ce ci: 337.

ej in $: 336. |

cl- intatto: 521; in gl: 86; in é: 340.

-cl- in kr: 231; in 9: 237, 238; in j: 231, 336-7, 238, 254; in 9: 254; in gg: 231, 237, 238, 254, 337, 339.

et in é: 254-5, 339; in cc: 339.

¢ sanscr., in s: 131.

ej in s: 81 n.

Consonanti finali nel latino: 263, 324.

d'in !: 134n, 138, 593 n; in ?: 135; in r: 134 n; in d: 136-7.

-d- dileguato: 244, 340; in t: 459 n.

d'in J: 132-3, 136; in 2: 132-3.

dj: 336; secondario, in g: ib.

-dj- in y: 521; in #3: 421-3,

dh in lh: 133.

dhv in gh (99h): 141,

dhy in gh: 130.

-dr-: 340.

dr in ti: 142,

ds’, d’s’ in 3: 94, 340.

do in g (gg): 141.

dy in g: 141.

Dentali, nel diretto contatto con linguali, in linguali 133; in contatto mediato, pure in lin- guali: ib.

Diloguo di vocali atone: v. 8. ‘Accidenti generali‘.

Dittonghi in vocale lunga: 156.

617

é in i, dato «i: 9.

é per influenza di attigue con- sonanti labiali, in w: 57,

é in ei: 328.

é nell’iato, davanti ad a, in i: 488.

è in te: 9; in e: 328.

è di voce proparossitona, in ig, e: 405.

é di voce proparossitona o di voce parossitona in sillaba co- perta, in e, dati -e -a -o: 406.

è di voce parossitona, e dati -i -u, in ig’: 406; dati -a e- -o, in e: ib.

è di sillaba chiusa in g, e, ¢: 329.

è nell'iato, in î: 485 sgg,, 488 n.

g in e: 86; in i: 88.

e' in e, dati -a -e -0; 404; in de: ib,

é di sillaba chiusa, in a: 252.

e protonico, in i: 9, 93, 234, 243, 332; in a: 259-60; espunto: 94.

e protonico, per l'influenza di at- tigua consonante palatale, in i: 260.

e muto: 273.

-e muto nel francese. Testimo- nianze circa all'età del suo sva- nire: 225.

-e in i: 233, 248, 334; in a: 278; caduto: 520.

-e da @, in î: 248-9, 255.

“e da -ére, in i: 251.

ei indoeur.: 417.

ei in g: 78.

-éjo in 10: 487.

en- o in- sostituiti a vocale atona iniziale formante sillaba da se: 523, 524 n.

èr in ar: 329.

éu secondario, in 6: 78 n.

Enfasi: 409.

76

618

Evoluzione fonetica determinata da aftettazione letteraria: 289; dal desiderio di scansare lo omonimie: 271; arrestata per opera della poesia e dei gram- matici: 321 sgg.

f: 338-9.

9 in d: 136-7.

-ÿ- dileguato: 229, 337-8. g in 3: 338.

-g- dileguato: 140 n, 338. ge gi: 338.

gj in 3: 336.

“gj-: 462 n.

gl. in g: 340.

egl- in 2: 555.

gn in ng: 223; in nz: ib. gw in b: 229,

he: 419; ammutolisce nel br.: 212-3.

h dileguato: 158.

hl invertito: 130

hn invertito: 141.

hr= in fr: 419.

4 in ei: 329.

4 nella vicinanza di consonanti labiali, in %: 329.

î osco per e lat: 3.

î- in g: 332-3.

i atono, nella vicinanza di conso- nanti labiali, in w: 94; in uw: 82 n, 329.

-i in a: 277.

da -iu/s m]: 458.

ie: sua pronuncia a Firenze nel sec. XVI: 306 n.

“iej- in ei, e: 486. Età della ri- duzione: ib.

Influenze varie della vocale fi-

Indici. II Suoni.

nale, principalmente di -i, nella determinazione della tonica: 9, 255-6, 277, 328, 404 sgg.

j- in g, 3: 335. je in 9, 3: 385. j di rj caduto: 460.

k- in g: 87, 89, 337, 440, 441.

k- caduto: 233, 238, 246.

-h- in 9: 236, 237; in kh: 242; dileguato: 337.

kw: 337; in p: 585 sgg.

xv nel latino: 62.

L in 2: 134.

3 raddoppiato: 442.

tin 3: 134

-l- in n: 245.

2* in vocale: 267; età del feno- meno: ib.

i, 1+ francesi, nel bretone: 216-7.

ld in rd: 232.

-li in j: 255.

lj in j: 9, 237, 335; in g:

237.

«ll: 269-70.

Hiin dd: 241.

Liaison: 271 sgg.

Linguali ne' moderni linguaggi indoeuropei dell' India: 131-5; sorte per assimilazione: 132 ecc. Alternare di r de / nelle lin- gue dravidiche e nel neo-india- no: 134-5, 135.

min b: 137-8.

mb in mm: 229. mh- in bh: 138. mh in bh, vh: 141. mj: 335.

mn in mm: 442, m'r in mbr: 331.

Indici. n in 2: 131; in r: 143. n in r: 143. -n: 151. zn in n: 254. en+voc. in 2: 254; in nn: ib. ng in nd: 137. -ng in nc: 521. eni di -dni, in n: 256. nj in #: 335; in ng: 244. nn scempiato: 131. n’r 340; in ndr: 331. ons: 148. nu: 534 n. Nasalizzazione di compenso per scempiamento di nesso: 135.

din uo: 9; ia u: 329, di sillaba aperta, in e: 253; in 6: ib.; in o: 330; in ö: ib.

ö di voce proparossitona, in ug: 405; in 9: ib.

à di voce proparossitona, o di voce parossitona in sillaba coperta, in o, dati -e -a -0: 406.

ö di voce parossitona, e dati -i

-u, in ug: 404-5.

di voce parossitona, e dati -e

“a -0, in 9: 406.

0, dato «i, in u: 9; in of: 256.

o', dati -a -e -o, in go: 404.

o" in u: 329, 330.

ö+ng, in u: 520.

o- in u: 131.

o atono, protonico o postonico, in u: 258-9, 333.

o protonico, data una attigua con- sonanto labiale, in u: 238.

caduto: 256-7. |

“o in a: 89 n; in 7: 248.

oe: 331.

oi: 229.30.

öj atono, in uj: 260.

Ce

IT, Suoni.

-p- in v: 338; dileguato: ib.

pj: 336.

pt: 336, 340.

pra- in pa: 136.

Pausa. Diverso trattamento ad essa dovuto delle consonanti finali: 270 sgg.

Pluriconsonanza. Suo trattamento nel francese: 265 sgg.

619

qu; v. 8. ‘kw’.

Quantità. Lunghe nel sanscrito: 216. Allungaiaento di nosso semplice per compenso: 135.

r in !: 347; in n: 143.

-r- in À: 84 n; in rr: 276.

r in e: 136, 140; in a: 139; in u: 137; in à: 138.

r in ra, ri, ra: 138.

er: 151, 152, 341; caduto: 54.

+r di -dr ecc. = -dre ecc. ca- duto: 257.

in li: 238.

re- atono, in gr: 332,

-re dell'infinito: 257, 341, 412.

rj: 335, 460; in rz: 243.

rl in ll: 267.

«rn: 209.

rni: 480.

rr sdoppiato: 435.

rs: 148.

rs umbro: 585 n.

rt inst: 238.

rtj in rs: 336.

Restituzioni fonetiche di carat tero meramente grafico: 270.

se in t: 243.

-s conservato: 521.

-s caduto: 5, 229,

-s preceduto da liquida, in 2: 437 n.

620

sfo- in so: 82 n.

s(i) in $: 439.

sj in s’: 336.

st- in s: 224.

sv-: 81 sgg.

Sibilanti in h: 138 n.

Sonore in sorde: 142-3.

Sillabe aperte, Il francese, lingua dallo sillabe aperte: 272; van- taggi che glieno derivano nel canto: 272-3; ritorno alla sil- laba chiusa: 273.

t in dh: 139-40.

- in d: 244, 269, 339, 448; di- leguato: 269, 339.

et caduto: 268.

th in Ah: 137 n.

tj: 336.

tre: 339.

to in tt: 142; in ty, quindi AR: ib.

é in u: 253, 330.

% in 6, davanti a p: 68. « in o: 137.

u, dato -i, in oj: 256.

u nell'iato: 534 n.

-u caduto: 520.

Indici. III. Forme.

v nel latino: 51, 62-3.

v in m: 140.

v- in b: 139, 230, 231, 233, 427, 559.

v- caduto: 230, 232.

v- seguito da o o uw, caduto: 82 n.

-v- seguito o preceduto da con- sonante labiale, caduto: 83.

-v in f: 339.

vj: 336-7.

-vj- in pj: 88; in p: ib.; in bb): 423 n.

vo- in o: 82.

vu- in u: 82.

Vocali finali cadute: 332, 333, 334; conservate dietro a nessi consonantici: 248.

Vocali nasali nel francese e loro otà: 297.

w: 339. ya in e: 140-41, 143.

3: 340.

-3-: 462.

III. Horme.

-ädu: 138-9.

-dglia: 451.

-dgna: 424-5.

-djo: 484-5 n.

-al: 138.

-drdo: 450.

-äri- 3 n.

-drius -a: 75, 230-31, 243, 327-8, 335, 480, 484 n, 187, 488 n.

-dtto: 526 n.

“en br. Aggiunto al plurale, ne rifà un singolare: 213.

-enus: 415 sgg.

-éri: 484 n.

-érium: 484 sgg., 485 n. -estris: 79.

“ica: 93 n.

dus: 421.

-teri e-: 459.

“tes: 159.

-ile: 242, 243.

-10: 482 sgg.

“ivo: 339, 475, 482-3. -orio: 404.

Indici.

«go: 553.

-ulus: 341.

-u330: 79.

ad-: 79.

de-: 83.

dis-: 83.

ez-: 81, 83.

Scambio tra prefissi, suffissi O finimenti nominali: 42, 47-8, 58, 63, 86, 138-9, 422.

-icus per -idus: 56.

-idus per -ttus: 56.

Devertali: 84, 439, 480, 551.

Tipi nominativali nel neolatino: 425, 432.

Il nominativo sing. del nome in- do-europ.: 146 sgg. Nominativo sing. a nudo tema: 162; nomi- nativo sigmatico: 146; nomi- nativo asigmatico con vocale lunga: 146 sgg.

Il vocativo sing. indo-europ. è l'antico nom. sing. a nudo tema: 162-3.

Il locativo indo-europ.: 163-4.

Special trattamento de' nomi pro- pri di persona nel vocativo”: 412 n.

Plurali con distinzione interna: 9, 255-6, 404 sgg.; e v. il di questi Indici s. «Influenze va- rie ecc. ».

Plurale nel singolare: 445, 461.

Voci derivate dalla forma plu- rale: 75.

Genere mutato: 54, 222, 225-6, 241, 407; mutato grazie alla desinenza: 54; mutato per es- sersi confuso l’a- con la arti- colo: 407.

Mascolino sul fomminile: 69-71,

Femminili di 3.º alla 1.º: 286, 287, 407.

III. Forme.

621

Neutri latini in -a: 276, 240.

Neutri latini in -Gra: 75.

Femminile sing. in -a da noutro plur. in -a: 250, 287-8.

Estensione del tipo di neutro ad altri generi: 278.

Mozione nella tonica dell’ agget- tivo: 256; e v. il 2.° di questi Indici s. Influenze varie, ecc. ’.

La desinenza neutrale dei so- stantivi collettivi estesa agli aggettivi pronominali espri- menti quantità: 280.

L'-e nel sing. di aggettivi ma- scolini francesi: 69-71.

Influenze analogiche nella decli- nazione: 69-71, 156, ecc.

Articolo: 254, 521.

Diversa forma dell’articolo a se- conda che gli segua vocale o consonante: 254.

Pronome: 9, 10, 149 sgg., 329, ecc.

Pronome personale enclitico: 251.

Pronomi personali ‘esclusivi’ e ‘inclusivi’ nei dialetti algici: 350 sgg.

Pronomi possessivi: 251.

‘tuo’ ‘suo’ su ‘mio’: 407.

Possessivi in -a: 289.

*e *o, elementi pronominali indo- europ., venuti a fungere da esponenti di nominat. sing.: 149, 151.

Indo-europ. *to-: 223-4.

Combinazioni di temi pronomi- nali diversi: 224,

s. ahdm: 155.

8. asau: 149, 155.

av. hau: 155.

8. sã: 155.

éya: 155.

ixetvos: 149.

o. ekas: 149.

622 o. eset: 149. u. esme: 149.

illaec: 408.

illud: 408.

istaec: 408.

istud: 408.

lei: 406

liei: 406.

got. ik: 155.

abulg. azu: 155.

‘questa’ in modi come ‘questa è bella’: 408-9.

VERBO.

-edre: 464.

-eggidre: 84, 421, 462 sıyg., 457 sgg.

-eráre: 532.

-ezzdre: 422-3.

«icare: 93-4, 77.

-idiare: 421-2, 462.

-igndre: 443.

“isare: 422, 462.

-izzdre: 423, 432.

-sidre: 478.

-ileww: 421.

Influenze analogiche nolla conju- gazione: 9-10, 94, 261-2, 276, 278, 409 sgg., occ.

Verbi di 2.8 alla 3.º: 328 ;alla 4.8:ib.

Le forme arizotonicho determi- nano le rizotoniche: 438, 443.

La caduta di -re dell'infinito, propria de’ verbi deboli, ostosa ai verbi forti: 412-3.

Il tipo incoativo in -isc- esteso oltro i suoi limiti: 261.

Infinito: 257.

Participio debole: 251, 313; forte: 251; accorciato: 245,

Participi forti in -onsus: 94.

Participi deboli in -uto: 251, 313.

Il congiuntivo presente del tipo

Indici. III. Forme.

monto, AaBwow in testi io- nici: 3.

Congiuntivo presente con distin- zione interna: 9.

L'imperfetto in -ta: 338.

Il condizionale in -ta: 313.

La 1.* plur. del condizionale in -essimo: 313.

Perfetto forte: morse 313.

-atid desinenza verbale osca : 1-3.

fundatid: 1-3.

parentatid: 1-3.

-tad desinenza verbale osca: 1-3.

proiecitad: 1-3.

Passivo osco del tipo kaispatar: 2.

Seconda persona del sing. con distinzione interna: 9, 404 sgg. E v. il 2.º di questi Indici s. ‘In- fluenze varie ecc.'.

Verbi graduanti: 463.

Verbi irregolari: 262.

Verbi ausiliari: 261.

‘essere’: 10.

INDECLINABILI.

-a negli indeclinabili: 283 sgg.

-s nogli indeclinabili: 284.

Preposizioni: 283 sgg.

ad in composizione con altro preposizioni: 283.

part: 493.

Congiunzioni: 285 sgg.

Combinazioni con et: 292,

Avverbio: 283.

Avverbi di luog: 87.

Composizioni con ‘non 80': 87.

quomodo-ac: 284.

quomodo-et: 284.

Formazione dell’avverbio nell'ant. irl.: 37 sgg.

-id suffisso derivativo di avverbi nell’ ant. irl.: 39, 40.

Indici. IV. Funzione e sintassi.

623

IV. Funzione e sintassi.

Temi indifferentemento verbali o nominali: 347-8.

Il passato e il futuro espressi anche nel nome: 355.

La 3.º sing. per la 3.º plur.: 10, 289-90.

Soggetto plurale con verbo al singolare: 278.

Omissione dell’articolo: 493; da- vanti al possessivo: 10.

Sconcordanze: 519 n.

ll plurale individualizzato me- diante l’aggiunzione di un suf- fisso di singolare: 226-7.

Il neutro plur. di ‘tanto’ ‘quanto’ esteso a ogni genere e nu- mero: 291.

Il neutro del possessivo in fun- zione anche di mascolino e femminile: 291.

mia tua sua, plurale ambigenere: 291,

Predicato neutro di più soggetti astratti: 290.

Uso aggottivale del casato: 297.

Il plurale del nome di animali viventi in branco derivato dal nome della femmina: 223.

L'astratto per il concreto: 485 n.

Nomi comuni da nomi locali: 91-2.

Nomi comuni da nomi di popoli: 71-2.

Nome comuni da nomi propri di persona; 444.

‘accomodare’ per ‘raccappezza- re’: 437.

‘agio’ per ‘utensile’: 248.

‘arsonale’ per ‘solajo’: 222.

‘astro’ per ‘ghiaccio’; 231.

‘bambola’ per ‘rosolaccio’: 430.

‘capra’ per ‘gambero’: 213. ‘breve’ per ‘freddo’: 79. ‘centina’ per ‘volto’: 92-3. ‘cima’ per ‘capezzolo’: 233. ‘coda’ per ‘treccia’: 249. ‘densità’ per ‘volume’: 246. ‘esser forte’ per ‘mangiare’ e viceversa: 216. . ‘esser rigido" per ‘esser neces- sario": 68. ‘folto’ per ‘ombra’: 245-6. ‘grascia’ per ‘cartilagine’: 219. ‘latino’ per ‘snello’: 250. ‘leggenda’ per ‘lungaggine’: 249. ‘madonna’ per ‘suocera’: 249. ‘moneta’ per ‘grosso bestiame”: 223. ‘muscolo’ per ‘cartilagine’: 218. ‘occupato’ per ‘folto : 245-6. ‘orrido’ per ‘freddo’: 435. ‘pietrajo’ per ‘ventriglio: 327. ‘più poco’ per ‘meno’: 409. ‘prosperoso’ per ‘bello’: 136. ‘puledro’ per ‘giovine robusto’.

‘ragno’ per ‘malmignatto’: 231 n. ‘ricchezza’ per ‘bestiame’: 211-2. ‘scranna’ per ‘granajo’: 81. ‘seminare’ per ‘generare’: 242. ‘solido’ per ‘liscio’: 251. ‘sonare’ per ‘puzzare’: 435. ‘sonare’ per * scivolare’: 441-2. ‘sorgente’ per ‘germoglio’: 76. ‘stregone’ per ‘celibe’: 216. ‘studiaro’ per ‘nettare’: 336. ‘tagliare’ per ‘castrare’: 139. ‘tagliatore’ per ‘legnajuolo’: 139. ‘tarantola’ per ‘scorpione’ e vi- ceversa: 241. ‘tardivo’ per ‘postumo’: 211.

624

‘tigna’ per ‘nuca’: 294.

‘tosatura’ per ‘perdita’: 138,

‘trafittura’ per ‘pena, angoscia’: 443.

Indici. V. Varia.

‘trave’ per ‘guancia’: 92. ‘un segno’ per ‘un pochino": 282,

Vv. Varia.

La linguistica e l'antropologia: 585 sgg.

La statistica preistorica e la lin- guistica; 575 sgg.

Lingue polisintetiche: 347-8.

Suddivisione dei dialetti della razza algica: 344.

Il dialetto degli Abenaki: 344 sgg.

Il nome Abenaki; 344.

Il nome Wabanaki: 344-5.

La lingua cortigiana: 295 sgg.

L'espressione: ‘lingua cortigia- na’: 296, 304.

‘cortigiano’ e ‘toscano’ secondo

il Trissino: 307.

La pronuncia del latino delle scuole, norma alla pronuncia cortigiana: 313.

Il fiorentino nella lingua corti- giana: 311.

Elementi provinciali nella lingua cortigiana: 313.

Elementi della lingua poetica nella lingua cortigiana: 311, 313.

Caratteri somatologici e evolu- zione fonetica: 590 sgg.

Motivi etnografici nella evolu- zione fonetica del linguaggio: 132, 134.

Tendenze ereditario nella lingua: 263 sgg.

Esseri animati o inanimati quale criterio fondamentale della flos- sione Abonaki: 348 sgg.

Onomatopea: 205.

Cronologia dei fenomeni fonetici: 267, 268, 269, ecc.

Cronologia del latino volgare: 45-6.

Voci latine nel celtico: 158, 217.

Voci latine nel bretone: 206, 207, 213, 223.

Voci latine nell’ irlandese: 386, 387.

Voci latine nel cimrico: 210.

Galliciami nel bretone: 209, 211, 216-7, 222, 225-6, 226-7.

Voci anglo-sassoni nel bretono: 209, 211, 214, 219, 221, 224-5,

Anglismi nel cimrico: 207.

Voci scandinave nel bretone: 215.

Vocì scandinave nel gaelico: 220.

L'elemento antico-irl. e medio-irl. nel Tractato of the consecra- tion of church: 363-4.

Voci celtiche nel francese: 72-3.

Bretonismi nel francese: 214, 214-5.

Germanismi in Francia: 72, 419- 420.

Germanismi in Italia: 76, 90, 80.

Gallicismi in Italia: 423, 461 n, 472-3, 475-6, 479.

Spagnolismi in Italia: 476, 477.

Voci alto-italiane nella Toscana: 427, 437, 545. q

Venetismi nell’ italiano : 422, 432.

Voci marchigiane nell'italiano: 479.

Meridionalismi nell'italiano: 472, 473, 480.

Indici. V. Varia.

Voci toscane non fiorentine nel- l'italiano: 436.

Grecismi nel sardo: 244-5.

Italianismi nel sardo: 245.

Arabismi nello spagnuolo: 532.

Gallicismi nelle altre lingue neo- latino: 415 sgg.

Influenze flessionali lesbo-eoliche nello ionico: 3, 3 n.

Influenze greche nel Vocabolario latino: 49.

Influenze dravidiche sui linguag- gi indoeurop. dell'India: 142-3.

Forme ibride latino-osche: 2-3.

Promiscuità di forme in uno stesso testo: 5.

Ibridismi nel bretone: 211.

Composti ibridi celtico-inglesi: 207.

Incrociamento di voci tra lingue diverse: 63.

. Composti: 94, 287.

Composti per giustaposizione :276.

Voci popolari e voci dottrinali. Varia stratificazione di queste: 129-30.

‘tadsama’ e ‘tadbhava’ nel ma- ratico: 129-31.

Etimologia popolare: 205, 214-5.

“alto” in ‘antenna’: 88.

‘ape’ in ‘sanguisuga’: 229.

‘aula’ e ‘curia’: 395.

‘barba’ e ‘gorgia’: 426.

‘brezza’ e ‘ribrezzo’: 79 n.

‘cacio’ e ‘cassa’: 81.

‘canna’ in ‘conocchia’: 237.

‘cavo’ e ‘capo’: 431.

‘cielo’ in ‘gelicidio’: 234.

‘deridere’ e ‘diletto’: 84.

‘fece’ in ‘fogato’: 63.

‘ficitum’ e ‘ovxwtoy’: 49 agg.

‘fustis’ in ‘cortex’: 238.

‘fustis’ in ‘pastinaca’: 238.

625 ‘milan’ e ‘bouse’: 208. ‘nutrito di fichi’ per ‘fegato’: 49. ‘pianta’ in ‘ciampa’: 429. ‘piede’ e ‘padrone’: 221. ‘quaglio’ e ‘ruca’: 232. ‘quisquillium’ e ‘cusculium’: 237. ‘ruga’ e ‘riga’: 557.

‘tarlo’ e ‘tigna’: 232, ‘tempora’ e ‘templum’: 92-3. ‘zanzara’ in ‘cicala’: 240 n. ‘z’urro’ in ‘gaz’z’arra': 43]. Riduzioni fonetiche anomale: 29. Derivazione anomala: 211.

“Primitivo dal derivato: 89 n, 426,

437.

Sostantivo rifoggiato sul verbo: 462 sgg.

Nomi locali: 90, 235, 328, 331, 335, 341, 345 n, 378, 417, 459 n, 480, 488 n.

Cagliari: 459 n.

Chartrain: 417.

False ricostruzioni di nomi lo- cali: 338.

Nomi di popoli: 593 n.

Nomi propri di persona: 160, 459 n, 462, 487, 524, 533, 593 n.

Giuseppe: 459 n.

Jdcopo: 459 n.

Salutio: 487.

Usépjo, ecc.: 459 n.

Cognome: 333, 558 n. False ita- lianizzazioni di cognomi: 333.

Parvità numerica degliindoeurop. primitivi: 578.

Grafie: 8-9, 305-6, 346-7.

Grafio a ‘rovescio: 462.

L'iscrizione di Lucera: 1 sgg. Sua correttezza: 5; testo: 1.

L'Alba. Sua essenza: 514-5. Albe religiose: 516-7.

L'Alba bilingue del cod. Vatic.

77

626 Indici. V. Varia.

Regina 1462: 489 sgg.; il suo con quelle professate da Dante: ritornello cela un testo dialet- 303. tale e popolare, 498 sgg., giunto Il Calmeta e il suo libro della a noi alterato e guasto : 489 sgg. Volgar Poesia: 298. Dialetto del ritornello: 520-21; L’autore del Dialogo o Discorso si può localizzare nella Francia sulla Lingua: 296. meridionale: 521. Ricostruzione Precursori orientali della Scienza del ritornello: 492 sgg. L'Alba delle religioni: 31-2. bilingue è ilrifacimento d'un'al- Schopenhauer e gli Upanisad: 32. ba guerresca: 517. Usi popolari 235 n.

L'antico frammento epico bellu- Pregiudizi e superstizioni popo- nese: 539 sgg.; età: 547; testo: lari: 230 n.

541-2. La leggenda del Tirthayäträ: Il Favolello del Geloso. Sua lin- 197 sgg. gua: 7-8. La leggenda di Ashtavakra:

Vincenzo Calmeta: 297-8; sue idee 201 sgg. intorno alla lingua cortigiana: 298 sgg.; analogia di queste Bibliografia: 492n.

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