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NUOVA

ANTOLOGIA

LETTERE, SCIENZE ED ARTI

QUINTA SERIE

SETTEMBRE-OTTOBRE 1913

VOLUME CLXVn DELLA RACCOLTA CCLI

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HOMA

DIREZIONE DELLA « NUOVA ANTOLOGIA » Piazza di Spagna, Via di S. Sebastiano, 3

1913

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PROPRIETÀ LETTERARIA

Roma. Stab. Gromo-Lito-Tipoerafioo Armani & Stein - Piazzale Villa Umberto I. - Roma.

ROGO D'AMORE

ROMANZO

I.

Le ultime note del duetto di Tristano e Isotta, sollevate da una esecuzione delicata e intelligente a tutte le vertigini del sogno, si rifrangevano nel loro molle abbandono di petali e di perle sulle pa- reti della sala patrizia che tante note aveva già raccolte e tanti sogni in sue secolari vicende. Le lampadine elettriche dalla vòlta del sof- fitto istoriato versavano attraverso calici di fiori una luce discreta sulla bellezza delle donne; esse nel fascino di quella musica d'amore palpitavano lievemente, ricordando o sperando. Un sottile rivo di linfa inturgidiva le gole nude tra i merletti; sguardi carichi di lan- guore si abbandonavano alla morbidezza del desiderio, appena ve- lati dalle palpebre in un cadere pudico e lento di cortina.

I sentimenti elementari sono pur sempre il grande trionfo della musica.

Così disse un signore alto, dai capelli grigi ben pettinati, giova- nilmente snello ancora nella aggiustatezza dell'abito nero ornato al- l'occhiello da una gardenia, al suo vicino più giovane e piìi piccolo la cui testa bruna impomatata e lucida arieggiava una noce di cocco posata su un trespolo.

Principalmente l'amore rispose l'altro con voce gutturale accompagnando le parole a un movimento inavvertito delle spalle strette e spioventi che gli faceva risalire la giubba sul collo nella goffaggine di una linea ereditaria che i migliori sarti non riescivano a vincere.

Già! l'amore, e dell'amore le due espressioni fondamentali : ebbrezza e spasimo. È interessante seguirne l'altalena sul volto delle signore. La grossa marchesa col suo mezzo secolo di esperienza è la più commossa. Non vorrei trovarmele vicino questa sera. Ma la gra- ziosa marchesina sua nipote è adorabile.

E poco adorata, almeno dal marito.

Appunto per questo l'amore trascendentale di Tristano e Isotta deve essere per lei una rivelazione pericolosa. Un amore fuori del comune.

Come deve piacere alle donne sentimentali.

Ma se non ve ne sono più! Del resto piace anche alle altre poiché ognuna se lo accomoda a suo talento e molte invece di morire

4 ROGO d'amore

con Tristano ricominciano con... Arturo. È forse il caso della signora vestita di lilla che sta guardandoci in questo momento.

Me 0 te?

Entrambi.

Non è la X?

Proprio lei.

Sai che si conserva meravigliosamente? Quanti anni potrà avere?

Ma! Ogni notte di S. Silvestro aggiunge un anno ai mortali; certe donne invece hanno il privilegio di scalarne uno ad ogni nuovo amante e allora, capirai, è diffìcile fare il conto.

Risero. Il signore alto di mezza età che portava una corona chiusa nel suo stemma, di un riso sottile un po' fesso; l'altro con una specie di chioccolamento grasso non molto dissimile dal rumore di un sacco di scudi rivoltati.

lo in fatto di aritmetica femminile preferisco la più semplice: i vent'anni, per esempio, della marchesina. Non c'è nulla da sca- lare lì.

E quant'è carina stassera con quell'abito^ bianco verginale che nulla mostra e tutto rivela! È come le vetrine delle modiste alla moda dove si avverte che i prodotti migliori si trovano all'interno.

Risero di nuovo, il vecchio signore aristocratico e il giovine plebeo arricchito nella comunanza di una vita che alle antiche divi- sioni nobiliari ha sostituito l'eguaglianza del denaro, spinti dalla ne- cessità di sostenersi a vicenda, l'uno democratizzandosi con grazia forzata, tentando l'altro di salire col balzo di un paio di generazioni audaci a raggiungere le conquiste di nove secoli.

Che musica divina! esclamò la signora vestita di lilla senza rivolgersi particolarmente a nessuno, per sfogo proprio, socchiudendo gli occhi sopra una visione che ella sola poteva vedere.

La grossa marchesa esclamò pure con un sospiro profondissimo :

Ah! quel Wagner come doveva conoscerlo l'amore!

Un ufficiale delle Guide che stava in piedi vicino alla signora ve- stita di lilla cercando da qualche tempo sulla punta de' suoi baffi rispose a caso:

La pratica 'non gli doveva mancare.

La pratica non basta soggiunse la grossa marchesa ci vuole il temperamento.

L'ufficiale tornò a scandagliare i suoi baffi in silenzio. Fu la signora dall'abito lilla che riprese :

Non credo al temperamento amoroso di Wagner. Pensare che l'amore di una donna gli ispirò questa musica e che egli abbandonò poi l'ispiratrice e la sostituì e la sconfessò quasi nelle memorie della sua vita... Non ha letto il terzo volume della «Vita»?

No, non l'ho letto rispose l'ufficiale direttamente interpel- lato; — ma come interpretare le parole di Wagner stesso il quale disse che non avendo inai gustata la vera felicità dell'amore volle con Tristano innalzare un monumento a questo bellissimo fra tutti i sogni?

Ritenendolo niente altro che sogno.

Sognare, vivere, essere, non essere... tutte parole che per- dono ogni significato quando si ama.

ROGO D AMORE 6

Ma se non si ama! Se non si sa amare! ribattè con ostina- zione la bella signora.

Si potrebbe scrivere d'amore se l'amore non esistesse?

L'amore lo creano i poeti.

I poeti tuttavia sono uomini.

Ma uomini sognatori.

Ogni amante è sognatore.

Forse, a un dato istante, ma poi distrugge da il proprio sogno. Non è vero? Neghi se può.

Qualche volta insinuò il giovane lentamente il primo strappo al velo dell'illusione è invece la donna che lo fa. Dica se non è vero?

La bella signora si pose il fazzoletto sulle labbra per nascondere un sorriso che non avrebbe voluto mostrare in quel momento. L'uffi- ciale allora le si fece più da presso e la conversazione continuò tra loro due, isolando la marchesa che si buttò dietro le spalle senza saper bene dove andava a cadere una frase di sfogo.

Quella lo ha bevuto il filtro... e lo a bere!

Un cachinno mordace vellicò le spalle della grossa signora fa- cendola voltare di botto. I suoi occhi accesi incontrarono gli occhietti miopi di un piccolo essere quasi gobbo ma così insolente nella sua sventura che la barba da fauno, compiacentemente accarezzata dalla mano scarna sulla quale brillava un solitario diamante, tremava e sussultava sempre in una specie di ebbrezza convulsa.

Voi che siete poeta spiegatemi un po' -questa faccenda del filtro. Non lo ha mica chi vuole!

Il cachinno si alzò di un tono nella barba irrequiet-a e qualche parola stava per accompagnarlo quando la marchesa impazientita soggiunse :

È poi diventata così magra che non si capisce come possa in- teressare ancora gli uomini.

Eh! Eh! fece il gobbetto.

Non è la vostra opinione?

La mia opinione cara ed eccelsa amica, se pur volete attri- buirle un qualsiasi valore, è che agli uomini piacciono tanto le magre quanto le grasse; le grasse per quello che vedono, le magre per quello che sperano.

Ma la bocca, guardate quella bocca tra due parentesi... Rispose il gnomo con pupille scintillanti di malizia :

Non è tra parentesi che si dicono quasi sempre le parole più significative?...

In appoggio all'assioma egli si curvò all'orecchio della marchesa mormorando qualche co^a che dovette porla di buon umore perchè diede subito col suo ventaglio un piccolo colpo secco tra la mano e la barba del fauno audace.

I dialoghi si annodavano e si snodavano così nell'ampia sala smuovendo i gruppi, accostando le simpatie, dando esca alla curio- sità; mobili, leggeri, superficiali, privi di interesse qual si conviene ad una società bene educata; e scialbi, tranne le brevi osservazioni maligne scambiate rapidamente o le piccole frasi a doppio senso gu- state con lentezza dagli uomini che si piacevano a scrutarne l'effettc

6 ROGO D AMORE

sul volto delle signore come già ne erano andati indagando la com- mozione suscitata dal duetto di Tristano e Isotta.

Quella sera più del consueto tale disposizione erotica fermentava nell'ampio salotto accolta dalle signore, non solo, ma quasi incorag- giata con una disinvoltura equivoca, con una sfida al pudore dove erano in proporzioni per lo meno eguali una certa spavalderia di emancipazione ed un oscuro rimescolìo di sensi eccitati. A tratti qualche parola pronunciata qua e avrebbe potuto dare appigli ad argomenti diversi, ma l'attenzione non si arrestava. Nessuno voleva occuparsi di cose serie notoriamente noiose. Il piacere era nell'aria; era nel volto sornione dei vecchi, era negli occhi pronti dei giovani, era nel palpito che faceva ondeggiare i leggerissimi veli sul seno alle signore e rendeva le loro labbra un poco aride e inquiete, mentre tutta la persona eretta in posa di sfìnge si offriva sicura all'indagine.

Stava appeso alla parete principale del salotto un grande arazzo rappresentante la sete dei Crociati sotto Gerusalemme. Le due teste avvicinate della signora vestita di lilla e dell'ufficiale delle guide ne mascheravano il gruppo di mezzo dove era un soldato morto di una verità impressionante; e pur tutto all'ingiro giacevano corpi stra- ziati dallo spasimo, pupille rivolte al Cielo nella disperazione di un'ultima preghiera; ed elmi, scudi, lancie denudate sotto la luce gialla del sole, in vista delle mura fantastiche smerlate sopra un cielo di cobalto che i punti dell'arazzo picchiettavano minutamente.

Ma il piacere dell'istante si moltiplicava intorno alla strage tra- passata; similmente passeggiano gli amanti nei viali di un cimitero abbandonato. Luceva il desiderio come ala iridata di farfalla in certe pupille tremule inesperte, mentre cauto se ne stava appiattato in fondo ad altre nell'occulto ansare della febbre che rade la superficie di uno stagno; e vivido balzando da altre ancora correva incontro all'occasione colla sfacciataggine di una girandola accesa improvvi- samente.

A un certo punto, poiché divisi erano i gruppi ma un filo invi- sibile li legava che tutti sobbalzavano se uno dei capi veniva scosso, la curiosità si rivolse ad una discussione sorta fra la padrona di casa ed uno de' suoi ospiti a proposito di un libro recentemente processato per accusa pornografica. Quell'argomento fu come una scudisciata sui lombi di poledri liberi. Tutti si slanciarono, chi di- fendendo, chi accusando. Buona parte delle signore protestò di non avere letto il libro, ma tutte ne erano edotte; la marchesa che sola non ne sapeva nulla se ne informò premurosamente dalla giovane signora vestita di bianco, la quale potè" darle schiarimenti precisi per averlo letto, disse, senza accorgersene.

Alcuni uomini dalle attigue sale si fecero sulla soglia del gran salotto ascoltando. La padrona di casa che aveva preso l'attitudine della lettrice scandolezzata citava abbondantemente per giustificare la propria indignazione; il suo competitore citava anche di più, citava passi di libri antichi, di libri celebri che non erano stati processati, invocando i diritti della natura, la libertà del pensiero, l'arte... Negli angolucci remoti, dietro paralumi color di rosa, grosse parole cadevano in piccole orecchie viziose.

Una tensione nervosa turbava oramai uomini e donne; più avanti di così non si poteva andare. Eppure sembrava che per una occulta attrazione malsana fermarsi non fosse possibile. L'aria era satura

ROGO D AMORE 7

di tutta la leggerezza, di tutta la volgarità che quelle persone educate sapevano una per una nascondere quando fosse necessario, ma che riunite insieme si accalorava, esalando ognuna l'intimo istinto fino a formarne un vapore denso di nausee inafferrabili, ondeggiante fra l'arazzo storico e i bronzi antichi, saliente su per i serici corti- naggi nel tremolio degli specchi a raggiungere i preziosi dipinti della vòlta, pallidi sotto il raggio lunare delle lampadine elettriche.

Nascosta nell'ombra del piano dove si era intrattenuta fino al- lora a sfogliare musica una persona, una donna, soffriva di quell'afa fino ad averne mozzo il respiro. Nata e vissuta in quella società non era la prima volta che la assaliva il sentimento nostalgico di sentirsi straniera, ma il concorso delle circostanze sembrava quella sera aggravarlo di tutti i fondi impuri vanamente celati sotto l'or- pello delle belle maniere e più che mai stridente la sua sensibilità gemeva nell'urto fra tanta ricchezza di decorazioni e povero, meschino, basso palpito d'anime.

Se nemmeno il Tribunale ha diritto di far cessare lo scan- dalo che cosa dobbiamo fare noi donne oneste?

A tale interrogazione profferita con petulanza dalla padrona di casa la persona si alzò nell'ombra del piano, per parlare, per dire una parola che le bruciava le labbra, ma nel medesimo istante, dal lato opposto della sala, una voce d'uomo calma e severa rispose :

La sola cosa da fare è non parlarne affatto.

La persona si scostò allora dal piano, uscì dall'ombra, guardò in fondo alla sala meravigliata colui che aveva saputo alzare una protesta collo stesso pensiero, quasi colle stesse parole che ella stava per pronunciare, che appunto ella voleva dire essere in tali casi il silenzio la migliore difesa del pudore. Guardò, vide un volto ignoto, meglio del volto, sentì l'anima nella voce e fra tanta gente nota ed amica, dove si era svolta fino allora la sua esistenza, tra gli oggetti famigliari che costituivano il suo mondo, quell'ignoto, quello solo, le parve che da altri mondi, da altre vite venisse a re- carle un verbo inutilmente sognato poiché in lui solo si era riper- cosso il grido di rivolta della sua sensibilità offesa, in lui solo.

Di nuovo i gruppi si suddivisero, riprese il parlottare a voce bassa; le signore più giovani incominciarono a girare offrendo tazze di thè e sorrisi; molti uomini si dispersero nelle altre sale; qualcuno consultò l'orologio furtivamente; la signora vestita di lilla trasse pure furtivamente dalla borsetta a maglie d'oro che le pendeva al braccio un minuscolo oggetto che si fece passare sulle guancie e sul collo. Nel vano di una finestra la signora dall'abito bianco ri- spondeva alle insistenze di un giovinotto che la stringeva da presso :

No, domani non posso.

Dopo domani?

Nemmeno.

Allora quando?

Passò un vassoio di gelati. La padrona di casa ne offerse ad una vecchia signora della quale nessuno si occupava.

A Parigi, a Parigi, bisogna andare a Parigi, Cosa volete mai trovare qui da noi! strillava di mezzo ad un crocchio il mi- lionario plebeo dalla testa a noce di cocco. L'Italia è l'ultima delle nazioni.

8 ROGO d'amore

Quando torneranno di moda gli abiti a volants?

Grazie, non prendo thè, non potrei dormire.

La terza in prima fila, vestita da libellula.

Il quindici per cento, scherzi?

Non porto busti al di sotto delle cinquanta lire.

A un tratto sull'incrocio delle frasi che volavano di gruppo in gruppo si alzò da una delle sale adiacenti un suono di voci alte e concitate come di rissa. Tacquero le ciarle per incanto e si affol- larono gli usci.

Sulle prime non si comprese bene di che cosa si trattasse. Una voce angosciosa gridò :

Ritiri quella parola, la prego. Una voce secca rispose :

Non ritiro nulla.

Allora la voce di prima pronunciò una frase che andò perduta nel tumulto di sedie rovesciate e di esortazioni : basta! basta!

Qualcuna fra le signore si spaventò. Il signore alto dai capelli grigi che rispondeva al titolo di principe facendo loro baluardo del proprio braccio riuscì ad allontanarle respingendole verso il salotto principale.

Calma, calma, non sarà cosa seria.

Ma si voleva sapere. Un tumulto simile in quell'appartamento signorile era troppo fuori delle abitudini. La padrona di casa si mostrava indignatissima :

Ma che credono, di essere in piazza?

E chi grida infine? Odo la voce del tenente...

No, piuttosto del barone...

Forse una querela di giuoco...

Il milionario plebeo irruppe improvvisamente nel gruppo fem- minile che il principe aveva allontanato dal campo di battaglia.

E così? E così?

Pare impossibile chiocciò il giovane sollevando le spalle strette e allargando le braccia con tutti i segni della sorpresa.

Che avviene dunque?

Una sfida, nientemeno.

Una sfida? esclamò il principe enfiando le narici.

E per una sciocchezza, questo è l'assurdo.

Chi? Chi? chiesero ansiose le signore stringendosi intomo al narratore. Chi deve battersi? Perchè?

Una sciocchezza, una sciocchezza continuava a ripetere il' giovine scuotendo da destra a sinistra la testa impomatata. Si parlava di cappelli tirolesi, figuratevi! Qualcuno nominò il Tren- tino. « Che Trentino! disse il barone. Il Trentino politicamente e nor- malmente non esiste; è un paese bastardo ». Allora quel signore nuovo, quello che fu presentato questa sera, credo, quel Moéna, gli fu addosso con un balzo gridando : « Ritiri subito la parola bastardo che è un insulto ad una delle più nobili terre italiane ». Natural- mente il barone non volle ritirar nulla. L'altro, ostinandosi, preten- deva che ritirasse. A un secondo diniego del barone l'insensato grida : « È bastardo chi rinnega il proprio paese ». « Faccia il nome se osa! », urlò il barone. E il suo nome gli fu gettato sul volto come un guanto.

Ooh! fecero le signore.

ROGO d'amore 9

Il vecchio principe, un po' pallido, chiese :

Non si è tentato di intervenire?

Certamente; ma quel Moèna sembrava un pazzo. Non fu pos- sibile fargli intendere la ragione. Pensare che l'origine di tutto ciò è un cappello...

Cioè, cioè interruppe il principe.

Sì, capisco, ma via non era il caso di fare una simile qua- rantottata proprio la prima volta che si è presentati in una casa.

Tutti approvarono. Una signora che portava al collo ventimila lire di perle e altrettante le baluccicavano in brillanti soggiunse :

Per un paese poi che nessuno conosce.

Intanto nel piccolo salotto dove era avvenuta la sfida, rimasto vuoto, due signori si disponevano ad accompagnar fuori Moèna che alterato in volto e pallidissimo sembrava non vedere nulla intorno a sé. Il biasimo della elegante società che si era allontanata da lui, offesa ne' suoi sentimenti superficiali dall'impeto di uno sdegno giu- dicato di cattivo gusto, lo cingeva di una zona ostile; si sentiva rin- negato, bandito per sempre e la furia che pochi istanti prima gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene si congelava in una sensa- zione di amarezza infinita.

Lieve un fruscio di gonna ed un sommesso accento lo arrestarono sulla soglia mentre usciva.

Mi permetta, signore, di ringraziarla per la sua nobile difesa di una terra che amo. Qualunque sia l'impressione che ella riporterà da questa serata sappia che un cuore italiano l'ha compresa.

Uno sguardo ricambiato colla rapidità inconsapevole di due fanali che si urtano nella notte; una stretta di mano senza sentire la mano; un volo d'anime. Non altro.

II.

Signora contessa, non c'è più posto disse l'inserviente inchi- nandosi con rispetto dinanzi alla signora che entrava allora nell'atrio del Circolo affollato di uomini. La sala è colma.

Molti di quegli uomini si scostarono aprendo un passaggio fino all'uscio dove la signora fu arrestata da una muraglia di persone già tutte in possesso di una sedia, di un cantuccio, di uno stipite, nella attesa impaziente del grande conferenziere. Un rapido giro delle pupille la fece persuasa che sarebbe stato impossibile penetrare dentro e già stava per retrocedere quando un giovane alzandosi le offerse la propria sedia.

Moèna? fece la signora con una sorpresa piacevole e calda, che si tradusse nell'espansione della voce, nel baleno dello sguardo.

Dalla sera della sfida non si erano più riveduti. Si riconob- bero quasi per istinto, per un impulso magnetico che li attraeva l'uno verso l'altro da reconditi misteri del loro essere. Era in loro la sen- sazione confusa di un vincolo anteriore al caso che li aveva posti di fronte, una specie di voce del sangue che li segnava col suggello di una razza.

Devo ringraziarla disse Moèna senza calore nell'accento, ma con una persuasione intima che dava alla sua bella voce una

10 ROGO d'amore

nota di gravità. Ella è stata molto buona a interessarsi di me per tutto il tempo che la ferita mi tenne infermo.

È ora almeno guarito perfettamente?

Sì. Sono già scorsi due mesi da quella sera sciagurata.

Un impeto di sdegno retrospettivo colorì di una vampa improv- visa il volto del giovane. Egli soggiunse:

La costanza di lei nel mandare a prendere notizie mi provava che la causa da me difesa era giusta e questo è pure un grande con- forto per uno che combatte da solo sopra un campo abbandonato dai compagni.

Dalle ultime parole di Moèna trapelava uno scoramento, una tri- stezza profonda.

Lei si è forse meravigliata che una sconosciuta osasse ciò? disse la signora con un poco d'ansia nell'accento.

Moèna ristette, dubbioso, mentre la signora continuava :

Io mi interessai sinceramente a quel suo nobile entusiasmo così raro a trovarsi nella gioventù dei nostri salotti. Lei è trentino nevvero? Conosco il Trentino e posso ben dire di amarlo per tutte le sensazioni nuove dolci e melanconiche che m'ha suscitate; lo amo nella sua bellezza, lo amo nel suo dolore; sopratutto nel suo dolore.

L'entrata del conferenziere interruppe il colloquio. La signora si raccolse quietamente sulla sedia offerta da Moèna; il giovane stette ritto al suo fianco, un po' indietro, per modo che ella ne scorgeva appena la linea della persona in attitudine di grande attenzione. Lei invece si accorse più tardi di aver perduto il proemio. della conferenza per essersi soffermata a rifare colla mente il loro singolarissimo in- contro primo, poi le notizie del duello propalate dai giornali e com- mentate in diverso modo, poi l'interessamento e la pietà che l'ave- vano spinta a inviare tutti i giorni un messo quando si era parlato di imminente pericolo per il ferito. Un biglietto di visita: «Ariele Moèna » l'aveva ringraziata allora sobriamente e correttamente e tutto sembrava finito.

Ma quel ritrovarsi improvviso concretava la visione in un fatto di vita; Ariele Moèna non era più un'astrazione, un sentimento, un soffio di idealismo sopra l'onda volgare della comune esistenza. Egli era lì, dietro a lei, silenzioso ma vero. Non visto lo sentiva nella sua stessa immobilità e appunto perchè non lo vedeva, lo pensava. Le parole dell'oratore cadevano su entrambi, udivano insieme lo stesso suono, penetravano nello stesso pensiero, seguivano con ansia eguale (ella non ne aveva nessun dubbio) l'ascensione di uno spirito elevato nei puri domini dell'idea.

Quando a conferenza finita, la signora si alzò e voltandosi im- merse lo sguardo nello sguardo del giovane, rivisse l'identico istante della prima volta che lo aveva scorto, colla stessa impressione di trovarsi davanti alla rivelazione di un'anima.

Uno scroscio d'applausi faceva rimbombare la sala fra l'urtarsi affannoso della gente che tentava di raggiungere il conferenziere per mettersi in vista, per complimentarlo, per raccogliere le bricciole del suo trionfo. La signora si ritrasse in un cantuccio a aspettare che sfollasse e Moèna le rimase al fianco, tacito. Ella comprese la prote- zione delicata senza mostrare di rilevarla; osservò anche che il gio- vane prendendo una sedia vicina la scostò innanzi di sedei*visi. Ogni

ROGO d'amore 11

SUO gesto aveva questa signorile impronta di distacco, quasi di im- materialità, che costituiva la di lui espressione più caratteristica.

E suo concittadino il conferenziere? Un'ombra discese sulla fronte di Moèna. Rispose :

Abbiamo entrambi l'orgoglio e il dolore di chiamarci tren- tini, ma non siamo dello stesso paese. Egli è della valle di Non.

Fu un appiglio per riparlare del Trentino.

Conosco la valle di Non disse con calore la signora. Quanto è bella!

Ma quanti italiani la conoscono? soggiunse Moe'^a con in- finita tristezza.

È vero, il Trentino è poco noto agli italiani. Fu per me quasi una scoperta. Eppure l'impressione di bellezza che esso è nulla in confronto alla sua fisionomia sentimentale, se così posso espri- mermi. Mi ricordo di aver visto nella fuga del treno una casetta bianca nel mezzo di un prato intensamente verde; sul tetto della casetta sventolava una bandiera rossa. Rapida apparizione subito scomparsa, ma commovente e poetica tanto che ancora quando vi penso rivedo il verde all'asta e il rosso al vento di quella singolare bandiera quasi un augurio ed un presagio per la terra sventurata.

Il giovane aveva ascoltato attentamente senza che si mutasse una linea del suo volto severo ed astratto, come se una parte sola di lui fosse presente e rimanesse l'altra celata nelle nubi di un mondo invisibile. Usciva tuttavia da quella forma muta un fluido di sim- patia spirituale che trascinò la signora a proseguire le sue confidenze.

^ E a Trento, passando in carrozza il ponte sull'Adige, quando il cocchiere mi disse che il ponte è minato, che altre mine sono in- torno, che dai forti sulla città stanno rivolte le bocche dei cannoni, ebbene, non l'ho mai detto a nessuno, lo dico lei, un gruppo di pianto mi salì alla gola...

Si interruppe, meravigliata ella stessa di avere concesso tanto dell'anima sua ad uno straniero di cui appena conosceva il nome.

È questo che gli italiani non sanno disse Moèna colla sua voce profonda e un po' velata, come erano profondi e un po' velati i suoi occhi perduti nel vuoto, lontanL

L'inserviente che aveva inchinata la signora al suo apparire le stava ora dinanzi in attitudine di attesa. Ella si accorse della sala e dell'atrio deserti e sorse prontamente in piedi avviandosi alla car- rozza che l'aspettava nel cortile. Mentre saliva il predellino Moèna disse ancora :

Il conferenziere che abbiamo udito oggi terrà una lettura prossimamente alla società nostra sulle valli e le acque del Trentino. Le interesserebbe di assistervi?

Come no? Lo desidero vivamente.

Se mi permette le manderò un invito.

La ringrazio, ma non vorrei crearle un imbarazzo : gli inviti saranno ricercati.

Oh! il tema non interessa molti! rispose il giovane, intanto che l'accenno ad un malinconico sorriso interrompeva per un attimo la linea chiusa della sua bocca.

Ripromettendosi di non mancare la signora parti trasportata a un trotto rapido. Le rimaneva tuttavia in fondo alla pupilla la visione di Moèna con una vaga curiosità e un materno interessamento per

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quel giovane che le suscitava rimembranze romantiche di eroi d'altri tempi. Questa era la sua impressione esatta: un eroe d'altri tempi.

Quale donna passerà mai nel sogno di quegli occhi?... pensò. Ma non era ancor giunta a casa che le solit-e preoccupazioni e i pen- sieri inerenti alla sua vita l'avevano ripresa.

Qualche settimana dopo, in un mattino freddo della fine di marzo, sul punto di recarsi alla stazione chiamata al letto di una parente moribonda, la signora ricevette l'invito promesso e tornandole subito a memoria l'ultimo incontro con Moéna si rammaricò sinceramente del contrattempo che le toglieva la possibilità di approfittarne. Du- rante il viaggio solitario la figura del giovane le passò una o due volte attraverso la mente, più che in forma materiale in quella sua parti- colare espressione di sentimenti rari e di misteriosa anima ardente che lo faceva diverso dagli altri : Peccato! mormorò fra sé.

Fuggivano intanto dinanzi ai suoi sguardi gli alberi raggric- ciati e tristi nella repressione delle prime gemme che un ritorno ina- spettato dell'inverno sembrava congelare sui rami.

Sotto malinconici auspici la dolente visione a cui andava in- contro si impossessò interamente del suo spirito. Colei che moveva a visitare era l'ultima della sua famiglia, l'ultima di quei parenti che l'avevano veduta bambina, poi giovinetta, poi sposa, sempre gio- vane per loro quantunque in realtà non piìi giovane ed amata del sicuro e placido affetto dei vecchi.

Giunse tardi; l'inferma era spirata la sera prima. Una povera serva piangeva silenziosamente accanto al letto del quale aveva rim- boccato il lenzuolo sul volto della morta posandovi sopra un ramo di mortella.

Oh! signora contessa, disse subito arriva a proposito. Non c'è nessuno per ordinare il funerale.

La signora dette un'occhiata in giro. Da molti anni non veniva più in quella casa; le parve misera più che non fosse mai stata, una fredda casa di zitellona provinciale dove ogni suppellettile era muta e stantia, pervasa da un odore di muffa e di mandorle amare, con una poltrona sotto la finestra incavata come una tinozza. Ecco pensò ha vissuto qui... -dalla poltrona alla finestra per anni ed anni!

Un fischio la fece sobbalzare lievemente. Alzò gli occhi e vide un merlo sospeso in una gabbia.

Dov'è il dottore? chiese la signora.

È venuto a verificare la morte e poi è partito.

E il sacerdote?

Anche lui è venuto; son venute le vicine, è venuto un uomo a proporsi per la guardia, son venuti tutti, ma ora non c'è più nessuno.

Le ultime parole della domestica risuonarono col tonfo cupo di una pietra gettata in un pozzo. Il merlo fece eco. Quella riprese :

Non ha lasciato testamento.

Continuando la signora a tacere l'altra svolse una lunga litania di miserie, di denari perduti, di roba sciupata, di conti da pagare; e ancora il medico, e ancora la chiesa, ancora il funerale; quante torcie? quanti preti?... E di lei, poveretta, che avverrebbe? Non aveva da parte neppure un soldo...

ROGO d'amore 13

Un senso di puntura nella nuca avvertì la signora che c'era un vetro rotto alla finestra; la cortina stessa strappata dalla verga di ferro penzolava con una non lontana somiglianza di impiccagione, gonfia nel ventre dei pappagalli che vi erano disseminati, opaca per la molta polvere raccolta e grigia sotto antiche traccie di amido che vi facevano delle placche qua e là.

Dovunque l'occhio si posasse non incontrava che abbandono e desolazione. Quella casa che pure era stata graziosa una volta aveva seguito fedelmente la decadenza della sua proprietaria; non più illu- sioni, non più fiori, non più giovinezza, non più canti. Non più passione di vita, non più attaccamento agli oggetti, non più bisogno della bellezza, non più cure attente e previdenze amorose. Un cuore era morto, la casa era morta anch'essa. L'amore forse vi aveva bat- tuto un giorno la sua ala vittoriosa. Che ne era rimasto? Nulla.

Un brivido che non appariva solamente di freddo spinse la si- gnora a muoversi. Occorreva abboccarsi col curato e col medico : ella uscì. Ognuno le parlò della defunta, lodandola, s'intende, con una mal celata curiosità di conoscere le intenzioni dell'erede.

Essendosi stabilito il funerale per l'indomani il medico le pro- pose di passare la notte in casa sua, ma la signora dichiarò che non si sarebbe coricata. Accettò appena l'uomo che si era offerto per fare la guardia al cadavere permettendo alla serva di prendere qualche ora di riposo mentre ella stessa si sarebbe coricata senza spogliarsi sul divano del salotto.

Quando rientrò un fitto nevischio punteggiava l'aria di innu- merevoli spilli. La signora si strinse il velo intomo alla faccia attra- versando rapidamente le strade poco note dove la sua elegante figura attirava l'attezione dei rari péisseggeri. È l'erede mormorava qualcuno che l'aveva vista discendere al mattino alla casa della morta. Sulla soglia si accorse di una vecchierella che la seguiva umilmente :

Se volesse farmi la carità di un po' di spoglio... siamo tanti in famiglia... qualunque oggetto sarà buono.

La signora promise; ma da un cantuccio dove stava appiattata un'altra misera forma umana mosse verso lei implorando i rimasugli della cucina, un pugno di riso, un fondo di bottiglia, il cartoccio del sale...

Anche a quella promise.

Durante la sua assenza la donna di casa aveva acceso nel salotto un fuocherello di sarmenti dei quali appena entrata ella non vide che il fumo. La donna si scusò adducendo che la defunta padrona per non rimanere sola nel salotto andava a scaldarsi in cucina.

Ebbene, sarei venuta anch'io in cucina rispose la signora sorridendo. Mi dispiace che vi siate presa questo disturbo.

La donna rimase confusa per tanta semplicità e sempre scusan- dosi ammannì una piccola cena improvvisata sopra un tavolino ro- tondo verniciato di nero con nel mezzo una gondola tra flutti cerulei. Il tavolino aveva un solo piede nel centro e traballava appena tocco.

Frutta non ce n'è disse ancora la serva zelante ma ci deve essere qualche biscotto.

Cercò da prima sul piano del caminetto in un vaso che doveva essere stato anticamente un vaso da tabacco; era vuoto; poi aperse

14 ROGO d'amore

un armadio a muro scoprendo un panierino con dentro cinque o sei bozzoli, una matassa di lana scura, una bottiglia di tamarindo.

Lasciate, lasciate insisteva la signora.

Ma la buona donna aveva finalmente posto la mano sopra un piatto dove alcuni biscotti stremenziti sorgevano da una pagoda chi- nese. Solamente nel trarli alla luce si accorse che i sorci vi avevano lasciato le loro traccie ed arrossendo li ripose.

Bisognò ancora dare gli ordini per la mattina seguente : il fu- nerale, le torcie, i preti, i poveri...

Rimasta sola la signora vide nello specchio a cornice di legno che sormontava il caminetto un volto femminile intelligente e grave, vide la goccia dei piccoli brillanti appesi all'orecchio e l'iride aperta degli occhi che sembravano guardare meravigliati i suoi.

Era infatti una meraviglia ch'ella si trovasse in quell'ora così lontana da casa sua, dalle sue abitudini, dalle sue amiche. Con un gesto impulsivo di donna accurata si ravviò i capelli e girando lo sguardo intorno sullo squallido mobiglio rievocò in un baleno di de- siderio il suo appartamento così comodo, così tiepido, così pieno della sua vita. Povera donna! mormorò pensando alla defunta. Avvici- nando poi alle pareti la candela che la domestica aveva lasciato sul tavolino rimase fìssa in contemplazione di un dagherotipo che rap- presentava la sua parente a diciotto anni vestita di bianco con cinque piccole balze in fondo alla gonna e una ghirlandina di rose sui ca- pelli pettinati a bando. Per spontaneo contrasto le si affacciò alla mente l'ultima volta che l'aveva veduta in negre vesti con una giacca di flanella ovattata e una treccia di color castagno torreggiante su pochi cespugli di capelli grigi.

Tutto era triste intorno, di una tristezza vuota e meschina, colla sola grandiosità della mort-e che si sentiva presente nel silenzio.

La signora tentò di adagiarsi sui guanciali già apparecchiati, ma non aveva sonno. Si alzò, fece qualche giro ancora nel breve salot- tino rattizzando il fuoco, malinconica, coi nervi abbattuti, pensando al dimane che le avrebbe recato una giornata densa di occupazioni e di nuove tristezze, chiusa in un cerchio di piccole avidità e di in- vidie che non conosceva esattamente ma che presentiva sospese su quella casa in rovina come si intravede da lontano il volo dei corvi attratti dall'odore del cadavere.

Ma tutto lascerò a loro! concluse la signora allargando le braccia con un movimento di rinuncia e di sollievo insieme.

Allora, su dal cuore, con un gesto improvviso d'acqua che rompe la durezza del suolo e si afferma in polla cristallina, un pensiero che fino a quell'istante era stato compresso e soffocato dalle imperiose necessità dell'ora le balzò netto dinanzi : Moèna doveva averla aspet- tata alla conferenza.

Moéna. Un amico? No. Un conoscente? Quasi neppure. Sapeva così poco di lui! E dunque? Ma aveva promesso, aveva ella stessa sollecitato l'invito. La sua squisita gentilezza soffriva di ciò che avrebbe potuto interpretarsi nel senso di una goffa trascuranza. Ri- vedrebbe ella mai Moèna?... forse no. Allora si decise.

In una cartella di marocchino rosso spelacchiata agli angoli ri- maneva uno di quei fogli di carta da scarto che i rivenduglioli smer- ciano nei paesi. Poche goccie di inchiostro in un calamaio di vetro e una penna spuntata bastarono al breve biglietto che ella scrisse in

ROGO d'amore 16

piedi. Nessuna preoccupazione della povera forma in cui si chiudeva il suo pensiero la turbò menomamente. Ripeteva a se stessa con una certa dolcezza che Moèna ricevendo il biglietto avrebbe scorto Tim- pos5Ìbilità assoluta in cui ella trovavasi di assistere alla conferenza, che questo gli avrebbe fatto piacere almeno perchè il suo amor proprio rimaneva illeso.

Tranquilla, serena, chiuse il foglio in una busta troppo larga, vi appose lindirizzo e lo lasciò sul tavolino nero del quale masche- rava in pai-te la gondola.

Colla prima posta di domani sarebbe partito. Ma non vi era pericolo che lo dimenticasse?... Si tolse dal collo la sottile catena dell'orologio e ve la posò sopra, delicatamente, intanto che rileggeva la soprascritta: Signor Ariele Moéna.

Così disse a voce alta tutto è in regola.

III.

Si ritrovarono in società. Questa volta la signora, pur ricordando la soave impressione del loro primo incontro, quando la voce di lui in fondo al salotto signorile e volgare si era alzat-a come un bian- cheggiare d'alba, non potè difendersi da una particolare ansia che era in fondo una sfiducia di stessa, quasi il timore di veder sciu- pato in una consuetudine senza interesse il bel gesto che l'aveva per un istante accostata ad Ariele Moèna. Intuiva che nessuno dei discorsi soliti avrebbe potuto interessare quel giovane cui una in- visibile corazza sembrava cingere di spiritualità e che aveva nello sguardo una inquietante ricerca, come l'inseguimento perenne di una idea, come un palpito d'ala ininterrotto che gli mantenesse in tomo una atmosfera più pura.

La fredda correttezza che era nel volto e nei gesti di Moèna non lasciava adito a facili indagini.

Si videro, si salutarono, poi furono divisi, Moèna entrò in un crocchio di giovani, la signora si pose a ciarlare con qualche amica. Solo più tardi poterono avvicinarsi e ancora la signora fu assalita dalla curiosità di quell'anima.

Un lento e dolce conversare si svolse subito fra loro, pari a sottil rivolo che nutrisse in entrambi occulti germi, girando per oscuri meandri dalla bassa poltroncina di vimini dove egli stava seduto al piccolo divano sulla cui sponda ella abbandonava il braccio; così placido senza turbamenti, appunto come rivo d'acqua limpida, ma che pure sembrava in certi istanti fiotto di sangue pulsante blan- damente ai polsi. Più la signora persuadevasi che la sua compagnia non era sgradevole a Moèna e più le cre.sceva l'ansia di penetrare nel di lui pensiero.

Sa, gli disse a un tratto anderò presto a salutare le sue montagne. È molto tempo che non vede Trento?

Anni fece egli con un gesto scorato.

Ho cari amici lassù, vado a compire un pellegrinaggio di affezione.

Prende la linea di Ala o fa il lago?

Altre volte andai per Ala, ma non le nascondo che il lago mi tenta assai.

16 ROGO d'amore

Non conosce il Garda?

TT~x^? ~ rispose la signora quasi vergognosa della confessione Ho torto, nevvero?

Ha torto perchè il Garda è uno dei più poetici laghi d'Italia ed amarissimo come un certo mare...

Oh! anderò senza fallo questa volta esclamò la signora con slancio.

Quanto sarei lieto di poterle servire da guida! Io lo conosco palmo a palmo.

L'inaspettata proposta sorprese la signora, quantunque Moéna l'avesse annunciata nel modo più semplice, senza alterare una linea del volto che solo si animò un poco continuando :

Il Garda apre la via ai laghi del Trentino che tra grandi e piccoli sono più di trecento. Ha una sua impronta particolare schiet- tamente italiana che tutti gli sforzi del pangermanismo non riescono a snaturare. Invano accorrono ad esso i capitali tedeschi popolando le sue rive di alberghi e di ville tedesche, invano una canzone di irredentismo a rovescio suona la diana per persuadere che il Garda italiano è una usurpazione; le sue acque profondamente azzurre, il suo cielo, i suoi fiori, i suoi aranci, i suoi ulivi, la sua storia, la sua gente, tutto grida Italia.

Queste parole accrescono il mio rimorso disse la signora.

Santo è il rimorso ribattè il giovane se conduce alla conversione. Vada, vada al Garda e ne parli e lo faccia conoscere. Noi Trentini ci interessiamo a tutte le questioni che interessano il regno, ma abbiamo bisogno che anche i nostri fratelli si interessino a noi. Il Garda è una delle porte del Trentino, la più affascinante, e l'oro tedesco la insidia senza posa. Noi dobbiamo vegliare per con- servarla italiana.

Fare dell'irredentismo?... mormorò la signora scrutando fis- samente colle pupille le pupille di Moèna.

Egli ebbe un movimento di grazia improvvisa nella piega ma- linconica della bocca. Rispose :

Basterà amare. L'irredentismo per la maggior parte di noi è un sogno angoscioso, un anelito continuo anche se nascosto a libe- rarci da una oppressione che si traduce in cento forme di umilianti angherie, è una tensione spasmodica dei nervi, è un sospiro del- l'anima, è un contrasto sempre più insopportabile fra il sentimento e la vita, fra l'aspirazione e la realtà, fra il nostro diritto naturale e la legge che ci è tirannicamente imposta. Per voi, per gli italiani liberi, sia l'irredentismo una forma di infinita pietà, un fraterno desiderio di saperci felici, un orecchio aperto ai nostri gemiti, una mano tesa alla nostra debolezza, un cuore che batta apertamente e lealmente accanto al nostro. Chiediamo troppo?

L'ardore del giovane contenuto in una giusta padronanza di gesti e di voce trovava nelle più nobili fibre della donna un'eco già pronta. Ella non ebbe bisogno di molte parole per affermarsi. Dal suo sguardo, da quel tutto insieme misterioso e profondo per cui traluce il pensiero, Moèna dovette sentirsi compreso. Soggiunse senza guardare la signora, già perduto nella visione dell'avvenire :

Quando parte?

Ma... a giorni.

ROGO d'amore 17

Se posso appena mi troverà a Desenzano disse improvvi- samente. — Da troppo tempo non rivedo più il mio lago; sarebbe un piacere per me fargliene gli onori.

La signora sorrise a guisa di assentimento con quel lieve im- barazzo di chi si sente preso in un cerchio non voluto e pure pia- cevole.

C'era sempre questa specie di inconsistenza nei loro rapporti, come se invece di trovarsi di fronte un uomo ed una donna fossero due sogni che si sfiorassero.

Alcuni giorni dopo scendendo sotto la tettoia elegante della sta- zione di Desenzano la signora non fu troppo meravigliata di non scorgervi Moéna. Una sottile impressione di disinganno, forse, le attraversò la mente subito assorbita dalle necessità dell'ora, e met- tendo piede sul battello si ripromise con tanta intensità di non la- sciarsi sfuggire nessuna delle bellezze del lago che tutta la sua po- tenza di pensiero parve concentrarsi nella vista.

La nobile Sirmione col sottile gruppo di abeti, col suo bel Castello, le sfilarono dinanzi mentre appoggiata al parapetto dell'An- gelo Emo affondava lo sguardo e l'anima nelle rive fuggenti calde di luminosi colori, e morbide e carezzevoli tanto specchiate in quelle acque di un azzurro straordinario che la dicitura di un albergo ap- parsa fra delicate bellezze le diede un urto al cuore. Hotel Eden diceva la scritta sfacciatamente esposta al sole, rammentandole di un subito l'invasione utilitaria e straniera di quelle rive nate per il sogno più puro di un poeta. Quasi per purificarsi gli sguardi li riportò sul nome del battello Angelo Emo dal quale una visione di venete bandiere sventolanti in trionfo parve venirle incontro a guisa di promesse e fu di nuovo tutta presa nell'ardore dell'ammirazione, sfuggendo i pochi passeggeri che si trovavano intorno a lei, che sen- tiva indifferenti al suo entusiasmo.

Salò, Gardone, Gargnano le strapparono un piccolo grido di me- raviglia. Dire che aveva per tanto tempo ignorato quella spiaggia incantevole e quel lago unico nella sua tinta di cielo intensificata come se i profumi degli aranci in fiore passando e ripassando vi avessero spremute le nuziali ebbrezze della terra!

Profonda e malinconica una commozione la strinse a sentirsi sola in quel momento, così staccata dalla sua propria esistenza, presa in una parentesi di impressioni che allontanava smisuratamente tutto ciò che soleva occuparla e interessarla. Vogava ella su quelle acque cenile nello splendido meriggio estivo verso l'ignoto domani con un cuore alleggerito da torrenti di lagrime, un dolce cuore ras- segnato e tranquillo che più nulla chiedeva al destino.

Per un istante i suoi amici, le sue amiche, i parenti le si affac- ciarono alla memoria, ma nello stesso modo che passano le figure sulle lastre di una lanterna magica, piatte, tremolanti, confuse. Nes- suna si mesceva particolarmente al suo intimo senso di vivere, nes- suna sorgeva al suo fianco colla imperiosa evocazione del desiderio. E il battello andava, andava dolcemente verso le terre trentine dove le prime case di Riva già biancheggiavano in una luce dorata di paesaggio meridionale.

Il minuscolo treno che pare un balòcco da bimbo accolse la viaggiatrice allo sbarco trasportandola subito per Arco e per Mori verso la foce del Sarca, lungo canali sinuosamente diffusi tra i prati,

2 VoL CLXVII. Serie V. 1* Settembre 1913.

18 ROGO d'amore

in vista delle belle montagne cinte di silenzio. Suonerebbe m'ai un giorno fra quelle balze l'inno della libertà?...

La signora si accorse a un palpito accelerato del cuore che la sua immaginazione le anticipava avvenimenti chiusi ancora nei mi- steri del tempo. Non importa ella pensò che il cuore batta! nella speranza o nella disperazione, nell'anelito o nella preghiera, nella pugna o nell'attesa, che batta! ciò solo conta.

Non aveva detto qualche cosa di simile pochi giorni prima Moéna? Ah! sì, Moéna. Doveva trovarsi a Desenzano, ma non era naturale che avesse dimenticato l'incontro a Desenzano? Un gio- vane doveva avere ben altro per il capo. Meglio così, forse. Si riversò tutta sulla spalliera del sedile, allentando il velo del cappello, sola nello scomparto e quindi libera e quasi felice. Socchiudendo gli occhi al molle ondeggiamento del treno, pur senza perdere di vista la fuga verde dei campi che le appariva a guisa di nastro serpen- tino tra la frangia delle palpebre, le irrompevano su dal petto le prime note dell'inno di Mameli: e a dischiuderle a mezza voce su quella strada, di fronte a quei monti, intanto che il treno correva verso Trento la prese tale ebbrezza di sfida che per naturale x5on- senso della fantasia parve le ritornasse da ogni balza e da ogni fratta l'eco di simpatie fraterne.

Giunse a Trento che ancor batteva il sole in un barbaglio di raggi sulla statua di Dante.

Albergo Trento ordinò al fattorino che le portava le valigie. Ma quando, arrestata dinanzi al grandioso edifìcio, lesse sul

frontone Imperiai tornò a ripetere con impazienza :

Trento, Trento.

Appunto rispose l'uomo è questo; solamente ora si chiama Imperiai.

Lo contemplava ella curvo sotto il bagaglio, mansueto, con una nube di tristezza forse inconscia in fondo agli occhi. Disse :

Brutto nome.

Eh! fece l'altro sorpreso e dubbioso.

Concluse la signora con slancio : Ma per noi italiani è sempre Trento nevvero?

E al gesto comune della mancia .aggiunse un sorriso buono, quasi un sorriso di amichevole intesa che stabilisse il loro vincolo di nazionalità.

Poche ore dopo, dall'ampio terrazzo che domina la piazza la signora assisteva alla gloria del tramonto i cui ultimi raggi avevano già abbandonato il Doss, rifugiati sulla cima delle più alte montagne, indugiando in un dispiego di veli sanguigni striati di punti d'oro. La crocetta della chiesa di S. Apollmare, in basso, presso l'Adige emerse per un istante o ella credette di vederla, memore del luogo antico e del piccolo cimitero dove riposano i padri all'ombra della loro fede.

Immediatamente sotto a lei, intorno al monumento del Grande, suonava la banda militare e passeggiavano i cittadini a lento passo sparendo e ricomparendo d'in fra gli alberi novellini, nella cinta della graziosissima piazza, collo sfondo della neve sulla cresta dei monti pili lontani.

Erano uomini, erano donne e bambini, come dovunque. Erano vesti chiare, pennacchietti brillanti, ciarle e risa. Era la vita, la pie-

ROGO d'amore 19

cola vita individuale che si svolgeva in tenui fili dalla matassa ag- grovigliata della vita comune. Affari, piaceri, amori, speranze, tra- dimenti, lutti, rinascite, tutto ciò fluiva sotto gli occhi della spetta- trice che pur non volendo dimenticare il dolore intimo di quella gente lo andava indagando di gruppo in gruppo e sofferai avasi con acuta penetrazione sui capannelli degli studenti, per passare egual- mente acuto e penetrante agli ufficiali dalle divise variopinte, dal portamento spavaldo sotto i ciuffi di mortella dei loro kepy in forma di vasi di fiori rivoltati. Però le fanciulle non li guardano pensò la signora con orgoglio solidale di sesso.

Così, isolata, mirando dall'alto la folla, quel terrazzo le parve a un tratto un simbolo della sua vita. Non aveva ella al pari di quelle fanciulle, di quelle giovani donne, percorsi i viali verdeggianti del sogno? non aveva spiccato fiori sui suoi passi? e ciarlato e riso agitando veli bianchi e veli rosei dinanzi all'invito di pupille inna- morate? Una bronzea figura di poeta non aveva indicato alla sua anima schiava le vie della liberazione oltre i confini segnati da pre- potenti passioni? Quante musiche soavi avevano accompagnati i suoi ritmi! Quanti raggi si erano posati sulla sua fronte, avevano lambiti i suoi capelli, le erano scesi ardenti e turbatori al cuore! E i pur- purei meriggi succedendo alle rose dell'alba non le avevano prepa- rato la pioggia delicata delle viole nei vesperi sospirosi di che s'era inebriata fino allo spasimo?

Ed ora, ecco, riposava tranquilla su quel terrazzo affacciata alla vita degli altri mentre la notte stava tessendo alle sue spalle il nero manto dell'oblio.

Giovinetta, aveva qualche volta pensato con terrore all'istante fatale della trasfonnazione. Certo se a vent'anni lo specchio che ri- manda il fresco volto in cui s'aduna tutta la gioia di quell'età dovesse immediatamente sostituirvi la pallidezza sfiorita dei quarant'anni, una donna morrebbe di dolore; ma il passaggio a\'viene per gradi, per lievi insensibili gradi dov^Tillusione spegnendosi a poco a poco attutisce i desideri e sui campi disertati dall'amore aduna le molli letificanti carezze della rassegnazione. Ella se ne era già imbevuta. Era l'albero che dati al vento i suoi pollini e i suoi profumi, dati alla terra i suoi frutti e il germe dei frutti futuri, sta ritto nella casta e appagata nudità del suo tronco non vissuto indarno. Era la fontana che zampillava un giorno in getto protervo iridescente al sole, fulgida di tutti i colori della terra e del cielo, sonante per gli echi della selva, florida dei pingui muschi che la cingevano di vel- luto e che pure ridotta a un sottile filo d'acqua vede ancora la ron- dine fedele attingere al suo umore e sostare nelle tiepide sere gli amanti attirati dalla sua mesta solitudine.

Placido così il distacco dalla sua giovinezza, non strappo brutale, sibbene un lento cedere di forze, un digradare di colori, uno scambio di visuali per cui da combattente si era fatta spettatrice. Tale sen- sazione specialissima nella quale la dolcezza si fondeva alla ma- linconia, ma una malinconia senza rimpianti, una malinconia alata che sfiorava sorpassandoli i perduti beni, trovava -in quell'ora del tramonto, in quel posto, in quella città bella e dolorante la sua estrin- secazione più compiuta. Ella sentiva una cosa sola coll'aria, Q^a luce morente, colla solitudine del terrazzo, col primo arco di^fpha apparso timido in cielo. I sensi, la fantasia, gli affetti, tùH» era

20 ROGO d'amore

calmo in lei come la dolce sera estiva, della calma pensosa di chi ha vissuto e non chiede e non desidera e non attende più nulla.

La banda aveva finito di suonare. I capannelli ciarlieri dira- davano intorno al monumento di Dante e ad essi si veniva sosti- tuendo un raro passaggio di solitari affrettati verso la città. Appena una indistinta coppia nella zona degli alberi appariva e spariva con caratteristica lentezza indugiando dove più fìtta calava l'ombra; poi anche quella dileguò e la piazza rimase deserta con nel mezzo l'alta figura del suo poeta.

Notte! parola e cosa affascinante. Ogni rumore omai era cessato, ogni movimento, ogni segno di vita. La città dormiva assorta nelle memorie, cullata dalle speranze, sulla porta socchiusa del sogno. Solo la stazione co' suoi larghi occhi di fiamma vegliava, sentinella vigile del domani che si avanza in silenzio.

Una singolare forza di attrazióne teneva la signora immobile sul terrazzo, avvinta da una indicibile dolcezza nuova, così soave e penetrante e lieve che quasi non sentiva più il corpo; la brezza stessa fresca e pungente che le stringeva le braccia sotto il velo onda erano coperte le dava un brivido vago di carezza immateriale, di sensazione indefinita, come un palpito che non fosse nato ancora e pur vivesse nel profondo dell'essere, nel mistero della notte, nell'aria, nel cielo, nella rugiada sparsa, nell'invisibile giro degli atomi, nel sospiro eterno delle cose.

IV.

Otto giorni di riposo sereno in una vecchia casa in fondo a una vecchia valle dove non giunge ancora fischio di locomotiva rombare di treni. Un silenzio altissimo fra mura nitide odo- ranti di freschi bucati casalinghi, di mele cotogne riposte negli ar- madi e fascetti di menta sospesi a seccare all'ombra. Una luce tran- quilla, eguale, trattenuta da tende di percallo bianco con orlature rosse dietro le quali tremano i rami curvi di un salice piangente, onore e vanto del piccolo giardino. Una carezza degli occhi su mo- bili semplici un po' antiquati, ampie poltrone, ampi letti, quadri ingenui, abbondanza di felci in vasi dalle sagome vecchiotte e gio- conde. E poi un luccicare pallido di argenti secolari su tovaglie pro- fumate di spigo, tra un sorriso di maioliche fiorate e di barattoli di conserve fatte in casa coi frutti dell'orto. Tutta la poesia sana e forte della tradizione, dell'ordine, della felicità raccolte e custodite in quel fondo di valle, protetta dalle alte montagne, idealizzata nella solitudine.

Questa era la dimora dove la signora stanca della vita cittadina andava a ritemprare i nervi e l'anima quasi in un bagno di pura linfa, accolta da fidi amici, riannodando fila interrotte di memorie e di affetti con quella soave malinconia che rievoca il passato senza amarezza e senza rimpianti.

E poi un'altra corsa per monti e per valli ancora, attraverso le variatissime bellezze del suolo trentino, da vai Redena a vai di Sole, dal gruppo di Brenta ai gioghi della Presenella e ai ghiacci dell' Adamello passando per tutte le graduatorie di una vegetazione che dagli ulivi del Garda sale ai prati alpini ed alle conifere della

ROGO d'amore 21

Madonna di. Campiglio per riparare infine in un piccolo, ignoto, remoto paesello composto di poche umili case e di due o tre pure umili alberghetti aperti solo nella stagione estiva, all'entrata di un bosco magnifico.

il piacere della solitudine era perfetto, accresciuto quell'anno da una quasi totale mancanza di viaggiatori. La signora trascorreva le giornate nel bosco così distaccata dalla sua vita solita, col pen- siero addormentato in oblioso e dolcissimo torpore che un pacco di lettere venute a raggiungerla lassù le fu quasi cagione di mera- viglia. Per una maggior sorpresa vi era fra esse anche una lettera di Moéna affatto inaspettata.

Diceva la lettera in frasi succinte l'impossibilità avuta di tro- varsi a Desenzano nel giorno prestabilito e la decisione di venire a presentarle le sue scuse in terra trentina. Questa decisione gettò la signora in una specie di sgomento. Se la breve traversata del lago le aveva sorriso, il fatto che egli imprendesse un viaggio per venirla a trovare nella soliflidine del suo ritiro dove mancava qualsiasi forma di attrattiva socievole la metteva nella necessità di supplire sola a intrattenerlo ed ella era oramai entrata così bene nella sua parte di personaggio accessorio che la responsabilità di una prima parte la atterriva.

Appunto perchè Moena le era apparso superiore al comune degli uomini, appunto perchè lo trovava interessante e più ancora e sopratutto perchè temeva di distruggere in lui una impressione simpatica l'annuncio della sua visita le fu cagione di perturba- mento e di angustia. Gli rispose secondo legge di cortesia che lo avrebbe riveduto volentieri, ma affrettandosi a soggiungere che il paesuccio dove ella contava di trascorrere una quindicina di giorni in solitudine non offriva nessuna risorsa per un giovane avvezzo alla vita cittadina, il quale vi si sarebbe annoiato indubitabilmente.

Se Moèna, come ella pensava, aveva solo avanzato la proposta per mantenere la parola data poteva tenersene all'offerta e affer- rare la scappatoia dell'abile insinuazione. Ma così non fu. Di a pochi giorni Moèna scrisse annunciando il suo arrivo.

Ella non era tuttavia ancor sicura che venisse, quando se lo vide dinanzi nell'ora del vespero, sulla strada, all'entrata del bosco. Lo salutò con la mano ed egli discese subito dal veicolo che lo tra- sportava per raggiungerla.

Leggermente imbarazzati tutti e due da una situazione che non appariva ben definita il loro incontro si risentì dell'incertezza dei loro sentimenti. Precipitavano le parole senza guardarsi, cam- minando fianco a fianco sulla strada polverosa, parlando di argo- menti che non li interessavano, pur di parlare e di mostrarsi disin- volti. Alle prime case del paese si disgiunsero. Moèna andò in cerca del piccolo albergo che si era scelto per pranzare, la signora rientrò nel suo.

Non entrò veramente; sedette su una panchina all'aperto chie- dendosi che cosa avrebbe ofTerto a Moèna per passare la giornata di domani. Un quartetto di musicanti girovaghi sulla soglia del- l'albergo suonava per il diletto di due vecchie inglesi. La sera era dolce, serena : le note si spandevano armoniche sotto un pergolato di clematidi mezzo sfiorite; macchinalmente la signora raccoglieva

22 ROGO d'amore

i petali che le cadevano in grembo e li accostava alle labbra. A un tratto Moéna le fu d'appresso :

Come, è già qui? E il pranzo?

Lo stanno preparando.

Il giovane parlava a scatti, guardando nel vuoto. Si pose a descrivere il suo alloggio e la signora descrisse il paese, poi sog- giunse :

Sono i luoghi dei quali abbiamo parlato senza immaginare allora che ci saremmo trovati insieme.

Non disse quanto ne fosse meravigliata e un po' anche inquieta, per non offenderlo. Era in lei vivissimo il desiderio di mostrarsi gentile, ma il pensiero del breve tempo che si conoscevano le in- gombrava la mente di punti oscuri che la rendevano perplessa.

L'orchestrina intanto suonava un notturno. Essi stavano seduti sulla medesima panchina, lontani l'uno dall'altra, e ascoltavano. Il tempo passava; ne passò molto, placido, tranquillo, su quello spianato quasi deserto, dinanzi all'albergo quasi vuoto, in un si- lenzio che la musica sembrava accompagnare come avrebbe ac- compagnato una canzone. Alfine la signora si sentì in obbligo di rammentargli il desinare.

Oh! c'è tempo fece Moéna con tale accento staccato e deciso che anche alla signora parve che il tempo veramente si fosse arrestato.

Tornarono ad ascoltare la musica e tratto tratto a bassa voce si scambiavano una parola, una impressione; raccolti ognuno ad una estremità della panchina, contegnosi eppure non indifferenti.

Era in entrambi un vigilare di chi si avventura per sentieri nuovi verso una mèta indecisa attraente ed ignota. Non si vedevano in volto, ma la voce che usciva dai loro petti somigliava un ar- peggio iniziale di interne armonie e nell'aria e nel cielo e nella sabbia fine che la signora avvertiva attraverso l'esile calzatura con una singolare sensazione di piacere, che il giovane incideva con la punta della sua mazza, pensoso, fremeva il mistero di un incan- tamento.

In seguito ad uno sfoggio di composizioni straniere l'orche- strina attaccò un motivo italiano.

Verdi disse Moéna, come uno che si sveglia accennando alle prime battute del Rigoletto.

Viva Verdi, ora com,e allora soggiunse la signora con una allusione che egli afferrò a volo.

Sorrisero per essersi compresi. Il sentimento della patria che primo li aveva avvinti li dominò rapido su quella terra irredenta che entrambi amavano dando loro una straordinaria dolcezza.

Benché quasi sconosciuti e non sapendo nulla delle loro reci- proche vicende, si indovinavano, si sentivano della stessa famiglia, avvertiti da un movimento, da uno sguardo : meno ancora, da qualche cosa di invisibile che sembrava allacciarli e cingerli in un magico anello.

I concertisti si disponevano a riporre nelle guaine i loro istru- menti.

Ma che ora abbiamo fatta? chiese la signora. ~ Che importa l'ora?

ROGO d'amore 23

Anche il pranzo non importa?

L'ho dimenticato.

Se è così, buona notte disse la signora ridendo.

A rivederci domani.

Purché non s'annoi! ella pensava salendo alla propria camera. La preoccupazione che Moèna dovesse annoiarsi non l'aveva lasciata ancora.

Il giorno seguente fu speso a visitare il paese, il bosco, i din- tomi. La signora affrancandosi a poco a poco dai suoi scrupoli an- dava in cerca di argomenti nuovi per intrattenere l'ospite, ma le frasi non erano mai molto lunghe ed avevano sempre da una parte e dall'altra quella ritenutezza di scandaglio che li teneva entrambi in uno stato specialissimo nel quale la commozione della scoperta si avanzava senza scosse, lentamente e morbidamente come un'onda.

Parlarono di poeti. Egli aveva con un volume di Carducci. La signora non lo aveva letto da molto tempo; corse all'albergo a prenderlo e sotto gli alberi, all'entrata del bosco, lessero insieme Il saluto Italico.

La passione contenuta in quei versi rivelata in lui dal pallore del volto e dalla intensità dello sguardo si ammantava in una forma di aristocratica fierezza che tutta la sua persona, il suo atteggia- mento, i suoi gesti accompagnavano con un ritmo di grande nobiltà.

Alla sera presero posto sulla medesima panchina del giorno innanzi. Oramai la signora non temeva più che egli si annoiasse. Correva tra loro un accordo spirituale così perfetto che talvolta non avevano bisogno di parlare per intendersi; bastava un monosil- labo pronunciato da Moèna, perché ella terminasse il periodo, e tale scherma dove l'intuizione faceva miracoli di veggenza li rivelava l'uno alFaltro in un modo inaspettato, sempre più profondo, dol- cissimo.

Pareva sulle prime che egli dovesse fermarsi un giorno solo; invece i giorni passavano meravigliosamente brevi e di partenza nessuno i>arlava.

Stavano sempre insieme, tranne le -ore del pomeriggio durante le quali si ritiravano ognuno nella propria camera per un reciproco riguardo di libertà, della quale tuttavia non usavano se non per pensare all'istante in cui si sarebbero riveduti.

Il caso li pose di fronte un giorno nell'unica via del paese e senza dir nulla s'appaiarono uscendo a passi lenti per la campagna, lungo una stradicciuola che li condusse al cimitero. Quell'incontro fortuito aveva un sapore di frutto rubato al destino, contenente la trepida gioia dell'imprevisto. Il sole poteva essere splendido e il paesaggio magnifico, essi non se ne accorsero. Tutte le loro sensa- zioni movevano dall'interno, poiché le loro anime racchiudevano già un quadro compiuto che non aveva bisogno di cornice. Nulla del loro passato, comunque fosse, gravava su di essi; l'avvenire aveva potenza di distrarli da quello stato di perfezione in cui si movevano i loro corpi leggeri sfiorando appena la terra come trasportati su una nuvola. Solo a tratti, quasi pavidi di un soverchio appagamento, interrompevano il silenzioso incanto con brevi osservazioni dove le voci tremavano e gli occhi non osavano scontrarsi.

24 ROGO d'amore

Nel mezzo del rustico cimitero ergevasi la cappello mortuaria dei signori del paese; goffo miscuglio di pretesa e di cattivo gusto che distolse subito i loro occhi. Disse ironicamente Moèna:

Non basta essere ricchi.

Ah! no. Rammenta il salotto dove ci siamo conosciuti? E vi era pure il buon gusto degli arredi là... ma non vi era altro.

Una tomba recente arrestò la signora.

Forse sotto questo cumulo di terra sormontato da una rozza croce discese la spoglia di un'aiiima alta chiusa in una umile fede.

Rare sono le anime alte rispose gravemente il giovane.

Rare ma possibili. Crede?

Una pausa, un attimo e Moèna ripetè:

Credo.

Uscirono taciti di tra le folte erbe che assiepavano il can- cello miste a rovi fra i quali si impigliò un lembo dell'abito della signora. Egli fu pronto a liberarlo e da quest'atto comune eseguito con la maggiore semplicità parve svolgersi un nuovo motivo di dolcezza che all'aria, al sole, alla beltà degli alberi e dei monti non avvertita prima impose calore e luce.

Io non comprendo disse Moèna varcando il cancello l'odio feroce di Stecchetti sulla tomba di una donna.

L'odio in amore nasce dalla gelosia e la gelosia è di sua natura sensuale. Non la può comprendere lei che è idealista.

La signora aveva pronunciate queste parole rapidamente, con sicurezza, ma poi soggiunse alzandogli per un istante gli occhi in volto e subito abbassandoli:

Suppongo almeno che lo sia.

Sì, sono idealista. Legge nelle anime, forse?

Leggo sulla fronte che è lo specchio dell'anima.

Un ricordo le tumultuò al cuore. Disse, stornando leggermente il volto per non incontrare gli sguardi di Moèna:

-— Come non devo saperlo se fu la prima rivelazione che io ebbi di lei!

Muto egli attendeva ancora.

Rammenta i discorsi di quella sera, in quel salotto? Non fu la sua voce quella che sorse unica a protestare? Pensi che stavo io per dire le stesse parole sue, le stesse! Avremmo noi potuto pensare insieme la medesima cosa, le parole identiche, senza neppure so- spettare l'esistenza l'uno dell'altro, se uno solo non fosse stato A nostro modo di sentire?

. Dunque replicò Moèna lei mi aveva già avvertito quando venne a porgermi il suo gentile conforto?

Sì. Quanti eravamo quella sera in quel salotto? Trenta? Qua- ranta persone? Io le conoscevo tutte, molte le chiamo amiche, si fa vita quasi comune, eppure io mi sentivo così sola, così lontana da tutti quando lei parlò!

In seguito a cfueste parole la signora parve sollevata da un fardello che la opprimeva.

Moèna le aveva ascoltate rattenendo il passo affinchè nessun rumore rompesse l'armonia nuova che stava sorgendo.

Ascoltò anche quello che la signora non disse, perchè vi sono per le anime tali momenti in cui l'involucro si fa trasparente e la parola non è necessaria. Con un filo d'erba fra le mani, le palpebre

ROGO d'amore 25

chine al suolo, egli la seguiva in silenzio. Solo dopo alcuni istanti mormorò sommesso :

La ringrazio per questa confidenza. Anch'io vivo tra uomini coi quali sono in perfetto accordo di pensiero, ho cari amici il di cui cuore batte come il mio nell'ideale di una patria interamente libera, ma se veniamo a parlare della donna e dell'amore si apre fra noi un abisso e non ci intendiamo piìi.

Io credo soggiunse la signora con un po' di precipitazione che tutti i drammi e le tragedie che insanguinano il mondo in nome dell'amore abbiano la loro origine in un malinteso iniziale; malinteso facile quando un uomo e una donna si trovano di fronte.

Facile per la maggioranza, non per tutti.

La bellezza veramente ha un fascino che travolge il giu- dizio, no?

Per me non vi ha bellezza senza anima. È il contrasto con- tinuo che ho coi miei amici; essi concretano nella donna una visione esclusivamente materiale che mi urta e mi ripugna.

Contro il solito Moèna si era accalorato parlando: la signora sen- tiva che era sincero. Il patetico speciale del suo volto lo indicava realmente alquanto diverso dal comune degli uomini e ancora una volta le apparve quasi ravvolto in una luce eroica che lo allontanava dalla realtà.

In tutti i suoi atti manifestavasi questo distacco singolarissimo, questa invadenza dello spirito per modo che il suo corpo ne era soprafatto. Alla sera quando sedevano sulla panchina per ascoltare la musica egli si metteva sempre all'estremità opposta; per qua- lunque calore di conversazione il suo gesto usciva dal più scrupo- loso riserbo, ispirato a lui da una sensibilità aristocratica sdegnosa dei contatti e di tutto ciò che fosse o potesse sembrare volgare.

Pur v'era in quello spazio che la panchina segnava fra loro due, che la bianca sciarpa di velo della signora invadeva appena a tratti, una corrente di tacita intasa, una simpatia tenera e grave e come uno svolgersi di fili intorno a un telaio invisibile, come una argentea tela di aracnide sospesa in silenzio fra due rami.

Ogni giorno che passava essi entravano vieppiù nel nirvana, che di nirvana aveva tutte le pai-venze e i misteriosi fascini quel- l'incontro di due esseri sconosciuti che si erano staccati dalla con- sueta esistenza per vivere di una sola vita, lontani dal mondo, senza chiedersi nulla, senza sapere, senza volere nulla, abbandonati alla deriva di una corrente incantata non sulle salde pareti di una nave ma sopra l'ala di un sogno.

La felicità, se esista, doveva trovarsi in quel senso di profonda comunione che li accompagnava dovunque, sia che errassero per i sentieri del bosco o che leggessero insieme o che insieme ascoltas- sero la musica o che parlassero o che tacessero o che, divisi dalla notte, si pensassero con una continuità di armonie segrete nella calma e gioiosa sicurezza d'i ritrovarsi al mattino.

Era in quel loro intimo accordo una compostezza di linee che^ dall'avvicinamento comune di un uomo e di una donna faceva estol- lere il disegno di un'urna da cui vaporassero sottili aromi, emblema di una interna beltà non altrimenti rivelata; ed era pure il segno occulto che in tutte le forme della vita, dal roseo accendersi dell'alba all'inturgidire del fiore, dalle zolle che si aprono al grembo che

26 ROGO D'AMORE

palpita annuncia un nuovo mistero dell'essere, un nuovo prodigio che sta per dischiudersi.

Ma essi nulla sapevano nella divina inconsapevolezza che guida egualmente le creature all' amore e alla morte. La sensazione di sentirsi vivere che è la più semplice ed insieme la più compiuta li possedeva interi e nella intensità di quell'ora che si era arrestata su di essi ogni considerazione di vita non esisteva più; esisteva unica quella sensazione raddoppiata in potenza per il fatto di essere in due a sentirla, due cuori con un battito solo, con un solo piacere.

In tale vibrante armonia la più semplice parola pronunziata dal- l'uno o dall'altro vestiva subito una grazia indicibile; bastava tal- volta un piccolo movimento, un cenno.

Egli amava di lei una particolare attitudine, un molle abban- dono delle braccia e un chinar lieve del capo ascoltando; ella più che guardarlo ne assorbiva in un lento magnetismo l'irradiazione spirituale, quel non so che misterioso che esce da certe forme umane pari ad un fluido.

Indugiavano una sera a prender posto sulla panchina, attratti da una maggiore soavità nell'aria che allettava a passeggiare sotto gli alberi, al limite del bosco.

Vuole una confessione puerile? disse la signora. Ho sempre desiderato di vedere il bosco di sera e non ho mai osato penetrarvi.

Per paura?

Paura od altro non saprei, non ho osato.

- Vuole che proviamo adesso? In due avremo maggior coraggio.

I primi alberi radi lasciavano scorgere un viale bianco illu minato dalla luna. La signora con un breve riso disse: Proviamo. E entrarono.

L'impressione di frescura insieme alla luce blanda ed ai rumori vanenti man mano che il paese si allontanava, e la linea fantastica dei tronchi nella oscurità, e le radure improvvise tra fronda e fronda, tutte le novità dell'ora e del luogo sedussero la coppia poetica in- tenta a cogliere una forma gentile di bellezza, una sensazione igno- rata di piacere.

Avanzavano in silenzio con un'ansia che leggiera dapprima cre- sceva col crescere delle tenebre, nella incertezza del terreno dove il piede posava mal sicuro, obbligandoli a soste improvvise per ri- prendersi e per orientarsi.

Ha paura? chiese il giovane.

Che! affrettossi a rispondere la signora non vi sono belve qui.

Voleva scherzare, ma il riso le si spense in gola.

Gli alberi infittivano abbracciati, stretti, confuse le chiome sui nidi dormenti, roride di rugiada le gemme come bocche baciate- li raggio di luna che li aveva guidati dapprima non era più che un tenue chiarore attraverso l'opacità fronzuta dei castagni. Ora non •si scorgevano quasi neppure e andavano tentoni, presi da un brivido che non era di freddo, evitando di toccarsi. Non osavano parlare e ta- cere sembrava loro anche più pericoloso perchè in mezzo al si- lenzio altissimo temevano di udire l'affanno dei loro respiri.

La signora si mostrava la più disinvolta e come quella che meglio conosceva il bosco tentava di aprirsi un varco verso i sen-

ROGO d'amore 27

tieri noti, sbagliando tuttavia nella confusione delle tenebre, rial- zando allora il proprio coraggio con parole staccate che suonavano con uno stridore di note false nella gran quiete misteriosa; e più ella parlava più Moèna taceva.

Rapido un'aroma scese dall'alto, li cinse.

La pineta! esclamò la signora.

Moèna non rispose, ma si fermò fiutando l'aria. Ella ne scor- geva la linea snella della persona in sfum.^ture d'ombra. Egli di lei fissava il velo bianco.

Prendiamo a destra? disse lei.

Come vuole.

Sarà più breve.

Come vuole.

La voce di Moéna alterata, bassissima, turbò la signora in modo strano. Il suo coraggio venne meno a un tratto. Sentì il fa- scino misterioso della notte avvolgerla in una rete di incanto, .pene- trarla tutta, quasi sfinirla nell'invadente dolcezza dell'oblìo.

E il bosco diventava più nero, ed essi evitavano sempre più di toccarsi, chiusi in una follìa di terrore che faceva loro paven- tare ad ogni istante l'istante che sarebbe venuto dopo : inquietu- dine deliziosa di ciò che poteva accadere, spavento di una felicità troppo rapida e troppo vicina.

Non ci vedo più mormorò lei.

Sostarono allora coU'impressione così viva della loro solitudine, che il silenzio si fece palpitante del palpito dei loro cuori.

Ha paura? chiese ancora Moena pianissimo ha paura... di me?

Oh di lei? ho, no, no.

Egli si irrigidì, conscio della propria responsabilità, temendo di distruggere con un gesto imprudente la divina ebbrezza che li cir- condava. Così ricaddero nel silenzio ardente dove i loro sensi privi di voce, di sguardi, di contatto, si cercavano.

Un piccolo grido della signora fece sobbalzare Moèna. Ave- vano affondato il piede in un terreno molle e l'inatteso ostacolo li teneva uniti in uno smarrimento più dolce di una carezza. Già egli sentiva la vertigine del pericolo impossessarsi di tutto il suo essere. Ella disse :

Non è nulla; siamo entrati nel prato, bisogna retrocedere. Il balsamo dei pini li raggiunse per la seconda volta.

Che profumo!

Camminava ora leggiera sul sentiero di cui scorgevasi appena il chiaro nastro serpeggiante sotto gli alberi e trepida delle pause prolungate tentava romperle con brevi esclamazioni dove l'ansia che ella voleva nascondere trapelava suo malgrado in note tre- manti che il silenzio del bosco le rimandava con un prolungamento di singulti attraverso la rugiada dei rami.

Le loro gole erano chiuse, le loro arterie pulsavano disordinata- mente e correvano, quasi, correvano quanto era loro concesso dai sentieri mal noti.

Sotto un improvviso nereggiare di abeti ripetè Moèna la sua singolare domanda: « Ha paura? » cui ella rispose i tre « no! no! no! »> disperati, convulsi, sotto i quali celava un reale senso di paura

28 ROGO d'amore

senza nome, che non voleva confessare a stessa, meno che meno a lui, che la sbigottiva e la inebbriava insieme.

Ma non potevano più reggere. Le parole ridotte a sillabe, a piccoli gridi gutturali morivano nell'ansia dei loro petti. Il re- spiro affannoso di Moéna seguiva da presso la donna: ella se lo sentiva penetrare nei capelli, sul collo nudo giù per il filo delle reni. L'ultimo silenzio fu uno strazio di passione.

Vi è un'eco anche per il silenzio. Esso era impressionante nella oscurità che li circondava, mentre l'incenso della foresta dai vivi turiboli delle conifere erette a candelabri sembrava accompagnare il mistero di un rito dolce e solenne; ed ogni forma nuova di cespu- glio 0 viluppo di rami ferendo quell'unico dei loro sensi che non fosse assorbito dall'estasi li richiamava alla visione di una realtà così palpitante che il battito dei loro cuori si arrestava.

Il silenzio allora ghermendoli con raddoppiata violenza li la- sciava come spogli d'ogni velo l'uno di fronte all'altro nella ma- gnifica gioia della rivelazione e pur trepidi del mistico terrore che doviette assalire i primi amanti sotto l'albero fatale del paradiso.

Quando spuntarono lontanamente i lumi del paese parvero sve- gliarsi da un sogno.

(Oontinua).

Neera.

UN VERO AMICO DELL'ITALIA

RICCARDO BAGOT

Whene'er a noble deed is wrought, Whene'er is spoken a noble thought,

Our hearts in glad surprise, ' To higher levels rise (1).

H. W. LOXGFEIXOW.

È raro purtroppo, il caso di un forestiero, come Riccardo Bagot, che prenda non solo a difenderci, lodarci, ma a studiarci nelle mol- teplici manifestazioni della nostra attività moderna; e che, inoltre, pubblichi libri ed articoli i quali non sieno una apologia dell'Italia e degli italiani, ma una sensata e ragionata esposizione di quanto li riguarda, confutando, con logica stringente, quanto in buona o in mala fede si ripete e si stampa all'estero, contro la patria e i conna- zionali nostri!

Certamente l'Italia si compiace di avere nel Bagot un amico sincero e leale. Può e deve dunque interessare gli italiani conoscerne la operosa vita, la nobile origine, e come e perchè egli abbia tanto preso a cuore di procurare a' nostri dritti il dovuto rispetto. Occorre però, prima di tutto, rilevare l'assoluto disinteresse del Bagot che, appartenendo per nascita, educazione e indipendenza di fortuna alla grande aristocrazia inglese, non ebbe mai bisogno di fare della let- teratura una professione.

Intelligente, educato in ambiente signorile, ove la coltura non è considerata inferiore alla fortuna materiale, ma il mezzo di servir- sene a bene, Riccardo Bagot apprese ben presto a stimare e ricer- care l'intimo e profondo godimento che offre allo spirito lo studio e la bellezza della natura. Questo riuscì a formare in modo mira- bile, come esso soltanto lo può, l'animo del giovine che se ne av- valse per farsi un concetto ideale della vita; concetto che serve poi a viverla in una sfera molto piìi elevata di coloro che facilmente si appagano de' godimenti materiali!

Quante volte costoro, con benevola compassione, classificano gli idealisti in una categoria che quasi li accomuni a' deficienti o agli imbecilli?

Tutte le soddisfazioni ed i piaceri che offre il lusso e la fortuna nel gran mondo, erano a portata del giovine Bagot, ma essi non po- tevano soddisfare il suo spirito colto, avido di sensazioni di ordine

(1) Ogni volta che un nobile atto è compiuto, ogni volta che si esprime un nobile pensiero, i nostri cuori in gajo stupore, a più alte sfere si elevano.

iiicharcl Bagot.

UN VERO AMICO DELL ITALIA

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superiore. La famiglia Bagot possedeva vaste estensioni di terreni neIJo Staffordshire, prima ancora della conquista, e gli Stafford, Duchi di Buckingham, erano cadetti di Gasa Bagot. Il titolo di Barone fu accordato ai Bagot nel 1627 ed essi furono creati Pari nel 1730. L'attuale Lord Bagot, erede della nobile casa, che per la legge del maiorascato, vigente tuttora in Inghilt€rra, era cavaliere d'onore della Regina Vittoria, nacque al castello di Blithfìeld il 19 gen- naio 1857, succedendo a suo padre nel 1887. Blithfìeld appartiene alla famiglia Bagot fin dal xiii secolo e il Castello è ora la residenza di Lord Bagot. La Chiesa di S. Leonardo si eleva nel magnifico Parco che circonda il Castello e contiene de' monumenti della famiglia Bagot, fra' quali una tomba con l'effìgie di Riccardo e Maria Bagot

Il castello di Alnwick.

(1596); l'elmo di Riccardo è ancora sospeso al disopra della tombn con lo scudo de' Bagot. Importante è la galleria di quadri e ritratti storici nel Castello di Blithfìeld; fra essi ve ne è uno del favorito della Regina Elisabetta, Roberto, cont<? di Essex, che ebbe a suo amico d'infanzia Antonio, figlio di Riccardo Bagot.

Il padre del nostro Riccardo, colonnello ne' granatieri, era il fi- gliuolo maggiore di Sir Charles Bagot, che fu Maestro delle Ceri- monie alla Corte della Regina Vittoria d'Inghilterra ed Ambasciatore a Pietroburgo, Parigi, e Washington ed in ultimo fu Governatore ge- nerale del Canada, ove morì. Egli era fratello del secondo Lord Bagot e aveva sposata Lady Mary Wellesley, figliuola maggiore di Lord Mornington, discendente quindi del famoso Duca di Wellington, per cui Riccardo Bagot, che nacque a StafTordshire l'otto novembre 1860, no discende. Egli è inoltre imparentato, per parte materna, ai Duchi di Nothumberland essendo stata sua madre, Sofìa Luisa, figlia del-

32 UN VERO AMICO DELLÌTALIA

l'ammiraglio on. Joceline Percy, figlio del conte di Beverley e fra- tello del quinto Duca di Northumberland, al quale appartiene il famoso castello di Alnwick che fu la grande fortezza de' Percy. Questo stupendo castello storico sorto nel secolo xi, sostenne nel Medio Evo molti assedii e fu interamente restaurato nell'interno, verso il 1853, da pittori e scultori italiani. I possedimenti del ramo della famiglia Bagot a cui appartiene Riccardo, sono situati nella Contea di Westmorland presso ai famosi laghi inglesi, immortalati da' poeti che fan capo al Wordsworth. Levens è considerata una costruzione tipica, una delle case di campagna più perfette dei xv secolo in Inghilterra. I suoi giardini, che furono ordinati da un famoso giardiniere francese ivi mandato da Luigi XIV da Versailles, sono dichiarati i più belli esempii del genere. La casa è piena di opere d'arte del xv e del xvi secolo e fra le sue reliquie storiche si trova la corrispondenza segreta in cifre che ebbe luogo fra il Re Gia- como II e la Corte a St. Germain, col proprietario di Levens di : quell'epoca.

Una parte della infanzia dunque di Riccardo Bagot si svolse fra que' tre splendidi castelli e chi conosce la importanza che esercita lo ambiente sulla formazione e lo sviluppo della psiche infantile, può spiegarsi come il Bagot vi attinse quella altezza di pensiero e di sen- timento che valse poi a formare in lui un carattere individuale forte e indipendente. Egli lo ha rivelato appieno in tutta la sua opera let- teraria, tanto quella di argomento artistico quanto quella esclusiva- mente sociale e politica, Riccardo Bagot è un forte e convinto ideali- sta nella più alta espressione del termine in quanto egli considera l'arte come un mezzo per diffondere nobili ed elevate idee al pub- blico e non abbassarne lo spirito, come fa la scuola romantica ecci- tante ed erotica e che sovente cerca le sue ispirazioni al fango.

Il realismo in arte deve, secondo il Bagot, essere usato come mezzo per fare risaltare il finale trionfo del vero sul falso, del nobile sull'ignobile, del bene sul male. Al tempo istesso egli sdegna quei romanzieri i quali temono di descrivere il vero per quanto talvolta questo sia financo ripugnante, Riccardo Bagot non crede che la nar tura umana sia totalmente cattiva, salvo in taluni casi individuali di degenerazione psichica, come egli non considera possibile l'assoluta, costante bontà. può accordarsi con quegli scrittori che per soddi- sfare i loro lettori più religiosi, pretendono che niun bene possa ve- nire dal male, alcun male dal bene. Il Bagot é convinto che il bene e il male sono fusi nella più completa associazione in questo mondo. L'opera di un romanziere gli sembra dover essere di rappresentare la natura umana, così com'è, non come si suppone che sia. Quindi in ognuno de' suoi romanzi egli ha cercato di dimostrare come il mas- simo bene possa, in taluni casi, per speciali circostanze, sorgere dal massimo male, e viceversa, perché il Bagot concepisce tutto ciò come una legge che governi l'intera natura e che continuerà a governarla, per quanto egli sia appieno cosciente che questa sua convinzione non possa contribuire alla popolarità di un autore e che il pubblico, in ogni caso, specialmente poi il pubblico inglese, vuole che i carat- teri in un romanzo sieno o tutti angeli o tutti diavoli, ossia santi o peccatori. Ed il Bagot lo contende, affermando che nella vita reale i più interessanti e più naturali caratteri sono quelli che agiscono se- condo l'impulso della natura umana, santi che per determinate circo-

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stanze divengono peccatori, e peccatori capaci, sotto impulsi spe- ciali, di divenire santi! Scientificamente egli crede che non vi sa- rebbe bene al mondo se non vi fosse male, e viceversa, i due termini presupponendo l'esistenza di ciascuno, che qualsiasi studioso del- Tuman genere deve riconoscere come dipendenti l'uno dall'altro. Questo, egli crede, e cioè che i romanzieri e autori drammatici che cercano i loro soggetti nel fango e ne' rifiuti della natura umana, come quelli che d'altra parte si oppongono a trattare in modo al- cuno il male e gli negano alcuna potenzialità per la produzione del bene, ugualmente esagerano, indi non sono sinceri in arte, perchè non se ne servono per ritrarre il vero.

Levens Hall.

Quasi tutti i soggetti de' romanzi del Bagot sotto trattati da questo punto di vista di una filosofia umana sincera, che non esclude il male e che lo fa servire sovente al bene. Il suo primo romanzo « A Roman mystery » (Un mistero romano) fu pubblicato nel 1899 ed ebbe ben sei edizioni. Fu tradotto in italiano e pubblicato come appendice nella Tribuna. Diversi editori inglesi rifiutarono dapprima di pubblicarlo perchè credevano che la sua descrizione delle relazioni fra Vaticano e Quirinale non avrebbe interessato i lettori inglesi. Qualche editore chiese al Bagot di sopprimere tutta quella parte dal libro, ma egli rifiutò e pubblicata poi l'opera integralmente ebbe un grande suc- cesso.

Il secondo romanzo « The Just and the Unjust » (Il giusto e l'ingiusto) è di argomento interamente inglese e preso dal vero. Del terzo romanzo « Casting of nets » (Gittando le reti), mi occupo in seguito.

3 Voi. CLXVII. Serie V. Settembre 1913.

34 UN VERO AMICO DELLÌTALIA

Un altro romanzo di soggetto Romano « Donna Diana » pubbli- cato nel 1903 ebbe quattro edizioni e fu tradotto in francese.

« Love's proxy » (La procura dell'amore) fu pubblicato nel 1904 e tratta della società politica inglese.

« The passport » (Il passaporto) fu pubblicato nel 1905; è un altro romanzo di soggetto italiano, ebbe sei edizioni e fu tradotto in italiano e pubblicato come appendice nel «Giornale d'Italia».

« Tem-plalion » (Tentazione) è un romanzo del quale la scena è posta a Viterbo.

« Anthony Cuthbert » (Antonio Cuthbert) è un romanzo di argo- mento inglese, preso dal vero e fu pubblicato nel 1908. Vi è in esso un potente sentimento della Natura ed alcune descrizioni sono piene d'intensa poesia.

« The House of Serravalle » (La casa di Serravalle) è un altro romanzo di soggetto italiano del quale la scena è posta in Napoli. Fu pubblicato nel 1909 ed ebbe finora quattro edizioni.

« Damley Place » (La proprietà di Darnley) è un romanzo che tratta per metà la vita in Inghilterra e l'altra metà in Sicilia. È anch'esso preso dal vero e, incidentalmente, tratta dell'aspetto più alto e più scientifico dello spiritualismo moderno. Questo lavoro, che è, per ora, l'ultimo romanzo del Bagot, fu pubblicato nel 1910 e ap- parirà presto, tradotto in italiano, nelle appendici del Giornale d'Italia.

Interessanti e graziosi sono due volumi di Riccardo Bagot sui Laghi italiani e che riguardano anche i particolari storici di quelle regioni e i costumi e folk-lore de' loro abitanti.

Miss Du Cane, la ben nota artista inglese, fece espressamente per questi libri de' deliziosi paesaggi che furono riprodotti in colore per illustrarli. Ed anche questi due volumi hanno avuto grande suc- cesso e diverse edizioni.

A diciannove anni il Bagot venne per la prima volta in Italia e sentì subito che essa è davvero la patria universale delle anime grandi e squisite. Costretto a seguire il Governatore dell'Australia occidentale, come suo aiutante di campo e segretario particolare, portò seco la nostalgia della nostra terra e appena potè dimettersi dall'onorifico incarico, tornò in Italia ogni anno, finché si decise a stabilirsi a Roma, in casa propria, e vi restò ben venti anni, pas- sando solo pochi mesi ogni anno fra' parenti nelle sontuose loro dimore in Inghilterra.

Però soltanto dopo di avere studiato ben nove anni, lingua, storia, letteratura ed ambiente italiano, il Bagot prese a scrivere e pubblicare articoli e libri, riguardanti la vita moderna in Italia. Prescelse di proposito occuparsi di noi, perchè stupito e indignato degli straordinarii preconcetti e pregiudizii, riguardanti la patria nostra ed esposti in innumerevoli pubblicazioni periodiche, in ro- manzi e novelle' scritti da autori inglesi ed americani. Coloro che non leggono l'inglese diffìcilmente possono figurarsi come noi siamo mal rappresentati e financo diffamati in quelle opere d'arte e sovente anche di storia! Il pubblico di lingua inglese, legge e considera veri- tiero resoconto della vita e del carattere degli italiani le storie più in- verosimili, frutto forse della fantasia, più che di un vero e proprio partito preso di diffamarci.

UN VERO AMICO DELL'ITALIA

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Riccardo Bagot fu esatto nell'intuire come fosse, se non impossi- bile, certo assai difficile per gli Anglo-Sassoni, intendere e descri- vere l'anima latina. Gli Anglo-Sassoni sono troppo subbiettivi e osti- nati nelle loro opinioni e idee, i loro pregiudizii e preconcetti si cristallizzano in concetti inamovibili e divengono convinzioni; indi il Bagot volle tentare di esporre loro dal punto di vista italiano, la- tino, quanto ci riguarda.

Sincero cattolico, Cavaliere di Malta, quando il Bagot arrivò a Roma, non preoccupandosi affatto della quistione politica, egli s'inte- ressò molto della condizione del Vaticano rispetto all'Italia e prese a pubblicare sull'argomento una serie di lettere sul Popolo Romano. Queste lettere riguardavano principalmente la inutilità, a suo credere, del Potere Temporale pel trionfo e la prosperità della religione cat-

Levens Hall I giardini del « Seicento ».

tolica e non una sola parola era men che rispettosa per la pura Fede di cui il Sommo Pontefice è capo. Ciò nonostante quegli scritti irri- tarono una part«, la più ardente, della stampa clericale, che si sca- gliò con le polemiche più severe contro il Bagot, specialmente La Voce della Verità la quale in quel tempo godeva di grande autorità. Questo giornale giudicò un vero scandalo da parte di un Cavaliere di Malta, scrivere in senso avverso al potere temporale e, arditamente, as- seriva che fìnanco il Gladstone era favorevole alla restaurazione della sovranità del Papa sugli antichi Stati della Chiesa!

11 Bagot conosceva troppo bene Guglielmo Gladstone per pre- stare fede a tale asserzione, indi, ritagliando l'articolo, lo spedì al grande statista inglese, pregandolo di correggere l'opinione sua, se s'ingannasse nel ritenere che il Gladstone non sostenesse, appro- vasse la sovranità temporale del Vaticano. Il Gladstone rispose subito al Bagot disapprovando formalmente l'articolo e autorizzandolo a pubblicare la sua smentita sul Popolo Rombino. Ciò fece subito il Bagot, per quel principio di rispetto alla verità che è, negli inglesi,

36 UN VERO AMICO DELL'ITALIA

bene educati, la base del loro carattere. Non vi è per essi ragione al- cuna sia politica, sia di interesse, o di riguardo, o di timore, per cui si possa in modo alcuno tradire la verità. Perderebbero la propria stima se riuscissero a farlo e, stand for truth (1), è più che un dovere, un istinto irresistibile per essi. Ma quella parte della stampa clericale, che non di rado, purtroppo, dimentica che la menzogna è uno de' sette peccati capitali, sorpresa d'una formale e schiacciante smen- tita, a trarsi d'impaccio non trovò altra migliore uscita che quella d'accusare il Bagot di essere un Protestante camuffato da cattolico, confondendo, al solito, due cose assolutamente diverse per gli spiriti retti e sinceri: la fede religiosa e gli interessi temporali!

In seguito a ciò il Bagot pubblicò sulla Nuova Antologia (2) un articolo intitolato: Ulngìiilterra si farà cattolica? Esso era scritto per confutare le notizie esagerate, ampollose, che frequentemente al- cuni giornali clericali, specie stranieri, sogliono pubblicare in ri- guardo al numero ed alla importanza sociale delle persone che in In- ghilterra abbracciano la religione cattolica, importanza certo da non misconoscere ma neppure da trarne conseguenze esagerate che pos- sono divenire fonte di disinganni. L'articolo fu molto diffuso, susci- tando fra gli anti-italiani in Inghilterra e nel partito clericale intran- sigente, ire grandissime contro Riccardo Bagot. Un suo romanzo poi, Casting of nets (3) che descrive le non sempre lodevoli tattiche im- piegate, sia pure a fin di bene, da taluni cattolici inglesi per fare dei proseliti, procurò da più parti formali rimostranze al Gran Maestro dell'Ordine di Malta. Alle osservazioni di questo, il Bagot replicò offrendo subito di dimettersi dall'Ordine, ma essendo ciò impossi- bile, egli dichiarò che non avrebbe più indossato l'uniforme, por- tato le insegne dell'Ordine di Malta. Il Gran Maestro espresse la sua piena approvazione per questa decisione, intesa, com'egli subito comprese, a togliere d'ogni imbarazzo l'Ordine stesso. Riccardo Bagot non poteva, in modo alcuno, essere o sentirsi immeritevole del grado di Cavaliere di Malta, ma non voleva neppure che fossero messi in dubbio i suoi sentimenti profondamente sinceri e fedeli alla reli- gione dei padri suoi.

Gli fu poi riferito da uno dei numerosi suoi amici che una parte del suo romanzo Casting, of nets era stato tradotto in italiano e letto a S. S. Leone XIII allo scopo forse di vederlo messo all'Indice! Ma il Sommo Pontefice, col suo so] ito raro acume, si limitò ad osservare che se fosse vero esservi dei cattolici inglesi tanto poco scrupolosi, o così eccessivi da agire per ottenere conversioni, nei modi descritti dal Bagot, l'autore non poteva essere condannato se lo aveva rivelato!

È questo uno dei molti esempi che provano lo spirito elevato di Leone XIII. Certo la serenità di giudizio, la liberalità con cui la Chiesa Romana considera uomini e cose è spesso mal compresa al- l'estero da neofiti i quali credono di ben fare dandosi ad esagerazioni da cui il cattolicismo è assolutamente alieno e che alla fine fanno più male che bene alla religione stessa.

Prima della morte di Leone XIII, il Direttore della Quarterly Review chiese al Bagot se volesse scrivere un sommario critico della

(1) Sostenere la verità.

(2) Vedi fase. giugno 1899.

(3) Gittando le reti.

UN VERO AMICO DELL'ITALIA 37

vita di quel Pontefice ed il Bagot accettò con la esplicita condizione che il suo articolo riguardasse soltanto l'azione politica e diploma- tica di Leone XIII e nulla avesse a dire della quistione religiosa. Il Direttore accettò tale limitazione e l'articolo, preciso ed interes- sante, venne pubblicato in due successivi numeri della Quarterly Review immediatamente dopo la morte di quel Papa e fu commen- tato e citato favorevolmente.

Il Bagot è convinto che fattività politica, propriamente detta, mal s'accordi con la religione e ne offuschi la purezza, riconosce però che sarà sempre difficile possa esserne del tutto libera. La religione pa- gana fu sempre più o meno tutta una cosa con la politica; fu uno strumento di regno; gli spiriti piccoli hanno più di una volta ten- tato di fare lo stesso col cattolicismo e da ciò è derivato molto danno. Il Bagot opina che la completa separazione dello Stato dalla Chiesa, con la più assoluta libertà di ciascuno di agire pei proprii legittimi fini, è il solo modo di rendere il Cristianesimo una religione non politica. Egli però non può chiudere gli occhi al fatto che il Cristia- nesimo, per opera di uomini troppo amici delle cose di quaggiù, sembrò dimenticare alle volte che il suo divino fondatore il quale cacciò i mercanti dal Tempio dichiarò il suo Regno non essere di questo mondo. Essi cedettero alle ambizioni temporali, imponendosi al mondo con la politica. Il Bagot pensa che l'attitudine puramente mondana e politica fatta prendere da taluni al Papato ha contribuito a creare quell'evidente scetticismo, curiosamente mescolato alla este- riore osservanza della forma, e delle cerimonie religiose, che caratte- rizzò i romani e le razze latine, durante gli ultimi secoli del pagane- simo e che gli sembra, ancora oggi, notevole negli italiani moderni.

Molti dei giornali clericali in generale, quelli inglesi in partico- lare, non hanno mai perdonato al Bagot la sua sincerità nello scrivere dell'Italia moderna, specialmente in rapporto al potere temporale, poiché oltre i varii libri egli ha pubblicato un gran numero di arti- coli notevoli, che ci riguardano, sulla National Review e \ineteenfh Century, Quarterly Review, ecc., ecc. Un suo importante articolo sulla mafia scritto per la National Review è stato considerato la migliore descrizione pubblicata in Inghilterra su quell'argomento di psicologia sociale.

Il Bagot è un fine ed acuto osserx'atore. Appassionato per la sin- cerità in arte e nella vita, è spinto a farsene fiero paladino. Rivive forse in lui l'ardore di qualche antenato che sparse il proprio sangue per strappare agli infedeli la tomba di Cristo ed ora egli si sentirà spinto a quel puro rinnovamento spirituale che il Sommo Pontefice Pio X manifestò di volere con la semplice e felice espressione di re- staurare tutto in Cristo! Difatti dall'avvento di Pio X al seggio di Pietro, il Bagot nulla più ha dato alle stampe riguardante la poli- tica ecclesiastica e la Triplice Alleanza. Il Bagot intese appieno d'onde e perchè l'Italia e gli italiani fossero calunniati e come gli stessi nemici loro movessero guerra all'opera sua. L'odio, l'invidia, l'ostilità, sorgevano appunto perchè le profonde convinzioni sue non riguardavano soltanto una quistione politica religiosa, ma esalta- vano inoltre il progresso e la grandezza d'Italia, che egli illustrava con opere letterarie, le quali riuscivano a mutare le opinioni di molti inglesi ed americani di buona fede. Questi si vanno sempre più e sempre meglio accorgendo che l'Italia moderna non è soltanto da

38 UN VERO AMICO DELL'ITALIA

ammirarsi per la sovrana sua bellezza naturale, per le grandiose sue tradizioni storiche e ricchezza di monumenti e splendore di arte, ma è oramai una giovine Nazione trionfante nelle industrie, nel com- mercio e nell'azione sua di politica internazionale.

Quando, al principio della guerra libica, la stampa nemica cre- deva giunta l'ora di scagliarsi contro di noi, con le più abbiette diffamazioni, il Bagot sorse davvero con il coraggio di un cavaliere antico a difenderci a fronte alta. E la sua parola, serena, convinta, valse a confutare mirabilmente l'implacabile livore della calunnia, dimostrando tutta la ragione del più sacro diritto civile che spin- geva arditamente la giovine Italia a rivendicare il dominio su quel mare che fu nostro e che a noi è ora gloriosamente tornato per il generoso sangue sparso con atavico eroismo. Ed unico conforto alle madri, alle spose italiane, che non videro più tornare quei loro ado- rati guerrieri, non fu appunto la fiera coscienza che quelle preziose giovani vite fossero state offerte sull'ara della Patria?

Non ci stupisce come il successo del libro « Gli Italiam moderni » (The Italians of to day) sia stato superiore ancora a quello di « My Halian year i^ (Il mio anno italiano). Fu appunto durante la guerra del 1912, che il Bagot pubblicò quell'ardita difesa degli italiani mo- derni, volume tradotto dal chiaro cav. Palicela e pubblicato dal La- terza di Bari. Questi due libri sono molto conosciuti ed ammirati in Italia, ove si sa che l'ultimo fu scritto per sradicare dal popolo inglese molti pregiudizi assurdi e per esporre gli intrighi bassi e triviali di que' giornalisti che calunniavano l'onore de' nostri prodi soldóti durante la guerra. La pubblicazione di quel libro fece una grande impressione in Inghilterra come in Italia, che il Bagot ebbe lettere innumerevoh, vilmente anonime, moltissime, insultandolo per avere difeso gli italiani. E lo strano ed il caratteristico è che quelle lettera gli pervennero da ogni parte del mondo! Ma non gli manca- rono c{i elk, ugualmente numerose da varie parti del mondo, in inglese, ringraziandolo di avere scritto quel libro ed esprimendo pro- fonda indignazione per la condott-a di quella parte de' pubblicisti in- glesi che avevano calunniato l'Italia e gli italiani. E da ogni parte d'Italia furono spediti al Bagot vivi ringraziamenti e lodi unanimi, da privati e da associazioni diverse, da autorità municipali, ed uno splendido album fu offerto da un gruppo di signore di Roma, oltre diversi tributi di riconoscenza devota. Tutto ciò incoraggiò e com- mosse molto il Bagot mentre Lord Northcliffe, proprietario del Daily Mail, fece pubblicare integralmente su questo giornale la bella lettera con la quale Riccardo Bagot ringraziava gli italiani di ogni parte del mondo che tanto lo avevano inteso ed incoraggiato in un momento assai critico.

Il Bagot ci difese allora e sempre schiettamente e fu tanto sor- preso, quanto soddisfatto, che l'opera sua fosse stata così apprezzata in Italia, da meritargli fìnanco l'alto onore di una visita dei Sovrani nostri alla magnifica sua villa di Tripalle, presso Pisa. Quel giorno fu- rono compensate appieno molte intime amarezze, ed egli conserva, preziosi ricordi, alcune fotografìe prese dai Reali, pei quali la devo- zione sua non potè allora accrescersi, avendola sempre sentita viva

UN VERO AMICO DELL'ITALIA

39

e profonda. E ben possiamo averne la conferma, trovando i ritratti della famiglia Reale a capo di quel conciso e magnifico articolo che fa da introduzione al recente numero unico pubblicato sulFItalia dallo Standard di Londra (1) e che è stato tradotto e largamente dif- fuso anche in tutta Italia.

Invitato recentemente in Inghilterra, a tenervi delle conferenze pubbliche, il Bagot prescelse ancora una volta a tema l'Italia mo- derna, convinto più che mai della importanza e necessità di estirpare, fin dalle radici, i pregiudizi e preconcetti coltivati, per tradizione, dalla maggioranza degli Anglo-Sassoni. Il Bagot giustamente afferma che l'antica e sentimentale amicizia fra l'Inghilterra e l'It-alia è an-

Villa Bagot presso Crespina (Toscana).

che oggi la stessa, più formale cioè che sostanziale. Egli ritiene che la maggioranza del pubblico Britannico insiste nel considerare l'Italia moderna da un punto di vista esclusivamente medioevale ed estetico, non riconoscendo, in modo alcuno, che gli italiani sieno oggi qualche cosa di molto più di una razza pittoresca e capace di produrre sol- tanto cose graziose e contribuire allo svago dei viaggiatori in luna i miele!

Il Bagot vuole che i connazionali suoi riconoscano la energia, il coraggio, la perseveranza, la disciplina patriottica, con cui gli ita- liani si sono andati formando gran popolo libero ed indipendente. Ed egli è convinto oramai che vi sia una buona parte di par- tito preso dall'invidia e dall'ottusa ostinazione, nella persistenza a calunniarci, a intrigare a danno nostro, per ostacolare quanto possa giovarci a sviluppare sempre più la fiorente prosperità nazionale.

(1) V. « Gens italica - Italy » edited by Rbginalo Harris for the Stan- dard, London, 1913.

40 UN VERO AMICO DELL'ITALIA.

Una delle più importanti manifestazioni di quella implacabile osti- lità contro l'Italia è appunto la guerra fatta al suo credito, allonta- nando dalle imprese italiane il capitale circolante all'estero. Fino a pochi anni or sono e nuovamente e più durante la recente guerra, come in ogni altra possibile occasione, si è fatta e si fa sempre circo- lare la voce di fallimento, di difficoltà o disavanzo nelle finanze ita- liane, espressamente per screditarci, visto che tutte le altre calunnie vanno mano mano sfatandosi!

Ora è indubitato che, pure conscii di non meritare avversione ed ire nemiche, pure riconoscendo che la verità finisce sempre coi trionfare, dobbiamo essere grati a chi sostiene, con sommo disinte- resse, le nostre ragioni e ci difendo non solo quando siamo vilipesi, ma in ogni occasione in cui si tratta fìnartco di chiarire equivoci o d'illustrare quanto valga a farci conoscere, amare, ed apprezzare come meritiamo.

Riccardo Bagot è difatti uno dei pochi diplomatici non uffi- ciali, ma non meno, anzi più efficace di quelli, il quale non tralascia circostanza, sia con gli scritti, sia con la parola, per tenere alto il prestigio e l'onore di una Nazione a cui egli appartiene non per na- scita, ma per quella vivezza potentissima di sentimento che gli me- riterebbe davvero la cittadinanza onoraria italiana.

Fanny Zampini Salazar.

L'ASINO NEL FIUME

NOVELLA

La maggior piena era passata : or la fiumana, contenuta nella parttì più bassa, scorreva rapida, ma a piccole onde lievi lievi che s'inseguivano riscintillando. Il sole, nel sereno purificato dalla pioggia della mattina, la irradiava, vi si rifletteva quasi in liquido argento; e ove dilagava nel letto più ampio, l'acqua pareva espan- dersi dall'agitazione del mezzo e indugiare, di costa, in un tremolio fulgido, frequente e incessante; come in una trepida gioia infinita.

Per passare dalla riva sinistra alla destra a caricarvi la breccia, i birocciai dovevano seguire la carraia, che avevano praticata evi- tando massi e borri, e seguir, sotto l'acqua, i solchi delle ruote. Discesero in fila : ritti su le birocce essi schioccavan la frusta ed in- citavano con voci di iù! mentre trattenevan le redini; ed i cavalli, a testa alta, scuotendo le sonagliere, entravano nella corrente e go- devano a diguazzare in quella vivida intermittenza, a precedere o a seguire i compagni attraverso quella confusione e quel palpito d'acqua e splendore. E l'esser passati era per gli animali e per gli uomini quale un'allegra vittoria.

Venne ultimo, con la sgangherata biroccett-a e 1 asino, Sugnazza. Anche lui! Urlava anche lui; e bastonava. Ma l'asino non aveva bal- danza: troppi digiuni e troppe botte. E quando non era ancora a metà del guado, si fermò. Si fermò rigido, a orecchie chine, con intenzione dubbia. L'arrestava l'ignota delizia del bagno, o lo atter- rivano il luccichio e la vertigine? E non bastavano più il bastone e le grida.

Dalli, Sugnazza Arri! Forza! ripetevano i birocciai sghignazzando, intanto che raccoglievano dai mucchi la ghiaia e la caricavano con fragor di badili. Forza! che l'acqua ti porta via! Dalli!

Dava; e l'asino, duro. Finché, fosse una randellata di tal sorta da affrettare il destino, o fosse una funesta illusione di riposo e di pace che irresistibilmente l'attirasse, la bestia si abbandonò e cadde; e Sugnazza battè il petto contro il riparo, dinanzi. Ahi! Calò subito nell'acqua, e furioso percosse, bestemmiò e maledisse. Ma era finita. E quando fu certo...

Gli è crepato l'asino! Gli è crepato l'asino! esclamarono quegli altri accorrendo a vedere e a ridere.

L'asino non si mosse più; e quando fu certo, Sugnazza tacque; risalì nella biroccia prona su la bestia morta e vi si distese per il

42 l'asino nel fiume

lungo, la testa poggiata su le braccia e la faccia in giù, con appa- renza d'uno che cogliesse una bella occasione per schiacciare un sonnellino.

E per non disturbare lui la bestia i birocciai, al ritorno, tirarono un po' da parte. Ridevano ancora.

Quel disgraziato che matto! sembrava voler passarsela così, pacificamente, dormendo al fresco in compagnia del morto.

Ma Sugnazza non dormiva. E non piangeva. Si vedeva, a occhi chiusi, ridotto dalla fame press'a poco come il suo asino. Dal avanti egli non aveva ingollato cibo, e gli ultimi soldi gli erano andati, la mattina, in grappa. Un pezzo di pane a credito per qual- che giorno, da qualche fornaio, lo avrebbe trovato; ma poi, cosa fare? Lavorare a opera? Chi l'avrebbe preso, ormai che il cuore gli ballava il trescone a ogni sforzo e i polmoni arsi pativan sete d'aria più che lo stomaco d'acquavite? E chi l'avrebbe voluto a servire in casa con quella tara che portava addosso da vent'anni? E chi gli avrebbe fatta volontieri l'elemosina, a un uomo che non era vecchio, e, quando poteva, si ubbriacava?

Così, 0 comperare un'altra bestia per la biroccia, o morir di fame. Questa la conclusione.

Ma se quest'era la speranza, bisognava persuaderne il mondo ^ dire: O voi, che potete, mi aiutate, o io mi lascio morir di fame qui dove sono, con l'asino. Sissignori! E mantengo!

Veramente nell'opinione pubblica Sugnazza godeva stima di essere risoluto : non per altro che per il modo con cui la vinceva sul suo compagno di sventura aveva suscitata sempre l'ilarità e, fino a un certo segno, la simpatia dei compaesani.

Povera bestia!; più povera forse sotto la biroccia scarica che sotto il carico. Allorché il padrone, dalla biroccia, s'ergeva a so- stener la corsa per la maggior via del paese, l'asino dava uno spetta- colo di pazienza e di sofferenza così sproporzionate da divertire anche la gente seria. Al grido annunziatore della tempesta incur- vava i] dorso quasi per offrir più alto il campo al randello e uscir più presto di pena; teneva stretta stretta la coda quasi per sottrarre anche il suo unico inutile schermo, e finché i colpi erano sopporta- bili interrompeva un istante l'andare abbassando la testa e rialzando un po' insieme le gambe di dietro quasi per accusar ricevuta. Ma se le legnate piombavano senza misericordia, allora col torace vuoto e ri- sonante l'infelice creatura aderiva a una delle stanghe, in un vano tentativo di allontanarsi, e pareva piangesse con le orecchie.

Dalli, Sugnazza!

Dava; e quell'uomo squallido, barbuto, brutto, sporco, assomi- gliava al destino che non lascia tregua all'umanità. Tutti riconosce- vano un po' stessi in quell'asino (siamo al mondo per soffrire); e gridavan dalli! senza scrupolo, perchè, in fondo, che cosa valeva un animale simile, una carcassa pelle e ossa?

Ma se la bestia era sempre una bestia, l'uomo era sempre un uomo; e come aveva una gran fame, e pativa, adesso, il tormento della fame, Sugnazza imaginava che ognuno si commoverebbe della sua disgrazia, della sua disperata. decisione. Certo, il sindaco, l'ar-

l'asino nel fiume 43

ciprete, la Congregazione di carità, gli avventori, e, quantunque non fosse in lega, i fratelli della Camera del lavoro, subito racco- glierebbero sussidi e offerte affinchè il disgraziato non si lasciasse morire nel fiume, con l'asino. Certo : bastava informarli di questo proposito che aveva in mente, e tutti si darebbero d'attorno per aiu- tarlo. Né a informarli mancherebbero messaggeri. Quanti, fra poco, correrebbero a vederlo e a compiangerlo, povero diavolo da venti anni perseguitato dalla sfortuna; e adesso gli era spirato l'asino in mezzo!

Non appena infatti i birocciai della ghiaia ebbero dat^ la nuova all'osteria del borgo, qualche ozioso e parecchi monelli si affretta- rono gaiamente allo spettacolo inatteso. Gli uomini ristettero sul ponte o sulla sponda sinistra; e chiamavano Sugnazza, e lo canzona- vano con le grida e le apostrofi che egli usava con il suo asino: i monelli preferirono passare di dalla strada e dalla sponda destra calar nel greto già asciutto; indi metter mano ai ciottoli. Della be- stia non si scorgeva che la pancia gonfia, a fior d'acqua; dell'uomo si scorgeva solo quel che del dorso superava i ripari della biroccia: e la difficoltà di colpir giusto suscitava legittima emulazione. E la sassaiola cadeva nell'acqua, sollevava spruzzi brillanti.

Ma bene! un sassolino toccò Sugnazza proprio dove piìi sporgeva a bersaglio.

Si alzò in piedi. Con quanta ira potè elevò il bastone, e sembrò sfidar l'aria; e tendendo l'altro braccio, per allargare la minaccia alla vastità della scena, urlò con quanta voce potè:

Via! Il fiume è di tutti! Qui sono e qui sto; qui voglio mo- rire, se chi può non mi aiuta! Diteglielo! urlava. Diteglielo! urlò di nuovo rivolto a quelli che eran sul ponte. Se non mi aiutano a comperare un'altra bestia, mi lascio morir qui, com'è vero Dio!

Ma a un nuovo colpo quell'immagine oscura, che nella luce me- ridiana e nello splendore dell'acqua si sarebbe detto un fantasma non pili pauroso rimasto fuor d'ora, sopra una biroccia, per un caso buffo, si rovesciò a rigiacere e non die più segno di vita.

Frattanto, di bocca in bocca, la notizia dell'asino nel fiume, del- l'asino di Sugnazza, andava per tutto il paese.

Al caffè grande la portò un assessore, e il sindaco, che giocava l'ultima partita a biliardo prima di desinare, disse:

L'asino deve essere seppellito dentro oggi; se no, si applica la multa a termini del nuovo regolamento d'igiene.

Avviseremo disse l'assessore. Ma anche se lascia l'asino ad appestar l'aria e l'acqua, la multa Sugnazza non la paga di sicuro!

Gli si sequestra la biroccia ribattè il sindaco. Non varrà qualche lira?

E in canonica l'arciprete già desinava, quando il campanaro venne a raccontare che Sugnazza aveva accoppato l'asino attraver- sando la fiumana.

Povera bestia! Ha finito di soffrire l'arciprete commentò. Speriamo che non ne capiti mai piìi nessun'altra sotto quelle mani!

Al pomeriggio il presidente della Congregazione entrava dal ta- baccaio.

44 l'asino nel fiume

Sa? Nel fiume, questa mattina, è crepato l'asino di Sugnazza. Il presidente fece un comico atto di disperazione, e chiese :

Aveva famiglia?

Chi?

L'asino? . Rispose uno:

Aveva dei parenti, ma son tutti benestanti, e non dimande- ranno sussidi; stia pur tranquillo!

E alla Camera del lavoro il segretario esilarò i compagni, che vi riposavano e conversavano, esclamando :

Poco male se a Sugnazza gli è morto l'asino. Con i quattrini che ha risparmiato a far il crumiro si comprerà un carro auto- mobile, un camion!

Quanto al cliente che fin dal mattino aspettava la sabbia dal suo birocciaio crumiro, non vedendolo arrivare e imparando il perchè, fece quel che avrebbero fatto tutti nel suo caso : andò in cerca d'un altro birocciaio che non stesse alla tariffa della Lega.

il divertimento, dal ponte e dalla riva, cessò prima di sera. Verso sera venne anche una guardia municipale recando seco il nuovo regolamento d'igiene.

Sissignore : seppellire i morti borbottò Sugnazza. Ma aspettate ancora un poco.

Ancora un poco... Allo spasimo della fame gli era seguito un senso di ondeggiamento in cui gli pareva di sentirsi trasportar dal- l'anima. Ma la pena era adesso nelle visioni dell'inedia : torbide, tristi, di pianto. Bieca e cattiva più che ogni altra l'affannava l'ima- gine dell'uomo che era stato causa della sua rovina: a quando a quando il Biondino entrava evidente in quel turbine e gli diceva con un ghigno : Muori?

: moriva dopo venti anni di miseria, spossato nel cuore e nel petto, bruciato dall'acquavite; moriva d'inedia. E per lui!

Un breve amore; l'invidia che la donna preferisse l'altro; la gelosia e la provocazione dell'altro; la lite e la ferita maligna una scalfittura, onde all'altro il Biondino s'era dovuto amputare il braccio; e il processo; e la condanna: ecco ciò che era avvenuto in gioventù ad Andrea Porta non ancora detto Sugnazza; ecco come l'odio aveva per venti anni avvelenate due esistenze; ecco perchè il vinto or vagellava in una torbida, turbinosa tristezza, in un'insania spaventosa, mentre l'imagine dell'odio, del Biondino non ancora detto il Monco, gli diceva ghignando : Muori?

Ed egli, il vinto, ora per la prima volta si sentiva l'anima. On- deggiava così leggera, così desiderosa di luce e di quiete! Per vedere se fuori di lui, nel mondo silenzioso, fosse già buio, Sugnazza si voltò supino, con fatica estrema. Quante stelle ! E chiuse gli occhi senza più rivoltarsi, come alla rivelazione di una cosa orribile. Tanto bello era il cielo! e il mondo... Nessuno aveva avuto compassione di lui che moriva. Nessuno! Nessuno!

l'asino nel fiume 45

Ohe! Andrea!

Sugnazza trasalì. Da ventanni non aveva mai più udito chia- marsi col suo nome. Piegò a pena il viso; e diresse lo sguardo verso dove veniva la voce; lontana lontana o presso?

Ascolta, Andrea seguitava . T'ho sentito oggi quando hai detto quello che hai detto. Ma non son ragioni.

Sugnazza udiva; e scampava, con lo sguardo, all'orrore di quella voce. Quante lucciole sulla costai Nel silenzio, palpitavano di luce quasi in una gara instancabile; ed erano così fìtte che elevandosi e ricadendo e volteggiando, ciascuna sembrava immobile.

Credi d'esser disgraziato sol tu? seguitava l'intollerabile voce . A te ti è morto Tasino : io ho la donna all'ospedale, e non c'è speranza che si rimett*i: e sai che lavorava lei per me, e guadagnava molto; da sarta, lo vado a ranocchi; ma adesso tutti son signori, e non ne vogliono.

Maledetto! Era il Biondino!

Mi ascolti, Andrea?

Sugnazy^a non avrebbe voluto vederlo, eppure era costretto a cercarlo con lo sguardo estremo. E una luce rossa, gettatagli contro, gli raccolse lo sguardo.

Allora lo vide, il nemico, illuminato in faccia dalla lanterna che aveva aperta per osservar lui la lanterna con la quale affascinava i ranocchi ; e la luce rossa si diffuse nell'acqua intorno all'asino morto.

Dunque seguitò il Biondino d'un tempo, ora il Monco : dunque senti che pensiero ho fatto. Noi siamo stati disgraziati tutti e due, uno per causa dell'altro. Destino! Tu hai rovinato me, io te. Ma io ho qualche risparmio, della donna, e ti posso aiutare; e tu, me. Ti compero io la bestia; e conduciamo il lavoro insieme. Io ti guido la bestia e tu mi dai biroccia e braccia : entriamo nella Lega per guadagnare di piìi; e il guadagno a mezzo. Ci stai?

Sugnazza voleva rispondere: Tu! solo tu hai avuto compas- sione di me! Ma per rispondere sospirò, e in quell'istante, in quel sospiro si sentì rapir lieve lieve, via, fra una infinità di luci : luc- ciole o stelle.

Adolfo Albertazzi.

VERS

Passato.

Vento e piog-gia, vecchia porta, apri un poco i tuoi battentil la tua gente è tutta morta? son di casa tutti assenti?

Non dai logori pertugi mi rammemori tu i pianti sparsi già nei molli indugi su la soglia da gli amanti;

tu vedesti omai, mi pare, portar via da la tua soglia d'in fra i ceri troppe bare ed or mugoli di doglia

e fra stridi gemebondi se, chiamando, ti sospinga, dai pertugi mi rispondi : è la casa mia solinga!

A una meridianai

Vecchio orologio a sole, indice muto su mura solatie,

che il febbrile non dai battito acuto di tante sonerie;

toglimi al ticche tocche, al martellio che non conosce tregue

e che ognora a le spalle sul pendìo

questa mia vita insegue;

VERSI 47

che m'incalza minuto per minuto

e a quando a quando scroscia

a rinfacciarmi i giorni che ho perduto e la mia vana angoscia.

Tu che su l'erme mura paziente

e tacito mi segni il giro del pianeta e l'ore lente

a sopportar m'insegni;

tu che ne l'ora accesa meriggiana m'induci alta quiete

e mi riveli ne la vita umana felicità segrete;

mentre lungi dal mondo turbinoso richiami idilli spenti

di pastori che trovano riposo

tra gli arbori stormenti,

vecchio orologio a sole, qualche istante

concedimi di pace, de la pace che spira il tuo quadrante

nel mezzodì che tace.

Nervi.

Mi sento oggi l'anima schiva di gusti, di suoni massicci; ne l'anima origlio se spicci la vena di tenue sorgiva.

Non oggi il tuo canto, usignolo; nemmeno le rose; ho piacere di stare tra cose leggere, sensibili appena a me solo.

Mi basta quest'albero, un noce, che stacca nel cielo turchino; un noce con su un cardellino che canta, così, sottovoce.

48 VERSI

Da lungi m'arriva anche il canto di qualche fanciulla rimasta nel suo casolare; mi basta: io l'amo, così sino al pianto.

Visitatrice inesorabile.

« In quale giorno? ed a che ora?... » Tregua a la tua inchiesta; si sgomenta il senso al pensier che la vita si dilegua là, nel silenzio, donde venne, immenso.

Con la tua voce non turbarmi, vanne! or sui prati la quaglia mattiniera batte la sveglia e fremono le canne, in attesa del sol, su la riviera.

« In quale giorno? ed a che ora?... » Il passo rivolgi altrove! mentre cade il giorno e avvolte in rosea polve, a muso basso, fanno ai chiusi le pecore ritorno;

mentre nel borgo tacito, serena si raccoglie la casa al lume cheto de la lucerna appesa su la cena, va, non turbarmi, ch'io mi sento lieto.

« E in quale giorno? ed à che ora?... » Vedi, m'empie i polmoni l'alito salubre de la campagna in fiore e tu, fra i piedi, d'una voce mi abbrividi lugubre;

voce incessante, che le vuote ingombra volte del petto; che sul cuore incombe; che il ribrezzo mi provoca d'un'ombra penetrata dal freddo de le tombe.

Diluvio.

Il sole un giorno tornerà? non credo : da troppo tempo, là, su l'erma torre, rosso al tramonto il disco suo non vedo.

V'ERSI 49

Tiitti i ruscelli suonano: le torre

rigurgitano oscura acqua piovana

che scrosciando dai botri a sbalzi corre.

L'anitra si diguazza a la font-ana che già trabocca; mugola il torrente e chiama, senza tregua, acqua, 1^ rana.

Nel borgo l'altre voci tutte spente; e non è già la notte e non è sera e non è giorno : piove eternamente.

Ma v'è quaggiù qualcuno che una spera di sole ancora sogni? non quel pioppo che abbandonatamente si dispera;

e non quella grondaia a cui l'intoppo de l'acqua, come il pianto, in una gola, fa che singulti, lì, stretta da un groppo.

Ma -che vuoi, perchè vai, lodola sola, sotto la pioggia con acute strida? nessuno canta più, nessuno vola.

Qualche angoscia recondita ti guida forse per l'aria nubila, uniforme? o lanci al cielo una sdegnosa sfida?

In me non duolo o sdegno: tutto dorme, or mentre piove e passano i pensieri taciti in me, così, quasi senz'orme

come accanto un morente gl'infermieri.

Emilio Girardini.

(Dal volume Chordae cordis d'imminente pubblicazione).

Voi. CLXVn. Serie V. 1* Settembre 1913.

L'ABBAZIA CISTERCENSE DELLE TRE FONTANE

Il monastero dei cistercensi e la chiesa dei Santi Vincenzo ed Anastasio alle Tre Fontane, gruppo di costruzioni non sufficiente- mente osservato dagli studiosi, costituiscono uno dei monumenti più significativi dell'architettura medievale romana di transizione, per- chè contiene volte a sesto acuto fra le prime che vennero erette in Italia, e perchè edificato sotto gli occhi vigili di San Bernardo ebbe un'influenza notevole nello sviluppo dell'arte gotica cistercense di Italia.

La maestranza che edificò il monastero, dev'essere stata in parte lombarda, in parte romana, ma diretta da qualche architetto del- l'ordine. La pianta dell'intiero monastero (fig. 2) è caratteristica e la ritroviamo a Fossanova come a Casamari ed ha la chiesa crucei- forme col piccolo coro quadrato e le cappelle laterali (i).

Generalmente si ritiene che il chiostro ed il pronao apparten- gano al sesto secolo; è un errore. Tutta l'abbazia edificata nel secolo decimosecondo ha un carattere unico, sebbene il chiostro non fosse ultimato, la volta della chiesa non fosse compiuta, il portico fosse aggiunto più tardi sotto Onorio III. Sul fregio del portico stesso una iscrizione dice :

Innocenti US ii Pont, max ex familia anicia

Papia et papabesca nxjnc mattaeia

S. Bernardi opera svblato anaclet schismate

Eidem ac svis cisterciensibvs

Hoc a se restavratvm monasterivm dono

dedit anno domini mcxl

ma è una lapide quattrocentesca forse messa sul posto a surrogarne un'altra distrutta.

I primi oratori cristiani erano nati sul luogo ove si riteneva fosse stato decapitato San Paolo. Teodoro I nel 643 vi edificò un monastero dedicato a San Vincenzo, ed al monastero aggiunse una basilica sotto l'invocazione di Maria, una cappella dedicata a San Giovanni Battista. Questi edifici vennero distrutti da un incendio; Adriano I nell'ottavo secolo li riedificò.

Neir805, Leone III arricchì il monastero e si vuole che Carlo Magno lo dotasse di varie città, isole, terre della Maremma. Sotto

(1) La pianta dell'abbazia (fig. 2) che illustra questo articolo venne rile- vata da Roberto Papini, che mi aiutò a fotografare e misurare l'edificio. Le illustrazioni fig. 3, 13 e 16 sono fotografie eseguite da Cesare Faraglia, e mi vennere cortesemente concesse da Pietro Stettiner, che le ritrasse per la sua opera Roma nei suoi Monumenti.

l'abbazia cistercense delle tre fontane

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al pronao, nel' giardino, si vedono vari frammenti di plutei del nono e decimo secolo; sono i resti di queste ricostruzioni.

L'edificazione del monastero cistercense ha la data storica. Nel 1138, morto l'antipapa Anacleto dei Pierleoni, Innocenzo II poteva dirsi salvato dalla « rabies leonina » che per tanti anni aveva scon-

Fig. 1. Vista d'insieme dell'Abbazia delle Tre Fontane.

volto il territorio del papato e Roma stessa. La fazione di Anacleto aveva chiesto a Rogero di Sicilia un novello antipapa; l'ebbe, ma poco tardò che San Bernardo, il quale aveva sostenuto con la sua influenza Innocenzo, conducesse il cardinal Gregorio siccome peni- tente ai piedi del suo protetto. Ad imperitura memoria della dimora del santo, Innocenzo edificò il convento detto dalla località « ad Acqua

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l'abbazia cistercense delle tre fontane

Salvias», e vi pose i cistercensi sotto il governo dell'abate Bernardo da Pisa, discepolo del grande mistico. Nel 1145, dopo la morte vio- lenta di Lucio II, l'abate Bernardo venne elevato alla santa Sede col nome di Eugenio III.

L'abbazia cistercense di Ch'iaravalle di Milano era stata inco- minciata nel 1131 e venne consacrata nel 1221. La seconda abbazia cistercense in Italia fu questa di Roma per la cui costruzione de- vono essere stati chiamati artisti della Lombardia; il gruppo degli edificii conventuali e gran parte della chiesa sono costruiti in mat- toni con innegabili caratteri lombardi. Non è il caso aui di ricor-

AB3AZIA DELLE TRE roNTAMC

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Fig. 2. Pianta dell'Abbazia delle Tre Fontane.

dare l'abbazia di Ghiaravalle della Colomba presso Piacenza, co- minciata nel secolo dodicesimo, finita nel quattordicesimo, l'ab- bazia di Castagnola fra Iesi ed Ancona appartenenti al secolo tre- dicesimo, l'una come l'altra intieramente costruite in mattoni seb- bene perfettamente gotiche.

L'abbazia di Chiaravalle presso Milano, ha una particolare at- trattiva nella originale struttura arricchita dal tiburio a torre cam- panaria, assai simile a quella della chiesa abbaziale di Cluny eretta ai primi del secolo dodicesimo. Nella stessa epoca in Francia, ve- diamo ristesso tipo di torre innalzarsi ad Issoire nella chiesa di San Paolo, a Poitiers nella chiesa di Nòtre-Dame, ma il più antico esempio pervenuto fino a noi è forse quello della chiesa di San Mi- chele ad Hildesheim, imitato poi nella chiesa di San Gottardo nella stessa città.

l'abbazia cistercense delle tre fontane

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Queste torri derivarono dalle cupole ottagone della Lombardia, che alla lor volta derivarono dalle ultime costruzioni romane, e di- vennero caratteristiche delle chiese cistercensi di Fossanova, di Casa- mari. Sul loro esempio l'ebbero Santa Maria Maggiore di Ferentino e Sant'Andrea di Vercelli.

Secondo una iscrizione la chiesa di Milano fu cominciata da San Bernardo stesso, quando riconciliò con la Chiesa i Milanesi, ed è fatta di motivi architettonici nazionali, è costruita di laterizio.

L'abbazia delle Tre Fontane è pure quasi tutta di laterizio, e questo materiale non è di scavo come in molti edifìci romani, ma

Fig. 3. Interno della chiesa dei SS. Vincenzo ed Anastasio.

espressamente fabbricato, il che fa supporre come dalla maestranza immigrata venissero attivate delle fornaci.

L'abbazia « Ad Acqua Salvias » dev'essere stata data da Inno- cenzo II a San Bernardo, poco dopo la morte di Anacleto antipapa, quando il pontefice, nel 1138, fu padrone completamente di Roma, e l'edificio monastico dev'essere cominciato a surgere fra il 1140 ed il 1150.

L'abbazia di Fossanova fu cominciata nel 1187, e papa Inno- cenzo III ne consacrò l'aitar maggiore nel 1208. Nel 1152 Eugenio III tolse ai benedettini di Casamari l'abbazia e vi installò i cistercensi, i quali ricostruirono il monastero. Nel 1203 Innocenzo III pose la prima pietra della chiesa stessa, che è la piìi equilibrata espressione dell'arte cistercense nel Lazio: la chiesa venne consacrata da Ono- rio III nel 1212.

L'opera che determinò il carattere delle chiese cistercensi, met- tendo a profìtto l'esperienza fatta in Francia ed in Italia, fu la chiesa

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l'abbazia cistercense delle tre fontane

di Pontigny, surta nel 1150 e nella quale tutte le reminiscenze ro- maniche furono abbandonate.

Una immigrazione di artisti francesi in Italia dev'essere inco- minciata con l'abbazia di Fossanova ove s'installarono i cistercensi di Haute-Gombe nella Savoia, e continuata nell'abbazia d'i S. Mar- tino al Cimino ove, nel 1207, Innocenzo III insediò i cistercensi stessi di Pontigny.

Dalla scuola delle arti stabilita a Fossanova si sparse nel Lazio

una maestranza edu- cata alla tecnica nuova ed ebbe una notevole parte sullo svolgersi dei marmorari romani, ma nell'abbazia delle Tre Fontane, siamo ancora nel periodo di forma- zione degli edifìci ci- stercensi, e siamo an- cora nello stile roma- nico pre-gotico.

Nella chiesa, nel centro della crociera, al posto della cupola e dove nel futuro surge- ranno quelle volte d'o- giyo ad otto costoloni che le surrogarono, le navi s'incontrano attra- verso tre archi a tutto sesto aperti nelle pareti e che danno accesso al coro ed alla nave tra- versa. Il coro e la nave traversa ugualmente poco elevate sono vol- tate ad arco acuto equi- latero (fìg. 3 e 4); la nave centrale alta come una torre procede così elevata verso il portico (fìg. 5) e doveva essere pur essa coperta con una volta ad arco acuto equilatero. Ma rimase incompleta e venne coperta con le capriate. Le navi laterali sono coperte ciascuna da nove volticelle a crociera sostenute su nove pi- lastri, le pareti della nave centrale poggiano su archi voltati a tutto sesto, e le quattro cappelle aperte sulla nave traversa sono voltate a sesto acuto (fìg. 6).

Vista esternamente dalla parte del coro, la chiesa d-eì Santi Vincenzo ed Anastasio presenta un movimento di linee simile alla chiesa di Ghiaravalle milanese, ricorda l'esterno del sepolcro di Galla Placidia (fìg. 7). Ma la sopraelevazione centrale di quest'ultimo

Fig. 4. Nave traversa nella chiesa dei SS. Vincenzo ed Anastasio.

L ABBAZIA CISTERCENSE DELLE TRE FONTANE

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monumento procede nella chiesa romana con un'altezza di dieciotto metri da terra fino alla facciata esterna, dando all'interno un ca- rattere austero e solenne.

Disgraziatamente la volta ad arco acuto che avrebbe raggiunto i venti metri non fu ultimata, e venne coperta con la travatura co- mune alle basiliche latine (fìg. 3 e 5).

La centina della volta rimase all'inizio. Quali diflScoltà si erano presentate per il compimento dell'opera? L'edifìcio non ha contra- forti come la chiesa mi- lanese, non ha quelle forti speronature che si vedono a Fossanova e nelle chiese cistercensi del Lazio. Sulle due fac- ciate (fìg. 1 e 7) si. scor- gono ancora le antiche lesioni prodotte dall'in- nalzamento del principio delle centine che devono avere impensieriti i co- struttori. Essi cercarono di modificare la spinta innalzando la tangente dell'angolo della volta; credettero di poter gra- vitare così con maggior sicurezza sul muro ester- no, ma arrivati ad un metro e cinquanta dal- l'imposta ne videro l'im- possibilità e desisterono.

La costruzione della volta è arrivata laddove era necessario abbando- nare la gravitazione sul muro, e dovevasi pian- tare il castello interno con le travi orizzontali a sostegno della matrice

della centina. Sulla matrice, doveva adagiarsi un letto di assicelle così solido da sostenere il peso degli operai destinati ad innalzare, alla di- stanza di un tre metri l'una dall'altra, tante nervature fra le qìiali i mattoni in piano sulle assicelle ed a contrasto fra loro avrebbero disegnato il profilo della volta. Cinque o sei catene di mattoni lunghe quanto è lunga la chiesa avrebbero inchiavardate le nervature fra loro, ed il cassettonato derivatone sarebbe stato riempito a sacco con il lapillo e le pignatte, imitando il sistema delle volte a botte dei romani. Altra maniera di costruzione non c'era e gli esempi della antichità, in Italia come a Roma, non mancavano.

Però i fianchi non potevano reggere e la volta rimase incom- pleta, finché, forse sotto Onorio III, non subentrarono a dirigere il lavoro le maestranze locali che lo coronarono al modo latino. I lettori nella prima illustrazione, la quale rappresenta la chiesa vista

Fig. 5. Nave centrale nella chiesa dei SS, Vincenzo ed Anastasio.

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L ABBAZIA CISTERCENSE DELLE TRE FONTANE

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dall'alto, possono vedere la differenza esterna fra i muri della fac- ciata che misurano il fastigio prestabilito ed il tetto attuale che rimane al disotto.

Il carattere e la solennità del tempio rimasero però diminuiti e falsificati.

Il gruppo degli edifìci conventuali fondato da San Bernardo nacque con la disposizione caratteristica dei monasteri riformati, ossia con la casa abaziale verso l'ingresso, il chiostro a fianco della

Fig. 8. Lato sud esterno della chiesa dei SS. Vincenzo ed Anastasio.

chiesa, l'aula capitolare aperta sul chiostro, il monastero propria- mente detto con i dormitori, il refettorio, la foresteria opposto alla chiesa (fig. 2). Ma la loro costruzione non fu completa e venne al- terata dalle superfetazioni successive. La casa abaziale è pervenuta fino a noi nelle sole mura esteriori, ove, ad ovest, sul primo piano, si vedono ancora le fenestrelle a sesto acuto dallo stipite di marmo, le prime apparse in Roma (fìg. 1), ed a sud il portone a fianco della chiesa, ingresso oggi murato (fìg. 9).

Le mura della casa sono a Infetti e la porta è di laterizio. Ha l'architrave a piattabanda sormontalo da una cornice ed un tim- pano di cotto, e sul muro, alle estremità, sono innestati, come deco- razione, i frammenti della sedia episcopale dell'antica basilica, che era, come tante consimili, un'antica sedia termale.

La pianta interna dell'edifìcio oggi è tutta alterata : dietro questa porta doveva trovarsi un grande vestibolo per immettere nel chio- stro; ma il chiostro, proprio da questo lato, non venne eretto e la corsia fu suddivisa con un muro nell'asse, si aprì una postierla sotto

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L ABBAZIA CISTERCENSE DELLE TRE FONTANE

il portico della chiesa riducendo il vestibolo alle minime propor- zioni.

Il chiostro, benché innalzato per due lati, portò una evoluzione nell'arte costruttiva dei romani. Fino allora i cortili conventuali, come già a Santa Sabina, a San Giovanni in Lat^rano, a Santa Maria sopra Aracoeli e come ancor oggi a San Clemente al Celio, i cortili che avevano preso il posto del cavedio classico, erano com- posti di arcate sostenute dalle colonne, con una costruzione simile

a quella interna delle basiliche. In qualche ca- so, come appunto nel convento dei benedettini sul Campidoglio, il ca- vedio aveva due ordini a foggia delle basiliche con i matronei. E sia detto occasionalmente, •nel medio evo quest'ul- timo cortile (abbattuto per innalzare il monu- mento a Vittorio Ema- nuele II), servì pure, co- me le basiliche antiche, per amministrare la giu- stizia (fig. 10).

I chiostri con le cam- pate chiuse dalle penta- fore o dalle quadrifore a protezione degli ambu- latori fu una invenzione nordica, dettata dalle in- clemenze del clima, ed il primo esempio in Ronia deve essere stato proprio questo delle Tre Fonta- ne, perchè è il più antico di consimili di questa città e da questo esem- plare dev' esser partito quel movimento d'arte locale, che, in questo genere di edifìci, rese celebri i marmorari romani.

Originalmente doveva avere sette campate a nord ed a sud, cinque ad est e ad ovest e misurare trenta metri per venticinque; ad est l'arco centrale aperto immettere nell'aula capitolare, l'arco centrale a nord nel refettorio. L'aula capitolare ed il refettorio esi- stono tuttora; la prima, voltata a crociera, è sostenuta, come nelle aule capitolari di Fossanova e Casamari, su due pilastri centrali; venne deformata nei successivi restauri, ma conserva tuttora due curiose fenestrelle laterali all'ingresso (fìg. 11); il refettorio invece lungo metri 17.50, largo 7.50 voltato ad arco acuto equilatero, aperto, nel fondo da due finestre sormontate da un occhio, è conservato nella sua integrità. La porta ad imitazione romana è opera assai posteriore.

Fig. 9. Ingresso della casa abaziale.

Fig. 10. Chiostro di S. Maria sopra Aracoeli.

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L ABBAZIA CISTERCENSE DELLE TRE FONTANE

Del chiostro ven- nero ultimate due sole corsie, quella a nord e quella ad est. Venute a mancare le risorse finanziarie, l'opera ri- mase sospesa e si ri- nunciò ai lato sud a. ridosso della chiesa, e sul lato ovest si costruì un semplice muro. Sul- la larghezza dell'ambu- latorio addossato alla chiesa si aggiunse una nuova quadrifora, pro- lungando così la fronte est fino a raggiungere il muro della basilica. Le quadriforo del lato nord (fig. 12) sono co- struttivamentie perfette, mentre nel lato est vennero adoperati mate- riali raccogliticci, avanzi romani dei primitivi oratori.

Presento ai lettori una fotografia dell'angolo della galleria nord- est ove si vede la perfezione dell'organismo architettonico. Ogni pi- lastro che divide le campate sostiene un arco interno, fra i quali sono contenute le volte a crociera (fig. 13). Nella fronte del cavedio la costruzione è ugualmente perfetta, ciascuna campata voltata ad arco contiene una quadrifora e la sommità di ciascun archetto è chiusa da un concio di pietra, privo, secondo la regola allora vi- gente nell'ordine, da ogni ornamentazione (fig. 14). Strana è la

Fig. 11. Fenestrella dell'aula capitolare.

Fig. 12. Quadrifora del chiostro.

l'abbazia cistercense delle tre fontane

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forma dei capitelli a piilvine, perchè le mensole sono smussate agli angoli e formano ima foggia ignota all'arte lombarda. A Roma, ove si eccettuasse il chiostro di Santa Cecilia in Trastevere, questi esem- plari sarebbero unici. Si vuole che il monastero femminile nel Tra- stevere fosse eretto da Pasquale I e che il chiostro attuale fosse un rifacimento dello undecimo secolo; la forma goticizzante dei pulvini ne distrugge la ipotesi.

Il portico che precede la chiesa dei Santi Vincenzo ed Ana- stasio fu l'ultima costruzione del nucleo, e benché eseguita ai primi

Fig. 13. Angolo delle gallerie del chiostro.

decenni del secolo decimotycrzo presenta notevoli differenze con i portici romani contemporanei. Intanto è da osserv^ar subito, come i modiglioni che sostengono la travatura del tetto siano intagliati con delle forme schiettamente gotiche, il che dimostra come monaci edotti nello svolgimento dell'arte francese siano venuti qui, a lavo- rare sui primi del secolo decimoterzo. Riproduco la mensola a destra della porta centrale della chiesa stessa, la quale è la meglio con- servata, le altre sono corrose (vedi fìg. 15).

Il portico, come disposizione e per il numero di quattro colonne e per l'apertura laterale, ricorda quello di San Giorgio in Velabro, restaurato nei primi del secolo decimoterzo, ma le varianti sono tali che gli danno un aspetto nuovo, quasi esotico. Il tetto non è spio- vente ai lati ma poggiato alla parete di fondo che continua lungo le navate laterali, disposizione che, poco dopo, adottarono i Vassel- letto nel portico di San Lorenzo fuori le mura, e gli angoli sono

62 l'abbazia cistercense delle tre fontane

chiusi da pilastrate larghissime. Il profilo di questi pilastri è ornato da mensole a sostegno dell'architrave e le mensole dimostrano come siano nate quelle gotiche dalla ornamentazione nella grossezza del pilastro stesso ma liscie sul davanti. Esse sono ricavate da un cor- nicione romano segato in tante fette. (Vedi fìg. 16).

La cornice d'i coronamento è come quella di tutti i portici ro- mani composta di mensoline di marmo a denti di sega in cotto, imi- tazione pallida dell'ordine corinzio, ma il fregio invece di essere de- corato di qualche frammento antico o delle incrostazioni di pietre colorate, ha sulla cornice dell'architrave gli archetti di scarico sco- perti, e sui pilastri angolari un lungo vuoto decorativo guernito di mattoni disposti a saetta. Fra la muratura si vedono inseriti catini di maiolica, evidente importazione dell'Alta Italia, la quale decora- zione apparì allora anche sui campanili.

La cornice pseudocorinzia che corona il fregio, sul fianco sale diagonalmente a sostenere la tettoia.

Da quel lato una specie di interculunnio aperto fra i due pilastri accesso al portico.

Tutte queste trasformazioni degli elementi romani, prestano alla facciata della chiesa un carattere straniero, al cui effetto contribui- scono le fenestre a strombatura della nave centrale con l'occhio che le sovrasta, disposizione assolutamente ignota nelle costruzioni ro- mane, e che rammenta quella delle chiese di Pa,via {figg. 1, 8 e 16).

Nel 1868 Pio IX diede il monastero ai frati della Trappa i quali restaurarono tutti gli edifici ed alterarono il portico. Il piano antico era più alto di novanta centimetri, e vi si accedeva per tre gradini. Sbassato il pavimento i gradini sparirono e nell'altezza si creò un secondo piedistallo alle colonne.

* *

Mi siano permesse in fondo a questo studio sull'edificio delle Tre Fontane, alcune considerazioni di ordine estetico.

È aforisma vecchio che i caratteri dell'arte nazionale si svilup- pino al contatto delle manifestazioni dell'arte straniera. L'importa- zione a Roma e nel Lazio dell'architettura cistercense educò la mae- stranza romana, svegliò il suo gusto, é provocò la reazione nazio- nale, la quale fu, naturalmente, appoggiata dai benedettini.

È noto come la corporazione dei marmorari avesse il suo ora- torio ai Santi Quattri Coronati, che era un monastero alla dipen- denza dell'Abbazia di Sassovivo presso Foligno, e che i più bei chio- stri dei marmorari, quello di Subiaco, quello dei Santi Quattro Co- ronati, quello di San Cosimato, quello di San Sisto, quello di San Paolo, quello di Sassovivo stesso, quello di San Giovanni in Late- rano furono fatti fare dai benedettini.

Recentemente, monsignor Faloci Pulignani trovò nell'archivio di Foligno l'ultimo contratto stipulato nel 1229 fra l'abate Sasso- vivo ed il rappresentante della maestranza romana, per il comple- tamento del chiostro di Sassovivo. Egli intende illustrarlo, e da questo documento prezioso s'impareranno cose interessantissime ri- guardo alle consuetudini dei pagamenti, degli arbitraggi, delle mi- surazioni, delle penalità, ma più notevole fra le altre consuetudini

l'abbazia cistercense delle tre fontane

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Fig. 14. Prospetto d'una campata del chiostro.

sarà questa che i benedettini, protettori della maestranza, contrassero con questa come ente, il che dimostra come fra Fazione monastica me- , dioevale e l'esercizio delle ar- ti esistesse una comunità di interessi civili.

Quello che è da segnala- re, per l'interesse dell'Uma- nesimo italiano, è che i be- nedettini custodi della cultu- ra classica fossero natural- mente condotti a proteggere l'estetica dei marmorari, i quali tentarono un precoce ri- nascimento delle forme clas- siche.

Gli uomini lavorano la pietra come le altre cose so- ciali e non è in fondo da sor- prendere se questo modo di pensar classico rinascesse ne- gli uomini di lettere come ne- gli scultori di architetture. Il disegno architettonico è un prodotto della educazione,

era un prodotto di quel completo sviluppo di tutte le facoltà che, nella Grecia, come a Roma, come nell'Italia del Rinascimento di- venne lo scopo della etica sociale, ma notevole fu l'enunciazione del fenomeno rinascente nella terra romana medievale.

Dal secolo undicesimo al dodicesimo, si era sviluppata in Roma una maestranza di scalpellini, la quale copiava schematicamente le forme classiche degli edifìci antichi, e che, quando i frammenti an- tichi facevan difetto, riprodu- ceva all'ingrosso capitelli com- positi a volute cruceiformi, ca- pitelli ionici a volute laterali, da innestare sulle colonne rac- colte dai vecchi edifici. Erano imitazioni sommarie dettate più dalla necessità che dal sen- timento estetico, ma pure la osservazione delle opere clas- siche creò quel substrato, di- rei accademico, il quale animò i marmorari del tredicesimo secolo, quando alle nuove aspi- razioni, fatti abili dalla tecnica appresa nelle scuole stesse dei Fig. 15. Modiglione cistercensi, opposero i profili

della travatura del portico. della tradizione classica.

Fig. 16. Portico e facciata della chiesa dei SS. Vine«:^iizu et.1 Anastasio.

l'abbazia cistercense delle tre fontane 66

La chiesa- e l'abbazia delle Tre Fontane segnano una data me- morabile nell'arte mediovaie romana. Sono i primi edifici dell'arte « forastiera » eretti nel Lazio, ed allora forse per la prima volta le maestranze lombarde e le maestranze locali lavorarono insieme di- rette dagli architetti monastici.

Il complesso degli edifici che non poterono esser compiuti è in parte lombardo, in parte neo-latino con tendenze gotiche e vi ve- diamo apparire insieme all'arco acuto una disposizione della pianta nuova, ed una cura speciale nel condurre la costruzione, per quanto semplice essa sia.

Molto dovettero apprendere le maestranze romane da questo soffio di vita nuova, e se molte novità introdotte dai monaci, ofTesero i canoni dei tagliapietre romani, ne provocarono la reazione feconda. Vedremo esaminando i chiostri se e quanto i marmorari, part-endo dalla disposizione di quell'edifìcio, crearono; qui è necessario notare come il portico di San Lorenzo extra-muros, davanti alla basilica, detta forse impropriamente Sistina, fosse eretto quasi contempora- neament-e al portico dei Santi Vincenzo ed Anastasio dai Vasselletto. (Gustavo Giovannoni con inoppugnabili osservazioni sullo stile della famiglia rivendicò l'opera del portico ai Vasselletto). Mai come i marmorari romani furono classici, accurati nella esecuzione, ampi nel disegno, logici nella disposizione delle singole parti. Precorrendo secoli di critica, essi ridiedero all'ordine ionico le sue vere ragioni stilistiche, ritrovarono i pilastri ed ante nelle quali chiusero le co- lonne dai capitelli a volute laterali laddove i greci stessi titubarono deformando i capitelli d'angolo. Questo forse fu il primo risultato preclaro della reazione provocata dalla fabbrica del convento aba- ziale e della chiesa dei Santi Vincenzo ed Anastasio alle Tre Fontane.

Aristide Sartorio.

Voi. CLXVII. Serie V. Settembre 1913.

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

FRANCESCO GRITTI E I SUOI APOLOGHI

Principe veramente della poesia veneziana del 700 è Francesco Gritti.

Nacque egli in Venezia il 12 novembre 1740 da Giannantonio Gritti, patrizio veneziano, e da Cornelia Barbaro, la colta ed intel- ligentissima sorella di Angelo Maria Barbaro, donna di molto spi- rito, famosa nelle colonie arcadiche, sotto il nome di Aurisbe Tar- siense, per le sue canzoni ed i suoi sonetti, di gusto veramente eletto.

Fu, perchè bella e spiritosissima, una delle donne più stimate e ricercate in Venezia: i forestieri più illustri non mancavano di visitarla; ed ebbe adoratori, quali il Bettinelli, il Frugoni, il Meta- stasio, l'Algarotti ed il Goldoni, che la celebrarono in versi ed in prosa, specie il Frugoni, del quale è bene ricordare quanto, con ama- bile ironia, narra il Goldoni nelle sue Memorie parlando del viaggio per Modena del 1761 e delle liete accoglienze a lui fatte quivi dal Frugoni stesso. « Questo nuovo Petrarca, aveva la sua Laura a Ve- nezia. Egli cantava da lontano le grazie ed i talenti della vezzosa Aurisbe Tarsiense, pastorella d'arcadia, ed io la vedeva ogni giorno. Frugoni era di me geloso, e non mi vedeva partire con dispiacere ».

Dalla madre, che argutamente poetava anche in dialetto (ne ci- tammo una canzone diretta al Goldoni), il Gritti ereditò il gusto per la poesia.

Intanto, poiché Giannant-onio Gritti, per quanto nobile non ver- sava in troppo floride condizioni finanziarie, Francesco Gritti dovette essere educato, a spese del Governo, nella Accademia della Giudecca. Ebbe quivi a suoi maestri il Padre Stanislao Balbi per la letteratura e il Padre Luigi Fabris per la filosofia.

Il Gritti però manifestò subito più spiccato amore per le let- tere che per la filosofìa, come più tardi doveva dimostrare anche rispetto alla politica.

Infatti, essendo a trent'anni (età prescritta dalla legge) nomi- nato con grande maggioranza di voti giudice nel Consiglio dei Qua- ranta, amministrò con senno e con integrità la giustizia, ma non volle assurgere a cariche più elevate. Cessò dal proprio uffìzio col cessare della Repubblica. Si dedicò allora esclusivamente alla poesia, traendo vita lieta e tranquilla, fino al 16 gennaio 1811, giorno in cui fu colpito da morte repentina. '^

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA 67

« Contava l'anno settantesimo primo, scrive il Meneghelli nella prefazione alle Poesie del Gritti (1) ma la freschezza dei linea- menti, l'energia dello spirito, l'attitudine di tutte le sue facoltà, lusingavano che non dovesse essere così vicina una perdita tanto increscevole ».

Godè egli infatti in Venezia una fama singolare, benché la sua satira acuta e sottile non risparmiasse avvenimento o personaggio alcuno della vita veneziana. E la meritava: uomo di grande col- tura e di fertilissimo ingegno, coltivò con pari facilità la lettera- tura nobile e la dialettale: tradusse in versi italiani V Amleto del Ducis, la Merope del Voltaire, il Tempio di Gnido di Montesquieu, la Cefisa del Secondat e la Pulcella d'Orleans. Scrisse anche un ori- ginalissimo romanzo satirico « La mia storia : ovvero Memorie del Sig. Tommasino. Opera narcotica del Doti. Pif-Puf », che, stam- pata dal Bassaglia, meritò uno dei più schietti trionfi del tempo; e due argute parodie teatrali: L'acqua alta o le nozze in casa del- Vavaro; e il Naufragio della vita nel Mediterraneo della morte. Ma per quanto degno scrittore italiano (il Cesarotti nel suo saggio sulla lingua italiana dice che il Gritti maneggia la lingua toscana con egual maestria e felicità che la veneta) la fama di poeta dialettale superò ogni altra per lui.

Portò alla poesia dialettale, infatti, il tributo della propria istin- tiva sagacità e quello spirito di osservazione benevolmente satirico, che è forse caratteristico dell'indole veneziana.

Ma il genere al quale si dedicò è proprio alla seconda metà del 700: l'apologo essendo in voga, appunto in un periodo al quale la miseria morale concedeva il triste e solo privilegio di una maschera, onde ben a ragione Vemon Lee nota che il riso del 700 nasce dalle lagrime, e che le sue maschere nascondono il dolore delle vane rea- zioni politiche.

Abbiamo già detto del grande sviluppo che nel secolo xvi prende in Italia la poesia burlesca, e come la poesia satirica ne derivi. Ve- diamo ora come e quando la satira vesta i panni della Favola e dell'Apologo, giacché questa sono le precipue forme d'arie usate dal Gritti.

Dice il Bertòla nel suo bel saggio sopra la Favola che l'Apo- logo é un vero prodotto di questo secolo (2) insieme all'Epigramma che gli è strettamente consanguineo, non come forma nuda (che in tal caso é genere assai vecchio in tutt^ le letterature) ma per il contenuto satirico che generalmente presenta.

L'Apologo, infatti, come la Favola e come la Parabola, vengono considerate forme della I^etteratura morale e didascalica. La più comune distinzione che suol farsi tra di essi è rispetto ai personaggi da che sono animati: la Favola ha personaggi esclusivamente ani- mali (tipo le favole di Esopo e di Fedro), l'Apologo ha come per- sonaggi esseri inanimati o animali (tipo le favole del Lafontaine, del Bertòla e del Pignotti) e la Parabola ha personaggi animati, e contenuto simbolico (tipo quelle della Bibbia : Il buon samaritano,

(1") È l'edizione pubblicata in Venezia (AIvìsojkjIì 1824).

(2) Se ne possono però rintracciare le origini nei fahìiaux medioevali, e nelle favole illustrative intercalate in componimenti maggiori, come nel Mor- gante del Pulci (IX, 20 e segg. ; XIII, 31 e segg.) e nelle satire dell'Ariosto.

68 LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

Il Figiiuol prodigo, Il Levita, ecc.). Differenze non sempre visibili perchè le favole di Esopo, per esempio, hanno spesso personaggi inanimati o umani, come nelle note fiabe del Boscajuolo e la Morte, di un Medico e d'un Infermo, di una Gatta e Venere, d'una Donna e di una Gallina, della Canna e dell'Ulivo, ecc. Onde la vera diffe- renza è visibile fra il genere, diremo così, misto, favola-apologo e il genere parabola, inquantochè nella favola e nell'apologo la mo- rale è detta, mentre la parabola, più chiusa, più misteriosa, non offre di visibile che la veste estema, lasciando alla sagacità umana il compito di dedurre il proprio significato morale.

Ritornando alla favola, noi vediamo che essa, passando dalla Grecia in Roma, comincia a perdere l'indole della spontaneità popo- lare, diventa elaborazione dotta di ingegni meditativi, i quali rac- colgono nel velo della finzione verità pericolose; fino a che dal La- fontaine non ha veste poetica ed intento satirico, e dai favolisti inglesi non è rinnovata nei propri soggetti; cosicché accanto ai tipi animaleschi dei vizi più noti, il Leone, il Lupo e la Volpe, essa pre- senta tipi nuovi, atti a satireggiare costumi più recenti e ad insegnar massime utili anche agli adulti.

Nel 700, al romanzo cavalleresco e filosofico che cresceva in Francia ed in Inghilterra, al romanzo umoristico dello Sterne e di Paolo Richter, gli italiani contrapponevano i loro poemi giocosi, sfogando la propria attitudine satirica nello studio, nella imitazione e nella traduzione dei più celebrati favolisti antichi e moderni, da Esopo e Fedro a Bidpai e Lackman, da Lamotte e Florian a Voltaire e Lafontaine, collocando così accanto alla tavoletta insegnativa, che il Muratori ben definiva «una ideata filosofìa di immagini», la fa- vola satirica che nello svolgimento qualche volta rasenta i confini della novella.

A cominciare dal Cantoni e dal Passeroni e dal Casti, fino al Pignotti ed al Clasio, la letteratura italiana del 700 è straordina- riamente ricea di favole e di apologhi (1).

Al Casti spetta il merito di aver per primo con la sua zooepia in 26 canti Gli animali parlanti applicato alle follie ed ai vizi umani i costumi e le qualità degli animali nei quali essi sono rappresen- tati (2). Ed ecco la satira dei regnanti, dei ministri, delle corti, ac- canto a quella di tutta la vita contemporanea politico-sociale-scien- tifìco-religiosa : gli antiquari, i poeti improvvisatori, le accademie, l'Arcadia, la Teologia, il Monachesimo, la superstizione, ecc.

Al Pignotti spetta invece il merito di aver diffuso la conoscenza dei favolisti stranieri e accresciuta la grazia della forma; e al Clasio, quello di aver ridonato alla favola lo scopo didattico; rimanendo al Bertòla il vanto di aver scritto la storia del genere in voga, con il saggio cui già accennammo.

(1) Per chi volesse più largamente studiare la favola nel 700 diamo un elenco dei principali favolisti e delle opere principali: G. B. Casti, (Uì animali parlanti (1713) ; Q. C. Passeroni (1803) ; G. B. Roberti (1719-1786). Favole eso- piane; Lorenzo Pignotti (1739-1812), Favole; Luigi Fiacchi detto il Clasio (1754-1825); Gherardo De Rossi (1754-1827), Apologhi; Gaetano Pèrrgo (1746- 1814).

(2) Si possonoi in ciò ricordare come suoi precursori il Brancaleone, Hi- storia piacevole et morale, del 600; e la Corte del He Leone di Lafontaine, oltre ai suddetti Roman du Eenard, ed Isegrins^ Not.

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA 69

Veniamo così agli Apologhi del Gritti i quali, se si riavvicinano a molti del tempo, sia per l'indole satirica che per la figurazione simbolica, offrono però spesso grandi elementi di originalità.

Spirito acceso di verità, buon patriotta, uomo retto, forse bo- nario certo mite, vissuto in tempi nei quali o non poteva esser detta 0 non veniva intesa il Gritti si convinse ben presto che la fantasia può vestire la verità in modo da farla più accetta. Questa è la ge- nesi dei suoi Apologhi, lumeggiata in quello della Verità e la favola che è innegabilmente il migliore, sia come pensiero che come forma. Nella umoristica figurazione delle due sorelle che si ritrovano, l'una magra, povera, ignuda, e da tutti discacciata, l'altra in vesti magni- fiche e da tutti desiderata, e che nascondendosi nel medesimo manto ottengono il plauso universale, è racchiusa infatti una ironia ama- bile e pur pungente : il vero è troppo nudo, bisogna ornarlo perchè il mondo lo accolga e lo riceva. Ma quale mondo? Il gentiluomo del 700 non esita :

E ti stesa dai richi e dai piitei soliti co (1) i te vede a scampar via, ti sarà ben acolta in grazia mia.

I ricchi ed i ragazzi, dunque, gli spensierati cioè ed i superfi- ciali; mentre i filosofi e i savi, che sogliono far cattivo viso alla fa- vola, l'accoglieranno da che la sorella le farà capolino di sotto la ricca veste, persuadendosi che la favola «no xe che '1 scorzo de la verità».

Da questo punto ci sarà facile seguire il Gritti nelle moralità delle sue fiabe. Noi osserveremo così che, quasi tutte queste mora- lità, se peccano apparentemente di leggerezza e sembrano secondare i difetti e le smanie ridicole del tempo, hanno una contromorale, una risposta negativa che le contraddice poco dopo.

\Java (2) che heca parafrasa un punto assai importante nel co- dice della galanteria settecentesca : l'adulazione facendo perdonare all'ape la puntura inflitta al roseo labbro della signora. Quell'ape è proprio del 700: ha letto forse l'odicina del Meli Dimme dimme apuzza nica; e secondo l'invito del poeta ha cercato di suggere il miele dalla bocca o dalla guancia della dama; poi sul punto di es- sere schiacciata dai servi vendicatori, ha gridato : Qual colpa è la mia?

Mi ò credeste

quei bei lavri, quela boca,

do rosete in t'un bochè....

e la dama ha fatto grazia. Onde il poeta : *"

Se la lode piase ai savi^ fìgureve a le done! IjC voleu cortesi e bone? Carezzete, adulation.

Ma nell'apologo del Cingal e 1 sior Marchese, ha pronta la satira inversa. Si meraviglia il marchese, ignorante e mecenate, che tutti

(1) Quando, appena.

(2) L'ape.

70 LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

gli artisti affamati circondano e adulano a proprio vantaggio, ve- dendo un giorno nel bosco un cinghiale, che arrota le zanne contro il suolo, circondato da una selva di uccelli, d'ogni razza e di ogni di- mensione, che schiamazza, svolazza, gorgheggia. Si meraviglia che il cinghiale faccia da giudice nel canto degli uccelli e attentamente ascolti le loro lodi. Ma risponde il vecchio fattore Matio, con malizia arguta e presta:

Oh za no, no è minga questo!

Sti osei, vedela ecelenza.

Va drio (1) al porco con pazienza,

perchè lu smove la tera

fa dai' suso qualche miera (2)

de granati, de vermeti

che per lori xe oonfeti.

Cantuzzando i lo compagna

finche dura la cucagna...

E poco dopo nella Lodala e la tortora, e nella Fenice esalta la modestia della signora per bene che, senza serventi e senza festini, fedele ad un solo, paga di quel che ha, non teme il trascorrere del tempo, e la rovina della sua bellezza, come la lodola che da vecchia conserva ancora :

l'occhio vivo, el penin (3) lesto, le so alete, qualche resto de quel certo no so che che xe bon fin che ghe n'è.

E si noti, questa della modestia è una delle moralità fondamen- tali del Gritti: il grande è modesto e nulla si ottiene da lui con la forza dice la favola di Kakalor e Kinka; chi troppo vuole nulla possiede, aggiunge la moralità del Tesoro e dei Castelli in aria.

Il pensiero del poeta si completa in una sana filosofia : conten- tati di poco, dice Mengon, se vuoi essere felice e saggio; faccia ognuno quello che è del proprio stato se non vuol essere ridicolo o molesto, sembra voler dire il povero asino che (/ progeti de Vaseno), per imi- tare il cane, fa le feste al padrone, ponendogli le zampe al collo, e ne riceve bastonate a più non posso. E a questa sana filosofia deve Barba Simon la prodigiosa gagliardia e la tenace vitalità; mentre fine miserabile è riservata agli ambiziosi, sia al mossalo (4) che in- fastidisce il leone (anche i grandi sono in qualche punto vulnerabili) e dopo, non pago della vittoria, mentre ne mena vanto, finisce nella tela del ragno; sia al ruscello orgoglioso il quale, disdegnando la placida via tra i campi (onde il fratello suo, nato con lui dalla stessa sorgente, fecondando le erbe e ristorando i prati, giunge al mare limpido e dolce) per i ricchi giardini di Pechino, sale nei tubi idrau- lici e viene mutato di corso; costretto sotto terra esce nelle grotte; torna su in zampilli e in giuochi d'acqua, a diletto della Corte an- nojata, e finisce nelle cucine imperiali a lavare le stoviglie,

(1) Dietro.

(2) Migliaia.

(3) Piedino.

(4) Zanzara.

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA 71

Deriva da questo tenace concetto di modestia quello della ope- rosità feconda, illustrato nella favola deìVAva e 7 pavegio, dove al bombo ozioso moralizza l'ape feconda:

questa e quela {Vape e V ostrica) serve stente

al so nobile destin^

e chi è nato a no far gnente

nasa fiori per morbin (1).

Ste delizie podè averle

vu, che ozioso ve fa '1 ciel,

ma da l' ostrega el voi perle

e da mi la oera e '1 miei.

e quello ancor più nobile dello sforzo personale, parafrasato (nel Timo e FEdera) dal timo umile e a fior di terra che all'edera ambi- ziosa della altezza raggiunta sul tronco del rovere e beffarda, ri- sponde :

Mi no ga alfin bisogno

de tor (2) in prestio crozzole (3),

so star in pjè cussi;

za quando nasce l'edera

dai roveri lontana,

in cao (4) la setimana

ghe disc timo e ditamo:

schiao, pepola, bondì (5).

E come ultima osservazione, a proposito della modestia, che ci par la virtù principale del Gritti, tanto più ammirevole perchè inso- lit<i agli uomini della sua casta, diremo che il Gritti, nei suoi Apo- loghi, si compiace di raffigurare la vera filosofia della vita in uo- mini modesti e laboriosi, e che le morali più sferzanti delle sue sa- tire sono espresse dalla bocca di un contadino o di un popolano : uo- mini modesti, abbiam detto, possiamo aggiungere e accoTÌì, perchè nel concetto del Gritti povertà e accortezza sono sorelle. Ricordiamo due definizioni morali, diverse nel concetto, identiche nella forma, di che si è compiaciuto il poeta; ricordiamo cioè il povero Biasioto e il ricco Merliton :

Biasoto Garzignol

paesan povero e aoorto

(do piante mo che sol ,

nascer vicine in orto)

El marchese Merliton rico, vano, e macaron (qualità gentili e belo che sol viver da sorele).

Or dunque la saggezza del Gritti è sempre dei modesti: è di Matio, il fattore accorto; di Biasoto povero e mordace che al con-

(1) Divertimento, spasso.

(2) Prendere.

(3) Gruccie.

(4) Capo.

(5) Saluto confidenziale che si fa alle bambine.

72 LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

siglio di fare economia risponde staffilando la generosità dei signori verso i poveri, con le parole :

qua a le curte no magna che quei che no ga fame;

di Barba Simon, che riassumendo tutta la filosofia e la regola di vita del Gritti stesso, dice alla Morte, meravigliata di vederlo vec- chio tanto e ancora forte :

Bisogna che sapiè, comare cara,

che fina da quel che la rason

m'à desiata (1) el giudizio,

ne a vu, ne al zorno che volessi farme

l'onor de visitarrae,

co vostra bona grazia, n'ò volesto (2)

mai pensarghe un mumento.

Timor de l'avegnir? mi no lo sento,

ò studia sempre da putelo in su (,3)

de tor el mal e '1 ben

tal e'qual com'el vien.

Goder, sofrir, senza trasporti e smanie,

e per una secreta antipatia

col pentimento, che xe '1 re dei guai,

mi no so d'aver mai

proprio abusa de gnente in vita mia.

di Mengon infine, il saggio e povero filosofo di campagna, fratello vero di Simon, che, visitato da un'abate dotto ed elegante, riassume il valore della propria saggezza nella semplicità della propria vita e delle proprie parole :

Vu parole in carezza su le cinge, (4) mi strupie, senza scarpe, in nuda pelo. Mi n'ò studia ch'el cuor e la natura: m'à insegna quelo la filosofia, e questo m'à impresta la libreria ;

e che, prendendo esempi dagli animali, fu fedele come il colombo, provvido come la formica, come l'agnello innocuo, e vigile come il cane :

Posso? fazzo del ben, ma de la spesa paga il prò la coscienza in tanto gusto: co l'amor proprio se l'à sempre intesa la carità d'un cuor tenero e giusto.

Non è difficile riconoscere in Barba Simon, come in Mengon, paghi del poco e felici, il Gritti, onesto e sereno quale ce lo dipinse il Meneghelli, sino alla fine dei suoi giorni.

Ritorniamo indietro di un passo, dove dicevamo che ad una conclusione oscillante o superficiale il Gritti contrappone una con-

(1) Slattato.

(2) Voluto.

(3) Da bambino in poi.

(4) Cinghie, molle.

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA 73

clusione opposta, di modo che il giudizio morale si forma piuttosto per deduzione e per confronto delle due conclusioni diverse.

Ed ecco la morale del denaro, gran livellatore, grande masche- ratore, farmaco universale adombrata in quella elegante favoletta del Cingano (lo zingaro) il quale vende con pomposo eloquio di ciar- latano la miracolosa polvere che abbellisce, ringiovanisce, fa ricchi, nobili, virtuosi e prodi; e non ^ che polvere d'oro. Ma poco dopo Er- cole in cielo sdegna di salutare Pluto, il dio dell'oro, ed a Giove che gliene chiede ragione risponde:

... co vedo quel sior

xe proprio vero, se me ingrinta (1) el cuor,

me da su el malumor:

l'ò visto in tera, in tanti incontri e tanti,

protetor squasi sempre dei birbanti.

Questa virtù dell'oro non aveva vantata lo zingaro; la sua po- tenza, aveva egli fatto conoscere, capace di trascinare al male. Ma ben lo fa il Gritti, nell'apologhetto del Tesoro dove i tre amici ci- nesi, trovato un forziere pieno di gemme, si dividono prima il bot- tino^ e dopo meditano il reciproco assassinio. L'uno, mandato a cercar viveri, ritorna con un vino avvelenato; i due rimasti, che hanno in- tanto fatto proposito di liberarsi dell'assente, lo assaltano e lo ucci- dono, poi bevono il vino avvelenato e muoiono anch'essi.

E '1 tesoro a chi restelo? a nissun.

Conclusione tragica di quella che era stata smania invidiosa nei due Leoni assetati e contendentisi l'acqua, da morir poi di sete entrambi; e scherzo beffardo in quei due amici calvi e vecchiotti delle Do zuche pelae, i quali baruffano e si bastonano per un oggetto che brilla in un prato; ed è un pettine, inutile ad entrambi.

L'Invidia, dunque, ecco un altro difetto irriso dal Gritti con di- verso umore, dalla beffa al sarcasmo, da questi due apologhi già ci- tati dei Do Lioni e delle Do zuche pelae a quello del Grilo e la Far- /aZ« ed all'ampia ed esopiana favola di Tiiiro e il russignol, del Paon, le anare e 1 merlo che ha valore subbiettivo, e par voglia, per bocca del Gritti, dire che gli invidiosi sono i critici più spietati e che cri- ticano appunto ciò che loro manca. Non si curi di essi il poeta, e canti!

E con l'invidia la curiosità malsana, la presunzione dei cattivi poeti, la misantropia, la ingratitudine umana, l'egoismo, l'imper fetto sapere, la superficialità dell'osservazione negli uomini piccoli e presuntuosi: tutto ciò in veste animalesca, adombrata nelle mise- revoli e burlevoli storie dell'asino, del barbagianni, delle anitra e d(] pavone, del cane e del gatto, o nelle avventure dei tre gatti, del maestro, dei contadini e della nuvola. meglio sono trattato le donne. Però, mentre il Barbaro ed il Labia le avevano sferzate con una violenza quasi arcigna, che ci può sembrare qualche volta frutto di una disillusione, il Gritti le burla appena e leggiadramente; fa loro desiderare l'impossibile in Osman e Momola; punge la loro infedeltà nella Lodola e la Tortora; nell'Asmo verde la loro tenace virtù amatoria; la cecità materna nel Putelo e la Luna; nella Fenice

(1) Mi si mette di malumore, in cipiglio

74 LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

allude forse a qualche dama galante assai nota in quei tempi; ma poco dopo mettendo in elegante burletta Venere medesima sembra volerle consolare delle piccole irrisioni castigatrici.

Uomini, donne, dee, eroi, personaggi fantastici e reali, mitolo- gici e da commedia, animali e cose, tutto nell'opera del Gritti con- corre insomma ad una rappresentazione ottimistica della vita umana.

Altro è dire, altro è fare; contentati del poco e sarai felice; non tutti i desideri si possono accontentare, e nessuno può giudicare al di del proprio sapere. Queste moralità di alcune favole lumeggiano completamente la filosofìa ottimistica e quasi fatalistica del Gritti. Una sola volta egli ha un cenno pessimista, che può sembrar cinico; ma è pessimismo che sorride e che non stupisce. Nel Monumento, una dama inglese perde in pochi giorni tre figliuole : un gentiluomo liei suo paese la consola con l'esempio storico dei grandi dolori. EUa ascolta :

Milord, compiango i mali altrui, ma poi... E la torna a pensar ai casi soi.

Insomma, per quanto si affatichi, egli predica al deserto. Pochi giorni dopo il suo unico figliuolo affoga nel Rodano. Milord dimen- tica la filosofìa e Miledy, per consolarlo

la ga presenta (de cortesia

no volendo mo (1) starghe un passo indrio)

la serie esata per cronologia

dei re che à perso un l'unico fio.

Però dopo qualche tempo si ritrovano a Londra entrambi e

vedendose alegri e in bona ciera, i s'à streto una man, e i s'a un baso; e dopo dialoga qualche mumento, i à deciso de alzar quel monumento! '1 mostrare: superbo! co la sola breve iscrizion: Al tempo che consola.

Pessimismo non privo di antecedenti, avendo a compagna la morale egoistica dei Tre Gobi e del Cane e il Gato.

Tutto ciò vive negli Apologhi del Gritti ampi, umani ed univer- sali, specchio fedele della vita del poeta, il quale, ripetiamo, è come il Gozzi ed anche il Goldoni, portato alla minuta osservazione della realtà, ed alla riproduzione esatta dei tipi varii attorno a lui mo- venti. Ora della vita del Gritti noi sappiamo che, veramente, egli poco si occupò di politica e la satira politica pura, ha infatti poca parte nei suoi apologhi, sia in quelli (pochi in verità) rivestiti di una special tinta esotica, sia negli altri in cui per incidenza qualche allusione politica si palesa.

Diffìcile quindi dedurne quale, in fatto^ di politica, sia il pen- siero del Gritti.

Adombra gli effetti del cattivo governo, satireggiando qualche savio veneziano (il Tron forse) nel Sofi e Vlman; e con bell'estro sa- tirico ci raffigura questo saggio Usbeck, che si perde nella contem-

(l) Adesso.

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA 75

plazione del cielo, mentre ai suoi piedi geme un vecchio iman ca- duto in miseria: filosofeggia Usbeck sulle riforme da portarsi nel governo della luna, ove intende di essere sopratutto padre più che re, finché

...l'iman perdendo la pazienza,

branca (1) l'augusta clamide al soli,

e tirando co cinica licenza,

ghe dise, tal e quai, proprio cussi:

K No, su la luna, Usbeck, ma vigilante

Dio qua te voi dove vivemo insieme.

Pare (2) e re su la luna? E a le to piante

gh'è in tera un omo, un sudito che zema^ » (3) ;

E l'effetto disastroso dei cattivi ministri parafrasa nel Re de Cope che trae esempio dai pastori, sicuri dai lupi per l'accorta vigilanza dei cani. Altri accenni politici non mancano in Kakolor e Kinka, nel Visir e VAnelo, nel Bassa, el papagà e Mimi, in Osman e Mo- mola; ma il motivo più caratteristico della politica del Gritti è il misogallicismo.

Fermiamoci un momento: e ricordiamo il Labia, severo e cruc- ciato contro l'invasore francese, ed il Barbaro, arguto e 'mordace, che nei loro versi bollarono l'infranciosamento veneziano. Certi at- teggiamenti misogallici del Labia e del Barbaro passano nel versi del Gritti; ma questi non si indigna, si inquieta: calmo, bonario, sorridente, getta or qua or il suo sarcasmo sottile : ora è il pavegio bel espfi che oziosamente annusa i fiori, insetto inutile e vanaglo- rioso; ora è la tortora de Franzd che, leggiera per natura e infedele per consuetudine, si trae dietro tutti gli augelli :

Graaiadio tortore e done xe stae sempre fedelone qua de l'Alpi; ma de là? Ehi le ga la fedeltà... Co le nasce in quei paesi, sempre afabili e corte&i le basi, e rendè-vu fina al cuco e al pelachiii.

e ritorna, irriconoscibile dopo qualche anno, nell'antico nido, in- vecchiata, ammalata, e sola; ora è la fama petegola per genio e mestier che divulga fra gli uccelli la venuta della fenice:

Cigando (4) in francese la score '1 paese <( Oasò mes ami, la ren et issi » (5). La lengua i la sa; s'a tuti afolà.

(1) Afferra.

(2) Padre.

(3) Geme.

(4) Gridando.

(5) Il Gritti scrive per burla il francese cosi come si parla.

76 LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

Ora è la Dea della vendetta che, nel club della Discordia, tiene circolo con le sue sorelle Superbia ed Ignoranza e le tre furie giusto anvae de Pranza: Rapacità, Impostura e Prepotenza:

Dubiose ancora, incerte nel far la scielta de le quaedam alia, da zontar (1) a le strage za zoferte per distrugerte alfin, misera Italia!

La paroletta francese, scritta per vezzo così come si pronuncia, il vocabolo di moda, la mellifluità, la leggerezza dell'eloquio inter- rompono qua e lo schietto apologo veneziano : e nessuna satira riesce più efficace di questa, non palese e non violenta, ma ineso- rabile, che fin nell'epilogo, fatto seguire alla raccolta delle favole propone al poeta deciso a mutar vita :

Perchè no libero viver in Franza? tut'è bien: ahi l'eguaglianza per virtìi magica de tut rien!

È questa la nota più violenta della satira storica del Gritti : sa- tira, ripetiamo, moderata e bonaria di un uomo mite e alieno dalla politica, più per indole che per disgusto di esperienza.

Ricordiamo, prima di concludere, che a questo gruppo di Fa- vole 0 Apologhi esotici con contenuto di satira politica, appartiene El Brigliadoro , favola di mole assai più vasta, che ha le propor- zioni di una lunga novella e che in veste cinese nasconde una satira assai locale.

I due interlocutori principali infatti, il padre Paratasse gesuita, astronomo privato e mandarino della Cina, e il plenipotenziario del Giappone sono rispettivamente toscano l'uno e veneziano l'altro. Assistendo ai magnifici funerali che l'Imperatore fa tributare al suo cavallo prediletto, ed al supplizio inflitto al disgraziato staffiere che non ne ebbe cura solerte, essi parlano delle loro varie fortune.

L'apologo, o meglio la novella, è piena di allusioni satiriche : vi sono messi in burla i letterati; con la storia di Marco Polo si sati- reggiano gli avventurieri; gli ambasciatori abili solo nel giuoco dei bussolotti; i re crudeli e i consiglieri stolti. Vi debbono essere una infinità di allusioni a persone e fatti del tempo. Ma non se ne trova traccia nei commenti ed a noi sfuggono.

La favola quindi non ha una morale sola e definita, se non si voglia considerar per tale la generosità del monarca, che il vecchio sacerdote sa ridestare, rimproverando il condannato staffiere di aver, con la sua colpa, trascinato il Re ad insozzarsi di sangue, emanando editti di crudeltà. Ma in complesso i veri caratteri artistici del Gritti, poeta dialettale (che per quanto riguarda l'opera sua com- pleta, molto ancora si potrebbe dire che il Meneghelli, il Gamba, il Meschini e gli altri non hanno detto) sono racchiusi negli apologhi di carattere sociale più che politico, e umanitario più che cittadino.

(1) Aggiungere.

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA 77

Quanto a forma il Gritti predilige i versi brevi rimati: quinari, senari, ottonari, mescolati in quartine, fra le quali gli riesce vaghis- sima quella di quinari piani e sdruccioli, e quella di ottonari tronchi e sdruccioli (i), alternati. Adopera anche il metro misto di sette- nari ed endecasillabi, con le rime a capriccio, quasi una canzone a selva agile e fluidissima, e il metro ditirambico; non disdegnando la sestina di ottonari piani e tronchi, l'ottava eroicomica.

È poet-a, insomma, vario, facile, elegante e piacevole per il quale l'armonioso dialetto non ha segreti.

Come il Lamberti, ama interrompere i suoi apologhi con descri- zioni minute ma graziQse, piccoli pastelli di buon gusto, in cui si rivela un amatore profondo della natura; con questa differenza che, mentre il Lamberti, poetando in dialetto, cadeva nei medesimi ec- cessi di vaporosità di cui si fa tanto rimprovero agli arcadi, il Gritti avviva la descrizione con quel non so che di scapigliato e di ardito che solo il dialetto può permettersi, passando sopra alle inverosimi- glianze, alle antitesi, ai contrasti violenti di forma e di contenuto.

Ed ecco l'usignolo che :

a la minacia de la prigionia sbalza a cavai d'un zefireto e via

Ecco la notte che:

spalanca La so nuvola sbrufa (2) qua e el calisene (3), e fa in bota (4) i crepuscoli stranuando scampar (5).

Bella per semplicità e vivezza questa descrizione del pasto di un povero (due fette di polenta, un'arenga e un bichier d'acqua tenta) :

De sto pasto real tra do fioi (6) afamai, gnente andava de mal. Fregole (7) in tera? mai!

Freschissimi questi quadretti notturni:

un furianelo (8) scapolo scovola i pini e i roveri, la cazza a le notole, romjje i sogni a le lodole e fa le catorigoie (9)

(1) Il Gritti ha tale predilezione per le parole sdrucciole che qualche volta fa sdrucciole le parole piane, per esempio opale.

(2) Spruzza.

(3) La caligine, la nebbia.

(4) In un colpo.

(5) Starnutando scappare.

(6) Figli.

(7) Briciole.

(8) Venticello notturno.

(9) Il solletico.

78 LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

tra i carpani al fasan (1).

Qua un zefireto placido

pisola sul garofolo,

basa la viola e '1 bocolo (2)

sbrissa (3) fra '1 timo e '1 ditamo,

de fragranza aromatica

semena '1 cole e '1 pian.

Ed ecco nella descrizione di un'alba dell'Olimpo (gran folla ac- corre per sapere la sentenza di una grave causa discussa) questo ac- cenno fantastico:

Finalmente su l'alba

sona la campanela. Tra la fola

dei curiosi a le porte

che aspeta la sentenza della corte

s'a visto incognito qualche pianeta, (!)

do' aurore boreali e una cometa

E nell'ampio quadro di una primavera campestre questo breve schizzo tolto dal vero:

L'aseno a zampe a l'aria russa (4) la schena in tera par che '1 dichiari guera a scalzi e pugni al ciel.

Quanta maggior vivezza e semplicità che nel Lamberti! Qui l'im- pressione è riprodotta così come nacque; non è contorta, aggentilita, immiserita forse, per omaggio alla vaporosità ideale arcadica. Anche quando le descrizioni del Gritti sono troppo lunge, e fuori posto ri- spetto alla finalità dell'apologo, il poeta le anima, però, di una vi- vezza tutta sua, che ce le rende care. Tuffai più ci fa pensare che molte di queste favole siano state scritte appositamente per rinchiu- dervi alcuna di queste delicatissime impressioni; ma non sappiamo dolercene.

Altro merito del Gritti poeta è la misura: rari in lui i versi li- cenziosi o scorretti: quando la nota erotica fa capolino, non si veste della sentimentale e uggiosa sottigliezza platonica; ma è la sana e biricchina vivacità amatoria delle canzoni popolari; lo spirito ar- guto sempre ma spontaneo e facile; le cose più comuni vengono dal Gritti osservate con l'occhio di chi è avvezzo a veder ovunque il ri- dicolo ed il comico. Vera attitudine del poeta umoristico! Nascono da essa certi speciali atteggiamenti dei personaggi in azione: i pelle- grini cinesi che si riparano sotto un albero per salvar le zuche da Vardor del sol : il soli Uskek-alì che trascura gli affari del suo regno per l'astronomia :

basta dir ch'el piantava la consulta per spulesar (5) le barbole e la luna;

(1) Il cane di guardia.

(2) Bccciuolo.

(3) Scivola.

(4) Stropiccia.

(5) Spulciare

LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA 79

il Gritti stesso- che (ricco non fu mai, si sa) passeggia solo soletto, pensando alla morosa per un ale del mio castelo in aria; il maestro e l'alunno a passeggio, e l'uno legge il breviario e l'altro fischia e saltella :

Scorabiando (1), saltellando

spesso Zise: en diga (el dise)

Ghente, chele, tossa xele,

sion maento? - L'è un tormentol

Se no sa!

Zuche tonde (el ghe risponde)

tasè là.

Derivano pure da questo speciale atteggiamento del poeta certe definizioni intraducibili ed indiscutibili : quella che della morte Barba Simon:

O inteso ben, oapjsso: qua se trata de far un pisoloto co la eoa (2) a bi'azza colo (3) de l'eternità;

come l'altra sui fastidì della vecchiaja:

co le done xe vechie le à finio

fino d'esser più prossimo,

e grazie grande se i ghe dise: adio!

ne derivano certe locuzioni che, nell'improvvisa comicità, hanno ca- rattere di vivezza propria: la morte che ha fretta perchè

disisete medici l'aspeta a l'arcova d'un re;

e che picchiando alla porta di un vecchio tenace a morire:

la branca co dispeto el bataor (4), e la una batua da creditor;

o la proposizione alle donne incontentabili che, come Momola, s'm capricciano fin delle stelle :

Ma per altro pò, sorele, cussi a dirvela tra nu, o el manego a le stele, o lassele star la su ;

e ne derivano finalmente certe pitture vive di caratteri, certi ritratti completi in pochi versi, come quello del Conte Sardapol infrance- sato che va per svago

a spassizar per un ale a cordon - d'albori driti, come le comparse de l'opera co i tira su '1 tendon;

(1) Scorrazzando.

(2) Coda.

(3) Con le braccia al coUo.

(4) Battente.

80 LA POESIA DIALETTALE VENEZIANA

(; quello" della mammina compiacente che a furia di vizi guasta il figliuolo :

Fisselo in leto? povareto, el sua (1); lloinpelo la spechiera? vita mia, varda, per carità, no te far bua. Diselo un'insolenza, una busia? La ghe un baso e un graspeto d'uà. Dalo un pugno sul muso al si or maestro? Che bufoncelo, che maton, che estro!

Due parole di conclusione.

Dalle morali delle sue favole abbiamo derivato il concetto della moralità del Gritti; dall'esame formale dei suoi apologhi il valore della sua arte. Non cinico, come il Baffo, non severo, come il Labia, iroso come il Barbaro, il Gritti non ha nemmeno la bonarietà go- dareccia del Pasto, la pacata filosofìa umoristica del Pozzobon e la superficialità elegante del Lamberti. Egli è vero poeta, ed è cittadino onesto: vive quasi in disparte, osserva, nota, corregge. Ci sembra di scorgere in lui un barlume di fede nella propria opera di ram- pogna, elegante e pur efficace; fede che, negli altri poeti del suo tempo, manca.

Vernon Lee ha definito l'opera sua « rassegna umoristica di ca- ratteri provinciali»; ma questa definizione è ristretta: Francesco Gritti ha saputo andar oltre il carattere provinciale, verso la vita, verso l'umanità. La sua satira, a differenza di quella dei contempo- ranei, è spesso universale : segno ch'egli è spirito maturo alla vera filosofia derivante dalla osservazione; capace cioè di risalire dal caso particolare al generale, dall'inizio alla causa, dal piccolo al grande ed al tutto.

Guardate Gasparo Gozzi. Egli, come il Goldoni, osserva intorno a sé, nota, ritrae, punge, corregge, rampogna uomini e cose del suo tempo; ma dal suo tempo, per forza insita, esce egli verso altri tempi; da Venezia egli si spinge ovunque, nel mondo; il difetto che lo colpisce è umano, non ha patria tempo; e la satira morale che ne deriva è viva adesso come allora: alcuni quadretti, alcuni tipi, alcune caricature deìVOsserva^tore, dei Dialoghi e dei Ritratti sem- brano scritti oggi; ci vien facile, volgendo attorno lo sguardo, rico- noscerne ancora gli originali.

Così il Gritti negli Apologhi, piacevole e leggiadra manifesta- zione del suo ingegno satirico, che non manca di franchezza e di audacia. Apologhi che nelle velate morali racchiudono spesso un insegnamento di vita profondo.

Lucia Pagano Briganti.

(1) Suda.

LA SETTA FERDINANDEA

Ero bambino d'anni men che le dita di una mano, pure me ne ricordo benissimo: e questo fenomeno di persistente mnemòsi si spiega con la grande impressione che il fatto di quella notte pro- dusse non solo nella mia mente piccina, ma ancora e assai più, nella mia famiglia e negli altri inquilini del casamento i quali per mesi e mesi e direi quasi per anni ricordarono e commentarono l'av- venimento. Fu a Bologna, una notte di luglio del 1842... in una casa di modesta ma civile apparenza sita nella via allora di Santo Ste- fano, ora Massimo D'Azeglio, e proprio rimpetto a una strada che allora e forse anche adesso si chiamava Remorsella. Denomi- nazione, questa, quasi fatidica. Ripeto, i particolari curiosi e tragici di quella notte non furono tutti avvertiti e ritenuti dalla mia me- moria troppo infantile; ma, come ho detto, la loro storia si formò con la testimonianza di coloro che presenziarono quegli stessi avve- nimenti.

Cominciamo dalla casa il cui ingresso si apriva, naturalmente come in quasi tutte le case della città delle due Torri, sotto un portico : a destra di chi va verso la Porta Massimo D'Azeglio, precisamente tra la chiesa parrocchiale della Santissima Trinità e il gran palazzo della nobile famiglia Agucchi. Un lungo corridoio conduceva a un cortiletto quadrato e, da questo, sempre in via retta, a un giardino abbastanza spazioso e ricco di frondose piante. In un grazioso ap- partamentino a pian terreno e colle finestre sul giardinetto, dimo- rava la signora Claudia Borzaghi-Vesi, una intellettuale (a quei tempi si chiamavano letterate) e innamorata... (a quei tempi e pur adesso, guasta) della patria, che allora non si conosceva che sotto il nome di Giovane Italia, e sotto l'egida del grande esule Giuseppe Mazzini. E bisogna pur dire qualcosa dell'ambiente politico nel quale seguì l'incidente che siamo per narrare. S'era nell'ultimo pe- riodo del pontificato di Papa Cappellari, Gregorio XVI. Grande era il malcontento per il suo governo nelle Romagne, se bene addolcito dai Cardinali Mastai, Amat e Gizzi, vescovi rispettivamente d'Imola, Forlì, Ravenna, e che ebbero il coraggio di opporsi, per quanto po- tevano, alla formazione delle cruenti Commissioni militari del tempo.

Un giovane medico bolognese, il dottor Pasquale Muratori, già divisava e preparava l'eroica ma sfortunata rivolta, i cui prodi insan- guineranno le zolle dei contrafforti dell'Appennino toscano, e pren- deranno la via dell'esiglio : mentre a Gregorio XVI che visita le Ro- magne, Luigi Carlo Farini poteva impunemente, ma senza frutto richiedere le riforme che la voce pubblica reclamava. Tale e tanta

6 Voi. CLXVII. Serie V. Settembre 1913.

82 LA SETTA FERDINANDÈA

nelle Romagne l'avversione al governo pontifìcio, che a Bologna si soleva dire: Meglio i tedeschi!

E così si cominciò a sussurrare di una Società politica chiamata Ferdinandèa dal nome di Ferdinando I, che fu imperatore in Au- stria dal 1835 al 1848. Goll'intento di estendere il dominio dell'Au- stria in Italia, questa setta mirava a far considerar pessimo il go- verno dei preti in confronto con quello austriaco nel Lombardo-Ve- neto. Sembra la portasse nelle Romagne un ferrarese, il barone Ba- ratelli, già commissario pontifìcio e traditore, del Governo che lo pagava. In Bologna si parlava di un agente speciale della Ferdinan- dèa... e si sussurrava il nome di un poeta: Achille Castagnoli. Vera- mente lo storico Gomandini lo chiama poetastro; ma in questo quali- fìcativo c'è troppo di giusto disprezzo per chi voleva dare un lembo di patria allo straniero.

Il vero è che il lughese Achille Castagnoli godeva di una certa e meritata notorietà letteraria in Bologna, specie per tre drammi li- rici da lui dati alle stampe, e cioè : Gli eroi di Suli, Francesca d' Ari- mino, Giorgione di Castelfranco.

Capolavori, nessun dei tre; ma il primo ha ora un certo sapore di attualità per noi che guerreggiammo co' turchi. Un coro di Su- liotti, al prim'atto, canta così :

Giuriara, giuriam che i lupi Cogli agni a pasco andranno, Che cogli augei ìe rupi Per l'aere voleranno Pria che dai brandi nostri S'abbian riposo i mostri Che dell' Uom-dio perseguono La sacrosanta tè.

E nel secondo, quel d' Arimino mentre Silvio Pellico e persin Gabriele D'Annunzio han chiamato semplicemente Rimini la città di Francesca, ha qualcosa non so più se di passatista o di futurista. Un discreto letterato era certo, se la signora Claudia Borzaghi-Vesi così lo stimava, e aveva dato ospitalità al poeta e alla moglie di lui nel pianterreno a giardino che abbiamo descritto. Sicuramente poi il Castagnoli era un fervido credente. Oltre il coro dei greci citato più sopra, ne fanno fede nel Giorgione questi versi di macabro addio che il popolo di Venezia canta alla salma di un gondoliere:

Riposa in pace, Antonio, Dell'Uno e Trino in nome!

Prega per noi siccome Sino al sospiro estremo Noi pregherem per te. Addio! ci rivedremo Ove dolor non è!

Credente sì, e fervido: e pure abborriva il Papa, almeno al- meno come Papa-re. Il fenomeno di tale duplicità allora era quasi novo in Italia. Quanto al fìsico. Achille Castagnoli era un bell'uomo, dai trenta ai quaranta, coi capelli corvini a boccolo spioventi sulle

LA SETTA FERDINANDÈA 83

spalle, mustacchi e pizzo : alta e irruente la voce, impetuosa la frase appena per moderata dalla educazione.

Quel pianterreno e quel giardino, a sentir gli inquilini del ca- samento, era pieno di misteri. La padrona, la signora Claudia Bor- zaghi-Vesi, si era riserbata una stanza appartata sul cortiletto già menzionato, e in essa leggeva e scriveva il più della giornata.. Il resto dell'appai-tamentino era tutto per i due coniugi Castagnoli. E della signora Castagnoli bisogna dire ch'era giovane e bellissima: statuaria nella persona come una romana, avea la fierezza di una romagnola, la gentilezza di una fiorentina, la serietà di una piemon- tese, l'eleganza di una milanese, la vivezza di una napoletana, e non era nata a Roma, in Romagna, a Milano, a Firenze, a Torino, a Napoli, a Palermo. Dove? in Italia certo ma dove? pare se ne facesse un mistero, e per una buona ragione, come vedremo.

I due coniugi s'idolatravano, o almeno pareva. Dirò pareva, poiché bazzicava in casa loro, e spesso di sera e magari di notte, un bello e giovine ufficiale austriaco: e per di piìi, conte; poiché allora in Austria presso che tutta la uflBcialità era blasonata: e sic- come a quel tempo non era proprio in Bologna guarnigione stra- niera, l'uffìcialetto vi capitava di tanto in tanto dal piìi vicino con- fine del Lombardo- Veneto, ed era aiutante del generale Nugent.

Al chiaror della luna e sotto le fronde del giardinetto si vedeva dunque, di tanto in tanto, l'ufficialetto dare il braccio alla signora Castagnoli : ma, per verità, il marito c^era sempre anch'esso, e in grande intimità collo straniero. Anzi, il più delle volte, la signora rientrava nel salotto quasi buio, a scorrere colle dita la tastiera del piano, mentre Achille Castagnoli e il contino teutonico si accovac- ciavano in un sedile di verdura in colloquio intimo ed animato.

II giorno della sera memoranda di cui facciamo parola, era corsa per Bologna una voce strana. Si parlava nientemeno di un moto rivoluzionario a cui avrebbe dato la spinta la recente visita che Papa Gregorio aveva fatto alle Romagne senza dar le riforme che i libe- rali moderati, tra' quali Luigi Carlo Farini, se n'erano impromessi. Ma il curioso era questo, cioè le voci incerte e contraddittorie sugli ispiratori e organizzatori della vociferata sommossa. Non certo i libe- rali moderati che aspiravano a riforme, senza rovesciare il governo papale; non la Giovane Italia a cui apparteneva il Castagnoli, non essendosi ancora fatto vivo il Muratori.

Chi avrebbe dunque disarmata la guarnigione indigena, chi as- salito il Palazzo del Cardinal Legato in Piazza San Petronio, e but- tato giù dal balcone lo stemma pontifìcio? Il popolo era tranquillo, la borghesia anche più tranquilla e apatica... Dunque? Mistero! E della rivoluzioncella si dava l'ora, quella appunto che suol dirsi del mistero : la mezzanotte! E si diceva una cosa anche più strana : ven- timila austriaci marciavano da Ravenna su Bologna sotto colore di ristabilire l'ordine pubblico eventualmente turbato.

E di quella notte erano le dieci e mezzo di sera. La solita luna, per nulla preoccupata di prossimi e gravi avvenimenti, rischiarava le fronde degli alberi nel giardino; e queste stavano immobili quasi a godersi il fresco succeduto all'afa di una giornata di luglio.

Un via vai silenzioso, guardingo: messaggeri sconosciuti, gui- dati da un certo Volpi amico del Castagnoli, non più di due per volta.

84 LA SETTA FERDINANDÈA

accorrevano a sussurrare qualcosa all'orecchio del poeta cospiratore : e costui a dar loro istruzioni pure all'orecchio. Si sapeva che il Ca- stagnoli era affigliato alla Giovane Italia, ma quei messaggi non erano mazziniani. La signora Borzaghi-Vesi, insospettita di qual- cosa di strano, avea spento il lume della sua camera, e vegliava at- tenta. La signora Castagnoli, invece, pallida, convulsa, non si stava dall'interrogare il marito, più ancora che con la parola, con lo sguardo fulmineo. E di quelle interrogazioni e di quello sguardo terribile sapremo or ora la ragione.

Una persona, assai attesa dal Castagnoli, non era venuta an- cora: l'ufficiale austriaco. In sua vece, pure condotti dal Volpi, due mazziniani della più bell'acqua: il dottor Muratori e si disse al- lora, ma sarà stato poi vero? un artista drammatico... nientemeno che Gustavo Modena.

Anch'essi interrogavano severamente il Castagnoli; e alla ri- sposta affermativa di lui, mandarono un grido di indignazione; le loro destre si alzarono quasi a colpire, certo a maledire il poeta, e sparirono gridando : Viva la Giovine Italia!...

Intanto, l'atteso ufficiale venne : e la penombra lunare rischiarò la montura bianca del conte. Ansiosamente lieto, veniva egli a dare e a ricevere importanti comunicazioni. Tutto esser pronto, pareva dire : e tutto esser pronto, rispondere il Castagnoli. La moglie di questi cercò arrestare le intese misteriose d'entrambi, ma invano : il Castagnoli prese il cappello, e a braccio del tenente, si avviò pel corridoio all'uscita sulla pubblica via. Il portone di strada ch'era semichiuso, si spalancò; e, a fronteggiare i due uscenti, irruppero dal portico nel corridoio una dozzina di gendarmi pontifici capita- nati da un commissario di polizia in borghese.

Achille Castagnoli? tuonò la voce del commissario.

Son'io.

In nome di S. S. Gregorio XVI, Ella è in arresto.

Per qual titolo? arrischiò altezzosamente l'ufficiale au- striaco e ripetè fiero il Castagnoli.

A lui non debbo dirlo ma lo dirò a lei... e, accennando il Castagnoli, proseguì: Capo della setta Ferdinandea che vuol dare le Romagne all'Austria. Le manette.

E l'ordine fu eseguito immantinenti, mentre dal giardino, fuori di sé, urlando, la signora Castagnoli si slanciò sul commissario.

0 nessuno, gridò o i rei qui sono due e indicò, colla destra protesa, l'austriaco.

Sono il conte di ***, mormorò questi suddito, ufficiale d'ordinanza di S. M. Ferdinando I.

Non ho ordini per lei, concluse il commissario, e si portò via il Castagnoli, mentre la moglie sua, sciogliendosi dalle braccia pietose della Borzaghi-Vesi accorsa a soccorrerla, ordinava imperio- samente all'ufficiale di salvare il suo complice. All'esitazione signi- ficativa di costui, che escludeva ogni idea di patrocinare la sorte del Castagnoli, la misera gli intimò nuovamente e più solennemente an- cora di uscire. E l'ufficiale uscì piegando il capo. Essa allora svelò alla Borzaghi-Vesi il mistero della sua nascita. Non a Roma, non a Firenze altrove... era nata a Venezia ed esiliata dal governo im- periale. Il sogno prediletto della proscritta era la laguna colle gon-

LA SETTA FERDINANDÈA 85

dole pavesate' dei tre colori. Pur troppo, non potè vedere l'avverarsi del carissimo sogno!

Achille Castagnoli fu condannato dal Governo pontificio a venti anni di galera. Scontò la pena sino al luglio del 1846, fatto libero dall'amnistia di Pio IX; ma la sua sventurata compagna era già morta di dolore.

Il Castagnoli, per isfuggire i tristi ricordi di Bologna, riparò a Napoli. Chi dice che dopo due anni ivi xlnisse esso pure, fra le di-' strette dell'indigenza, la travagliatissima vita; altri afferma ch'egli prese parte alla campagna del quarantotto, morendo da valoroso sul campo in un di vittoria.

Chi scrive, propende per questa versione. Il Castagnoli, che il Gualtiero lodò per ingegno e coltura, volle di certo espiare, combat- tendo per la patria, quel degenerato liberalismo che voleva sottrarre le Romagne al Papa... per darle allo straniero!

G. COSTETTI.

DIFFICOLTÀ DELL'AGRICOLTURA ITALIANA

Gli agricoltori in Italia hanno attraversato più volte periodi di crisi, specialmente causate da ribassi di prezzi e da dififìcoltà com- merciali; ma io non so se sia mai capitato ad essi, in tempi recenti, di trovarsi in uno stato d'imbarazzo come l'attuale. Io mi riferisco più specialmente aUltalia del centro e del mezzogiorno; nell'Italia superiore l'agricoltura, già trasformata e progredita da molti anni, ha superato quel periodo di assestamento tecnico-economico, che noi stiamo proprio ora attraversando. Naturalmente, permangono anche per l'Italia superiore tutte le difficoltà derivanti da avversità naturali, come le malattie delle piante e degli animali, che costituiscono in tutto il mondo una delle più grandi alee nell'esercizio dell'agricol- tura.

Una volta l'agricoltore poteva considerarsi come l'essere più for- tunato; in quel tempo, la proporzione fra il prodotto e il consumo era tanto normale, che l'agricoltore con la vendita dei suoi prodotti poteva sempre far fronte comodamente ai suoi bisogni. Allora i prezzi dei mercati erano regolati dall'andamento dei raccolti, e quanto più essi erano scarsi, tanto maggiore era la ricerca, più ele- vati i prezzi. Tutto oggi è cambiato. Le ferrovie, le navi a' vapore rendono possibile lo scambio dei prodotti fra regioni le più lontane : il mondo intero costituisce un mercato solo e i prezzi tendono sempre a mettersi a livello.

Ma, oltre a ciò, difficoltà gravissime di ogni genere rendono l'arte dell'agricoltore molto ardua e fanno diventare molto incerta la posizione stessa del proprietario, specialmente se piccolo. Indici di questo stato di cose sono i trapassi molto frequenti della proprietà ierriera e lo sparire continuo della piccola proprietà, A questo pro- posito, non saranno mai abbastanza lodati tutti quei provvedimenti, che furono già proposti e che potranno venire adottati per la difesa e la creazione della piccola proprietà; provvedimenti patrocinati dal- l'onorevole Luzzatti, apostolo infaticabile di ogni idea buona ed utile per la nostra nazione (1).

Io non so se quanto si è proposto varrà a salvare la piccola pro- prietà ancora esistente e a crearne della nuova; perchè lo sparire della medesima non dipende tanto dalle tasse, siano pure forti, che la gravano, quanto da tutte le altre difficoltà di carattere tecnico ed

(1) LvzzATTi Luigi, La tutela economica, (jiuridica e sociale della piccola proprietà. Roma, Tipografia Editrice Nazionale, 1913. Vedi pure Nuova Anto- logia, 1° giugno 1913.

DIFFICOLTÀ dell'agricoltura ITALIANA 87

economico, contro le quali il piccolo proprietario non si trova in con- dizioni di poter efficacemente lottare. Non è facile per il piccolo pro- prietario agricoltore prendere le andature del grande e adottare i si- stemi di conduzione industriale che rendono possibile l'esistenza e la continuazione dell'esercizio ai grandi proprietari. Io assisto da vi- cino, in una regione del Lazio, il Viterbese, dove la piccola proprietà è diffusissima (m qualche comune tutte le famiglie posseggono ter- reni), a questa agonia della piccola proprietà. Una gran parte di questi piccoli proprietari emigrano, e, partendo, vendono o affit- tano i loro pie-coli poderi, Il problema è, dunque, assai arduo e degno di affaticare la mente di uomini superiori. Molti dovranno essere gli artifici di legge per proteggere la piccola proprietà ancora esistente e per tentare di formarne nuovi nuclei; qualunque sacri- ficio dovrà sostenere per questo scopo lo Stato non sarà mai troppo grande, di fronte allo scopo altissimo ed ai benefici incalcolabili che ne verranno alla prosperità ed alla sicurezza dello Stato medesimo.

In questo momento, le difficoltà più gravi, contro le quali ci di- battiamo, sono quelle di carattere economico-sociale. Esse sono la conseguenza dell'assestamento verificatosi nelle condizioni econo- miche delle classi lavoratrici del nostro paese.

Non si può negare, a meno di essere assolutamente ciechi, che la politica liberale e conciliatrice, seguita dai diversi Ministeri in questi ultimi anni e specialmente dall'on. Giolitti, nelle controversie fra capitale e lavoro, sia stata savia ed utile per il paese, sia perchè ci ha risparmiato una delle più terribili rivoluzioni sociali, a cui andavamo incontro sicuramente, sia perchè ha giovato a non accen- tuare ancora di più l'emigrazione dei contadini all'estero. Aumentati i salari e migliorati i patti colonici, i lavoratori hanno trovato la pos- sibilità di vivere anche in Italia, e l'emigrazione, sempre forte, è di- minuita. Se essa avesse continuato nelle proporzioni e con l'aumento costante verificatosi fino al 1906, il contadino in Italia sarebbe dive- nuto una merce così rara, che avrebbe costretto i proprietari a la- sciare in abbandono la maggior parte delle loro terre (1).

Evidentemente, l'accrescersi del prezzo della mano d'opera ha pesato fortemente sulla conduzione della industria agricola. La gior- nata dell'operaio è più che raddoppiata ovunque. Vi sono paesi dove è anche difficile accaparrare la mano d'opera; specialmente nei pe- riodi di più intenso ed improrogabile lavoro, si fa addirittura l'asta al maggior offerente. E dove la mano d'opera non sarebbe scarsa, sopratutto per immigrazione temporanea da paesi e regioni vicini, e quindi vi sarebbe probabilità di ottenere qualche riduzione sui salari, si sono stabilite ed imposte dalle organizzazioni operaie locali

(1) Nel 1906 l'emigrazione totale fu di 787,977 persone, delle quali 509,348 per l'America ; nel 1911 l'emigrazione tc<tale fu di 533,844 e per l'America 270,372. Secondo le professioni, nel 1906 emigrarono 256,720 agricoltori, pa- stori, boscaiuoli, ecc. (36.5% dell'emigrazione totale); nel 1911 emigrarono, di quelle categorie, 137,673 (28.8 % dell'emigrazione totale). Nel 1912 l'emigra- zione totale è di nucvo aumentata; ma non si hanno ancora notizie precise e dettagliate.

88 DIFFICOLTÀ dell'agricoltura ITALIANA

restrizioni e limitazioni circa il numero delle ore di lavoro che ogni operaio può dare. In qualcuno dei Castelli romani, per esempio, non si deve lavorare più di sei ore al giorno e queste si pagano 90 cente- simi ognuna, e così la giornata importa lire 5.40, oltre il vino ed il vinello. Al momento della affìenatura e della mietitura si arriva a pagare la giornata 6 e 7 lire, oltre la spesa, ossia il vitto completo.

Sembrerà strano che, mentre noi lamentiamo, come una delle- diflEìcoltà maggiori contro le quali dobbiamo lottare, la scarsezza della mano d'opera, si facciano, invece, in altre regioni, lamentele per la disoccupazione. Pochi giorni indietro si è fatta alla Camera lunga discussione su questo argomento. È assai probabile e qualche giornale l'ha detto chiaro e tondo che, considerata la parte da cui fu promossa l'interpellanza ed il momento elettorale vicino, vi sia stata della esagerazione in proposito. È un po' diffi- cile persuadersi che in un paese come l'Italia, dal quale ogni anno emigrano centinaia di migliaia di lavoratori; in regioni come la Lombardia, il Veneto, l'Emilia, che danno la percentuale più forte di emigrazione; vi sia veramente una crisi per la disoccupazione. Possiamo ammettere che in qualche Comune vi possa essere mo- mentaneamente e per cause assolutamente locali, in relazione a deter- minate industrie, un po' di ristagno nel lavoro; ma non possiamo convenire che si possa parlare sinceramente di disoccupazione in Italia.

Può mancare l'equilibrio fra una regione e l'altra, e a ciò do- vrebbe rimediare l'emigrazione all'interno. Le nostre popolazioni, che con tanta indifferenza e sicurezza di stesse non esitano ad affrontare viaggi lunghissimi e costosi, in paesi dei quali ignorano lingua, moneta, costumi, dovrebbero tanto più facilmente e sicu- ramente emigrare da una regione all'altra del nostro stesso paese. Quello che manca veramente è una organizzazione regolare di questa emigrazione all'interno. Mentre per quella verso l'estero quasi in ogni Comune, anche piccolissimo, esistono agenti autorizzati, che fanno propaganda per le diverse società di navigazione, forniscono notizie e fanno tutte le facilitazioni possibili, quella verso l'interno è lasciata al caso. Il Ministero di Agricoltura fa qualche pubblica- zione periodica, che ben pochi conoscono, sulle migrazioni perio- diche interne dei lavoratori; ma esse rispecchiano soltanto un pas- sato più o meno lontano. Esistono alcuni uffici di collocamento e di mediazione del lavoro, ma sono pochi ed hanno un raggio molto limitato di azione. Ci vuole una organizzazione che rassomigli quella delle borse, delle agenzie commerciali, che segnali rapidamente dove è la pletora e la rarefazione della mano d'opera, per stabilire le cor- renti migratorie da una regione all'altra del regno. A queste masse dovrebbero accordarsi tutte le facilitazioni possibili di viaggio di andata e di ritorno e tutte quelle altre provvidenze che si usano o dovrebbero usarsi agli emigranti verso l'estero.

Questo è l'ajuto che lo Stato dovrebbe concedere ai disoccupati, a preferenza di quanto è stato richiesto dagli onorevoli interpel- lanti al Ministro dei Lavori Pubblici. La politica di rimediare alla disoccupazione con lavori pubblici, necessari o non necessari, per

DIFFICOLTÀ dell'agricoltura ITALIANA 89

conto dello Stato, è assolutamente sbagliata. Glie lo Stato intervenga in qualche caso proprio straordinario, dando lavoro a una popola- zione che, per causa eccezionale, si trovi nella miseria, possiamo ammettere; ma elevare il principio a sistema, no. Il Ministero dei Lavori Pubblici non dev'essere, come si è detto, il calmiere della disoccupazione; proprio no. In questa maniera non si fa che creare e perpetuare uno stato di cose del tutto artificiale. Generalmente i salari che si pagano nei lavori edilizi o stradali, per conto dello Stato o di altri enti pubblici, sono un po' superiori a quelli agricoli; e quindi avviene un afflusso di campagnoli, che lasciano i lavori campestri per darsi a quelli costruttivi; e, specialmente quando l'af- flusso è verso le città, quasi mai il contadino ritoma in campagna, perchè in città si trova meglio, è pagato di più... e lavora meno.

È dunque preferibile che lo Stato si occupi ad evitare queste crisi momentanee di disoccupazione favorendo un regolare e per- manente servizio di uffici di collocamento. Questa funzione potreb- bero benissimo assumere le amministrazioni provinciali, che vi sono specialmente adatte; e qualcuna ha già deliberato di impiantare un ufficio del lavoro, che avrebbe principalmente quello scopo.

Ma ciò farà piacere alle organizzazioni operaje locali? agli agi- tatori politici? Le organizzazioni vedrebbero negli emigranti quasi dei crumiri, perchè impedirebbero ad esse di tenere alla loro mercè i proprietari nei momenti di maggior bisogno della mano d'opera. È però anche probabile che finirebbero per accordarsi nel modo che ho accennato verificarsi in qualche Gastello romano : riducendo il numero delle ore della giornata, che si dovrebbe però pagare si capisce! al medesimo prezzo.

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La scarsezza ed il rincaro della mano doperà ha molto giovato alla diffusione delle macchine agricole di grande cultura, come le seminatrici, gli erpici, le falciatrici, le presse per foraggi a vapore, le mietitrici, ecc. Ma si comprende che l'uso di queste macchine o di alcune di esse è possibile solo in terreni t>en sistemati, abbastanza pianeggianti, non rivestiti di alberi, a meno che questi siano disposti in file, a discreta distanza una dall'altra. Di questo vantaggio diffi- cilmente potrà approfittare il piccolo proprietario perchè le mac- chine' sono troppo costose relativamente all'importanza del suo pos- sedimento, né potrà prenderle a nolo, perchè troppo breve è il periodo di utilizzazione di esse.

Ma anche il grande proprietario non può supplire con le mac- chine a tutti i bisogni della sua azienda. Tante e tante lavorazioni debbono eseguirsi con la mano dell'uomo: le viti, gli alt>eri frutti- feri, le barbabietole, il granturco, il tabacco, ecc. ecc. hanno bisogno dell'operaio che le curi; e tutti sanno quante cure occorrono!

Nelle regioni, di cui parlo, si verifica un altro inquietante feno- meno: una smania, una irrequietezza nelle famiglie di agricoltori, anche piccoli proprietari, a cambiare di condizione sociale; una ten- denza, specialmente nei giovani, a non continuare nelle tradizioni di famiglia, ad abbandonare la coltivazione della terra. Tutti vor- rebbero andare a servizio in corpi organizzati dello Stato, di Pro-

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vincie, di Comuni, o anche di istituzioni pubbliche o private; e così si hanno continue insistenze per essere ammessi nei carabi- nieri, nelle guardie di finanza, di città o carcerarie; come canto- nieri stradali, uscieri, infermieri di manicomi, ecc. ecc.; e, magari, specie le contadine, come domestici. A maneggiare la terra pochi si adattano più! specialmente è doloroso a dirsi dopo fatto il servizio militare (1).

Per lo meno, emigrano in America o in altri Stati di Europa. trovano giornate di 12-15 delle nostre lire, quando non sanno far altro che lavori da manovale; e 15-20 lire, appena appena cono- scono alla meglio qualche mestiere. Si capisce che la tentazione è forte; e quando arrivano in paese le notizie di quelli che son par- titi, il fermento si accresce e nuove schiere si aggiungono alle pre- cedenti, fino a ridurre alcuni villaggi a una popolazione di vecchi, donne e ragazzi. A questa tentazione non sfuggono nemmeno le fa- miglie coloniche. Anche dove la colonia è tradizionale, antichissima, assistiamo a quel dissolvimento delle famiglie. Le giovani e valide braccia se ne vanno; restano gli altri, impotenti a tirare innanzi il podere. E nei momenti di maggiol:* lavoro bisogna ricorrere alla mano d'opera di salariati giornalieri, che naturalmente costano cari. Al raccolto si fanno i conti e questi non tornano; bisogna ricor- rere, per andare avanti, al prestito col proprietario o con gli stroz- zini; quindi viene il malessere, lo sconforto nella famiglia, l'abban- dono della colonia o il licenziamento.

Ciò è tanto più grave nelle regioni, dove la colonia è una im- portazione; per esempio, qui, nella provincia romana. Vi sono stati molti proprietari, negli ultimi anni, che hanno costruito buone case coloniche, stalle, ecc.; eseguite piantagioni di viti, olivi; migliorati prati, ecc., ed hanno introdotto famiglie di contadini, che proveni- vano principalmente dalle Marche, dall'Umbria e dalla Toscana. Naturalmente, non erano, salvo rare eccezioni, le famiglie migliori quelle che lasciavano il proprio paese per andare in una regione, dove le terre non erano ancora ben sistemate e rese fertili da una buona coltura, dove non c'era avviamento del sistema colonico e dove anche non erano troppo ben vedute dalle popolazioni locali. Tuttavia non era diffìcile di provvedersene ed il sistema di con- duzione e i metodi di coltivazione introdotti rappresentavano sempre un progresso ed un miglioramento in confronto allo stato precedente. E per il proprietario era anche la soluzione delle difficoltà, in cui si trovava, di coltivare le sue terre.

Ma ora famiglie, specialmente numerose, buone o cattive, non si trovano più. è possibile assuefare le famiglie dei luoghi alla vita colonica. Numerosi tentativi sono stati fatti da noi e da altri : sono quasi sempre falliti. Prima di tutto, perchè nei nostri paesi la famiglia non rimane unita, a forma patriarcale. Appena i giovani sono in età di accasarsi, si staccano dal ceppo e formano una fa- miglia nuova. Quindi impossibilità di avere famiglie numerose. Poi, vi è l'abitudine, la tendenza a vivere in paese; specialmente le donne non possono farne a meno, per chiacchierare e far pettegolezzi al forno, al lavatojo.

(1) Lo stesso fenomeno si verifica pure in Francia. Vedi Bevue de viticul- ture, n. 2019.

DIFFICOLTÀ DELL'AGRICOLTUELV ITALIANA

Non è, perciò, raro trovare7 nelle nostre campagne, case colo- niche chiuse; i proprietari hanno dovuto tornare ai sistemi antichi, dopo aver speso molte migliaja di lire in miglioramenti fondiari di ogni genere.

Anche gli agricoltori che iniziarono le trasformazioni intorno a Roma, jn seguito ai benefici accordati dalle leggi sull'Agro romano, si trovano a lottare con non poche difficoltà. Nell'Agro romano, le bo- nifiche sono state eseguite con la direttiva di introdurre i sistemi lom- bardi, a base di coltivazione di prati artificiali e di allevamento di vacche da latte. I primi bonificatori, sebbene abbiano avuto anch'essi dei guai, specialmente per la malaria, che ha fatto perire non pochi animali bovini, non adatti all'ambiente come la razza locale, hanno fatto buoni affari, sia perchè hanno avuto facilità di trovare famiglie lombarde da condurre con sé, sia perchè il prezzo del latte a Roma è molto elevato. Ma ora, i nuovi agricoltori si trovano nella difficoltà di accaparrare, anche pagandoli assai bene, bravi mungitori di vacche; ed è noto che questa non è operazione che può fare chiunque, perchè se, volta per volta, alla vacca non si leva tutto il latte che essa ha nella mammella, come si dice, perde o indietro, ossia ne produce una quantità sempre minore. Se poi si vuol fare anche l'industria dei latticini, allora le difficoltà aumentano ancora, perchè la fabbricazione del burro e dei formaggi freschi {provature, fon- tine, caciocavalli, ecc.) è molto delicata e tutt'altro che facile.

Continuandosi ad estendere la trasformazione dell'Agro romano col sistema lombardo, è evidente che si arriverà ad una sovrapro- duzione di latte e quindi a un ribasso di prezzi, che, unito alle diffi- coltà di trovare mano d'opera adatta e di doverla pagare assai cara, metteranno a dura prova, in tempo non lontano, le nuove aziende attorno a Roma.

Un altro problema, che ha dinanzi a l'agricoltore, è questo: Che cosa debbo coltivare? Quale produzione sarà per me più rimu- nerativa? Accenno appena, per non andar troppo per le lunghe.

Se si eccettua il frumento, che si mantiene a prezzi piuttosto elevati per causa del dazio d'introduzione, che tanti milioni al Ministro del Tesoro e rende possibile la coltivazione del grano in Italia (i cereali inferiori si equilibrano col prezzo del frumento) (1); tutti gli altri prodotti, appena vi è un po' di abbondanza di raccolti, precipitano, come l'uva negli anni 1908 e 1909, nei quali si dice che, in qualche regione, non vi fu la convenienza di vendemmiarla, perchè costava più la mano d'opera, che il prodotto. Da 2-3 lire al quintale, in quegli anni, siamo risaliti a 20, 25 e 30 nei successivi. Il prezzo dei bachi da seta è oramai diminuito tanto, che molti non vogliono più allevarli, anche nelle famiglie coloniche. A conti fatti,

(1) Mentre correggiamo queste bozze di stampa, vediamo che il giornale La Stampa di Torino chiede al Governo d'includere nel programma per le pros- sime elezioni politiche la graduale, rapida abolizione del dazio sui cereali. Vec- chia questione, così lungamente e ripetutamente dibattuta! Noi riteniamo che l'agricoltura italiana non sia in grado di tollerare l'abolizione del dazio, per ora e per molti anni ancora. Del resto, è bastato il buon raccolto di quest'anno per far ribassare subito il prezzo del grano da 30-32 lire a 2-5 il quintale.

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la giornata impiegata nell'allevamento viene ad essere retribuita con 70 a 90 cent-esimi !

Adesso assistiamo ad un vero tracollo nel mercato del bestiame bovino. Diciamo la verità : la corsa nei prezzi era giunta a una vera pazzia. Io mi domandavo : è possibile che questo andamento con- tinui? La caduta è stata anche troppo rapida; ed ora, come succede sempre, si va all'eccesso opposto e siamo arrivati al disotto delle medie anteriori alla volata dei prezzi.

È eccesso di produzione? è mancata esportazione? è l'introdu- zione della carne congelata, refrigerata o in altro modo conservata? Io non lo so e mi pare che non lo sappiano con precisione nemmeno gli altri. Probabilmente sono tutte quelle cause insieme ed altre ancora, che non vediamo.

La causa più appariscente è l'importazione della carne conser- vata, dall'America e dall'Australia; se non altro, perchè si vede in parecchie macellerie vendersi al medesimo prezzo la carne conser- vata e la fresca, di bassa qualità; quindi, si conclude, la congelata ha servito di calmiere alla fresca. Io non esito a dire che la carne con- gelata ha avuto il gran merito di aver reso possibile ancora, negli anni del furore nei prezzi dei bovini, l'uso di questo essenziale ali- mento alle classi meno agiate; altrimenti, la carne sarebbe diven- tato un cibo per i soli ricchi. Ora che la carne fresca è tornata a prezzi moderati, i consumatori di qualunque classe la preferiscono a quella conservata; e così abbiamo visto, a Roma, che in molte macellerie, dove prima si vendeva carne congelata, ora si vende soltanto carne fresca (così almeno i proprietari affermano).

La questione è stata discussa ripetutamente alla Camera dei De- putati, specialmente in relazione al contratto per la fornitura del- l'esercito. Per le esigenze di una fornitura così grande, il Ministro della Guerra ha dovuto accettare di concludere un contratto per cinque anni, decorrente dal gennaio 1912. E l'assuntore ha dovuto obligarsi a costruire alcuni frigoriferi e carri refrigeranti per la conservazione e trasporto della carne congelata. La somministra- zione di questa qualità è permessa soltanto nei mesi di autunno ed inverno.

Attualmente, in seguito al ribasso dei prezzi del bestiame, si può avere la carne fresca allo stesso prezzo della congelata; e sic- come questa, da esperimenti fatti, un rendimento minore della fresca, quindi, in definitiva, si viene a pagare più la congelata, che la fresca. Ciò spiega l'abbandono dell'uso di quella qualità, anche da parte delle classi popolari.

L'importazione della carne congelata, refrigerata o conservata col gas compresso di formaldeide (brevetto Lynley) è andata aumen- tando in questi ultimi anni. Da quintali 11,467 nel 1910, siamo an- dati a quintali 37,412 nel 1911 e a 145,487 nel 1912. In corrispon- denza, vi è stata una maggiore esportazione di capi bovini, che da 10,022 nel 1911 è salita a 43,198 nel 1912; e una minore importa- zione, che, per i medesimi anni, da 154,222 capi è scesa a 55,896. Sicché si può dire che vi è stata una certa compensazione fra l'in- troduzione della carne conservata ed il commercio del bestiame bovino.

Attualmente, si può avere la carne congelata o in altro modo conservata a circa una lira al kilo, dazio compreso. Quindi una

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perdita non indifferente verrà a risentire lo Stato dal contratto di fornitura per l'esercito, che stabilisce il prezzo di lire 1.323 a kilo. Ma le giustificazioni date dall'on. ministro Spingardi ci sembrano esaurienti. Allo scadere del contratto in corso, sarà opportuno non vincolarsi per un tempo così lungo; e, se i prezzi della carne fresca si manterranno bassi, sarà meglio escludere dalla fornitura la carne congelata, la quale, pur ammettendo che sia egualmente nutritiva, non è certamente gustosa e saporita come quella di fresco macellata. E, oltre a ciò, non è sempre possibile in ogni presidio conservarla bene e allora... Così l'esercito potrà avere carne di miglior qualità e l'industria zootecnica non avrà a temere la concorrenza delle carni estere.

Giustissima a me sembra la domanda che faceva l'on. Grosso- Campana, nella sua interrogazióne al Ministro di Agricoltura, svolta nella seduta del 28 maggio 1913 : i consumatori debbono essere avver- titi di quello che consumano, perchè non siano sorpresi nella loro buona fede acquistando come carne di fresco macellata quella conge- lata, refrigerata, ecc. Quindi l'opportunità che la vendita si faccia in macelli speciali.

Invece, crediamo che a nessuno verrà in mente di proibire l'intro- duzione di queste carni in Italia o di colpirle con dazi elevati, come un altro deputato ha pure proposto recentemente. Non è male che i generi di grande consumo trovino sempre un calmiere che impedisca un eccesso dei prezzi. Limitato l'uso delle carni conservate alle grandi comunità, come carceri, manicomi, ecc., la loro introduzione non può metter paura agli allevatori, i quali sanno di poter contare sempre sulla clientela del gran pubblico per la indiscussa miglior qualità del prodotto, che possono offrirgli.

Concludendo su questo punto, qualunque possa essere la causa del ribasso nei prezzi del bestiame bovino, non si può però mettere in dubbio che, per coloro che avevano comprato a prezzi elevati, l'at- tuale débàcle costituisce una rovina. E non è difficile comprendere come le oscillazioni continue nei prezzi di tutta la produzione agri- cola, oltre a rendere instabile e precaria la condizione economica del proprietario o del conduttore, ingenerano in essi uno stato d'animo tale, che, per lo meno, li trattiene dal migliorare le terre, immetten- dovi nuovi capitali.

*

Come se tutti questi guai dell'agricoltore fossero pochi, altri e di non minore importanza ne trova disseminati sulla sua strada, primi fra tutti le malattie del bestiame e delle piante.

Qualunque animale voi allevate, qualunque pianta coltivate, do- vete sempre stare alle prese con una serie infinita di malattie e ricor- rere a una quantità di rimedi, che non sono sempre efficaci. Quindi noje, spese, incertezza di prodotti. Non ne faremo l'enumerazione, perchè la Nuova Antologia non è un trattato di patologia vegetale ed animale.

Certo, per l'agricoltore questa è una delle più grandi preoccupa- zioni. Dalla vite all'olivo, dal gelso a tutte le piante da frutto, dal ca- stagno al nocciolo, alla quercia, tutti tutti gli alberi ed arbusti utili hanno i loro malanni e quanti! E lo stesso bisogna dire del frumento.

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della fava, della barbabietola, del tabacco, della patata, del pomo- doro, ecc. Un vero ospedale di malati, una vera farmacia di rimedi! B] l'applicazione di questi rimedi non è sempre facile; ad ogni modo, assai costosa. Qualche volta, quando il prodotto è assai abbondante, è costata più la difesa, che il valore del raccolto!

Che dire delle malattie degli animali? Sono infinite anch'esse. Non vi è specie di animali che non ne abbia più d'una: carbonchio ematico e sintomatico, tubercolosi, ematinuria, afta, linfoangioite, farcino, agalassia, peripneumonite, ecc., ecc., sono le principali e più comuni. Chi potrà dire mai quante centinaia di milioni di danni ha cagionato la sola afta negli animali ad unghia fessa (bovini, ovini, suini), in questi ultimi anni, al nostro paese? e il carbonchio? e la peripneumonite nei suini? Sono vere stragi, delle quali il pubblico delle città non si avvede e non ha idea, ma che gettano la miseria nelle campagne ed aumentano il caro-viveri nelle città.

Alcune di quelle malattie si prevengono con le inoculazioni di sieri e vaccini, come le due forme di carbonchio; altri vaccini sono ancora di esito incerto o allo studio. Sarà una grande fortuna per tutti il giorno, in cui le malattie principali più perniciose per i nostri ani- mali, come l'afta, la peripneumonite dei suini, Vasciuttarella (aga- lassia) delle pecore, ecc., potranno essere prevenute mediante vacci- nazioni, speciali per ciascuna malattia.

Anche per le malattie delle piante, gli sforzi degli scienziati do- vrebbero essere rivolti a dare un diverso indirizzo alla difesa delle piante contro i parassiti animali, ossia trovare i nemici, animali o crittogamici, di questi parassiti, moltiplicarli, disseminandoli sui ve^ getali attaccati e procurarne così la morte.

L'esempio più splendido è stato dato dal prof. Berlese per com- battere la Diaspis pentagona del gelso ed altre piante. Mediante la diffusione di un piccolo insetto, la Prospaltella Berlesei, parassita della Diaspis, si è riusciti a far sparire la malattia da molte località, dove distruggeva piantagioni intere del prezioso albero La convin- zione dei proprietari ed agricoltori sull'efficacia di questo rimedio è tale, che da ogni parte vengono richiesti pezzetti di legno prospaltiz- zati alla stazione di entomologia agraria a Firenze, per diffondere la piccola vespetta nelle piantagioni di gelso (1).

In altri casi sono stati sperimentati funghi parassiti, come VI sana densa per la distruzione del Maggiolino o Melolonta; lo Sporotrichwm glohuliferum per la Vespa, una Botrytis per il Pidocchio lanigero; una Empusa per la Cavalletta^ ecc.

Nessuna speranza vi è di poter seguire questo metodo nella lotta contro le innumerevoli malattie crittogamiche delle piante e delle erbe coltivate. E per queste non c'è che seguire i sistemi raccoman- dati, che si fondano sull'uso di sostanze nocive a quei parassiti e che richiedono tanto tempo e tanta spesa ai coltivatori. Oramai l'agricol- tore bisogna che si rassegni a fare anche il farmacista!

(1) Vedasi per maggiori notizie in proposito: Bollettino mensile d'informa' zioni agrarie e di patologia vegetale, maggio 1913, pubblicazione dell'Istituto Internazionale di Agricoltura, pag. 696 e segg.

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Dinanzi a questo quadro, tutt'altro che esagerato nelle tinte, l'agricoltore, novello Amleto, si domanda : che fare?

Non è facile dare consigli. L'agricoltura è essenzialmente arte o industria di relazione. Ognuno, secondo l'ambiente e le circostanze, la soluzione deve trovarsela da -sé. Tuttavia qualche conclusione gene- rale da quanto si è detto fin qui si può trarre, riferendosi sempre all'Italia centrale e meridionale.

La prima conclusione ci porta a ripetere una dolorosa constata- zione : l'incerta esistenza della piccola proprietà, se non si corre al più presto ai ripari.

La seconda è questa : che non è possibile continuare nella colti- vazione di terre, che non siano capaci di dare forti rendimenti.

La terza è conseguenza di questa: bisogna restringere l'agricol- tura intensiva nei terreni migliori e questi forzarli alla produzione con tutti i mezzi che la scienza e la tecnica moderna additano; gli altri metterli a coltura estensiva (1).

Spieghiamoci subito : quando parliamo di agricoltura estensiva, non intendiamo dire terreni lasciati in abbandono, contentandoci di quello che Dio ci concede. Intendiamo un modo di conduzione e di utilizzazione delle terre, che riduca al minimo tutte le spese e il bi- sogno di mano d'opera, ma con tutti quei miglioramenti che l'agricol- -tura moderna, non disgiunta dal tornaconto, consiglia per far fruttare nel modo migliore i terreni di qualità inferiore.

Non dimentichiamo che vi sono estensioni immense di terreni, che hanno pochi centimetri di terra vegetale coltivabile, scoscesi, di- rupati, rovinati continuamente dalle pioggie, i quali, coltivati a ce- reali o legumi, danno prodotti assolutamente derisori, che non ripa- gano nemmeno la metà delle spese impiegatevi e che pure i contadini si ostinano a lavorare, contentandosi di quei due, tre, quattro quin- tali di grano ad ettaro che possono portare a casa! Ogni volta che passo, per esempio, per le vie Cassia e Flaminia, fino a 50 o 60 kilo- metri da Roma, rattristato dal paesaggio sterile, deserto, non posso fare a meno di domandarmi sempre : ma queste terre così squallide, nude di alberi, erose da ogni parte dalle acque, mostranti spesso a fior di terra la roccia sottostante, rivestite da una miserabile vegeta- zione di grano o di pascolo, non diventerebbero terre redditizie, ri- mettendole a bosco ceduo di (juercia, come una volta erano? Oltre rinsaldare il terreno, evitando così piene ed alluvioni, sicuramente darebbero un reddito di gran lunga maggiore come legna e come pa- scolo.

Dove è possibile introdurre o far risorgere il bosco, sia da frutto (castagno, nocciolo, ecc.), sia da industria (gelso, pioppo, vi- ci) In un bel libro del prof. D. Zolla, L'agricuHure moderne (Paris, Flam- marion), pubbiicato dopo che questo articolo era stato scritto, si viene a queste medesime conclusioni, anche per la Francia, per quanto riguarda la specializza- zione della produzione in rapporto alVattitudine naturale del terreno; e quindi si consiglia il rimboschimento delle terre poco fertili, la formazione di pascoli naturali, ecc., sopratutto in vista della scarsezza e della elevatezza di prezzo della mano d'opera.

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mine, ecc.), sia per legna da ardere o costruzione, associato con prati e pascoli migliorati, è assicurato il sollecito ritorno alla agricoltura ricca. Quali coltivazioni possono dare il reddito netto che può rica- varsi da un castagneto o da un noccioleto, col suolo rivestito di un buon prato o pascolo? Un ettaro di noccioleto, in piena produzione, può dare, compreso il pascolo, da 250 a 300 lire l'anno, senza bisogno di alcuna spesa o lievissima, per togliere i polloni che nascono al piede dei ceppi. E si tratta di terre, che, coltivate anche con ogni cura, darebbero prodotti meschinissimi, aleatori, per un anno o due, e poi bisognerebbe abbandonare ad un ben magro pascolo per altri quattro o cinque almeno. vi è pericolo di crisi nel prezzo di questo prodotto, perchè la nocciuola si commercia in tutto il mondo e si con- serva anche da un anno all'altro allo stato secco.

Quali redditi può dare un bosco di castagni da frutto o ceduo? Quali un semplice vimineto? E che dire del pioppo, che cresce così rapidamente e che ha un così esteso consumo sopratutto per la fab- bricazione della carta? Il legname di qualunque genere, per carbone, per traverse di ferrovie o tranvie, per costruzioni, per fabbricazione di mobili, ecc., ecc., è così ricercato e salito a prezzi tali, da dover invogliare chiunque a piantar boschi. Noi siamo uno dei paesi che più difettiamo di legno e siamo costretti a importarne sempre per centinaja di milioni (1911 : legname lire 139,980,955; pasta di legno, di paglia, ecc., lire 18,367,104), mentre abbiamo tante estensioni di terre, che niente di meglio potrebbero alimentare, che il bosco. La speculazione migliore che possa fare il proprietario italiano, nella maggior parte delle terre, è piantare alberi o seminare boschi. Se non potrà ritrarre un utile molto sollecito, ne avranno benefìcio i suoi figli, e, in ogni modo, il paese!

Creare buoni prati e pascoli è anche più facile e di più pronto reddito. Studiare la natura del terreno, lavorarlo più che si può pro- fondamente, scegliere i semi di erbe adatti alla sua costituzione, con- cimarlo con una formula corrispondente ai bisogni e alle deficienze di ' esso, non dimenticando, però, con piccole prove, di domandare al terreno stesso, come voleva il celebre Boussingault, la sim opinione; ecco tutto ciò che occorre per impiantare un buon prato o un eccel- lente pascolo.

Se poi si avesse il modo di rendere irriguo il terreno, magari con grandi spese (1), allora si arriverebbe, d'un colpo, alla migliore delle bonifiche, anche con terreni di pochissimo valore. L'acqua è il più gran tesoro che la natura metta a disposizione dell'agricoltore, perchè lo rende indipendente dalle vicende atmosferiche, in modo assoluto e in relazione alla natura del suo terreno.

Sono quindi lodevolissimi i provvedimenti che il Ministro dei Lavori Pubblici ha proposto e che stanno per essere approvati dal Parlamento, per la costruzione di bacini in Sardegna e in Calabria e per serbatoi in ogni altra parte del Regno.

(1) In questi giorni il Comitato del Consiglio di agricoltura ha dato parere favorevole alla domanda di mutuo e di contributo governativo a due consorzi d'irrigazione Villeneuve Saint-Pierre (Aosta) e Pontecorvo (Caserta) che dimostravano di voler spendere altre 2000 lire a ettaro^ per rendere irrigue le loro terre!

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La politica forestale e quella idraulica potranno davvero segnare il principio del risorgimento economico della nostra Italia.

Il ritorno all'agricoltura basata sul bosco, sul prato e sul pascolo permetterà pure una maggiore estensione delFallevamento del be- stiame, che è il complemento necessario per la utilizzazione più conve- niente di queste terre di qualità inferiore.

Dunque, ritorno anche all'allevamento brado?

L'allevamento brado o semi-brado noi allevatori del Lazio non l'abbiamo mai abbandonato, e ce ne troviamo contenti. Vediamo che la nostra produzione è sempre ricercata e ben pagata; non troviamo motivi per cambiare un sistema, che è valso a formare le nostre razze di animali, adattandole, attraverso i secoli, all'ambiente, con la legge della selezione naturale. E se qualcuno di noi ha da pentirsi di qualche cosa, è di aver ceduto a consigli e stimoli venuti dall'alto e di aver acconsentito ad incrociare le nostre razze, specialmente la equina, con animali così detti miglioratori, importati da altri paesi, i quali non hanno servito ad altro, che a far perdere i requisiti di resi- stenza, di forza e di frugalità che quelle razze avevano acquistato col secolare adattamento all'ambiente. I nuovi prodotti, ingentiliti dal- l'incrocio con riproduttori esotici, trovavano l'ambiente immutato, mentre essi non vi erano più adatti!

Non si può commettere errore più madornale. Prima, se è possi- bile, bisogna cambiare l'ambiente, poi introdurre le nuove razze. Quando, alcuni anni indietro, il Ministero di Agricoltura introdusse il Durham nella campagna romana per migliorare la razza bovina maremmana e renderla più atta alla produzione della carne, noi abbiamo commentato allegramente la cosa. Allora non vi erano nem- meno stalle, prati di leguminose!

Anche adesso s'insiste a mettere nelle stazioni di monta sussidiate dal Ministero il toro romagnolo. Per gli allevamenti stallini, potrà anche andar bene; ma per l'allevamento brado assolutamente no. La febbre malarica penserà a rimettere le cose a posto.

Ma perchè si vuole imbastardire la razza bovina romana? Non è forse la più forte razza italiana da lavoro? Miglioramola pure; ma con la selezione, non con l'incrocio di altre razze.

E così si fosse fatto per i cavalli! Se si fosse seguito il metodo della selezione, il cavallo romano sarebbe adesso uno dei migliori ca- valli militari del mondo. Invece si è incrociato con tutti gli stalloni possibili e si è rovinato quello che c'era di buono. Gl'insuccessi furono molti; parecchi stalloni morirono di perniciosa durante il tempo che erano nelle stazioni di monta; i proprietari ebbero forti mortalità nei prodotti, che, al solito, non si adattavano più all'ambiente (1).

(1) Per dare un esempio degli insuccessi, ai quali, anche per cause appa- rentemente piccole, si può andare incontro incrociando con riproduttori equini importati, specialmente inglesi, riferisco un fatto osservato da me e comunicato al Giornale d'ippologia diretto dal compianto prof. Fogliata (1910. n. 4) e da lui commentato largamente nel suo libro Tipi e razze equine, 2* ediz., pag. 483 e segg. Si tratta dei danni che un piccolo insetto, il Gastropliylus equi, produce nei giovani puledri. L'estro, allo stato di larva, vive nello stomaco e nell'inte-

7 Voi. CLXVII. Serie V. 1* Settembre 1913.

98^ DIFFICOLTÀ dell'agricoltura ITALIANA

Adesso, da pochi anni, si un indirizzo migliore al servizio ippico: gli stalloni, che si mandano nelle stazioni della provincia ro- mana, per la maggior parte, provengono dalle mandrie degli alleva- tori più intelligenti del Lazio. Questi hanno imparato a proprie spese la via da seguire e fanno da sé.

Si viene così ricostituendo una buona razza romana, per la eli- minazione dei prodotti meno adatti e per l'uso di riproduttori indi- geni. La selezione la fa di nuovo l'allevamento brado o semi-brado. E ora si trovano gruppi di buone fattrici e buoni puledri per l'esercito. Ma, purtroppo, son pochi!

Basta seguire le Commissioni di Rimonta per fare i confronti fra i puledri bradi e gli stallini. La percentuale massima di scarto si ha fra questi. Sono pochissimi quelli che vengono accettati. Ma, anche in questo caso, bisogna intendersi. L'allevamento brado non deve si- gnificare far morire di fame il bestiame d'inverno e d'estate, lascian- dolo alla mercè di quel che può guadagnarsi in un magro pàscolo. Noi intendiamo che il bestiame non abbia mai a patire la fame, e sia alimentato a sufficienza in qualunque stagione dell'anno e venga di- feso contro le intemperie con ricoveri semplici, ossia in capannoni o tettoje, dove l'animale possa entrare ed uscire a suo piacere. Questo è ciò che facciamo molti di noi allevatori del Lazio e che, anche meglio, si fa nei Depositi allevamento cavalli a Grosseto e a Montemaggiore (Lazio).

Io ho vagheggiato il concetto di ricostituire la primitiva razza equina romana; e per conto mio ho cercato e cerco di metterlo in ese- cuzione. L'impresa ora è estremamente difficile, perchè ormai tutte le mandrie sono incrociate. Solo è rimasto un nucleo importante di equini, che si è mantenuto immune da inquinamenti, ed è la razza della Tolta. Son cavalli celebri per forza, rusticità, resistenza; sono tenuti e trattati malissimo; non si sa proprio come vivano in mezzo alle macchie e su terreni sterili, sassosi. Una volta proposi al Mini- stro della Guerra, discutendosi il suo bilancio in Senato, di ricosti- tuirla, migliorandola con una alimentazione abbondante e con la selezione. Dovrebbe istituirsi un allevamento governativo, come quelli a Persano e in Sardegna. Da qui potrebbero prendersi gli stalloni, che dovrebbero migliorare davvero tutta la razza romana. Così ho fatto io, e me ne sono trovato contentissimo. La proposta non ha avuto successo, finora almeno; ma io non mi do per vinto. E forse un'altra volta ne parleremo più a lungo qui, nella Nuova Antologia, discu- tendo tutta la questione ippica.

stino dell'animale, in numero grandissimo, fino a ricoprirne tutte le pareti ; gli individui attaccati fortemente finiscono per morire di cachessia. I puledri ma- remmani non ne soffrono quasi affatto. Io ho osservato che mentre i prodotti dell'incrocio inglese hanno poco sviluppato il muscolo cutaneo detto pellicciaio, i maremmani l'hanno sviluppatissimo. La funzione del pellicciaio è quella di agi- tare, con una specie di forte brivido o scossa, quella paite della pelle, nella quale si produce uno stimolo, una sensazione dolorifica e specialmente per im- pedire che vi si posino insetti offensivi per le loro punture. Il Fogliata conclude con me che, nell'allevamento brado o semi-brado, bisogna dar la preferenza al riproduttore che ha quell'organo di difesa e di protezione pili sviluppato, organo che sarà ereditato dai figli e che li metterà in condizione di poter meglio adat- tarsi all'ambiente.

DIFFICOLTÀ dell'agricoltura ITAIJANA 99

* * *

E concludiamo.

L'agricoltura italiana del centro e del mezzogiorno, come abbiam veduto, sta attraversando un periodo di assestamento. Le circostanze, la forza delle cose, come porteranno alla selezione degli agricoltori più adatti, forzeranno a dare una diversa destinazione alle terre se- condo la loro potenzialità a produrre. Da una parte avremo le terre migliori coltivate intensivamente; dall'altra quelle scarsamente pro- duttive messe a coltura estensiva. Ma questo non dovrà segnare un regresso, perchè anche l'agricoltura estensiva, razionalmente intesa, può rappresentare un progresso economico. Certo che molti proprie- tari ed agricoltori, durante il periodo di assestamento, saranno du- ramente colpiti : destino dei meno adatti è di essere eliminati.

O trasformarsi o perire!

A. Cencelli.

Biblioteca della Naova "Antologia,,

1. *Cenere, di Grazia Deledda. L. 3. 10. Dopo il perdono, di M. Serao. L. 4.

2. Gli Ammonitori, di G. Cena. L. 2.50. 11. La via del male, di Grazia Deledda.

3. I Nipoti della Marchesa Laura, di M. ^- ^■^■

L. Danieli-Camozzi e G. Manfro- 12. I cantanti ceieiM*!, di Gino Monaldi. CadoUni. L. 3. L. 3.

4. Storia di Due Anime, di Matilde 13. Homo Versi, di G. Cena. L. 2.60.

Serao. L. S.bO. 14. L'ombra del passato, di Grazia De

5. Il fu Mattia Pascal, di Luigi Piran- ledda. L. 3.50.

dello. L. 3. 15. L'Edera, di Grazia Deledda L. 3.50.

6. L'ultima Dea, di C. Del Balzo. L. 3. ii 16. La Camminante, di G. Ferri. L. 3.50.

7. Nostalgie, di G. Deledda. L. 3.50. ij 17. *Nuove Liriche, di V. Aganoor.L. 3.

8. L'Illustrissimo, di A. Cantoni. L. 2.50. \ 18. Il Nonno, di Grazia Deledda. L. 3.

9. Ore Calle, Sonetti romaneschi, di Au- 19. Evviva la Vita ! di Matilde Serao. gusto Sindici. L. 2.50. L. 4.

*Qnestì voltrmi sono esaoiitL

DUMAS E GARIBALDI

DOCUMENTI INEDITI

Affascinanti, tutti sparsi di avventure, che rispecchiano nella verosimiglianza dei fatti un'epoca che Egli seppe rendere simpatica, i racconti del Dumas.

Battaglie, amori, feste, conquiste, tradimenti e cavalleresche vendette, non havvi pagina che non sembri vera... ma, fin da quando nascondevamo tra i libri della scuola, quel libro che dice delle me- ravigliose gesta dei Moschettieri, il sorriso incredulo che abbiamo veduto sulle labbra degli storici a proposito della storia di Ales- sandro Dumas (pére), ne ha abituati a non potere nemmeno lonta- namente supporre, che in fatto di storia Egli abbia potuto, almeno una volta, rimanere nei limiti della verità pei fatti narrati, nulla perdendo di quel suo magico dire che forse sembrò poco arido per essere la parola dello storico.

Pure questa prevenzione non è giusta, come mai è giusta una qualunque prevenzione.

Uomo di grande fantasia, ma di eletto animo, Egli non avrebbe offeso con fantasiose narrazioni, l'eroe che amava. Non ne aveva bi- sogno. La sua mente pronta ad ideare romantiche meraviglie, ad immaginare e riedificare sul passato, non aveva necessità di fab- bricare romanzi sulla vita di un uomo che, vivente, meravigliava già, pel quale la estasiata anima del popolo innalzava inni di rico- noscenza e di fede. Un romanzo scritto sulla vita di Giuseppe Garibaldi sarebbe stato una bassezza quasi, indegna della mente del Dumas, e il Dumas non lo ha fatto.

Quando l'Italia ebbe capito l'ironia della geografica espressione e si risvegliò dal mortale letargo, Alessandro Dumas, che forse pel suo spirito avventuroso amava il grande e leale avventuriero, nel quale certo rispecchiava tutte le più belle fantasie di avventure so- gnate e descritte, volle vedere da vicino la bella vittoria di un popolo che si era ricordato di avere una tradizione di libera gloria, con- dotto da quest'uomo bello ed ardito, che pareva avere in rac- chiuse le energie nei secoli accumulate dai desideri di libertà, le dolcezze sognate da un popolo di artisti, le superbe lealtà della razza latina; volle vederlo vivere, l'eroe e il suo popolo, e venne in Italia, solo, in una sua piccola nave, scortato dalle ironie dei grandi giornali.

Aveva già scritto le « Memorie di Garibaldi », le aveva pubblicate prima del '60, e già avevano detto che questo libro non era che la

DUMAS E GARIBALDI 101

pura e semplice traduzione di una biografìa pubblicata da Garibaldi qualche anno prima in America.

Accolto a Genova con entusiasmo, giuntovi allorché i Mille mos- sero verso la Sicilia, egli principiò quel suo libro « Les Garibaldiens » del quale o non si parlò o si parlò male. Egli, con quella serenità del grande che non cura la calunnia, quasi sicuro che un giorno sarebbe resa giustizia al suo dire, così pieno di affetto e di ammi- razione pel popolo italiano, dedica appena una pagina, ed una anno- tazione comprendente due lettere, per l'autenticità del precedente libro, di quelle « Memorie » rinnegate poi anche dal Guerzoni e dal- TAchille Bizzoni.

Egli scrive dunque, nella prima pagina del libro « Les Gari- baldiens » a difesa delle « Memorie » :

Alcuni giornali francesi ed esteri hanno, non solo negata l'autenticità di queste Memorie, m\ hanno preteso anche che fossero soltanto la traduzione pura .e semplice di una biografia pubblicata da Garibaldi qualche anno fa in America.

Per tutta risposta a queste caritatevoli assei-zioni, metterò sotto gli occhi dei miei lettori le due lettere seguenti :

Napoli 29 Settembre 1860.

* Ho io Stesso consegnato al Sig. Alessandro Dumas una gran parte degli auto- « grafi di Garibaldi con l'autorizzazione dello stesso Generale.

« Perciò il Sig. Alessandro Dumas non aveva bisogno di nulla chiedere ad altri, « certamente meno bene informati di lui.

« A. Bertani

Segretario Generale della Dittatura dell'Italia Meridionale -.

« Certifico che non solo il Sig. Alessandro Dumas non ha tolto le memorie di Ga- « ribaldi da un'edizione americana, o inglese, ma che Bertani stesso gliele ha consegnate « da parte del generale Garibaldi e scritte di pugno del Generale.

« In quanto a me ho consegnato al Signor Dumas le biografie di Annita, di Da- verio. di Ugo Bassi, e della maggior parte degli amici del Generale morti attorno a lui.

Napoli 10 ottobre 1860

" C. A. Vecchi

Maggiore Aiutante di Campo del Generale Garibaldi „.

Ma finalmente il Luzio nel « Corriere della Sera » del 15 set- tembre 1907 dice che tra il Guerzoni e il Bizzoni, al Dumas devesi dare la preferenza. Egli è stato il solo che a queste « Memorie » ha assegnato la data del Marzo-Aprile 1850, ed infatti Garibaldi prin- cipiò a dettarle a Tangeri nei primi mesi del 1850, e, sempre secondo il Luzio, Garibaldi, nel rivedere le « Memorie » per le quali Elpis Melena era intermediaria presso un editore inglese, avrebbe aggiunte e corrette alcune cose, e forse per questo fu accusato il Dumas di aver troppo lasciato correre la fantasia. Le narrazioni che il Guer- zoni dice frasche e frange si ritrovano nella traduzione tedesca, ed anche negli estratti del Carcano.

E il Trevelyan dice nella bibliografia del suo libro « Garibaldi e i Mille » : « Il Bertani pare abbia consegnato il manoscritto delle

102 DUMAS E GARIBALDI

Memorie al Dumas » (vedasi Mss. Milano, Archivio Bertani, plico A, n, II).

Stabilita così la verità storica di questo primo volume da per- sone degne di ogni fede, posso tentare prima di venire alla mia conclusione, di stabilire la verità storica di alcuni fatti narrati nel volume « Les Garibaldiens».

Mi sembra questo quasi un dovere di cortesia verso il ricordo del Grande Novellatore che amò tanto la nostra Italia, nonostante che a questa terra egli dovesse un grande dolore; suo padre, impri- gionato dal Re di Napoli e da questo avvelenato, scampato per mi- racolo, morì però un anno dopo per quella stessa causa. Alessandro Dumas si vendicò aiutando l'Italia coi voti e con l'opera per la grande vittoria, e scrisse un libro che è tutto un inno alla causa santa e agli uomini che la combatterono.

Questo libro cosi poco noto, non mi sarebbe sembrato degno di osservazione, se uno strano avvenimento non me lo avesse mo- strato sotto luce diversa da quella proiettata dall'opinione del Guer- zoni. Prima di parlare dell'avvenimento in parola, necessita che io ripeta alcuni brani del libro per la chiarezza dei fatti. Il Dumas principia la narrazione dalla partenza dei Mille da Quarto e segue il Generale ed i suoi uomini con ansia di fratello.

Dopo la battaglia di Milazzo scrive nel suo libro:

A bordo dell' "Emma „.

Grande battaglia, grande vittoria ! Sette mila napoletani sono fuggiti davanti a due mila cinquecento garibaldini! Scrivo mentre il cannone del Castello fa fuoco sulla « Città di Edimburgo » e sulla nostra carissima « Emma » .

Tra i documenti dell'archivio di Crispi troviamo oggi una let- tera che il Dumas stesso scrive al suo amico Giacinto Carini da Mi- lazzo il 21 luglio, e nella quale ripete :

Gran combattimento, grande vittoria: 7000 napoletani sono fuggiti innanzi a 2500 italiani. Ho pensato che questa buona notizia sarebbe un balsamo per la vostra ferita e vi scrivo sotto il cannone del Castello che fa fuoco (molto balordamente, rendiamogli questa giustizia) sulla « Città di Edimburgo » e sulla vostra umilissima serva « Emma »

Più avanti scrive ancora, allorché, dopo la battaglia, scese a terra in cerca del Generale :

Nessuno sapeva dirmi ove fossero Medici e Garibaldi, quand'ecco, in mezzo ad un gruppo di ufficiali, riconosco il Maggiore Cenni, che s'incarica di accompagnarmi dal Generale. Arrivammo in riva al mare, seguimmo la marina e trovammo il Generale sotto il portico della Chiesa, circondato dal suo Stato Maggiore.

Disteso sul pavimento, con la testa appoggiata alla sua sella, affranto dalla fatica, egli dormiva. Aveva vicina la sua cena: un pezzo di pane ed una brocca d'acqua. Io ero invecchiato di duemila e cinquecento anni : mi trovavo di fronte a Cincinnato.

E ancora nella lettera scritta al Carini :

Ninno sapeva dirmi dove erano Medici e Garibaldi ecc.

DUMAS E GARIBALDI 103

Era steso nel vestibolo col capo appoggiato sulla sella. Presso a lui stava la sua cena: un pezzo di pane ed una brocca d'acqua. Mio caro Carini, io mi riportava a 2500 anni fa, e mi trovavo al cospetto di Cincinnato.

Ed eccomi al fatto principale. Dice Dumas sempre in questo suo libro « Les Garibaldiens » :

Alla mia partenza da Girgenti avevo lasciata la Sicilia con l' intenzione di recarmi subito a Malta, e da Malta a Corfù, allorché in un piccolo porto dove mi ero fermato per far provvista di viveri, fui preso da una specie di rimorao. Non assisterei dunque alla fine di questo gran dramma della resurrezione di un popolo? Non lo aiuterei con tutte le mie forze?

L'Oriente non fugge.

Un anno di più passato fuori di Francia è un anno di più passato lontano dalla calunnia e dall'ingiuria.

Eccettuati due o tre esseri che mi amano veramente, nulla mi richiamava nella grande Babilonia.

Presi una penna e scrissi al figlio di Garibaldi :

Caro Menotti, Fa pervenire con un mezzo sicuro, con un corriere se occorre, 1' acclusa lettera a tuo padre.

Ti abbraccio

Alessandro Dumas.

E al Generale scriveva:

Amico, Ho attraversata la Sicilia in tutta la larghezza. Grande entusiasmo ovunque ma "assoluta mancanza di armi.

Volete che vada a procurarvene in Francia?

Rispondete « fermo posta» a Catania; se mi dite « » differisco il mio viaggio in Asia e f 0 il resto della campagna con voi. « Vale et me ama ».

Alessandro DtnvLAS.

Era il 21 giugno.

Garibaldi rispose a questa lettera :

Vi aspetto per la vostra cara persona e per la bella proposta dei fucili. Venite !

Vostro affezionatissimo di cuore

G. Garibaldi.

Il 23 di giugno Dumas era nella rada di Milazzo e scrive :

Il Generale mi mandava a dire di entrare nel porto e di pormi a riparo dietro il « Tuckery ». Un quarto d'ora dopo ci trovavamo nel posto indicato. Il Generale mi aspet- tava gaio e sereno come sempre.

La proposta delle armi fu dunque accettata e Garibaldi rimise al Dumas un ordine per la Municipalità di Palermo affinchè gli fosse aperto un credito di centomila franchi, ma il 25 giugno il sindaco Duca della Verdura negò il denaro, facendo osservare che

104 DUMAS E GARIBALDI

Garibaldi aveva dimenticato di aggiungere alla sua firma la pa- rola Dittatore, e che se venisse ucciso durante l'assenza del Dumas la Municipalità di Palermo avrebbe perduto il proprio denaro. Dumas telegrafò a Garibaldi, che rispose: «Intendetevi pel vostro credito con De Pretis». Dumas narra di più che Garibaldi pianse allorché Egli gli ri- ferì le parole dette dal Duca della Verdura e sospirando esclamò:

In fin dei conti, se mi farò ammazzare non sarà per loro, ma per la libertà del Mondo!

Poi rivolgendosi al Dumas aggiunse :

Partite e ritornate presto,

Generale, potrò essere di ritorno tra quindici giorni, non più presto.

Con le armi?

Sì, ve ne la mia parola d'onore.

Bene! Se è così vi aspetto. Al vostro ritorno entreremo nelle Calabrie e vi entreremo coi vostri fucili.

Il 29 luglio Alessandro Dumas s'imbarcava sul Posilipo, bat- tello a vapore delle « Messagéries Impériales » diretto a Marsiglia. Il 13 agosto scrive sul suo libro :

Rada di Napoli 13 Agosto.

Eccomi ancora davanti a Napoli a bordo del « Posilipo : » debbo avvertire che, nel tempo trascorso fra la data di questa e quella precedente sono stato a Marsiglia, dove mi trattenni sei giorni.

Avevo fatto conto di comperare dal Go verno Francese delle carabine di riforma; ma prop;-io nel momento in cui l'affare stava per concludersi, un intervento ufficiale lo ha mandato a picco. Fui quindi costretto a rivolgei'mi al mio amico Zaoué, dal quale per novantamila lire ho avuto mille fucili rigati e cinquecento carabine.

Dal canto suo Rognetta è partito per Liegi con settemila lire.

Ho rilasciato a Zaoué una cambiale di quarantamila lire, pagabile a Messina, e siccome il « Posilipo », che partiva il giovedì 9, e che faceva il servizio della costa, non voleva ricevere a bordo il mio carico di armi, ho dovuto imbarcarmi da solo. Le armi mi seguiranno, e, forse, mi precederanno a Messina, su di un vapore che fa il viaggio diretto.

Dipoi scriveva:

Durante questo tempo il « Mercury » era giunto ed aveva gettata l'ancora. Mandai qualcuno a bordo. Le armi vi erano.

Ero preoccupato, perchè dovevo pagare la cambiale delle quarantamila lire, ma Ga- ribaldi era assente ed io, non possedendo che una dozzina di migliaia di lire, non po- tevo fare onore alla mia firma.

M' informai e seppi che Medici era a Messina.

Ero salvo.

Corsi a casa sua e gli annunziai l'arrivo di mille fucili e delle cinquecento carabine.

Avete delle cartucce? mi chiese ansiosamente.

Diecimila.

E delle capsule?

Cinquantamila.

Allo a tutto va bene!

DUMAS E GARIBALDI 105

Ebbene non perdiamo tempo; le mie carabine e i miei fucili potranno esservi utili: andiamo dunque a prenderli.

Ci recammo dal Signor Pie, Agente delle « Messageries » a Messina e vi tro- vammo il corrispondente incaricato di ritirare lo importo della cambiale.

Lo condussero al Ministero delle Finanze, dove la cosa fu sistemata. Come? lo ignoro.

Del resto non era affar mio e per me l'essenziale era che la cambiale fosse pagata.

Due oie dopo. Medici faceva ritirare le armi.

L'episodio delle armi nel libro «fLes Garibaldiens » finisce qui. Altri fatti interessanti che narrano dell'opera del Dumas possono es- sere considerati degni di ritornare alla luce, ma non è compito mio, oggi. Debbo ormai mettere in chiaro quanto di verità vi sia in que- sto episodio, che io non ho trovato narrato in nessuna delle storie da me consultate.

Alcuni anni or sono, ormai otto o dieci, i miei figli, cercando vecchi francobolli, tra vecchie cartacce gettate da un certo signore straniero, in una cantina, e che erano destinate ad essere bruciate, per accendere un calorìfero, trovarono alcune lettere che destarono la mia curiosità.

Seppi che dopo il '60 in quella casa situata in Foro Bonaparte, a Milano, aveva vissuto un uomo, del quale mi si consenta di tacere il nome, che ebbe larga parte negli avvenimenti, ed ebbe la fiducia degli uomini i piìi attivi del Risorgimento Italiano. Fu deputato dopo il '60, poi alcune sventure lo costrinsero ad abbandonare l'Italia, anzi l'Europa.

Tolti alcuni bauli che pregò di conservare, i suoi mobili e tutto ciò che aveva in casa servì a soddisfare alcuni impegni, che aveva contratti appunto con questo signore straniero, il quale, credo, gli aveva subaffittato un piccolo appartamento.

Fino a quell'epoca i bauli erano stati rispettati, ma i mobili erano stati vuotati, le casse pure, così, che tutte le carte ivi conte- nute erano andate ed andavano a finire nel fuoco.

Interessata da certe lettere, da alcuni brani di un diario, mi feci portare un mucchio di quelle carte, e tra molte cose private, inutili, ne trovai alcune che mi sorpresero.

Si parlava di armi, di Garibaldi..., il nome di Zaoué, di Rognetta, mi par\'ero non nuovi. Ricordai « Les Garibaldiens » e vidi come forse quelle carte avrebbero d'un tratto messo il libro sotto altra luce. In breve: quelle carte erano l'autenticazione indiscutibile del fatto.

Ne parlai, tradussi il libro, ne feci uno studio. Tutto andò per- duto nella rovina di una Gasa editrice. Cedetti le carte alla Biblio- teca Marucelliana di Firenze, ove tutti possono vederle, e sperai che qualcuno ne avrebbe parlato, poiché altro lavoro, altri obblighi, mi distoglievano da questo, che era un dovere e che compio, oggi, persuasa di vedere proseguire le indagini da persone di me più competenti.

Pubblicando la copia dei documenti debbo avvertire che al- cune lacune o qualche errore possibile di cifra o di nome derivano dalla corrosione del tempo.

Adesso, che da un avvenimento insignificante di per stesso, un fatto acquista la luce della verità, leggendo quelle pagine calde

106 . DUMAS E GARIBALDI

di entusiasmo, converremo facilmente, che la penna d'oro del Mago fantasioso non ebbe fascini soltanto allorché la guidava l'immagi- nazione, ma che anche la verità veduta seppe ispirargli pagine che sembrano pagine di romanzo.

Garibaldi fu grato al Dumas, ed a Napoli, dopo il trionfo, dopo che nel buio si perdevano per sempre gli atroci ricordi della borbo- nica tirannide. Egli accontentò Dumas, creandolo ad honorem di- rettore dei Musei e degli scavi, e autorizzandolo ad occupare per un anno il piccolo palazzo di 'Chiatamone...

Pare che delle voci maligne corressero, da Giuseppe Garibaldi lealmente rintuzzate, poiché stimava l'amico suo superiore alle ca- lunniose voci; ma qui il mio compito termina. Il periodo offre il campo a nuove ricerche.

Anna Franchi.

ZAOUÉ - Marseille DOIT

Monsieicr Alexandre Dumas Pere à Zaoué les armes ci-après. Embarquées sur le vapeur frS'^^s ggg Mess. Impe^^ le Mercury en destination de Messine.

Marseille le 9 aoftt 1860. (A. Z. - 2402)

1 caisse 19 carabines avec sabre baytte (2403-2463/2481-2561/2563). 23 caisses Chacune 20 carabines soit

460 carabines avec sabre bay"^ (2564). 1 caisse 19 carabines (2404). 1 caisse 9 carabines type Vincennes (10). 1 caisse 5 carabines type Vincennes (2387/2387-2391/2399-2405/2441).

512 carabines àL. 87.50 . . . •• . L. 44,800

52 caisses par 12 fusils chacune soit 728 fusils de guerre avec la bay**® avec hausse à 1000 m. (2388/2390). 3 caisses chacune 20 fusils soit 60 fusils avec hauses à 1000 mètres (6/9). "100 fusils Dite (4 caisses)

888 fusils de guerre avec bay<^te à L. 45 ,....» 39,960

(Le unes dans le autres). 5 moules à balles pour les carabines dans chacune des caisses (2561 /2564)

soit 20 moules à balles F. 15 » 260

Dans la caisse 2560-2562/2564 n. 1 sous les 512 accessoires

512 accessoires pour les 512 carabines à L. 3.30 (A. Z. 902-903) . » 1,689.60

2 caisses chacune 250mille capsules soit 500,000 capsules (caisse frais

compris) (7 A. Z. 2523-2524) » 3.500

DUMAS E GARIBALDI 101

2 eaisses chaccune 2000 cartouches soit 4000 cartouches (2525) 1 caisse 1000 cartouches

5000 cartouches avec balles prètes à charger 90 eaisses einballage à L. 8 (Non-compris les eaisses capsules) Frais d'embarqiiem.... a bord à.... par caisse L. 2.25

RcQU de M. Dumas la somme de

irger

L.

600

.

»

720

»

180

F.

91,709.60

»

51,518.40

Reste de L.

40,191.20

G-.ges

ZAOUÈ

ZXOUÈ -Marseille

Sur les soixante mille francs re^u de M. De Pretis : J'ai pavé à Zaoué armurier pour une portion de la factui'e ci-contre la somme de 51518.40 J'ai remis à Rognetta (Ci-joint le regu) ...... 7000

J'ai payé décompte pour la lettre de change ...... 300

J'ai dépensé bateau à vapeur aller et retour ...... 880

Enfin j'ai payé à Messine pour erreur commise au moment du débarquement 1800

Total 61498.40 Gomme le general Medici en recevant les fusils a payé les 40,191.20,

1498

qui soustraits donnent une somme égale à 60,000

ALEX. DUMAS

J'ai en outre avance mille francs à... pour payer les hommes.

J'ai donne un revolver... 200 fi-ancs au Pére Jean. Un revolver à Carborielli. Enfin... auti"es avances qui seront objet d'un compte particulier pour lequel M. De Pi-etis me dira ce que je dois faire.

ReQu de M. Dumas la somme de deux mille cinq cents francs pour nous désinté- resser de l'erreur qui a été commise à notre détriment trois eaisses d'armes nous apparte- nent ayant prises lors du débarquement qui fut fait des fusils et des carabines i-appòrtées par M. Dumas au dictateur et livróes au general Medici.

Messina, 8 settembre 1870.

Riceviamo la somma di Fi-anchi Mille ottocento per nostra part« d'intei-esse.

ANDEEA BONO e F.

108

DUMAS E GARIBALDI

(Ces trois caisses appai'tenaient à deux personnes l'uneétait intéressée poui' 1800 fr. l'autre pour six cents, une seule personne poursuivait le procès. Je l'ai désintéressée qiioi- que le re^u soit de 2400 F. Il n'y a donc eu que 1800 F, payés pai' moi.

ALEX. DUMAS

Marseille, 4 Aoùt 1860. ReQU de M. Dumas sept mille francs devant servir à l'achat de cent révolvers, avec cai'touches et frais de trarisport et de voyage.

F. B. EOGNETTA

1200 1100 1000

900 705 29

4905.29

BORDEREAU

30 jours de date sur le trésorier general de Sicile. Palerme 12-23 ' F. 60.000

300

59.700

ReQU de M. Alex. Dumas les effets ci-dessous sur Pulerrae contre notre payement de cinquante neuf mille sept cents francs d'une lettre de crédit de Mess. Ig. et Florio.

Palermo en date du 27 Aoùt 1860

V. DBOCBNA et TTJRTES.

CHIUSURA DI STAGIONE NARRATIVA

Ugo Ojetti: L'amore e suo figlio. Ed. Treves. Grazia Deledda: Canne al vento. Ed. Treves. Vincenzo Picardi: Il banchetto di Lazzaro. Ed. Bon- tempellì e Invernizzi. Salvator Gtotta: La porta del cielo. Ed. Baldini e CSastoldi. Carola Prosperi: Il cuore in giuoco. Società Editoriale Ita- liana. — GiirsEPPE Baffico: Un vinto. Ed. Voghera. Guido Milanesi: Anthy. Ed. Treves. Guido da Verona: La vita comincia domani. Ed. Baldini e Castoldi.

Due vecchie conoscenze.

Di mano in mano che mi si ripresentano autori di cui ho già parlato, mi è necessario, per non ripetermi troppo, rimandare alle cose dette una volta, perchè in un libro tento di riconoscere i tratti pili generali e caratteristici dell'autore, quelli cioè che meno mutano da un'opera all'altra. Tutto quanto ho scritto dell'Ojetti per il volume Donne, uomini e burattini (1) vale per questo, V amore e suo figlio : i due si continuano in certo modo per il tono e per il tipo d'arte e per l'efficacia raggiunta, e insieme rappresentano un buon passo su Mimi e la gloria, un progresso grande sulle due prime raccolte {Le vie del peccato e II cavallo di Troia). Sono tre momenti progressivi nell'arte dell'autore, e, pur concatenati, rimangono chiaramente distinti. In tutti espertissima l'arte del raccontare piacevolmente: quell'altra, del penetrare qualche secreto meandro della più fonda anima, era quasi nulla nella prima maniera di racconti, tenui avventure di scet- ticismo elegante; cominciava a condensarsi, a concentrarsi inquieta su qualche ventura intima più che sugli intrichi esteriori, "nel vo- lume di Mimi; giungeva in alcune delle novelle dei Burattini a toc- care con semplicità magnifica il fondo della vita intima della crea- tura umana.

Anche nel libro d'oggi abbiamo dei burattini: Peppino Tortori, per esempio, e. Sua Eccellenza l'onorevole Giovanni Biravi, e, in fondo, Giovanni Stratti; c'è ancora talvolta l'interesse costruito sulla semplice ingegnosità, come nella prima, comicissima, o in quella in- titolata Gli occhi e il nuso; c'è ancora il cinismo impudente del com- mendatore Mastrilli, l'aridità sentimentale del marchese Talleri: ma più spesso qualche piega dell'anima umana è scrutata nel suo fondo più doloroso. Allora il mezzo borghese, o addirittura la vita più umile, ci porgono i loro tipi, e gli stati d'animo son quelli più comuni e più universali : Teta, Assunta, Vittoria : le umiltà e le avi- dità di tutti i giorni; Alberto Gori, Pietro Ravani, Gaspare Torelli :

(1) V. Nuova Antologia, dicembre 1912.

110 CHIUSURA DI STAGIONE NARRATIVA

gli uragani passionali che tormentano e spogliano d'ogni fronda di civiltà le povere volontà umane e ne lasciano a nudo la radice, be- stialità e delitto. Il cammino dell'Ojetti, già così ricco di vedute, mostra d'aprirsi sempre più ampio a sempre più varii orizzonti.

Invece la Deledda non ama procedere o mutare. Non va un passo innanzi, non un passo indietro. muta colore, gesto. Quello che ho detto del suo precedente romanzo (1) vale esattamente per questo. Eppure la materia della narrazione, la trama in cui essa si dispone, s'assomigliano. Qui ce n'é di più: secreti familiari, antichi delitti rimasti ignorati, ed espiati lungamente, uomini saturi delitto, donne impetuose d'amore, odii e amori strani, vagabon- daggi epici: ci sarebbe qui dentro un ricco materiale per un mosso e colorito romanzo d'avventure. Ecco un bell'esempio del poco in- tiusso che ha la materia nel dare il carattere all'arte. Nella fantasia della Deledda tutto questo materiale si deprime, si costringe, assume un colore uniforme, si vela di fumi nubilosi come la cima del Gen- nargentu ; é un continuo tono minore; caratteri, passioni, odii, amori, delitti e rimorsi son tutti diventati elegia, quella elegia ormai così nota e così caratteristica della scrittrice. I colori accesi ma cupi che abbiamo . osservato in qualcuna delle novelle pubblicate pur que- st'anno (2) hanno ceduto novamente alla tinta lamentosa che li ha vinti. È un'elegia di rassegnazione, un crepuscolo grigio. Noemi ed Efìx, come caratteri, sono, credo, nuovi nel mondo della Deledda, ma l'intonazione del romanzo non riesce a mutarsene, la cupa volontà del servo delinquente e fedele, la ferocia amorosa della donna, inducono allo stile, al quadro, al tono, la loro energia nuova e diversa.

I fascini dell'arte personalissima di Grazia Deledda ci son noti da tempo. Nulla se n'é perduto nel romanzo ultimo. Saprà lo strano e potente ingegno dell'autrice trovarne, per i romanzi avvenire, di nuovi?

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Due novellieri giovani.

Vincenzo Picardi con le sette novelle del Banchetto di Lazzaro si presenta per la prima volta al pubblico.

Sono tutti episodi di vita interiore; qualche situazione dolorosa dell'animo, dolorosa fino allo strazio. I protagonisti son tutti solitari, o per temperamento, o per inettitudine a conquistare la vita, o per accidentali sventure. La maggiore sventura è per gli uomini l'inap- pagato desiderio d'amore. Andrea Marchi ha un solo amore nella sua vita : e son briciole : le briciole dell'amore d'un suo amico, che egli aiuta trasmettendo le lettere alla fidanzata. C'è una breve rottura tra i due, cade qualche mica dal banchetto amoroso, l'illusione del solitario gli fa intravedere una felicità mai conosciuta : la delusione immediata, quando il dissidio si compone, n'é tanto più violenta e crudele. In un'altra {V Equivoco) è la tristezza dell'amore adultero,

(1) V. Nuova Antologia, 16 settembre 1912.

(2) V. Nuova Antologia, 16 gennaio 1913.

CHIUSURA DI STAGIONE NARRATIVA 111

gaia ventura fi'n ch'è una ventura, più doloroso d'ogni legame quando una contingenza lo porta al primo piano nel quadro della vita. An- cora più malinconico è l'adulterio di Emma, una creatura buona, tutta paga nella vanità della propria bellezza e della propria ele- ganza : un accidente le fa perdere un occhio; il terrore dell' imbrutti- mento la trascina alla colpa, che forse non avrebbe commesso mai, ma che sola le la certezza d'essere ancora bella, ancora desidera- bile. Altrove è ripreso con novità d'atteggiamenti e di conclusioni il motivo dell'amore che si sarebbe potuto cogliere, e non capito e non colto a suo tempo, fu perduto irrimediabilmente. Esuli tutti della vita amorosa; nessuno malinconicamente come Andrea, che non si accontenta di avere da una cortigiana l'amore che questa può dargli, vorrebbe da lei ciò ch'ella non ha e non può avere, e ne giunge a tale disperazione da preferire la morte alla rinuncia sentimentale.

La tristezza grave giunge qualche volta al grottesco: nella follia del tenore che non ha più voce e si foggia una mostruosa larva dei trionfi perduti : nell'atroce logica con cui Enrico Lamberti si conduce a una condizione vergognosa di vita, e vi si mantiene, contro ogni buon istinto, per una rigida costrizione puramente volontaria e ce- rebrale.

C'è qui dentro una forza vera, vergine ancora, commista d'ele- menti sovrapposti che la intorbidano, d'impacci che ne legano i mo- vimenti più efficaci, ma sincera, inquieta e inquietante. Non è facile raggiungerla con la critica per isolare e definire il suo carattere d'ori- ginalità. Si sente per quest'autore, così sincero, la necessità ch'egli semplifichi i propri mezzi d'espressione, si abbandoni con maggior fiducia al breve segno, all'immagine esteriore che vale a suscitare tutto il mondo interiore che la giustifica e l'avvalora. In altre parole, accuso il Picardi d'indugiare troppo nei campi grigi di quello che fu chiamato lo psicologismo : la descrizione dello stato d'animo è una forma timida dell'arte, ed è timidezza non da primitivo, ma da deca- dente. Ma il Picardi non è un decadente; anzitutto perché è, ripeto, continuamente sincero; poi j>erché sente robustamente il valore delle vite che rappresenta; infine perché i sentimenti su cui porta il suo interesse sono semplici, primordiali, universali e profondi. Si sente che egli vede in quella profondità. Confido che poco possa mancargli a raggiungerla del tutto.

Non è nuovo come novelliere ai lettori della Antologia Salvator Gotta. Una tendenza alla semplicità, alla ricerca della sanità della vita e all'espressione più candida di essa, fanno degne d'attenzione le sue novelle. Il Gotta ha fatto bene a lasciare il romanzo per la no- vella. Dopo tanti novelloni chiamati romanzi, dopo tanti libri in cui trecento pagine servono a raccontare un caso unico, quasi sempre o troppo misero o troppo poco interessante nella sua complicazione, sentiamo che non è più sopportabile il romanzo se non come rappre- sentazione molto complessa d'un largo e ricco quadro di vita umana. L'arte dello scorcio, l'impressionismo letterario (usato con garbo, come mezzo e non come fine), ci danno il modo di restringere straor- dinariamente le cornici delle rappresentazioni narrative, guada- gnando in intensità. E tendiamo al romanzo, ma inteso come un

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grande quadro complesso di costumi e di passioni; solo così useremo degnamente della fatica rispettabile di chi scrive un racconto di quat- trocento pagine e di quella ancora più rispettabile di chi lo legge. La coscienza di ciò, credo, è la causa della nostra scarsa produzione romanzesca.

Il Gotta ha visto dei casi di vita; si sente, in generale, che li ha visti davvero. E li ha espressi semplicemente, senza tentar di sfor- zarne l'interesse con l'ormai insopportabile mezzo della descrizione: descrizione 'di fuori e descrizione di dentro; intendo: la natura e l'anima. E ormai più fastidiosa quella di questa. Siamo stanchi di scenografìa. Oggi il teatro si regge tutto sulla minuzia del particolare scenografico sfolgorante; ieri ancora, anche l'arte narrativa faceva lo stesso. Ma siamo avviati bene, quanto a ciò. Certo, se abbiamo im- parato a vedere direttamente Yatto umano che realmente interessa l'arte, non abbiamo ancora trovato in noi la profondità, l'intensità, la grandiosità. intima ed espressiva, necessaria a vederlo tutto nella sua massima semplicità, e a renderlo in una specie eterna dell'arte. E allora accontentiamoci del semplice. L'arte del Gotta è modesta, e ne riesce simpatica. Potrebbe chiamarsi provinciale^ in ciò che la pa- rola ha di più piacevole : quanto fa bene un po' di provincia dopo l'ostentata e morbosa fatica della grande città! Un racconto come Janna Cosli o come 11 richiamo è una nota indovinata, venuta al mo- mento giusto. Mi piacerebbe dire che il Gotta tende alle m,elodia, ch'è la cosa di cui più abbiamo bisogno. Questo è il carattere più persistente delle sue contenute novelle. Si noti che qualche volta l'altra nota gli riesce molto bene: Società anonima è un saggio di grottesco commovente, molto nuovo e riuscito; La face sul gorgo poi è uno studio di colori accesi e intensi, d'un'efficacia che raggiunge quasi il terrore. E c'è in tutto il libro un contrasto di disinvoltura naturale e di raccolta ritenutezza che mi fa presagire anche meglio dell'autore di questa Porta del cielo.

Carola Prosperi ha una grande originalità, quella di non cer- carne alcuna. Ella ama trovare atteggiamenti nuovi in mezzi, in tipi, in combinazioni sentimentali comunissime; e forse non s'ac- corge della novità di quegli atteggiamenti, della propria origina- lità. È una raccontatrice sobria, e ha l'aria d'esser sobria non per arte, ma per ritegno, quasi perchè senta a ogni passo che la sua ma- teria è motto umile; ciò un fascino sottile e buono al suo raccon- tare. E ciò anche, perchè in arte non c'è materia umile, l'aiuta a sug- gerir meglio al lettore certo suo modo apparentemente semplicissimo, ma in realtà profondamente tragico, di penetrare gli abissi del cuore umano.

Anzi, il mezzo che l'autrice predilige, è il più atto a scavarvi per trovare la vita intima più intensa. È il mezzo umile, la piccola bor- ghesia. Ed è vista in tutto ciò ch'essa ha di più quotidiano. Il libro è pieno di crucci da massaia, minestre troppo salate, calze da rattop- pare, lumi che filano, maschi che brontolano, donne che ubbidi- scono : in questo mondo tutte le vite son vite mancate, come in tutti gli altri mondi del resto, ma senza grandi illusioni prima, senza lotta per attuarle, senza grossi schianti, senza tragedie romorose. Le

CHIUSURA DI STAGIONE N.\RRATIVA 113

mire, al punto di partenza, sono già umili; la volontà è ancor più umile e debole.

Ma la debolezza di queste anime, la ragione del loro mancare, Telemento distruttore delle vite e degli ideali, è, in tutti i casi che l'autrice ci presenta, una qualità positiva : è un eccesso di sensitività. La vit^ umile fa il cuore mite e pronto. E dove entra in giuoco il cuore, ivi l'opera, l'energia attiva, vengono meno, vien meno la con- quista. Appunto perchè l'opera è conquista, cioè lotta, cioè sopraffa- zione, invincibilmente. Gli eroi di Carola Prosperi non sanno mai sopraffare altrui se stessi.

Ma il cuore, che li vince, è pur la facoltà umana più raflBinata e suprema ; è quella che fa l'uomo uomo. La volontà di dominio è in qualche misura comune a tutte le vite, anche alle più brute, perchè la più semplice forma di vita è pur un dominio su qualche cosa. E quand'essa volontà assume, per il suo grado, un particolare inte-. resse, ha sempre, inevitabilmente, qualcosa di duro, d'utilitario, e di teatrale, che la fa meno profonda. Ma il povero umile cuore che vibra tanto e non serve a nulla e non ama mostrarsi a nudo è tutto nostro, ed è il centro vero della nostra superiorità e della nostra complessità magnifica. Ecco perchè il mezzo umile in cui l'autrice scruta è quello in cui v'è maggior possibilità di raggiungere le corde ultime e prime dell'umanità. Ognuna di queste persone minime dice, nel momento giusto, certe frasi terribilmente felici : Vittorina che scrive al marito infedele : « ho anche capito che la colpa non è tua » ; o Virginia che posando il capo sul petto di colui che diverrà il suo amante gli geme : « come mi farai soffrire! »; o tante e tante altre che illuminano abissi di coscienze spaventosi, negli animi che parvero più ignari e passivi. Non so, ripeto, se l'autrice se ne sia resa ben conto. Ho detto che ella scruta; forse guarda soltanto, e senza sforzo vede fin laggiù: certo vede molto giù chi ha potuto intuire la pas- sione di Luigia nel racconto intitolato II suo cuore.

Forse a questa invidiabile incoscienza la Prosperi deve il suo raccontare breve e rapido, a segni, perfettamente consono alla na- tura dei sentimenti e delle vite di cui fa oggetto. Ha degli scorci bel- lissimi; sa alternare la scena rappresentata, con le improvvise strette in cui si assommano tutti i necessari passaggi da uno stato d'animo all'altro. Ciò è molto raro oggi, e miracoloso in donna : c'è di rado (e allora disturba molto) l'ingombro di commenti personali dell'au- tore. La Prosperi vive perfettamente estranea agli influssi oggi più comuni, a quella smania del levigato e dell'enfatico che tiene ancor tanti : vive e scrive, singolare felicità, fuori della letteratura.

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Due romanzi.

Giuseppe Baffico, lode a lui, ha eercato di fare un romanzo di- vertente, niente altro che divertente. In un altro {La vittoriosa) egli ci aveva raccontato l'avventura amorosa e delittuosa di Emma Hel- ving che d'accordo con l'amante ha fatto chiudere il marito in un manicomio. // vinto è il seguito di La vittoriosa : ed è una corsa d'avventure romanzesche per cui alla fine il delitto è punito e l'inno- cenza trionfa. Questo mi piace. V'è in ciò una linea melodica, oggi molto rara. E c'è il gusto del romanzo d'avventura: ho già confes-

o Voi. CLXVII. Serie V. Settembre 1913.

114 CHIUSURA DI STAGIONE NARRATIVA

sato, a proposito del Varaldo (1), i miei gusti in proposito. Il Baf- fico però m'appare, da questo romanzo, troppo modesto per un così audace proposito. Quando ci si caccia nell'avventura non bisogna avere più ritegni; non basta il giardinetto, ci vuole la selva: altri- menti se ne genera una sproporzione alquanto spiacevole. Ciò avviene nel Vinto, che in questo senso mi riconduce qualche passo indietro dal Varaldo. Alla ,fìn fine costoro non sono che epigoni di Anton Giulio Barrili; specialmente II vinto ricorda molto il genere, certi tipi, e più che altro il gusto dei romanzi del Barrili; che del resto non è tutto da buttar via come molti credono. Ma che davvero nella terra che creò VOrlando Furioso non ci sia da sperare niente di più?

Ecco un soldato, un marinaio, che scrive la prefazione (e quanto deliziosa) del suo penultimo libro dal cacciatorpediniere « Strale » e quella dell'ultimo da Tobruk : Guido Milanesi. Anthy ha per sotto- titolo « romanzo di Rodi », e nel tagliarne le pagine vengono sott'oc- chioi nomi di Fenzi, Millo, Ameglio, come delle dramatis personae; e altri nomi che ci fanno commuovere al solo vederli scritti in un romanzo: Spica, Perseo, Astore, Clirnene, Centauro. Le scene sono a Rodi e nei Dardanelli.

Mi sono gettato sul libro con avidità, con la certezza di leggere finalmente qualche pagina viva, qualche cosa che appaia vista con gli occhi e raccontata col cuore: semplici l'uno e gli altri. Un libro d'un uomo, finalmente, e non d'un letterato. Perchè si può essere uomo anche quando si è letterato. In verità preferirei che ci fosse tra le due categorie zoologiche un'assoluta incompatibilità. E che i lette- rati scrivessero pure; io leggerei soltanto i libri scritti dagli uomini veri, sicuro di non incontrarmi con la letteratura. Invece pur troppo non è così. Anthy è un racconto romantico, costruito con semplicità e abilità, attorno ^ll'impresa di Rodi e alla spedizione eroica del 17 luglio 1912 nei Dardanelli : un po' un contraltare ai racconti del Loti, mantenuto tuttavia, per quanto riguarda l'avventura amorosa su cui il racconto s'impernia, nel più puro gusto del Loti stesso. Ma questo non importerebbe molto; la sentimentalità letteraria dell'in- venzione non guasterebbe : l'invenzione è sempre non altro che un pretesto per organare delle visioni. Il male si è che il morbo lette- rario sciupa alquanto il modo di vedere di questo eroico marma io, quand'egli lascia il ponte di comando per scendere in cabina a pren- dere la penna. Vorrei sentire l'uomo d'azione, l'uomo semplice, illet- terato, se fosse possibile, anche sgrammaticato, privo di vocabolario, impacciato nello stile, nella sintassi, dalla memoria assolutamente immune da modelli, che mi dicesse le cose uniche ch'egli ha visto e sentito, egli e non altri, se non i pochi che le hanno viste con lui. Invece il Milanesi ha letto troppi libri, e conosce troppo bene la grammatica e tutte l'altre cose che si insegnano. È un vero peccato. Così alla sua visione si sovrappone sempre qualcosa di studiato e di cerebrale che la intorbida. « La terra? Una perpetua officina di sa- crificio circondata dallo sprezzo colossale del mare ». Ecco uno che ha letto Victor Hugo, o qualcosa di simile. « Ed allora la realtà passò

(1) V. Nuova Antoloain, 16 gennaio 1913.

CHIUSURA DI STAGIONE NARRATIVA 115

come soflBo sulla sua anima accesa e ne spense la fiamma ». Ha letto d'Annunzio, ohibò! « Muscoli, cen-ello e sangue s'impre^rnavano a poco a poco di quest'odore che pareva poter modificare la loro com- posizione... »: qui ci sono gli ultimi scoli della fogna realistica. Una soave fanciulla si uccide, gettandosi m mare da un'alta roccia : « E, madrina la Morte, mosse verso l'amplesso glauco che contorce i corpi fino ad un ultimo guizzo : sofferse al bacio sinistro, avido, fondo, che aspira tutta la vita e lascia aperte per sempre le bocche asfissiate ». E qui confluiscono tutte le scuole franco-italiane che hanno lasciato tanto cumulo di complessa falsità nel nostro gusto letterario. Anche le pagine ov'è descritta la notte nei Dardanelli son piene di queste sovrapposizioni ; ci commuovono per forza, perchè la nostra fantasia istintivamente, di mano in mano che leggiamo, sem- plifica quel groviglio d; paragoni, di sinonimi, d'armonie ricercate, di minuzie psicologiche, di rarità coloristiche, e da scende ansiosa giù, al fondo, alla cosa viva, alla cosa grande. Così grande che tutta quella sollecitudine estetica la offende. Ricordo che un giorno, a Venezia, il Fenzi mi fece quello stesso racconto. E una volta sola si servi d'un paragone : dello specchio d'acqua di dal proiettore di Kilid Bahr, tutto battuto dal fuoco turco, diceva che sembrava la su- perfìcie d'una pentola di fagiuoli quando bollono forte. Creda il Mi- lanesi, questo paragone vale tutta la descrizione sua, tutte quelle dei giornalisti di guerra, tutte quelle che ne farebbe Gabriele d'An- nunzio, il gran peccatore.

Ho indugiato su queste cose perché l'occasione era ottima del mostrare il male che ci corrode. È destino che una nuova retorica ci opprima sempre. Fu per secoli quella del Boccaccio, e ce n'eravamo liberati. Ora è succeduto al Boccaccio il d" Annunzio. L'occasione, dico, era ottima. Perché qualcuno tacciandomi d'inopportuna seve- rità verso il Milanesi, mi potrà dire : Ha fatto qualcosa di meglio che scrivere, avrà pure il diritto di non scriver bene. No, no, ri- spondo, la cosa sta appunto nel modo contrario : egli è tal uomo, che se scrive ha il dovere... di non scriver bene. Anlhy è in fondo un ro- manzo abbastanza piacevole e troppo studiatamente ben faUo : per fare un romanzo così basta un buon letterato, e ne abbiamo, ahimè, già tanti!

Di bei romanzi saprebbe fare Guido da Verona, se avesse buon gusto. Non so dei precedenti, il romanzo ultimo è un curioso misto di qualità rare e di gusto morboso e vecchio. Una incarnazione an- cora del tipo del superuomo, come ce lo ha grossamente presentato molti anni sono Gabriele d'Annunzio, e come lo hanno deformato e rimpicciolito fino al fastidio gli imitatori. Ma il da Verona non è un imitatore. E un raccontare ad amplificazioni ampollose e a descri- zioni tronfie in cui della natura si fa la psicologia, dei senlim.',-nti si cerca di dare figurazioni materiate, e il tutto si confonde nella sdita superficialità d'un verbalismo dalle facili sonorità e dai colori vi- stosi : come ormai han fatto tanti, fino alla sazietà. Eppure il da Ve- rona non è uno di tanti.

No : egli non è un imitatore, egli non è nemmeno uno qualunque d'un gregge. Suo malgrado, è originale e vede potentemente. Ce in

116 CHIUSURA DI STAGIONE NARRATIVA

questo denso romanzo un enorme squilibrio, clie sciupa l'opera d'arte, quale l'autore l'aveva corto voluta ed amata, e lo salva ai nostri occhi, per il tesoro di sane qualità che ci svela.

Il solito delitto dell'uomo unico, la solita costruzione di sofismi sui diritti che ha il poeta grande, il medico grand©, l'esploratoro grande, ecc., ecc. (qui si tratta di un medico) di violare non pure le leggi, ma anche i sentimenti più umani; e l'analisi, o. meglio la rappresentazione immaginosa, dei più sottili e morbosi stadii psico- logici per cui passa l'avventura di delitto e di lussuria, con un risultato finale di natura vagamente filosofica: questa la trama este- tica del romanzo, quale l'autore lo concepì e lo amò. A ottenere que- sto, bastava, anzi era opportuno, concentrare tutta la rappresenta- zione su quella ventura e su quei sentimenti; bastava, ed era oppor- tuno, limitare il romanzo alle sue persone principalissime : An- drea, Novella, Giorgio, dando all'ambiente, alle persone secon- darie, all'intrico di fatti esterni (la cui variabilità nulla importa a quella materia principale) il minimo possibile. Non occorreva nep- pure crear molto vivi i protagonisti Andrea e Novella , che allo scopo e artistico ed etico, qualunque esso sia, dell'autore, basta un presupposto semplice, una costruzione teoretica. Infatti Andrea, seb- bene descritto con abbondanza dentro e fuori, non ci appar vivo; No- vella poi non è una persona, è una nuda ed esangue larva.

Invece l'autore è stato trascinato a creare attorno al mondo pseu- do-superiore della passione principale, tutto un mondo inferiore di persone e di atti, se Dio vuole, quotidiani, comuni, immuni d'ogni rarità estetica e d'ogni compito etico : e questo m.ondo gli è riuscito maravigliosamente vivo, fresco, nuovo, interessante. La vita a villa Landi, tutta la famiglia di Novella, la deliziosa Maria-Dora, i due vecchi, lo scemo profondo; eppoi tutto l'intrico sudicio degli pseudo- giornalisti, Tancredo (una figura tipica indimenticabile), Saverio Metello, Dandolo Zappetta: tutto ciò non era perfettamente inutile ai fini del romanzo? L'ambiente familiare non ha nessuna azione o reazione sugli amori e sui delitti di Andrea e di Novella; le lotte di partito e d'intrighi contro Andrea non solo cadono nel nulla nella vicenda materiale narrata, ma non hanno nessun influsso sul suo contegno intimo successivo: non servono nemmeno a spiegarcelo, perchè esso è quale (non dal carattere che, come ho detto, manca, ma dall'ipotesi che lo sostituisce) sapevamo perfettamente che sarebbe stato.

I due opposti atteggiamenti dell'autore si rivelano di continuo, non solo nel passare dallo sviluppo del tema principale a quello dei disegni secondari, ma ogniqualvolta si passa dalla rappresentazione oggettiva alla esposizione narrativa. Ci sono dialoghi familiari squi- siti, a volta a volta, di semplicità e d'arguzia; e poi d'un tratto ecco con che stile mi si dice d'uno scemo cui piace una serva : « egli l'a- mava d'un amor voglioso e tutto ne ardeva nel fuoco d'una tardiva pubertà »; e peggio ancora del grossolano Tancredo che dà, credo, un pizzicotto alla stessa serva : « dopo, quand'ella ebbe le braccia ca- riche del vassoio.... poiché il tempo della notte lo pungeva d'irre- quieti spiriti, un'altra carezza le diede che più nulla di paterno aveva, ed in tal parte di lei senza rossore, che, per contrasto, fecela nel volto arrossire ». Figuratevi quale diventa l'espressione quando le persone son quelle su cui si volge la maggior luce, negli infiniti com-

CHIUSURA DI STAGIONE NARRATIVA 117

menti che l'autore sovrappone a ognuno dei loro atti, anche a quelli che ne hanno minor bisogno. Commenti tutti di natura, vorrei dire, scenografica.

Abbiamo in tutti gli ordini, nelle immagini, nelle intenzioni etiche, nell'attuazione stilistica, due mondi, avvicinati ma non fusi, repugnanti anzi, ma senza che da questo repugnare derivi una supe- riore ragione d'arte, diversissimi: l'uno è vivo e sincero e vero, l'altro è tutto peso morto. Il peso morto è ciò che l'autore ha amato, il mondo vivo è ciò che dovrebbe apparirgli ingombrante e inferiore : misteri delle coscienze e delle incoscienze dei poeti.

Tutto quanto ho detto finora potrebbe far credere che la mia stima per il da Verona sia limitata a quello che in lui è l'autore ane- dottico, rappresentcìtore spigliato e vivace della vita nelle sue forme e de' suoi tipi più superficiali e contingenti; ma incapace di assur- gere alla rappresentazione di qualche cosa di più univesrale e di più intenso. Non è vero: ho fede che egli, se riesce a liberarsi dalla sua pessima educazione filosofica ed artistica, possa raggiungere anche l'intensità e l'universalità che sole fanno veramente grande que- st'arte. Due cose nel romanzo mi danno questa fede. Una è lo strano fascino che l'autore ha saputo mettere nella figura di Marcuccio, il mentecatto, che percorre tutta la narrazione della sua scempiaggine piena d'una inquieta profondità. L'altra è il dialogo notturno tra Giorgio e la moglie : non credo d'aver letto in questi tempi nulla di più profondamente commosso ed umano. Peccato che l'autore abbia voluto dargli un compagno, nel dialogo assurdo e inumano di Gior- gio ed Andrea! Non andare oltre il segno, ecco la virtù più rara e diffìcile, tra quelle che si possono imparare con l'esperienza.

Massimo Bontempelli.

RASSEGNA DRAMMATICA

Dal " Teatro per tutti ,, al " Caffè-concerto per famiglia ,,

Il « Teatro per tutti », diretto da Lucio d'Ambra e dall'attore Achille Vitti, e le rappresentazioni del quale si sono seguite nella « Sala Umberto », bandiva un concorso. Naturalmente per lavori in un atto : il premio di lire « trecento » da assegnarsi dal pubblico. Alla rappresentazione, cioè, gli spettatori, con votazione, avrebbero desi- gnato il lavoro creduto meritevole. La Commissione giudicatrice, giu- dicatrice in primo grado, doveva presentare al giudizio della platea tre lavori. E la Commissione, fra i cento e più, mandò a questo giu- dizio : Il Piccolo Faust di Gian BistoLfì, La Torre di pietra di Camillo Antona-Traversi, Carambola di Pio Vanzi. Propose inoltre, e fu ac- cettata dalla direzione del « Teatro per tutti », la rappresentazione, esaurita la prima gara, di altri tre lavori : L'ultima di Salvatore Aponte, La madre di Enrico Boni, / due ladri di Maria Carutti. Della gara per il premio riuscì vincente dal verdetto degli spettatori, Ca- rartibola di Pio Vanzi.

Lasciamo andare, nella loro piccola miseria, i consueti luoghi comuni che accompagnano i concorsi per la scena di pròsa; luoghi comuni che hanno la loro espressione adeguata, e cioè meschina, alla rappresentazione pel contrasto dei pareri, e nel commento della discussione per le tenerezze specialmente che turbano la sincerità della critica. Notiamo invece un caso pietoso e una benemerenza, non rilevando i quali non si darebbe il meritato biasimo a una triste usanza, e non si darebbe l'incoraggiamento che è giustizia a un illuminato criterio fecondo di risultati di speranze buone. Notiamo: perchè a furia di picchiare la triste usanza dovrà pure portare alla fine un onesto ravvedimento; e perchè l'incoraggiamento, di giustizia, ripeto, potrà condurre, nell'esempio opportunamente bene inteso, a salutari benefici per le sorti della scena paesana. Se di questa scena, a fatti e non a chiacchiere, abbiamo l'ambizione di un continuo e il- luminato progredimento, non possiamo a meno di schiettamente provvedere a sanare i mali e a raccogliere il bene, quali si siano di questo bene le proporzioni.

La triste usanza è questa, e la documentazione è dolorosa e nu- merosa quanto mai. Si declama in ogni tono, e con concioni magni- loquenti accompagnate da tutti gli sbracciamenti, che occorre ten- tare, osare, operare insomma, con tenacia di volere, lottando fiera- mente contro qualsiasi ostacolo, per la idealità di una scena italiana : italiana, italiana : per l'autore e la sua produzione, per l'attore e

RASSEGNA DRAMMATICA 119

la sua interpretazione, per il teatro di prosa in genere in tutti i suoi ingranaggi: e si vuol rinnovare, rifare, creare, tutto quanto e a capo. Ma appena appaiono, in penombra anche, tentativi per avviarsi alle conquiste e alle vittorie invocate, la turba appunto di quei declama- tori si precipita furibonda e giù con ogni possa a contrastare, a tur- bare, a distruggere se riesce. È grottesco, certo, ma è anche penoso; penoso, perchè il sistema sciagurato si abbatte particolarmente sui giovani che sciolgono il primo passo; e sono giovani quelli che si rendono colpevoli del peccato che non ha perdono per il danno che compie. Se il sistema fosse mosso da idealità diverse, si comprende- rebbe e potrebbe riuscire anche fecondo; ma nessuna idealità anima alla malefica azione. È sempre o bassa invidia d'impotenza, o mani- festazione di ignoranza che si rode, o nullaggine che si arrabatta ad apparire persona. Che delitto! Le prove dei giovani debbono trovare sincerità di valutazione sì, ma braccia aperte di cuori trepidi di vittoria; specialmente poi in quanti cercano muovere anch'essi « primi passi ».

La benemerenza è della direzione del «Teatro per tutti»; di Lucio d'Ambra, illuminato animatore, particolarmente. Lucio d'Ambra che si vendica di crudeli ingiustizie patite nella sua ope- rosità nel più nobile modo : trovandosi alla direzione d'una scena, apre l'ardua porta ai giovani che hanno il diritto di tentare, che meritano appunto l'accoglienza delle braccia aperte; e più ancora: la fraterna mano tesa a vincere le asprezze, sgomentatrici a volte dei migliori, della via che porta alla ribalta, che porta all'attenzione degli spettatori e della critica. Infatti, la conclusione del Concorso del « Teatro per tutti » è consolatrice. Dei giovani sono giunti con la loro fatica sulla scena; e han potuto dimostrare che la loro ambi- zione non è stolta; che il loro tentativo è meritevole; che se l'eccesso della lode amica non li turberà, e sapranno valutare, a traverso l'ap- plauso e l'aggettivo, troppo caloroso l'uno troppo affettuoso l'altro, sapranno valutare le risultanze di questa loro fatica, ritorneranno al lavoro con maggiore lena, con sicurezza maggiore, la incerta, visione di più largo quadro, di più elevato grado si chiarirà nel loro spirito, e potranno procedere ciascuno per l'ideale che vagheggia e che forma la sua legittima ambizione. Così il Gian Bistolfì, che pare sia attratto dai dibattiti delle anime; così il Vanzi, che pare veda ironicamente i capricci della vita e cerca riderne commiserando; così il Boni, che mostra di avere della scena un diritto e alto senso di dovere sociale; così l'Aponte, che già afferma nel quadretto non solo l'osserv^azione arguta ed espressa con finezza tra il sorriso e la emozione, ma anche linee di carattere. S'intende: e per la tenuità dei quadri, e per le ragioni stesse dell'?//? atto, questi giovani autori pec- cano chi più chi meno di parecchio nella tecnica; ma tutti hanno rivelato coscienza di contenuti. La tecnica verrà, e non la imporranno le consuetudini e le tradizioni di quella goffaggine che è il labora- torio teatrale; ciascun autore troverà, come è ragionevole, la tecnica adatta ai suoi contenuti : e avrà poi, se gli reggerà il serio volere, il suo aspetto, aspetto pure appalesato sebbene in tono di vagito nei quadretti d'ora. Epperò tutti tornino al lavoro. Ma le disapprova- zioni che in tonalità ed in misura varie non mancarono alla rappre- sentazione? Ah, quelle disapprovazioni!... Non ridano, no, dei pareri

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contrari, e non li trascurino i giovani autori; sappiano solo esatta- mente valutarli.

Questa benemerenza del « Teatro per tutti », porta a una do- manda che sorge spontanea : I « teatri minimi », i « teatri a sezioni », vale a dire questi teatri dedicati alYatto unico o ai due atti, che si svolgono nell'ora di durata della sezione, servono o no a qualche cosa nei riguardi delle fortune della scena di prosa? Ecco, per rispondere utilmente occorre giudicarli in relazione alle condizioni nelle quali una scena di prosa si trova in un ambiente. dove la gente, la folla, che non è ancora pubblico, non accorre al teatro di prosa, sia perchè non ne abbia ancora la passione, sia perchè è male avvezza per ra- gioni varie e vuole frequentare il teatro senza passare per il botte- ghino, sia perchè la sua situazione finanziaria non le consenta di accedere al teatro per il prezzo elevato del biglietto, il teatro a se- zioni può avere la sua ragione di essere e il suo fine, quindi riuscire a risultati. Innanzi tutto può persuadere i più, per il prezzo uguale a quello del cinematografo, a lasciare di quando in quando la pelli- cola e avviarsi alla scena di prosa; può abituare poi a poco a poco coloro che non vogliono passare per il botteghino, a cercarne e a trovarne finalmente la benedetta via; e può, infine, se guidato con accorgimento il repertorio, destare, alimentare, far diventare anche prepotente negli animi che ancora non l'hanno la passione della scena di prosa: così da far nascere in questi, che pur troppo grande folla, la volontà di una scena di prosa compiutamente detta, e accorrervi solleciti appena la scena di prosa avrà compreso che il prezzo del biglietto va diminuito, va reso adatto alle borse di tutti. Ma ho detto che per i teatri di prosa a sezioni il repertorio deve essere guidato con accorgimento. Questo : elevarlo di tono e di grado : e si può; non confinarlo nell'atto unico delle quattro chiac- chiere più 0 meno graziose o della emozioncella in prima pelle. Si debbono, e si possono, ripeto, formare programmi, i quali mai di- menticando la dilettazione dell'arte speciale, diffondano germi di .teatro di pensiero e di arte, pei quali son raggiunti in conseguenza anche i fini civili della scena di prosa.

Quanto a coloro che credono di potere, scrittori, affrontare la scena, il teatro a sezioni può avere una tal quale utilità; per quei giovani, in ispecie, i quali prima di osare il più vasto quadro, come deve essere certo nella loro ambizione, vogliono provarsi in un primo passo che indichi ad essi qualche cosa relativamente a quanto sen- tono nell'anima, evitando pericoli maggiori per non restarne tur- bati profondamente nei propositi. Inoltre, uno scrittore, e ne ab- biamo esempi ricordevoli anche noi, può voler dire qualche cosa e avere una visione per le quali siano adatte, e forse necessarie, le proporzioni dell'» atto unico » : e se i « teatri a sezioni » offrono com- pagini di attori, e non già accolte di « senza scrittura », lo scrittore può forse trovare più sicuro, per il risultato che chiede, il « teatro a sezioni » e non la più vasta scena. Ma. giovani al primo passo e scrit- tori già affermati, corrono un pericolo gravissimo sulla scena del « teatro a sezioni » : un pericolo dal quale si è travolti spesso senza avvedersene, ma che certo conduce gl'ingegni nati per la scena alla rovina : e il pericolo è il genere Grand Guignol.

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Se mi si chiedesse : Che credete più necessario e più utile al rinnovamento o alla formazione addirittura d'una scena di prosa, i « teatri a sezioni », come si intendono da noi, o quei teatri cosiddetti à còtés, di tentativi, di avanguardia, di ardimenti, che all'estero hanno portato contributo prezioso al teatro Ucizionale? , risponderei sol- lecito: « I teatri à cótés ». Quei piccoli teatri cioè che gruppi di gio- vani o di scrittori, all'estero si è avuta la fortuna di vederli fon- dare anche da attori, e con quale risultato benefico e solenne! che gruppi di giovani o di scrittori, chiesuole benedette, hanno voluto per la vittoria delle loro idealità : liberi, audaci, insolenti, perfino folli, ma nei quali era sempre il germe di qualche cosa che poi equi- librandosi ha concorso alle migliori sorti dell'arte. Ma sono ugual- mente persuaso che da noi sarebbero impossibili queste belle e fiere e fruttuose sceniche battaglie. Se per un caso, addirittura straordi- nario, si riuscisse a uno di questi piccoli teatri, alla prima rappre- sentazione gli stessi compagni della chiesuola si affollerebbero in platea non per difendere la idealità bandita dalla scena dagli altri compagni contro il pubblico che reagisse, ma per unirsi al pubblico insultatore precisamente di quella idealità che avevan giurato di rendere vittoriosa e trionfante! Siamo fatti così. La documentazione di questa mia affermazione non per « teatri à coiés », mai osati fra noi, ma per rappresentazioni di scrittori che degnamente tentavano alla ribalta della patria, è semplicemente vergognosa : e insistere a ricordarla è repugnante.

Risponderei, dunque, alla domanda: «I teatri à cótés»; ma quello che non vorrei vedere tentato mai, è il Grand Guignol. Contro il Grand Guignol combatterei con ogni asprezza, sicuro di compiere un dovere : d'arte e civile. Così mi duole di dover rilevare nella Torre di pietra di Camillo Antona-Tra versi, uno dei lavori del Concorso del « Teatro per tutti » scelti per la gara del premio, la tendenza al Grand Guignol: specialmente se si tien conto, e si è tenuto conto e non si poteva altrimenti, che nella Torre di pietra vi ha una scena fortemente tragica e trattata con valore. Ora il genere Grand Guignol, mentre si disperde nella terra di origine, sta per varcare la frontiera nostra, come accade costantemente; e l'imitazione, l'antica inguaribile malattia paesana per la scena, se ne va impossessando. Oh, via, via dai repertori dei teatri di prosa italiani l'indegno e nefasto gene- racelo, via; e cjuanto è triste pensare che una compagnia italiana si sia consacrata unicamente alla rappresentazione del repertorio gran- guignolesco! La fortuna del quale è sintomo sciagurato : vuol dire che, a teatro, lo spettatore non è ancora così sano e così forte, così illuminato, da non sentirsi attratto da quei quadri che suscitano schifo e indignazione. Turbatori di animi fiacchi e di coscienze oscure; la cui ragion di essere non ha alcun pretesto; adatti solo a alimentare ignoranze, delinquenze, perversioni. Nulla per l'arte, se non un oltraggio; e per la civile vita la più stupida e la più infame corruzione. Ben altro i corpi sani e gli animi sani debbono chiedere alla scena! Quelle aberrazioni possono sedurre gli smidollati e i tristi, d'ogni grado e d'ogni categoria. Questa magnifica giovine Italia, rigogliosa di salute fìsica e morale, forte e salda di reni e di cer- vello, deve scacciare con ogni violenza, dalle scene grosse e piccine, il «genere granguignolesco»; che è cretino nei riguardi del più sbri- gliato ideale d'arte, e dannoso a coloro i quali, scrittori, si lasciassero

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tentare, e spettatori, vi trovassero attrattive. Gli uni e gli altri sarebbero per la predilezione giudicati.

Il « Teatro per tutti » quindi, o « Teatro a sezioni », o « Teatro minimo », se sa raggiungere i buoni scopi accennati, e per gli autori e per gli spettatori, abbia pure la fortuna; e sappia combattere il ci- nematografo in tutto quanto il cinematografo va combattuto; e sappia offrire ai giovani più facile campo alle prime prove, o ai tentativi quanto si voglia singolari; e sappia formare programmi che elevando il suo grado, siano utili, nelle espressioni d'arte e di pensiero, alle folle che possono spendere numeratissimi quattrini per il teatro di prosa; e sappia ancora, il nobile ideale, la grande mèta, preparare appunto queste folle, per le ricordate espressioni d'arte e di pensiero, a quel Teatro del popolo che dovrà essere il vero « Teatro per tutti », il teatro di prosa per eccellenza : altamente, illuminatamente, e uni- camente detto. Ma per riuscire a questa suprema e sacra conquista, occorrerà che un altro genere di spettacolo « a poco prezzo » non si lasci fiorire. Questo spettacolo è il cosiddetto « Caffè-concerto per famiglia ». La sconclusione del titolo, nel programma è evidente. Furberie impresariali. Si tratta di « Caffè-concerto », tale quale, con annessi e connessi : a volte con qualche ipocrisia di gonnella più lunga, di parola detta e non detta,, di gesto fatto e non fatto : velature che per la reticenza rendono a teatro, nei casi, il desiderio più an- sioso. Certo è spettacolo non pericoloso come il « cinematografo » quando è pericoloso; ancora meno, e non ributtante, del « Grand- Guignol»; ma può diffondere ugualmente nelle folle germi che è necessario non allignino, se si vuole, e si deve, destare nelle moltitu- dini l'entusiasmo per una scena di prosa, bella di libertà, e nobilis- sima ai fini di arte, di pensiero, e civili.

Edoardo Boutet.

IL GENERO DI FRANZ LISZT

EMILIO OLLIVIER E LA MUSICA

La morte di Emilio Ollivier ha fatto rifiorire molti ricordi sulla azione del primo ministro di Napoleone III, il quale ebbe troncata li vita politica da quella guerra fatale che egli aveva avuto il torto e la disgrafia di accettare troppo a cuor leggero: si è rammentata l'opera sua di avvocato, di deputato, di uomo di Stato, di storico di quell'impero da lui proclamato liberale, che si sfasciò mentre egli era al potare. A me sembra non inutile ricordare invece un altro aspetto della sua vita, per cui il nome di lui è intimamente legato con quello di Franz Liszt, e con l'arte così nobilmente rappresentata dall'illustre pianista e compositore ungherese.

E con lui rivive nella mente nostra la simpatica e serena figura di Blandina Liszt, primo frutto dell'amore di Franz con la contessa Maria d'Agoult: Blandina, nata nel decembre del 1835 a Ginevra, ispirando al padre una pagina musicale, Le campane di Ginevra, che suonavano a distesa quando venne al mondo la fanciulla dalle chiome d'oro; e poi la prima canzone da lui scritta, AngioHn dal biondo crin, su versi italiani di Cesare Boccili. Non so trattenermi dal ripetere qualche periodo della lettera che il padre felice scriveva nel giugno del 1839, da Albano Laziale, a Roberto Schumann : « Sapete, o non sapete, che ho una figliolina di tre anni, che tutti son d'accordo a trovare angelica (vedete che banalità!;. Il suo nome è Blandina-Ra- chele, e il soprannome Moscerino. Non occorre dire che ha una car- nagione di rosa e di latte e che i capelli biondi dorati le scendono fino alle calcagna, proprio come una selvaggia. Del resto è la bam- bina più silenziosa, più dolcemente grave, più filosoficamente gaia di questo mondo. Inoltre, ho tutte le ragioni di sperare che non sarà musicista, e da ciò la preservi Iddio! Ebbene, mio caro signor Schu- mann, due o tre volte la settimana (nei giorni belli e buoni) le suono la sera le vostre Scene infantili, ciò che encusiasma lei e me ancor più »...

Di Blandina, al pari di Cosima e del figlio Daniele, curò la edu- cazione e l'istruzione : in una importante lettera all'abate de Lamen- nais (18-V-1845), in cui si occupa e preoccupa della legittimazione delle due figlie e del figlio avuti dalla d'Agoult, accenna che la sua figlia maggiore è educata, come meglio non si può, presso la signora Bernard, giusta accordi presi con la madre; nel 1851 essa, con la sorella Cosima, era ancora a Parigi, affidata alla signora Patersi già

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governante della principessa Carolina Sayn di Wittgenstein, la quale da pochi anni aveva legato il suo destino con quello di Franz Liszt. E con la signora Patersi fece venire le due figlie a Bruxelles, nel 1854, soltanto per rivederle e riabbracciarle, dopo non breve tempo di separazione.

L'anno successivo però la Patersi si ammalò gravemente e la marchesa d'Agoult invitò il Liszt a fare una corsa a Parigi per inten- dersi su ciò che convenisse determinare ove la buona signora venisse a mancare : si vede bene che doveva esser questa un'ottima persona, non priva di un certo umor gaio; una volta, dopo aver sentito il grandioso Te Deum del Berlioz, s'criveva al Liszt che da allora nelle sue preghiere avrebbe aggiunto : « Preservateci, Signore, dalla peste, dalla guerra, dalla carestia e dai Te Deum di Berlioz! » Franz Liszt informava la sua amica Agnese Street Klindworth (4-VI-1855) che le notizie della Patersi gli lasciavano ben poca speranza di conser- varla : « bisogna che pensi ad altre disposizioni per le mie figlie, e siccome non voglio per piìi ragioni affidarle alla madre, probabil- mente farò loro cambiare aria e le farò venire in Germania, a Dresda o a Berlino », E, pochi giorni dopo (lO-VI-1855) : « Secondo le ul- time notizie la signora Patersi sta un po' meglio; ma io non oso spe- rare nella durata della guarigione alla sua età, e molto probabil- mente collocherò le mie figlie a Dresda presso la signora Bitter (madre di Carlo e Alessandro Bitter, il noto compositore) nella quale ho piena fiducia e che non mi rifiuterà così gran favore. È una donna di un carattere rispettabilissimo, di uno spirito giudizioso e coltivato, e le mie figliuole troveranno ogni sicurezza e sufficiente diletto in sua casa. Daniele resterà ancora un anno al Liceo Bona- parte ove continua i suoi studi con molto profitto».

Andò infatti a Dresda; e alla stessa amica scriveva (7-VII-1855} : « Probabilmente la signora Bitter accetterà di tener con le mie fi- gliuole per un. anno o due, dopo di che è presumibile che si marite- ranno. Vatmosfera di Parigi diviene per loro sempre più malsana. ...D'altronde non posso voglio tenere le mie figliuole sotto il mio tetto dell'Altenburg (dimora della Principessa di Wittgenstein). Sol- tanto io credo che sarà loro utile passar qualche tempo in Ger- mania, e Dresda o Berlino mi sembrano le città per esse meglio in- dicate a questo scopo. Io non ho ancora detto loro nulla di questo progetto e non le informerò se non quando le rivedrò, per evitare ogni riflessione e spiegazione superflua. Si hanno già abbastanza preoccupazioni per cose necessarie e inevitabili per risparmiarci al- meno in questa materia il superfluo, per quanto sia, d'altronde, ne- cessario! »

Non fu possibile addivenire alla combinazione per Dresda, a causa dell'appartamento, per cui non potevasi (a quel che sembra) far luogo a cambiamento per accogliervi le due fanciulle, fino alla primavera dell'anno successivo, mentre il padre non voleva tardar tanto a farle sgombrare da Parigi, che per loro non era utile dimora. « Per conseguenza (16-VII-1855) è mio dovere pensare a quel che sarà utile e profittevole alle mie figliuole, le quali troveranno mi- gliori probabilità di maritarsi in Germania che non in Francia, ove le mie relazioni sono troppo rallentate perché io possa influire util- mente sulla loro sorte avvenire ». Vede possibile una combinazione a Berlino: e, infatti, un mese dopo le due fanciulle e Daniele erano

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con la signora von Bùlow, madre del grande pianista e forte musi- cista Hans, il prediletto allievo di Franz Liszt. Era stata la princi- pessa di Wittgenstein che aveva fatto principalmente a questo scopo un viaggio a Berlino, ed aveva proposto, dopo maturo esame, di af- fidare le fanciulle alla signora von Biilow.

Insieme alla detta signora, le giovinette e Daniele vanno a tro- vare il padre a Weymar il 21 agosto (la principessa con la figlia era partita per Parigi quattro giorni prima) : « Esse non mancano di spirito di intelligenza, e spero prenderanno buona piega, senza ripiegarsi dopo: hanno abbastanza perspicacia ed elasticità unite ad una punta di malizia giovanile e viva che loro si adatta. Le terrò con me una diecina di giorni prima di mandarle a Berlino. Mi propon- gono due partiti per Blandina, di cui probabilmente nessuno le con- verrà ». E, dopo pochi giorni (26-VIII-i855j : « Sono graziose giovi- nette, intelligenti, vivaci e anche un po' ribelli. Somigliano in pari tempo a papà e a mammà. Di due o tre partiti convenienti e buoni che si offrono per Blandina, pare non ne voglia nessuno. Nemmeno sorride loro molto lo stabilirsi a Berlino »; ma spera si convinceranno che è per il loro meglio e si adatteranno alle sue intenzioni, perchè hanno un gran fondo di tenerezza per lui.

*

Frattanto il « trio di famiglia » è pieno di buon umore « ed ha immaginato un nuova forma di governo, che chiamano tajHigecca- cratie, ed è ora in piena fioritura all'Altenburg » (lettera alla princi- pessa, 22-VIII); le ragazze dovevano partire per Berlino, il 4 set- tembre; ma « Blandina ha tanto insistito per restare qualche giorno all'Altenburg, che non ho avuto cuore di negarglielo ».

La corrispondenza di Franz Liszt con Hans von Bùlow è inte- ressantissima, in quanto ci dimostra la profonda impressione che destarono in lui le due giovanette, alla cui educazione musicale egli attendeva: è in uno stato « di stupefazione, di ammirazione ed anche di esaltazione » sopra tutto per Cosima; hanno vero genio musicale; e Cosima è tutta suo padre; sono angeli scesi dal cielo sulla terra; e studiano Titaliano con certo signor Fabrucci. In pari tempo si nota la soddisfazione del Liszt che, adorando Cosima ed avendo affetto vivissimo per Hans, vede nella loro possibile unione una delle più grandi gioie della sua esistenza: i fatti però dimostrarono che non bene assortito era quel matrimonio.

Franz Liszt nel novembre del 1855 fu a Berlino : andò a trovare « le signorine, che sono convenientemente installate e in perfetta salute... Del resto sono passabilmente graziose e parigine. Tra gli altri divertimenti, Blandina si procura quello di contraffare Phila- rète Chasles. Mi ha fatto proprio scoppiar dalle risa imitando il gesto e il porgere e perfino la ricca erudizione ed eloquenza del professore in cattedra. Le parole e lo stile professorale le vengono con singolare abbondanza ».

Poi, nel 1856, grandi novità: nell'aprile Hans von Bùlow scrive al Liszt per chiedergli in moglie Cosima. Ai primi di luglio le due figlie vanno a trovare il padre, che le trova « graziosissime, piuttosto imbellite e abbastanza in buona vena di buon senso : nel significato che noi diamo al buon senso, come la dimora dei buoni sentimenti ».

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Esse, accompagnate dalla signorina Riese, vanno a Parigi, ove sta- ranno dalla nonna, perchè la madre non ha posto : nel settembre Gosima torna a Berlino, Blandina resta a Parigi, con sua madre. E con essa rimase ancora nel successivo anno; infatti nel luglio del 1857 Blandina si trovava con la contessa d'Agoult nella Sivzzera, contando di fare insieme un viaggio in Italia : con loro era Emilio Ollivier. Franz Liszt, in una lettera del 29 giugno 1861 alla Princi- pessa di Wittgenstein, ricorda come Ollivier gli avesse narrato che al tempo del suo viaggio in Italia con la contessa d'Agoult « l'aveva vista più volte piangere amaramente in diversi luoghi che le ricor- davano più particolarmente la nostra giovinezza ». Ollivier erasi fidanzato con Blandina.

Imminente è il matrimonio del Bùlow con Gosima : Franz Liszt vi assisterà: e Hans, giubilante, gli scrive (15-VIII-1857) : « Mi avete colmato di gioia con la nuova che tornerete a Berlino per la cele- brazione del matrimonio, che mi ravvicina ancora di più a voi. Mi è impossibile esprimervi tutta la grandezza dei sentimenti di rico- noscenza e di devozione da cui sono penetrato, pensando alla nuova felicità che dovrò a voi, come già vi debbo tutto quel che mi è avve- nuto di felice nella vita che io dato da Weimar (ossia da quando co- nobbe il Liszt e ne divenne allievo) ...Avrei desiderato di presentare i miei rispetti alla signora principessa di Wittgenstein, in qualche rigo. Perché anche a lei spetta di diritto una parte della riconoscenza per la felicità della mia vita, perché è lei che ha avuto l'idea di man- dare le vostre figliuole a Berlino e mi ha fatto trovare quest'angelo di cuore e di spirito che si chiama Gosima ».

Il matrimonio ebbe luogo il 18 agosto 18.57 nella chiesa cattolica di Santa Hedwig in Berlino. La sera stessa gli sposi accompagna- rono Franz Liszt a Weymar proseguendo per Baden, e di a Berna e a Zurigo. Il 14 settembre Liszt scriveva ad Agnese Street Klind- worth : « Bùlow e sua moglie verranno a vedermi a Weymar tra una diecina di giorni. Gosima non ha più trovato sua madre in Sviz- zera e Blandina mi ha scritto ora da Firenze per domandarmi no- tizie di sua sorella. Per il momento la giovane coppia si è installata a Zurigo presso Wagner che offre loro la più amichevole ospitalità nella sua villa, che è incantevole, si dice ». Forse fino da quel mo- mento cominciò a svilupparsi il primo germe del dramma che do- veva da a pochi anni distruggere la felicità del povero Bùlow.

Il 20 ottobre Franz Liszt scrive da Weymar alla stessa fida amica: «I Bùlow hanno passato alcune settimane con me, e Hans è tuttora all'Altenburg, lasciando a sua moglie la cura di preparare i quartieri d'inverno a Berlino, e Gosima se la caverà benissimo; perché essa diventa una giovane completamente sensata, svelta ed anche pratica. Alcuni giornali, a quanto sembra, hanno annunziato il matrimonio di Blandina col sig. Emilio Ollivier (avvocato del foro di Parigi). Non conosco ancora il mio presunto genero; ma me ne hanno detto un gran bene così per il carattere come per il talento, e mi ha scritto una lettera perfettamente intelligente e conveniente, per domandarmi il consenso a che il matrimonio abbia luogo il 21 ottobre a Firenze, prima del suo ritorno a Parigi. Probabilmente ri- ceverò un telegramma nella giornata di domani, che mi annunzierà questo nuovo avvenimento di famiglia e per le vacanze di Pasqua la giovane coppia verrà qui a farmi visita ».

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Poi il 2 novembre, da Dresda : « Blandina si è maritata la sera del 22 ottobre a Firenze (il 22 era il compleanno di Franz Lisztj ed ora deve esser tornata a Parigi. OUivier sostiene una causa molto importante contro Berryer. Da molte lettere che mi giungono ri- guardo a lui, ho ragione di credere che si farà una bellissima posi- zione nel foro e forse anche come uomo politico, sebbene sia questa una partita molto incerta in Francia. Quello che è certo è che i due sposi sono innamoratissimi, l'uno e l'altra; ho dunque così la soddi- sfazione di sapere che le mie due figlie si sono maritate secondo il loro cuore, facendo tuttavia matrimoni perfettamente ragionevoli ». E il 2 dicembre : « Gosima si accomoda molto bene a Berlino e prende le maniere di una donna d'ordine e di buon senso. La mia antica predilezione per lei si mantiene... Credo altresì che il mio nuovo genero OUivier verrà qui dopo Natale. Da ogni parte mi giun- gono grandi elogi del suo talento e del suo carattere, di modo che ho tutte le ragioni di trovarmi assai soddisfatto della determinazione un po' speditiva di Blandina». Il gennaio del "58 gli OUivier an- darono infatti a far visita a Liszt, che rimase contento di entrambi.

Questo primo incontro doveva legare per sempre i cuori di quei due uomini; il 13 gennaio, Emilio OUivier scriveva al suocero per esprìmergli quanto fosse rimasto commosso dalla accoglienza di lui, così nobile e così cordiale : « Avete insieme conquistato la mia affe- zione come uomo e la mia ammirazione come artista : ed ora Blan- dina non sarà la sola causa che mi renderà preziosi i legami che mi uniscono a voi. In ogni occasione potete contare sulla mia devozione, e mi farete felice mettendola alla prova ». Era stato costretto a la- sciare Blandina a Berlino, dalla sorella Gosima; della quale fa elogi entusiastici : « Dopo avere ottenuto una moglie tanto superiore e di uno spirito ad un tempo così vasto e così delicato come Blandina, non mi restava più che avere una sorella come Gosima. Io le ho aperto a due battenti e per sempre le porte del mio cuore ». Seguono parole ammirative per Hans e notizie della madre di Franz Liszt, che quella sera era a pranzo da Emilio OUivier.

Questa lettera era proprio atta a conquistare il buon Liszt: era cioè un inno entusiasta per tutti gli esseri da lui prediletti, com- presa la principessa Carolina di Wittgenstein con la figlia Maria. Da allora noi vediamo Franz Liszt seguire con ogni interesse la car- riera del genero e compiacersi di ogni suo buon successo : nel mag- gio del '59 manda alla principessa di Wittgenstein il discorso di Emilio sull'intervento della Francia nella guerra contro l'Austria, con l'Italia : « A mio avviso, non è il caso di mezzi termini nella situazione attuale. I francesi debbono seguire il loro imperatore, e la Germania marciare con l'Austria. Il resto e est des bètises! Quando la miccia dei cannoni è accesa, il parlamentarismo diventa un di più, pericoloso più che rispettabile».

Nel decembre di quell'anno la morte colpì il giovane Daniele, che era a Berlino presso i Bulow : un minuzioso racconto degli ultimi giorni e della fine del poveretto, che dava così belle speranze di sé, racconto fatto dal Liszt alla Principessa, dimostra quanta energia virile già fosse in Gosima : essa fino all'ultimo assistè instan- cabile il fratello, ne lavò il corpo (le domestiche erano state vinte dal terrore della morte), lo vestì, lo compose nella bara col ritratto di Pascal ai piedi, formò una specie di cappella ardente, e poi la

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notte vegliò sola la salma : col padre e col marito accompagnò il fe- retro al campo santo, assistè alla inumazione, « mentre uno stormo di colombe girava in cerchio a grande altezza nel cielo, quasi per- pendicolarmente sopra la tomba, per alcuni minuti». Poi scrisse alla madre e a Blandina. Restò quella notte all'albergo col padre; il giorno dopo egli la ricondusse da lei : « Che la vita, il lavoro, le virtù attive, la pazienza nelle prove, il compimento dei doveri e la pace del Signore rientrino con lei nella casa! L'ho chiesto a Dio in- sieme a lei, e le nostre preghiere saranno esaudite »,

Emilio Ollivier pensa al suocero; da buongustaio di musica e da convinto cattolico, ha cura di mandargli un testo sacro, che ritiene possa essere utile al Liszt : « Leggendo in questi giorni un lavoro di Ozanam sopra un divino libriccino italiano che si intitola / fioretti di S. Francesco ho trovato questo, che mi sembra abbia importanza per voi. Lo Stabat raater è stato fatto da un francescano del xiv se- colo, Jacopone da Todi. Questo stesso frate aveva composto, a ri- scontro dello Stabat mater dolorosa, lo Stabat mater speciosa (gra- ziosa). Questa prosa sconosciuta è bella come l'altra. Ozanam la ri- produce per la prima volta. Ve la mando. Mi pare che vi sia per il vostro genio musicale un ammirabile soggetto da render popolare e tutto un meraviglioso poema da creare... Blandina sta bene e mi rende felicissimo. Essa ogni giorno acquista una nuova cognizione e un nuovo fascino. In questo momento le sue giornate passano nel dar l'assalto al vostro Don Giovanni e a spiegare i dialoghi di Lu- ciano. Essa vi ama con tutto il cuore e vi abbraccia insieme a me ».

Lo Stabat piacque al Liszt: nel luglio del 1860, era andato a Lipsia « per sentirvi il Miserere dell'Allegri e il magnifico Crucifixus del Lotti, al concerto della Società di Riedel... Questa udizione (scrive alla principessa di Wittegenstein) mi ha in certo modo ravvicinato a Voi, a Roma, e rimesso, se si può dire così, sul declivio ascendente de' miei ardori per la composizione di musica religiosa. Bisogna che scriva presto lo Stabat mater dolorosa e lo Stabat mater speciosa, di cui mi ha comunicato il testo Emilio. Tutti questi toni gemono, cantano e pregano nella mia anima ». La musica dello Stabat fu ese- guita a Roma nella chiesa dell'Anima; poi, nell'agosto del 1866, Liszt scriveva all'OUivier : « Queste ultime settimane mi sono rimesso al mio Oratorio del Cristo, ed ha ora terminato il Tristis est anima mea. Prima di Natale spero di aver terminata tutta l'opera, ove fin da principio il vostro Stabat m,ater speciosa ha trovato la sua sede natu- rale tra l'adorazione dei pastori e quella dei Magi. Col cuore e con l'anima grazie, e tutto vostro ».

Nel luglio del 1860 un disgraziato accidente valeva a render piìi strette ancora le relazioni dell'Ollivier col suocero: la madre di Liszt, che era sempre rimasta a Parigi, aveva riportato, cadendo, la. frattura del femore: Franz era pronto a partire per recarsi da lei, quando ebbe migliori notizie; non solo, ma gli Ollivier vollero che essa, appena possibile, fosse andata ad abitare con loro : « Io sono lieto di questa combinazione. Alla età di mia madre è bene che non resti sola, e siccome non soltanto mia figlia, ma anche mio genero Ollivier le portano una sincera e viva affezione, essa si troverà a me-

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raviglia in casa loro». Speravano che il trasporto potesse farsi alla fine di agosto, ma soltanto al principio di novembre potè aver luogo; essa sopportò bene il tragitto sopra una specie di lettiga, dal suo al- loggio di via Penthièvre, a viaS. Guillaume, presso Blandina.

Quando, nel maggio del 1861, Franz Liszt andò a Parigi, trovò ancora sofferente la madre : essa « sopporta con pazienza esemplare e perfetta uguaglianza d'umore il suo triste stato. A gran pena riesce a levarsi, o piuttosto a farsi levare dal letto per mettersi sopra ma poltrona, e probabilmente sarà condannata alle stampelle per il resto dei suoi giorni. Mia figlia e suo marito sono ammirabili per le cure e la deferenza affettuosa per lei. Io ne sono veramente toccato, e ci vedo come una benedizione della provvidenza per le mie buone volontà, le quali, anche a traverso a molte sciocchezze, non mi hanno mai fatto interamente difetto. Grazie a questo collocamento di mia madre presso gli Ollivier, io sono completamente rassicurato per una eventualità che a lungo andare deve necessariamente verificarsi... Le mie relazioni con mio genero Ollivier, che conoscevo appena, si sono stabilite nel miglior piede d'intimità. È una natura insieme integra, intelligente e appassionata; di più, ha un incantevole e raro sentimento della musica... ciò che vuol dire che gusta la mia!... ». Ed è ben lieto, poco dopo, di riferire che Emilio de Girardin scrisse a Ollivier, dopo un suo discorso : « La libertà ha trovato il suo ora- tore » .

Nell'agosto del 1861, Franz Liszt lasciava la dimora dell' Al ten- burg, a Weymar: doveva, dopo non molto, raggiungere la princi- pessa di Wittgenstein, che erasi da qualche tempo stabilita a Roma allo scopo di adoperarsi perchè il tribunale della Sacra Rota pro- nunziasse l'annullamento del suo matrimonio col principe di Witt- genstein, per unirsi a Franz Liszt. In quei giorni ebbe luogo a Weymar la riunione dei musicisti della Società musicale generale tedesca; Riccardo Wagner vi inter\'-enne, e ne ripartì con Blandina ed Emilio che accompagnò a Reichenhall, luogo di cura, ove era Gosima von Bùlow. Di Blandina scrive al padre, il 12 agosto, una lettera deliziosa : « Nostro Caro Unico, Siamo arrivato oggi a Reichenhall ove abbiamo trovato Gosima con una cera superba, una vivacità infernale, e uno spirito angelico. Il nostro viaggetto è stato stupendo: buon umore, bel tempo e ricordi più belli ancora che rammemoravamo con amore : tutto contribuiva alla felice disposi- zione delle nostre anime. Dio sa quante abitazioni ci siamo scelte in Turingia, di cui le raccolte attrattive ci vincevano a volta a volta. Nuremberg ci ha riportati in pieno medio evo; in nessun posto avevo visto una città di aspetto così curioso e così completamente inte- ressante : ordinariamente si vedono delle rovine in mezzo a case moderne, quasi tutto è rimasto come in altri tempi; frontoni inta- gliati a rilievo, tribune, guglie bizzarramente ornate; la fantasia in- dividuale vi si è svolta senza ostacoli; tutto è spontaneo, pieno di vita, e l'arte uflBciale non ha imposto le sue linee rette e le sue malin- coniche simmetrie.

« A Monaco è un'altra cosa : è la città di un re, ma sopra tutto di un artista : questi monumenti di tipi così diversi sono tutti di un

9 Voi. CLXVII. Serie V. 1" Settembre 1913.

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gusto squisito, sono ispirati dai capolavori dell'arctiitettura senza esser copie; ci si sente ben disposti, l'occhio è soddisfatto, lo spirito non è teso, si prova del benessere tra queste linee squisite, tra questi colori armoniosi, tra queste proporzioni così giuste: abbiamo la- sciato Monaco a malincuore, dicendo tre volte hoch! al re Luigi.

« Che peccato non aver potuto fare con voi questo viaggio! È vero che da una parte saremmo stati in soggezione e non avremmo potuto parlare quanto abbiamo parlato della Faust-Syni-phoìiie^ di cui cantavamo le frasi, aggiungendovi mille commenti. Wagner era entusiasmatx^; ci esprimeva la riconoscenza che vi doveva per il godi- mento sì raro datogli da questa sinfonia; da gran tempo non aveva provato emozione completa per un'opera musicale, e il vostro Faust da un capo' all'altro lo ha interessato e commosso fino alle viscere.

« Gosima in questo momento è sdraiata sopra un canapè; mi do- manda che cosa faccio. Ah, tu gli scrivi! Io gli scriverò domani.

«Wagner mi incarica di dirvi che è sempre così albern (goffo). Tutti vi abbracciano adorandovi, sopratutto la vostra ammaliata Blandina.

(iP.S. Stamattina abbiamo fatto tutt'e due una corsa per la montagna, abbiamo parlato di voi cinguettando come gazze : alla fine della conversazione ognuna si è ritirata gelosa della sorella. Io sono gelosa di Cosetta, e Gosetta, per cortesia, è gelosa di me, buona a nulla, che non fumo giuoco al whist».

Per contro, quanta profondità di affetto nella lettera del 25 ot- tobre dello stesso anno! Blandina sperava che il padre, andando a Roma, si sarebbe fermato da lei, a San Tropez, e gli aveva prepa- rato la camera, col tavolo di Wagner e il suo calamaio, carta da musica, libri... Gli augurava felice viaggio, per giungere al corona- mento dei suoi voti : il 22 ottobre, compleanno di lui, dovevano cele- brarsi le sue nozze con la principessa di Wittgenstein, e tutto era predisposto per la cerimonia nella chiesa di San Garlo al Corso, quando il decreto di proscioglimento della principessa dal primo ma- trimonio venne, all'ultimo momento, revocato. « Le lacrime mi venivano agli occhi, malgrado tutto : avevo voglia di dirmi che sarò ampiamente compensata più tardi perchè vi saprò più felice, che tutto è per il meglio nel migliore dei mondi, e che tutto viene a tempo per chi sa aspettare. Avevo voglia di empirmi la testa di proverbi e volermi corazzare con la saggezza delle nazioni : l'istinto parlava più forte in quel momento, e non ho potuto dar sollievo alla mia anima se non con la preghiera. Domandai allora a Dio di accettare le mie lacrime, di gradirle come un debole tributo offerto per la vostra felicità » .

E qui, con amabile semplicità, ben conoscendo ì sentimenti pa- terni, passa a parlare di musica, sapendo che così può distrarre al- quanto la mente di lui; gli accenna ad una lettera della madre, con un indirizzo franco-germanico... «Addio, caro padre; lasciatemi spe- rare che ci compenserete ben presto venendo con la principessa a dividere il nostro modesto ritiro e abbellirlo con la vostra presenza, come le nostre colline e i nostri boschi oscuri son fatti radiosi dalla luce trasparente e dallo splendore del sole. Mio suocero era tutto felice all'idea di ricevervi; è un uomo pieno di cuore e di tatto, generoso e delicato, una natura di donna, nel buon significato della parola ». Poi alcune righe delicate e affettuose per la principessa.

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Il 2 aprile 1862, onomastico di Liszt, Blandina, ricordando gli anni trascorsi, osserva che non possono più riunirsi tutti e tre i figli presso la nonna per esaltarsi pensando al padre : « Era a chi meglio avrebbe amato questo padre, incarnazione vivente dell'ideale: noi ci proponevamo allora di provare agli amabili borghesi, che si lasciavano sfuggire in nostra presenza che i figli degli uomini di genio ordinariamente non sono che dei cretini, di provare a quella gente, dicevo, che essi medesimi non sono se non degli imbecilli. Uno di noi è staio rapito al momento della fioritura, quando avrebbe potuto incarnare tanti bei sogni; Cosima è in Germania; io sola sono presso la nonna, come in altri tempi, voi sempre lontano, come al- lora; e festeggiamo insieme il 2 aprile certi che Gosima, lungi, e Daniele più lungi ancora, sono insieme a noi nel vostro pensiero e si uniscono alla nostra preghiera, questa preghiera che vorrebbe atti- rare su di voi tutte le benedizioni », Poi, dopo varie notizie d'ogni sorta : « Addio, caro e adorabile padre, vi abbraccio come vi amo, dal fondo del cuore. Emilio vi esprime i suoi sentimenti di affetto profondo e di devozione. Nonna cammina sempre con due stampelle nel suo appartamento, ha buonissima cera, il colorito puro, la pelle trasparente, l'occhio vivo; tanto che qualche volta le dico sincerissi- mamente; — come sei carina, nonna! ... essa vi benedice e vi abbraccia dal fondo del cuore ringraziandovi di tutte le gioie ma- terne che le avete dato ».

Il 10 aprile è Emilio Ollivier, che a Franz Liszt notizie della gravidanza di Blandina; della salute della madre, che si fortifica e comincia a camminare un po' più presto; delle prove della messa di Liszt a S. Eugenio. Il 22, ancora Blandina, che si trova a Gémenos, presso Marsiglia, in attesa del parto: «Sempre, ma in questo mo- mento sopra tutto, un segno di tenerezza da parte vostra mi ravviva : la vostra ultima lettera, così buona, così elevata, così paterna, mi ha penetrato di riconoscenza e posso anche dire che riempivo della mia intima gioia tutti gli oggetti intorno. Petit-petit ha trasalito quando sua madre* ha scorto la vostra cara scrittura. Se è vero che il figlio sia il riflesso delle impressioni che ha avuto sua madre nella gestazione, mi lusingo che vi somiglierà un po'... A proposito di reliquie, debbo dirvi che il mio piccino ne porterà dalla nascita. Nonna, che è stata sempre il gran conservatorio, mi ha dato delle vec- chie camicie vostre, nelle quali ho tagliato sei camicine per chéri, che ho cucito, smerlato e ornato io stessa, pregando per lui e chiedendo a Dio, che mi ha concesso la grazia unica di avere un padre come voi, un marito come Emilio, di darmi anche la espansione completa della maternità. Ah, che bella vita di donna avrei così, figlia di un gran genio, d'un nobile cuore, di un essere segnato dal suggello divino, compagna di una natura notevole, di un gran carattere, di un tenero cuore, se diventassi anche madre di un'anima superiore! ».

Il 3 luglio 1862 nacque il piccolo Daniele, che doveva diventare uno dei più stimati avvocati di Parigi; Emilio ne la notizia al nonno, informandolo che Blandina « non ha quasi sofTerto e il suo volto non si è alterato un istante la serenità del suo spirito. Appena ha fatto sentire qualche interiezione italiana: Dio santo, ecc.. Del bambino non vi posso dire gran cosa. Pare forte; è bruno; ha dei capelli, che sono neri. È bello? È brutto? A chi somiglia? Non ne so nulla. Soltanto si sono osservate in lui, fino dal primo mo-

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mento, due cose: due occhi grandi e neri clie brillano come veri specchi; il suo grido, pieno, sonoro, musicale, come la voce di sua madre ».

Il 27 luglio 1862 Blandina, in una lunga lettera, si ferma con gentile compiacenza materna nella minuta descrizione del piccolo essere uscito dalle sue viscere : « possa questo bambino crescere, pro- sperare, incarnare i nostri sogni e continuare la tradizione di suo padre! Amatelo anche un po'; la vostra tenera sollecitudine gli por- terà fortuna, e gii attirerà, come ha attirato sopra di noi, le grazie di Dio, di cui voi siete l'eletto per tanti titoli... ». E poi, curiose e comiche osservazioni sopra un mediocre artista; considerazioni sui Miserabili di Victor Hugo, allora pubblicati; notizie simpatiche e gioconde della nonna; progetti per l'avvenire... E a metà di set- tembre quella buona e gentile creatura non era più! Emilio Ollivier subito dopo la dolorosa perdita, andò a Roma, ove Franz Liszt lo ospitò in sua casa : il 22 ottobre ne ripartiva, dopo aver passato quel breve periodo di tempo immerso nel dolore, fuggendo la compagnia di amici e conoscenti. Liszt era piìi calmo e sereno : « I grandi dolori sono messaggeri del cielo (scriveva a Giuseppe d'Ortigue il 28 no- vembre 1862). Essi ci riconducono direttamente a Dio; quando le nostre lacrime si fondono nella preghiera, egli ci unisce al* suo ine- narrabile amore » : la fede era il suo rifugio e la sua forza.

Quando, nella prima metà d'ottobre del 1864, Franz Liszt fu per una settimana a Parigi, Emilio Ollivier per mezzo della madre gli fece offrire il suo appartamento : egli accettò, e, dopo aver visto e condotto seco Gosima, per cui cominciava a impensierirsi (non era lontano il momento in cui essa doveva separarsi da Hans von Bùlow per unirsi con Riccardo Wagner), andò ad abitare l'appartamento di Blandina, mentre la madre era sempre al terzo. « Mia madre (scri- veva alla principessa, 4-X-1864) è in perfetta salute e conserva su molte cose un giudizio perfettamente sano, che ravviva con un buon umore incantevole, non privo di una certa malizia dolce e onesta... che Dio conceda una santa morte a mia madre e una santa vita a mia figlia! »

Il febbraio del 1866 Emilio Ollivier scriveva a Franz Liszt che la madre dal giorno prima era malata gravemente di una bronchite capillare : se si fosse aggravata, avrebbe telegrafato; se non avesse spedito telegrammi, era segno di miglioramento : il miglioramento parve avverarsi; ma la sera del 6 essa cessò di vivere. Emilio, col fratello Adolfo, le chiuse gli occhi, la depose nella bara, la baciò in fronte per Liszt, per Blandina, per sé: il giorno 8 la condusse al- l'ultima dimora, parlò sulla fossa di lei, pensò a prepararle una tomba. Segnalò al suocero il fratello Adolfo « il quale, senza avere le medesime ragioni che avevo io, è stato per vostra madre, nelle ultime sue ore, affettuoso come il più tenero dei figli; e senza l'aiuto di lui non avrei potlito prestare tutte queste dolorose cure ».

Liszt ringraziò, profondamente commosso, il genero e il fratello di lui, riconoscente perchè Emilio aveva pensato ad avvertire in tempo mons. Buquet, confessore della famiglia, il quale aveva amministrato i sacramenti alla morente : cosa che molto gli stava a cuore, viste le

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ripetute prove da lui fatte in precedenza, principalmente per le insi- stenze della principessa allo scopo di indurre la madre alla osser- vanza di pratiche religiose, mentre essa non voleva saperne: e am- mirò le belle parole pronunziate da Emilio OUivier sulla fossa della defunta : « Non si potrebbe rendere più eloquente la nobile sempli- cità delle virtù che essa praticava, senza mai dimenticarle o preten- dere che le si rilevassero».

Poco dopo (il 4-III-1866) Liszt giunse a Parigi per assistere alla esecuzione della sua grande messa di Gran, e andò ad abitare l'appar- tamento ove aveva passato gli ultimi anni ed era morta sua madre, ospite di Emilio Ollivier. Con vero compiacimento Franz Liszt fa conoscere alla principessa di Wittgenstein l'alta posizione raggiunta dal genero: il legame con l'imperatore, l'influenza che ha nella stampa, nel parlamento; con lui è a pranzo dal principe Napoleone e per lui avvicina i più autorevoli personaggi di Parigi. Fu lui che riferì al suocero l'esito della messa, male eseguita, male compresa, male giudicata : fu lui che riuscì ad ottenere il poco di favorevole pubblicato circa quell'opera, che tanto stava a cuore all'autore, il quale non dimenticò mai le non liete accoglienze fattegli allora da Parigi e dai parigini.

E in seguito, l'Ollivier, non ostante la vita agitata e le occupazioni che lo stringevano, non mancò di informare di frequente Franz Liszt di esecuzioni musicali che potevano interessarlo (sopra tutto se trattavasi di sue composizioni bene accolte), con lettere che rivelano una mente che sente e intende l'arte, e in cui si incontrano osserva- zioni e suggerimenti che dimostrano come in lui l'uomo politico non si disgiungesse dall'esteta : e Franz Liszt fa capo a lui per ciò che si riferisce a musica e a musicisti. Come molti anni prima si era valso deU'Ollivier quale intermediario per far avere danaro a Riccardo Wagner, sempre all'asciutto allora, così nel 1866 lo incaricava di consegnare a Gioacchino Rossini un esemplare della sua messa. Quando nell'agosto del 1867 ebbe luogo il famoso Giubileo della Wartburg con la esecuzione della Leggenda di Santa Elisabetta del Liszt, Enrico Ollivier vi assisteva e ne scrisse.

Politicamente, Franz Liszt ammirava Napoleone III, e per ciò non poteva non esser lieto nel vedere come l'Ollivier si accostasse a lui e ne sposasse la causa, assumendo il potere quale ministro del- l'impero. Privatamente, la maggiore simpatia Io stringeva a colui che era stato il marito di Blandina. E fu Emilio Ollivier che nel marzo del 1876 comunicava a Franz Liszt una lettera di Luigi de Ronchaud, in cui si esponevano i particolari della fine della contessa d'Agoult, e si riferiva il tratto del testamento con cui essa legava a Daniele Ollivier, in memoria della madre di lui Blandina, la proprietà lette- raria delle sue opere, pubblicate con lo pseudonimo di Daniel Stern : ciò che Franz Liszt approvava, sebbene tra quelle opere fosse quel famoso romanzo Nelida, che è un feroce attacco al Liszt medesimo.

Consei-vò viva amicizia col genero, anche quando questi sposò altra donna, che occupò il posto di Blandina; e anche per lei ebbe espressioni amichevoli : quando verso la fine del 1881 Emilio Ollivier fu a Roma, per quegli studi che dovevano servirgli alla composizione

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del SUO volume su Michelangelo, condusse con se la moglie Teresa, cui Liszt fece la migliore accoglienza. E come nel 1879 si compiaceva con lui per il successo di un libro, e si condoleva della perdita dolo- rosa del padre e di un figlio, anche alla moglie estendeva espressioni di simpatia. Quando nel marzo del 1886 tornò ancora a Parigi, e la messa di Gran ebbe gloriosa rivincita, fu Emilio OUivier a descri- vere alla principessa le accoglienze trionfali : e quando nel maggio dello stesso anno una grandiosa esecuzione della Santa Elisabetta gli procurò nuovo feste calorose, egli scriveva alla principessa avver- tendola che la signora Ollivier gliene avrebbe parlato. devesi dimenticare che la signora Maria Teresa Ollivier era donna di note- vole valore: alla sua penna agile e garbata devesi un affettuoso e commosso volumetto su Valentina de Lamartine, nipote e figlia del poeta, a lui mirabilmente devota: volumetto che è anche inteso ad esaltare l'azione efficace e amorosa esercitata da Emilio Ollivier per sollevare il Lamartine negli ultimi angosciati anni della sua vita e per onorare la memoria di lui dopo morto. La venerazione degli Ollivier per il Lamartine si rivela perfino nei nomi dati ai loro figli, Geneviève e Jocelyn, nomi di eroi lamartiniani.

Una serie di lettere affettuose si scambiano nonno e nipote, Franz Liszt e Daniele Ollivier: e se una volta, mentre risponde al nipote, Franz Liszt scrive in proposito alla principessa : « I ragazzi mi ren- dono triste»; e altra volta, mentre dovrebbe rallegrarsi con Emilio per la nascita di un bimbo (decembre 1882), scrive ancora alla Witt- genstein: «Voi sapete qual triste sentimento mi inspirano i fan- ciulli — il loro avvenire è esposto a tante contrarietà! » quando nel- l'agosto del 1884, a suo invito, Daniele Ollivier va a Bayreuth per la ripresa del Parsifal, Franz Liszt si mostra assai soddisfatto per la eccellente impressione destata dal giovane, sopra tutto alla famiglia Wagner.

I contatti di Emilio Ollivier con la musica non si limitano però ai legami con Franz Liszt e con la famiglia di lui: il ministro di Napoleone III aveva vero entusiasmo per ogni manifestazione d'arte e in particolar modo adorava la musica. Di questi suoi entusiasmi, egli ha lasciato più di un documento : curioso e interessante sopra tutto è un suo volume, M arie-M agdeleine, récit de jeunesse, scritto nel 1895, nel quale sembia abbia voluto riassumere e chiarire tutte le sue predilezioni intellettuali e le ragioni sentimentali della orien- tazione del suo pensiero.

II libro è riboccante di impressioni italiane : il nostro paese, la nostra letteratura, l'arte nostra sono oggetto di un vero culto da parte di Emilio Ollivier; in quel suo curioso e per noi oggi divertente opu- scolo «Le Pape est-il libre à Rome?», pubblicato nel 1882, egli af- ferma il suo amore per l'Italia, dopo essersi attaccato a tutti i rampini per combattere la usurpazione italiana, e consigliando il ritorno della capitale d'Italia a Firenze, per lasciar Roma al Papa; e non ha scru- polo, mentre conosce bene l'italiano, a falsare nella traduzione le dichiarazioni fatte nel 1861 da Camillo Cavour sulla eventualità di Roma capitale. « Meme si la France se trouvait dans une felle situa- tion qu'elle ne pùt matériellement s'opposer à l'entrée dans noi re

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capitale, nous ne devrions pas y aller sans étre d'accord avec elle » : queste erano le parole del Cavour : « Quando anche per eventi, che credo non siano probabili e nemmeno possibili, la Francia si tro- vasse ridotta in condizioni tali da non potere materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere la unione di essa al resto d'Italia, ne ciò dovesse recar gran danno ai nostri alleati » : e riproduce in nota il testo italiano, fidando sulla ignoranza della nostra lingua da parte della gran maggioranza dei francesi, e dando la falsa parvenza di una scrupolosa esattezza di storico!

« Ho sempre amato appassionatamente l'Italia scriveva in quell'opuscolo . I torti che essa ha verso di noi, desolandomi, non mi hanno staccato da lei. Troppi ricordi indistruttibili me lo vietano. Come non provare una particolare predilezione per questa terra della luce e della bellezza? In nessun luogo l'individuo è più generalmente dotato di amabili qualità e di brillanti attitudini; in nessun luogo il genio umano si è sviluppato in diverse direzioni con maggiore va- rietà, costanza e splendore. Fra le città celebri, quale si potrebbe paragonare con Roma, la città unica, dove la stessa morte è viva, e dove il passato della nostra razza impera maestoso, in mezzo al largo anfiteatro delle montagne d'Alba, della Sabina e dell'Etruria, sulle onde pietrificate della vasta e silenziosa campagna? Si serve chi si ama. Assai per tempo mi sono adoperato con ogni mia forza per la liberazione di un paese, allora di dolore ostello, seguendo in ciò l'esempio di mio padre, l'amico di Mazzini, di mio zio di Livorno, l'amico di Guerrazzi». L'esempio aveva dato buon frutto!

In Mari£-Magdeleine l'Italia domina : il tenue filo della senti- mentale avventura è un pretesto a continue divagazioni di pensiero e di visioni : Raoul resta orfano, ed ha il suo maestro, Paulin, a Marsiglia, e l'unico amico, Flaminio, in Italia; cosicché, per sollevare l'animo abbattuto, va a Marsiglia e poi in Italia : e, come la descri- zione della vita di famiglia ha dato luogo alla esposizione delle idee dell'autore sulla educazione dei figli, le discussioni con l'amico, pit- tore, motivano osservazioni sull'arte; nei ritrovi con la colta famiglia di Maria Maddalena la letteratura fa le spese della conversazione; l'amico Flaminio lo conduce alla sua villa dei Graffi, presso Pontas- sieve : ed ecco la visione della campagna toscana in Val d'Amo di sopra; le conseguenti gite alla Badia di San Gualberto e poi alla Vernia per la Consuma, con descrizioni e larghe esposizioni delle tra- dizioni francescane, della storia dell'ordine e delle divisioni di esso, con episodi descrittivi della vita dei contadini toscani; Raoul, il quale è un profondo conoscitore dell'opera dantesca, diviene amico di un buon curato di campagna, purista, erudito, sul cui tavolo vede un volumetto, i Fioretti di San Francesco : « che cos'è questo libro?», chiede. Domanda stupefacente da parte di un dantista, ma che serve a giustificare una dissertazioncelìa sul delizioso volume. A Firenze, la compagnia di Flaminio luogo a conversazioni sul- l'arte toscana, e dalla visione dell'Angelico nel chiostro di San Marco si giunge alla prodigiosa affermazione della potenza michelangiolesca a San Lorenzo; la figura del Savonarola appare nel ricordo delle lotte tra i Piagnoni e gli Arrabbiati: ecco i dintorni di Firenze: San Miniato, Fiesole. Come nel Michel-Ange, anche in M arie-M agdeleine.

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le parole di Dante spesso si affacciano auguste tra le parole riverenti dello scrittore francese.

A Fiesole udiamo la predica francescana del padre Marcellino; Raoul diviene amico del frate: per conseguenza la poetica morale del poverello di Assisi ha largo sviluppo nelle loro conversazioni : non solo, ma, dovendo il frate andare a Roma, Raoul lo accompa- gna. E qui ancora i ricordi personali di Emilio Ollivier risorgono: la gita fino ad Assisi, con le impressioni dell'Umbria, e sopra tutto la visita a Santa Maria degli Angeli, la grandiosa basilica che rac- chiude l'umile Porziuncola, la salita alla città di San Francesco mentre infierisce il temporale, sono riproduzione, spesso con le medesime parole, del racconto della gita fatta colà dall'Ollivier nel 1854, e che dal dialogo Une visite à la Chapelle des Médicis, pub- blicato nel 1872, è passato, con altre pagine qua e ritoccate, nel volume su Michelangelo. è inutile ricordare che in quel suo studio sul nostro grandissimo artista, l'Ollivier ebbe cura di far cenno dello studio interessante, acuto, dedicato alla cappella Sistina dalla principessa di Wittgenstein, per la quale (e sopra tutto per i suoi studi cattolici) egli aveva grande e devota ammirazione.

Ecco ancora una gita nei pressi di Marsiglia per accentuare il distacco di Raoul da Maria Maddalena, voluto dal padre di lei; l'andata a Parigi della fanciulla coi genitori, per un consulto me- dico richiesto dalle condizioni di salute della madre; un viaggio in Svizzera, per tentare di divagare la fanciulla, e farne rifiorire la vita che minaccia di spegnersi; l'andata a Roma di Flaminio, per distrarsi dopo l'abbandono della capricciosa Fiammetta (risorgono anche qui il dialogo nella Sistina e l'ultimo capitolo del Michel' Ange); in queste scene lo scrittore rammenta con animo lieto e com- mosso pensieri, atti, cose che rappresentano la parte toìù simpatica della sua vita : quella in cui arte e letteratura lo fanno dimentico della politica turbatrice; pensieri, atti, cose che sono rievocazioni e non rivelazioni; giustamente lo scrittore appone per epigrafe al suo racconto un periodo di Francesco di Sales: «Sono, per così dire, gli stessi fiori che già passarono per le mani degli altri; ma il mazzolino che ne ho composto si troverà differente per la disposi- zione che ho dato loro ».

Come già ho accennato, i ricordi, le impressioni di carattere musicale fioriscono nelle pagine di questo libro, che nella sua com- posizione alquanto rudimentale' e artificiosa non manca di un certo ingenuo profumo : e, a prescindepe da non infrequenti immagini mu- sicali, adoprate nelle descrizioni e nelle discussioni, troviamo su- bito che il padre di Raoul, Filippo, soleva con lo studio dell'arte mu- sicale, sollevar l'animo dagli assidui lavori classici e giuridici; aveva studiato a fondo, si era reso padrone di tutte le risorse dell'armonia ed aveva acquistato un serio valore quale pianista, sviluppato dalle lezioni dell'Habeneck, il celebre fondatore dei grandi concerti sin- fonici in Francia; non solo, ma, «avendo incontrato una eletta e poetica fanciulla, sorella di un suo collega, musicista abile e fervido come lui, Filippo l'amò in Bach, in Palestrina, in Gluck, in Cima- rosa, e, quantunque non avesse fortuna, la sposò. Raoul nacque da

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questa unione! Sua madre non sopravvisse che pochi giorni alla nascita di lui: le fatiche della maternità ne avevano abbattuto le forze. Filippo fu inconsolabile ». Ricordo ben chiaro del matrimonio di Emilio Ollivier con Blandina e della morte della sorella del gio- vane Daniele Liszt, il quale tanto faceva sperare di negli studi giuridici.

La domenica. Filippo riuniva in sua casa una eletta ac<?olta di musicisti : « era proibito di pronunziare una parola sopra qual- siasi soggetto estraneo alla musica. Ek)po colazione, fino alla sera, si leggeva qualche nuova composizione, si esumava una partitura dimenticata, si eseguiva un quartetto, sopra tutto qulcuno degli ul- timi di Beethoven, o si sentiva qualche eminente virtuoso. Habeneck, diventato l'amico del suo allievo, veniva ogni volta che i suoi con- certi glielo permettevano. Si era allora coperto di gloria con l'esecu- zione energica, patetica della sinfonia in do mÌTiore, fino allora sco- nosciuta in Francia. Incoraggiato da tale successo, preparava la sin- fonia col coro». Lo studio accanito del celebrato musicista per pe- netrare in ogni intenzione, in ogni significato della monumentale partitura, è narrato con vivezza, «t II genius loci, colui che nel cuore e nella ammirazione di Filippo aveva il primo posto era Ettore Berlioz», la cui originalità creatrice è definita con sobrip, evidenza.

Affettuoso è il ricordo di Liszt: «Questo re dei virtuosi di tutti i tempi, destinato a divenire più tardi un compositore di prim'or- dine, non passava da Parigi senza consacrare una domenica al caro cenacolo. In nessun altro luogo spiegava con maggior magìa gl'in- cantesimi, le fantasie, le potenze, le freschezze, i trasporti, le carezze, le sonorità dell'arte sua geniale, che non sarà mai uguagliata, perchè un simile prodigio d'arte non si rinnoverà più.

« L'artista trionfante, che ha vissuto tutta la sua vita con la mano e il cuore aperti, si era dedicato al maestro contestato. Fu tra i primi a costituirsi, a traverso l'Europa che percorreva senza posa, l'araldo del genio di Berlioz... Per contro, che attacchi, che ostilità!». La lotta angosciosa del Berlioz per far trionfare l'arte sua, a tra- verso mille diflBcoltà; l'amore e il matrimonio fatale con la Smithson, e, ancor più fatale, il legame con la Recio, sono vigorosamente de- lineati. Nitidamente rilevata è la figura di Riccardo Wagner: «Il doppio aspetto di questa possente personalità era scolpito nella sua maschera: la parte superiore bella, di un'ampia idealità, illu- minata da occhi riflessivi, profondi, severi, dolci o maligni, secondo loccasione: la parte inferiore sogghignante e sarcastica. Una bocca fredda, calcolatrice, dalle labbra sottili e serrate, vi si internava al disotto di un naso imperioso, al di sopra di un mento proiettato innanzi, come la minaccia di una volontà conquistatrice. Come nel volto di Rossini si trovava insieme Giove Olimpico e Pulcinella, così in quello di Wagner il vates, il poeta, quasi il profeta, si fondeva col pagliaccio. Infatti delle facezie spiritose, talvolta di un gusto discutibile, interrompevano ad ogni momento gli accenti entusia- stici, elevati, affascinanti di un pensiero a cui, anche al di fuori della musica, nessun grave soggetto era estraneo.

« Tale si mostrò Wagner nelle conversazioni in casa di Filippo, incantando con la sua inesauribile vena, la sua originalità e le sue uscite tutti gli amici, eccetto Berlioz, un po' circospetto. Si compia- ceva di esporre le sue teorie, ancora confuse e che non hanno guari

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cessato di esserlo, sull'opera © il dramma musicale. Questo soltanto era già chiaro nella sua concezione e lo è rimasto: che egli era il Messia predestinato a chiudere per sempre il ciclo della musica con una sintesi soprannaturale in cui sparirebbero tutte le antiche glorie » .

Due graziosi, poetici episodi si imperniano sul canto di agresti stornelli nella campagna toscana; la superficiale e incompleta abi- lità pianistica della contessa Fiammetta è delineata gustosamente; l'amore di Beethoven, la ragion d'esser© della Appassionata, degli ultimi quartetti, appaiono nella discussione di Raoul con la contessa Fiammetta sulle donne ispiratrici; l'amore che illumina Maria Mad- dalena, le fa scoprire nuovi significati, inattese espressioni nelle sonate del Mozart e del Beethoven mentre le eseguisce; Clemenza di Ghoisy, cui si debbono le torture di Maria Maddalena, bellissima donna, intelligente, colta, sa improvvisare sul pianoforte melodie in- fiammate, sa riempire il silenzio della notte con le sonorità della sua voce magnifica: e sono questi tra i più potenti suoi mezzi di attrazione sul cuore e sull'animo del padre della sua vittima.

Quando Raoul torna a Parigi, e, ritenendo irreparabilmente per- duta per lui Maria Maddalena, si abbandona alla tristezza di una vita mediocre, monotona, senza scopo, è salvato e rianimato dalla mu- sica: un musicista suo compagno di mensa in una modesta pen- sione, gli offre il modo di assister© ai concerti del Conservatorio; egli può così iniziarsi alle sinfonie di Haydn, di Mozart, di Beethoven, di cui conosceva soltanto le sonate e i quartetti, che aveva udito nelle riunioni domenicali nella casa paterna quando era fanciullo,

« Giunse presto a percepire la bellezza musicale e a provare il rapimento, in certo modo tecnico, eh© procura l'impiego giudizioso o ispirato, possente o delicato delle forme armoniche. Giunse anche a considerare la sinfonia orchestrale come la più alta cima della musica. Nessuna voce umana, sola o associata con altre, per quanto sia espressiva, no'n giunge a dare al pensiero musicale l'ampiezza, la varietà, la elasticità, il colore, la penetrazione che assùme nella sonorità estesa, agile, ricca di combinazioni, di una orchestra dagli strumenti bene equilibrati. Il ciarlatanismo dell'allestimento sce- nico, gli orpelli, le decorazioni, materializzano troppo la lingua del- l'indicibile e non permettono di assaporarla nella sua virginale idealità.

« Senza disdegnare la serenità religiosa e campestre di Haydn, fu sopratutto attratto da Mozart e Beethoven. Nessuno meglio di Mozart ha fatto intendere coi suoni ciò che Raffaello ha mostrato coi colori. Se gli uccelli e gli spiriti scrivessero delle partilture, scriverebbero così... Quale sfumatura di sentimento, quale potenza di emozione, quale elevazione di pensiero non si trova nell'opera sua? Volete la soavità? Ascoltate il quintetto in sol, sitavi tas suavitatvmn. Preferite la delicatezza fine e leggera? Udite quale che sia dell© sue sonate' e delle su© deliziose sinfonie. Volete essere rapiti nel mondo diafano dei sogni e degli incanti ove passano i silfi e vivono i geni? Avete // ^auto magico. Chiedete gli accenti profondi del terrore, della disperazione? In nessun punto li sentirete con maggior in- tensità che nel Concerto in re minore, nell'entrata terrificante del Commendatore, nei sospiri d'agonia del Requiem.

IL GENERO DI FRANZ LISZT Jìii)

« Tuttavia egli trovava in Beethoven un soffio più imi>etuoso e maggior lirismo: il grandioso di Eschilo e il pai/etico dei Salmi. Le sinfonie si slanciano da un capo all'altro della passione, dalla di- sperazione alla ebrezza gioiosa, dall'abbattimento della morte alla allegrezza della resurrezione, e un'alta e forte maestà colma l'in- tervallo. A momenti la melodia pare si arresti come per esauri- mento: non sono più che note interrotte, lente, spiranti; ma ecco che di subito si risolleva, più giovane, più forte, più vibrante, tra- sportandovi nel turbine di un crescendo trionfale: non si era acca- sciata, se non per rianimarsi con maggiore slancio : attenuata lielle sordine, se non per risvegliarsi nella i3ienezza di un insieme folgo- rante.

« Nella sinfonia in do minore, la vera sinfonia eroica, brilla lo splendore delle cittadelle celesti e risuona il fragore dei carri dell'ira d'Isaia. L'andante della sinfonia in la è l'eterna orazione funebre della gloria... Raoul tuttavia gli preferiva il trio dello scherzo della medesima sinfonia e l'andante della sinfonia col coro... Palpita in esso il brivido dell'eternità. Beethoven diceva a Bettina: Chi sen- tirà pienamente la mia musica sarà liberato dalle miserie che gli altri trascinano dietro di sé. Raoul sperimentò la verità di questa promessa. Le prime audizioni gli erano state penose, perchè le sue proprie ferite si ravvivarono per la sensazione di quelle che il com- positore piangeva; usciva in preda ad una dolorosa sovreccitazione; camminava per più ore con angoscia, soffrendo per il contatto dei suoi piedi con la terra; quando voleva chiudere gli occhi, la sinfonia, divenuta una musa in lacrime, cantava con voce di pianto al suo ca- pezzale. Appena entrato definitivamente nella familiarità del Bee- thoven e che il grande maestro fu diventato un amico con cui con- versava, fu ben altro: alle prime battute una calma benefica si insinuava nel moto dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti; si dissi- pavano i SUO! dispiaceri; senza motivo di sperare, sperava; le sue mi- serie quotidiane non l'inquietavano più; ricominciava a scorgere qualche stella al di sopra dell'arida gleba su cui si trascinava; gli sembrava che esistesse un avvenire; si elevava ad una specie di vita felice nella quale restava a lungo, e che una nuova udizione faceva rinascere appena cominciava a indebolirsi. Aveva trovato il reme- dmm animae » .

A me sembra che queste pagine nelle quali con eloquenza tanto nobile e sincera è celebrata la potenza consolatrice dell'arte dei suoni, valgano a diradare un po' il denso velo grigio da molti anni disteso sulla fìsonomìa del ministro del secondo impero, dell'apolo- gista della Roma papale: uomo di tempi già ben lontani...

Giorgio Barini.

TRA LIBRI E RIVISTE

Il Palazzo delia Pace Augusto Bebel I metodi elettorali degli antichi Romani Pietro Rosegger L'età della Terra Le forze elettriche mondiali Giacomo Dina e la Convenzione di Settembre I manoscritti egiziani dei Vangeli Henrik Wergeland Il tesserografo Isacco Lévithan La partenogenesi e l'ereditarietà "Attraverso gli Stati Uniti ^,.

Il Palazzo della Pace.

Un avvenimento di non dubbia im- portanza nella storia della civiltà è stata l'inaugurazione del Palazzo della Pace all'Aja, avvenuta in questi giorni, con grande pompa e solennità, dinanzi ai rappresentanti di tutte le nazioni civili.

Il progetto di questo Palazzo, che F. Herbert Stead chiama, nella Re- view of Reviews, il « Primo Tempio del mondo », sorse, com'è noto, poco dopo la Conferenza del 1899, e trovò in Carnegie il più caldo fautore e pro- motore. Nel 1903 egli pose a disposi- zione del governo olandese un milione e mezzo di dollari, allo scopo « di dare alla Corte permanente d'arbitrato in- ternazionale una sede degna della sua missione ». Fu così che si costituì il « Carnegie Foundation Committee ». Il governo olandese comprò 1' area per 70 mila guilders (1.400.000 lire).

I lavori di questo edificio hanno co- stato al « Carnegie Committee » dieci anni di indefesso lavoro. Poiché esso ha le fondamenta nella sabbia, più di un cinico dirà, osserva lo Stead: « Ecco un simbolo appropriato di speranze fon- date sulla sabbia del sentimento e non sulla roccia della forza ». Le fondamen- ta del palazzo sono, sì, sulla sabbia, ma hanno una profondità di sette metri.

L'architetto Cordonnier di Lilla, il cui progetto fu scelto fra i 216 che

vennero presentati ad una Commis- sione internazionale, si è inspirato al- l'architettura francese del decimosesto secolo. Alcuni mutamenti però intro- dotti durante i lavori hanno turbato l'armonia del primitivo disegno.

Questo edificio è press'a poco qua- drato, essendo circa 85 metri per 86. Esso è adorno di molte statue simbo- liche. Un gruppo di esse rappresenta la Scienza, l'Arte, l'Agricoltura: altre due simboleggiano il Commercio e l' Industria : un terzo gruppo : l' Elo- quenza, la Coscienza, la Forza Mo- rale, lo Studio, la Sapienza, l'Umanità, la Costanza: nella principale finestra dell'Aula per le Conferenze vigilano, quasi sentinelle, la Giustizia e la Legge. In cima all' edificio, in direzione del 1' entrata principale, domina la figura ideale della Pace.

Vi si ammirano quattro busti: uno di Hugo Grotius, il pioniere del diritto internazionale, donato dalla Società del « Vrede door Recht » (la Pace per" mezzo del Diritto); un altro di re E- doardo VII, il monarca della Pace, of- ferto dalla « Peace Society »; il terzo di Sir Standall Cremer (che con Carlo Marx e Mazzini contribuì alla fonda- zione dell' « Internazionale »), dono della « International Arbitration Lea- gue », e r ultimo di William Thomas Stead, offerto dai giornalisti olandesi. Sono così riuniti in questo gruppo che, secondo lo scrittore, è molto si-

TRA LIBRI E RIVISTE

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gnificativo: un giurista, un monarca costituzionale, un capo del movimento operaio, e un giornalista.

Neil' interno del Palazzo, oltre un gran numero di sale che serviranno per i lavori sezionali, trovasi l'aula in cui si aduneranno in avvenire le Con- ferenze per la pace: essa ha una lun- ghezza di ventiquattro metri per una

della Danimarca, e i marmi^ dei quali Sono coperti i corridoi, sono stati of- ferti dall'Italia. La grande scala d'in- gresso è stata regalata dal Municipio dell' Aja; 1' Argentina ha offerto un gruppo di statue; l'Olanda, ha fatto lo scalone esterno e le fondamenta del- l'edificio. L'Inghilterra ha inviato ma- gnifici vetri istoriati per le finestre

Il Palazzo della Pace all' Aja.

larghezza di tredici, ed è capace di contenere 300 persone.

Tre lati dell' edificio sono occupati dalle varie corti e sezioni del Tribu- nale Arbitrale; il quarto lato è desti- nato alla biblioteca che conterrà una collezione completa di opere di diritto internazionale. La biblioteca è pub- blica e libera.

Fatto assai notevole e significativo è che ad abbellire questo Tempio hanno concorso con doni speciali tutte le nazioni civili. La Norvegia e la Svezia hanno fornito gratuitamente il granito che forma la base su cui l'e- dificio riposa. La fontana che adorna il ceutro del cortile interno, è dono

della grande aula delle Conferenze, e la Francia uno splendido arazzo e un dipinto.

Dalla Russia è pervenuto, a nome dello Zar, un vaso di diaspro; l'Un- gheria ha contribuito con sei vasi pre- ziosi, e r Austria con sei candelabri. Gli Stati Uniti hanno mandato un gruppo di statue in marmo e in bronzo. Il Brasile, le colonie olandesi. San Salvador e la repubblica di Haiti, le- gni adatti per ornamentazione e co- struzione. La Cina ha offerto quattro vasi ; la Turchia, un tappeto, e la Ru« menia quattro tappeti. Le porte di ferro d' ingresso sono dono del Belgio; la Svizzera ha regalato l'orologio che

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TRA LIBRI E RIVISTE

suona le ore dall'alto di una torre; la Germania, i pilastri e le cancellate d'ingresso.

L' erezione di questo tempio certo non è la realizzazione della pace, ma questa stessa unità di propositi e di fede dimostrata dalle molte nazioni che vi hanno preso parte, è già un buon segno, e un passo innanzi verso di essa. « Qui, dice lo Stead, la ragione trionferà sulla spada, e una illuminata coscienza sarà più potente di una massa armata.... Qui probabilmente si proclamerà un giorno l'abolizione della guerra ».

Augusto Bebel.

Ben rare volte la scomparsa di un uomo ha suscitato un cordoglio così largo e profondo come quella di Au- gusto Bebel. Che egli non fu soltanto l'organizzatore e il capo del partito più numeroso dell'Impero Germanico, ma una persona che per probità e di- gnità di vita s'imponeva alla stima anche di chi non condivideva le sue idee.

Nato il 22 febbraio 1840, aveva otto anni nel 1848. Ancor giovinetto, si dimostrò avverso alla democrazia, e negli anni in cui frequentava la scuola di Wetzlar, era si può dir l'unico a sostenere il re contro la repubblica. Povero ed orfano a 13 anni, dovette darsi a un mestiere per vivere. Per- corse la Germania e l'Austria in cerca di lavoro; tentò arruolarsi nelle armi, non vi riuscì.

Egli cominciò a partecipare al mo- vimento operaio solo verso il 1860. Si formavano in questo tempo dei sindacati di perfezionamento, in cui i giovani operai cercavano d'istruirsi. Fu qui dove Bebel dimostrò le sue straordinarie doti d'oratore e d'orga- nizzatore: doti che gli guadagnarono, nel 1863, al Congresso delle Società Operaie a Francoforte sul Meno, la stima e l'amicizia di Liebknecht. Ed è appunto il Liebknecht che corresse e opinioni di Bebel, il quale non sa-

peva sottrarsi interamente all'influenza del Lassalle.

« Egli aveva, racconta il Bebel stesso nelle Memorie, quattordici anni più di me e, quando lo conobbi, mi superava di gran lunga nell'esperienza politica. Era un uomo dotto, che aveva studiato con tenacia; questa cultura scientifica a me mancava. Liebknecht avendo vis- suto dodici anni in Inghilterra in re- lazione continua con Marx ed Engels, aveva molto imparato da loro, a fa- cile perciò comprendere ch'egli ebbe

Augusto Bebel.

su me una grande influenza... Ma io, anche senza di lui, sarei divenuto so- cialista ugualmente. La prima volta che lo incontrai, ero già sulla buona strada. In lotta costante con i parti- giani di Lassalle, avevo dovuto leg- gere tutte le sue opere, e così erasi già iniziata in me una evoluzione... I miei rapporti con Liebknecht hanno soltanto accelerato la mia adesione al socialismo «.

Da questo momento, la storia di Bebel è la storia stessa del socialismo tedesco. Nel 1867, con Liebknecht e alcuni altri fautori delle teorie di Marx, convoca ad Eisenach un Congresso, durante il quale il partito operaio so- cialista è definitivamente fondato. Bebel n'è subito il capo, e a difenderlo con- sacrerà Is sue migliori energie. Nello stesso anno, eletto deputato al Parla-

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mento della Confederazione della Ger- mania del Nord, prende un atteggia- mento rivoluzionario. Scoppia la guerra tra la Francia e la Prussia: Bebel si dichiara recisamente contrario, e un anno dopo protesta con estrema vio- lenza contro l'annessione dell'Alsa- zia-Lorena. Accusato d'alto tradi- mento, subì il carcere; uscitone, restò al Reichstag quasi senza interruzione finché visse. Dopo aspre battaglie tra marxisti e lassalliani, il partito, sinora diviso, ebbe un'unità nel 1875 ; due anni dopo Bebel era condannato di nuovo; promulgate le note leggi ec- cezionali, il partito fu sciolto, ma già i seguaci eran legione, e soffocarlo non era più possibile.

Non c'è forse al mondo nessun altro partito che abbia alla testa un capo più incontestato di Bebel. Molti altri uo- mini di genio erano sorti in questi ul- timi anni intomo a lui, ma nessuno aspirò mai a prendere il suo posto, ancora si sa chi sia degno di succe- dergli. Il Bebel non fu un pensatore profondo, ma aveva il dono di saper parlare alla folla, con quel calore, con quella forza comunicativa che nascono da una convinzione sincera. Tribuno popolare più che uomo politico, egli ha fatto del socialismo tedesco il par- tito più potente dell'Impero. Aveva un vero temperamento d'apostolo e il mi- sticismo che crea le energie. Il fatto ch'egli stesso era stato operaio, che aveva soflferto per la causa del pro- letariato, gli procacciò nelle masse un credito, quale non ebbero mai Marx, Schweizer, lo stesso Liebknecht.

Pel socialismo tedesco la sua morte è stata un lutto gravissimo.

I metodi elettorali degli antichi l^omani.

I metodi elettorali degli antichi Ro- mani si riassumono nell'espressione Pauem et Circenses. I giuochi e gli spettacoli esercitavano infatti una gran- de efficacia sulle moltitudini, ed erano pei candidati uno dei mezzi più si-

curi per acquistare le loro simpatie. Non disprezzate, dichiarava grave- mente Cicerone, l'eleganza dei giuo- chi e la magnificenza degli spetta- coli... occorre dire il fascino cb'essi hanno sulle masse ignoranti? »

u Di carattere religioso in origine, scrive Georges Chaine nella Revue Bleue, gli spettacoli divennero presto nelle mani degli ambiziosi uno stru- mento potente e infallibile di popola- rità e di corruzione. I pretori e gli edili specialmente trovavano in essi la miglior garanzia di nuovi successi, preparandosi la via alle grandi magi- strature. Per dare spettacoli ogni oc- casione era buona : la morte d'un parente, il compimento d'un voto, e u si può dire che tutte le feste fu- nebri o votive celebratesi in Roma furono le premesse di una candida- tura ».

Nel 246 a. C, Mario e Decimo Bruto vollero che nell'occasione dei funerali del loro padre. Bruto Pera, si dessero giuochi pubblici. Il loro esempio fu co- stantemente seguito. C. Curione, nelle feste funebri date in onore di suo padre, fece elevare due teatri di legno di straordinarie dimensioni, ciascuno eretto su un asse. Di mattino rima- nevano separati e vi si rappresenta- vano due lavori, e verso sera veni- vano ricongiunti in modo da formare un anfiteatro, dove si davano dei com- battimenti gladiatori.

Cicerone narra che Murena non con- seguì la pretura per non aver saputo dare giuochi degni di lui. Non tardò però a riaversi, perché, poco dopo, « diede con pompa quei giuochi che si recla- mavano del candidato alla pretura n, ciò che gli giovò a meraviglia pel consolato.

L'edile e il pretore trovavano nella loro carica un doppio vantaggio: da una parte, profittavano del ritorno pe- riodico delle feste ordinarie : ludi ro- mani, Megalenses, Florales, plebeii, Ceriales; dall'altra parte, disponevavo d'un bilancio speciale, votato dal Se- nato, e che era accresciuto ogni anno.

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Ben presto poi convenne cedere alla pressione dei demagoghi e aprire un credito illimitato, incerta pecunia. I ma- gistrati attingevano dalle casse pub- bliche senza preoccupazioni. Nacquero abusi, si provocò un senato-consulto, ma era già troppo tardi, e fu vano.

D'altra parte, i pretori e gli edili, avidi di popolarità, non si contenta- vano del tesoro pubblico; ma s'inde- bitavano, facevano appello a sottoscri- zioni private, certi, quando più tardi sarebbero stati inviati come gover- natori nelle provincie, di raccogliere denaro sufficiente non solo per pa- garsi i debiti, ma anche per dare altri spettacoli con lusso ancora maggiore. L'edile Emilio Scauro, genero di Siila, che per i debiti fu citato in giudizio e difeso da Cicerone, fece costruire un teatro sontuoso, di marmo e di ve- tro, decorato di tappeti, ornato di tre- mila statue di bronzo, e capace di con- tenere 80.000 spettatori. In esso egli offrì spettacoli superbi, e poi lo fece demolire. Alcuni dei preziosi mate- riali furono trasportati nella sua villa di Tuscolo; distrutti più tardi da un incendio, se ne valutò una perdi- ta di 100.000.000 di sesterzi (circa 20.000.000 di lire). Siila, con denari raccolti nell'amministrazione della Ci- licia, diede spettacoli tali che gli val- sero subito il consolato.

Ricordiamo anche Milone, aspirante al consolato, che profuse nei giuochi 300.000 sesterzi; Pompeo, che inau- gurò un teatro di pietra capace di 40.000 persone; e infine Cesare, che completò le lotte degli atleti con i combattimenti di gladiatori, di cacce al leone e alla pantera, con nauma- chie, corse al circo, ecc.

Alcune volte gli organizzatori di fe- ste, sotto forma di missilia o di spar- sioneSj gettavano al pubblico dei doni: in genere cose alimentari e leccornie. I cittadini erano sensibili a queste at- tenzioni, e sapevano dimostrare la loro gratitudine. Questa forma di largitio

divenne però eccessiva, tanto che un bel giorno ai pretori e ai consoli, al- meno a parole, fu interdetta.

Oltre i giuochi, il candidato aveva un altro mezzo per acquistarsi la sim- patia del popolo: quello di contribuire alla magnificenza di Roma o al benes- sere pubblico, con costruzione di mo- numenti, abbellimento di edifici, dona- zioni, e via dicendo. Questo mezzo era meno diffuso dell'altro perchè meno ef- ficace. Non lusingava, come l'altro, le passioni e gli appetiti della folla, perchè corrispondeva a un sentimento più ele- vato, che pochi avevano. L'esempio più notevole è quello del pretore Quinto Marcio, che, incaricato dal Senato di riparare i condotti delle acque Appia, Aniense e Tepula, vi aggiunse, prima che l'anno di magistratura spirasse, una nuova acqua che prese nome da lui. Agrippa, edile, non si contentò di dare giuochi per cinquantanove giorni di seguito, ma riunì per mezzo di canali sette corsi d'acqua, riparò gli antichi ca- nali, costruì 700 abbeveratoi, 106 fontane, 130 serbatoi, « la maggior parte magni- ficamente ornati e abbelliti, come scrive Plinio il Vecchio, da 300 statue di bronzo o di marmo e 400 colonne di marmo »; aprì inoltre 170 bagni gratuiti. Cesare sacrificò una larga parte della sua for- tuna per riparare la via Appia, e quando era edile, decorò il Comizio, il Foro, le basiliche, ed elevò magnifici portici al CampidogHo. Per queste spese ecces- sive, si dice ch'egli contraesse un de- bito di 1300 talenti.

Ma l'argomento elettorale più valido e al quale Quinto Cicerone assegna nel suo Manuale del perfetto candidato il posto d'onore sono i banchetti. Se que- sto metodo di propaganda è giunto fino a noi, deve aver certo un'efficacia in- discutibile. Fatto curioso: nel banchetto politico romano non si tengon discorsi. « In questo popolo d'oratori, osserva il Chaigne, tale tratto manifesta la fine psicologia elettorale da parte del can- did?to antico, e afferma la sua supe- riorità su quello moderno, per la pre- occupazione di non turbare in nessun

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modo la gioia oflferta all'elettore. Per lui, un menu era un programma ».

L'unica sua preoccupazione era di dare un banchetto tale da non temer confronti. Il popolo, invero, condivi- deva più volentieri l'opinione del suo migliore anfitrione: poiché nessuna pro- digalità era inutile, nessuna era ecces- siva.

Natta e Murena si procacciarono coi banchetti uno straordinario favore po- polare. Nessuno però agguagliò la ma- gnificenza di Cesare e di LucuUo. Ce- sare, dopo le sue vittorie su Pompeo, per compiere la conquista di Roma, diede un grandiosissimo pranzo a tutti i cittadini. Lucullo offrì suntuosi ban- chetti non solo agli abitanti della città, ma anche a quelli dei dintorni. Una sola cena, servita nella sua galleria d'Apollo, in mezzo a meraviglie d'arte, gli costò 50.000 dracme, circa 45.000 lire.

E facile comprendere come questi esempi rendessero i Romani difficili ed esigenti. I candidati poveri o avari non piacevano affatto. Q. Tuberone ne fece la dolorosa esperienza: per aver dato pranzo da stoico, alle elezioni restò in tromba.

Non pochi convitati si portavan via gli avanzi della mensa, e talvolta anche qualche oggetto utile o prezioso. Er- mogene, per esempio, si prendeva le salviette; altri, meno modesti, si prov- vedevano d'argenteria, e sceglievano, tra i piccoli oggetti di servizio, i cuc- chiai d'oro e d'argento.

Col tempo vennero gli abusi. Il can- didato aveva spesso a lagnarsi della delicatezza degli invitati, e finì col non ricevere più nessuno in casa propria. Da principio egli affidò a imprendi- tori il servizio dei banchetti, mandando talvolta in aiuto, come fece Cesare, i propri schiavi. Come poi gli impren- ditori esigevano troppo, gli alimenti egli preferì mandarli o farli distribuire a domiciUo degU elettori. Ogni por- zione veniva posta in un cestello in- tessuto, il cui nome, « sportula », servì a designare tali distribuzioni. A poco a

poco fu adottato un sistema più co- modo : il cestello fu pagato in denaro, e la sportula designò l'equivalente in moneta del pranzo. In questo modo gli elettori potevano nutrirsi per più gior- ni, e i candidati si assicuravano la loro simpatia fino al momento dello scrutinio.

Accanto alla sportula, c'è il congia- rium, il quale segna un sensibile pro- gresso nella corruzione. La sportula non era se non una distribuzione di alimenti; i congiaria designavano pro- digalità di ogni genere, fatte al popolo in circostanze diverse, principalmente alla fine della Repubblica e sotto l'Im- pero, in cui presero talvolta, pei for- tunati che li conseguivano, il carattere di grosse eredità.

Pertanto, all'origine, questa dona- zione non consisteva che in un congius d'olio o di vino distribuito al popolo: « congiarium comune liberalitatis atque mensurae », dice Quintihano. Sembra ch'esso fosse un supplemento alle di- stribuzioni ordinarie supplemento cortese, e generosità interessata fatta pensatamente da quelli che brigavano per qualche carica, e sopratutto dai magistrati già in funzione, specialmente edili e questori, che aspiravano a onori più ahi.

Acilio Glabrione. candidato alla cen- sura e rivale di Catone, godeva del favore popolare grazie ai congiaria da lui distribuiti. Ritornando dall'Asia, Lucullo, per ingraziarsi il popolo ro- mano, gli fece dare in congiarium più di 100.000 barili di vino. Ben presto però i congiaria rappresentarono carne, vivande squisite, denaro, vestimenti, e perfino schiavi e pezzi di terreno. Si spendevano vece fortune per con- servare un solo momento l' instabile favore del popolo !

Da quanto si è detto parrebbe che gli antichi candidati romani non aves- sero limiti in queste loro liberalità e

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Voi. CLXVII. Serie V.

1" Settembre 1913.

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donazioni. Non è vero, almeno teori- camente. Un senato-consulto le aveva proibite severamente, applicando loro le pene severe della legge Calpurnia, e anche Cicerone, quando fu al potere, confermò queste disposizioni nella Lex Tullia. Ma il console opportunista do- veva ben presto dichiarare egli stesso che tale repressione era solo una lu- stra per dare a vedere agli stranieri quanto i loro costumi pohtici fossero rigidi. Allorché Catone, condannando gli eccessi dei candidati, inveiva con- tro i banchetti e i giuochi dati al popolo per guadagnarne i suffragi: « Strani discorsi, gli rispondeva Cicerone, e che i nostri costumi, le nostre consuetu- dini, la nostra politica rifiutano... Ar- rossisci, o Catone, di giudicare con tanta severità antichi usi sanzionati dalla stessa Repubblica e dalla durata di questo Impero ! »

Pietro Rosegger.

Pietro Rosegger, il celebre scrittore austriaco, che festeggiò il 31 luglio scorso il settantesimo genetliaco, è nato in un villaggio della Stiria ed è figlio di contadini. Troppo gracile e ina- datto ai lavori dei campi, la madre voleva farne un prete, ma poi, scon- sigliata dal proprio curato, lo mandò da un certo Natzi ad apprendere il mestiere di sarto.

« Col mio padrone, racconta il Ro- segger, percorsi per atmi i villaggi del- la pianura e le alte solitudini, perchè i vestiti li eseguivamo a domicilio dei clienti. Questi anni furono la mia pre- parazione di poeta, la mia università di specialista nei costumi di conta- dini della Stiria. Imparai così a co- noscere a fondo i lati buoni e cattivi della nostra gente di montagna e dei campi ».

Artista nato, cominciò fin da questo tempo a scrivere versi e novelle. Erano lavori in dialetto che egli com- piacevasi leggere agli amici e ai com- pagni di lavoro. Privo di denaro per comprarsi libri, pensò di scriverne da

sé: cucì un grosso quaderno che inti- tolò Calendario^ e in esso notava tut- te le sue impressioni e le previsioni del tempo. Gli anni passavano, e gli scartafacci del giovane sarto si accu- mulavano.

« A un certo momento, racconta egli stesso, cominciò ad agitarsi in me un demone, che molti dei miei lettori co- noscono forse per esperienza: un de- mone irrequieto, carezzevole e ingan- natore: quello dei caratteri tipogra- fici. Oggi so bene che l'inchiostro di stampa non é meno innocuo e a buon mercato della cera delle scarpe e che

10 si usa talvolta pel medesimo ser- vizio... Conoscevo i giornali perchè i mercanti se ne servivano per avvol- ger le stoffe, il filo, i bottoni che essi ci vendevano; e un venerdì sera, men- tre cucivo a fianco del mio padrone sonnolento, mi venne Pidea di pub- blicare qualcuna delle mie elucubra- zioni in un giornale. Due giorni dopo, scrissi una lettera alla Posta di Gratz.

11 redattore capo mi rispose che gli mandassi tutto ciò che avevo sino al- lora composto. Fui spaventato. Dove prendere il denaro necessario per r invio, se solo per una semplice lettera avevo dovuto spendere cinque kreut- »er?... n.

Andò a chieder consiglio al par- roco. Questi che per caso doveva re- carsi a Gratz, si offrì a portare egli stesso i manoscritti. Ma quale non fu la sua sorpresa quando vide ch'essi erano un pacco di quindici chilo- grammi!.,.

La vigilia di Natale Pietro Rosegger ritornò in famiglia per passarvi le fe- ste: la madre non appena lo vide gli disse che all'ufficio postale di Krieglach c'era un mucchio di corrispondenza per lui e che di più un giornale fa- ceva il suo nome. A questa notizia, corse difilato alla posta, dove ritirò una quantità di lettere, di biglietti e di pacchi.

« E' così, narra il Rosegger, che di- venni scrittore. Non so se spetti pro- prio a me il diritto di dir queste cose,

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ma io me lo prendo perchè altri le hanno raccontate con tante inesattez- ze... Io non cercherò tuttavia di de- scrivere i sentimenti che suscitarono in me l'articolo benevolo che A. V. Svo boda aveva scritto nella Posta di Gratz su me e sui saggi letterari che gli avevo mandati. Egli sperava di trovar persone generose che aiutas- sero il giovane poeta a uscire da una situazione meschina mandandolo a istruirsi in una scuola di città. Ecco che le lettere erano affluite accompagnate da doni, da libri, e anche da denaro: u perchè potessi bere dicevano un buon bicchier di vino nelle feste natalizie w. Non connettevo più. En- trai a casa ebbro di gioia. Lessi tutte le lettere ai miei genitori; essi no ne capivano nulla, ma la mamma mi disse: « Bada, figlio mio, che tutta questa gente non si burli di te! ».

è capaci di fare altro. Poco sonno, poco appetito, nessun interesse per le cose esteriori: un periodo felice, ma che fa dimagrire. Finalmente il manoscritto è terminato; ma ora bi- sogna rimaneggiarlo, frase per frase, e questo lavoro occupa circa quattro settimane t. Poi ne fa tirare le prime bozze « che si leggono così da un punto di vista oggettivo, sembrandoci di leggere la prosa di un altro ». Fi- nita la lettura, prepara un altro grosso quaderno e ricorregge tutto il romanzo ancora una volta. Quindi il mano- scritto è rimandato in tipografia. Ricom- posto, l'autore lo rilegge di nuovo, e finalmente il libro è lanciato al pub- blico.

Il Rosegger ha scritto quaranta vo- lumi, senza tener conto delle pubbli- cazioni della sua rivista mensile, Ber Heimgarten.

No, le persone che avevano rispo- sto all'appello di Svoboda non solo non si burlavano del giovane Roseg- ger, ma l'aiutarono ad entrare alla scuola commerciale di Gratz, dove restò quattro anni. Uscitone pubblicò il suo primo libro, che ebbe grandis- simo successo e che gli valse una borsa di viaggio della dieta provin- ciale.

A cominciar da questo momento, le opere di Kosegger si susseguono con una rapidità straordinaria. Il più piccolo avvenimento gli lo spunto per un nuovo lavoro. 11 suo stile è nervoso e conciso e, malgrado i molti provincialismi, scolpisce le cose con rara efficacia.

Ecco come il Rossegger lavora. Con- cepita la trama di un romanzo, la distende in iscritto in un grosso qua- derno di 500 pagine. « In tre mesi l'o- pera sarà compiuta. Compiuta? E' al- lora che comincia il lavoro penoso; poiché la prima copiacela non era che un giuoco, una specie di gioia intima di esprimere ciò che si sente nel- l'anima. Durante questo tempo, non si

L'età della Terra.

Conoscere esattamente l'età della terra, certo non è possibile; ma si può almeno farsene un'idea approssimativa, conoscere cioè a quale ordine di gran- dezza il nostro globo appartiene? Que- sta questione è stata molto studiata dai geologi, dai geografi e dai fisici, e i risultati delle loro indagini sono espo- sti da G. Bonnier in un interessante articolo della Revue hebdomadaire.

Vediamo anzitutto ciò che dicono i geologi. E risaputo che, se si lasciano da parte le rocce eruttive e le rocce cristalline, tutti i terreni che si pos- sono esaminare nella costruzione delle strade e delle ferrovie, nelle cave, nelle miniere, nei trafori, sono costituiti da depositi che si son prodotti in fondo alle acque, talora in fondo ai grandi laghi e ai mari. I sedimenti hanno quasi sempre conservato i vestigi di esseri viventi oggi scomparsi; tali ve- stigi sono frammenti delle parti dure degli animali, come ossa, denti, con- chiglie; o dei vegetali: radici, legno, frutta ; o impronte sia di animali come di vegetali. Questi avanzi sono chia-

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mati fossili, e le rocce su nominate, sedimentarie e fossilifere. Se si esa- minano i diversi depositi marini o di acqua dolce che si vengono formando attualmente, è facile misurare lo spes- sore di deposito che si produce in un fondo marino o lacustre determinato durante un certo numero d'anni. I geo- logi hanno trovato così che, secondo la natura dei sedimenti e secondo le condizioni diverse della sedimenta- zione, occorrono in media tredicimila anni perchè le acque formino un de- posito dello spessore di un metro.

Ora, si valuta a circa 30 mila metri lo spessore delle rocce sedimentarie e fossilifere : ne risulta perciò che il tempo necessario per formare questi depositi è di 390 milioni di anni; e poiché vi sono altri depositi che esi- gono 20 mila anni per formare un metro di spessore, il tempo corrispon- dente alla formazione di siffatte rocce potrebbe essere di mille milioni d'anni. E tale pei geologi sarebbe l'età ap- prossimativa della terra. Osserviamo che in questo calcolo non si conside- rano le rocce cristalline stratificate che giacciono solto le rocce precedenti.

Sentiamo ora i geografi.

Durante i periodi geologici successivi corrispondenti ai depositi sedimentari in questione, la terra ha continuato a raffreddarsi e perciò a contrarsi, for- mando sulla sua scorza delle rughe. Si può paragonare questo fenomeno alle grinze che osserviamo sull'epidermide di un pomo quando si dissecca. A tali crespe terrestri sono dovute le catene di montagne. Alcune, come quelle di Scozia per esempio, corrispondono ai periodi primari, cioè alle più antiche rocce sedimentarie e fossilifere; altre, come le i'Mpi e i Pirenei, si riattaccano a periodi più recenti, all'epoca terzia- ria. Se si suppone che una buccia di pomo, già un po' disseccata, venga in- teramente distesa, staccandola dal resto del frutto, si ottiene evidentemente la superficie ch'essa aveva quando era fresca. Analoga è l'operazione che i geografi hanno tentato di applicare alla

scorza terrestre, calcolando quale sa- rebbe la sua superficie se essa fosse dispiegata. Con questo metodo hanno trovato che, prima delle increspature, il raggio della terra era quasi di un centesimo più grande di quello attuale, e che per giungere a questa specie di raggrinzamento sono occorsi circa due- mila milioni di anni. E questa sarebbe secondo essi l'età approssimativa del nostro globo.

I fisici hanno applicato a questa que- stione lo studio dei fenomeni di radio- attività e di emanazione. 11 radio, l'u- ranio, per esempio, sono metalli rari che hanno proprietà afi'atto speciali dette radioattive. Essi presentano, tra le altre particolarità, quella dell'« ema- nazione », per la quale possono tra- sformarsi in un gas che si trova in pic- cole quantità nell'aria e che si chiama elio. Ora, si è determinato qual volume d'e.io può essere emanato durante un anno da una quantità determinata di uranio, per esempio. Perciò, cercando il volume di elio in un minerale na- turale trovato nelle rocce e contenente uranio^ si è calcolato che furono ne- cessari almeno quattrocento milioni di anni per la formazione di questo mi- nerale. Calcoli analoghi sono stati fatti da fisici inglesi su diversi minerali e diverse rocce. Essi hanno cosi stabi- lito che per le rocce dei terreni anti- chi di Svezia si richiesero mille e tre- cento milioni d'anni, e più di seicento milioni per le rocce dell'isola di Ceylan.

Queste cifre sono comprese, come si vede, tra quelle dedotte dal metodo geo- logico con lo studio dei depositi sedi- mentari e quelle date dal metodo geo- grafico con l'esame degli increspamenti della crosta terrestre, sicché l'età della terra sarebbe compresa tra mille mi- lioni e due mila milioni d'anni.

Senonché, certe considerazioni geo- logiche sembra dimostrino che questa cifra media non indichi se non l'età dei periodi più recenti della formazione della crosta terrestre. Infatti, al di sotto

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di tutte le rocce, sia sedimentarie, co- me fossilifere, si trova una massa enor- me di rocce cristalline. Ora, di queste, in tutti i calcoli precedenti, non si è tenuto conto. Di piti, i geologi ammet- tendo oggi che il granito non è una roc- cia eruttiva, ma che proverrebbe da una specie di fusione delle rocce cri- stalline stratificate e pieghettate, ne deriva che le rocce possono rifondersi, sorgere, sformarsi e riformarsi, cancel- lando naturalmente ogni impronta di fossile. È impossibile quindi determi- nare l'età della terra anche approssi- mativamente, e i due milioni d'anni dei geografi possono rappresentare tutt'al più l'età dell'insieme dei ter- reni relativamente recenti nei quali i fossili si sono finora conservati.

Le forze elettriche mondiali.

Qual'è, nel mondo, la quantità di energia realmente utilizzabile per le forze elettriche? Occupandosi di que- sta questione, V Economista dell'Italia Moderna osserva quanto sia malage- vole valutare con esattezza tale ener- gia, essendo necessario conoscere non solo la portata di tutti i corsi d'acqua, ma anche le diflìcoltà di sfruttamento di certe forze idrauliche.

E indispensabile perciò un servizio di misurazione metodico che eflfettui operazioni numerose e prolungate allo scopo di determinare i livelli e le por- tate dei corsi d'acqua, le quali permet- tano di valutare le forze disponibili. Queste misurazioni sono state affidate in Francia al servizio delle grandi forze idrauliche che è aggregato al Ministero di Agricoltura. Un servizio analogo è stato pure istituito in Italia, nella Sviz- zera e negli Stati Uniti, e c'è da au- gurarsi venga stabilito in tutti i paesi civili, perchè ciò permetterebbe la dif- fusione più immediata dell'uso delie forze idroelettriche e presenterebbe quindi una vera economia dal punto di vista industriale.

La totalità delle forze idrauliche at- tualmente sfruttate per la produzione

di energia elettrica raggiunge circa i 6 milioni di cavalli. Si ammette però che vi siano realmente disponibili 65 milioni di cavalli.

Gli Stati Uniti sono alla testa del movimento con 2,5 milioni di cavalli, seguiti da vicino dalla Francia, Svezia e Norvegia. Gli Stati Uniti posseggono la più lunga linea di trasmissione di forza; una delle sue più importanti linee è lunga 400 km. Dei 30 milioni di cavalli consumati dagli Stati Uniti, 26 milioni provengono dalle macchine a vapore e 2,5 milioni da cadute di acqua. Il professor Unwin ritiene che la potenza totale delle cadute del Nia- gara raggiunge i 7 milioni di cavalli; il Missouri potrebbe fornirne 2 milioni. Infine le riserve disponibili nelle Mon- tagne Rocciose sono così enormi che potrebbero rendere 45 milioni di ca- valli.

Nella Scandinavia vi sono numerose e potenti cadute d'acqua e la loro uti- lizzazione si fa attualmente in un modo estremamente rapido.

La Francia occupa il terzo posto con più di 500,000 cavalli, ma è certo che essa potrebbe utilizzarne io milioni, poiché la ricchezza idraulica della Francia è paragonabile alla sua ric- chezza in carbone.

L'Italia è uno dei paesi in cui il carbone bianco è stato più che altrove messo in valore e vi si contano nu- merose le centrali da io a 50,000 ca- valli. 11 Ministero di Agricoltura giu- dica che vi sia una disponibilità di 6 milioni di cavalli, di cui 800.000 per l'Italia centrale.

La Svizzera contava nel 1906, 176 centrali idroelettriche formanti una po- tenza di 169.000 Kw. La differenza delle leggi da un Cantone all'altro ha avuto però per effetto un*utilizzaz.ione poco razionale delle forze disponibili. Si aggiunga che le installazioni sviz- zere sono assai antiche e sono state fatte in un'epoca in cui i grandi tra- sporti di forza erano sconosciuti. Da ciò risulta un grande disperdimento di energia, che sarà assai difficile cor-

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reggere. Si può ritenere che la po- tenza disponibile nella Svizzera rag- giunga circa 1,5 milioni di cavalli.

Tale è presso a poco la potenza di- sponibile in Germania, dove fino ad oggi sono utilizzati appena 250.000 cavalli.

Gli altri paesi, come l'Austria, l'Un- gheria, l'Inghilterra, la Spagna, hanno impianti idraulici molto meno impor- tanti e delle riserve idrauliche che non sono paragonabili a quelle degli Stati sopra ricordati. La Russia sol- tanto può entrare in confronto con questi, poiché si valutano le forze idrauliche, di cui essa dispone, a 11 milioni almeno di cavalli.

Giacomo Dina e la Convenzione di Settembre.

Emilio Dina dispose perchè « due anni dopo la sua morte fossero ricor- date le ardenti polemiche sorte nei gior- nali per un busto negato in un luogo pubblico a Torino in onore del fratello Giacomo, l'illustre direttore delVOpi nione ».

La famiglia Dina ha affidato il delica- to incarico al prof. Adolfo Colombo, il quale, in un'edizione di 300 esem- plari fuori commercio (Torino, 1913), sulla guida di documenti già cogniti e di non pochi interessanti ed inediti, pur non dimenticando trascurando il principale soggetto dell'incarico commessogli, ha saputo elevare la questione da polemica a storica; ciò che accresce importanza e valore al suo coscienzioso lavoro di ricerche, di analisi e di espressione serena e im- parziale.

Nel bel lavoro del prof Colombo, si rifa la narrazione delle vicende e dei fatti passionali e tragici cui dette origine la famosa Convenzione di Set- tembre, confortando le affermazioni coi documenti dei quali ha potuto lar- gamente disporre. Egli ha nuovamente dichiarato che l'articolo apparso sul- V Opinione del 20 agosto 1864, fu scrit- to da Giacomo Dina in piena buona

fede, per consiglio del Minghetti, « il quale, volendo per ragioni di Stato che fosse mantenuto sul trasporto della capitale il più scrupoloso silenzio, dette la sua parola d'onore al Dina che non si era mai pensato al tra- sloco della capitale ».

Purtroppo, il direttore deWOpinione portò per tutta la vita la pena di que- sto inganno, e fu anche involontario fattore del grave danno economico cagionato a suo fratello dalla costitu- zione di una società commerciale in accomandita per la durata di nove anni, per la quale fu firmato il con- tratto soltanto quando si credette che la capitale non si sarebbe mossa da Torino.

La pubblicazione del prof Colombo ci rappresenta tempi ormai lontani da noi, nei quali le lotte politiche e le gelosie municipali cagionarono movi- menti collettivi di ribellione, la cui eco non si spense negli animi dei pa- triotti piemontesi che col fermarsi dei battiti dei loro cuori. Torino sentì terribilmente l'offesa dell' inganno pel quale la Convenzione sembrò frutto di cospirazione contro il piemontesi- smo; e più sentì l'onta per l'indegna commedia delle smentite e delle de negazioni. 11 leale e coraggioso Gia- como Dina fu il capro espiatorio della Permanente; e l'odio di coloro che la formarono e ne seguirono le imposi- zioni, non diminuì nel lungo corso degli anni, non ebbe termine con il trasferimento della capitale a Roma, ma durò crudele e implacabile contro il benemerito giornalista. Al quale, nel 1878, fu negata la rappresentanza politica del I collegio di Torino e nel 1880, dopo la sua morte, agli amici e ammiratori suoi, la concessione del- l'area per collocare un busto di lui in uno dei pubblici giardini di Torino, sempre perchè ritenuto complice del ministero Minghetti-Peruzzi nell'affare della Convenzione. Così il busto ven- ne collocato nella sala dell'Associa- zione della Stampa in Roma il 24 a- prile 1896.

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Chi esamini il lavoro del professor Colombo può trovarvi larga copia di notizie importanti per la storia del nostro risorgimento, contenute nelle lettere di Minghetti, Bottero, Castelli, Tegas, Artom, Boncompagni, Govean, Oldofredi, N. Bianchi, Chiala ecc., che servono anche a determinare le speciali condizioni in cui si svolse la lotta per arrivare da Torino a Roma; per modo che la sosta in Firenze che per alcuni, e non pochi, doveva essere tutt'altro che un trasferimento provvisorio di capitale fu incentivo a spingere gli italiani in Roma. E l'o- pera della Permanente, non sempre disinteressata e simpatica e ce n'è prova la guerra personale fatta al Dina, riuscì in fondo utilissima per impedire, non dirò una rinuncia a Roma capitale, ma almeno una troppo lunga e paziente attesa della risolu- zione della questione romana.

E' finalmente da augurarsi che il prof. Colombo riesca a pubblicare l'e- pistolario e il carteggio del Dina che, come egli egregiamente dice, « daran- no un prezioso contributo non solo alla biografia di lui, ma anche alla storia del giornalismo italiano n.^A. S.)

I manoscritti egiziani dei vangeli.

Da circa trentacinque anni, l'Egitto fornisce i contributi più preziosi allo studio dei testi biblici.

Pel Vecchio Testamento, le tavole cuneiformi di Tel el Amarna e i pa- piri della colonia giudaica d'Elefan- tina sono stati delle rivelazioni inat- tese sulla lingua che si scriveva e si parlava in Palestina. Quanto al Nuovo, è ancora dall'Egitto che ci proviene un manoscritto dei quattro vangeli: manoscritto che nei lavori di critica non si potrà più d'ora innanzi scom- pagnare da quegli altri tre o quattro sui quali si appoggia la ricostruzione del testo sacro.

Gli studiosi sapevano che nel 1907 un mecenate americano, Freer, della città di Detroit, nello stato di Michi-

gan, aveva comprato dal ben noto mercante del Cairo, Ali, quattro pa- piri, uno dei quali conteneva i quattro vangeli. Ma del valore di tale docu- mento non si è avuto un giudizio se non in questi- ultimi tempi, in cui Freer ha pubblicato un bellissimo fac- simile a colori che riproduce perfet- tamente l'originale. Questo facsimile è accompagnato da uno studio del professor Sanders, dell'Università di Michigan ; in esso egli disciKe la data del documento, e rileva le numero- rosissime varianti. D generoso com- pratore, secondo il Journal de Genève, donerà questo manoscritto alla Smith- sonian Institution di Washington.

11 mercante Ali ha asserito che esso è stato scoperto nella città di Akhmin, l'antica Panopolis, nel Medio Egitto. E' possibile, perchè tra le rovine di questa stessa città si sono ritrovati altri testi religiosi, tra cui il vangelo apocrifo di San Pietro. Non bisogna però fidarsi troppo delle indicazioni dei trafficanti indigeni, che possono aver interesse a mentire. L'origine del manoscritto è dunque incerta, ma è assai probabile che sia stato con- servato con cura in un convento, e deposto forse più tardi in una tomba.

Esso si compone di trecentosettanta- due pagine in carattere onciale. Le pri- me sedici del vangelo di San Giovanni sembra siano di una mano diversa. Probabilmente questa parte del mano- scritto era andata distrutta e fu rico- piata da un altro amanuense. La ri- legatura è in legno, ed è ornata di il- lustrazioni posteriori al testo. Porta le figure degli evangelisti nell'ordine in cui i loro scritti sono disposti : Mat- teo, Giovanni, Luca, Marco. Queste il- lustrazioni, di stile copto o bizantino egiziano, debbono essere del vu o dell' vui secolo.

Quanto alla data del testo, il San- ders dice che essa rimonta al iv se- colo, o anche, ma meno probabilmente, al principio del v. Se si risale al iv secolo, esso ha l'importanza dei ce- lebri manoscritti dell'epoca: il Sinai-

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tico scoperto da Tischendorf, attual- mente a Pietroburgo; il manoscritto del Vaticano, pubblicato per la prima volta dal cardinale Mai, e l'Alessan- drino, al Museo britannico.

Una questione assai discussa dai critici, e che ha grave importanza per l'autenticità del documento, è quella sulla finale. I due primi manoscritti citati, il Sinaitico e il Vaticano, nel- l'ultimo capitolo (VI) si arrestano al versetto ottavo, e si chiudono con queste parole : « Esse non dissero nulla ad alcuno a motivo del loro spavento ». La maggior parte degli altri manoscritti aggiungono altri dodici versetti che vanno fino all'ascensione.

Ora, nel manoscritto Freer non solo la finale non manca, ma è più ampia. Vi si trova tutta una aggiunta che si- nora non ha riscontri altrove.

Dopo il versetto 14, in cui Gesù rimprovera ai discepoli la loro incre- dulità, il testo continua in una lingua, la cui intelligenza non è facile. Ecco la traduzione letterale di questo passo:

« Ed essi si difesero dicendo: que- sta età dell'iniquità e dell'incredulità è sotto il potere di Satana che, con l'aiuto degli spiriti impuri, non per- mette che si conosca la verità e la po- tenza di Dio. Rivelaci ora la tua giu- stizia, dissero essi a Cristo.

« E Cristo disse loro :

« 11 termine degli anni di licenza di Satana non è ancora venuto, ma si avvicina e sarà terribile Per quelli che hanno peccato io sono stato con- dannato a morte perchè essi ritornino alla verità e non pecchino più, e pos- sano ereditare nel cielo la gloria spi- rituale e incorruttibile della giustizia. Andate per tutto il mondo... ecc.. ».

La finale nbituale riprende qui, e il capitolo XVI termina come tutti gli altri manoscritti.

Henrìk Wergeland.

Jacob B. Bull ha pubblicato recen- temente a Cristiania, presso Steen, una interessantissima biografia su Hen- rik Wergeland, il grande poeta lirico

norvegese del secolo scorso. Occupan- dosi di quest'opera nel Journal des Débats, Leon Pineau dice che esso è così bello e attraente da sembrare un romanzo.

Henrik Wergeland nacque a Cri- stiania nel 1808. Il padre, Nikolai, era pastore. Un po' pedagogo, ma aman- tissimo della natura, poeta, musico, pittore, fu egli stesso il primo mae- stro del figlio. Nel 1817 dovette tra- sferirsi ad Eidsvold. Quivi diede al pic- colo Henrik un precettore, che divenne però ben presto insufficiente. Allora il padre lo mandò a Cristiania pres- so uno zio, il generale Aubert, che comandava la fortezza di Akerhus. Aveva undici anni. La prima volta che entrò alla scuola della cattedrale dimostrò tutta la sua vivacità. Poiché il maestro tardava a venire, il nuovo alunno, dopo aver esaminato a uno a uno i condiscepoli, con un sol tratto di matita disegnò una curiosissima caricatura che fece subito il giro della scolaresca ; poi, con l'aria più inno- cente del mondo, riempì la stanza di un ronzante sciame di mosche, di zanzare e di tafani. Era espertissimo in quest'arte in cui si esercitava da anni. Non contento ancora di ciò, e- mise un chicchiricchì così sonoro che tutta la classe gli fece un'ovazione. Ma come il maestro entrò, nessuno fu più attento e rispettoso di lui.

Da quest'epoca datano le sue prime produzioni: satire in versi con illu- strazioni argute, drammi, novelle, boz- zetti, farse. A sedici anni si fa notare dal pubblico con una novella : La />i>- tra sanguinante. Ma la sua vita è un po' troppo libera: girovaga per le vie della città, per le piazze e i mercati, nelle osterie e nelle taverne, in tutti i luoghi di piacere del sobborgo, di notte come di giorno, con compagni già pervertiti, bevendo, fumando diverten- dosi. A diciotto anni s'incontra con Ida Haffner, « un sogno bianco con occhi azzurri », « una meraviglia dai capelli d'oro ». Ha quindici anni, e sarà il tipo di quella « Stella » che il poeta canterà con versi immortali.

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Nel 1825 entrò all'università, ma, precedutovi dalla sua cattiva riputa- zione di studente, trovò diffidenze in un gruppo di giovani perbene. Non si scoraggi, ebbe altri amici, e con- tinuò la sua vita di bohémien.

Quattro anni dopo scrisse La Crea- zione, l'Umanità e il Messia, un can- tico all'amore e alla vita, all'uomo e a Dio, nel quale mostra di aver già conosciuto tutte le gioie e tutti i di- sgusti dei piaceri materiali. Tre ele- menti, egli dice, compongono l'amore: l'ebbrezza dei sensi, sorgente di ogni vita : r inclinazione per una perso- na determinata, che fa scaturire que- sta sorgente; e l'amore celeste, nel quale gli spiriti degli amanti si con- giungono per l'eternità confondendosi nell'amore universale. 11 poeta cerca di contemperare gli elementi di que- sta triade : ora li mescola, ora li se- para, passando dall'uno all'altro, per unirli in un ultimo e sublime accordo.

Stanco della venus vulgivaga, ma sempre tormentato da un desiderio d'amore ineffabile, personifica in Stella le sue aspirazioni più nobili compen- diando in lei ciò che ha trovato di bello, di delicato, di puro nelle donne da lui amate : Ida Haffner, Emilia Sel- mer, Hulda Malthe. Stella diviene l'i- dolo davanti al quale s'inginocchia, bruciando tutto ciò che aveva prece- dentemente adorato.

Chiuso il ciclo d'amore, si dedica tutto al suo popolo: al popolo norve- gese, che svegliatosi sin dal 1814 alla vita sociale ed ora cosciente del suo avvenire politico, vuole conquistare la libertà repubblicana. Non contento di esprimere le sue idee in iscritto, scen- de in campo e si mette alla testa del movimento sociale. Vestito da conta- dino, fraternizza coi contadini, colla- bora ai loro giornali, fonda bibliote- che, organizza feste, percorre i paesi tenendo conferenze. Portando alta la bandiera dei tre colori: rosso, bianco, azzurro, che sono il calore del cuore, la libertà dello spirito, la forza del popolo, è acclamato dovunque. Con

la sua persona, alta due metri, domina le assemblee: con la sua forza ormai leggendaria, s'impone a tutti. Per quanto rudi siano i suoi seguaci, nes- suno è più forte di lui. Nuotatore espertissimo, egli può fare il bagno vestito nell'acqua freddissima e sdegna, uscendone, di mutarsi gli abiti. Cam- minatore instancabile, d'un appetito straordinario e bevitore di prim'or- dine; appassionato fumatore, cavaliere che non si perita di entrare a cavallo nelle case e nei ristoranti e fare il giro di una tavola di commensali: quale con- tadino non avrebbe riconosciuto in lui il suo capo ?

Ma ecco muover guerra al Werge- land i rappresentanti della coltura da- nese minacciata. Loro duce è un suo vecchio compagno, J. Seb. Welhaven. Questi due uomini simboleggiano tutta la lotta tra l'antica e la nuova Nor- vegia. Welhaven, assai più abile nel sarcasmo, copre d'epigrammi l'avver- sario, che si difende come un gigante dalle mosche che l' irritano. Compren- dendo chiaramente che la forza prin- cipale del Welhaven risiede nella sua riputazione letteraria, comincia a di- struggerla, dimostrando che la poe- sia di lui è nella sua originalità una pre- tensiosa sfida alle regole estetiche e al buon senso.

Nel 1838, Wergeland fa rappresen- tare al nuovo teatro di Cristiania una specie d'operetta, / camphelles, il cui esuberante lirismo strappa a ciascun atto dal pubblico i più caldi applausi. All' indomani i critici la stroncano spie- tatamente. Alla seconda rappresenta- zione, gli amici di Welhaven, muniti di fischi, di trombe, di corna di cervo, seppelliscono tra infernali rumori l'o- pera del povero Wergeland.

Per un momento la lotta parve cal- marsi. Wergeland, che nemmeno que- sta volta si è perduto d'animo, si com- pra una casetta, ormai sua unica am- bizione, e si ritira consolato dall'affetto di un'altra donna, Amelia Bekkevold. Ma la penna gli rendeva poco e bi- sognava vivere. Chiese un posto di

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suffraganeo come pastore. Il governo, ostile, glielo negò. Wergeland si ri- volse allora direttamente al re Carlo John. Questi, generosamente, anche per l'intervento del padre, il vecchio Nikolai, gli assegna una pensione. Il repubbhcano Henrik Wergeland pen- sionato dal re! Quale trionfo per i suoi avversari ! Perfino gli amici più fedeli lo trattarono da rinnegato. Wer geland, malgrado tutto, felice nella sua umile casetta, non cessava di la- vorare per soddisfazione propria e per la gloria della patria. Più tardi, nominato dal sovrano, a dispetto dei più loschi intrighi, capo-ufficio degli Archivi, si vide più che mai vilipeso e schernito. Ma egli sapeva non ac- corgersene, o scordava tutto. « Pur- ché io senta una foglia verde, ebbro di gioia, diceva dimentico ric- chezza e povertà, amici e nemici. Le carezze del mio gatto che mi sfiora leggermente la faccia, mi cicatrizzano tutte le ferite del cuore e, come in un pozzo profondo, annego le inquie- tudini negli occhi del mio cane ».

D' improvviso, nel 1844, una malat- tia lo abbattè. Dal letto, ove restò lunghi mesi, udì una notte, a tarda ora, un sordo rumore: « C'è un tem- porale fuori ? n chiese all' amico W. Lassen, chele assisteva. « No! fece questi commosso. E' il popolo, il popolo riconoscente, Wergeland. Tut- te le strade sono piene di gente ». Un ultimo pensiero illuminò il volto del moribondo. « Finalmente! » mormorò, e andò a raggiungere la madre che in un ultimo sogno aveva visto ten- dergli le braccia.

Il tesserografo.

È una macchina ingegnosissima, della quale si è parlato anche qualche anno fa a proposito del progetto della posta elettrica. È stata chiamata col nome di tesserografo perchè fabbrica ed esibi- sce automaticamente i biglietti ferro- viari. L'inventore è l'ingegnere Ro- berto Piscicelli-Taeggi.

Questo del Piscicelli, scrive la Fifa Internazionale, non è, come si potrebbe credere, un congegno del tipo di quelU per i semplici biglietti d'ingresso, ma un meccanismo assai diverso : esso non ha il solo ufficio modesto di di- stribuire i biglietti che già furono col- locati nel suo interno belli e stampati, ma. al contrario, crea questi biglietti, all'istante medesimo della richiesta: stampandoli, controllandoli, conser- vandone perfino un duplicato. Basta a manovrarla un solo impiegato, e, da parte di questo come da parte del pubblico, si rende impossibile ogni tentativo di frode.

Per avere un'idea dei vantaggi e- normi che dal tesserografo si potreb- bero ricavare, vediamo in breve il sistema lungo e complicato col quale oggi procede la fabbricazione e la sor- veglianza dei biglietti ferroviari, dal momento in cui si stampano a quello in cui ritornano, dopo che i viaggia- tori se ne sono serviti, all'Amministra- sione delle ferrovie.

11 nostro esame si limiterà ai bi- glietti a cartoncino che sono destinati al servizio fra due stazioni limitrofe e che raprresentano il tipo più note- vole. Stampati in grande quantità, essi portano impressa una lettera (che rap- presenta la serie), un numero progres- sivo, il nome della stazione emittente, quello della stazione di arrivo, la de- signazione della classe, il prezzo di costo.

A tutte queste indicazioni deve aggiungersi la data e il numero del treno in partenza, , che, come si sa, vengono impressi con timbro a secco dall'impiegato al momento stesso della richiesta. Quando si considera che fra due stazioni principali ve ne sono molte irrtermedie, si vedrà che oc- corre oggi preparare, per ogni classe, tanti tipi diversi di biglietti quante sono le stazioni intermedie. Così, com- prendendo la Napoli-Roma 36 sta- zioni, per ognuna di queste e per ogni classe occorrono 35 tipi di biglietti ; complessivamente, quindi, 3780 tipi.

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E, poiché sulla stessa linea i treni diretti toccano diciotto stazioni inter- medie ed hanno prima e seconda clas- se, bisogna aggiungere altri 760 tipi. Ma non basta: occorre tener conto pure dei biglietti di andata e ritorno, di quelli di quarta classe, di quelli per militari, per ragazzi, ecc. Tirate le somme noi troviamo che la cifra oltrepassa il numero di 7000.

Queste sole considerazioni baste- rebbero a farci conoscere la grande utilità di un sistema più semplice. Ma si potrebbero avvalorare con qualche altra.

Per esempio, ogni stazione emette oggi biglietti anche per quelle lonta- nissime (Napoli Modane) e le linee esercitate in tutta l'Italia sono 200. È facile dedurre che i biglietti a desti- nazione fissa raggiungono un numero straordinario.

Quanto alla difficoltà del controllo basterà notare che ogni biglietto stam- pato acquista subito un valore fidu- ciario : esso dev'essere, quindi, sorve- gliato con la più scrupolosa atten- zione, dal momento in cui è stato creato fino al momento in cui ritorna all'Amministraz'one dopo che il viag- giatore se ne è servito.

1 magazzini generali contengono milioni di lire. di biglietti ferroviari che, a mano a mano, trasmettono alle relative stazioni le quali li classificano nei loro magazzini di riserva per farli poi passare, secondo la esigenza del bisogno, nei casellari di distribuzione. Venduto un biglietto, come si sa, non cessa la sorveglianza, e, passando di controllo in controllo, esso ritorna al- l'Amministrazione generale. Questo si- stema, difficile e gravoso, verrebbe eli- minato dalla macchina del Piscicelli. Ed anche verrebbe eliminato il con trollo dell'incasso giornaliero che gli impiegati distributori delle singole sta- zioni fanno registrando i numeri pro- gressivi di tutte le serie del proprio casellario, deducendo, per differenza, il numero di quelli emessi nella gior- nata per ciascun tipo, moltiplicando

questi numeri per i prezzi relativi e totalizzando i valori. Operazioni tutte meticolose, ma che non escludono la possibilità di frode: l'impiegato di- stributore, per esempio, può impri- mere il timbro a secco sopra un bi- glietto sottratto al magazzino di riserva anziché al casellario di distribuzione; senza che il controllore, il quale deve limitarsi a verificare la data e il nu- mero del treno, se ne possa avve- dere.

Il tesserografo viene ad eliminare tutti questi inconvenienti: come ab- biamo poc'anzi accennato, esso stampa, distribuisce e controlla al tempo stesso, i biglietti a misura della richiesta del pubblico.

L'impiegato si limita a muovere due leve della macchina, e subito, come primo risultato, appare, sopra un ap- posito quadro, il prezzo del biglietto richiesto. Poi viene il biglietto stesso, per produrre il quale la macchina con- tiene una striscia di carta continua, il cui colore varia per ciascuna delle classi. Ogni biglietto porta le solite indicazioni che oggi si veggono sui biglietti usuali, compreso il suo costo, la data e il numero del treno in par- tenza. Sul suo dorso vi sono infor- mazioni di servizi o annunzi commer- ciali. E, prima di uscire dalla mac- china, ogni biglietto viene cilindrato e riceve a secco l'impressione della sigla della società esercente.

Ma v'è di più: mentre la macchina fabbrica il biglietto, nel suo interno si compiono importanti operazioni. Un totalizzatore complessivo totalizza l'im- porto del biglietto emesso; un totaliz- zatore parziale, che corrisponde alla serie del biglietto distinto per classe e per categoria, totalizza l'importo medesimo ; un numeratore generale registra, contandoli, tutti i biglietti emessi ; un numeratore parziale li di- stingue per classe e per categoria ; infine un nastro di carta continua automaticamente il duplicato di cia- scun biglietto nei diversi colori che corrispondono nelle diverse classi.

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TRA LIBRI E RIVISTE

Nonostante che esegua un numero di operazioni così varie, il tessero- grafo è semplice nel meccanismo, fa- cile nella manovra e nella manuten- zione, solido in modo da non presen- tare pericoli di guasti, ed è di piccole dimensioni. L'esemplare costruito per la Napoli Roma misura m. 1.20 per 0,50, è alto m. 0.80, e può emettere 400 tipi diversi di biglietti.

Isacco Lévithan.

Isacco Lévitan(i86i-i90o) è il pittore sensibile e straordinariamente delicato del paesaggio russo. I suoi primi pas- si nella pittura, scrive N. Tchelenoff nel Courrier Européen, li fece sotto l'egida della scuola degli Ambulanti (Pérédvijniki). Questa scuola, che eser- citò una influenza considerevole in Russia, si riassume in un solo prin- cipio direttivo: trovar innanzitutto un contenuto ed esprimerlo poi con forme e colori. In altre parole: tradurre in lin- guaggio pittorico le idee che si potreb- bero forse esprimere meglio con pa- role. D'onde il carattere letterario, convenzionale e bene spesso antiarti- stico di questa scuola.

I paesaggi vi figurano rari perchè privi di ogni contenuto ideologico, e quelli che vi sono, imitano, copiano la natura. La sola libertà del pittore è quella della scelta. Perciò egli sceglie i « luoghi incantevoli », i « punti di vi- sta impressionanti », il « sorgere e il tramontar del sole », e via dicendo.

La personalità di Lévithan era trop- po originale per non insorgere contro una interpretazione così semplicista della realtà. La natura per se stessa non è bella brutta; la bellezza non c'è fuori di noi: ma ci vien dall'ar- tista, e la natura non è bella che per opera sua. Non basta quindi guardarla, ma bisogna sentirla e sentirla profon- damente.

E profondamente la sentì il Lévi- than.

II celebre critico d'arte russo Ales- sandro Benoit dichiara che il fascino

della natura russa lo ha provato per la prima volta dinanzi ai paesaggi di Lé- vithan : u\\ suo cielo freddo, il suo cre- puscolo grigio, le sue betulle sferzate dalla pioggia, le sue ombre azzurre va- ganti sulla neve primaverile, tutto ciò è di una bellezza singolare ».

I primi quadri che Lévithan inviò alle esposizioni degli Ambulanti furo- no una vera rivelazione. Sembravano gii squilli puri di una campana argen- tina in mezzo al rumore assordante di grossi tamburi. La natura russa aveva finalmente in Lévithan il suo vero in- terprete. I suoi lavori, piccole chiese di villaggio dalle cupole verdi; angoli di strade, radure in foreste di betulle dalle cime nevose, rivelano in lui un artista di prim'ordine.

La partenogenesi e l'ereditarietà.

Gli animali e le piante possono pre- sentare, naturalmente e sperimental- mente, il fenomeno della partenogenesi, della quale ci occupammo anche recen- temente a proposito delle scoperte del Loeb. Per tal modo, senza feconda- zione, senza fusione di un gameto ma- schile con un gameto femminile, si sviluppa dall'uovo un nuovo individuo, il quale evidentemente non discende che dal lato materno. .

Le possibilità della partenogenesi negli animali sono limitate, e il Loeb, Bataillon e altri naturalisti hanno anzi dichiarato ch'essa può benissimo ri- scontrarsi negli invertebrati, ma non nei vertebrati superiori, nei mammi- feri e nell'uomo.

Ora un eminente studioso, Yves De- lage, in un interessantissimo articolo {Biologica, n. 29) intitolato La parteno- genesi può esistere nella specie umana ? afferma che nuovi fatti, benché in ap- parenza estranei al problema, permet- tono di credere alla possibilità della partenogenesi nella nostra specie. Que- sti nuovi fatti, furono osservati per la prima volta da O. Hertwig, irradiando dei gameti prima della fecondazione.

L'Hertwig notò invero che il ga-

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meto maschile di rana dà, se poco ir- radiato, individui mediocri e difettosi, mentre se è molto irradiato pro- d<.tti normali, sani, ma forse un po' più piccoli.

L'irradiazione, l'azione del radio cioè sul gameto maschile, uccide evi- dentemente, in un certo grado, quest'ul- timo. Ma non può ucciderlo che in una sola maniera. Ora il gameto maschile sembra abbia due azioni sull'uovo: agi- sce portandovi un po' di cromatina, un po' della base dell'ereditarietà, e inol- tre determina, per così dire, l'inizio dell'irritazione nell'uovo e lo sviluppo dell'embrione.

L' irradiazione uccide molto proba- bilmente la sostanza che porta l'ere- ditarietà paterna, lasciandone intatta la virtù che provoca lo sviluppo del- l'uovo: virtù che può essere surrogata con agenti fisici o reattivi chimici. Per tal modo, la progenitura non può ve- nire che dal lato materno; il gameto maschile non agisce che come stimo- lante fisico o chimico e i discendenti, dal punto di vista dell'ereditarietà, di- scendono esclusivamente dalla madre.

La fecondazione, come affermano Giard e Delage, è un atto duplice che comprende due elementi che possono essere dissociati: vi è l'inci tazione allo sviluppo, fenomeno pura- mente fisico, e vi è la miscela dei due elementi ereditari delle due sostanze specifiche che possono essere distrutte senza -che per questo l'incitazione allo sviluppo ne soffra. (Qual tipo di indi- viduo si avrebbe se si potessero di- struggere ambedue gli elementi ere- ditari, paterno e materno?).

Alla specie umana l'irradiazione non può applicarsi, ma è assai probabile, afferma il Delage, che molte altre cause producano lo stesso effetto. Noi assorbiamo veleni abbastanza perchè i gameti maschili possano essere uc- cisi, almeno dal punto di vista del- l'ereditarietà. Si noti che vi son figli d'alcoolici, astemi : ciò può benissimo provenir dal fatto ch'essi derivano le loro qualità morali non dal padre ma dalla madre.

Non sarebbe dunque impossibile che anche nella specie umana esistesse la partenogenesi : che vi fo<:sero cioè in- .dividui provenienti da un solo geni- tore in fatto di ereditarietà.

Uno solo: la madre?

No, dice il Delage, anche il padre. Perchè ciò che è vrro del gameto ma- schile irradiato lo è anche di quello femminile. Si può infatti ottenere un embrione di rana da un uovo bene irradiato, fecondandolo con un gameto maschile sano.

Non è dunque impossibile che an- che nella specie umana esistano indi- vidui partenogenetici dal punto di vista dell'ereditarietà.

C'è di più. In alcune esperienze di incrocio tra specie diverse d'inverte- brati si sono ottenute, contrariamente a ciò che s aspettava, degli individui normali, ma esclusivamente materni, appartenenti cioè alla sola specie della madre. Si pensa che in questi casi il gameto maschile agisca soltanto come incitatore dello sviluppo deiruovo,senza che vi abbia mescolanza di cromatine, e la partenogenesi avverrebbe per una differenza eccessiva tra le due specie, per una disarmonia delle cromatine dei due gameti.

Ora si può supporre tra razze umane differentissime una disarmonia tale che, negli incroci, assicurerebbe la produ- zione di una progenitura partenoge- netica unilaterale. Esistono realqjente dei casi di incrocio in cui il figlio de- riva unicamente dal padre o dalla ma- dre t È ciò che bisogna studiare.

E un'altra esperienza si dovrebbe tentare, suggerisce il Delage. Si è cre- duto lungamente alla possibilità degli incroci tra la specie umana e le specie animali. Se si sono mai avuti dei casi di cui si possa tener conto scientifica- mente, non si spiegherebbero anch'essi con la partenogenesi?

La questione è del più grande in- teresse, ed apre un orizzonte nuovo verso il quale bisogna attirare l'atten- zione dei biologi, degli allevatori di animali, dei veterinari, degli orticul- tori e dei medici.

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TRA LIBRI E RIVISTE

" Attraverso gli Stati Uniti „.

Non è del tutto nuova per i lettori della Nuova Antologia l'opera recen-, tissima del Mayor des Planches inti- tolata appunto Attraverso gli Stati Unitij poiché alcune note del mede- simo A. furono tempo fa pubblicate in questa rivista. Ora quelle note am- pliate con nuovi studi escono in bel volume presso l'Unione tip. ed. to- rinese.

La grande regione nord-americana, grande quasi quanto l'Europa, non ha ancora nel suo centro lo sviluppo e la densità di popolazione delle regioni nostre; quindi un grande avvenire è riservato al paese ed alle masse che vi emigrano; per conseguenza s'im- pone il problema della distribuzione dei lavoratori. Per ottenere la facilità di scelta dei luoghi migliori, l'A. non si perde in descrizioni inutili di edi- lìzi, monumenti, spettacoli delle grandi città, ma descrive tutto ciò che ancora è ignoto delle regioni interne, illu- strando gli Stati prevalentemente agri- coli ed esaminando le condizioni delle nostre numerose colonie.

Molto istruttivo è il confronto, che l'A. fa dèlie condizioni dei nostri con- nazionali nei grandi centri, come New York, con quelle dei medesimi nei centri più piccoli e nelle campagne. Quelli spesso abitano in camere senza aria e senza luce, esposti a contrarre in rilevante percentuale il terribile morbo, la tisi; mentre questi prospe- rano in gruppi fiorenti in salute e be-

nessere economico. Le grandi metro- poli dell'est sono fatali per le nostre colonie, che invece trarrebbero più vantaggio nelle regioni del sud, del centro e dell'ovest.

L'A. ci trasporta per i luoghi più diversi, dalle terre coltivate alle fore- ste, dalle praterie ai deserti; si var- cano le giogaie delle Rocciose, si per- corrono le salubri colline dell'Arkansas e di parte del Texas, le lande trasfor- mate in luoghi abituali dalle ferrovie e dalla irrigazione lungo le coste del Messico.

Tratta TA. anche con rara compe- tenza deWamericanizzazione dell'emi- grato e il dibattuto problema della na- turalizzazione americana; inoltre tocca la questione dei neri del sud e dei gialli dell'ovest; le conseguenze tuttora perduranti della guerra di secessione, i compiti e le benemerenze delle fer- rovie nello sviluppo del paese, ecc. L'A. è favorevole a che, sotto deter- minate condizioni e garanzie, la nostra emigrazione agricola si sparga nelle campagne americane. Egli vede in ciò il modo più efficace di scongiurare le leggi di esclusione o di limitazione onde è da tempo minacciata, ed ora più che in addietro, dopo l'avvento al potere del nuovo presidente democra- tico; né crede che recentissimi avve- nimenti — l'acquisto della Libia in primo Inogo abbiano da mutare la direzione delle nostre correnti migra- torie, ritenendo, contro molti scrittori, che la Libia non sarà un territorio di popolamento.

Nemi.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

ITALIA.

A Torino si è formato un Comitato per un ricordo marmoreo a Sandro Camasio.

E uscito l'ultimo numero di La libreria, il bollettino bibliografico del- l'editore Laterza. Ecco le nuovissime opere della magnifica collezione « Scrittori d'Italia»: Economisti del cingile e seicento, a cura di A. Oraziani; Fantoni C. : Poesie, a cura di G. Lazzari; Reiezioni degli ambasciatori veneti al Senato, dei secoli XTI, XVII e XVIII, a cura di A. Segarizzi, voi. II: Milano - Urbino; Balbo C. : Sommario della Storia d'Italia, a cura di F. Nicolini, voi. I ; Stampa G. e Franco V. : Rime, a cura di A. Salza. Sono d'imminente pubbli- cazione: Aretino P. : Carteggio, a cura di F. Nicolini; Lorenzo il Magnifico: Opere, a cura di A. Simioni ; Parini G. : Opere, a cura di E. Bellori ni ; Trat- tati sulla donna del 500, a cura di G. Zonta; Foscolo U. : Prose, voi. II, a cura di V. Cian. Di più vi figurano tre romanzi di Alfredo Oriani: La disfatta. Il vortice, Gelosia, cui seguiranno prossimamente: No, Olocausto, Bivacco. Dei « Classici della filosofia moderna » è uscita recentemente la 2* parte della Scienza Nuova di G. B. Vico a cura di Fausto Nicolini. La « Biblioteca Mo- derna » si è arricchita di varie opere: Il naturalismo moderno di E. Tommasi, a cura di A. Anile; la parte 1* del volume dell'eccellente opera di Karl Vossler sulla Divina Commedia: La genesi letteraria della (i Divina Comme- dia » ; / moribondi del palazzo Carignano di Petruccelli della Gattina a cura di G. Fortunato. Varie altre recentissime pubblicazioni sono indicate in questo bollettino che per economia di spazio non possiamo citare.

L'editore Hoepli ha pubblicato recentemente: Molinari prof. E. e ing. F. Quartieri: Notizie sugli esplodenti in Italia, con 96 illustrazioni, 17 ta- vole e 18 facsimili di autografi; Levi ing. C. : Trattato teorico-pratico di co- struzioni cìtUì, rurali, stradali ed idrauliche, voi. II: Lavori in terra, strade, costruzioni idrauliche, legislazione, ecc., 2* edizione; Baxni ing. E.; Il monta- tore elettricista - Manuale per gli operai elettricisti di impianti industriali, 12* edizione con 416 incisioni ; Padovan A. : / figli della Gloria, 3* edizione migliorata; Bruttini A.: Il libro dell'agricoltore - Agronomia - Agricoltura - Industrie agricole; 3* edizione riveduta; Carregaro Negrin C. : Prontuario per la paga giornaliera degli operai da 0.50 a L. 10; Cei L. : Le caldaie a vapore, con istruzioni ai conduttori, con 282 ine. e 33 tabelle; Gansser A.: Manuale del conciatore, con 22 incisioni e 2 tavole colorate; Giachetti C. : La medicina dello spirito - Principi di psicoterapia razionale; Scialhub G. : Grammatica Italo-.A.raha con i rapporti e le differenze fra l'arabo letterario ed il dialetto libico.

L'Amministrazione deUe Belle Arti ha determinato di organizzare le raccolte archeologiche di Corneto Tarquinia in un unico grande museo. Pre- sentemente in questa città esistono due collezioni archeologiche di grande pre- gio: il museo principale ricco di sarcofagi etruschi e di preziosi vasi greci, di cui alcuni del periodo d'oro della tecnica vascolare. L'altra collezione, pure ricca di antichità etrusche, è quella Bruschi-Falgari, ora di proprietà dello Stato. Tutte e due queste raccolte verranno riunite nel famoso palazzo Vitel- leschi, appositamente adattato alla sua nuova destinazione.

A Bologna, su indicazioni di documenti ritrovati dal prof. Adolfo Ven- turi, è stato rintracciato nei magazzini dell'Accademia di Belle Arti un affresco di Ercole Roberti, celebre pittore ferrarese del quattrocento. L'affresco che si

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riteneva perduto per un incendio della chiesa di San Pietro, secondo dette indi- cazioni, era stato salvato e donato all'Accademia nel secolo decimottavo.

Col giugno in Roma ha iniziato le sue pubblicazioni una nuova rivista settimanale illustrata, Urbis et Orbvs.

L'eccellente rivista Cosmos, diretta dal prof. Guido Cora, ha ripreso dopo un lungo intervallo la sua pubblicazione. Questo primo fascicolo si apre con un commovente cenno necrologico del direttore su Donna Luisa Cora-Orsi, sua consorte e collaboratrice, spentasi or è poco nel pieno vigore delle forze e dell'ingegno. Seguono: La TAbia italiana, considerazioni generali di Guido Cora; Cartografia Coloniale dell'Istituto Geografico Militare dello stessvi Guido Cora'; Notizie geografiche; Letteratura geografica; Bibliografia supplemen- tare, ecc.

E stato pubblicato il testo del Codice della marina mercantile per la Tripolitania e la Cirenaica, approvato con regio decreto in data 22 giugno ultimo scorso. Il testo è preceduto da una relazione al Re, nella quale sono spiegati i criteri seguiti per adattare il vecchio Codice alle esigenze ed ai bisogni della vita marinara delle nuove terre.

A Taranto, negli soavi del R. Arsenale, per l'allungamento del secondo bacino di carenaggio, vuotandosi un pozzo antico si sono rinvenuti frammenti architettonici di un tempietto funerario ellenistico. Di notevole importanza e di molto interesse è un fregio in pietra sul quale è colpita una scena della Gigantomachia con Ercole nell'atto che atterra, con un sol colpo di clava, tre dei giganti.

La Pittura di Ch. Moreau-Vauthier e Ugo Ojetti (Bergamo, Istituto Ita- liano d'Arti Grafiche, 1913). E un denso e piacevole trattato sui processi tecnici della pittura; c'è la parte storica, ove tutte le tecniche dei varii tempi e paesi sono succintamente esposte; e c'è la parte pratica, che spiega i processi di esse tecniche; tempera, affresco, olio, pastello, acquerello, pitture miste. Poi si tratta della conservazione e del restauro dei quadri antichi, dei pro- cessi di falsificazione, ecc. Un vokime siffatto mancava ; ed è necessario a molti : pittori, dilettanti, critici, amatori. Il trattato del Vauthier fu dall'Ojetti, piti che tradotto, rifatto ; proporzionato meglio alla sua utilità pratica, sfrondato di divagazioni, arricchito di aneddoti. Il riduttore s'è rivolto, per arricchire le sue descrizioni tecniche, agli artisti più noti Sartorio, Cavenaghi, Marius, Pastor, Laurenti, Fragiacomo, Casciaro, Tito per chiedere il loro segreto. Crediamo che questo gustoso trattato diverrà in breve libro di testo nelle scuole d'arte: oggi tutti sono critici d'arte: e non è piccola fortuna potersi improv- visare con un libro di trecento pagine una lunga pratica..

FRANCIA.

Si è formato a Parigi un Comitato per l'erezione di un monumento a José Maria Hérédia

Nella Vie I nt elle ctu elle, Fernand Mazade scrive un articolo sull'arte di dormire.

E morto a Parigi all'età di 67 anni lo scrittore Edmondo Lepelletier. Ci ha lasciato tra l'altro una notevole biografia di Verlaine, del quale era stato amico intima.

Il Vaudeville di Parigi inaugurerà -la prossima stagione invernale con una commedia buffa in tre atti di Gabriel Timmory e Jean Manoussi : La Dame du Louvre.

Per lo stesso teatro sta preparando una commedia in tre atti Albert Guinon, l'autore del Partage e di Décadence.

Si è costituita a Parigi una Commissione per iniziativa della (( Fonda- zione Carnegie per la pace internazionale » allo scopo di compiere una inchiesta internazionale e indipendente da ogni preoccupazione politica circa i massacri che si sono verificati nella penisola balcanica, nonché circa le conseguenze po- litiche della guerra. Questa Commissione ha tenuto le prime riunioni a Parigi nella sede della « Fondazione Carnegie ».

Alle ultime vendite di Parigi i prezzi più alti sono stati raggiunti, come quasi sempre, dai mobili e altri oggetti di decorazione. Quattro arazzi di Beauvais, del secolo decimottavo, sono stati venduti per quasi mezzo mi- lione, e un solo armadietto, incrostato di legni preziosi, del tempo di Luigi XVI, firmato col nome dell'autore Dubois, è arrivato a più di centomila lire.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 161

Alla Bf-naissance, in Parigi, si darà nel prossimo novembre un'opera in tre atti di Enrico Kistemackers, L'Occidente.

È morto a Parigi il pittore Aimé Morot. Era nato a Nancy nel 1850.

Il suicidio infierisce violentemente in Francia, e fa ogni giorno pro- gressi, come risulta dalle cifre seguenti. Nel 1910 si uccisero 7476 uomini e 2343 donne : complessivamente 9819 persone. Dal 1901 al 1910, ben 100,000 per- sono si sono suicidate. Mentre nel 1840, su 100,000 abitanti la Francia annove- rava 9 suicidi, adesso ne annovera 25. In alcuni dipartimenti della Francia la percentuale media è anche di gran lunga sorpassata, arrivando- fino a 51, mentre da noi la percentuale della Liguria, che è la più alta, è di 15.0.

Enrico Bataille sta lavorando a una nuova opera per la Comédie Fran- (;aise.

E morto a Parigi Luigi Passy, decano per età della Camera dei depu- tati. È autore di vari scritti e studi pregevoli. Era nato nel 1831.

R. Messlény pubblica aella lievue (iervnanique un articolo sulla Ironie de la « Wilhelm Meisters theatralische Senduna ».

Presso OUendorff è apparso un interessante studio del noto critico svizzero Paul Seippel sul celebre romanziere Romain RoUand: s'intitola L'Homme et l'Oeuvre.

La Société Frangaise d'Imprimerie ha messo in vendita una nuova opera di Emile Faguet su La Fontaine.

La Bevile dii Mois pubblica un interessante articolo di P. G. La Che*- nais su La licenza liceale di Ibsen.

Sono uscite recentemente in Francia varie opere filosofiche e scienti- fiche importanti, di cui segnaliamo: Psycholofjie de la volante, di E. Martin (Alcan) ; Les Désémparés, di R. Meunier (Sansot) ; Les Rèveurs, di R. Meunier (Sansot); L'activité mentale et les éléments de l'esprit, di Fr. Paulhan (Alcan); La Genèse des Instincts, di P. Hachet-Souplet (Flammarion) ; De l'animai à l'enfant, di P. Hachet-Souplet (Alcan).

Tra i più recenti romanzi notiamo: JJn communard, di Leon Deffoux («Pan»); Les Fantaisies Bergamasques, di Bernard Maiootte (<( Temps Pré- sent)))5 Les confidences d'Arsene Lupin, di Maurice Leblanc (Lafitte) ; Dans les rues, di J. H. Rosnj' (Fasquelle) ; Le Jeune Amant, di Paul Reboux (Flam- marion); Jenny s'en va-t-en guerre,, di Philippe Millet (Grasset); La Mar- chande de petits pains pour les canards, di René Boylesve (Calmann-Lévy) ; La Crinoline enchantée, di Albert Boissière (Fasquelle) ; L'onde Jules, di Maxime Dubroca (Figuière) ; Fourquov l'on aime. di Henri Robas (Michel); Laure, di Emile Clermcnt (Grasset); Le Premier amowr de Napoléon, di H. Dourliac (Tallandier).

Del celebre scrittore Rudyard Kipling il Mercure de France ha pub- blicato sin qui, tradotte in francese, le seguenti opere: Le Livre de la Jungle: Le Second Liwre de la Jungle; La plus belle histoire du monde; L'Homme qui voulut étre Boi; Kim; Les Bdtisseurs de Ponts; Stalky et C'«; Sur le Mur de la Ville; Lettres du Japon; L'Histoire des Gadsby; Le Betour d'Imray; Le Chat Maltais; Actions et Béactions.

E del noto romanziere inglese H. G. Wells: La Machine à explorer le Tem,i)s; La Guerre des Mondes; Une Histoire des Temps à venir; L'Ile du Docteur Moreau; Les Premiers Hommes dans la Lune; Les Pirates de la Mer; L'Amour et M. Lewisham; La MerveiUeuse Visite; Place aux Géants; Quand le Dormeur s'éveillera; Miss Watters; Anticipations ; La Burlesque Equipée du Cycliste; La Découverte de V. evenir; Douze Histoires et un Béve; Au Temps de la Comète; Une Utopie Moderne; La Guerre dans les airs; Effrovs et Fantasmagories ; L'Histoire de M. Polly ; Anne Véronique.

AUSTRIA e GERMANIA.

Paul Schmiedel analizza nella Deutsche Itevue i più antichi documenti storici riferentisi a Gesù, da Giuseppe Flavio a Tacito.

Der Merker porta un articolo sul drammaturgo austriaco Cari Stern- heim.

Ermanno Sudermann ha terminato un nuovo dramma storico in cinque atti. Dando questa notizia, i giornali berlinesi aggiungono ch'esso sarà rap- presentato nel prossimo inverno.

11 Voi. CLXVII. Serie V. Settembre 1913.

162 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

In una conferenza all'Accademia delle Scienze di Berlino, il professore A. Harnack volle dimostrare come, basandosi sulla testimonianza di tre diversi individui, la conversione di Paolo ebbe luogo nell'autunno dell'anno 31, o se Gesù fu crocefisso ell'età di 29 anni nell'autunno dell'anno precedente. Le tre prove sono rappresentate da una lettera dell'Imperatore Claudio a Delphi, dalla dichiarazione di Orosio che l'editto di Claudio ai Giudei uscì nell'anno 49, e infine dalla notizia, tre volte confermata che' Gesù si lasciasse vedere per lo spazio di 18 mesi dopo la sua morte e visitasse i suoi discepoli. Questi 18 mesi devono aver segnato il periodo trascorso dalla morte del Nazareno alla visione di Paolo.

L'editore Georg Mùller di Monaco pubblica sotto il titolo di « Biblio- thek der Philosophen » una nuova collezione che comprenderà i filosofi d'ogni paese e d'ogni epoca. La dirigerà lo scrittore Fritz Mauthner, autore di un recente pregevole Dizionario della Filosofia. La nuova collezione non sarà una pubblicazione sistematica del genere della (( Biblioteca Filosofica » già ben nota ia Germania; essa si propone piuttosto di raggruppare le opere « rimaste vive o che possono essere risuscitate per il nostro tempo a nuova vita ». Ecco i vo- lumi già apparsi: la Corrispondenza di Kant; le Lettere su Spinoza di Jacobi; la prima parte del Mondo come volontà e come rappresentazione di Scho- penhauer; la Querela dell'ateismo di J. G. Fichte e De vantiate scientiarum di Agrippa di Nettesheim. con un brillante commentario del Mauthner.

La « Società Austriaca della Pace » ha indirizzato una lettera al mi- nitro degli Affari esteri Berchthold perchè, nell'interesse stesso della monar- chia, sia accettato l'invitoi del Presidente degli Stati Uniti ad una convenzione internazionale sull'arbitrato e sulla limitazione degli armamenti, pronunzian- dosi in favore di tale iniziativa e insistendo presso i governi delle altre potenze perchè accettino questo punto di vista.

Otto Rank pubblica neWImago (Vienna) un articolo stilla Nacktheit in Sage und Dichtung.

L'ultimo numero del TAterarische Echo pubblica uri articolo di C. W. Fischer suWUrspmng der « Madame Bovary ».

E morto a Weimar, all'età di 65 anni, il poeta Karl Weiser.

L'Università di Vienna ha conferito a Pietro Rosegger, nell'occasione del suo settantesimo genetliaco, il titolo -di dottore.

La Zeiischrift di Amburgo ha cessato la sua pubblicazione.

Tra i più recenti libri di romanzi e novelle tedeschi segnaliamo: Seltsame Liehesleute (Miinchen, Muller) ; An schivarzen Wassern, di Martha Vogt (Stuttgart, Cotta) ; Im Èeiche der Sennerinnen, di Heinrich Lhotzky (Leipzig, Hans Lhotzky) ; Erich Heydenreichs Dorf, di Diedrich Speckmann (Berlin, M. Warneck) ; Mutter Wiedenkamp, di Ernst Clausen (Leipzig, Pr. Grunow) ; Hindurch mit Freuden, di Felix Speidel (Stuttgart, Cottasche Buchhandlung) ; Des Zuckerbdckers goldene Krone, di Franz Molnàr (Wien und Leipzig, Deutsch-òsterreichischer Verlag).

Handbuch des Vólkerrechts, a cura del prof. Fritz Stier-Somlo, Stuttgart, Verlag Kohlhammer, 1913 In seguito ai grandi avvenimenti che in breve tempo hanno sconvolto i rapporti internazionali, è sentito vivo il bisogno di ridar vita al lume della realtà alle vecchie teoriche del diritto. Manca ancora un'opera che risponda a tali esigenze, e a supplirvi l'illustre prof. Stier-Somlo raccoglie opportunamente in un grande trattato tutta la materia del diritto internazionale rielaborata, ed esposta in monografie dovute ai più insigni giu- risti e diplomatici contemporanei. È già uscita la prima del prof. Heilborn, Grundbeg riffe des Vólkerrechts, che offre un magnifico saggio della bontà e im- portanza dell'opera.

INGHILTERRA e STATI UNITI.

L'ultimo numero del Bookman di Londra è consacrato alla baronessa Orczy.

L'editore Constable di Londra ha dato fuori recentemente: The tragedy of education, di E. G. A. Holmes; Bianca Cappello, di M. G. Steegmann; The Loire, di Douglas Goldring; The Moselle, di Charles Tower; The life of John Brighi, di George Macaulay Trevelyan; Other days, di A. G. Bradley; The stane Street, di Hilaire Belloc; A busy time in Mexico, di H. B.- O. Pollard.

The' Atlantic Monthly reca un interessante articolo sugli incidenti fer- roviari in America nel 1912. »

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 163

NeìVHihhert Journal è esposto il simbolo della caduta di Lucifero. Se- condo i vari teologi, babilonesi, assiri, persiani, greci, egiziani, ec*c., essa simboleggia la caduta di una stella.

Si è tenuta nei giorni scorsi a Londra una conferenza per studiare i mezzi necessari per combattere la mortalità infantile. A questa conferenza hanno preso parte non soltanto medici e specialisti, ma anche i delegati di varie Società di protezione per l'infanzia e alcuni rappresentanti del Governo.

Recentemente un giornalista inglese, il signor Charles Andrej, ha fatto a Londra una conferenza sullo sviluppo della stampa inglese durante gli ultimi settanta anni. Secondo il conferenziere, nel 1840 l'Inghilterra non pubblicava che 550 giornali, dei quali pochi soltanto tiravano 5000 copie. In trenta anni questa cifra si triplicò e nel 1870 esistevano 1600 giornali, dei quali alcuni contavano fino 50,000 abbonati. Attualmente si stampano 2350 giornali poli- tici, oltre un gran numero di gio<-nali di interesse locale, che hanno, nondi- meno, una grande influenza politica.

E stato pubblicato in Inghilterra l'ottavo volume relativo al censimento del Regno Unito per l'anno 1911. Risulta da questa pubblicazione che nell'In- ghilterra iiropriamente detta e nel Principato di Galles esistono 7,943,137 fa- migUe, formanti una popolazione complessiva di 34,606,173 abitanti. In media su ogni centomila famigUo ve ne sono 3207 che vivono ognuna in una sola stanza, 8314 in due stanze, 13,948 in tre, 34,947 in quattro, 20,536 in cinque, 13,715 in sei, 5916 in sette, 3542 in otto, 1971 In nove e 3805 in più di dieci stanze. Delle famigìei che vivono ognuna in una sola stanza, 933 sono composte di due persone, 416 di tre persone, 196 di quattro persone, 78 di cinque per- sone, 26 di sei persone, 8 di sette persone, 2 di otto persone ed una di nove persone.

È uscita teste una pregevole opera sull'India e gli indiani di Edward F. Elwin. {India and the Indians, I<ondon, John Murray).

Sport in Art è il titolo di una recente pubbUcazione di A. Baillie- Grohman. È adorna di 234 illustrazioni. (London, The Ballantyne Press).

Daniel Gregory Mason pubblica nelV Atlantic Monthly varie lettere del poeta William Vaughn Moody.

Il noto scrittore inglese Max Pemberton ha scritto un nuovo romanzo dal titolo The Woinan.

Nel prossimo autunno uscirà un nuovo romanzo di J. E. Patterson.

Segnaliamo un interessante libro su Orazio Walpole: Borace Walpole's Voiid. E di Alice D. Greenwood, e Bells n'è l'editore.

W. H. Hudson ha pubblicato un istruttivo e piacevolissimo libro sulle avventure tra gli uccelli. (Adventures among Birds, London, Hutchinson).

Presso Cassell di Londra è venuta teste in luce una. nuov::. opera di Russel Wallace, Social Envirement and Mordi Progress.

Il raccolto del frumento negli Stati Uniti sarà eccezionalmente uber- toso: si calcola su di un risultato che varierà da 487 a 490 milioni di bushcls, cifra raggiunta finora soltanto nel 1906. Bisogna notare che la superficie col- tivata a frumento è stata maggiore di quella degli anni precedenti. Secondo qualche rapporto privato la cifra dei 490 milioni di hushels verrebbe superata.

ITALIA ALL'ESTERO.

A Genova è stato imbarcato nei giorni scorsi il monumento a Giuseppe Verdi, che la colonia italiana di San Francisco di California oflFre alla città che l'ospita, dietro iniziativa del giornale L'Italia, diretto daU'ing. Patrizi. Il monumento è opera dello scultore Rossi Grassotti di Milano, che vinse il con- corso tra numerosi concorrenti. Per il trasporto dell'enorme mole, oltre cin- quantadue tonnellate, fecero larghe concessioni la compagnia marittima e le ferrovie americane.

Clarice Tartufari ha finito un dramma. Suburra, in cui si descrive l'ambiente della piccola borghesia romana, già da lei descritta nel romanzo Fungaia. Esso è già stato tradotto in tedesco da Hans Barth e sarà rappresen- tato quest'inverno in Germania.

Col titolo Zywot .S'ir. Franciszka z Asyzu, è stato pubblicato ultima- mente in Polonia un ampio studio biografico su S. Francesco di Assisi, dovuto al sacerdote polacco H. E. Stateczny.

In questi giorni è stata data a Varsavia una serie di rappresentazioni della Buona Figliuola di Sabatino Lopez, egregiamente tradotta in polacco dalla signora S. Gallone. Il lavoro ha avuto pieno successo.

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La signorina Letizia Esther Inerny ha pubblicato sulVItalia di San Francisco di California una poesia dedicata all'Italia, perchè essa partecipi alla grande Esposizione che si sta preparando sulle sponde del Pacifico per l'apertura del Canale di Panama.

Un recente numero del Mercure de France contiene un simpatico arti- colo sull'opera compiuta dagli italiani in Tripolitania.

La Frankfurter Zeitung ha recentemente pubblicato due lunghi e inte- ressanti articoli sulla Sardegna nei quali si descrive la vita sociale e intellet- tuale e si esaltano le bellezze naturali della bella isola.

Si è chiuso in questi giorni a Chaux de Fonds^ nel Cantone di Neu- chàtel, un concorso internazionale di musica al quale hanno partecipato con lu- singhiero successo numercse Società italiane.

Il Musical Courrier di New York annunzia che Henry Russel, il diret- tore della « Boston Opera » di Boston, s'è assicurata la prima della Francesca (la Bimini, la niiova opera del maestro Zandonai. Gabriele D'Anniinzio e Ric- cardo Zandonai vi assisteranno. Subito dopo que.sta prima rappresentazione, essa apparirà sulle .scene del « Regio » di Torino nel febbraio prossimo.

Il Temps ha parole di lode per l'iniziativa presa dal prof. Leopoldo Ti- beri, presidente dell'Accademia di Belle Arti di Perugia, il quale propose teste lo scambio di calchi artistici fra la detta Accademia e quegli Istituti o Scuole francesi che rispondessero al suo appello. E a desiderarsi, osserva il giornale, che i musei e le accademie approfittino di tale offerta che permetterà loro di arricchire utilmente le rispettive collezioni. L'Accademia di Perugia possiede infatti una preziosa e importante serie di calchi in gesso che non si trovano in commercio, fra i quali figurano le riproduzioni dei celebri bassorilievi della facciata di S. Bernardino di Perugia, ooera di Agostino Duccio eseguita nel 1462.

CONCORSI, CONGRESSI. ESPOSIZIONI.

Entro il corrente mese si aprirà a Lugano, nella grandiosa Villa Ciani, un'Esposizione di Belle Arti della Svizzera Italiana. E assicurato il concorso di numerosi artisti del Ticino e dei Grigioni, con un complesso di duecento opere di pittura e scultura.

La Cassa di Risparmio di Verona ha bandito un concorso per l'edifizio della sua nuova sede sulla Piazza. Il primo premio è di trentaduemila lire ; il secondo di quindicimila.

Si è chiuso a Torino il concorso per il monumento a Don Bosco. La giurìa, a maggioranza, ha scelto il bozzetto dello scultore Mario CeUini di Torino. Esso si compone di una grande base orizzontale a rettangolo, su cui si elevano quattro gruppi di figure: due ai fianchi ed uno in mezzo, che ri- cordano le fondazioni di Don Bosco ; nel mezzo, più in alto, troneggia la figura del filantropo, in atto di accogliere i suoi beneficati.

All'Accademia di Belle Arti di Milano è aperto un concorso di pittura col premio di lire 1500, per un quadro rappresentante mezza figura di donna alla toeletta; e un concorso di architettura con premio di lire 1500, per il di- segno di un edificio, sede di una Camera di Commercio.

Il Comitato per le onoranze popolari a Giuseppe Verdi, a Milano, pre- sieduto da Arrigo Boito, ha, fra l'altro, indetto un concorso nazionale di' So- cietà corali. Questo avrà luogo a Milano nei giorni 4 e 5 del prossimo- ottobre, e della Commissione ordinatrice fanno parte: come presidente, il maestro Tullio Serafin, quali vice-presidenti, i maestri Giuseppe Bracci e Arturo Sep- pilli ; segretario E. A. Marescotti. Il concorso, che comprende un concorso di esecuzioni e un altro d'onore, è diviso in tre categorie: la prima per le So- cietà aventi pììi di 40 esecutori ; la seconda per quelle aventi meno di qua- ranta esecutori e un numero non inferiore ai venti ; la terza destinata alle So- cietà corali miste. I premi in denaro sono così distribuiti: per la prima cate- goria un primo premio di lire 1000, un secondo premio di lire 600, e un terzo di lire 40Ò; per la seconda categoria un primo premio di lire 500, un secondo di lire 300, un terzo di lire 200; per la categoria a voci miste un primo premio di lire 1000, e un secondo di lire 600.

Si è inaugurato in questi giorni a Gand il Congresso internazionale di neurologia e psichiatria alla presenza di numerosi delegati esteri, tra i quali, per l'Italia, il prof. Donnaggio dell'Università di Modena.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 165

Si è inaugurato in questi giorni all'Aja il 20> Congresso per la pace.

Il direttore del Museo di Storia naturale di Londra ha preparato in questi giorni un'interessantissima mostra illustrante le modificazioni che si sono succedute negli animali per renderli adatti al volo. L'Esposizione consiste in 166 esemplari, che vanno dal comune pipistrello al preistorico pterodactilo. Di quest'ultimo animale, estinte da centinaia di migliaia d'anni, i visitatori possono ammirare un modello di completa ricostruzione. Una delle cose più interessanti della Mostra consiste nelle lunghe e particolareggiate spiegazioni che accompagnano gli esemplari esposti e fanno notare le trasformazioni su- bite dagli animali di una stessa specie per divenire idonei al volo e le diffe- renze fra le loro varietà. Si fa notare, per esempio, che nel caso del pipistrello, del pterodactilo e del cosidetto scoiattolo volante, le ali sono formate da una membrana, composta di un doppia strato di pelle. Negli uccelli propriamente detti l'ala è, invece, formata da penne che, per la loro continuità e disposi- zione, esercitano la stessa funzione. Dal confronto fra le varie specie si può facilmente desumere che gli uccelli a volo rapido hanno le ali a punta; mentre quelli a volo lento le hanno tondeggianti all'estremità. I principali aviatori inglesi sono stati invitati a visitare l'esposizione.

E aperto a Firenze un concorso di pittura fra artisti italiani per due quadri a olio. Ciascun conoorre.ate non potrà presentare che una sola opera. Sarà considerata come una sola opera anche la riunione entro una sola cor- nice, di pivi dipinti che svolgano un soggetto unico. Vi saranno due premi di eguale valore, e cioè di L. 17,000 ciascuno. Il concorso avrà luogo nel mese di aprile dell'anno 1914. L'invio delle opere sarà fatto franco di spesa, al pre- sidente della R. Accademia delle Arti del disegno in Firenze, entro il mese di febbraio 1914. Le opere dei concorrenti saranno esposte al pubblico in lo- cali da destinarsi avanti il giudizio della Giuria.

VARIE.

Il pubblicista M. Rulikowski sta compilando un'opera di statistica bibliografica polacca. Ne è uscito in questi giorni il primo fascicolo, contenente i dati relativi al periodo 1909-1911. Risulta da essi che nel triennio 1909-1911 le Case editrici polacche hanno pubblicato 10,653 opere con 27,922508 esem- plari. In tali cifre non sono comprese^le pubblicazioni periodiche. Sono invece comprese 260 pubblicazioni in Ungua polacca e quattrocentoquarantotto pubbli- cazioni in lingua diversa dalla polacca. Esaminando le cifre relative ai singoli anni del triennio, si rileva un aumento nelle pubbUcazioni riguardanti la me- dicina (rispettivamente èò, 100 e 117), l'arte (43. 51, 69). l'etnografia, la tecnologia, il teatro, la pedagogia, nei manuali scolastici, nei libri per i fan- ciulli, e nei Libri popolari.

Secondo le osservazioni fatte da A. M. Curtis alla stazione di tele- grafia senza fili di Amazonas (Brasile), pare che anche la luna, oltre il sole, abbia una notevole influenza sulla trasmissione dei segnali della telegrafia senza fili. Il Curtis ha trovato che di notte, un quarto d'ora circa dopo il levar della luna, l'intensità delle onde ricevute diminuiva rapidamente di un trente- simo circa, poi riprendeva a crescere fin quasi alla normale, poi decresceva ancora rapidamente per ricominciare di nuovo a crescere, restando di poco inferiore alla normale. La intensità delle onde riprende il valore normale, o anche un po' superiore al normale, quando la luna tramonta.

A Parigi, il museo di Copenaghen, ha acquistato ad una vendita pub- blica un leone egiziano di granito rosa d'Assouan, proveniente da Eliopoli. Come altri leoni' di quell'arte, è riprodotto accovacciato, con le gambe ante- riori distese e la coda raccolta sul dorso. L'opera è stata ritenuta del tempo della undecima dinastia, ossia del duemila cinquecento circa a. C. La scul- tura è stata pagata trentatre mila lire. Lo stesso museo ha anche acquistato, per ventidue mila lire, una statua antica della musa Calliope.

I giornali annunciano che è stato trovato un giacimento di oro a Kilo, nel Congo Belga, il quale darebbe un rendimento del settanta per cento. Il giacimento di Kilo sarebbe superiore a tutti gli altri fino ad ora concsciuti in Africa.

Una statistica c'informa che dal 1910 furono stampati nel Giappone 41,620 volumi e opuscoli. La politica e l'industria vi occupano il posto più considerevole, circa il 30 per cento. La religione e la letteratura si dividono un ottavo della produzione. Un posto notevole è occupato dalle compilazioni

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d'ogni genere, sopratutto dai dizionari. Il romanzo è rappresentato da 450 autori. Pochissime le traduzioni di romanzi stranieri: non ve ne sono che sei. Uno dei romanzieri stranieri più letti e gustati pare sia D'Annunzio. La tra- duzione del Trionfo della Morte ha avuto in Giappone larghissima diffusione e una rivista giapponese ha scritto ch'esso ha avuto profonda influenza sui gio- vani letterati di quel paese.

Gli scienziati americani hanno indirizzato alla Camera dei rappresen- tanti di Washington una istanza per fare adottare provvedimenti che impe- discano l'estinzione dei negri nelle Filippine, discendenti degli antichi abitanti delle isole dell'Arcipelago indiano, che sono oggi ridotti a venticinque mila individui, dei quali soltanto 5 mila rappresentano gli autoctoni. Gli altri sono meticci. Questi negri, che appartengono alla razza originaria dell'America, oc- cupano ancora l'ultimo gradino della scala antropologica e son rimasti allo stesso livello di barbarie in cui si trovavano alla scoperta di Colombo. Vivono in ca- panne costruite su palafitte; sono dediti alla caccia e, benché isolani, hanno orrore d>ell' acqua, non sanno nuotare, non navigano, ' non pescano. E interes- sante per la scienza conservare questi sopravviventi di una età lontanissima.

Nel secondo Congresso mondiale delle Associazioni Internazionali che si è riunito a Bruxelles e a Gand dal 15 al 18 giugno con l'intervento dei delegati di oltre 200 associazioni internazionali, si è discusso il progetto per la creazione di una grande università internazionale ammettendo, in principio, che l'Università Nouvelle di Bruxelles potrebbe servire d'inizio alla nuova istituzione.

È molto a Baden il celebre violoncellista czeco David Popper. Era nato a Praga nel 1843.

SPIGOLATURE.

In una Memoria, che verrà pubblicata nei rendiconti della Reale Ac- cademia dei Lincei, il professore Alberto Agazzotti riferisce il risultato di alcune esperienze fatte nel R. Itituto di Fisiologia di Torino e nel Laboratorio scientifico (( A. Mosso », sul Monte Rosa, su <( La respirazione cutanea in alta montagna ». Altre esperienze sullo stesso fenomeno il dottor Agazzotti aveva fatte precedentemente sul Colle d'Olen, ottenendo come risultato un aumento del ricambio respiratorio cutaneo, sia per l'anidride carbonica che per l'ossi- geno. Nelle nuove esperienze egli ha voluto tener conto anche della tempe- ratura ambiente, e così è giunto ad accertare che in alta montagna la respi- razione cutanea dell'anidride carbonica è, contrariamente alle previsioni teo- riche, uguale o leggermente maggiore che al piano. Tale fatto dipende proba- bilmente da una acclimatazione al freddo, per cui, quando la temperatura è egualmente bassa in alta montagna e al piano, qui i vasi sanguigni periferici sono più contratti e la pelle è ijiù anemica. Quando si riscaldi artificialmente l'ambiente, la secrezione cutanea dell'anidride diventa, in certi casi, anche maggiore che in alta montagna.

Il Journal annunzia e descrive un nuovo apparecchio, al quale l'inven- tore ha dato il nome di telepano e che, sembra offrire un vasto campo di appli- cazione. Si tratta in realtà di un telefono registratore. Il trasmettitore dell'ap- parecchio si compone di una tavoletta sostenente da un lato un telefono comune, e dall'altro una striscia di carta, che può svolgersi, a volontà sulla tavoletta stessa. Una matita, raccomandata al meccanismo, permette di scrivere e di disegnare sulla carta. Se il corrispondene col quale si vuole parlare è assente, allorché gli viene telefonato, basta scrivergli perchè questo messaggio, che si conserva al punto di partenza, sia identicamente, nella sua calligrafia originale, riprodotto pochi istanti dopo dall'apparecchio di arrivo. Quest'ultimo non è altro che un ricevitore di telegrafia fotografica, all'interno del quale un nastro di carta sensibile viene impresso mediante un raggio luminoso che si si^osta sotto l'influenza delle correnti provenienti dal posto di partenza, in modo da seguire fedelmente nei suoi menomi particolari la scrittura o il disegno tra- smessi. La carta così impressa è sviluppata, fissata e asciugata automatica- mente in pochi secondi, poi esce dal ricevitore per cadere in un cestino, dove il corrispondente la troverà al suo ritorno.

Una coltivazione poco conosciuta in Italia e sulla quale di recente furono fatte esperienze ripetute è quella della cicoria da caffè; è pianta bien- nale, si coltiva nel primo anno per la produzione delle radici e si ripianta

NOTIZIE, LIBhl E RECENTI PUBBLICAZIONI 167

la radice nel secondo anno per ottenerne il seme. Si hanno varietà ottime, a radice grossa, veramente adatte per la produzione del succedaneo del caffè: ricordiamo la Brunswick, la Magdeburg, la Riesen. Il dott. De Mori fece esperienze con risultati ottimi: la semina venne fatta a marzo e la raccolta delle radici in settembre: il prodotto fu di 160.230 q.li per ettaro. L'esperimen- tatore ritiene che la coltivazione potrà essere introdotta e affermarsi anche in Italia se si potrà vincere la concorrenza dell'importazione estera.

La rivista Nordìand narra che 117 anni fa la Scandinavia si è tro- vata costretta a muovere guerra contro Tripoli. Ciò avvenne nel 1796. Il prin- cipe Jussuff di Tripoli aveva scacciato dal paese il suo fratello maggiore per poter assumere egli stesso le redini del potere. In quell'incontro egli fece co- municare a tutti i Governi che avrebbe rispettato i trattati vigenti, se da ciascun paese gli fosse stata pagata una somma. A Copenaghen questa notizia produsse vera indignazione. Il Governo fece rispondere che la Scandinavia non avrebbe pagato un centesimo e che tuttavia i suoi trattati sarebbero stati rispettati. A questa nota il pascià di Tripoli rispose con una dichiarazione di guerra. Subito i tripolitani sequestrarono navi danesi e scandinave, le quali esercitavano allora in gran parte il commercio nel Mediterraneo, e i marinai vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi Alla fine la Danimarca e la Norvegia si trovarono indotte ad inviare una squadra composta di tre grandi navi da guerra, che batterono la flotta tripolitana composta di sei navi.

Il Club Alpino Svizzero comunica alcune notizie interessanti per gli alpinisti sul rapido, continuo ritiro dei ghiacciai svizzeri. Esse riguardano 52 ghiacciai e dimostrano che il loro processo di liquefazione è continuato sen- sibilissimo. Il pili grande ghiacciaio della Svizzera, l'Aletsch, si è ritirato di 3 metri (nel 1911 di 18 metri, nel 1910 di 20 metri), il Rhonegletscher si è ritirato di 11 metri (nel 1911 di 10 metri, nel 1910 di 12 metri). I due ghiacciai di Grindenwald sono aumentati ciascuno di 20 metri contro una diminuzione di 40 metri nel 1911, ma poiché dal 1893 i due ghiacciai si sono ritirati di 330 metri, tale aumento deve considerarsi come momentaneo e da attribuirsi uni- camente al cattivo tempo dello scorso anno. Il Morteratsch e il Roseg nell'En- gadina che da molti anni si ritirano continuamente, registrano quest'anno un lievissimo aumento. Il Palii, che forma la delizia degli ospiti del Bernina, è diminuito di 22 metri (27 nel 1911, 25 nel 1910). In diminuzione sono pure quasi tutti i ghiacciai minori.

LIBRI

PERVENUTI ALLA DIREZIONE DELLA « NUOVA ANTOLOGIA »

Notizie sugli esplodenti in Italia, di E. MoLiNARi e F. Quartieri, con 96 illustrazioni, 17 tavole in eliotipia e 18 facsimili di autografi. Mila- no, Hoepli, pag. 292.

La Conquista dell'Algeria, di Emi- lio Gaiani. parte (1830-1840). Città di Castello, Tip. dell' « Unione Arti Grafiche », pag. 344.

Una Famiglia di militari italiani dei secoli XVI e XVII. I Sarvognano, di Emilio Salaris. Con 9 illustrazio- ni. — Roma, Benedetti & Gamba, pag. 184. L. 5.

Disegno di storia moderna e con- temporanea, di Giuseppe Rondoni.

Firenze, Le Mounier, pag. 818. L. 4.

Prima del Femminismo, romanzo storico di Leopoldo Barboni. Li- vorno, Raffaello Giusti, p. 312. L. 3.

Antologia, di Carlo Porta a cura di Attilio Momigliano, disegni di R. Salvadori. « Classici del ridere ».

Genova, Formiggini, p. 204. L. 2. Novelle drammatiche, di Giusep- pe MoRPURGo. Città di Castello, Lapi, pag. 216. L. 3.

Il tipografo Giumhattista Bodoni e i suoi allievi punzonisti, di Umberto Benassi. Parma, presso la R. De- putazione di Storia Patria, pag. 115.

Il profeta delle rose, novelle di Ric- cardo Artuffo Bari, Casa Ed. Humanitas, pag. 216. L. 2.50.

Le novelle dell'oro, di Nino Bava- rese. — Napoli, Pierre, pag. 158. L. 2.

Vita di Lodovico Cardi Cigoli (1559- 1613) per cura del Comune di San Miniato. ^ Tip. Barbera, Firenze, pag. 58.

Superficie e popolazione del Begno d'Italia, di Giuseppe Zattini. Ro- ma, Bertero, pag. 66.

Alcuni sinonimi della lingua italia- na, di Antonio Marenduzzo. Li- vorno, Giusti, pag. 79. L. 0.50.

I napoletani a Tolone (1793), di At- tilio SiMioNi. Napoli, Pierre, pag. 174.

In tema di morale, di Gius. Ugo OxiLiA. Chiavari, Esposito, p. 19.

Lavoro e previdenza, di Romeo Gallenga. Perugia, Tip. Donnini, pag. 16.

Francesco Saverio Abbrescia, a cu- ra del Comune. Bari, Bellomo- Buonvino.

Institut International d'Agricul- ture. - Annuaire international de législation agricole, llème année, 1912. Rome, Imprimerie de l'Institut International d'Agriculture, pag. 943. L. 10.

PUBBLICAZIONI TAUCHNITZ.

Ciascun volume L. 2.

Eldorado, a story of the scarlet Pimpernel, by Baroness Orczy. Vols. 4430-4431. ,

Way stations, by Elizabeth Ro- BiNs. Voi. 4432.

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; V

ROGO D'AMORE

ROMANZO

Ma il domani!...

Non una notte era passata su di loro; una vita. Essi ora sapevano. Essi ritrovandosi al mattino pallidi e disfatti si lessero reciproca- mente negli occhi le deliziose sofferenze dell'insonnia trascorsa a rievocare sensazioni così sottili e squisite che rifuggivano dalla parola, come se la parola nel suo urto di cosa concreta dovesse frangerne il diafano tessuto. Non accennarono neppure alla pas- seggiata nel bosco, non vi fecero alcuna allusione, pur pensandovi sempre, anzi non pensando che a quella con una complicità di si- lenzio più turbatrice di qualsiasi confessione. Guardarsi, allora, con quel reciproco pensiero occulto era una dolcezza senza nome.

Ripresero le loro conversazioni a scatti, note un po' disordinate che si levavano ansiosamente dai loro petti nella ricerca della nota giusta, fremiti di corde sfiorate appena, arcate di violini morenti in un sospiro. Dal giorno che si erano trovati al cimitero, quando per la prima volta venne pronunciate fra loro la parola amore, l'argo- mento ritornava sovente a tentarli coll'inebbriante sentore di un giardino pieno di rose, non ancora dischiuso, ma vicino; e quel par- lare d'amore fra due persone che si amavano senza esserselo ancora detto, fra una donna intelligente e un uomo delicato, sottilizzava l'essenza fino alla vaporosità di un etere. Era ciò a cui pensava Moèna :

Le persone grossolane hanno in amore un piacere solo. I sen- sibili ne hanno mille.

I sette veli d'Iride destinati a coprire il mistero rispose la signora con un ardire a cui la purezza de' suoi sguardi toglieva ogni interpretazione equivoca.

Sì, riprese Moèna convinto perchè ammettendo pure che la meta sia una è la scelta della strada e il modo di percorrerla che ne stempa la nobiltà.

L'aforisma era ardito, tuttavia prima ancora di poter riflettere ella mormorò :

È vero.

Approvando così la signora si raffigurava i pellegrinaggi com- piuti fra i digiuni e le privazioni, i devoti giunti scalzi, in ginoc-

-lO Voi. CLXVn, Serie V 16 settembre 1913.

170 ROGO d'amore

eh io, dinanzi al simulacro di Dio. È una via di passione quella che conduce al cielo. Come si intendevano sempre!

Ma più la giornata scemava volgendo alla fine, una inquietu- dine singolare si impossessò di lei. Vedeva con ansia avanzarsi la sera. Avrebbe egli mai proposto una seconda passeggiata nel bosco? Questo pensiero che le sarebbe parso una profanazione dell'ora di- vina le riusciva intollerabile, sopratutto perchè Moèna non sarebbe più stato Moèna, quanto dire l'essere di tutte le finezze, di tutte le spiritualità. All'ora consueta essi ben si ritrovarono quasi sul limi- tare del bosco con quel pensiero unico inconfessato che li riempiva di una indicibile ebbrezza e di uno sgomento delizioso, ma nessuna parola venne a interrompere il duetto muto delle due anime. Sedet- tero sulla solita panchina, lontani l'uno dall'altro, bevendo il loro silenzio ardente.

Il giorno appresso la signora, richiamata da un telegramma di affari, si stava preparando alla dipartita e togliendo il volume di Carducci dal nido di trine e di battiste dove lo aveva tenuto sepolto tutti quei giorni decise improvvisamente di riportarlo a Moèna, in quel suo piccolo albergo che ella vide sorgere tutto roseo in mezzo al verde. Non si aspettava di trovarlo in casa. Egli era seduto sotto il breve portico; leggeva. Quando la vide si alzò senza dimostrare alcuna meraviglia. Semplicemente volle che entrasse, che sedesse anche lei, un momento almeno, sotto il portico.

Tutto era luminoso; l'ora, il luogo, il breve portico riparato da una tenda, il piccole giardino pieno di rose, la giocondità dei loro occhi che si guardavano insaziati cogliendo l'attimo. Egli aveva avuta l'intenzione di uscire e non era uscito... I loro pensieri si in- contravano dunque anche lontani? Cos'era, cos'era quel fascino che li avvinceva tenacemente? Moèna disse a un tratto :

Sa il latino?

Il latino, perchè?

Mi viene in mente una frase.

Provi a dirla. Vi sono frasi latine che tutti intendono.

Crescit eundo pronunciò lentamente il giovane, fissandola. Ella rise, lui no. Ma l'aria intorno era dorata, le cose serene, i

cuori sboccianti come fiori, i fiori palpitanti come cuori. Che dire? Che aggiungere? Si alzarono con una esuberanza di vita che tra- boccava, che faceva piegare i loro ginocchi sotto il peso di una fe- licità troppo grande.

Tenga lei il volume.

No, preferisco sia suo...

? '

Poiché è stato mio tutti questi giorni.

Non disse quanti pensieri vi aveva rinchiusi. Forse egli li avrebbe ritrovati più tardi. Immaginare che li avrebbe ritrovati, che avrebbe posato la mano, la faccia forse, forse la bocca in quelle pagine tutte piene di lei le faceva passare un brivido sotto la pelle. Egli lo sentì.

Alla sera, ancora, il ricordo del bosco li ossessionava. Si porta- rono inconsci fino al limitare di esso. Teneva la signora appog- giata la mano sul bt'accio di Moèna, senza stringerlo, in un contatto quasi immateriale, ma ad un certo punto, pavida, lo premette re- trocedendo.

ROGO d'amore 171

No? fece lui pianissimamente, come un soffio. -- No, più.

Oh! avevo tanto temuto che ella lo richiedesse esclamò il giovane con un prorompere di giuliva dolcezza.

Ed io? Ed io dunque?

Si strinsero un istante nella gioia di santirsi sempre più com- presi, sempre più uniti; ma il passeggiare li stancava. Sedettero sopra un rustico sedile ombreggiato da un tetto di paglia e da tralci d'edera. La loro commozione era al colmo. Moèna, più ancora di lei, appariva accasciato da una lotta interna, riverso sul sedile, colla fronte tra le mani. Sotfriva. Il silenzio era altissimo; l'om- bra cupa si frastagliava appena in qualche chiazza di luce, river- bero di lumi lontani, ricordo fioco di una vita che non era la loro,

Ah! se non è questo amore...

La parole, soffocate, ella più che intenderle le indovinò. Mater- namente gli pose una mano sui capelli, penetrata del suo soffrire, tutta assorbendo quella sincerità d'uomo che saliva a lei in uno di quei momenti di dedizione assoluta che trasfigurano il senso elevan- dolo alla poesia del mistero. Lo chiamò pronunciando il suo nome per la prima volta.

Ariele.

Egli si sciolse. Chinandosi soggiunse ella con dolcezza:

Siamo forti (ma tremava).

Sorsero entrambi, ciechi e muti, barcollando nell'ombra. Un tratto Moéna le cinse il fianco, lieve. Ella ansimò. La bocca di lui si avvicinava, ardente, cercando. La donna, tremebonda, sfuggiva ritorcendo il volto.

Perchè... perchè? supplicava il giovane.

Alfine, lento, senza un grido, il bacio si staccò dalle loro lab- bra come frutto maturo che il ramo non può più sostenere. Lo assaporarono essi in un attimo di indicibile dolcezza e senza più pro- nunciare parola, confusi, tremanti, serrando in cuore il loro dolce segreto, si separarono fuggendo.

Quella notte Moèna non chiuse occhio. Balzato dalle coltri arro- ventate sul far dell'alba andò solo a passeggiare nel bosco aspetr tando l'ora di potersi presentare alla signora. Doveva essere quello il loro ultimo convegno, avendo preso l'accordo che egli sarebbe partito prima di lei. Intuiva di chiudere un periodo unico nella sua vita e una grande tristezza si mesceva al ricordo dei giorni trascorsi in una estasi di sogno. Presso a nessuna donna si era sentito così felice, mai.

Nel passare dinanzi al capanno che la sera innanzi aveva pro- tetto il loro bacio si arrestò con una sensazione di tremore quasi re- ligioso. Un esile tralcio d'edera pendeva al posto stesso dove le loro labbra si erano incontrate. Egli colse una fogliolina appena ap- pena dischiusa a quel posto, fiore del loro bacio, fragile e gracile tanto che stava per suscitargli il rimorso di averla colta, così no- vellina e piccola, ma pensò subito: anche il nostro amore è novel- lino — e sorrise del suo raro e breve sorriso. Tenendo la foglia con grandi precauzioni sul palmo della mano, rientrò all'albergo e volle subito collocarla nel volume di Carducci, alla pagina intito- lata Panteismo, sulle parole ultime: «Ella, ella t'ama».

172 ROGO d'amore

Fu interrotta la soave occupaziono da una lett^era che Moèna ricevette e lesse rapidamente tutto alterato in volto nello spasimo di un brusco trapasso. Quando si presentò poco tempo dopo alla signora la sua fisionomia non era ancora ricomposta; solo udendo che la signora aveva passata una cattiva notte e si alzava allora, ebbe un sussulto quasi di gioia. Anche lei, dunque?...

Ma l'accordo non si stabilì. La signora avvertì subito negli occhi di Moèna un pensiero al quale ella era estranea. Si aspettava di trovarlo più tenero, più ardente, desolato della loro separazione. Il dubbio che la sua condiscendenza della sera prima ne avesse in- tiepidito l'affetto la indurì, suggerendole parole fredde e altere. Pure avevano toccato insieme le soglie di una ebbrezza ideale, e il loro pallore e il cavo livido degli occhi parlavano della visione unica che li aveva tenuti desti entrambi. Per quale ragione Moèna appariva inquieto e distratto invece di concentrare in quegli ultimi istanti tutte le passate dolcezze?

Non la riconosco più disse la signora.

Nulla è cambiato in me rispose Moèna; non le posso al momento dare più ampie spiegazioni. Saprà più tardi.

Oh! che cosa devo sapere?

La ragione del mio turbamento.

La dica ora.

Ora no, la prego.

Dunque addio.

Attese un gesto, una parola. Ripetè :

Addio.

Vedo che è in collera.

In collera? E perchè? Addio, addio.

Senta, noi ci ritroveremo, le dirò tutto, anche una cosa che le farà piacere.

A me?

Sì, se è piacere sapere che una persona ha sofferto per amor nostro.

Si guardarono un secondo, quasi riprendendosi. Ma erano ora- mai troppo staccati. La signora, dolorando, affrettò la separazione con nel cuore ancora la speranza che all'estremo minuto egli avrebbe trovata la parola consolatrice. Egli, triste e paralizzato si accomiatò con una stretta di mano così debole che ella lasciò cadere la sua, scorata. E rimase ritta a vederlo partire, con ciglio asciutto e le vene diaccie.

A che cosa credere? All'estasi che dei giorni trascorsi aveva fatto un soave incanto o alla oscura minaccia che la nuova attitu- dine di Moèna le veniva suscitando? C'era stato veramente quel sovrumano incontro delle anime che fa pensare a un intervento della divinità o non era stata che una illusione di più, una illu- sione aggiunta alle tante altre di cui aveva disseminata la vita?

In malinconica solitudine rivide ella, prima di allontanarsi, ognuno dei sentieri dove era sbocciato il sogno avvezza alle crudeli dipartite rigustando colla voluttà di un dolore che cre- deva dimenticato tutta l'amarezza dei ricordi. Ma era pure così re- cente l'impressione del nuovo palpito e il cuore ne serbava impronta così vivace che il dolore non saliva al parossismo della dispera-

ROGO d'amore 173

zione ed era piuttosto un lento indugio della speranza sui severi ammonimenti del passato.

Mentre stava per riporre le sue ultime robe nel baule si ram- maricò di non avere trattenuto il volume di Carducci e nello stesso tempo pensando che Moena glielo aveva offerto ne risentì una dolcezza di conforto. Lo rileggerebbe egli? Rileggerebbe l'ultimo verso di Panteismo? «Ella, ella fama!». E come nel verso così ogni cosa intorno a lei ripeteva la magica parola : i monti, il bosco, i sentieri, il capanno, l'aria che andava e veniva agitando gli abeti, la luce che si spegneva gradatamente in cielo e le ombre della notte che scendevano piene di mistero e di brividi.

Dormì un sonno profondo ma breve, tesa la volontà verso il viaggio che doveva ricondurla a casa, affrettandolo con impazienza.

Nel salire al dimani rapidamente sul piccolo treno per Trento si trovò di fronte un ufficiale austriaco, gonfio, pettoruto nella sua divisa celeste a mostre verdi, col ramoscello di mirto sul kepy, lo sguardo misto di prepotenza e di diffidenza. Ella aveva quasi di- menticato in quei giorni di essere in terra irredenta. Cambiò su- bito sedile andando a rannicchiarsi nell'angolo opposto, il viso ri- volto sulla campagna che fuggiva dietro a lei, pensando a Moena.

A un tratto lo sportello di comunicazione fra quella e le altre carrozze del treno si apre e Moena appare.

Un gran grido lo accolse. La signora, incapace di dominare la propria commozione, si nascose il volto tra le mani.

Che cosa avvenne? chiese finalmente tentando di ricom- porsi, ma cogli occhi nuotanti nell'ebrezza.

Le dispiace? disse Moena sfavillante in volto della di lei gioia.

No, certo, ma come ha fatto? (le pareva un sogno) Non partì ieri?

Partii ieri, secondo eravamo d'accordo e... tornai stamattina appena in tempo per saltare sul treno quando la vidi.

Che importava a loro dell'austriaco? Si guardavano estasiati, ed anche non si guardavano ma erano tanto felici di sentirsi vicini, di sapere oramai che si volevano bene; essi, così simili, così fatti l'uno per l'altro. Un istante la signora pensò di chiedergli spiega- zione del contegno avuto quando si separarono, poi le parve che sarebbe perder tempo. Ogni attimo che passava era una goccia di sangue aggiunta al sangue delle loro vene; conveniva assaporare quella pienezza di senso che scandeva sui loro polsi l'ora della felicità.

Affacciati allo sportello credevano di interessarsi al paesaggio; esclamarono: Che bei monti! Che verde rigoglioso! In realtà non vedevano nulla, trasalendo per un fortuito incontro delle loro mani, una sottile nebbia sulle pupille, il cuore leggiero, leggiero...

Quando era calato l'austriaco? Non se ne erano neppure accorti. Trovandosi liberi si guardarono con un raddoppiamento di feli- cità, solo per avere l'aria in giro tutta per loro, tutta per il loro amore: ciò bastava al loro desiderio ancora fanciullo in quella deliziosa aurora di una nuova vita.

Trento si avvicinava.

Ella si ferma?

fino a domani.

174 ROGO d'amore

Entrarono insieme nella città cara. Videro gli alberi ondeg- gianti al soffio delle Alpi, videro la soave curva della piazza e la statua del poeta che ha scritto « Amor ch'a nullo amato amar per- dona». Ali di letizia li portavano.

La signora pur non volendo discendere alVImperial in causa del brutto nome assunto guardò il terrazzo dove un mese prima aveva trascorsa una sera di infinita dolcezza, così sola, così staccata dal mondo, così rassegnata e calma e malinconicamente tranquilla. Quale cambiamento era avvenuto in lei!... Ma l'ora era di azione, non di meditazione.

Moèna le aveva suggerito presso un antico albergo caro ai trentini. Nell'istante di varcarne la soglia ella chiese senza guar- darlo:

E lei dove alloggerà?

Farò come vuole... qui o altrove.

No... non qui.

Parò come vuole, come vuole, intende?... ripetè il gio- vane con una voce che rammentò alla signora le parole da lui pro- nunciate nel bosco : « Ha paura? ha paura di me?

L'albergatore intanto proponeva una camera.

Una camera per me sola si affrettò a dire la signora. Ancora non guardò Moèna, ma tendendogli la mano nella

penombra dell'angiporto :

Torni fra mezz'ora soggiunse con tenera dolcezza; usci- remo insieme.

La mezz'ora non era trascorsa e già egli attendeva sul ballatoio della scala.

Lo vide ella in quella sua attitudine rispettosa e muta e ben sapendo di trovare forza nel contrapporgli una attitudine disin- volta, gli gridò giuliva :

Si è messo a posto coll'alloggio? Io ho una camera buonis- sima; prospetta il palazzo del diavolo.

Del diavolo?

Non sa? È trentino e non conosce il palazzo del diavolo?

Accade spesso di non conoscere quello che si ha in casa.

Guardi (la signora si scostò dalla soglia dell'uscio) : lo vede?

Moèna fece qualche passo e come a lei parve di non dover in- sistere troppo in un riserbo eccessivo di fronte a una persona che le ispirava piena fiducia si accostò alla finestra d'onde scorgeva il palazzo. Moèna la seguì.

C'è una leggenda in proposito, ma non la ricordo.

Si appoggiarono al parapetto della finestra" l'uscio della ca- mera era rimasto spalancato e sporgendosi fuori gustavano il sapore esotico della loro situazione con un po' della giuliva spen- sieratezza di due scolari sfuggiti alla sorveglianza: due scolari che appena si conoscessero di nome e che attratti da un viottolo mi- sterioso, da un volo di farfalla, dallo scintillare di un raggio sul- l'onda di uno stagno, senza premeditazione e senza mira fissa si fossero avviati insieme, la mano nella mano.

Pensare poi che nessuno dei suoi parenti, de' suoi amici, po- trebbe neanche supporre che ella fosse a quell'ora alla finestra di un albergo di Trento insieme a Moèna, faceva scorrere nelle vene della signora un fiotto di sangue così vivace che a lei, sempre set-

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tomessa alle convenienze sociali, doveva rivelare in un baleno l'i- stante inebbriante e folle della rivolta. Disse improvvisamente:

Andiamo a fare un giro per la città?

Si sta tanto bene qui!... implorò Moena.

Accondiscese la signora e rimasero così ancora per un po' di tempo, vicini e taciti in una quiete dolcissima di spirito, coi sensi appena sfiorati da un'onda tiepida e lieve come un fluttuare di morbidezze indistinte. In tale soavissimo stato d'animo ella alzò gli occhi a guardarlo, stando egli di profilo in una luce quale non le era mai accaduto di poterlo osservare e le parve bellissimo. Aveva uno di quei volti che solo il bulino od il cesello sembrano degni di scolpire nella nobiltà di una linea che unisce la finezza alla forza, il patetico delicato di un avorio quattrocentesco alla ni- tidezza acuta di una incisione in rame. La colpì in special modo la linea della bocca singolarmente pura che non lasciava posto a nes- suna sinuosità sensuale; un breve arco roseo.

La signora ne provò una sensazione di sorpresa quasi lo ve- desse allora per la prima volta e insieme un sottile aculeo, come di punta che ancora non la male ma che fa pensare al dolore. Disse :

Come è giovane!

Sulla bella bocca di Moèna apparve la piega malinconica di quel mezzo sorriso che lo faceva talvolta sembrare di maggiore età che non fosse. Rispose :

Giovane d'anni, non di esperienze amare.

Ha la sua mamma?

padre, madre, alcuno.

In uno slancio di umiltà e di atTetto la signora soggiunse:

Vorrei essere la sua mamma.

Ma io non la potrei considerare con sentimento figliale... Tacquero. La signora che stava appoggiata al parapetto della

finestra sentì il cuore che le batteva contro le braccia.

Andiamo disse, staccandosi dal davanzale.

Nel riattraversare la camera gli sguardi di entrambi caddero sul letto parato di rosso cupo, misterioso come un braciere nell'om- bra. Moèna rallentò il passo impercettibilmente; la signora pure impercettibilmente arrossì; ma fuori riprese la sua disinvoltura che le era a un tempo lancia e scudo. Dinanzi alle vecchie case di Trento, italianamente calde di quella architettura che fa tanto sen- tire la nostalgia di a chi viaggia nei nordici paesi, la sua pas- sione irredentista prese il volo.

Si può immaginare un tedesco sul balcone di casa Sarda- gna? e su quello di casa Geromia? e di casa Salvadori? E in quel de- lizioso Cantone di via Lunga dove i muri stessi sembrano avere un gaio cicaleccio in lingua del sì, e dietro le persiane occhieggiano pupille nere, e nei chiusi forzieri si conserva forse l'avanzo di una uniforme garibaldina macchiata di sangue a Bezzecca ed a Monte Suello, dica, dica, é possibile che passeggino ancora con quel fare da padroni i soldati dell'Austria?

Moèna osservò :

Parli piano.

Guardandolo, ella vide che era pallidissimo. Attraversavano in quel momento piazza del Duomo, a casa Rella, dove accanto alla piccola fontana la signora avvertì subito l'aquila di Trento colla

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testa rivolta a destra; e più delle altre sparse per la città quella le parve particolarmente espressiva nel movimento doloroso della testa che si piega fino a toccare l'ala col rostro e a morderla. Lo ignoto scultore le aveva dato un'anima. Ah! fece e tornò a guardare Moèna con un impeto di passione e di pietà: la sua bocca di una purezza infantile, così malinconica, il pallore del volto, la linea nobile del profilo, quelle forme, quei gesti che corrispon- devano in lei a segrete attrazioni di tutto il suo essere.

Ora veramente la tela delle loro simpatie svolgevasi in una cor- nice affascinante. Fra il Duomo, magnifico esemplare della gran- dezza di Trento, e i tigli annosi che ne ombreggiano il sagrato e le morbide linee di casa Rella leggiadre ancora sotto le ingiurie del tempo e il basso portico pieno di memorie e la fontana grande del Nettuno e quella piccola coU'aquila dolorosa, le due anime fra- terne si sentirono avvinte come non mai.

Camminando fianco a fianco errarono a lungo in silenzio, consci di imprimere su ogni pietra l'orma profonda che l'amore e il dolore comunicano alle cose inanimate e le fa trasalire fin nello squallore delle rovine.

Di comune accordo non vollero visitare il Castello profanato da soldatesca straniera. Volsero invece i loro passi verso l'Adige, verso quella antichissima chiesa di S. Apollinare culla e tomba della vecchia Trento che sorge così romita e vaga ai piedi del Doss. L'arco verde dei monti serrava l'orizzonte dentro a una coppa di smeraldo dagli orli imporporati nell'ultima luce del tramonto, la fasciava l'Adige con una striscia d'argento e sull'alto lembo del cielo sorgeva, tenue falce appena disegnata, la luna. Irresistibil- mente i versi del poeta tridentino corsero sulle loro labbra :

Quando la fredda luna Sul largo Adige pende E i lor defunti l'itale Madri sognando van, Un corruscar di sciabole, Un biancheggiar di tende, Un moto di fantasimi Copre il funereo pian.

le commozioni di quel giorno, ultimo giorno concesso al loro sogno, erano ancora finite. A sera tarda, prima di dirsi addio, si ritrovarono presso la statua di Dante. Era giusto che il pellegri- naggio compiuto insieme si chiudesse ai piedi del grande italiano nel cui nome Trento ricorda e spera.

Nessuna tristezza venne a turbare quegli ultimi istanti; nes- suno dei due chièse promesse, nessuno ne fece. Erano certi oramai di amarsi e tanto bastava a renderli felici. La fresca inconscienza dei sentimenti veri abbattendo fra loro ogni convenzionalismo li la- sciava liberi nella loro natura di esseri superiori, cui, più della legge, guidava un delicato istinto e più del rispetto umano era freno un invincibile orrore della volgarità. Così, guardandosi negli occhi, poterono ancora quella sera sorridersi nella infinita dolcezza delle albe che appena colorano i lembi del cielo.

Seduti sotto gli alberi del piazzale quasi deserto la sensazione di irrealità che aveva accompagnato tutti i loro passi, ad onta del-

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l'intimo accordo, anzi forse per questo, persisteva. Non era della vita solita il loro vivere di quei giorni. Un Dio agitava nei loro petti fiaccole di fede; essi non sapevano, non chiedevano, non aspet- tavano nulla, ma uno slancio alato li teneva sospesi al di sopra di ogni materiale preoccupazione, il mondo tutto era scomparso dal- l'asse dei loro sguardi.

Moèna, mormorò piano la signora quante volte ricorde- remo quest'ora?

Il giovane non rispose se non con un sospiro. Ella replicò:

Ariele è ben dolce, Ariele!... ma il primo nome che conobbi di lei fu Moena. La penserò con questo nome. Ed io soggiunse con una grazia ingenua che le dava a tratti una freschezza di fan- ciulla — che nome avrò nella sua mente?

Nessun nome. Lei è lei, VUnica! pronunciò Moena con voce grave, e la signora sentì che qualunque disinganno le pre- parasse il destino non avrebbe mai pagato troppo cara quella pa- rola detta a quel modo, in quel posto, da quella bocca.

La frescura della notte li teneva più vicini che non stessero abitualmente. Sul loro capo palpitavano le stelle, tutto intorno i lampioni della piazza davano luci alternata e per il contrasto ne ren- devano più cupi i recessi. Un'aura di poesia spirava così dolce, così pacificatrice che i loro cuori vi si sommergevano.

A un tratto dal caffè della stazione si avanzò un gruppo di ufficiali, parlando forte, trascinando con ostentazione le lunghe sciabole. La signora si accorse che Moèna trasaliva e gli si fece più da presso, tacitamente. Quando gli ufl5ciali passarono dinanzi a loro Moèna le afferrò una mano con impeto e gliela strinse mormorando:

Fino a quando?

Ella bevve allora tutto lo spasimo di quell'anima rinchiusa, china sulla sua spalla, stretta a lui in un contatto che non aveva nulla di terreno, poiché sulla fronte di Moèna stava la pallidezza dei martiri e ne' suoi occhi il sogno degli eroi.

Ah! veramente era quello l'amore! l'istante meraviglioso della compenetrazione di due anime, il desiderio diffuso in tutto l'essere che non ardisce precisarsi ed esala intero come un profumo sul- l'ara.

La notte trentina li cingeva, molle dei vapori dell'Adige, fre- sca del vento delle Alpi; li cingeva col respiro delle case addormen- tate, dei sogni vaganti e in quel mistico amplesso dove tutte le loro aspirazioni si fondevano con un divino abbandono, il senso dell'eterno sprigionandosi dalle più profonde radici dell'essere esaltava il loro amore unificandolo al palpito stesso della città irredenta. Non lo dissero ma lo sentirono insieme; qualche cosa di loro, della loro grande passione, sarebbe rimasta sotto quel cielo, fra quei monti, fra quegli alberi, nella bronzea effìgie del divino Poeta.

VL

Sotto la tettoia della stazione di Rovereto Ariele Moèna, in piedi, seguiva coll'occhio l'impicciolirsi del treno che correva verso Milano trasportando l'Unica. Stringeva fra le mani un fazzolettino ch'ella gli aveva gettato dallo sportello a guisa di ultimo saluto ed ogni po' se

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lo recava al volto per aspirarne il profumo col gesto lieve che gli era abituale- in tutte le manifestazioni del senso.

Al momento di lasciare la signora alla stazione di Trento egli era balzato nel riparto dove l'aveva vista sola per accompagnarla almeno fino alla prima fermata prolungando il piacere di stare in- sieme; e quel breve volo da Trento a Rovereto compiuto nella gioia infantile dell'imprevisto, come già quello del giorno innanzi, senza scorgere nulla del paesaggio di quanto esisteva fuori di essi, aveva dato loro una sensazione di viaggio di nozze a cui l'irregolarità e la sorpresa conferivano quasi un sapore di fuga romantica.

Uscendo da quell'estasi Ariele Moéna conservava nella sua per- sona e ne' suoi pensieri l'impressione speciale che provano i ma- rinai mettendo piede a terra dopo un lungo viaggio tra cielo e mare : una scossa nell'arresto dei nervi usi al ritmo delle onde, una ditfieoltà per la mente che spaziava nell'infinito a cogliere i piccoli particolari della spiaggia.

Uomini e donne si movevano intomo a lui gettandosi parole di comando, di raccomandazione, di saluto, parole che si incrociavano a sorrisi, a strette di mano, nell'aria attraversata da colonne di fumo, tra i rumori stridenti e paurosi di una stazione in movimento. Ma una zona meravigliosa, specie di etere imponderabile, isolava Ariele dal resto del mondo, pur mentre il senso della vita gli si rivelava con una forza nuova dandogli la misura intera del suo valore di uomo, del suo posto in mezzo agli uomini. Si sentiva buono, gene- roso, eroico. Tutto ciò che di nobile e di elevato sta nella natura umana urgeva con dolce tumulto al suo cuore pari al seme nascosto che solleva la terra e spinge in alto il rigoglio della messe. Nessuna forma religiosa si imponeva all'anelito del suo essere trasportato oltre ogni sensazione precisa, ma era il nucleo stesso di tutte le reli- gioni nella sua indistruttibile essenza d'amore che divinizzava la visione terrena investendola 'della propria fiamma.

È una particolarità dell'amore, è il suo maggior titolo alla rico- noscenza degli uomini questa spiritualizzazione dell'istinto che nella gretta vita di tutti i giorni apre uno spiraglio di luce ideale. Moéna vi fìggeva per la prima volta lo sguardo smarrito e commosso. Che cosa era avvenuto in lui, non nuovo alle imprese amorose, perchè una donna che forse non era la più bella gli suscitasse tanto turba- mento. Perchè quella e non un'altra? È dunque vero che passano cento donne e si guardano, ma ne passa una e la si ama?

Nel treno che lo riportava a Trento solo mentre poche ore prima aveva percorso quella medesima via insieme alla diletta ed insieme avevano respirato, guardato, sorriso, tese le braccia, desi- derato forse, forse spasimato, ma così ebbri della loro felicità, in quel treno pieno di gente che gli sembrava più vuoto del deserto, Moèna sentì improvvisamente la tristezza della separazione. Quegli occhi non li vedeva più, non vedeva più quel velo bianco, la dolce voce non risuonava più al suo orecchio. Era come se si fosse oscurato il cielo. Allora provò il bisogno di rievocare il breve passato e lo fece chiudendo le palpebre per ritrovare dentro di l'immagine cara.

Quando veramente aveva egli incominciato ad amarla? Non lo sapeva. La prima volta le era apparsa appena; poi si erano ritrovati, poi una forza ignota lo aveva spinto a raggiungerla lassù nella sua

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disgraziata terra. E poi? Ohi la dolcezza infinita della vicinanza, quando la parola non ha ancora trovato il varco delle labbra, quando gli sguardi stessi timidi ed incerti si arrischiano appena ad incon- trarsi, eppure tutto attrae, tutto avvince, le barriere cadono, i cuori si scoprono: due esseri, un uomo ed una donna che non hanno an- cora pensato all'amplesso si trovano uniti nella divina nudità delle anime.

E la sera della passeggiata nel bosco quale filtro era sceso su di loro, quale prodigioso incantesimo, se ancora solamente a pensarci tremava fibra a fibra e si sentiva trasportato come da un palpito d'ali?

Moena non aveva mentito confessandosi idealista. I suoi ven- ticinque anni e la bella persona non potevano mancare di procurargli avventure galanti, ma egli era un curioso dell'amore piuttosto che un famelico; Don Giovanni e Don Chisciotte insieme, inseguiva i fantasmi del suo cervello coll'ardore poetico del cavaliere della Mancia, ma anche li abbandonava, insoddisfatto, appena si accor- geva di stringere fra le braccia una forma vana. Se nei primissimi anni la novità dei sensi e l'inesperienza lo avevano spesso illuso e più di una volta sulla vaghezza di un volto, dietro cui non pal- pitava nulla, il cuore si era pazzamente profuso, una precoce st^in- chezza non mancò di avvertirlo che non era il soddisfacimento de" suoi desideri. In questo appunto non andava d'accordo co' suoi amici perchè non sapeva rassegnarsi a prendere della donna il mo- mentaneo piacere che agli altri bastava. Per lui questo piacere non potendo essere causa ma effetto lo faceva restare indifferente alle tentazioni comuni.

Non era tuttavia così dissimile dagli altri uomini da non aver provato quell'acre curiosità che sferza loro il sangue in certe ore tempestose. Torbidi pensieri e suggestioni involontarie avevano tal- volta guidato i suoi passi, ma la curiosità si era arrestata e quasi sempre spenta al solo approccio, sopraffatta da un istintivo disgusto. Era capace di seguire una' donna che gli avesse appena rivolto il baleno di uno sguardo o mostrato l'ondeggiare di un nastro intorno alla vita sottile, preso da una vampata di desiderio che lo gettava ardente e cieco sull'orma de' suoi passi, ma bastava che ella si arre- stasse e che lo sguardo consapevole prendesse la volgare espressione dell'invito per renderlo di ghiaccio.

Nel continuo bisogno di idealizzare la donna si era successi- vamente innamorato di creature femminee viste solamente nei ri- tratti: sarebbe partito come Rudello per ignote terre lontane alla ri- cerca di una Melisenda sognata, non per possederla, ma per morire ai suoi ginocchi.

La spiritualità del suo temperamento trovava un rinforzo di idealismo nei ricordi di famiglia, nella educazione, nelle abitudini. Di nobile e antica schiatta guerriera cui la modesta fortuna era stata schermo ai rammollimenti di un soverchio fasto, gente rude e forte venuta dai monti, ingentilita per un seguito di donne che ne avevano conservate le tradizioni nel raccoglimento della casa, nel culto delle memorie, Moèna portava in il tesoro di una razza. Il suo orrore della volgarità non era una posa imparaticela; egli l'aveva nel sangue. Tale sentimento applicato a tutte le manifestazioni della vita gli formava intomo quella specie di corazza che lo isolava qualche volta,

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ma anche lo proteggeva. Attraverso a questa corazza i segni miste- riosi che fanno riconoscere nella folla gli spiriti fraterni avevano guidato l'Unica verso di lui. Non si erano guardati, si erano sentiti.

Eppure egli la vedeva in quel momento distintissimamente. Evo- cata dalla prepotenza del desiderio la linea della di lei persona gli sorgeva dinanzi rapida, sfuggente, ma viva di tutti i fremiti che l'avevano fatto palpitare poche ore prima al suo fianco; luminosa nel raggio che usciva dal fondo appassionato delle sue pupille; con quei gesti, quegli accenti, quei silenzi che non avrebbe saputo defi- nire, ma che erano il mistero della di lei essenza, della di lei forma, del di lei tutto, la sua intimità di donna, il suo fascino di amante, erano Lei! Rapito nella dolcezza dei ricordi gli parve di cingerla, come una sera, lieve intorno ai fianchi, dandole l'anima in ab- bandono...

Quantunque al pari di tutti gli uomini egli avesse conosciuto presto il diletto d'amore e creduto di amare ed anche amato, ciò che provava ora non somigliava a nessuna delle passate ebbrezze. Egli era ora compiuto in sé. Il grande anelito della sua anima che altre volt« ne divideva gli affetti e li gettava al vento stringevasi in una cosa sola coll'Unica, poiché pensando a lei non cessava di pensare alla patria schiava, a questo amore supremo che giaceva in fondo di ogni sua aspirazione, che formavd^ il substrato di tutti i suoi pen- sieri, sangue del suo sangue e midollo delle sue ossa, fin dal primo aprirsi della ragione, quando udiva narrare in famiglia le persecu- zioni patite sotto il governo austriaco e le infamie del carcere dove uno de' suoi era morto.

La possibilità di morire per una causa santa, e meglio che nel languore del carcere sotto il piombo di un soldato nemico, aveva agitato per lungo tempo i fantasmi eroici della sua immaginazione procurandogli vere voluttà di sacrifìcio e quasi una smania, una fre- nesia di offrire la propria giovinezza, di vedere quel suo sangue ar- dente che gli ribolliva dentro uscirgli dal petto e rigare la terra dove i suoi padri avevano imprecato e pianto. Nessuna offerta di piacere, nessuna lusinga di donna valeva per lui quei solitari vaneg- giamenti dove le facoltà superiori della sua anima si esaltavano fino al delirio.

Riavvicinandosi a Trento gli attraversò la mente il canto di Gazzoletti che sognando al pari di lui una morte gloriosa pensava all'ultimo nome che gli sarebbe palpitato nel cuore insieme a quello della patria; e lo comprese come non lo aveva compreso mai, e lo ridisse pieno d'entusiasmo, coi polsi che gli martellavano in uh tu- multo di febbre.

Il sole tramontava sulla città quando egli vi giunse. Non entrò, ma per una stradetta not-a alla sua fanciullezza, non più riveduta, e di cui la nostalgia lo riprese in quel fiorire nuovo di vita quale confuso desiderio di consacrare la nascente felicità presso una tomba cara, lasciato il piano, su su per un molle declivio pertossi in alto; e quanto più si sollevava più gli cresceva quell'impeto di grandi cose, quel bisogno di darsi, di prodigarsi fuori di stesso, impa- ziente dei lacci che lo stringevano alle miserie dell'esistenza co- mune. I freschi verzieri, gli orti amorosamente coltivati all'ombra dei frassini si sprofondavano sotto i suoi piedi in un morbido ondeg- giamento lasciando emergere le chiese, i campanili, le torri, la mac-

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chia screziata delle case e l'Adige, l'Adige impetuoso travolgente le sue onde opaline con foga d'armigeri correnti alla battaglia.

Tutte le sue visioni insorsero, tutte: Le antiche infantili mera- viglie ai racconti del padre che, soldato sotto FAustria, aveva diser- tato per correre nelle file di Garibaldi quando in Piemonte e in Lombardia si davano le prime spallate al colosso, la malinconica vita di esiliato lontano dalla famiglia, il ricongiungersi a questa ap- pena le circostanze apparvero propizie; e la morte prematura del padre e il lungo seguito di affanni che la accompagnarono adunando sul capo già pensoso di Ariele la tristezza incancellabile delle in- fanzie dolorose. E poi il lento formarsi della sua coscienza di gio- vane in ten*a libera, col ricordo dell'avita casa perduta, col rim- pianto di tanti sacrifìci inutili, coll'eco continua di pianti sommessi.

Pianti? L'illusione che gli aveva fatto scorgere nei flutti dell'Adige una foga di armigeri correnti alla battaglia mutava forma sotto i suoi sguardi allucinati. Lagrime erano; lagrime ininterrotte che dalle balze e dalle fratte*, dalle Dolomiti splendenti, dalle Giudicarle au- stere, dai boschi dell'Anàunia, dalle città segnate in fronte col sug- gello di S. Marco andavano, andavano, andavano a ricercare il cuore della patria. O Verona, non le senti tu queste lagrime dei fratelli gemere sotto l'arco de' tuoi ponti severi? Non le sente Ve- nezia quando la gondola silenziosa trascorre nell'incanto lunare tra- sportando il sogno di due felici? E tu, i^erla staccata dall'italo monile, Trieste, o sorella, odi?...

Ariele si esaltava in colali pensieri che l'ora e il luogo e lo stato particolare dell'anima sua vestivano di lirismo appassionato, abbandonandosi intero come soleva alle audaci fantasie, in oblio as- soluto d'ogni altra cosa. D'improvviso, nel fascio di raggi che il sole morente dardeggiava sulla città, il suo sguardo distinse la massa bruna del Castello coi suoi merli ghibellini rizzanti le punte intomo al torrione dove i fieri segni di Roma scompaiono coperti dall'aquila imperiale, dove s'ciffloscia sull'asta minacciosa la bandiera dai co- lori abborriti; e in quel trionfo insolente dello straniero, in quel di- spiego di forza brutale cui rispondeva dall'alto dei forti il lugubre profilo dei cannoni, tutti gli orrori delle prigioni austriache colla tetra coorte dei supplizi e delle forche che tanti nobili cuori tolsero all'Italia, ripresentandosi al suo spirito gli mandarono alla fronte una ondata di sangue così violenta che abattendosi contro un sasso sul ciglio della strada rimase a lungo immobile nell'annientamento della disperazione.

E pure fiaccato il suo spirito errava con tenace delirio di me- morie intomo alla fossa del Castello dove venti giovani italiani fu- rono un giorno uccisi dal piombo austriaco per il solo delitto di essere italiani. E il ventunesimo era un fanciullo, un fanciullo di quindici anni per il quale il venerando vescovo, dopo di avere chiesta invano la grazia di tutti, implorò che nei diritti dell'innocenza fosse salvo almeno il fanciullo! Ma il tiranno disse no e il tenero corpo cadde insieme agli altri...

Ah! non le Madonne dolci e le grazie dei liutisti affrescate entro i muri del Castello vedeva Ariele colle pupille aperte sul passatoi Egli vedeva nella notte funerea del delitto un tacito avanzarsi di uo- mini, deludenti la sorveglianza delle sentinelle, strisciare sotto gli spalti, scendere carponi nella fossa e cercare i cadaveri e caricarseli

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sulle spalle amorosamente come persone vive, come fratelli vivi... Poi risalire lenti e dolenti la scarpata sotto i fucili pronti delle senti- nelle e dileguarsi nella notte portando in salvo le spoglie dei martiri strappate alla fossa infame.

Ombre, sangue, morte vedeva Ariele intorno al Castello, sempre vaneggiando.

Quando rinvenne le tenebre avevano già involta Trento, visibile appena per i punti luminosi che la picchiettavano di innumeri pu- pille, vigile e desta nell'ombra; vigile e desta.

Parve allora ad Ariele che fili invisibili gli si allacciassero in- torno e voci misteriose piegando verso lui un fiato ardente gli mor- morassero : « Aiuto! Siamo in mille e mille come te. Siamo poveri, dispersi, abbandonati; il giogo tiene curve le nostre fronti, le mi- nacele inceppano i nostri polsi, il terrore chiude le nostre bocche, atrofizza il nostro pensiero; e siamo tanto miseri che parecchi fra noi non hanno neppure coscienza della loro servitù, e siamo così inviliti che per paura non osiamo nemmeno sperare». E i fili tre- mavano come nervi febbricitanti e le voci singhiozzavano...

Se i propositi di Ariele fossero stati meno fermi si sarebbero insaldati per sernpre in quell'ora di contemplazione in cui parvero venire a lui le energie imploranti della città oppressa, lassù su quel colle d'onde l'occhio la abbracciava intera. La necessità di unirsi, di formare una lega di resistenza che fosse come un sol cuore dal battito incessante, si imponeva al suo fervido entusiasmo. Più che un conflitto sanguinoso egli vagheggiava ora il trionfo delle forze occulte della stirpe, l'unione degli uomini di buona volontà. Non è questa l'idea che deve rigenerare il mondo? Le opere che disgiunti non riescono a compiere, morte nella sterilità del desiderio, sorge- rebbero allora in un potente slancio di vita. Oh! quando saranno uniti tutti, tutti, uomini dei monti e uomini della valle, colui che semina le spiche nel campo e colui che le raccoglie e colui che le ripone; ed ancora i pastori del gregge ed i pastori delle anime, tutti, tutti, tutti!

La visione si allargava allo sguardo profetico di Ariele. Era pur stato un tedesco che affacciandosi a quei monti aveva esclamato : « Qui incomincia l'Italia». Parla dunque il diritto dei popoli nella ban- diera naturale che gli stranieri incontrano appena usciti dai loro paesi brumosi salutando l'Italia nei colori del nostro cielo e del nostro mare, negli occhi delle nostre donne, nei segni della nostra storia. Non più armigeri, non più lagrime svolgeva ora il bel fiume. Ariele lo vedeva scendere vergine linfa cristallina dall'alvo nativo e scorrere ira sponde fiorite in mezzo a un popolo festante che canta la nuova canzone di libertà: Adige italiano in terra italiana.

Dinanzi a quest'ultima visione il petto gli si gonfiava in un ri- gurgito di vita, in un folleggiare audace di speranze, mentre il sangue giovane urtando i suoi polsi vi accendeva fiamme di passione e l'occhio inquieto frugava nelle tenebre. Dai profondi abissi del suo essere una voce si agitò sollevando al suo sogno la terra, i monti, le acque, le linfe degli alberi, le correnti dei venti, il fuoco dei vulcani, tutte le forze della natura congiunte al grido disperato degli uomini in uno slancio di esaltazione sublime, in un magnifico assurgere verso la felicità, verso la libertà.

ROGO d'amore 183

Poter avere allora l'Unica vicino a sé... cuore contro cuore! Un desiderio altissimo lo assalse, lo investì; desiderio così acuto di strin- gere un'anima che la visione femminea sfiorò appena i suoi sensi, esaltati nell'ardore di un'unione sovrumana, fuse nel suo pensiero la donna e la patria con tale trasporto di tutto stesso che sentì di toccare in quel punto il culmine della sua vita ideale. Altre ore più grandiose o più pugnaci gli preparava forse il destino, ma quella sarebbe rimasta al di sopra di tutte come il luminoso zenith della sua giovinezza.

VII.

Al sommo della scala, dove il servitore attendeva tenendo aperto l'uscio, un grande specchio riflettè tutta intera la persona della si- gnora che saliva. Ella si vide alta e sottile nell'abito scuro rischiarato appena dal velo bianco che le fasciava il cappello e trasalì ricono- scendosi. Rispose rapida al saluto del domestico, rapida attraversò le prime stanze del suo appartamento e giunse alla camera da letto dove subito nella vecchia specchiera a colonnine dorate ella si rivide. Quella era dunque la donna amata da Ariele Moèna!

Si sbarazzò del velo e del cappello tornando a guardarsi colla faccia vicina al cristallo che si appannò del suo fiato. Mentre portava istintivamente la mano al taschino dfel petto per estrarne la pezzuola, si sovvenne di averla gettata ad Ariele dal finestrino del vagone a Rovereto e sorrise. Una poltrona stava ac-canto; vi si lasciò cadere premendo il volto contro i cuscini, col cuore che le bcJzava un attimo ma sorse subito in piedi.

Andava e veniva per la camera, lesta, vivace, sfiorando il tap- peto con passo leggiero di farfalla che rade il suolo; non sentiva il peso del suo corpo; pareva che l'aria la portasse. Ed era pure dentro di lei un tintinnio giulivo, come di campanelluzzo d'argento, come un riso d'angeli profondo e sommesso, udito da lei sola. Parlando colla cameriera sentiva il bisogno di dirle delle parole buone nello stesso modo che l'avrebbe fatta partecipe del profumo di un fiore che tenesse fra le mani. La di lei bruttezza le faceva compassione; non si era mai accorta che fosse così brutta; gialla, allampanata, le mancava un dente davanti.

Hai perduto un dente?

Sì, signora contessa. È stato l'altro giorno; dovetti farlo le- vare perchè soffrivo come una dannata.

Poverina, bisognerà rimetterlo.

La accarezzò benevolmente sui capelli ben pettinati e le volle dare un conforto : disse :

Hai dei bei capelli ancora.

Stava al suo servizio da vent'anni, avevano press'a poco la stessa età, conosceva quasi tutta la sua vita. Se sapesse! pensò Id signora, e tornò a guardare il vuoto lasciato dal dente nel volto della donna con una bizzarra sensazione di terrore e di gioia che le fece passare dinanzi agli occhi la giovanile freschezza della bocca di Moéna.

Nella assenza di quasi due mesi si erano accumulate diverse no- tizie che la cameriera si affrettò a comunicarle. La signora marchesa

184 ROGO d'amore

era venuta più di una volta in persona a chiedere della signora con- tessa; il tappezziere aveva portato il cofano; s'erano rotti i vetri della veranda in una notte di violento temporale; il pittore chiedeva se la signora contessa fosse disposta a rifare il cornicione del salotto; la vecchia magnolia del giardino era morta...

La signora ascoltava tutto ciò con apparente interesse per non mortificare la cameriera e toglierle il piacere del racconto. In realtà ognuna di quelle parole risonava a vuoto nel suo cervello e le piccole cose che una volta forse avrebbero trattenuta la sua attenzione le sembravano ora lontane da lei, ricacciate in una vita anteriore, con quel digradare sfumato dei piani eh© nei quadri antichi dove la figura è tutto rappresenta negligentemente il paesaggio attraverso il vano ristretto di una finestra. Le ciarle della cameriera erano il vano angusto per il quale ella guardava con indifferenza il paesaggio rimasto estraneo al suo pensiero dominante.

Anche vicino a lei, nell'immediato contatto dei mobili che la circondavano, che erano i suoi mobili, compagni di tanti anni, testi- moni di gioie, di illusioni, di dolori, avvertiva il nuovo motivo so- praggiunto quasi un velo roseo sospeso fra lei e gli oggetti, quasi un pulviscolo luminoso che posandosi sulle forme ne smussava gli angoli e rialzava il tono dei colori. Una esultanza di vita che sembrava non avesse ragione diretta, tanto lo zampillo gorgogliava profondo iri tutto il suo essere, la teneva in uno stato di equilibrio d'onde appariva più che mai vana la distinzione fra spirito e ma- teria, poiché ella gioiva di vivere nella sua carne sana e palpitante così come nella alacre intelligenza e nella sottile sentimentalità della sua anima essenzialmente femminile.

Rientrando nella propria casa aveva coscienza di portarvi un contributo di commozioni, di accrescerla in valore intimo e le tar- dava che il fuoco del suo cuore passasse negli oggetti che le dovevano servire per sentirli veramente suoi, per riprenderne possesso in se- guito al temporaneo abbandono. Un cumulo di lettere e di circolari arrivate durante la sua assenza giacevano sullo scrittoio. Ella vi posò la mano distratta, senza curiosità.

Andò invece a guardar fuori dalla finestra dove gli alberi nel vecchio giardino formavano un gruppo denso di verde e di ombra che subito cattivò la sua attenzione e dove immerse lo sguardo per- dutamente, come dentro a un'acqua morbida. Erano i noti alberi che ella aveva guardato tante volte con placido diletto, che fiorivano ogni primavera sotto i suoi occhi e ad ogni autunno ingiallivano regolarmente, sempre allo stesso modo; ma se gli alberi erano ancora quelli cambiata era la sensibilità degli sguardi che vi si figgevano pieni del ricordo di altri alberi, di altre ombre. Stette a lungo colle pupille immobili nella attrazione di quel verde, sentendone la fre- scura e i misteriosi fruscii e quasi un respiro di persona viva tra fronda e fronda. Si toccò la fronte, la guancia, il collo; chiuse gli occhi e un brivido le passò nell'alto delle braccia...

I giorni che seguirono ella dovette, per forza occuparsi di affari e di cure mondane svolgendo dai veli del sogno la sua personalità effettiva, ma sempre l'accompagnava quell'interno tintinnio giulivo, quel riso d'angeli profondo e sommesso che dall'imo più segreto della sua psiche saliva ad accenderle sul volto una scintilla di rin- novata giovinezza. Con una assenza di calcolo, che nel suo tempe-

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ramento serio e grave segnava la not<i più sincera di quello straor- dinario amore, non si chiedeva ancora dove il nuovo sentimento l'a- vrebbe condotta e coll'assoluto disprezzo che spinge gli audaci a sfidare i pericoli dell'abisso tendeva essa pure la fronte e il petto alla sferza del vento, alto il respiro verso la libera vastità dell'oriz- zonte, bevendo ondate di vita.

Fuori, per le vie della città, ogni cosa le si presentava sotto mu- talo aspetto. Come il suo passo era più svelto e le sue pupille più lucenti, anche i fabbricati e i negozi e la gente si animavano del suo nuovo punto di vista. Adagiata da molti anni nell'indifferentismo di una rinuncia austera e voluta ritrovava con meraviglia l'antico pia- cere dinanzi alle vetrine dove l'eleganza più raffinata invita la donna ad ornare la propria bellezza. Non proponeva a stessa nessuna mèta, ma il suo sguardo errava carico di rinnovata curiosità su quelle armi dei femminili combattimenti verso cui per un prodigio che ancora non sapeva spiegarsi si trovava di nuovo sospinta. Era una impressione di giuocatore che tagliato fuori dalla partita si sente improvvisamente ripreso, sente tornare ai suoi polsi i battiti febbrili della lotta.

Tale meravigliosa rinascita di sensazioni che ella credeva sepolte per sempre col suo passato le riserbava la sorpresa di vedersi riflessa nella attenzione degli uomini. Quegli sguardi che fra uomo e donna nella età felice si incontrano rapidi e scintillano rubando ad ogni beltà un po' del suo profumo, ad ogni cuore un po' del suo desiderio e che i giovani portano con sé, focolare di energie continuamente rinnovate, sorgente inavvertita e diffusa della loro sicurezza, torna- vano a lei dai lontani paesi dell'illusione. Quando sorprendeva fermo ne' suoi sguardi uno di tali sguardi una commozione non ignota ma quasi dimenticata le accelerava nelle vene il corso del sangue ed ella stessa non si meravigliava più dell'effetto che produceva poiché una fioritura di giovinezza partendo dal suo interno le inghirlan- dava la fronte, gli occhi, la bocca, tutta la persona dei colori della sua gioia.

Dai limbi oscuri dell'età dolorosa ai quali la sua anima già pie- gava in malinconica rassegnazione un miracolo d'amore l'aveva ri- portata nei giardini dell'incanto dove ferve' la vita. Ella era ancora giovane, ancora bella, desiderata ancora, amata ancora. Quale donna aveva mai ottenuta una simile grazia?

In mezzo alla folla delle strade le accadeva pure di scorgere tal- volta 0 una pallida guancia o una linea delicata che le riconduceva improvvisamente dinanzi il volto di Ariele. Fissava allora quel si- mulacro come non aveva mai osato di fissare lo stesso Ariele, an- siosa, palpitante, finché l'inganno spariva lasciandola insoddisfatta eppure eccitata : ed avveniva ancora questo : lo sguardo che pen- sando a Moena ella aveva arrestato sopra un altro uomo le ritornava carico di improvvisi desideri, che intorno a lei l'atmosfera palpi- tava continuamente delle folli ed inebbrianti sensazioni dei vent'anni.

Ma la sensazione più deliziosa la provava al mattino, quando, appena schiusi gli occhi, il nome di lui le balzava dall'oblio del sonno al ritmo della vita con un trillare d'allodola che si alza nel cielo. Ella nasceva così tutti i giorni alla gioia. Tutti i giorni la divina giovinezza perduta le si riaffacciava nell'amore di Ariele, nel ri- cordo dei loro silenzi ardenti.

J3 Voi. CLXVn, Serie V 16 settembre 1913.

186 ROGO d'amore

Una visione meravigliosa andava formandosi allora nella sua fantasia. Le sembrava di vedere stessa, piccola bimba, incammi- nata lentamente sull'erta di un monte cogliendo fiorellini e pietruzze, inseguendo farfalle e scarabei, nel biancore rosato dell'alba; e via via che saliva dardeggiando più vivido il sole sbocciavano tutto in- torno fiori pomposi, si innalzavano steli, si svolgevano ombrie di fronde allietate di canti, popolate di nidi; ondate di profumi attra- versavano l'aria a tratti; e se pure a tratti grosse pietre inceppavano il sentiero, se qualche rovo pungeva a tradimento, se qualche serpe strisciava di sotto alle pietre, la smania di cogliere quei fiori, di po- sare sotto quelle ombre, di udire quei canti, di raggiungere quei nidi dava forza alla viandante. L'alternativa della gioia e del dolore le svolgeva una trama di vita in mezzo alla natura feconda, sotto la vampa del sole spremente intorno essenze di fiori, tepori di alcove. Nel suo pieno meriggio andava la pellegrina ansando, su, verso la vetta, fra pietre sempre più rudi, fra spine sempre più acute, fra serpi sempre più insidiose cogliendo ancora qualche raro fiore, beando l'oc- chio sulla porpora disperata del tramonto, china la fronte al mistero dei nidi dove i pigolìi tacevano a poco a poco mentre a lei le forze venivano meno. Di repente il sole scompare, piomba la montagna a picco, precipita la china fra un diroccare di pietre, ulula il vento, sbatte la piova, neri fantasmi attraversano l'oscurità. È il buio, è il freddo, è la morte. L'abisso ultimo sta per inghiottirla!... Ed ecco che mentre ella si abbandona chiudendo gli occhi al gran nulla, un fiume ridente scorre a' suoi piedi, una barca la raccoglie ed ivi stanno fiori olezzanti, musiche celesti, battiti d'ali, morbidezza di piuma,- calore, raggi, e due braccia la stringono e una bocca la bacìa col divino bacio d'amore...

In tale poetica esaltazione di spirito ella rivide Moèna. Le ap- parve all'improvviso, come egli soleva, presentandosi in casa sua senza che ella ve lo avesse mai invitato, senza che nessuno dei due avvertisse l'infrazione alla regola, tanto era per loro unico un pen- siero, unico un desiderio, usciti entrambi dal mondo reale per vivere insieme quel loro sogno.

E il sogno interrotto riprese con un semplice cambiamento di scenario. Invece del rustico sentiero, della panchina, del bosco, del capanno, il salotto li accolse.

Aveva pur esso ombre discrete, silenzi suggestivi dietro le por- tiere chiuse, al tichettìo di una pendola antica, tra gli ori pallidi delle cornici e i fiori languenti nei cristalli. Ella fu felice di vederlo entrare così nella sua esistenza, interessarsi a tutto quanto la cir- condava, osservare ì quadri, accarezzare i velluti, odorare ì fiorì, ri- flettere nello specchio il suo nobile profilo, lasciare l'impronta del suo braccio sulla spalliera della poltrona, l'eco della sua voce nel- l'aria.

La sottile ebbrezza dell'intimità tornò ad avvolgerli nell'asilo si- curo, dove solo il loro volere era limite al desiderio.

Tornarono a quel singoiar parlare di cose indifferenti coll'ac- compagnamento in sordina dei loro cuori commossi che era uno dei più grandi incanti della loro conversazione, mantenuta sempre nel tono cerimonioso della terza persona, ma anche quello pieno di una tenerezza nascosta come se ognuno pensasse tu e solo per pudore pronunciasse lei. Persisteva in entrambi così unanime la paura di

ROGO d'amore. 187

decadere che la lotta continua che ne derivava era un fascino di più; fascino alato, spirituale, dove i sensi tuttavia non perdevano nulla, anzi si aJBBnavano in un seguito di sensazioni delicate, rag- giungendo la trasparenza del liquore che abbandona nel filtro le scorie impure e si condensa in goccia di topazio e di rubino dove l'ardore è raggio e la voluttà essenza inafferrabile.

Questo lo portava il giorno della conferenza, la seconda volta che la vidi disse una sera Moèna accennando a un gioiello che pendeva dal collo della signora.

La sua mano dalle forti e belle linee virili contrastava colla pallidezza quasi sofferente del volto; era il volto di un poeta e la mano di un soldato; pure tale mano riattaccavasi alla sensibilità del volto per la leggerezza diafana del gesto che aveva indicato il gio- iello, dando alla signora l'impressione vaga di una carezza non ese- guita ma pensata.

Rispose sorpresa :

Ck)me mai lo ricorda?

Ricordo anche l'abito che indossava la prima volta.

Oh! no, è impossibile. In quel momento!...

Era grigio.

È vero.

Una sinfonia di grigio sfumata in bianco.

E vero, è vero. Ma come ha potuto guardare il mio abito allora?

Non so. Non ho guardato l'abito, ho guardato lei intanto che si allontanava e mi rimase negli occhi quel colore di nube argentea. La vedo ancora, nel vano della porta, sparire...

Moèna ella esclamò con subitaneo slancio chi ci avrebbe detto quella sera che saremmo diventati... (si arrestò).

Che saremmo diventati?... ripetè Moèna rilevando l'inter- ruzione con una punta sottile di malizia.

Tanto amici rispose la signora seria seria.

Ma subito si lessero fino in fondo all'anima ed una gaiezza irre- sistibile li rese per un istante fanciulli. Avevano spesso assalti di gioia, così, per una parola, per una allusione, per un pensiero còlto a volo, prima interpretato che detto. Somigliavano veramente a due fanciulli che avendo trovato nei campi un bottino di frutti prima ancora di assaggiarli si inebbriano della loro scoperta; in tale fre- schezza di sensazioni la donna emulava il giovane fino a superarlo, fino a dargli l'illusione assoluta della propria giovinezza. Nato da un eccitamento dei nervi il riso di lei le serviva anche di difesa quando la tentazione la serrava troppo da presso e temeva di sco- prirsi. Era una forma di resistenza che non ingannava l'uno l'altro, ma che permetteva a entrambi di guadagnar tempo prolun- gando le ore indicibilmente dolci dell'amore che sale.

Per quanto la loro intimità crescesse di giorno in giorno il riserbo di Ariele non usciva dalla signorile compostezza che era una forma del suo sentimento, ma che, senza volerlo, aumentava il peri- colo per l'assoluta fiducia che ispirava. Gli accadeva qualche volta di entrare preoccupato e sedendo in silenzio p'resso a lei prenderle le mani esili e fresche per sprofondarvi la fronte. Stava così senza parlare in grande delizia, ed ella lo sentiva ardere. Anche le posava qualche volta delicatamente la testa sull'omero o sui ginocchi mor

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morando: «Potessi restare sempre qui! » Un dolore nascosto gemeva in fondo a quell'abbandono tenero e casto; o forse un seguito di dolori, tutta la tristezza che faceva tanto pallide le sue guance, tutti i pensieri che oscuravano i suoi occhi sempre un po' velati.

A poco a poco fluirono le confidenze : l'infanzia orfana, la prima gioventù sciupata follemente, i facili amori che non avevano lasciato traccia, la corsa frenetica dietro chimere che svanivano appena tocche e finalmente la sua donazione intera, anima e corpo, all'idea che riassumeva in ogni aspirazione d'avvenire : la patria libera.

Allo slancio di simpatia spirituale che li aveva prima congiunti si aggiungeva ora per i patimenti di Ariele un sentimento di pietà, di tenerezza materna che illudeva a tratti la signora, la quale sob- balzata dalla passione come sopra le onde di un mare burrascoso, ora piena di ardire, ora pavida del vicino abisso, tentava nascondersi dietro la maschera dell'amicizia. Egli insorgeva dolce e fermo : « Non voglio la sua amicizia... ».

Una sera osò soggiungere : « Voglio il tuo amore ».

Ella si celò il viso tra le mani e poiché lui insisteva tenendola stretta ai polsi, pazza ella stessa d'amore e di improvviso desiderio ebbe la forza di gettarsi indietro, spaventata.

Mi respinge? Mi respinge? le soffiò egli sulla faccia; ed essendo riuscito a distaccarle le mani la fissava con occhi pieni di tristezza.

Non sono io che la respingo, mormorò lei tutta tremante è il destino che ci ha posti troppo lontani. Moèna, siamo stati molto imprudenti... Oh! non lei che è giovane, ma io... io sono la vera colpevole.

È colpa l'amore? disse Moèna colla sua voce calda che veniva dal profondo.

Per noi è più che una colpa (sollevò essa pure verso di lui le pupille angosciose), è un delitto di lesa natura. L'alba non può unirsi al tramonto.

Ma noi fummo due albe! Non ricorda, poiché ha nominato il destino, in qual modo lo stesso destino ci ha guidati l'uno verso l'altra? Lei non fu allettatrice, io non fui seduttore : mai sentimento nacque con maggiore spontaneità, con maggiore sincerità del nostro. Appunto, poiché un abisso ci divide, come dice lei, non la leggerezza dell'età, nemmeno l'occasione ci spinsero ad amarci. Ci amiamo perché non possiamo fare diversamente.

E se c'ingannassimo? pronunziò debolmente la signora.

Lei stessa non è convinta di quello che dice affermò Ariele con risolutezza. Sapesse quale sacrificio mi è costato il venire a raggiungerla lassù...

Ella interruppe :

Un sacrificio?

Sì, ma non é il momento di parlarne. Parliamo invece del nostro dolce e così recente passato. Ricorda l'incontro sulla strada? Che cosa speravo io allora, che cosa volevo? Lo ignoro. Forse non l'amavo ancora: chi può dire quando incomincia l'amore! Ma fui tanto felice, quella sera, sulla panchina, al suono della musica che per quanto uscita da istrumenti comuni sembrava a me un con- cento di paradiso; e le lampadine elettriche chiarivano appena la

ROGO d'amore 189

spianata solitaria, e il suo velo bianco mi portava a tratti sul volto il suo respiro... ricorda?

Ricordo.

E i nostri silenzi... li ricorda?

Anche quelli:

E...

Si guardarono trasalendo in tutte le loro fibre, sprofondate le anime nelle pupille. Mormorarono insieme pianissimo: Il bosco...

Vedi, vedi? Questa sola evocazione ci la febbre e vuoi che non sia amore?

Ella teneva il capo reclino ansimando. Non vide gli occhi di Ariele quando rammentò il bacio nel capanno... ma la voce suadente continuava, ritornata alla forma di rispetto che era tra loro un tacito accordo di resistenza, più ardente forse dell'abbandono.

E quel meriggio doro in mezzo alle rose? la sua cara visita? il crescit eundo?

Dio! esclamò la signora che ore divine vi sono nella vita! E la sua apparizione in treno il giorno che partii...

E il grido che ella gettò vedendomi...

E il piccolo albergo di Trento, quella finestra di fronte al palazzo del diavolo, quel davanzale su cui ci appoggiammo insieme immemori del mondo...

Ancora si guardarono. Ancora nei loro occhi che si dicevano tutto passò il lampo di un ricordo, di un pensiero, ma i labbri tacquero. Trento rivisse nelle loro parole evocatrici allora, Trento col suo. fascino misterioso, colla sua bellezza dolorosa, la Trento del loro sogno e del loro amore. Indugiati sulle memorie dell'ultima sera trascorsa ai piedi della statua di Dante il rosario di passione che essi avevano sgranato li cinse di una collana luminosa le cui faccette alternate erano stelle ed erano lagrime.

Crede? Crede? Le giuro che non ho mai provato vicino a nes- suna donna la commozione che risentii presso a lei, che risento ancora...

Basta Ariele. Non sa quanto male mi fanno queste parole? Non comprendi dunque?... Non comprendi?...

Erano entrambi agitatissimi. I loro sguardi che prima si pas- savano da parte a parte non si vedevano più, le loro mani le loro braccia si cercavano automaticamente, si stringevano con movimenti convulsi.

E tu comprendi tutto quello che sei per me? una creatura quasi non terrena, tanto mi sembra impossibile ciò che avvenne, ciò che avviene, ciò che dovrà avvenire. Comprendi che finché il cuore scanderà un palpito tu mi avrai, come nessuna mi ebbe, come nes- suna mi avTà; come tutte le forze dell'anima ti desiderano in (juesto istante?... Comprendi? Addio, addio, fuggo.

Ella non lo ritenne. Sfinita, abbandonata sui cuscini del divano le cantava ancora nell'orecchio la voce di Moéna « come nessuna mi ebbe, come nessuna mi avrà » e una ebbrezza meravigliosa la invase, qual di lama che penetra senza far soiTrire, in fondo, in fondo, in fondo fino a dare la dolcissima morte.

(Continua).

Neera.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

Nell'ottobre e nel novembre del 1867, durante tutto il periodo degli avvenimenti che dovevano trovare il loro epilogo a Mentana, il telegrafo pontifìcio aveva funzionato con alacrità, poi aveva ri- preso andamento normale.

La guerra del 1870 fra Prussia e Francia e le varie battaglie del mese d'agosto vennero a rompere il suo regolare ed usuale lavoro ed a rimetterlo in maggiore moto. Quando poi, ai primi di settembre, si presentò chiaramente il pericolo d'invasione da parte delle truppe italiane, esso ritornò a battere con veemenza, con ansia.

La storia del telegrafo pontifìcio diventa allora storia dello stato papale; la sua voce diventa la intera affannosa voce del governo pon- tifìcio; voce di morente che vede l'esercito italiano varcare i con- fini, diffondersi nel -territorio, convergere e stringersi in cerchio at- torno a Roma, bersagliarne, rovinarne le mura, penetrarvi. .

Ciascun telegramma si trasforma in singulto di una tragica e solenne ora storica. Da essi, compilati frettolosamente, sotto la pres- sione del pericolo c^hc avanza e minaccia, sotto l'urto della valanga armata che precipita e si espande, sotto l'incrociare dei proiettili che uccidono, si intuisce, si sente, si raccoglie tutta la verità, tutt-a la realtà di una Morte, destinata ad essere ricordata e meditata anche quando la storia del nostro millennio risuonerà alle future genera- zioni come mormorio di lontana cascata.

Il 10 settembre Sua Santità Pio IX, riceve il conte Ponza di San Martino, inviato straordinario del Re d'Italia. Al termine del- l'udienza fa chiamare il generale Kanzler, il vincitore di Mentana, ministro della guerra e capo supremo dell'esercito, ed il maggiore di stato maggiore Rivalla, per partecipar loro la minacciata inva- sione e per invitarli a dare le opportune disposizioni militari.

Il piano di difesa è semplice. I distaccamenti, le guarnigioni, i presidi debbono, dai vari luoghi dello stato dove trovansi dislocati, vigilare .l'avanzata delle truppe italiane e, all'avvicinarsi di esse, ri- piegare, concentrarsi in Roma; solo a Givitacastellana ed a Civita- vecchia rimarranno competenti forze perchè, con una moderata re- sistenza, affermino la violenza dell'occupante. È piano che si ritiene assai appropriato al momento, militarmente e politicamente; dal lato militare evita che l'esercito possa farsi cogliere alla spicciolata, per frazioni, come era avvenuto nel 1860, e forma invece la massa nel

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 191

punto più importante; dal lato politico, perchè si pensa che il go- verno italiano, con tutta probabilità, giunte le sue truppe sotto le mura di Roma, fatto timoroso da possibili interventi europei, dalla potenza della tradizione, dalla legittimità dei diritti secolari, da ra- gioni spirituali, dal clamore che susciterebbe in tutta Torbe cattolica il bombardamento della città eterna, non si arrischierà ad attaccare.

Il servizio telegrafico è messo in armonia con questo piano : deve funzionare attivamente, sicuramente, in modo che tutti i reparti e le autorità politiche staccate siano sempre in comunicazione con Roma; tutte le stazioni telegrafiche, come era stato fin dal 26 agosto pro- posto dal colonnello Lopez, comandante la piazza, debbono rimanere aperte giorno e notte e debbono essere sussidiate da un servizio di corrispondenza segretissimo, fatto con uomini a cavallo, atto a sup- plire nel caso che i fili venissero troncati.

Il battere frettoloso, incessante, del telegrafa pontificio comincia alla sera dell' 11 settembre; continua ininterrotto fino alle ore 9.50 del 20 settembre.

I telegrammi di questi dieci giorni si possono distinguere in due gruppi. Un primo gruppo è costituito da tutti quelli che dalle Pro- vincie, dai presidi, dai distaccamenti affluiscono a Roma; sono tele- grammi territoriali, esterni; annunciano l'approssimarsi del nemico e ad un tempo il raccorciarsi, il progressivo rattrapprirsi delle linee telegrafiche dello stato. Il secondo ' gruppo è costituito dai tele- grammi interni della città, compilati quando tutta la rete esterna è caduta nelle mani dell'avversario e le truppe italiane s'addensano sotto le mura e procedono all'attacco.

Contrariamente a quanto potrebbe prevedersi il telegramma che getta il primo grido d'allarme non parte dalla periferia, ma bensì dal centro e s'irradia in tutte le direzioni, fin dove si distendono in ampio cerchio, ai confini, i piccoli distaccamenti.

È il seguente :

11 settembre 1870.

Al Cornando la fjuarnigione di

Persona al solito bene informata ha fatto conoscere che l'invasione del nostro ter- ritorio avrà luogo lunedì 1 2 corrente. Per conseguenza S. E. il generale Pro Ministro ha luogo a supporre che a coprire tal pretesto d'invasione si voglia cercare di fare qualche movimento quest'oggi e questa sera.

D'ordine di S. E. darà dunque disposizione perchè dalle quattro in poi abbia luogo il ritengo (1) invece della metà di tutta la guarnigione.

Il capo di stato maggiore RlVALTA.

Chi era la persona al solito ben informata?

Non è dato saperlo. Molto probabilmente le informazioni prove- nivano da parecchie sorgenti. Forse però non è errato ritenere che

(1) Il ritenfjo corrispondeva all'attuale <( truppe consegnate » ed era di- sposizione precauzionale per la quale un quai-to, metà o tutta l'intera forza disponibile di un determinato jjresidio veniva tenuta nelle caserme anche du- rante le ore di solito destinate alla libera uscita.

192 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

fosse quella stessa che il mattino del 10 settembre, proveniente da Napoli, si tratteneva in lungo colloquio a Prosinone col maggiore Lauri ed alla quale si riferisce il seguente breve rapporto diretto dal comando della gendarmeria pontifìcia a S. E. il prò ministro delle armi pontifìcie.

Comando delia Gendarmeria Pontificia

N. 3634.

Roma, 10 settembre 1870.

Ho il pregio di qui appresso trasci'ivere all'È. V. il seguente telegramma in cifra spedito dal maggiore Lauri da Prosinone :

« Colloquio con nota persona oggi: appresi invasione lunedì 12 ». Con rispetto

n colonnello

Evangelisti.

A S. E. il generale Kanzler

Pro-ministro delle armi Roma.

L'informazione era esattissima.

Il 10 settembre, il ministro della guerra Ricotti, aveva ordinato che precisamente il giorno 12, il generale Cadorna, comandante delle tre divisioni (11*, 12*, 13") riunite al confine umbro e formanti unità distinta col nome di «corpo d'osservazione dell'Italia centrale» (1), varcasse il confine al ponte Felice ed al ponte d'Orte, avanzasse per la destra del Tevere fin quasi sotto Roma e ripassasse sulla sinistra del fiume quando le circostanze lo consigliavano per attaccare la cinta fra porta Salara e porta Pia; nel medesimo tempo aveva di- sposto che nello stesso giorno un'altra divisione, la 9*, agli ordini del generale Angioletti, radunata al confine napolitano, invadesse da sud e giunta ad una marcia da Roma attendesse ordini dal gene- rale in capo Cadorna e che infine, sempre nel giorno 12, un'ultima divisione, la 2*, agli ordini del generale Bixio, raccolta ad Orvieto, agendo indipendentemente, marciasse su Civitavecchia, l'attaccasse col concorso della squadra ed aspettasse quivi gli ordini del ministro per le ulteriori operazioni.

Il telegramma' proveniente dalle Provincie, che primo annuncia che le estreme punte dell'esercito italiano hanno posto piede nel territorio pontifìcio, giunge da Viterbo, dove trovansi concentrate, agli ordini del colonnello de Charette, cinque compagnie zuavi (2*, 3'', k^ del battaglione, 1* e &■ del 4°), due plotoni del squadrone cavalleria, una: sezione della 1* batteria. È a firma del maggiore Amorosetti, comandante la gendarmeria.

Viterbo. 11 settembre 1870, or-i 6 pom.

Ministro Armi Roma. Il comandante la brigata d'Orte previene che le truppe italiane hanno levato gli attendamenti e marciano sopra Orte e che un ufficiale e 15 soldati sono passati nel nostro tarritorio. Esso comandante e i suoi hanno abbandonato il posto per recarsi luogo riunione. Anche da Bagnorea si ha notizia che questa sera sconfinino.

Il maggiore

Amorosetti.

(1) Fino al 6 settembre il corpo operante ebbe nome di corpo d'osser\a- zione dell'Italia centrale, poi si chiamò « IV corpo d'esercito ».

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 193

A Bagnorea, citata nel telegramma, vi era una piccola colonna mobile composta di un ufficiale e 20 zuavi.

L'invasione doveva avvenire il 12 all'alba, ma fin dalla sera dell'il settembre, drappelli delle avanguardie italiane oltrepassavano il confine. La notizia è poco dopo confermata da Civitacastellana dove, agli ordini del capitano Papi, sta dislocata la 5^ compagnia del battaglione zuavi e la compagnia di disciplina.

Civita Castellana, 11 settembre 1870, ore 8 pom.

Comando i* brigata Roma. Truppe piemontesi sconfinate stazione Orte; fatti prigionieii gendarmi e finanzieri. Brigadiere ha fatto fuoco.

Il Comandante la Piazza.

E alle 21.45 è annunciato anche lo sconfinamento della punta della divisione Bixio.

Viterbo, 11 settembre, ore 9.45 pom.

Ministro Armi Roma.

Truppe italiane a\TÌcinano Montefiascone, sono lanceri.

Charette.

A Montefiascone stavano la 3* e la 4* compagnia del bat- taglione zuavi.

Altri telegrammi, annuncianti la medesima invasione, partono da Valent-ano, dove vigila la 2* compagnia del zuavi e da S. Lo- renzo Nuovo dove trovasi una colonna mobile composta di un uffi- ciale e 20 zuavi. E non solo da nord ma anche da sud si eleva il grido d'allarme e precisamente da Prosinone, vigilato dalle 5*, 6*, 7*, 8' compagnie del reggimento fanteria alle dipendenze del mag- giore Lauri, e da Fallano guardato dalla 1* compagnia di linea.

Frosinone, 11 settembre 1870. ore 9.45.

.S". E. Kanzìer Roma. Mi si annuncia per espresso marcia domani mattina generale Angioletti con sua divisione varcando frontiera in vari punti. Disposi rottura via ferrata al di sopra di Ceccano. Con rispetto.

Lauri.

Infatti la 9* divisione preparavasi a muovere per Ceprano, Anagni, Valmontone, Velletri, Genzano.

Alle ore 22.40 da Viterbo si telegrafa nuovamente :

Viterbo, ore 10.40 pom.

Ministro Armi Roma. Montefiascone attend ennemi. Pris positions dehors la ville; Communications télégra- phiques existent encore. Ponte Felice Orte 1.") mille hommes.

Charette.

A questo telegramma viene risposto:

Colonel de Charette Viterbe.

Courage et benne fortune et ne vous laissez pas couper.

Kanzlee.

194 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO ^

Perchè coraggio? Perchè buona fortuna? Perchè risponde il pro-ministro delle armi in persona?

Il colonnello de Gharette era conosciuto come valoroso, pronto all'azione ed al sacrificio, desideroso sempre di battersi. Aveva dato splendido esempio di nel 1860 e nel 1867. L'incitamento ad avere coraggio quando il nemico presentasi suona offesa per qualsiasi sol- dato d'onore; maggiormente dunque poteva ferire l'animo di un in- trepido come de Gharette; in quella circostanza la frase, se non felice, rispondeva però ad un pensiero; sapevasi che la colonna avanzante su Montefiascone e che reputavasi dovesse proseguire direttamente su Viterbo era comandata dal generale Nino Bixio, al quale si attri- buivano propositi non solo di energia e di audacia, ma di settaria veemenza.

I telegrammi si susseguono per tutta la notte. Provengono anche da Velletri guardato da 4 compagnie di linea (1* del reggimento e 1*, 2*, 4* del 2°), da due plotoni del squadrone cavalleria, da una sezione della 6^ batteria, agli ordini del colonnello Azzanesi; da Ter- racina dove vigila la 3" compagnia del reggimento indigeni ed una sezione della 5* batteria; da Frascati, da Rocca di Papa, da Albano, dove stanno in osservazione piccoli distaccamenti della 4* compagnia del indigeni; da Givitavecchia nella quale, al comando del colon- nello Serra, sono concentrate due compagnie sedentarie (3* e 4*), quattro di zuavi, due di cacciatori (3* e 4*), la 3" batteria di piazza, un plotone del l" squadrone, una sezione del genio; da Montero- tondo, Mentana, Tivoli, Subiaco, nei quali siti stanno rispettiva- mente dislocati la 6* compagnia cacciatori con un plotone del squa- drone, la 6^ compagnia del battaglione zuavi, la 3* del l" zuavi, la 1* del zuavi.

Sono telegrammi esatti che dimostrano, da parte degli ufficiali e delle autorità pontificie, attività, vigilanza, percezione chiara della situazione e del momento. Fra gli altri spicca per la sua originalità quello del tenente Vistarini, che con un plotone vuole attaccare una divisione.

Civitacastellana, J2 settembre 1870, ore 1.B5 ant.

Sconfinarono da Ponte Felice truppe italiane dirette pei' questa città a mezzanotte: partiti maresciallo Spurio e due uomini di cavalleria per vedetta. Alle ore 4 attacco con queste truppe. Giunti i posti dell'arma prescritti ad un'ora antimeridiana.

Il tenente

Vistarini.

Notevole pure quello del tenente Nobili annunziante che nella Gomarca è scoppiata l'insurrezione.

Subiaco, 12 settembre 1870, ore

Brigadiere Riofreddo (1) avvisa notte scorsa esserci stata dimostrazione senso re- pubblicano senza dare dettagli. Mi dice d'aver scritto Vicovaro per altre forze. Io andrò subito per il servizio e verificherò.

Il tenente

Sibili.

(1) Riofreddo, piccolo paese, situato nella valle omonima compresa nel bacino del Teverone.

Vicovaro, abitato posto sul Teverone, a metà distanza circa fra Tivoli e Arsoli.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 196

Così da nord, da sud, da ovest, s'affaccia ovunque il nemico e da nord, da sud, da oriente e da occidente partono telegrammi in- formativi e s'incrociano con quelli che si diramano da Roma con- tenenti ordini, disposizioni, consigli.

Civitavecchia, 12 settembre 1870, ore 1.40.

A S. E. il generale Pro-Ministro delle Armi.

Dispaccio da Viterbo dice attaccato Moatefiascone ; prendo misure di difesa: di- chiaro la città in istato d'assedio: risposta.

Serra.

La risposta è laconica :

Sta bene, faccia pure. Eguale misura è stata presa per Roma.

Ri V ALT A. Viterbo. 12 settembre 1870, ore 8.40.

Generale de Courten Roma.

Brouillard intense : ceche Montefiascone : pas nouvelles Orte. On dit qu'ils arrivent par Soriano sur Vetralia. Senti plus que probablement coupé. Tout ici tranquille.

Charettk.

Il pericolo di esser tagliato da Roma si presenta minaccioso agli occhi del colonnello de Gharette : pericolo giustificato dai fatti, co- mune a tutti i distaccamenti e che appunto, costituiva il lato debole del piano di difesa del generale Kanzler. Però il comando in capo e i vari comandi di presidio, consapevoli di ciò, tenendosi continua- mente allacciati, si pongono in grado di provvedere opportunamente per ritirarsi a tempo pur continuando fino all'ultimo nel loro ser- vizio di vigilanza e di scoperta.

Roma, 12 settembre.

Diretto al colonnello Azzanesi a Velletri. Id. al maggiore Lauri a Prosinone. Italiani hanno attaccato Montefiascone e si preparano a Civita Castellana. Prenda sue misure evitando farsi tagliare fuori.

Il capo di stato maggiore

Rivalta.

Comandante piazza di Monterotondo Fontana.

Telegrafi immediatamente qualunque movimento di truppe italiane, tenga caval- leria pronta ed a portata di essere a\Tertita in tempo.

n capo di stato maggiore

Rivalta.

Il Fontana era il comandante la piazza di Monterotondo.

Signor colonnello Lepri Pilotta, Roma.

Dopo un'ora e mezza circa che qui si sentiva tuonare il cannone dalla parte di

Viterbo, la compagnia piemontese e quei pochi lancieri che trovavansi in Passo Gorese

sono partiti alla volta di Monte Orso: la cavalleria ha tenuta la strada corriera e la

fanteria è partita con treno speciale.

Bonacci.

196 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

Il marchese colonnello Lepri comandava il reggimento dragoni, l'unico reggimento di cavalleria pontificia, forte di 410 cavalli e di 520 uomini e formato su quattro squadroni ed un deposito. Il Bo- nacci era tenente e comandava il plotone del 1** squadrone staccato a Monterotondo : stava alle vedette presso alla stazione.

12 settembre, ore 8.15.

Al maggiore Lauri Frosinone. Approvato suo progetto, eseguisca pure quando momento sarà venuto; faccia riti- i-are macchine se vi sono, rompa strade ferrate.

n capo di stato maggiore RlVALTA.

Fresinone, 12 settembre 1870, ore 9.10 ant.

Ministero Armi Roma.

Avvenne invasione Ceprano. Altra colonna marcia Casamari.

Lauri.

Colonnello Ungarelli Rouia.

Frosinone, 12 sett. 1870, ore 3.30 p.

Maggiore Lauri partito ore 11 ant. circa con tutte truppe, treno speciale militare già pronto da stazione Frosinone per Sgurgola dove proponevasi rompere ponte pren- dendo Monti Lepini ; notte scorsa istesso Lauri fatta rompere ferrovia stazione Ceccano. Truppe piemontesi, come da rapporti, entrati Ceprano città e stazione ore 7.30 ant. oc- cupato telegrafo con loro dipendente, interruzione con capo luogo. Assicurasi proseguire marcia ed essere a Pofì invadenti dal lato ferrovia verso capoluogo. Questo tranquillo fino a questo momento tuttoché senza forza alcuna.

Il delegato apostolico LAVBGhNI.

Il tenente colonnello di stato maggiore Ungarelli conte Giacomo faceva parte in qualità di capo gabinetto del ministero delle armi: le altre personalità costituenti il ministero erano S. E, il generale Ermanno Kanzler e il sostituto comm. Luigi Muzio.

Posto distaccato di Piano Al signor unciale di servino di stato maggiore. Al momento che giungo sono le 12 merid. tutta l'armata nemica è sopra Civita Castellana. A Fiaiio, Nazzano ed a Turita non essendovi più da osservare domando schiarimenti sulla condotta del mio distaccamento.

E. Emiliani

tenente del i" squadrone.

Fiano, Nazzano e Turrita sono abitati posti ai piedi di monte S. Martino, monte Soratte e monte Cardinale, sulle colline di destra del Tevere che lo obbligano a deviare e a descrivere l'arco di Stimi- gliano, stazione di Poggio Mirteto, Passo Gorese.

Tenente Emiliani

a Prima Porta, 12 settembre 1870, ore 4 3i4 poni.

Resti al SUO posto e faccia osservare lo stradale di Castelnuovo senza perder di vista quello di Fiano. Sia ben vigilante onde non farsi sorprendere specialmente a punta di giorno.

ElVALTA.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 197

Ministro Armi Roma.

Vetralla, 12 settembre 1870, ore 555 p.

Tre colonne, una da Montefiascone, l'altra da Orte fino alla Quercia, terza dalla strada df Ronciglioné; essendosi sul punto di avvilupparci ed avendo avuto prigionieri due di-agoni e gli zuavi di Bagnorea, per non essere tagliato fuori, ritiromi Vetralla ove giungiamo alle <) poni. Stradale Civitavecchia libe/ò. Domani partirò. Truppe stan- chissime. Cavalleria nemica ci segue, ma potremo fare bellissima resistenza. Valentano arriverà questa notte. Ronciglioné arrivata!.

Charette.

Roma, l'2 settembre.

Colonnello Serra Civitavecchia.

Charette si ritira. Se ha la notizia che si dirige Civitavecchia mandi incontro vi veri, mezzi di trasporto. Silenzio con tutti.

Kaxzler.

Monterotondo, li settembre 1870, ore 4.10 pom.

Ministero Armi Roma. Gendarmeria Corese avvisa dopo circa un'ora che si sentiva il cannone verso Ci- vitacastellana tutta la truppa piemontese che stava al Passo Corese si è ritirata verso Montorso. Si dice che una colonna piemontese è mossa da Rieti vereo Palombara e Tivoli per cadere su Roma: in tal caso taglierebbero fuori Monterotondo. La gendar- meria corese è stata chiamata a Roma dal capitano Muratori, ciò è di danno perchè teneva avvisata questa piazza dei movimenti nemici.

Comandante piazza

Fontana.

12 settembre.

Il distaccamento zuavi di Mondragone rientri in Roma ultimo treno ferrovia. La sezione invalidi del battaglione sedentari resti in Anagni.

Ex YALTA.

Dunque, dall' 11 sera alla sera del 12, il telegrafo pontifìcio ha adempiuto bravamente al suo dovere : dovunque gli italiani si sono presentati, dovunque hanno invaso, dovunque è corsa qualche no- tizia, esso ha agito ed ha informato con una chiarezza invero enco- miabile e tale da offrire al comando ed al governo il modo di for- marsi un concetto limpido della situazione.

Un ultimo telegramma della notte del 12 partecipa che Civita Castellana, alle ore 10.45, dopo una resistenza di un'ora e mezza, circondata dalla 12* divisione italiana, battuta da tre batterie, si è arresa e con essa il suo comandante, capitano Papi, la 5' compagnia del battaglione zuavi, comandata dal capitano Resimont, e la com- pagnia di disciplina, comandata dal capitano RuflBni.

L'albeggiare del giorno 13 permette alla vigilanza pontifìcia di. scorgere e seguire il continuo avanzare degli italiani : il telegrafo, riposatosi alquanto nella notte, riprende quindi più frettoloso il suo lavoro.

Il nemico preme dal nord e dal sud; e dal nord e dal sud i pon- tifici ripiegano ordinatamente.

198 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

Velletri, 13 settembre 1870, ore 6.16,

Maggiore Rivalta Ministero Armi, Roma. Corpo marciante nemico conta circa 10.000 uomini dirigendosi Ferentino, Anagni, Colonna. Lauri sorveglia dai monti Lepini. Mia colonna guarda gole Valmontone. Mentre io 7ronteggio queir armata occorre mi diano notizie se corpo nemico Corese manovra intorno Roma, per regolare miei movimenti quando dovrò ripiegare.

AZZANBSI.

Alla giusta domanda del colonnello Azzanesi che, come già il suo collega de Gharette, si preoccupa della linea di ritirata, viene immediatamente risposto :

];? settembre 1870, ore 6.30.

Al 'colonnelìo" Azzanesi Velletri. Niun movimento da Corese. Dicesi colonna proveniente da Rieti si diriga per Pa- lombara e Tivoli. Sarà prevenuto di qualunque movimento truppe italiane onde non la- sciarsi tagliar fuoii.

Rivalta.

La supposta marcia della colonna su Palombara e Tivoli ori- gine al seguente telegramma :

13 settembre 1870.

La compagnia zuavi i-imasta in Tivoli rientri in Roma unitamente alla gendar- meria, lasciando qualche gendarme a cavallo a Ponte Lucano per avvisare Roma qua- lunque movimento di truppe italiane.

Rivalta.

Naturalmente, come sempre avviene, fra le tante notizie ve ne sono di quelle errate. Così il tenente dei dragoni Bonacci fa balenare l'ipotesi che Roma venga attaccata il 13 stesso.

Monterotondo, 13 settembre 1870, ore 12.12.

Ministro delle Armi Roma. Colonnello Lepri Roma. Recatomi a Corese non vi è che una sola .compagnia piemontese che attende i rin- forzi, credo con la ferrovia. Venuto un piccolo distaccamento al di qua del ponte per abbassare gli stemmi pontifici. Dalle proposizioni fatte al brigadiei'e Marconi essi hanno aggiunto che oggi avrebbero attaccato Roma. Noi siamo scaglionati lungo lo stradale fino a Corese.

Bonaccl

E il tenente dei dragoni Emiliani, alle vedette a Prima Porta, scambia i propri per soldati nemici.

Prima Porta, 13 settembre, ore là.

Una compagnia bersaglieri nemici con un drappello di cavalleria (sembrano . dra- goni) sono stati segnalati dalle mie vedette sullo stradale Monte del Forno e di prò spetto a Prima Porta. Il drappello di cavalieri ha preso la direzione di Ponte Salare.

Possono le mie comunicazioni venire intercettate?

Le truppe nemiche di Civitacastellana bivaccano a Rignano.

Il capo posto E. EMILIANI.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 199

Ma l'errore è subito constatato dal capo di stato maggiore, il quale, nel telegramma di risposta, tranquillizza l'Emiliani circa il pericolo di esser tagliato da Roma partecipandogli che non può es- sere attaccato che dalla strada di Castel Nuovo e di Piano e sog- giunge che « la compagnia segnalata per bersaglieri deve essere la compagnia cacciatori e zuavi che trovasi a Monterotondo con un plotone dragoni ». Giusta osservazione che dimostra che spesso, me- glio degli occhi, vede il pensiero.

Il giorno 14 il telegrafo ripetè ad un dipresso analoghe voci di avanzata e corrispondenti ordini di ripiegamento. Continua il pro- cedere lento delle truppe italiane e l'arrestarsi guardingo, armonico dei pontifici. L'il* e la 12* divisione di buon mattino marciano e ac- campano fra la Giustiniana e la Storta: la 13* raggiunge Monterosi.

Il telegrafo pontifìcio in alcuni telegrammi, a firma del tenente Belli e Burhard, partecipa il momento della loro sveglia ore 3 il loro itinerario, il loro cammino.

Contemporaneamente invia notizie della colonna del colonnello de Charette.

Civitavecchia, 14 settembre 1870, ore 15.

S. E. il generale pro-ministro armi Roma. Saputo colonna Charette essere pei" ^'iungere in questa piazza, mindato incontro colonna perchè credo già abbia attraversato avamposti nemici.

Comandante superiore

Serra.

Civitavecchia, 14 settembre 1870, ore 4 ant.

Ministro armi Roma. Colonnello Charette arrivato con sua colonna ore 3 .3[4 di mattina.

Comandant-e superiore

Serra.

Con encomiabile avvedutezza il cplonnello de Charette, per Ve- tralla e Corneto Tarquinia, ha raggiunto Civitavecchia : ignora però se è ancora in tempo per proseguire su Roma : perciò telegrafa :

Civitavecchia, 14 settembre 1870, ore 4 ant.

À Son Excellence le general Kanzler Rome. Arrivé à 3 heures trois quarta. Faut-il rester ici ou aller à Rflme? J'attends

vos ordres sur ce que je dois faire.

Charette.

Gli ordini del generale Kanzler sono contenuti nel seguente di- spaccio :

Colonel Charette Civitavecchia. Laissez une compagnie à Civitavecchia et venez train à Rome avec infanterie. Avis sera donne pour artillerie et cavalèrie.

Le ministre

Kanzler.

Un successivo telegramma, firmato dal maggiore Rivalla, avverte il colonnello Serra che deve subito far partire anche la cavalleria e rartiglieria; nel frattempo da Civitavecchia si telegrafa a Roma:

200 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

Civitavecchia, 14 settembre, ore 6.25.

Sono le 6 aiit. Una squadra di dieci legni è in vista dal lato di ponente : non si conosce la bandiera ma si ritiene sia la italiana che stava ancorata nel porto di S. Stefano. Non si conosce ancora se la truppa che ha invaso Corneto si sia mossa. Popolazione qui molto contenta.

Il delegato apostolico SCAPITTA.

E alquanto dopo Velletri comunica:

Telletri, 14 settembre 1870, ore 7.'25.

Ministro Armi Roma.

Divisione nemica giunta ieri sotto Ferentino rimasta accampata quei piani. Essa marcia con molta lentezza. Colonna Lauri sta sempre sui fianchi mentre mie esplora- zioni sorvegliano alture Ariano.

Mi dia notizie nemici Corese.

AZZANESI.

Così da terra e da mare, da tutti i punti cardinali, la minaccia nemica si presenta forte, numerosa, imponente e stringe. L'appa- rato delle forze è talmente grande, talmente superiore al bisogno che evidentemente dimostra il suo intento : quello di impressionare per indurre a cedere senza resistenza. Gli italiani sono ormai col IV corpo d'esercito a pochi chilometri a nord di Roma: il comando pontifìcio ha dei momenti di grande e giustificata trepidazione.

Faranno a tempo le forze dello Charette, dell'Azzanesi, del Lauri a rientrare in città?

Il momento è difficilissimo. Il telegrafo dirama l'ordine a gran parte delle truppe che sono in Roma di prendere le armi.

14 settembre, ore 8 ant.

Signor generale de Courten,

Dia ordine che le truppe della 1* e 2* zona prendano le armi e si portino ai posti di battaglia senza tirar cannone.

Dica agli avamposti di Ponte Molle e di S, Onofrio di ritirarsi tiragliando colle truppe italiane.

Non si facciano saltare ponti.

D'ordine capo di stato maggiore RlVALTA.

Roma, in previsione di un attacco, era stata divisa in quattro zone militari.

La prima comprendeva tutta la parte della città fra la riva destra del Tevere e le mura: la comandava il colonnello Allet e si suddi- videva in quattro sottocomandi (Castel S. Angelo, Piazza S. Pietro, Piazza S. Maria in Trastevere, S. Pietro in Montorio).

La seconda zona comprendeva la parte centrale della città, dalla riva sinistra del Tevere fino alla linea Porta Pinciana, Via Capo le Case, Angeli Custodi, Lavatore, Archi della Pilotta, Colonna Traiana, S. Marco, Campitelli, Piazza Montanara, Ponte Quattro Capi: la comandava il colonnello Perrot e si suddivideva in due sottocomandi (Piazza Colonna, Piazza Madama).

La terza e la quarta zona, distinte col nome di Monti e Quirinale, di Campidoglio ed Aventino, rispettivamente comandate dai colon-

GLI ULTIMI TELEGRAAIMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 201

nelli Lepri e Jeannerat, comprendevano la rimanente parte della città.

La prima e la seconda zona erano appunto quelle più minac- ciate dal corpo d'armata del generale Cadorna.

Quasi contemporaneamente un telegramma ordina alle truppe che sono al sud di rientrare :

Roma, 14 settembre, ore ".óO.

Colonnello Azzanesi Velletri. Rientri con truppe. Prevenga Lami che rientri.

RlVALTA.

Il tempo che passa non fa che aumentare il pericolo e quindi i timori circa le sorti dei distaccamenti. Il comando pontificio dubita tanto per il loro ripiegamento che il capo di stato maggiore si reca di persona al telegrafo e si mette direttamente in comunicazione colle stazioni di Arsoli, di Tivoli, di Monterotondo, di Civitavecchia, di Velletri. Si svolge quindi un dialogo telegrafico.

Da Arsoli gli si riferisce che alla sera del 13 correva voce esi- stere a Garsoli un nucleo di duemila soldati nemici pronti a scon- finare e ad avanzare per Arsoli, Subiaco e Tivoli, ma che un contror- dine ha sospeso l'invasione.

All'ufficio telegrafico di Tivoli il maggiore Rivalta domanda se le truppe papaline sono partite: gli viene risposto che eransi già messe in cammino fin dalla sera precedente alle ore 18 e che alla mattina, verso le ore 6, erano passati gli uomini componenti il di- staccamento di Subiaco.

Da Monterotondo gli annunciano che la città è per il momento libera.

Il telegrafista di Civitavecchia gli partecipa che la colonna de Charette non è ancora partita; egli allora s'impazientisce : vuole a quella stazione telegrafica il colonnello Serra ed il colonnello de Cha- rette : tardando essi, tempesta di telegrammi incitatori; sopraggiunge il sottotenente Lafon dei zuavi : gli ordine di avvertire immedia- tamente il de Charette che gli italiani sono già giunti alla Giusti- niana, che se fra un'ora la cavalleria e l'artiglieria non sono imbar- cate bisogna lasciarle a Civitavecchia. Arriva finalmente il colon- , nello Serra: fra i due si stabilisce un lungo dialogo telegrafico nel quale le parti piìi importanti sono le seguenti:

Serra Charette pai-te alle 9.45 ; cavalleria un'ora dopo : flotta nemica in faccia al porto: avamposti cavalleria oc<?upano avanti a Corneto e Monte Romano : flotta fanteria si muovono.

Rivalla Provs'eda e che si faccia presto, presto.

Serra Vagoni pronti: treno speciale non potrà partire se prima non giunge treno di Roma che è per istrada.

Rivalta A^'^'erto che pai-te da Roma un treno per materiale vuoto che giungei-à alle 10. Dica poi a de Charette che t«nga gli uomini pronti a smontare in qualunque .punto e fare difesa qualora il convoglio venga attaccato vivamente.

Alla stazione di Velletri, dove trovasi il colonnello Azzanesi, il maggiore Rivalta partecipa la situazione e l'ordine di sollecitare la

14 Voi. CLXVII. Serie V 16 settembre 1913.

202 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

ritirata, comprendendovi quella del distaccamento Lauri, e di in- terrompere la ferrovia.

La ritirata di tutti i distaccamenti si compie molto ordinata- mente. Il telegrafo la narra :

Velletri, 14 settembre 1870, ore 3.25 p.

Maggiore Rivalla, cap. st. maggiore .S". E. pro-ministro. Colonnello Azzaiiesi partito con colonna ore 2.15 pom. Io rimasto con compagnia squadi'iglieri, attendo il prossimo ari'ivo maggiore Lauri con colonna.

Comandante piazza

Labruzzi.

Velletri, 14 settembre, ore 7 pom.

Proministro Armi Roma. Circa le 6 '/4 pom. giunto maggiore Lauri con colonna senza novità. Si è diretto alla Stazione ove il tutto preparasi per la partenza. In Velletri nessuna novità.

Comandante piazza

Labeuzzl

Velletri, 14 settembre 1870, ore 8.6 p.

Proministro Armi Roma.

Questo momento, ore 7.45 pom., partenza maggiore Lauri con sua colonna e quella di Velletri. Capitano Berucci giunto da Terracina riparte con noi. Compagnia seden- tiiri giungerà da Terracina ore 4 ant. Ordinato un convoglio per essa di tre vagoni da passeggeri con carro per cavalli.

Nulla di nuovo : nemico prossimo accamparsi sotto Aiiagni.

Comandante piazza

Labruzzi.

Roma, 14, ore 10 pom.

Comando guarnigione Monterotondo. Rientrino tutti e subito avendo avamposti italiani a Ponte Molle. Anche Bonacci rientri e si arresti a Ponte Nomentano 2;uardando anche Ponte Salario rotto.

RlVAL-TA. Monterotondo ore ....

Maggiore Rivalta Roma Abbandoniamo in questo momento Monterotondo.

E così pure il telegrafo annuncia e segue la partenza della fan- teria e della cavalleria del de Charette da Civitavecchia. Interpolati ai telegrammi esponenti quest'operazione ve ne sono altri che costi- tuiscono un secondo dialogo fra Roma e Civitavecchia, e cioè fra il maggiore Rivalta da un lato e il colonnello Serra e il maggiore d'Al- biousse dei zuavi dall'altra, dialogo concitato, doloroso, che assume l'aspetto di un vero dibattito. Riflette la possibilità di difendere Civi- tavecchia. Il colonnello Serra fa risultare che parte delle sue truppe indigene dimostra poca inclinazione a battersi e parte tende ad unirsi alla popolazione ostile e che può solo fare affidamento sugli zuavi. Il comandante d'Albiousse, in presenza del capitano Gasperini di gendarmeria, dei tenenti Riva e Pierantoni d'artiglieria, inter- viene ed aggrava le tinte, aumenta le accuse, dichiara che i suoi zuavi sono fedeli ma che gli indigeni assolutamente non si batte-

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 203

ranno, che perciò occorre serio immediato provvedimento. Il mag- giore Rivalta risponde piìi volte dicendosi persuaso che tutti faranno il loro dovere, che in ogni modo sarà bene destinare gli indigeni al fronte di mare, meno esposto, poiché la flotta non bombarderà. Il maggiore d'Albiousse si accalora. Un vibrato telegramma del mi- nistro pone fine al dialogo : è elogio alla fedeltà degli indigeni ed un rimprovero alla infondata e pertinace prevenzione del coman- dante straniero.

Boma, 14 settembre 1870, ore 3.15 pom.

Colonnello Serra Civitavecchia. Non posso ammettere che nella nostra armata vi siano dei fellonie dei vili; nel 1860, prima di S. .\ngelo, mi si facevano supporre eguali sospetti sulle truppe indi- gene ed esse si batterono egregiamente. Si spargeva eguali voci in Ancona ed esse pro- testarono con il loro coraggio: nel 1867 si ripeteva lo stesso e Biignorea, Viterbo ed altii punti mostrarono assurde le voci. "Non devo che protestare contro il telegramma di d'Albiousse che aveva tali prevenzioni già nel 1867 per cui fu anche ripreso da Allet dopo la prima a\"\'isaglia di Bugnorea. ^

Kaxzler.

Verso le ore 20 del giorno 14 tutti i distaccamenti sono rientrati in Roma : i mille uomini del de Charette vi pervengono alle ore 14.30 : i settecento dell'Azzanesi alle ore 16 : i millecentocinquanta del Lauri alle ore 19.30. Con l'arrivo di queste truppe i capi pontifici hanno perfettamente assolto il loro compito sfuggendo al pericolo, invero assai grave per talune colonne, di rimanere avviluppati : il funzio- namento del telegrafo li aveva egregiamente aiutati. Oramai, tranne il presidio destinato alla difesa di Civitavecchia, tutto l'esercito pon- tifìcio è concentrato nella città.

Dopo l'arrivo dell'ultimo scaglione, alle ore 22 circa, ribomba, nel silenzio speciale e grande di Roma, la voce cupa del cannone.

Il telegrafo batte immediatamente.

Roma, 14 settembre 1870, ore 10 '/4 pom.

Eccellenza, Dalla sezione di S. Mart i sono stati tirati due colpi di cannone coutro un casino esterno ov'eransi radunati dei nemici i quali sembra siano fuggiti. Notizia datami dal wgnor generale Zappi.

Il comandante la piazza

Lopez.

14 settembre 1870 11.25 du soir.

Le cap. sez. Marcq a reponsé par trois coups de canon forte recounaissance en- nemi qui s'est mentre à proximité de la porte Cavai leggeri.

Colonel

Allet.

Il silenzio, dopo la voce del cannone, si stende più solenne; sulle mura della città i soldati attendono l'attacco.

Vana aspettativa. Gli italiani non solo non attaccano, ma non rispondono nemmeno con un colpo di fucile.

S'alza più gigantesca nella penombra lunare la cupola di San Pietro. Sembra un enorme blocco sferico uscente dall'oscurità ed

204 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

elevantesi al cielo quale piedestallo a Dio aspettato sulla Terra. Gli occhi dei difensori e dei governanti, volgendosi ad essa, si spiega- rono facilmente il ritrarsi del nemico: non aveva osato rispondere. Parve ad essi naturale che la grandezza della Chiesa, la potenza della religione, che in quella cupola trovava la sua maestosa espres- sione, facessero sentire, come sempre, il loro incommensurabile fa- scino. Narra un intelligente ufficiale pontificio tuttora vivente : « Vi- gilanti alle mura, sapevamo che stavano a noi di fronte i soldati di Castelfidardo e di Ancona, ma non ci meravigliammo che non ri- spondessero al nostro fuoco. Trovavamo ciò naturale. Attribuivamo all'avversario il nostro modo di sentire. Come mai si sarebbe potuto osare far fuoco sopra la sede del Vicario di Dio? Riferendoci al pas- sato sapevamo che quelli stessi nostri nemici, nel 1860, si erano arre- stati a Terni e a Viterbo, che erano girati poi al largo per recarsi 8 Napoli, che fra essi vi era un solo uomo, così miscredente, da poter tentare un attacco, Bixio, ma Bixio lo si sapeva lontano, a Civi- tavecchia.

« Più bella, pili maestosa, più trionfante ci apparve in quella notte la cupola michelangelesca. Vi fu taluno che la chiamò in quel- l'ora, lo scudo di Dio. La frase, che rispecchiava la nostra anima, passò lungo la cinta, per le scolte, fra i soldati in attesa, come una parola d'ordine, in un sommesso, impercettibile susurrio: lo scudo di Dio! ».

Il 15 settembre segna l'ultima giornata dei telegrammi apparte-

nenti al primo gruppo : sono telegrammi tutti che preludiano la

resa di Civitavecchia ed il serrare da sud della divisione Angioletti.

Civitavecchia, 15 settembre 1870, ore 6.40 ant.

, S. E. ministro armi Roma. Cadrà probabilmente la città ma sarà salvato l'onore dell'intera armata Pontifìcia.

Il nìagg^iore

D'Albiousse.

Civitavecchia, 15 settembre 1870, ore 8.35 ant.

A S. E. signor generale Pro-ministro Kanzler Roma. Nemico fa riconoscenze sotto muri. Ogni truppa sta al suo posto. Tatti faranno il loro dovere.

Comandante piazza

Serra.

Sono questi gli ultimi due telegrammi dell'autorità pontificia che partono da Civitavecchia. Brevi, decisi.

A Frascati e ad Albano erano fedelmente rimasti al loro posto, benché tutta la truppa ed i gendarmi fossero partiti, i due impiegati pontifici, i quali, fino all'ultimo, adempiono al loro mandato telegra- fando al direttore Miogazzini.

Frascati, 15 settembre 1870.

Illustrissimo signor direttore Roma. Non si sa nulla di positivo: solamente si sa che ieri la colonna Angioletti era accampata a Valmontone.

Ossequi. Cavalletti.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 206

Frascati, 16 settembre 1870, ore 3.15 pom.

Illustrissiìiio signor direttore, Truppe italiane sono a Colonna, cinque miglia lungi da Frascati. In caso si di- rigessero qui debbo lasciare dispacci od altro o qual uso farne? Prego istruzioni. Ossequi.

Cavalletti.

Albano (illegibile).

Il/i(strissimo signor direttore. Questa mane alle ore 8 entrati a Velletri accolti con esaltazione; pe^ò sempre voci nessuna certezza. Molti vogliono che non oltrepassassero Velletri e che qui ver- i-anno quelli che hanno sconfinato da Corese.

(Illeggibile).

Dunque si ritiene, anche dalla popolazione esterna, che il grosso dell'esercito italiano, proveniente dal nord, da Passo Ck>rese, non at- taccherà Roma, ma, descrivendo un ampio giro attorno alla città, si porterà a sud, ad Albano, nella zona dei Monti Laziali. Si ritiene cioè dal popolo quello che è creduto dal Governo, dall'Esercito e che le cannonate della notte hanno affermato: V armata italiana s'impa- dronirà di tutto il territorio di S. Pietro, ma rispetterà Rom/i.

*

A cominciare dal giorno 16, fatta eccezione di un breve dialogo colla stazione di Palo, tutti i telegrammi palpitano nell'interno della città. Appartengono cioè al secondo gruppo.

Fra le varie disposizioni che il generale Kanzler aveva date per sistemare difensivamente la città, notevoli erano quelle riflettenti il servizio telegrafico. Aveva ordinato l'impianto di una rete che colle- gasse alcuni osservatori, posti in luoghi dominanti, col ministero delle ai^ni situato nel palazzo in via della Piletta, ora sede del co- mando del IX corpo d'armata; gli osservatori, formati generalmente da un ufficiale e da due telegrafisti, dovevano prendere il nome dal sito del loro collocamento e cioè di :

osservatorio del Vaticano o della cupola di S. Pietro;

osservatorio del Popolo (Pincio);

osservatorio di Santa Maria Maggiore;

osservatorio di S. Giovanni Laterano;

osservatorio di Porta Portese. . In tal modo tutte le notizie potevano affluire rapidamente dalla periferia al centro, dagli occhi al cervello.

Il primo posto d'osservazione ad essere munito di telegrafo fu quello del Vaticano; lo ebbe il giorno 15; gli altri ne furono provvisti il giorno 17. Il motivo di questa preferenza stava in due ragioni : la prima si era che il IV corpo d'esercito trovavasi sulla destra del Tevere, vicinissimo e nella dirittura di Monte Mario : la seconda con- sisteva nel bisogno che si aveva di osservare le mosse della divi- sione Bixio come quella che più reputavasi temibile.

L'importanza che si dava ai movimenti di questa colonna si deduce anche dalle qualità più spiccate richieste in apposito ordine agli ufficiali addetti all'osservatorio che la doveva vigilare. Diceva l'ordine, direi lo al colonnello Azzanesi :

206 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

D'ordine di S. E. è stato disposto che alla cupola S. Pietro venga apposta una stazione telegrafica. Questa stazione, essendo dipendente dalla sua zona, d'ordine del Ministro, vorrà prestarvi a sussidio i signori impiegati telegrafici per ciò che avranno di bisogno, disponendo pure ogni giorno vi sia un ufficiale intelligente, fermo e calmo, che l'esti di servizio al detto osservatorio, il quale ufficiale dovrà essere cambiato ogni sei ore.

I dispacci saranno trasmessi col filo alla stazione centrale di Roma che pensa alla diramazione; ma Ella, come comandante di zona, potrà averne copia dal suo ufficiale osservatore- a cui darà perciò dei piantoni.

Ri YALTA.

Gli ufficiali prescelti furono il tenente Lambertini ed il tenente Cesare Garletti.

Fin dalla mattina del IG il tenente Garletti, attivo ed intelli- gente, affrettavasi a dare comunicazione telegrafica di quanto scor- geva :

Comando Piazza.

Cupola vaticana, ore 6.25 ant.

Tutti trovansi nella medesima posizione d'ieri sera, cioè alle Sughere, Capannelle e Monti di Grotta Rossa con tende formate. Dalla parte della Colonna e Castelli ro- mani non vi è alcuno. Monte Mario, Farnesina e Monti Parioli liberi. È necessario un migliore cannocchiale per poter distinguere l'artiglieria dalla cavalleria.

Il tenente incaricato

Garletti.

E poco dopo, quasi contemporaneamente ad un rapporto firmato Castella, il tenente Garletti telegrafava :

Ore 9, 10 settembre.

II nemico costruisce ponte di i-impetto a Castel Criubileo: tutta l'artiglieria che era a Prima Porta vi si addensa: reparti di fanteria già sulla riva sinistra^: tutte le mosse fanno credere ad un passaggio e a concentra si sulla riva sinistra: piano d'at- tacco è assalire tra porta Salara e porta S. Giovanni oppure girano al largo.

Garletti.

L'informazione era esatta: nel mattino del 16, ni", la 12* e la 13" divisione, per le vie Cassia e Flaminia, raggiungevano il casale di Grotta Rossa accingendosi a passare l'indomani sul ponte di barche che in quel mentre appunto si costruiva all'altezza di Castel Giubileo.

Davanti a tale spostamento delle truppe italiane nel comando pontifìcio dovevano sorgere naturali le domande : perchè quel pas- sare e ripassare il Tevere, quel marciare lento, quell'allungare al massimo il cammino, quel girare attorno a Roma dopo averla tanto avvicinata, quel mettersi in condizioni di dover superare un secondo ostacolo fluviale, l'Aniene?

La supposizione del tenente Garletti, « girano al largo » coinci- deva con quella delle molte voci del telegramma di Albano affer- manti che le truppe italiane miravano ai monti Laziali e convalidava la preesistente prevenzione delle autorità pontifìcie che gli italiani cioè si sarebbero limitati a dimostrare, ad impressionare con spiega- mento di numerose forze. Ad avvalorare la previsione contribuiva

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 207

l'assenza della divisione comandata da Bixio, confermata dal tele- gramma mattutino del tenente Cadetti colla frase « M, Mario, Far- nesina... liberi». Però questa espressione era alquanto ambigua: non significava esplicitamente che dalla parte di Civitavecchia il nemico non avanzasse e perciò il maggiore Rivalla, verso le ore 9, si reca alla stazione centrale telegrafica e si mette personalmente in co- municazione coirufficio di Palo, situato a metà distanza fra Roma e Civitavecchia (35 km.); ne riceve la notizia che nella mattinata si era inteso verso il mare una ventina di colpi di cannone.

Su questa informazione, così incerta, il governo Papale, ansioso di mutare la previsione in convinzione, non poteva adagiarsi; assolu- tamente la posizione di Bixio, segnando l'indice dell'azione, doveva venire precisata. Non funzionando più il telegrafo ricorse alla fer- rovia : allestì appositamente una locomotiva; il tenente Bruti vi montò e si recò a Palo; alle ore 14.30 ritornò in Roma portando la notizia che tutta la strada risultava sgombra e che il cannoneggia- mento era durato dalle 8 alle 9.15; dunque Bixio era ancora a Civi- tavecchia.

Fedele al suo mandato alla sera dello stesso giorno l'osservatorio Vaticano telegrafava :

Vaticano, 6.6 pom.

Ministro arièti Rouia. Null'altro di nuovo: tutto trovasi nella medesima posizione di questa mattina. Ci rjtiinamo perchè non si scorjie più nulla e ritorneremo domattina alle 4 Mi

Carletti.

Alla mattina del 17 anche i rimanenti posti d'osservazione ven- gono muniti di stazione telegrafica.

Il telegrafo batte incessantemente : tutti i posti segnalano il pas- sare del corpo d'esercito del generale Cadorna sulla sinistra del Te- vere e il suo allargarsi verso ponte Nomentano, sull'Aniene. Fin dai primi chiarori il tenente Carletti si affretta a telegrafare che nulla di nuovo presentasi verso occidente. La notizia negativa costituiva una importante e desideratissima comunicazione, ma non fu sufficiente per il comando pontificio. Dubitando che la colonna Bixio, per la caligine mattutina e per la copertura del terreno, potesse sfuggire alla vigilanza dell'osservatorio, ordina una ricognizione. Data la vici- nanza delle truppe del IV^ corpo la ricognizione rappresentava un rischio ma si preferiva incorrere in un pericolo anziché rimanere incerti e dubbiosi. Il risultato di essa appare nel seguente avviso, a firma del colonnello Azzanesi che era per l'appunto il comandante della zona che guardava le provenienze occidentali, sulle quali la Farnesina permetteva un discreto campo di vista.

zona mlitare.

Rapporto al Comando la guarnigione. La riconoscenza mista (fanteria e cavalleria) sortita questa mane alle ore 5 1/2 ant. si è spinta tino sull'altipiano del monte della Farnesina e nulla ha scorto che potesse iidicare offensiva per parte del nemico nella direzione che occupano le truppe della sud- detta zona.

U comand. la zona

Azzanesi.

208 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

Alle ore 10.30 ed alle ore 17.20 il tenente Garletti telegrafa che ormai «gran parte dell'armata nemica è accampata sulla sinistra della ferrovia andando verso Monterotondo nelle vicinanze della Ser- pentara e nulla di nuovo per le provenienze di Civitavecchia perchè sgombre ».

Al calare delle tenebre invia il seguente telegramma che è l'espo- nente di tutti quelli formulati dagli altri posti :

17 settembre 70, ore 6.20 pom.

Presso Mangano trovansi circa tre compagnie bersaglieri avamposti ; gii altri ac- campamenti nella medesima posizione. Niill' altro di nuovo. Ci ritiriamo perchè non si può vedere più nulla.

Garletti.

Fra gli altri telegrammi del giorno 17 sono notevoli quelli riflet- tenti la distruzione della rete esterna : il filo cittadino porta il de- creto di morte per il suo confratello della campagna :

]7/9 70.

Allo stato maggiore. S. E. il ministro del commercio E™° Card. Berardi ha dato oggi stesso l'ordine percliè i fili telegrafici di Albano, Frascati, Arsoli e Subiaco siano sultito troncati, assicurando che per gli altri era già stato eseguito.

Occorre far verificare l'esecuzione. '

Ungahelli.

Roma 17, ore 2.B0 pom.

Al Comando generale guarnigione. Vori'à assicurare l' esecuzione dei concerti presi fra S. E. il cardinale Berardi ed il ministro delle armi per l' interruzione immediata dei telegrafi, l capi posto alle porte ove passano i fili riceveranno da lei istruzioni in proposito. Sarà oggetto di speciale attenzione il filo telegrafico della stazione. Il capo posto alla barriera della ferrovia ai Tre Archi è inca-» ricato della immediata rottura del filo.

D'ordine RlVALTA.

Nella giornata del 18 tutti i posti d'osservazione telegrafano con- tinuamente; la sintesi dei molteplici telegrammi è sempre quella: il IV corpo d'esercito e la divisione Angioletti, sulla sinistra del Te- vere, in arco serrato, stringono da porta Salaria a porta S. Giovanni; accampano, mangiano, collocano avamposti, vedette, ma non pren- dono alcuna misura per attaccare : aspettano. Dice bene il capitano Castella in un suo dispaccio : « ils ont forme les faisceaux et n'ont pas l'aire de trop se garder. Ils ont l'aire fadigueux»; sulla destra del Tevere e dalla parte di Civitavecchia nulla, assolutamente nulla.

La notizia dell'assenza del nemico sul fronte occidentale della città era stata data fin dal mattino dal capitano Ubaldini.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI I*L GOVERNO PONTIFICIO 209

Posto telegrafico di porta Portese, 18 settembre 1870, ore 6 30 ant.

S. E. Proministro delle aróii Roma. Nulla di nuovo al di di Monteverde (1) : posso far entrare la urente coi viveri? Vi molta gente che attende per entrare e sortire.

Ubaldini.

Ed era stata confermata dal posto d'osservazione del Vaticano

S Pietro ore 8.5 ant.

Il campo e gli avamposti segnalati ieri sera sono al medesimo posto. È giunto al campo un altro convoglio di ferrovia di tutti vagoni da merci. Dalla paite delle pianure vi si scorge un nuovo campo di non piccola estensione.

Tutto ciò che può vedei-si nei dintorni di Monte Mario, Villa Panfili e Farnesina non vi % alcuno. È necessario una carta del circondario della città. La nebbia ancora impedisce di vedere dalla parte della Colonna e Frascati. Dalla parte di Civitavecchia fin dove giunge la portata del cannocchiale non vi è alcuno.

Cahletti.

Ma a maggiore sicurezza ed in analogia a quanto erasi praticato il giorno prima vennero spinte diverse ricognizioni nelle direzioni dalle quali potevasi scorgere lavanzata di Bixio. Esse salirono su Monte Mario, sulla Farnesina; scrutarono fra le verdi ondulazioni, nel piano che sfumava verso il mare e si sperdeva nella nebulosità mattutina propria alla campagna romana. « Nulla ». Fin dove arri- vava l'occhio, fin dove il cannocchiale giungeva, non vi era alcuno; Bixio rimaneva lontano.

Dal comando del 1* centro ore 9 1/2

Nessuna novità dalle riconoscenze sortite questa mattina che si sono spinte sulle al- ture di Monte Mario e della Farnesina. Si previene che l' artiglieria che ì- piazzata nella cinta di questa zona non ha che 40 tiri senza riserva, come ancora vi sono dei pezzi d'ar- tiglieria che non hanno artiglieri per governarli.

AzzA>rEsr.

Gli osservatori, il giorno 18, terminano il loro ufficio col se- guente telegramma che rispecchia fedelmente la situazione :

18 settembre 1870 Vaticano, ore 6.20 pom.

Colonna proveniente d'All)auo accampata Roma Vecchia con avamposti Tavolato.

Colonna di Tivoli ai prati della Ranocchia, l' altro corpo che trovavasi nelle vici- nanze di Roma da vari giorni è diramato per la via Xomentana, S. Lorenzo e Salaria cogli avamposti molto vicini a Roma.

Tutto il materiale che era rimasto al campo di Grotta Rossa in questo momento prende la via Salaria. Attendamenti pochissimi su tutta la linea, parte di Civitavecchia non si vede nulla.

Carletti.

(1) Monte Verde si chiama una piccola zona di dossi, sulla destra del Te- vere, a 3 chilòmetri a sud di Roma, fra il fiume e la via Portuense.

210 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

Il giorno 19 non differenzia dal giorno 18; nel mentre tutti i te- legrammi dei posti di S. Maria Maggiore, di S. Giovanni, del Po- polo, avvisano dei continui piccoli spostamenti delle truppe nemiche sulla sinistra del Tevere, il capitano Ubaldini ed il tenente Carletti partecipano che nulla di nuovo scorgesi sulla destra.

Così, mediante l'intelligente servizio degli ufficiali, l'attivo fun- zionare del telegrafo, anche nel giorno 19, la situazione generale ap- pare chiaramente al governo pontifìcio: il IV corpo d'esercito, come nei giorni precedenti, rimane sotto Roma inattivo, perplesso; la co- lonna Bixio resta lontana. Una frase contenuta in un telegramma spedito alle ore 10.15 dall'Osservatorio di S. Maria Maggiore dal ca- pitano De Buttet e due telegrammi successivi del tenente Carletti la riassumono. Diceva la frase « il nemico accampa tranquillamente ». Dicevano i telegrammi :

19 settembre 1870 Vaticano, ore 6.44 ant.

Maggiore Rivalla Conservano tutti i posti di ieri sera. Da S. Paolo fino a Ponte Mblle di fronte a Civi- tavecchia non si vede alcuno.

Carletti.

19 settembre 1870 Vaticano, ore 9.45 ant.

Il nemico trovasi sulla via Nomentana, è ancora accampato. Quello nella direzione del

Macao e S. Lorenzo eseguisce dei movimenti in avanti. Il campo formato ieri sera dalla

colonna che venne da Albano ha di molto aumentato, sono senza tende, ma parte di questa

truppa marcia in avanti verso il Tavolato. Il fronie dalla parte di S. Paolo a Ponte Molle

è liberissimo, non si vede alcuno.

Carletti.

A dare quasi la certezza che le truppe italiane non avrebbero agito, sopraggiungeva un nuovo fatto che, nelle sue modestissime proporzioni, sembrò significantissimo. Verso le ore dodici, l'arti- glieria pontifìcia, posta a porta S. Sebastiano, visti dei gruppi di sol- dati italiani che pareva volessero accostarsi alle mura, tirò due colpi contro di essi; ebbene si tornò a ripetere il fatto avvenuto il 14 set- tembre; con tutte le loro molteplici batterie gli italiani non risposero.

Il telegrafo pontificio segnò con gioia l'avvenimento :

S. Maria Maggiore, ore 12.10 pom.

Da porta S. Sebastiano sonosi sparati due colpi di cannone al quale non è stato ri- sposto. Non ci si arriva a vedere movimenti di artiglieria, ma la fanteria sembrava venire avanti meno che a Ponte Nomentano dove non si vede alcun movimento.

De Buttet.

Il XX Settembre.

I telegrafisti ben poco lavorarono durante la notte dal 19 al 20 settembre. Malgrado che l'esercito italiano stringesse la città in un cerchio di ferro formato ben venti reggimenti di fanteria, dicias- sette battaglioni di bersaglieri, ventisei squadroni di cavalleria, di- ciannove batterie, tre compagnie del genio, il silenzio regnò sempre

GLI- ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 211

per tutta la notte su quell'ampio e fitto arco di armati e le notizie che dai posti avanzati e dalle scolte pontificie collocate lungo le mura, venivano trasmesse agli osservatori e dagli ossei*vatorì per telegrafo al palazzo della Pilotta, erano sempre eguali, ripetevano quasi le identiche parole: «Nessuna novità: calma: fuochi accesi».

L'informazione si rinnovava di tanto in tanto, ritmicamente. Fra i soldati pontifici era corsa la voc-e che gritaliani avrebbero attaccato nella giornata del 20 e molti di essi opinavano che l'azione sarebbesi svolta nella notte o nelle prime ore del giorno, avanti che facesse luce; attendevano dunque vigili, fra le tenebre, spiando la distesa oscura nella quale gli spessi tuochi dei bivacchi nemici apparivano come una duplice circonferenza punteggiata di fiamme, di luccicori e di riverberi allungantisi pallidi, in forme strane, volubili. Ma la loro attesa fu vana. Monotona fu perciò la parola telegrafica della notte.

Non così quella del mattino.

Verso le ore 4 del 20 settembre tutti i dispacci gettano il grido d'allarme: «i fuochi si spengono; i fuochi muoiono, i fuochi sono estinti ».

L'allarme si diffonde in tutto il piccolo esercito pontificio. Per tutta la lunga cinta, gli sparpagliati soldati tendono l'occhio e lo spi- rito nella foschia mattutina. Ai Tre Archi, al Castro Pretorio, a Ter- mini, alle Sette Sale, al Campidoglio, in Piazza Colonna, si svegliano i carabinieri esteri del Jeannerat. S'alzano, dalle mura del Pincio a quelle del Macao, alle caserme di S. Maria Maggiore, del Gesù e Maria, di S. Marcello, del Popolo, i duemila gendarmi dell'Evange- listi. Si preparano a Serristori, alle Zoccolette; a Sant'Onofrio, i fan- taccini dell'Azzanesi. A Santa Galla, all'Ara Goeli, all'Aventino, a Cimarra, a S. Silvestro del Quirinale, gli antiboini del colonnello Perrault prendono le armi. I cacciatori dello Sparagana si adunano alle Carceri Nuove, ai Tabacchi, a porta S. Pancrazio, a S. Michele, a S. Calisto ed il loro capitano Ubaldini, dall'alto del telegrafo di porta Portese, scruta i colli di Villa Pamphyli, di S. Carlo e della strada Portuense. I soldati del genio del colonnello Lana, sparsi alle porte, gli artiglieri del Calmi, stesi in parte sulle mura, gli zuavi dell'AUet, disseminati a porta Salara, a porta Pia, al palazzo We- dekind, alla caserma Sora, al Vaticano, i gendarmi a cavallo riuniti alla Zecca, i sedentari del conte Genuini diffusi alla Traspontina, ai Santi Apostoli, a S. Martino ai Monti, i dragoni del Lepri, formano i ranghi. Il generale in capo, Kanzler, i due generali di brigata, De Gourten e Zappi, i cappellani di monsignor Tizzani ed i quaranta- quattro medici del dottor Costantini, s'apprestano. S'aprono le porte del palazzo Wedekind, già circolo militare degli ufficiali pontifici, per dar passaggio ai membri del Comitato di difesa.

Diecimilacinquecentoundici uomini di truppa, quattrocentosei ufficiali, all'allarmi sono in piedi : chi alle mura, chi pronto ad ac- corrervi; centocinquattotto fra cannoni rigati e lisci, di grosso e pic- colo calibro, fra obici da 15 e da montagna, scoprono loro bocche.

E ben presto il telegrafo batte ansiosamente.

Alle ore 5.15, dall'osservatorio di Santa Maria Maggiore, parte un telegramma, a firma del capit<ino De Buttet, annunciante che una batteria nemica ha aperto il fuoco contro porta Maggiore, contro i Tre Archi e che una seconda batteria tempesta verso Santa Croce.

212 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

Sono le batterie della 13^ divisione : e non sono due, bensì tre : la 4"^, la 5*, la 6* del reggimento.

Alle ore 5.25 il tuono del cannone italiano si estende: il tiro è diretto contro porta S. Giovanni, contro i Tre Archi, il Macao, porta Pia, porta Salara.

Alle ore 5.40 il telegrafo posto a Santa Maria Maggiore avverte che i tre punti attaccati dagli italiani sono porta Pia, i Tre Archi e porta S. Giovanni. L'attacco è costituito dai fanti della 12" e IS* divisione.

Alle ore 5.45 il telegrafo della cupola Vaticana partecipa che nei pressi di Villa Pamphyli il nemico va addensandosi; ed in vero tutta la 2* divisione vi si ammassa.

Alle 5.55 il telegrafo di Santa Maria Maggiore riferisce che si pronunzia un attacco alla porta S. Sebastiano. Sono i tre battaglioni della brigata Pavia che, appoggiati da 4 pezzi e condotti dal briga- diere Migliara, avanzano dalla parte di porta Latina.

Alla stessa ora, 5.55, un telegranima dell'osservatorio Vaticano notizia che il fuoco va intensificandosi da porta Salara a porta Pia e che il nemico, dalla parte di S. Pancrazio, eseguisce dei movi- menti al coperto delle colline, schierandosi sulla linea Villa Pam- phyli, Villa Carpegna. Quel nemico è rappresentato dalla 2^ divisione che, finito l'ammassamento, si schiera.

Alle ore 6.35, lo stesso osservatorio partecipa che il fuoco ponti- fìcio è incominciato : che sulle mura tra Villa Pamphyli e porta San Pancrazio il tiro di fucileria va estendendosi e che la batteria dei Giardini dirige tiri aggiustati sull'avversario.

Alle 6.45 il telegrafo di Santa Maria Maggiore riferisce che il nemico ha iniziato il fuoco anche contro porta S. Pancrazio.

Così i telegrammi, succedendosi come tanti squilli d'un avvisa- tore d'incendi, hanno avvertito che Roma è ormai avviluppata da tre parti, ad ovest, a sud, ad est, dal fumo e dalle fiamme dell'attacco.

Non manca che la parte nord. Ma tosto arriva dal palazzo della via Pilotta un annunzio telegrafico dall'osservatorio del Popolo, a firma del capitano du Bourg, che narra come i bersaglieri italiani, da Villa Borghese, avanzano minacciando porta del Popolo e che contro di essi il capitano Kersabieck ha diretto il suo fuoco. Sono i bersa- glieri del 21° e del 34° battaglione che precedono la undicesima di- visione.

Il cerchio di ferro sembra completo e serra, serra inesorabil- mente, violentemente.

Il telegrafo batte, accelera, intensifica.

Ma il cerchio della violenza non è completo; alle ore 7.35 l'osser- vatorio' Vaticano telegrafa che il nemico di Villa Pamphyli accenna a porta Portese, che dalla parte della Lungara, verso Villa Corsini e Barberini vi sono tre forti incendi di case, ma che libero è il tratto Porta del Popolo, Farnesina, Monte Mario. Là, sullo spazio che fron- teggia S. Pietro ed il Vaticano, l'attaccante, per un sentimento di deferenza a S^ia Santità ed all'arte, non ha un soldato; il telegramma adopera la parola : « libero ».

Il telegrafo ha terminato il suo primo compito: quello di an- nunciare l'inizio e l'inquadramento dell'attacco.

Ora passa a narrare le fasi della difesa.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 213

Alle 7.37 il generale Zappi, comandante la 2* brigata, avverte che Porta S. Giovanni brucia, causa i materassi ammonticchiati a rinforzo: che vi sono parecchi feriti, che lo spirito dei combattenti è eccellente. Contemporaneamente il capitano dei cacciatori, Ubaldini, telegrafa, da Porta Portese, che nulla di nuovo vi è alla porta stessa mentre invece Porta S. Pancrazio è attaccata.

Alle ore 8.13 il generale Zappi, dall'osservatorio di Santa Maria Maggiore, telegrafa :

« Porta Pia è perduta: la nosti-a art'glieria è ritirata; cioè uu pezzo è smontato, l'altro è andato a Monte Cavallo perchè difenda la strada di Porta Pia ove nemico ha im- postato artiglieria: nulla di nuovo all'ala dritta ».

Ma porta Pia non è ancora perduta : sorregge strenuamente. Alle ore 8.20, dallo stesso osservatorio, si chiedono forti rinforzi da inviarsi al colonnello Jeannerat che al Macao comincia a ritirarsi. È inviata una compagnia di zuavi.

Alle ore 8.45 il colonnello Azzanesi invia un dispaccio nel quale si dic« che l'attacco di porta S. Pancrazio è serio e mira ad abbattere la porta e ad invadere i caseggiati di Trastevere : che via Giulia, il panificio e una mola del monastero Monachelle e Trinità dei Pelle- grini bruciano: che un pezzo posto vicino a S. Pancrazio è stato smontato ma è stato anche rimpiazzato e che la fanteria compie il suo dovere.

Alle 9.15, da Santa Maria Maggiore, si telegrafa che verso porta S. Giovanni l'artiglieria nemica cambia posizione e si dirige verso la via d'Albano.

S'approssima ora per il telegrafo pontifìcio l'ora triste : batte a singhiozzi : annuncia brevemente gli ultimi aneliti dell'agonia della difesa che sono anche i suoi.

Alle 9.15, poco dopo che una staffetta ha portato al palazzo della via Pilotta l'avviso che fra porta Pia e porta Salara la breccia è quasi compiuta, giunge un telegramma dall'osservatorio di Santa Maria Maggiore, firmato dal tenente Boccanera, annunziante che la truppa abbandona i Tre Archi e si ritira : che un pezzo è smontato e si sta lottando per salvarne un altro.

Alle 9.20 vi arriva un altro telegramma dello stesso ufficiale che avverte che il capitano Fiorelli si è ritirato con tre sezioni d'arti- glieria e che due cannoni sono stati abbandonati.

Alle 9.20, l'infaticabile telegrafo di Santa Maria Maggiore par- tecipa, da parte del capitano De Buttet, che a S. Pancrazio odesi vivo cannoneggiamento, che a S. Sebastiano l'attacco non sembra serio, che a Porta S. Giovanni continua vivo il fuoco nella medesima posi- zione, che ai Tre Archi il tiro è rallentato, che una nuova batteria da Sant'Agnese flagella il Macao, che il tiro avversario a Porta Pia, prima alto, è stato rettificato.

Questo è l'ultimo telegramma esponente una situazione tattica..

Vengono ora i telegrammi della resa.

Dal palazzo Wedekind s'irradiano staffette, dal palazzo di via della Pilotta telegrammi coi quali si ordine a tutti i posti d'innal- zare bandiera bianca.

L'ultimo telegramma è quello che parte dal Vaticano alle ore 9.50. È del capitano De Kersabieck, dice:

« Secondo l'ordine ricevuto si è innalzato sulla cupola di S. Pietro la bandiera bianca » .

214 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

L'estrema voce telegrafica dello Stato Pontificio si spegne così. Annunzia che sul massimo tempio della Cristianità, pieno di ric- chezze e di arte, simbolo di padronanza divina e terrestre, sventola la resa.

# *

Ma se il telegramma del capitano De Kersabieck è l'ultimo, cro- nologicamente parlando, l'ultimo per la sua materialità, non è però tale rispetto alla importanza storica dei fatti, nei rapporti del vero momento spirituale ed intelligente della caduta del potere temporale.

Tutti i telegrammi dei giorni precedenti, tutti i telegrammi della notte e del combattimento non formano che una sopravvivenza for- male del governo pontificio. Questo si confessava, si dichiarava esplicitamente già caduto al tramonto del 19 : quelle voci telegrafiche s'agitano sopra un cadavere: sono le note dolenti che accompagnano un morto; una espressione d'angoscia per una perdita già compiuta; cerimoniale che s'accompagna al cannone per colorire il rimpianto, per tributare onore, per mandare ai posteri, partecipare all'avvenire il grido del proprio dolore non rassegnato.

Il combattimento non era che una formalità. Se durò cinque ore fu contrariamente ad ogni ordine. Formalità furono dunque, per rispetto alla caduta delia potenza terrestre della Chiesa, anche i tele- grammi che ad esso si riferiscono.

L'ultimo telegramma del potere temporale, concettualmente con- siderato, è quello delle ore 18 del 19 settembre a firma Carletti : è quello che persuade Sua Santità, che persuade il mondo Vaticano, incredulo, assolutamente incredulo, che si oserà attaccare Roma, che si adopererà la violenza : è quello che decide il Sommo Pontefice a rinunciare ad ogni difesa, ad ogni spargimento di sangue ed a man- dare al suo generale in capo, Kanzler, ed al suo esercito l'ultimo saluto e a metteire tutta la propria causa, la propria difesa, nelle sole mani di Dio.

I telegrammi successivi non sono che gridi militari, voci di at- tesa notturna, gridi di generali, di capitani, di tenenti che compiono semplicemente il loro dovere, che in quel momento consiste nel sa- lutare, da bravi soldati, combattendo, la loro bandiera, che si ab- bassa, che s'infrange. Non ha nulla di politico, nulla che si colleghi col governo pontificale; sono strettamente, assolutaniente, esclusiva- mente tattici : si potrebbero applicare a qualsiasi difesa di Roma e, cambiando nomi di località, a qualsiasi combattimento, a qualsiasi attacco e difesa di una piazza, di una città.

Quando alle ore 10.5, il tenente Arrigo ed il caporale Giordano del primo plotone della prima compagnia del 39° fanteria, entrando primi in Roma, scorsero sulla punta della baionetta del caporale pontificio Monginoux il fazzoletto bianco e segnalarono il primo istante di Roma capitale del regno d'Italia, il fatto era talmente pre- visto dal cardinale Antonelli e da Sua Santità, che nessun tele- gramma li rende partecipi che le truppe italiane sono penetrate. Non vi era urgenza: bastava una staffetta a portare un annuncio che ormai non aveva importanza: esso era, se non negli avvenimenti miatclriail, substanzialmente già avvenuto.

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 915

Mentre si combatte Sua Santità celebra infatti tranquillamente la messa nella sua cappella privata, riceve e congeda i diplomatici : e quando constata che il cannoneggiamento dura più di quanto egli voleva, perchè potesse, senza conseguenze di sangue, significare pro- testa, si meraviglia, si cruccia e, secondo il De Cesare, lascia libero sfogo a qualche scatto di collera e manda a ordinare, direttamente, al colonnello più vicino, l'Azzanesi, che si alzi la bandiera bianca sull'alto della cupola di S. Pietro. Ed alle ore 10.30 ha l'animo così tranquillo e riposato, l'umore consueto, normale, come di chi sia da tempo uscito dai dubbi, dalle incertezze e che abbia, come si suol dire, dormito una notte sugli avvenimenti, che si mette allo scrittoio ad attendere al suo preferito divertimento e compila una sciarada, la cui soluzione poteva trovarsi, in quel momento, nello spirito tre- mante di monsignor Randi, a palazzo Montecitorio che era allora sede del governatore di Roma, della polizia e delle carceo politiche :

Il tre non oltrepassa il mio primiero; È Valtro molto vasto e molto infido Che spesso spesso fa provar l'in ;o (1).

Sua Santità Pio IX, la sua corte, il suo governo, fino alla sera del 19, ritenevano che non si sarebbe usato violenza contro Roma, contro la città sede del Sommo Pontefice.

Questa grande fiducia non era mai mancata.

Quando, il 4 agosto, si iniziò da Roma il ritiro delle truppe fran- cesi, comandate dal generale Dumont, nessuno temette; il mondo sembrava pieno del gran successo, del gran battesimo di Sàarbrù- chen favorevole ai francesi, avvenuto il 2 agosto, che era stato in realtà un piccolo combattimento di scarsissimo valore tattico, ma che figurava di ampie proporzioni perchè ingrandito, a scopo politico, dalla magniloquenza ufficiale dell'impero. Le battaglie di Wòrth e di Spicheren, non apparvero nella vera loro luce, di sconfitte com- plete. La battaglia del 14, a Borny, figurò grande vittoria francese e parve ristabilire pienamente le sorti imperiali. E malgrado le bat- taglie del 16, di Vionville-Mars-le-Tours, e del 18 agosto, di Gravel- lotte-Saint-Privat, la corte pontificia ancora non si aspettava il tra- collo del potente impero francese e il conseguente abbandono della propria protezione. Temette invece una invasione di bande rivoluzio- narie, e il cardinale Antonelli prese coll'autorità militare tutte le di- sposizioni necessarie per difendersi; il fantasma di Garibaldi co- minciò a ricomparire nuovamente sull'orizzonte pontificio, ma senza però destare soverchie preoccupazioni, giacché durava vivissimo il ricordo dei successi di Villa Glori e di Mentana.

Ed anche quando, il settembre, avvenne la catastrofe di Sedan, l'impressione fu grande ma non tale da indurre ancora nella persuasione che la caduta e la prigionia dell'Imperatore significasse il termine del potere temporale. Più di ogni cosa destò impressione il fatto che una nazione cattolica fosse caduta sotto le armi di una nazione protestante; si vide l'ombra di Lutero, non quella di Cham- pionnet. Dice il De Cesare che « l'impressione non fu di compianto nel mondo clericale : che anzi i sentimenti di letizia erano volgar-

(1) Soluzione: Tre-mare.

21^ GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

mente manifestati e fu diffusa la freddura che la Francia aveva per- duto ses dents, attribuita a Pio IX ».

Non vi può essere letizia e motto di spirito laddove si concepisce che la propria agonia è imminente.

Per tali ragioni, è facile spiegarsi il motivo pel quale il conte Ponza di S. Martino, presentandosi l'S settembre a Pio IX, latore della ben nota lettera di Vittorio Emanuele, trovasse l'animo di Sua Santità e del Governo pieno d'amarezza, ed ottenesse una risposta che è per stessa una affermazione di credenza incrollabile e pro- fonda : « Bella lealtà! Siete un sacco di vipere, sepolcri imbiancati e mancatori di fede; non sono profeta figlio di profeta, ma vi assi- curo che in Roma non entrerete ».

La tranquillità che regnava in Roma era d'altra parte argomento per se stesso sufficiente a tranquillizzare l'animo del governo. L'in- surrezione, ritenuta l'unico valido pretesto, non aveva nemmanco mostrato i suoi primi tentacoli : la ragione di intervento, mancava. E a confermare maggiormente il Papa nella sua persuasione, giun- sero le dimostrazioni del settembre all'inaugurazione, in piazza Termini, dell'Acqua Marcia, così entusiastiche da non far certo sup- porre che si potesse infrangere una sovranità così amata. Sua San- tità passò in mezzo ad una immensa folla osannante, che batteva le mani, che gettava, fiori, che non si stancava di gridare: Via Pio IX re! re! re!

Tali manifestazioni, che si reputarono come l'espressione di una volontà nazionale, lasciarono perciò la corte pontifìcia serena ed im- passibile quando pochi giorni dopo seppe che l'esercito italiano aveva varcato la frontiera. Lo stato d'animo di Sua Santità fa dire ad uno storico dotto ed intelligente : « Il Papa ordinò un triduo dinanzi l'im- magine della Madonna della Cotenna, nella basilica di S. Pietro. La fede di lui che gl'italiani non avrebbero osato attaccare Roma ed osandolo, non sarebbe mancato al Pontefice l'aiuto divino, pareva quasi inverosimile. Il suo carattere impulsivo era divenuto calmo ».

Ma perfino la stessa visibile presenza di tutto il IV corpo d'eser- cito italiano sotto le mura, non valse a scuotere la fiducia nell'intan- gibilità di Roma, anzi la convalidava : fin dal giorno 16 la 11% la 12\ la 13^ divisione e la riserva trovavansi sotto Roma e la 9* era poco distante; vi erano pervenute lentamente: poi più lentamente, im- piegando due giorni, avevano rivarcato il Tevere, mostrando chia- ramente che tergiversavano, che avevano missione di dispiegare grande apparato di forza e nulla piìi.

I nuovi tentativi, fatti il 18, dal barone prussiano Arnim, consen- ziente il comandante in capo dell'esercito italiano, dopo quelli, per quanto falliti, che erano stati tentati il 15 ed il 16, allo scopo di per- suadere a cedere senza contrasto, l'inattività di tutte le truppe e il fatto che la divisione _di Bixio era tenuta lontana, a Civitavecchia, inducevano all'illusione. Si supponeva che i dubbii, le incertezze po- litiche che si erano palesate nel ministero Lanza e che ancora sussi- stevano, fossero pur anche diffuse nel campo militare e che davanti alla Maestà Pontificale, alla imponenza secolare, alla grandezza re- ligiosa sprigionantesi da Roma, davanti al colosso immane, mon- diale, che da tanti secoli impartiva ai popoli la benedizione divina e la legge di Cristo, si sarebbe continuato a tergiversare. Si riteneva

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 217

per certo che la decisione di tirare cannonate contro la cinta fatta sacra dalla presenza del Sommo Pontefice, non sarebbe mai venuta.

La credenza del governo pontifìcio, quella di Sua Santità, durò serena, ferma, sicura fino al tramonto del giorno 19.

Il sole cominciava a tramontare in un cielo limpido. Il Papa rientrava in Vaticano leggermente stanco, assieme ai suoi camerieri segreti, monsignor Samminiateli e monsignor De Bisogno. Ritornava dalla Scala Santa; l'aveva salita in ginocchio, aiutato dal De Bisogno, e giunto all'ultimo gradino davanti all'altare, aveva pregato con voce molto alta; ritornava dopo aver benedetti i soldati esultanti dello in- trepido de Charette, schierati nella piazza S. Giovanni Laterano, in faccia al triclinium Gregoriano, e dopo esser passato fra popolane e Signore che, credendo volesse dirigersi a Civitavecchia per imbar- carsi ?,\i\VOrenoque, affettuosamente gridavano : Santità, non par- lite! non partite!

Aveva sorriso a lungo... Perchè partire? Era sicuro che gli ita- liani non avrebbero attaccato.

Ma appena giunto in Vaticano gli fu data lettura di due tele- grammi che dall'osservatorio del Vaticano stesso venivano inviati al Ministro delle Armi. Erano così concepiti :

Vaticano, ore 4.40 pom.

Alla distanza di circa 10 miglia dalla parte di Civitavecchia si avanza una forte co- lonna nemica.

Carletti.

Vaticano, oro 6 pom.

L' armata nemica ti'ovasi accampata ai posti che Occupava questa mattina coi suoi avamposti molto vicini alla città. La colonna proveniente da Civitavecchia continua la sua marcia ; è molto forte ed ancora sarà distante circa otto miglia. Molto più in di Castel Giubileo si vedono molti fuochi che sembra vi sia qualche campo, ma non si distingue truppa per la troppa distanza.

Carletti.

Il primo telegramma nella sua laconicità era decisivo : il secondo riusciva dolorosissimo in queste parole :

« La colonna proveniente da Civitavecchia continua la sua marcia : è molto forte ed ancora sarà distante circa otto miglia » .

Non erano soltanto i quattro nuovi reggimenti di fanteria, i tre battaglioni bersaglieri, le tre batterie, il reggimento cavalleggeri Lodi che si aggiungevano a quelli già circondanti Roma, non era la forza che determinava il crollo delle persuasioni ma il nome di colui che comandava quella colonna : Bixio; nome tagliente come filo di lama, simile al sibilo del proiettile che rompe l'aria, a punta di spada che trapassa.

Bixio, il rivoluzionario, lo scomunicato, l'indemoniato, il nemico di ogni ritegno, pronto sempre ad ogni violazione, ad ogni violenza, ad ogni irruenza, ad ogni pericolo, ad ogni sbaraglio, tanto irrefre- nabile che un solo uomo, Garibaldi, poteva, forse, trattenere nel suo impeto, nella sua foga audace, pazza, Bixio, il temerario di Villa Corsini, l'anima perduta del 1859, lo spirito infocato, tempestante del Volturno, il repubblicano, il corsaro ben conosciuto dai cifrari se-

\^ Voi. CLXVII, Serie V 16 settembre 1913.

218 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

greti dello Stato e dai telegrammi fin dal settembre 1860, attra- verso alla formula « n5pyaloryultgr », Bixio, camuffato da generale regio, avanzava!

Fino a tanto che Roma era stretta dalle sole forze del IV corpo, tutto era da sperarsi. Il generale in capo Cadorna, i generali da lui dipendenti, Mazè de la Roche, Ferrerò, Corte, Angioletti, erano reli- giosi; e religiosi erano i generali Bottacco, Lanzavecchia, Angelino, Carchidio, De Fornari, Bessone, de Sauget, Migliara; religioso era il presidente dei ministri Lanza; religioso era il ministro della guerra. Ricotti; religioso era Re Vittorio Emanuele IL Quante titu- banze, quante suggestioni, quanti fascini, quanti miracoli aveva at- traverso i secoli prodotto lo spirito religioso, e quando più che mai sembrava imminente l'ora della caduta! È proprio nel momento nel quale il braccio materiale si alza per colpire che il cielo della fede improvvisamente distende, in infinito spazio, i suoi mistici archi ed i fantasmi dello spirito, i timori della perdizione, dell'anatema si rizzano e sbigottiscono. Con tutte le anime era dunque lecito spe- rare : sperare fino all'ultimo : con Bixio, no!

Ed era appunto per questo che il governo pontifìcio aveva se- guito l'operato della divisione di costui costantemente, minutamente ed il telegrafo l'aveva accompagnato passo per passo. Il crollo delle accarezzate speranze veniva riaffermato dalla direttrice di marcia di quella divisione : la stessa già seguita dai francesi ventun'anni prima, che conduceva al Gianicolo, chiave di Roma, che minacciava diret- tamente il Vaticano, e che il ricordo personale di Sua Santità, del clero, della milizia, per riflesso dei fatti del 1849, mostrava come la militarmente più adatta.

Altro coefficiente che dimostrava come il momento triste fosse giunto, era dato dal sapersi quel fronte già percorso e ripercorso da Bixio.

Se ben lo conosceva Nino Bixio! Nel 1849, capitano di legionari, l'aveva irrigato del suo sangue. Il 3 giugno montava su, verso la Villa Corsini, gremita di soldati francesi, sotto una tempesta di fuoco e, lanciato il suo cavallo al galoppo, come antico centurione vo- tato agli dei infernali, era salito per la gradinata esterna della villa e raggiunta la sommità aveva fatto una carica per la sala che gli si apriva innanzi, uscendo dalla parte che guardava i giardini Pam- phyli, stramazzando poi sotto un nugolo di proiettili, in faccia alla batteria francese che, più indietro, fra gli alberi, gettava strage. E vicino a Porta S. Pancrazio, disteso su di una barella, tutto insangui- nato, aveva incontrato Garibaldi e ricevuto il di lui dolce, melodioso, indimenticabile saluto. E sul Gianicolo, incontrati i bersaglieri del Manara, accorrenti per il declivio alla lotta, belli, fieri, che gli volge- vano fidenti, riverenti, l'augurio che il fratello che va alla morte ri- volge al fratello che vi ritorna, mitragliato ed esangue, erasi levato con sublime sforzo ed aveva loro gridato : viva la repubblica!

Ed infine l'ora della marcia costituiva un altro coefficiente che persuadeva essere l'attacco imminente.

Alle ore 18 la colonna nemica trovavasi all'ottavo miglio circa da Roma, cioè a Malagrotta, sul fosso la Galera, avendo da poco ini- ziato il movimento. Era dunque naturale il pensare che essa, me- diante una marcia notturna di 11-12 miglia, che tante ne correvano ad un dipresso dai campi di Castel Guido a Roma, volesse avvici-

GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO 219

narsi nascostamente alla cinta della città per tentarvi l'attacco di sorpresa col favore della notte o per prepararlo celatamente onde ini- ziarlo alle prime luci dell'alba.

Quei due telegrammi adunque partecipavano che l'istante del- l'attacco, ritenuto incredibile, giungeva minaccioso nell'oscurità della notte incombente, segnato dal generale che sotto al mantello grigio dell'esercito regolare nascondeva il camiciotto sanguigno del rivolu- zionario.

Fu infatti, in seguito ad essi, che il cardinale Antonelli avvisò il corpo diplomatico che l'azione era prossima; fu in seguito ad essi che Sua Santità Pio IX scrisse al generale Kanzler questa lettera che suona certezza di caduta imminente, tanto che la difesa che vi si ordina è ispirata tassativamente al solo concetto di una protesta for- male ed esclude assolutamente lo spargimento di sangue :

Signor gemrale.

Ora che si va a consumare un gran sacrilegio e la più enorme ingiustizia, e la truppa di un re cattolico, senza provocazioni, anzi, senza nemmeno l'apparenza di qualunque mo- tivo, cinge d' assedio la capitale dell'Orbe cattolico, sento in primo luogo il bisogno di rin- graziare Lei, signor generale, e tutta la truppa nostra della generosa condotta finora tenuta, dell'affezione mostrata alla Santa Sede e della volontà di consacrasi interamente alla difesa di questa metropoli. Siano qffèste parole un documento solenne che certifichi la disciplina, la lealtà, il valore della truppa al semzio di questa Santa Sede.

In quanto poi alla durata della difesa, sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta, atta a constatare la violenza e nulla più, cioè di aprire trattative della resa ai primi colpi di cannone.

In un momento in cui l'Europa intera deplora le vittime numerosissime, conseguenza di una guerra fra due grandi nazioni, non si dica mai che il Vicario di Gesù Cristo, quan- tunque ingiustamente assalito, abbia ad acconsentire a qualunque spargimento di sangue.

La nostra causa è di Dio, e noi mettiamo nelle sue mani la nostra difesa.

Benedico di cuore Lei, signor generale, e tutta la nostra truppa.

Plus PP. IX. Dal Vaticano, 19 settembre 1870 (1).

(1) Si è riportata per intero la lettera perchè in due periodi essa suona ben diversamente da quella usualmente conosciuta.

La differenza fra quella effettivamente scritta da Sua Santità al gene- rale Kanzler, il giorno 19, e quella cognita è do\Tita al fatto della resistenza che il partito militare, per un soldatesco punto d'onore, volle opporre, contra- riamente agli ordini del Papa, e che costò ai pontifici : fra gli ufficiali un morto (Picadori Alessandro, tenente dei dragoni) e tre feriti ; nella truppa 11 morti e 43 feriti: ed agli italiani 28 morti e 137 feriti.

Alla mattina del 21 settembre, prima che il padre Piccirilli la desse alla stampa, venne fatto osservare che l'operato del generale Kanzler contrastava colle direttive in essa contenute, ed allora Sua Santità, a salvaguardare la responsabilità del comandante in capo del suo esercito, permetteva che alle frasi :

<( aprire le trattative della resa ai primi colpi di cannone » « abbia ad acconsentire a qualunque spargimento di sangue » venissero sostituite le seguenti:

« aprire le trattative della resa dopo aperta la breccia n

(( abbia ad acconsentire ad un grande spargimento di sangue ».

220 GLI ULTIMI TELEGRAMMI DEL GOVERNO PONTIFICIO

In realtà l'attacco si svolse ben diversamente dal previsto. Fu- rono proprio i generali religiosi che attaccarono Roma, mentre Bixio subiva, per un po' di tempo, fremendo ma senza rispondere, il fuoco avversario. Quei generali erano ben decisi pur essi all'attacco e il loro spirito religioso ed il fascino sprigionantesi da Roma e dalla Maestà Papale, non diminuiva punto la saldezza nell'adempimento della loro missione; la ravvolgeva di dolore, non di titubanza mi- litare.

Ma come già si è ripetuto, non fu la materialità dell'attacco che segnò al governo pontifìcio la caduta del suo potere. Non ne rappre- sentò che l'accompagnamento funebre. Il crollo di questo potere av- venne nel momento in cui esso seppe che la potenza spirituale non poteva più bastare per coprirlo, per proteggerlo dalla forza che era ormai in cammino.

In quell'istante il telegrafo pontifìcio suonò l'agonia dello Stato e la propria.

Nella pace solenne, la luce rossa e diffusa del tramonto s'ada- giava lenta verso Cerve teri e Palidoro, nella pineta di Cesalina e di Acqua Dolce, ed il disco solare scendeva dove il fiume Arrone, sbu- cando dai colli delle Cavalle e dagli sproni ondulati del Mastaccio, si distende verso il mare alla ricerca di Torre Maccarese e Bocca di Leone.

Avvolti nella luce ignea e nei riverberi di fuoco del tramonto i soldati di Bixio avanzavano.

Dall'alto dell'osservatorio Vaticano, agli occhi del tenente Car- letti e dei suoi telegrafisti, essi dovevano apparire rossi come brace, come soldati dalla camicia e dai berretti fiammanti, come miriadi di scintille di un incendio pagano in marcia, come faville sfuggite da un demone scaturito dalle antiche morte terre di Pyrgi, Agyllo, Alsium e Fregenae.

Ed incendio era. L'anima di Bixio, lo spirito di Garibaldi vi stavano. Dalla parte opposta stava la fiamma monarchica.

L'un verso l'altra camminavano agognanti a congiungersi, a fondersi nel sacro inestinguibile fuoco di Roma Etema.

Attilio Vigevano.

GIUSEPPE VERO

CITTADINO GENOVESE

Chiunque sappia della vita e delle abitudini di Giuseppe Verdi non dimentica certo ch'Egli fu uso a svernare per lungo volgere di anni in Genova, tenendovi casa. Ma a molti, anzi ai più, riu- scirebbe di sorpresa l'apprendere quanto a lui importasse tenersi informato di tutto ciò che s'atte- neva ai pubblici lavori, alle inno- vazioni e al progresso edilizio di questa città ch'Egli volle sua.

Di questa costante partecipa- zione alla vita genovese molte sa- rebbero le prove a citarsi. Qui verrò a un caso.

Sessant'anni sono un inge- gnere, allora molto operoso, Giu- seppe De Amicis, accudiva, nella località presso il Mandraccio, al- l'innalzamento d'un edifìcio da lui ideato, e costrutto a conto d'una Società per azioni, destinato a bagni popolari, ma poi ristretto a meno vasto servizio. Mentre fer- vevano i lavori, discretamente grandiosi per edifìcio privato, una coppia forestiera, proveniente dall'Hotel di Malta, sostò a curiosare. L'uomo, un alto signore dalla barba nera, diceva alla gentile com- pagna: — Questa promette certo riuscire una fabbrica importante. Forse è destinata a qualche industria.

L'ingegnere De Amicis, persona cortese per indole, invitò la coppia forestiera a oltrepassare il recinto di tavole, e l'invito fu ac- cettato. I due visitatori osservarono attentamente ogni parte della fabbrica, mentre il De Amicis dava le spiegazioni del caso. Chiesero poi se quel lavoro di tecnica e vigilanza gli occupasse tutta la gior- nata.

Quasi tutta rispose l'ingegnere poiché ogni lavoro in corso va vigilato.

Giuseppe Verdi nel 1859.

222 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

Lo so anch'io come agricoltore disse il signore dalla barba nera.

Manco male soggiunse il De Amicis che alla sera mi rivalgo recandomi al teatro,

All'opera? domandò la signora.

rispose il fedele abbonato del Carlo Felice e attual- mente il Trovatore forma la mia delizia.

Ne conosce l'autore? chiese la signora.

Non ho questa fortuna.

Ma che Lei conosce il maestro Verdi! Sta parlandogli. Qui seguiva un vivo ricambio di complimenti fra l'artista delle

crome e quello del compasso. Così ebbe inizio quella grande e fa- mosa amicizia, che doveva durare per la vita. Mancata questa cu- riosità del musicista su quanto di nuovo vedeva farsi a Genova, 1 due non si sarebbero forse mai più conosciuti.

. Io non mi sarei arrischiato a trattare il soggetto « Verdi citta- dino genovese » senza una scorta efficace e sicura. E questa io l'ot- tenni dalla squisita gentilezza del Rev.mo Mons. Vicario Capitolare della Diocesi di Genova, Giacomo De Amicis, e del suo degno fra- tello dottore Pietro.

Essi, dopo le mie insistenti richieste di poter disporre, durante l'anno verdiano, dell'epistolario passato fra il grande Maestro e ring. comm. Giuseppe De Amicis, loro venerato zio, gentilissima- mente acconsentirono, rimettendosi come si espresse in una let- tera lo stesso Mons. Vicario alla mia « saggezza ». Cercherò dunque di non demeritare del cortese appellativo.

Verdi che, fatta la fortuita conoscenza col De Amicis, continua ancora, per circa un decennio, venendo a Genova, a far la vita di albergo, prima di metter casa nel palazzo Sauli in Carignano, si occupa, nelle lettere di più antica data che riscontro nell'epistolario (cioè il 1864), dell'arredamento della villa di Sant'Agata, e da buon genovese d'inclinazione, ma non ancora proclamato dal municipio cittadino di Genova, si rifornisce di mobili di utilità e di lusso, esclusivamente presso Ditte di Genova.

E così, fatte le ordinazioni, e tornato alla villa, è un continuo tempestare di lettere l'amico ingegnere, perchè non gli rincresca sollecitare presso Solei Hebert, presso Speich, Bracco ed altri, la spedizione, l'esatta esecuzione, il perfetto imballaggio, ora di specchi, ora di mensole, ora di scranne, o letti e pagliericci, all'indirizzo del signor maestro Verdi, Borgo San Donnino, per Busseto Sant'Agata.

Non seguirò davvero il grande Maestro in tutti i minuziosi par- ticolari, circa questo mobilio che poteva tanto preoccuparlo negli anni in cui la storia dell'arte dice ch'egli stava scrivendo opere di polso, come Forza del Destino e Don Carlo.

Prendo invece nota di sfuggita delle scuse che il romito di Sant'Agata fa sovente all'amico di Genova, per le molte noie, come egli dice, che continuamente gli reca.

Per esempio, addì 6 marzo 1864 ringrazia l'ingegnere dello .schizzo inviatogli di una ringhiera. Ai 19 gli scrive : « Scusate, ma

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ho bisogno di sec<;arvi ancora. Mi occorre la misura della larghezza del grande specchio». Ai 27 riscrive: «Non mandatemi al diavolo se anche questa volta vi arreco disturbo, ma sia in espiazione dei vostri peccati, se ne avete ». E gli chiedeva nuove misure di specchi. Ai 18 di aprile lo prega di far aggiungere un quinto specchio agli altri già ordinati. É il caso di cantare, come nel suo Macbeth :

Ed altri ancor ne seguono

Entro lo specchio arcano;

Un terzo, un quarto, un quinto...

E chiude la lettera dicendo : « Annoiatevi il meno possibile al teatro » .

Il 4 maggio finalmente annunzia l'arrivo di mobili e specchi alla villa ed esclama commosso : « Mio caro De Amicis, arrossisco di avervi date tante noie, e non ho parole per ringraziarvi come me- ritate e come dovrei »,

In altra del 28 stesso mese fa di più. Dichiara essersi accorto che per sua colpa gli specchi della grande sala sono troppo piccoli; ne vorrebbe dei maggiori, e dice solennemente : « Passata questa nuova noia, giuro che voi sarete libero. Povero De xVmicis, abbiate ancora pazienza per questa volta ».

Chi crederà a questo giuramento... d'Achille? Precisamente, alla data di vent'anni dopo, cioè 4 giugno 1884, trovo una lettera del Maestro che dice : « Caro De Amicis, Aon la finirete mai di damd delle seccature?... direte voi nel leggere questa lettera! Non c'è che dire : voi avete ragione, proprio ragione; non per questo, pur riconoscendo i miei torti, io vi risparmio, e non son ben certo di risparmiarvi in avvenire... ».

Manco male che quelle che Verdi chiama « seccature » non si limitano sempre a specchi e sofà bene imbottiti, ma entrano alfine, per corde oblique, nel grande campo dell'arte.

Nel 1890 Verdi sta pensando a un successore da dare aìVOtello e prega il De Amicis di fargli eseguire le indispensabili riparazioni al pianoforte Erard, che tiene nell'appartamento di Genova, di cui De Amicis ha le chiavi. Ma per far eseguire ciò occorre spedire lo strumento alla Casa fabbricante di Parigi. L'ingegnere, assecondato dal maestro Giuseppe Rossola, fa imballare il piano e lo manda alla Casa parigina. Quindi il maestro scrive la seguente :

Sant'Agata, 18 giagno 1890.

Caro De Amicis, Se siete in collera con me pel mio lungo silenzio, avete mille milioni di ragioni. Farce mihi. Farce mihi. Vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per imbarcare il Piano- forte, come per tutto il i-esto. Tutto va bene, e ringraziatene anche Rossola della squisita e gentile premura. È troppo !

Mille saluti da Peppina e mille ringraziamenti dal vosti'O

Aff.mo G. Verdi.

Ma il pianoforte spedito a Parigi ritarda a fare ritorno a Genova, e il maestro scrive quest'altra :

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Sant'Agata, 27 settembre 1890.

Caro De Amicis, Vi prego, vedendo il maestro Bossola, di dirgli che l' inverno si avvicina, e che lo prego di scrivere ad Erard perchè mandi il Pianoforte e che io possa trovarlo in Genova al mio arrivo. Già sapete che, secondo i giornali, io debbo scrivere una mezza dozzina d'opere... Dunque, il Pianoforte, per l'amor di Dio, presto a Genova ! Noi ce la passiamo invecchiando, e la va bene ancora !... Saluti per Peppina, etc. etc.

Aff.mo

G. VERDI.

Finalmente, il pianoforte riparato viene spedito da Parigi. Ma... c'è un 7na. La casa Erard è, nel frattempo, venuta a conoscenza che proprietario del pianoforte riparato è Giuseppe Verdi, e non vuole accettare alcun compenso pel lavoro fatto. Allora, il Maestro scrive al De Amicis:

Sant'Agata, 8 maggio 1891.

Caro De Amicis,

È certamente una offerta gentile e graziosa quella della Casa Erard, e ne sono rico- noscentissimo. Ma, per verità, io avrei preferito pagare l'importo del lavoro, ed è per que- sto che io non volli scrivere direttamente, e pregai il Maestro Bossola di farlo in vece mia. Ora: cosa fatta capo ha e non mi resta che ringraziare più tardi la Casa Erard di tanta gentilezza.

Vi è poi un altro guaio, ed è che anche il Pianoforte che ho qui a Sanf Agata, ha bisogno di riparazione, più ancora di quello di Genova... e adesso non avrei più il coraggio di mandarlo a Parigi ! Mai, Mai ! Tanto peggio ! Sa:à un'altra seccatura che sarò costretto dare al Maestro Bossola, che mi farà aggiustai-e alla meglio questo Pianoforte da un fale- gname, da un muratore, etc. etc. da chi vorrà.

Devo avvertirvi che nel palazzo Doria esiste la cassa per trasportare il Pianofoi*te. Quando abitavo in Carignano la tenevo nella mia cantina. Venendo al Doria il povero Ber- nabò la fece collocare in un grande locale ; una specie di Oratorio o di Libreria, al piano terreno, vicino allo studio dell'agente Santa Maria. Domandategliene, e se la cassa esiste ancora, servitevene, se no ne farete fare una, e voi mio Cassiere farete il piacere di pa- garne subito l'importo, che non è giusto che altri stia in rimborso.

Ringraziando Bossola, prego Voi e Lui di scusarmi in tutto e per tutto.

Noi siamo da quattro giorni qui e si lavora, ossia lavoi-ano tutti fuori di me, per met- tere in ordine tanti stracci.

Beppina vi saluta tanto tanto.

Aff.mo G. Verdi.

Ecco dunque il Maestro, che deve scrivere Falstaff, rinunziare, per una questione di delicatezza e dignità, ad avere il pianoforte di Sant'Agata convenientemente riparato dalla Gasa costruttrice.

Verdi non voleva dunque trattamenti di favore di nessuna specie. Tanto è vero che non accettò mai di fruire, nei viaggi ferroviari, della gratuità cui gli dava diritto il grado senatoriale.

GIUSEPPE VERDI aXTADINO GENOVESE 225

Ma a Genova non accettò nemmeno certi omaggi che gli pare- vano esagerati, e non confacenti ad un vivo.

Se ad un non comune mortale venisse proposto di intitolargli una magnifica strada, fiancheggiata da palazzi, alcuni dei quali di alto valore artistico come storico, la sua vanagloria ne andrebbe in- dubbiamente soddisfatta. Ma Giuseppe Verdi dimostrò d'essere af- fatto fuor del comune quando, venuto a conoscere l'intenzione del Municipio di Genova d'intitolargli, dopo il successo deìVOtello, la via che si chiamava da circa due secoli « Nuovissima », fece suppli- care il Municipio di smettere tale idea.

E chi s'incaricò di rendersi interprete di questa modestissima supplica fu l'ingegnere De Amicis. Il Maestro, a dare più forza alla supplica, io aveva pregato di riferire al Municipio che quando fosse comparsa nella via che quasi quotidianamente soleva percorrere per recarsi al centro della città, la tavoletta marmorea recante il suo nome, non avrebbe mai più attraversata quella strada. Venne esaudito, e morto Benedetto Gairoli, la già via Nuovissima prese il nome dell'eroica famiglia.

Si chiederà: donde tale riluttanza a che gli si intitolasse a Ge- nova una strada, se a Milano il Maestro non erasi opposto a che, dopo il Don Carlos, gli si innalzasse una statua nell'atrio della Scala?

Rispondo : anche opponendovisi, qui non vi sarebbe riuscito. Ma è pur vero che appena ebbe sentore di quell'idea, esclamò : « La statua ad un vivo?... È un assurdo! » Ma non gli convenne fare mag- giore opposizione, altrimenti avrebbe pur naufragato il progetto di mettere nella nicchia simmetrica la statua di Vincenzo Bellini, mentre nelle altre due dell'atrio già figuravano quelle di Rossini e Donizetti.

Dopo tutto, trattavasi di omaggi dentro un teatro, e come Verdi non poteva impedire le clamorose ovazioni fattegli in teatro, abbor- riva dalle dimostrazioni della via, come or si vedrà meglio dalle sue lettere.

Intanto, a sovraeccitare l'avA^ersione del Maestro ai chiassi onde era pretesto la sua gloria, sopravvenne l'idea di celebrarne nel 1889, il giubileo artistico. La sua prima opera Oberto di San Bonifacio era stata rappresentata alla Scala nel 1839. Da qui l'idea di fare, a Milano come altrove, un po' di clamore, all'insegna « Giubileo ar- tistico verdiano ».

Ciò riusciva al Maestro assolutamente antipatico. D' altronde VOherto non gli ricordava una gloria, ma un semplice successo di stima, come tale riuscì anche, nel 1841, l'andata in iscena di questa opera a Genova.

Era stata proprio quella l'epoca delle grandi miserie del Maestro. Nel 1840, la morte che spietatamente gli visitava la misera casa, ucci- dendogli, entro poche settimane, i due figliuoletti e la moglie. E nel settembre di quell'anno stesso, l'insuccesso alla Scala dell'opera gio- cosa che, per ironia della sorte, dovette scrivere per contratto. Infine, nel 1841, le nuove miserie incontrate, non più a Milano, ma a Ge- nova, per le sei tollerate rappresentazioni dell'Ofter/o al Carlo Fe- lice; un alloggio da emigranti in una locanda di quart'ordine e la cena dei diseredati della fortuna in una bettola di via San Seba- stiano.

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« E si vuole dunque proprio celebrare questo mio Giubileo ar- tistico? » scriveva il Maestro al De Amicis nell'autunno del 1889. Tanto più gli spiaceva di questa celebrazione a Genova, perchè, stando al programma, doveva cadere nel novembre, epoca preferita del suo annuale ritorno a Genova.

De Amicis, per confortarlo, gli scriveva : « Pazienza, Maestro, bisogna dividere la sorte dei Pontefici, quando viene a cader© il loro Giubileo! »

Alla vigilia dello scoppiare... (stavo per dire) dell'uragano. Verdi scrive questo :

Sant'Agata, 12 ottobre 1889.

Caro De Amicis, Sono stato per tre giorni a Milano. Qui piove, piove e piove. Non è ancora deciso quando verremo a Genova ; non prima certo di quel tal « Giubi- leo » etc. etc. Che pazzia!!!

Vi stringo le mani. Addio e saluti per Pappina. .

G. Verdi.

Siamo a novembre inoltrato. L'affare del Giubileo tende a in- grossare. La studentesca genovese ha già dato delle avvisaglie com- memorative e qualche professore vi tiene bordone. Anche al Muni- cipio si affilano armi giubilari. Qualche giornale comincia a dire che la data storica dev'essere degnamente commemorata. Per parte propria il Maestro, che da Sant'Agata è già alla tappa di Milano, scrive all'ingegnere :

Milano, 24 novembre 1889.

Caro De Amicis,

Vi ringrazio dei telegrammi respinti. Speriamo che non ne arrivino altri (1). Siamo contenti che i nostri domestici siano arrivati, senza perdersi nella nebbia. In quanto a noi nulla è deciso. Ho letto sui giornali di una dimostrazione, etc. etc. Se ciò è, preferisco pren- dere il volo per Firenze e per Napoli. Sappiatemi dire Voi qualche cosa. Il promotore sarà certamente, come l'altra volta, Bossola. Egli vi dirà che non sa nulla.

Questo non deve rassicurarvi, e Voi potrete sapere altrove come stanno le cose.

Decisamente, senza affettazione, senza falsa modestia, io non ne posso più.

Mi raccomando a Voi!! Saluti per Peppina, ed una buona stretta di mano dal

Vostro G. Verdi.

Alfine l'orizzonte si rasserena. Il diavolo giubilare non è stato così brutto come l'avevano dipinto. A Genova tutto è passato con un discorso Barrili all'Università e colla coniazione d'una bella me- daglia, per conto del Municipio, recante da un lato il ritratto del Maestro, e dall'altro la dedica e l'anno.

Passato tutto e in attesa della sua brava medaglia d'oro, il maestro scrive:

(1) Trattavasi appunto dei telegrammi di felicitazione pel Giubileo, giunti da ogni parte del mondo a Genova, credendosi che il Maestro vi fosse già ar- rivato.

GIUSEPPE N'ERO! CITTADINO GENONTISE 227

Klilano. 3 dicembre 1889.

Caro De Amidi, Ringrazio delle notìzie datemi intomo al Giubileo, e poiché si è voluto fare, meglio cotì. Si sono almeno evitati i chiassi teatrali. Tutte è passato, ed io ne sono lietissimo. Non abbiamo ancora fissato il giorno del nostro arrivo... ma ve lo scriverò più tardi. Addio' e grazie, mio caro De Amicis: arrivederci fra non molto, appena avrò sbrigate alcune feccenduccie un po' imbrogliate. Addio ancora e saluti da Peppina.

Aff.mo

G. VERDI.

Ma qualche anno dopo l'orizzonte festaiuolo riprese a intorbi- darsi. Falstaff era andato in iscena a Milano, e come già era succe-

Medaglia coniata dal Municipio di Genova nel giubileo di G. Verdi (1).

duto nel 1887 per YOtello, si minacciava una dimostrazione a Verdi pel ritomo a Genova. Egli scriveva in tali termini al fido ingegnere :

Milaoo, -23 febbraio 1893.

Caro De Amicis,

Resterò ancora qui alcuni giorni per regolare diverse cose per Falstaff, sia per la stampa, sia per le traduzioni, e per il giro che si vorrebbe fere, etc. Ho letto sui giornali di una dimostrazione che si vorrebbe fere al mio ritorno in Genova.

Oh fetemi il piacere di andare dal Barone Podestà, che riverirete distintamente in nome mio, e pregarlo, supplicarlo, scongiurarlo di fere il possibile per evitarmi tale dimo- strazione.

(1) La medaglia porta scritto, nel recto intorno all'effigie: Per il giubileo ar- tistico del suo grande cittadino onorario Genova XVII nov. MDCCCLXXXIX e nel verso: A Giuseppe Verdi Gloria d'Italia Nell'arte divina della mu- sica — Coi canti aspirati AlV amor d^Ua Patria Fautore potente Del Risorgimento Nazionale.

228 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

Io sono così stanco, così affaticato, che non l'eggo più... Vi prego, vi prego, vi prego 1 Rispondetemi.

Vi scriverò il giorno del mio arrivo. Intanto rispondetemi al più presto. Peppina vi saluta cordialmente, ed io vi stringo affettuosamente le mani.

Aff.mo G. Verdi.

Giuseppe De Amicis tardò a rassicurare il Maestro sulla dimo- strazione temuta, e Verdi rincalzò colla seguente :

Milano, domenica sera 26-2-1893.

Caro De Amicis, Spero di dar sesto qui a tutte le cose, e di arrivare giovedì sera alla Principale Stazione. Voi non m'avete più scritto del pericolo di una dimostrazione al mio arrivo. Per l'amor di Dio, fate il possibile per evitarmela ! Tornate dal Barone Sindaco e pre- . gatelo in ginocchio, etc.

L'altra volta, per V Otello, fu Bossola che fece affiggere degli avvisi per avvertire il pubblico, e fece molto male. Spero che ora non succederà nulla di tutto questo, e potrò ri- tornare tranquillo a casa mia... Se così non fosse, vado a dormire in mare. Scrivetemi.

Arrivando Giovedì sera, voi potrete scrivermi Mercoledì, che riceverò la lettera la mattina dopo.

Saluti da Peppina, e sans adieu.

Aff.mo G. Verdi.

L'ingegnere usa della migliore eloquenza per rassicurare il Maestro che la temuta dimostrazione sarà evitata, e che ne ha scon- sigliato chi di ragione. Ma il Maestro non è ancora pienamente ras- sicurato, e riscrive, studiando e predisponendo tutte le cautele perchè la tenebrosa congiura abortisca:

Milano, -28 febbraio 1893.

Caro De Amicis,

Dopo domani. Giovedì, saremo, col diretto delle 6.4 pom., a Genova.

Fate dire al nostro cuoco di preparare un buon pranzetto e proprio buono. Spero che Voi ci farete compagnia, malgrado l'ora tarda.

Spero ancora e supplico Voi di adoperarvi onde non si facciano i chiassi come per Otello. Ma, no, no, no, per carità!!! Nel caso avvertitemene per telegrafo Giovedì mattina, ed allora resto qui, o cambio sponda.

Se tutto va come desidero, dite a Roberto di venire ad incontrarci alla Stazione di

Sampierdarena. E si trovi un quarto d'ora prima delle sei.

Sans adieu.

G. Verdi.

Roberto andò; il Maestro arrivò all'ora indicata a Sampierda- rena e potè entrare a palazzo Boria in perfetto incognito.

Dopo Milano, Falstaff venne rappresentato a Genova, cogli stessi artisti e la stessa orchestra, diretta dal Mascheroni. La piazza si astenne dalle dimostrazioni, come il Maestro desiderava; ma in teatro fu un altro affare. L'operista che cinquantaquattro anni prima era comparso, timidamente e uggioso, alla ribalta del Carlo Felice,

GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE 229

per rispondere a scarsi applausi d'incoraggiamento, alla sua prima opera, compariva ora, alla stessa ribalta, chiamatovi dall'entusiasmo che accoglieva l'ultimo suo spartito, di carattere e maniera così di- versi da tutte le sue precedenti, e rimasto inimitabile modello del ge- nere comico.

*

Un grande giornale milanese recava nel febbraio scorso un lungo articolo di ricordi verdiani, affermante, fra le altre cose, che Verdi prese domicilio nel Palazzo Sauli in Carignano nel dicembre 1866. L'affermazione di questa data rispondeva alla verità. Ma non vera, anzi contraria alla possibilità del vero, era l'asserzione che Verdi abbia scritto in questa superba dimora il Don Carlos. Questo grande spartito, scritto per VOpéra di Parigi, andò colà in iscena la sera degli 11 marzo 1867.

In due mesi al più Verdi avrebbe dovuto dunque allestire questa opera; ma siccome gli occorsero non meno di due mesi per assistere alle prove a Parigi, l'asserzione di aver egli scritto il grande spartito nel palazzo Sauli appare sempre più enigmatica. Si può invece asse- rire, con migliore fortuna, ch'egli vi scrisse, almeno in gran parte, la più fortunata delle sue opere : Aida.

Può soccorrermi all'uopo qualche ricordo personale. Non co- noscevo ancora nel 1871, fuorché di vista, l'ingegnere De Amicis, che l'anno seguente mi si presentava, a farmi le condoglianze per la morte di mio padre, di cui egli fu allievo.

Correndo l'anno 1871, un distinto professore di fagotto e poi- ché trattasi d'un vero artista, voglio nominarlo : Luigi Orselli mi domandò, per sua disgrazia, alcuni versi per una romanza da de- dicare alla celebre cantante Teresa Stoltz, che dopo il grande suc- cesso riportato a Genova in alcune rappresentazioni del Ballo in maschera, per le feste degli sponsali Umberto e Margherita, aveva preso a prediligere il soggiorno della nostra città. L'Orselli reca- vasi spesso a trovare la Stoltz all'albergo e mi asseriva averne già inteso qualche cosa della parte di Aida, che doveva interpretare alla Scala nel febbraio 1872, dopo l'andata in iscena al Cairo, colla Poz- zoni protagonista.

In ciò che mi disse l'Orselli credetti scorgere una millanteria, ed egli allora, circuitosi di tutto quel mistero ch'era del caso, ottimo pianista ed abile solfeggiatore, mi fece un bel giorno sentire al pia- noforte i più salienti pezzi della parte di Aida, prima che fosse co- nosciuta dal pubblico.

Rammento benissimo d'avere così ascoltato la prima volta l'in- vocazione ai Numi, l'aria delle rive del Nilo e i pezzi salienti del duetto col padre e di quello con la rivale : Ma bravo! dissi al- rOrselli: Voi portate via la musica dei grandi, che è una ma- raviglia!

Sfido io! rispose il fagottista se la Stoltz, nel ripassare la sua parte, mi obbliga a solfeggiare ora da tenore, ora da bari- tono, e perfino da contralto e da coro!

Ed essa, la Stoltz domandai, che ne pensa di Aida?

Pensa rispondeva l'altro animandosi che vi si rivela un prodigio d'ispirazione e che qui emerge un Verdi nuovo e gran-

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GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

dieso. E non solo ella venne a conoscere la musica delVAid^a alla consegna della parte, ma già, scrivendo il Maestro l'opera in Ge- nova, l'aveva ammessa ad udirne le salienti pagine.

Questo io volli ora ricordare ad onore del mio bel Colle di Cari- gnano, mentre al solo palazzo Boria è toccato il vanto d'una lapide che dice : « Giuseppe Verdi, già dal 24 aprile i867, solennemente

Giuseppe Verdi nel 1871 (da, una fotografia rarissima).

acclamato cittadino genovese qui venne il 29 m,arzo 1811 a seconda dimora e qui visse di gagliarda vecchiezza operoso ».

Palazzo Sauli-Pallavicini, ora proprietà dell'on. Negrotto, van- tisi dunque se nelle sue stanze risuonarono la prima volta le note di Aida; vantisi d'aver accolta la rappresentanza comunale di Ge- nova recante a Verdi la nomina a cittadino onorario; d'aver visto il Grande Maestro spaziare con lo sguardo all'immenso orizzonte, méntre Ei pensava la Messa da Requiem per Alessandro Manzoni.

E nemmeno dimentichino queste sale, fra la grandezza di Verdi, l'aver egli un giorno riconosciuto qui, in un accordatore venuto ad

GIUSEPPE VERDI aXTADINO GENOVESE 231

aggiustargli il piano, uno che nel 1841 aveva cantato quale compri- mario nella sua prima opera : « Allora gli disse il Maestro voi eravate certamente più ricco di me ».

Palazzo Doria può vantarsi invece d'avere visti i fieri impresari del Grand Opera di Parigi venire a chiedere a Verdi il prezioso fa- vore di porre in iscena a quel teatro VAida su libretto francese e con artisti di Francia; d'aver inteso il Maurel a provare in quelle sale la parte di Simon Boccanegra riscritta e ritoccata per lui; d'averne udite le prime note di Jago e di Falstaff; d'avere visti commensali di Verdi Giosuè Carducci e Giulio Monteverde; d'avere infine, nel 1893, inteso un momento di schietta e giovanile allegria in quelle storiche sale, quando Verdi vi convitò tutti gli artisti primari del- l'ultima e gioconda sua opera.

Ma per poco i palazzi dove Verdi tenne dimora in Genova non furono tre, perchè in una lettera del Maestro al De Amicis, dell'au- tunno 1894, dopo una sequela di altre dove il grande musicista de- plora i guasti prodotti al suo mobilio da una invasione d'acqua dal soflBtto, e i danni dei sorci, e l'eccessiva durata dei restauri alla fac- ciata del palazzo e peggio infine un'invasione ladresca nel suo appar- tamento; in una lettera, dico, allora scritta, in un grande momento di malumore, così si esprime :

Caro De Amicis,

Domenica sera, alle 6,14, arriveranno i nostri domestici, e Lunedì alla stessa oi-a ar- riveremo noi.

Martedì mattina, verso le nove, potremo, alla chetichella, visitare l'appartamento Durazzo.

Spero che le serrature dell'appartamento Doria saranno state aggiustate, e si potrà abitarlo senza timore di nuove \n8Ìte.

Farò le mie scuse con Yoi a voce lunedì sera.

Intanto mille grazie.

Aff.mo 6. Verdi.

Segue una lettera ch'è un vero e lungo quistionario sull'apparta- mento Durazzo in Via Balbi; se cioè avrà abbastanza luce, se sarà facile riscaldarlo; se le campane dell'attigua Annunziata daranno fastidio, e peggio ancora il rumore continuo dei rotabili.

Ma, dopo tutto il Maestro finisce col convincersi che di perfetto quaggiù non può essei'vi nulla; che se la dimora a palazzo Doria gli ha cagionato qualche fastidio, egli la moglie vi hanno mai sofferti malanni; che la vista del porto quale godesi dal bel terrazzo gli ha procurato degli svcighi, e delle ispirazioni, e infine conclude col dire che « passati gli ottant'anni è meglio non cambiare più casa! »

E così egli tenne l'appartamento di palazzo Doria finché gli durò la vita.

V'è una chiesa a Genova, non molto vasta, ma bella e centrale, quanto aristocratica, la cui vista mi richiama a Giuseppina Strep- poni, la seconda moglie di Verdi, e agli inizi della sua trionfale car- riera, prima interprete della parte di Abigaille nel Nabucco.

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Un giorno, incontratomi per via col De Amicis, lo accompagnai fino a questa chiesa. Qui giunti, m'invitò ad entrare, per accertarsi se vi era una persona di sua conoscenza.

C'è mi disse, osservando una signora che stava pregando : È la moglie del Maestro : qui raccoglie spesso il suo spirito. Ora, dobbiamo recarci a portare del bene a qualche famiglia disgraziata, delle vicinanze.

Tra l'epistolario verdiano, trovo lettere della signora che di- cono : « Bisogna assicurarsi se quelli che ci si rivolgono per soccorsi non siano gente che simuli l'indigenza per istornare l'obolo che si deve dare ai veri bisognosi ».

Ciò per la carità minuta. Il Maestro, persuaso che sopratutto al- l'epoca delle feste natalizie, bisogna tutti contribuire quanto si può per rendere meno crude le condizioni dei miseri, soleva ogni anno mandare al Caffaro lire 1500, per essere distribuite ai poveri e agli istituti di beneficenza: lire mille erano a conto suo, e 500 della consorte.

Allo scoppiare deirepidemia colerica a Genova nel 1884 il Maestro, trovandosi a Sant'Agata, manda al De Amicis la seguente lettera, in data 2 ottobre :

Caro De Amicis,

Vi ringrazio della vostra lettera, e sono, se non in tutto, in parte contento delle no- tizie che mi dite migliorate.

Vi mando un vaglia postale di L. 500 che darete in mio nome al Municipio a bene- fizio dei colerosi.

Peppina vuole offrire pure il suo obolo, ma spedirà domani un altro vaglia, perchè il mio è già abbastanza carico.

Continuate a darmi frequenti vostre notizie e credetemi sempre

Vostro G. Verdi.

~ Nel gennaio 1896, trovandosi Verdi a Milano, il De Amicis l'in- forma essergli giunta una domanda da parte del Comitato della Croce Rossa, e aver egli risposto che si riservava d'informare in proposito il Maestro, che certamente avrebbe sottoscritto. Verdi mandò questa risposta:

Milano, 20 gennaio 1896.

Ca7^o De Amicis, Avete fatto benissimo quanto avete fatto, e vi ringrazio d'aver indovinato e manife- stato le mie intenzioni.

Desidero semplicemente offrire il mio obolo per lo scopo santissimo che la Croce Rossa

si propone.

Riceverete con questa lettera, oppure il giorno dopo, un bono sulla Banca di L. 750, di cui 250 appartengono alla Peppina.

E così nella sottoscrizione segnerete :

Maestro Giuseppe Verdi L. 500 Signora Giuseppina Verdi L. 250.

Ringraziamenti e saluti affettuosi d'entrambi.

G. VERDI.

GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE 233

Passando alla più vasta beneficenza del Maestro, non è vano accennare all'ospedale provvidamente da lui fondato a Villanova d'Arda, per risparmiare ai poveri contadini il lungo, e spesso fatale tragitto fino a Piacenza.

Per dotare questo ospedale dell'occorrente materiale farmaceu- tico e operatorio, Verdi si attenne all'autorevole consiglio del pro- fessore Azzio Caselli, da lui già conosciuto quale medico condotto nei comuni affini alle sue terre; poi ritrovato celebre a Genova, alla Direzione della clinica chirurgica.

Nell'epistolario del Verdi a De Amicis ammirasi la tenacia del filantropo, durante il periodo dei provvedimenti necessari alla dota- zione dell'ospedale.

Sono sequele di lettere perchè l'amico solleciti dal Caselli resi- dente a Genova le ordinazioni occorrenti. Un apparato per le doceie, di cui lo stesso Caselli erasi incaricato, forma da solo il soggetto di varie lettere. Il professore, che per ragione della sua stessa cele- brità, è chiamato da tante parti, diventa irreperibile. Verdi se ne dispera e assedia di nuove lettere l'amico di Genova perchè gli trovi il Caselli, essendo sempre in attesa dell'apparato per le doccie del suo ospedale :

Ma dove mi piglio il Caselli? risponde De Amicis.

Cercatelo alla clinica, a casa sua, dovunque replica il Maestro.

Le ricerche riescono vane!

Ed io insiste Verdi dove andrò a cercare un doccista di cui possa fidarmi?

Poi, in una lettera del 22 settembre esce in queste frasi... di- sperate : « Abbiate la bontà di cercare ancora del Caselli, e se no, tro- vate il Dottor Sacchi e ditegli delle mie grandi disperate dispera- zioni, e pregatelo di sapervi dire se sa nulla delle lettere sh'io scrissi al Caselli, e che cosa vi è da sperare o disperare circa la doccia ».

Insomma, il grande professore diventava un mito!

Ben altrimenti correva la ventura al tempo della condotta me- dica del Caselli nelle terre del Piacentino. Un giorno Verdi gli scrisse perchè, in qualche prossima mattinata, si spingesse col calessino fino a Villa Sant'Agata, volendo la signora Peppina consultarlo per un disturbo d'indole cistica.

Caselli giunse col biroccio a Sant'Agata, in una bella mattinata domenicale. Il cancello era semichiuso. Entrò, chiamò; non rispose alcuno. Continuò a inoltrarsi e alfine vide il Maestro che leggeva un giornale :

Ebbene, Maestro, che cosa occorre alla signora Peppina? domandò il dottore, sollecito.

In questo momento è assente, ma tornerà presto. Poi, preso uno scrupolo, il Maestro disse: Dopo tanta corsa, mi immagino che Lei avrà appetito.

M'ha indovinato! rispose Caselli. Però mi spiace dirle avvertì il Maestro che in questi momenti trovasi assente tutto il personale della Villa, compreso il cuoco.

Una fuga generale?

Sa bene. Dottore : è domenica, e tutti vanno a messa. Io mi trovo qui solo. Ma Lei ha appetito, e le troverò qualche cosa.

Non si disturbi, Maestro: aspetterò.

^Q Voi. CLXVII, Serie V 16 settembre 1913.

234 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

No: Lei ha detto che ha appetito, ed io debbo provvedere. Ciò detto, l'autore di tanti capolavori passò ad apparecchiare

la tavola al medico condotto; poi si avviò alla dispensa e tornò con un pezzo di pollo, del salato, del pane, cacio e frutta. In seguito portò un fiasco di vino, dicendo con la maggiore serietà : « Servito il Dottore! »

Mi resta a dire poco di quell'altra insigne opera di pietà ver- diana che è la Casa di Riposo dei musicisti.

Se il De Amicis fosse vivo potrebbe rammentare come egli ve- nisse a conoscere questa grande idea del Maestro, quando a nessun altro era trapelata.

Si cominciò a discorrere fra loro dell'Istituto Martinez di Ge- nova. Il Maestro ne volle conoscere l'ordinamento, e finì col dire : Io farò qualche cosa di simile a Milano, ma con intendimenti più artistici. Poi lo informò dell'acquisto dell'area e infine dell'in- carico dato a Camillo Boito.

Ma non dite nulla a nessuno! raccomandò il Maestro. Però il De Amicis non vide più la ragione del mistero, e ne parlò

a me, che fui il primo a divulgare la cosa in un giornale.

Il Maestro se ne dolse; De Amicis, confessò la propria indiscre- zione e l'autore del Rigoletto, poiché l'altro gli diceva d'averne par- lato a me solo, replicò: Dovevate parlarne... meno che agli altri a Lui.

Nel 1854 Verdi scriveva alla Contessa Maffei : « Io non ho mi- lioni, e le poche migliaia di franchi guadagnati colle mie fatiche non spenderò mai in reclame, in claque e simili sozzure... >^.

Che Verdi non avrebbe mai speso danaro per farsi la reclame, neanche l'ombra del dubbio per chi ne conosceva il carattere. Reca maraviglia invece che all'epoca in cui aveva scritto non solo Na- bucco, i Lombardi ed Emani, ma Rigoletto, il Trovatore e la Tra- viata — una triade di così clamorose risorse egli non potesse an- cora chiamarsi ricco. Non avrebbe certo potuto più affermare questo dopo VAida.

La grande ombra del Maestro non creda già ch'io m'accinga a fargli i conti addosso. Ma la stessa amicizia, e le confidenze avute dal suo intimo, e più di tutto, l'epistolario che ho sott'occhi, m'auto- rizzano a svolgere questo capitolo dedicato alla finanza.

Trent'anni sono erano in gran voga fra noi i titoli ferroviari, e così di « Mediterranee » che di « Meridionali » Verdi fece copiosi acquisti. Inoltre, a Genova, i titoli d'un istituto di credito, la Cassa di Sconto, godevano la più illimitata fiducia : « Capitale versato 4 MILIONI » diceva l'etichetta. E Verdi, come tanti altri, vi impiegò forti somme. Ma ecco che, proprio trent'anni sono, la fiducia prese rapidamente a decrescere.

La seguente del Maestro viene già a darne un sintomo :

Sant'Agata, 10 settembre 1883.

Caro De Amicis, Godo sentire che avete fatto buon viaggio, e son lieto che il soggiorno di Sant'Agata non v'abbia fatto nascere idee suicide.

GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE 236

Grazie d'aver parlato così prontamente col Signor Direttore della Cassa di Sconto. Ringraziatelo e ditegli che approfitterò delle sue gentili cortesie, ma non avrò bisogno che dei danari che tengo nella Cassa.

A suo tempo verrò a ritirarli, avvertendo qualche giorno prima.

Peppina vi saluta tanto tanto, ed io vi stringo tutte e due le mani.

Àff.mo G. Verdi.

Non ancora trascorso un anno il Maestro riceve da quell'istiltito una circolare, di cui trascrivo l'indirizzo : « Al Pregiatissimo Signore Verdi comm. Giuseppe, Palazzo Principe Genova».

Egli riceve però la circolare a Sant'Agata, e poiché gli si noti- fica, come correntista, che il Consiglio d'amministrazione ha deciso ridurre dal 2 all'I % % l'interesse sui conti correnti, commenta il fatto in questi termini :

Sant'Agata, 11 agosto 1884.

Caro De Amicis,

Leggete lo stampato che v'accludo, e sappiatemi dire cosa succede alla Cassa di Sconto.

Perchè questo ribasso?

Han troppi denari? 0 cosa d'altro succede?

Certo io non verrò a Genova per levare da quella cassa i denari che vi tengo a conto corrente\ ma parmi che l'Amministrazione avrebbe dovuto lasciare qualche mese di tempo, invece di pochi giorni, per fare questa metamorfosi]}. Scrivetemi.

Aff.mo 6. Verdi,

La conclusione della rapida corsa dell'Istituto verso la sfiducia si ha in quest'altra lettera del Maestro:

Caro De Amicis,

Vi ringrazio dei giornali spediti, e della vostra lettera graziosa, spirituelle e birichina.

Resta fissato dunque che io sarò a Genova la sera del 12 corrente, per esigere nel

giorno dopo dalla Cassa di Sconto i denari che ancora vi tengo, che sono circa Lire 45000.

Rispondetemi se va bene, ed abbiatevi le mie scuse, i miei ringraziamenti, ed i saluti

affettuosi di Peppina ed i miei.

Aff.mo G. Verdi.

Tre erano i locali che il Maestro frequentava a Genova pei suoi afìari finanziari; il cambiavalute Bonguadagno, gli uffici della Ren- dita e la Banca Nazionale, poi d'Italia.

L'epoca dei maggiori affari finanziari a Genova era per Verdi il settembre e appositamente faceva il viaggio da Sant'Agata per isbrigare tutto, se era possibile, in un paio di giorni. È a quest'epoca annuale che, specialmente dopo la fortunosa acclimatazione delle sue ultime opere a Parigi, diìVOpéra, gli provenivano di colà grandi somme, per diritti d'autore, ammontanti a una annua media di 200,000 franchi.

A vedere gli uffici della Banca, quando Verdi vi si recava per le sue operazioni! Era una gara fra gli impiegati a sbrigar presto

236 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

quanto occorrevagli e a porgergli la penna per la firma, che poi diventava... un cimelio.

E valga anche la riproduzione della seguente, come quella d'un uomo d'affari, per cui il tempo è moneta :

Sant'Agata, 17 settembre 1884.

Caro De Amicis, Mi dicono che Mercoledì è giorno festivo e non si fanno affari in tal giorno. E così forse io arriverò a Genova Martedì mattina, alle ore 12,20, per poter spicciar subito i miei affari. Io devo andare soltanto da Bonguadagno, ed all'ufficio della Rendita. Se voi potete venire alla Stazione, con un fiacre, alle 12,20, facciamo subito questi affarucci, e pranze- remo alla stazione dopo le 6. Di gran fretta addio.

Aff.mo G. Verdi.

P. S. Spero che troveremo subito Bonguadagno.

In altra seguente il Maestro passa a discorrere d'altri titoli, a quella data in grande fiducia:

Sant'Agata, 20 luglio 1888.

Caro De Amicis, Vi dico (e vi prego di non dirlo a nessuno) che sarò a Genova il 2 o il 3 di agosto. Mi vi fermerò circa 48 ore, e se sarà possibile, acquisterò 150, e forse 180 Azioni Medi- terranee. Scrivetemi dunque se per quell'epoca (giorno più giorno meno) la cosa sarà fatti- bile. Pregherei che le Cartelle non fossero in generale di una sola Azione, ma di cinque 0 di dieci etc. etc.

Non si giuoca più a briscola. Voi ci mancate.

A Milano si è giuocato qualche po', perchè v'era ancora Muzio, che fece un ch'asso per quattro !

Addio dunque, e a rivederci!

Aff.mo 6. Verdi.

Acquistate le « Mediterranee » il Maestro domanda nuove istru- zioni in materia:

Sant'Agata, 16 settembre 1888.

Caro De Amicis, Vi ringrazio delle informazioni datemi sulle Mediterra^iee , e se ho ben capito, risulterebbe :

1** Che essendo io possessore di 29G Azioni Mediterranee avrei diritto a 131, al prezzo di lire 500 l'una;

Che dovrei pagare subito un decimo, cioè L. 6650 ; 3** Altrettante in novembre. Altrettante in dicembre. Il resto a richiesta, etc. Non vi spiaccia scrivermi ancora e credetemi vostro

Aff.mo G. Verdi.

GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE 237

È curioso, a proposito di titoli, il seguente proponimento del Maestro :

Sant'Agata. 8 novembre 1888.

Caro De Amicu, Vi ho seccato tanto in passato, che non sarete sorpreso se vi secco in presente, e se vi seccherò in avvenire !.. .

Qui Verdi prea\^"isa l'amico della spedizione d'un vaglia pel pa- gamento della seconda rata delle Mediterranee.

Ma succede la volta della delusione anche per queste azioni, e l'autore del Rigoletto scrive :

Sant'Agata, 11 novembre 1888.

Caro De Amicis, Spedisco subito quanto mi cercate. Bisogna convenire però che queste Azioni Medi- terranee hanno delle formalità molto seccanti, e per di più calano di valore. Mi darete queste carte quando verrò in Genova. Di fretta addio, addio.

Vostro G. Verdi.

Tornato a Genova, il Maestro si rinfranca nell'acquisto di altri titoli più accreditati, come dalla seguente breve e chiara :

Di Casa, Venerdì.

Caro De Amicis, '

Se siete in tempo, comprate subito oggi, a qualsiasi prezzo, altre venti Cartelle di Banca Nazionale.

Se non avete di meglio, venite oggi, alle sei. a mangiare la zuppa con noi... Mi direte qualche cosa. Addio e salute.

G. Verdi.

Scossa la fiducia nelle « Mediterranee », in lettere che sembrano scritte oggi, il Maestro si orienta meglio verso le « Meridionali » :

Sant'Agata, 29 aprile 18S9.

Caro De Amicis, Ritornato l'altra sera a Sant'Agata, trovai una lettera di Buonguadagno che ini awei-tiva di una nuova emissione delle Ferrovie Meridionali. Risposi subito due righe, risei-vandomi a scrivere direttamente a Voi.

Ora vi mando la distinta dei numeri che portano le mie cartelle, e se ho ben capito il prospetto della società delle Ferr. Mer., le mie Cartelle non avrebbero diritto alla nuova emis-sione.

Esaminate ed abbiate la bontà di parlarne al Bonguadagno. e ditemene qualche cosa. Con Peppina vi saluto di gran cuore

AfF.mo 6. Verdi.

238 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

Cresce la fiducia nelle « Meridionali » e il Maestro scrive ria- nimato :

Sant'Agata, 8 maggio 1889.

Caro De Amicis,

Quando è cosi, approfitterò dell'occasione favorevole ed acquisterò le 38 Azioni Meri- dionali a cui ho ancora diritto.

E per questo vi prego di dire, otto giorni prima della fine del mese, al Direttore della Cassa di sconto che al primo giugno ritirerò L. 25.000.

Addio, mio caro De Amicis, vi saluto per Peppina

Vostro 6. Verdi.

Nella seguente Verdi precisa il numero delle Meridionali che ha la fortuna di possedere :

Sant'Agata, 29 maggio 1889.

Caro De Amicis, Sappiate che il numero delle mie Azioni Meridionali non è di 230 (come credevo) ma 250. Quindi comprandone altre due ho diritto a 42 nuove Azioni. Vorrei dunque che Voi (per non perder tempo) mi trovaste le due azioni che mi mancano. Credo sarà conve- niente rivolgersi al Bonguadagno, per fare tutta l'operazione, tanto più che fu lui, avver- tendomi delle nuove emissioni... Che ne dite Voi? Se siete del mio parere parlategliene suhito, ed intanto tenga pronte le due azioni. Scusate tanto tanto e a rivederci.

Aff.mo G. Verdi.

Viceversa, si accentua ancora la sfiducia nelle Mediterranee, e alla data 31 agosto 1889 il Maestro scrive da Sant'Agata :

Caro De Amicis, Avevo fissato di essere a Genova stasera, per esigere i miei coupons e per pagare tutte le quote che restano delle Nuove Mediterranee; circa lire 40.000.

Ma tutti questi dissesti di Banche sono allarmanti! Di che parere siete Voi? Con-. viene pagare o non pagare?...

Scrivetemi subito, che nel caso verrei a Genova. Saluti, saluti, saluti.

Aff.mo G. Verdi.

Che cosa abbia risposto il De Amicis allo scabroso quesito non so. Se la grave materia avesse, consentito lo scherzo, avrebbe potuto rispondere come Sparafucile nel Rigoletto:

Una metà s'anticipa, 11 resto si poi...

Aggiungendo :

Ma non si sa quando ritomi a noi.

GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE 239

Merita un capitolo a la festa onomastica. Verdi pensava che la festa genetliaca si subisce; anzi ha da essere uno dei privilegiati fastidi dei sovrani, e sopratutto delle regine.

La festa onomastica invece va celebrata con solennità; tanto più quando, allo scadere del 19 marzo, si trova che l'anfitrione ha il bene di chiamarsi Giuseppe, e Giuseppina la moglie; Giuseppe il fidato amico di Genova; e come ciò non bastasse, ancora Giuseppe il maggiordomo; Giuseppina la seconda cameriera, ed altri parecchi Giuseppe nei coloni.

Or quanto ci tenesse il Maestro ogni anno alla celebrazione del San Giuseppe in Genova lo attesti la seguente lettera, che esordisce parlando d'idrofobia, ma poi s'intona tutta alla dolce serenità della festa.

Milano, 16 marzo 1892.

Caro De Amicis,

Sono arrivatx) ieri seni da Sant'Agata, e se roìi sono idrofobo è un miracolo ! ! Imma- ^nate tutta la giornata di domenica e tutta l'intera giornata di lunedì, imprigionato in casa per l'abbondanza della neve caduta. Auff I

E COSI non potremo essere a Genova pel San Giuseppe. È vero che un'altra volta abbiamo passato quel giorno a Savona; ma ei-avamo insieme. Ciò vuol dire che festeg- gieremo un secon lo San Giuseppe a Genova due e tre giorni dal nostro arrivo, che sarà lunedì sera, dopo le sei.

Vi mando i più eor.liali auguri per Peppina e pel vostro amico

G. Verdi.

Circa il fatto accennato da Verdi aver egli altra volta celebrato l'onomastico, non a Genova ma a Savona, torna a proposito ripro- durre la seguente di Edmondo De Amicis all'amatissimo cugino Giu- seppe:

Torino, aprile 1892.

Ti scrivo per dirti che t' ho inndiato amaramente, come un nemico, leggendo giorni sono sulla Gazzetta del Popolo di Torino che tu eri in compagnia di Verdi e deUa sua Signora il giorno che gli fecero la dimostrazione a Savona. Si chiama essere fortunati ! Basta, me ne rallegro con te e coi Savonesi.

Tu mi dici che aspetti una mia visita. Sai che son quasi tentato di fare una scappata per il puro e semplice gusto di abbracciarti, caro il mio Pippo? Son cinque mesi che lavoro con l'arco dell'osso; passare una giornata con te, che non potrei fermarmi a Genova di più, mi farebbe bene. C'è pericolo che in uno di questi giorni tu debba andar fuori'? Vorrei esserne av^'ertito.

Aspettando una tua parola, ti prego dire ai Coniugi Verdi che li ho sempre nella me- moria e nel cuore, con la più profonda reverenza e il più vivo affetto.

Mille saluti affettuosi, etc.

Il tuo Edmondo.

240 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

Non passava mai la ricorrenza onomastica a Genova senza che quel gruppo di Giuseppe non si ricambiasse calorosi auguri, fiori, statuette, quadri, dolciumi, oltre, s'intende, il pranzare assieme.

Ma un giorno onomastico fu specialmente rallegrato dal giun- gere di qualche cosa hors ligne, nell'epoca in cui il soggiorno ver- diano era ancora a palazzo Sauli.

Proprio inter pocula giunse a Verdi un biglietto per la posta, così concepito :

« A Giuseppe Verdi auguri di prosperità pari alla fama ».

Alessandro Manzoni.

Verdi ne fu straordinariamente commosso. Ma finito il pranzo il biglietto più non si trovava. Gli invitati erano parecchi, e il Mae- stro disse impaziente : « Chi ha fatto lo scherzo, la smetta! »

Nessuno ha osato scherzare! disse a tempo la signora Verdi, ritrovato il preziosissimo autografo: Eccolo! fra i nostri invitati non vi sono burloni, ladri.

È pur curioso a sapersi come, pei pranzi di speciali occasioni, come l'onomastico. Verdi che ci teneva a un ottimo dolce, per la tradizione, e pel gusto de' suoi invitati, più che pel proprio, andava egli stesso in piazza Soziglia ad intendersela coll'offelliere, perchè il dolce fosse proprio di bontà eccezionale.

Fra i doni della festa onomastica non posso a meno di citarne uno che per la sua grande preziosità, già divulgai; ma il tacerne in questo capitolo sarebbe grave lacuna.

Verdi teneva da circa mezzo secolo nella propria camera da letto, ch'era anche quella del famoso pianoforte Erard, una bellis- sima lampada, a dodici trasparenti, in cui erano raffigurati gli apostoli.

Al ricorrere dell'onomastico nel 1896 la coppia illustre ottuage- naria tolse dal solito posto l'artistica lampada e la mandò in dono al De Amicis, accompagnata da questo biglietto :

Genova, 19 marzo 3896.

Carissimo De Amicis, Vi mandiamo i 12 Apostoli, compagnia degna di Voi e che non vi disturberà per le troppe chiacchiere ! Fu per molti anni nella stanza di Verdi e questo ve la renderà forse più cara. Accettatela volentieri come ve la mandiamo, assieme a mille auguri di felicità da parte dei vostri affezionatissinii amici

GiTTSEPPE e Giuseppina Verdi.

L'anno seguente Verdi mandò, per la ricorrenza dell'onomastico, all'amico il più recente de' suoi ritratti in fotografìa, a formato grande, in elegante cornice e recante a spiccati caratteri una affet- tuosissima dedica. Fu quella l'ultima festa onomastica trascorsa ila quell'accolta simpatica di Giuseppe nell' appartamento di palazzo Boria.

Il 14 novembre 1897, la signora Giuseppina Verdi-Strepponi mo- riva a Villa Sant'Agata, in età d'anni 82, in seguito a polmonite, complicata coi gravi acciacchi dell'età.

In una delle ultime lettere scritte al De Amicis, la veneranda signora così si esprimeva : « La salute è uno dei beni preziosissimi

GIUSEPPE VERDI aiTADINO GENONTSE 241

della nostra vita mortale, e perciò l'auguro a tutti, e di preferenza a Voi, ed a quelli che amo.

« Io sto così così, ma me ne accontento, stante la mia età ».

Lettere che trovo nell'epistolario Verdi-De Amicis, a data no- vembre 1897 dicono lo strazio alla Villa donde s'erano effuse pel mondo tante ispirazioni dell'amore, della fede, del pensiero di patria f del sentimento cosmopolita.

Giuseppina Verdi-Strepponi.

Le prime lettere dopo la giornata funerea non sono di Verdi. L'ultima sua accennante alla moglie, diceva al De Amicis : « Peppina è tuttora a letto! Vi è però qualche miglioramento, e Dio voglia cessi presto quest'infame tosse ». Invece, venne la morte.

E mentre il cuore del Grande era spezzato, la nipote Verdi-Car- rara scriveva a De Amicis : « Lo zio non dice parola su quel che farà. Però, a sua quiete e conforto, la salute dello zio, malgrado lo strazio e lo sconforto morale, è abbastanza buona, e Lei, caro signor De Amicis, preghi Dio che conceda a Lui il balsamo della Pace e della Rassegnazione ».

Ricordo sempre quanto fosse il dolore del mio povero amico in quei tristi giorni, impedito dallaggravamento del male artritico di recarsi a Sant'Agata a confortare l'afflittissimo Maestro. Si portò invece a Milano, non appena questo vi giunse, dopo il Natale.

242 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

Ventotto giorni dopo la morte della moglie, Verdi dettò alla nipote la seguente lettera :

Sant'Agata, 12 dicembre 1897.

Caro De Amicis,

Mi jìesa molto lo scrivere, e scusate se non v'ho date da tempo mie notizie.

Incerto sempre se restare o partire, ho finalmente deciso fermarmi qui fin dopo le feste di Natale. Andrò dopo per qualche settimana a Milano, poi verrò per qualche giorno a Genova, e dopo?... Non so!... In avvenire non so se potrò continuare la mia dimora a Genova! In tale incertezza, credo bene rinunciare all'appartamento del Palazzo Boria.

È desolante dover abbandonare un paese che m'ha accolto tanto bene!

10 manderò prima della fine di quest'anno l'affitto dei sei mesi anticipati dell'anno venturo 1898, e se ciò è regolare, io lascierò l'appartamento libero all'ultimo di giugno!

Manderò a Voi da Milano una cambiale di L. 3500 per pagare l'affitto anticipato e Lire 1000 darete al Caffaro, per distribuirle come al solito, ai poveri.

La mia salute non è pessima, ma potrebbe esser migliore.

Ed ora addio ! Vogliatemi bene, che in questi tristissimi momenti il solo conforto che mi resta è l'amicizia dei pochi amici buoni e sinceri come Voi.

Aff.mo G. Verdi.

Qui seguiva però un poscritto di pugno del Maestro, che smen- tiva subito l'intenzione dell'abbandono dell'appartamento,

" P.S. Nello stato d'incertezza in cui mi trovo, potrebbe darsi (-he desiderassi restare a Genova... Ma il signor Masnada faccia pure gli affari suoi liberamente.

11 Maestro continuò difatti, nei tre anni di vita che ancor gli restavano, a conservare l'appartamento di piazza Principe. In com- pagnia della nipote riprese a passai-vi, se non tutto l'inverno e parte della primavera, varie settimane.

D'altronde, le cure per l'allestimento della Gasa di riposo dei Musicisti, l'obbligavano a restare più sovente a Milano.

Cogli amici, e specialmente quello di Genova, aveva espresso il voto che, perdurandogli ancora lunga vita, gli fosse dato di vedere già in funzione quella pia casa dove i figli dell'arte, cui già atterriva il pensiero della derelitta vecchiezza, avrebbero sollevato lo spirito depresso.

Pel resto, il nostro concittadino d'elezione continuò nelle tradi- zionali abitudini. Tornò nell'estate a recarsi alle Terme di Monte- catini, dove, da circa dieci anni, l'aveva tratto, al pari della moglie, l'esempio del De Amicis. Questi però da parecchio tempo aveva smessa questa cura, e Verdi per ritentarlo, gli scriveva, a data 2 ago- sto 1897 : « Montecatini è in progresso. La locanda serve bene ed i nuovi locali sono bellissimi. Teatro, anzi teatri, due. Le solite pas- seggiate ed a momenti la funicolare. Avete fatto male a non farvi una scappata ».

Ripartendo per le Terme nell'estate del seguente anno, Verdi scriveva al De Amicis : « So che il dottore Bellagamba non approva questa cura per me. Ma io non farò cura; il soggiorno di Monteca- tini mi servirà per passare il tempo. Tutt'al più beverò un po' di

GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE 243

Tettuccio, che dicono sciolga il catarro, e beverò la sera anche del Rinfresco, che è buonissimo e diuretico ».

Come si vede, anche il grande Maestro aveva le sue contraddi- zioni: faceva la cura di Montecatini... a scartamento ridotto.

Ma, a proposito di Montecatini, non dimentichi l'arte che si decise deirO/e//o. Tutti attendevano, dopo tre lustri di silenzio .ope- ristico, che Verdi non si fermasse aìVAida. Sapevasi solo che Boito aveva da tempo consegnato il libretto di Otello.

Il musicista continuava a indugiarsi. Il pubblico milanese chie- deva per sottoscrizione al signore dell'armonia di decidersi a dare alla Scala l'opera tanto attesa. A Montecatini Verdi incaricò De Amicis di chiedere, con tutta riserva, al dottore Fedele Fedeli di esa- minarlo bene e giudicare se il cuore avrebbe saputo reggere alla grande fatica d'un nuovo spartito, di cui la mente aveva già com- piuta la creazione, ma la fibra doveva sopportare l'immane lavoro effettivo.

Il direttore delle Terme fece coscienziosamente l'esame diagno- stico, e giudicò che Verdi poteva scrivere l'Otello. Anzi aggiunse : « Ed altre opere ancora ».

Nel maggio del 1900 Genova vide ancora una volta il suo grande concittadino d'onore in un apparente benessere. Fu al ristorante del Righi col De Amicis, e un sacerdote, e illustre predicatore, il padre Domenico Conti da Imola, volle complimentarlo.

Io disse al Maestro presentandosi sono autore di quella conferenza sulla Musica in rapporto con la divinità, che stampata poi in opuscolo, le inviai in omaggio, ed Ella vi fece tosto cortese riscontro.

Ricordo benissimo rispose Verdi, lessi, e le rinnovo i miei rallegramenti sinceri.

Ed io soggiunse il Conti mi felicito con Lei di trovarla in florido aspetto.

Lo stomaco disse Verdi, accennando alla portata che gli stava dinanzi mi serve ancor bene; ma le gambe si ribellano. Però, a quasi 87 anni non ho diritto di lagnarmi.

Maestro, vediamo di superare i cento! conclude il distinto sacerdote e musicista, congedandosi.

All'indomani il Maestro partì per Sant'Agata. Ritornò a Genova in settembre per affari finanziari, ma quattro mesi dalla partenza nel maggio erano bastati a ridurlo così male, che il De Amicis, al vederselo giungere inaspettatamente all'abitazione di via Balbi, dopo essere stato sorretto di peso per le scale dal portiere e dal servo, ne provò uno schianto e rimproverò l'amico di non averlo preavvisato di tale arrivo.

Vengo per affari, disse il Maestro e questi non ammet- tono indugio.

Uscirono da a poco, per recarsi alia Banca e dal cambiavalute Bonguadagno. In vettura parlarono anche di musica. Quegli che di recente aveva musicate le « Laudi alla Vergine », disse avere con- cepita l'idea, averla mai abbandonata, di musicare la Preghiera della Regina Margherita per la morte di Re Umberto.

244 GIUSEPPE VERDI CITTADINO GENOVESE

Alla stazione pranzarono assieme; quindi s'avviarono al treno che doveva condurre Verdi a Milano, accompagnato dal fido servo Giuseppe. Qui Verdi e De Amicis si scambiarono abbracci e baci affettuosi :

Perdonatemi disse il maestro dei tanti fastidi che vi ho dati!

L'altro protestò. Il treno stava per partire. Verdi porse ancora la mano al De Amicis, e in quell'ultima stretta disse con estrema commozione: « Non ci rivedremo più; non vedrò più Genova! »

Al riavvicinarsi però della data in cui egli soleva tornarvi, parve da una sua lettera che in lui fosse rinata la speranza del ritorno. La lettera, recante la data 7 dicembre 1900, era fatta 'di tristezza, ma non concludeva nella disperazione, come altra successiva che, per singolarissimo caso, ripetè quanto era già detto nella precedente, ma nella chiusa risolvevasi in senso decisamente pessimista.

Ecco la lettera datata da Milano 7 dicei^nbre :

Milano, 7 dicembre.

Caro De Amicis, Sono da due giorni a Milano, ma mi fermerò qui qualdie settiiniiiii. ini p / per affari, un po' per abitudine, ed anche un po' pe oziai-e. Più tardi verrò a (Iciiova.

intanto vi i-ingrazio e vi faccio le mie scuse, per tutte le noie che continuauieiite vi l'eco.

Di me poco a dirvi. La mia salute come al solito. I medici non dicono che sono auima- lato, ma intanto tutto mi affatica: non posso leggere, non scrivere, vedo jtoco. sento meno, e sopratutto le gandje non mi poi-tano quasi più.

Ah se avessi le gambe buone, sarei ancora felice, e jìasserei bene il mio tempo senza . aunoiarmi ! !

Addio, a l'ivedei'ci e ancora gi'azie.

Aff.mo G. Verdi.

L'altra identica lettera, invece, datata dalla fine di quell'anno, dopo aver accennato all'esaurimento delle forze, concludevasi con queste disperate paiole : « Che resalo più a fare a questo mondol »

Quale frase in Lui che aveva, e di piena ragione, tanto amat-a la vita!

Ricordo un giorno del novembre 1881. Il Maestro, a me ed altri in sua casa, aveva mostrato un prezioso mobile, giuntogli dall'Egitto, in cui spiccavano iscrizioni per noi indecifrabili.

Qui leggesi « Celeste Aida » ci disse il Maestro. Quindi, segnando altre cifre, aggiunse: Qui mi si augura lunga vita, e di tutto cuore aggradisco l'augurio!

Al 27 gennaio 1901 la grande anima di Giuseppe Verdi lasciò la terra! A questa rimasero le melodie immortali e gli esempi d'una vita austera, gloriosa, benefica, patriottica e cristiana; tale afferma- tasi nel testamento, volendo a scorta della bara la croce, il sacer- dote, e il mistico cero che dice : Fiamma di fede che non si esUngue!

Ferdinando Resasco.

ARTISTI MODERNI

GIUSEPPE CAROZZI

Una delle mostre collettive nel- l'ultima Esposizione artistica di Ve- nezia era dedicata al pittore Giu- seppe Garozzi. Parlandone nella Nuova Antologia il De Benedetti ri- cordò i nomi di Fontanesi e di Se- gantini come i due maestri dai qua- li Giuseppe Garozzi deriva la sua arte. Del resto questo pittore lom- bardo è ormai, fra i moderni ar- tisti italiani, uno dei più noti e dei più discussi. Il suo contributo è oggi cercato e approvato in tutte le più importanti manifestazioni arti- stiche dell'estero: i suoi quadri fi- gurano nelle grandi gallerie moder- ne d'Europa; quanti conoscono e seguono con amore le vicende del- l'arte italiana, e non ignorano gli sforzi dei nostri pittori per non es- sere da meno dei loro colleghi stra- nieri nel rinnovamento della tec- nica, sanno che Giuseppe Garozzi è oggi uno dei più audaci e coscienziosi cercatori degli effetti di luce e di aria. Non si tratta dunque di scoprire un artista nuovo; così che il mio assunto si limita semplicemente ad accennare all'opera varia e geniale di uno che è giunto oramai alla piena maturità e che non ha più bisogno di presentazione.

Giuseppe Garozzi è diventato pittore a Torino in circostanze un po' strane. La vocazione si svegliò ad un tratto nella sua anima gio- vanile. Da Milano, dove aveva fatto gli studi classici, era stato man- dato a Torino all'università. Volevano fame un avvocato ed il fu- turo artista s'era iscritto nel corso di giurisprudenza. Ma il suo spi- rito divagava. Le questioni giuridiche non lo seducevano : anzi, lo annoiavano. Egli cercava qualche cosa che gli pareva di sentire in o fuori di ma che non sapeva ancora definire, quando un giorno, visitando il Museo d'Arte di Torino, si trovò dinanzi ad uno di quei paesaggi del Fontanesi che sono così pieni di verità e di suggestione poetica, e n'ebbe un'impressione quasi violenta.

Giuseppe Carozszi.

Contro sole (Vallese). Esposizione Internazionale di Venezia 1912.

I fiori deìla neve. Esposizione Internazionale di Venezia 1907.

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Il giorno dopo dovette tornare a rivedere il quadro. E poi non si liberò più da quell'estasi. Il fuoco che il Fontanesi aveva acceso nella sua anima divampava. Il giovine studente di giurisprudenza dimenticò l'Università e le leggi e passava le sue giornate presso quel quadro, fino a che gli sembrò di averne assorbita la luce e l'es- senza e comprese tutta la dolcezza e l'armonia di quelle linee, di quei colori, di quelle ombre.

Il Carezzi aveva trovato il suo maestro e la sua via. Il paesaggio lo aveva attratto, non per la bellezza naturale, ma per lo spirito che il Fontanesi vi aveva diffuso.

L'anima del giovine comunicò allora con quella del maestro, e, come se ne ascoltasse la viva voce, parve all'iniziato che il grande mistero delle valli e dei monti, delle acque mormoranti e degli al- beri in fiore, gli fosse sommessamente scoperto. Egli si pose allora allo studio del disegno e della pittura con tutto l'ardore che la rive- lazione del mistero aveva messo nelle sue vene. Quando tornò a Milano, dovette confessare la trasformazione che era avvenuta nella sua vita. «Non sarò più un avvocato egli disse candidamente sarò un paesista! »

A Milano il Garozzi trovò due veri maestri : Leonardi Bazzaro e Filippo Garcano. Quando sarà venuto il momento di riassumere la storia dell'arte del tempo nostro, questi due generosi signori del colore, che per lunghi anni dovettero sostenere le più aspre bat- taglie, appariranno fra le più belle e più pure glorie della pittura lombarda. Il Bazzaro, il poeta delle scene chioggiotte, rappresentò nell'educazione artistica del Garozzi il momento delle sensazioni de- licate, dei contrasti tenui, della preponderanza malinconica. E quando il giovine pittore cominciò a sentire nel paese una nota vi- brante, più acuta, e a cercare gli ardimenti delle tonalità maggiori, ebbe pure gl'incoraggiamenti e la guida del Garcano.

«... In arte scriveva il Garozzi nel 1894 in una lettera pubbli- cata a Venezia da Alessandro Stella il dubbio è costante : alle spe- ranze succedono gli sconforti, ed in questi ultimi anni ho sentito il bisogno di un amico sincero e dei consigli di un artista grande. Ho trovato l'uno e l'altro in Filippo Garcano, che senza mai far violenza alle mie aspirazioni, tra una tazza di caffè ed un frizzo, mi ha messo a parte di certe sue convinzioni, che sono frutto di molte battaglie d'arte comba,ttute e vinte da vero eroe : il nobile interessamento e la cara amicizia, della quale si compiace onorarmi, tengono in me viva la speranza che potrò in arte fare quello che sento ».

In questa frase « fare quello che sento » è tutta la nobiltà del temperamento artistico.

Dieci o dodici anni fa il pittore Garozzi sentiva assai diversa- mente da oggi. Era idilliaco e dipingeva, dirò così, in tono minore. Ma il romanticismo lo portò presto alla sensazione di una realtà pit- torica bizzarra. Ghe c'è di più romantico della notte e della luna? Eppure la riproduzione di una scena notturna, presa dal vero, o.di un effetto di luna, visto nella realtà, trasporta l'artista coscienzioso in un campo che non è più solamente romantico. Giuseppe Garozzi è appunto un artista che ha saputo presto superare il romanticismo studiando dal vero le notti e gli effetti lunari.

Per parecchi anni egli si ostinò con grande passione in questa ricerca d'ombre e di chiarori e i suoi « Notturni » diventarono presto

Nuova Antologia, 16 settembre 1913.

SuWAlpe di Flix (Grigioni). Esposizione di Veneeia, 1912

Ottobre (Savoiay. Esposizione di Venezia, 1912.

Vecchia fontana sotto la luna. Esposizione di Venezia 1905.

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L'Incantatore {Cervino). Esposizione di Venezia, 1912^

Il Furggengrat. Esposizione di Venezia, 1912.

La catena del Mischabel (Zermatt). Esposizione di Venezia, 1912.

Eitnrnn all'Alpe. Esposizione Internazionale di Buenos-Ayres.

ARTISTI MODERNI 249

famosi nei crocchi artistici milanesi. Nelle esposizioni di Brera o del Palazzo della Permanente era atteso il nuovo quadro in cui il Garozzi rivelava i misteri della squallida notte, con cani e gatti vaganti nelle vie scure e deserte, ed ogni anno egli rispondeva trionfalmente alla aspettazione, tanto che per voto concorde degli artisti ad uno de' suoi « Notturni » fu assegnato il massimo premio. Quell'incessante tor- mento del raccogliere e del gettare sulla tela l'immagine delle te- nebre agguerrì il pittare così nello studio positivo della luce come nella tecnica e lo preparò ad affrontare, più tardi, gli altissimi toni delle nevi immacolate sotto la sferza del sole.

Di quel primo periodo risente il delizioso quadro. Vecchia fon- tana sotto la luna, esposto a Venezia nel 1905 e acquistato dall'on. Ba- ragiola. È ancora una scena notturna, ma l'artista s'è già elevato nella montagna, a circa mille metri, nella Val Bregaglia. È una notte fresca, di settembre, vi spiccano le tonalità diverse del bianco, sotto i colpi di luna, nei contrasti armoniosi fra le lucentezze del tetto, che pare coperto di lastre di mica, e le sponde della fontana bagnate dall'acqua e la bianca testa pensosa della vecchia col secchio.

Uha stessa ispirazione melodica, con la poesia della montagna, del bianco e della luna mancante, si ritrovano nelle Voci del vespero, apparse all'Esposizione di Venezia del 1910, custodite ora nella gal- leria della signora Teresa Schock. Qui il pittore è salito a duemila metri, nelle Alpi della Maloja, e il quadro, pur rimanendo profon- damente romantico, presenta una solidità di fondo e un equilibrio, che rivelano la forza e lo studio del realista. Così il Ritomo alVAlpe, che descrive una delle scene più solenni, semplici e primitive, della pastorizia nel vasto e severo panorama di montagna (un quadro che fu all'Esposizione di Buenos Ayres e rimase in America) riunisce e confonde il carattere sentimentale e realistico in un poema di luce, d'aria, di colori, di linee, che ricorda Segantini.

Il Garozzi, in verità, studiò amorosamente il Segantini e ne seguì le orme, cercando i luoghi dove il Segantini aveva dipinto, il che ci è rivelato da una delle opere più ispirate e più armoniose del Garozzi, che è intitolata Commiato al sole: un quadro di circa due metri, che fu accolto nella mostra internazionale di Monaco di Ba- viera del 1909 e vi ottenne la medaglia d'oro. In quell'occasione i cri- tici tedeschi s'accórsero delle nuove tendenze dell'arte italiana e un illustre uomo di Stato ungherese, Andrassy, amicissimo dell'Italia, volle acquistare il quadro del Garozzi per la sua galleria privata. Lo stesso quadro, con alcune varianti, cioè con la valle nevosa in luogo del pascolo verde, venne esposto a Venezia e suscitò una viva ammi- razione fra tutti i segantiniani, poiché la scena riproduceva fedel- mente quel paese di Savognin, nell'Engadina, dove il Segantini era rimasto dieci anni in contemplazione del fascino dell'alta montagna. Nel quadro del Garozzi si mostra appunto, in un tramonto d'ottobre, il dorso nevoso che tanto piacque al Segantini; il Pizz d'Err, che di- vide la valle di Sursett da Saint Moritz. Allo stesso paese di Savognin appartiene l'altra scena dipinta dal Garozzi, col titolò di Fiori della neve, esposta a Venezia nel 1907 e acquistata dall'Hoockins, dove lo sfondo nevoso è tutto illuminato dal sole di dicembre, mentre il villaggio è animato da due ragazzi che si fanno trascinare dalle pic- cole slitte rudimentali in un'atmosfera pura e chiarissima.

17 Voi. CLXVII. Serie V 16 settembre 1913.

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Non dissimili, ma più audaci nella ricerca dei toni e più rea- listiche, sono le opere che il Garozzi ha raccolte nella sala a lui dedi- cata nell'Esposizione biennale di Venezia dello scorso anno. In questa sala, oltre ad un luminosissimo Mattino sul Breithorn e ad uno studio di tinte brune, intitolato Stagno, preso da quel Delfinato, che diede i motivi pittorici ai capolavori del Corot e del Delacroix; oltre ad un bozzetto del quadro Fra V eriche e i mirtilli e ad un Notturno (una magnifica scena suggestiva, colta dal vero, a 3000 metri, con le montagne che specchiano di notte in un lago alpino le cime can- dide e i ghiacciai) il Garozzi mostrava tutta la sua forza interpreta- tiva della bellezza alpestre in alcuni qucidri che racchiudevano al- trettanti poemi dell'alta montagna, ai quali serviva come di preludio un Ottobre in Savoia, coi pioppi sorgenti in forme bizzarre presso la strada ancora bagnata dalle pioggie recenti. Era questo il paesaggio che avevano visto Daubigny, Gorot, Dupré, e dal quale era partito il Garozzi per il volo più audace, in montibus altis. Ed ecco una scena tutta soleggiata, a ottocento metri, nel Vallese, nel paese di Saviesse, che s'intitola Contro sole: un quadro che i pittori chiamano « Brillante di colore » e che riproduce tutta la festività del sole otto- brino in un paese alpestre. Poi, con VAlpe di Flix, che è forse una delle più delicate e più profonde sinfonie alpestri, siamo a duemila metri, sopra un altipiano dei Grigioni, fra i ricchi pascoli, umidi e verdi, dove vanno i greggi quando le nevi si sciolgono. La guida- trice del gregge, tornando dal pascolo, si disseta all'abbeveratoio che è fatto d'un tronco d'abete dove la fontana versa da un cannello l'acqua purissima. Il temporale è nell'aria e la sera si diffonde sul monte.

Tutta la forte e strana poesia del Gervino è nelle due tele L'In- cantatore e II Furggengrat, poiché incantatore è il gran masso del Gervino, somigliante ad un dente colossale, e il Furggengrat ne con- tinua la base. La figurazione del Garozzi ci l'impressione solida, solenne, eterna della realtà. Il quadro che rappresenta la piramide del Gervino, come appare verso sera, cinto di nuvolette rosate, è mi- rabilmente costrutto, massiccio, pieno di vita e di poesia pro- fonda. Gosì veramente si mostra il gigante che nel giorno sembra animato da una bonaria gaiezza e poi a grado a grado, mentre il sole tramonta, si copre di rughe, diventa aspro, s'irrigidisce, e in ultimo, nell'ombra della sera, par che minacci con tutta la sua ter- ribile mole.

Ma nelle due visioni delle montagne sopra Zermat, nella Notrti Dame des neiges e nella Catena del Mischabel, si riassume e le sue più alte vibrazioni l'arte del Garozzi. Qui l'anima del poeta canta e il pittore esprime tutta la sua potenza rappresentativa. Questi due lavori, che hanno meritata la più larga ammirazione dei visita- tori dell'ultima esposizione veneziana, contengono tali pregi d'ispi- razione e di fattura da farli annoverare fra le più nobili manifesta- zioni della pittura lombarda del nostro tempo. Notre Dame des neiges è un quadro di dimensioni modeste, notevole per la colorazione della neve e per i contrasti. Nel lago si specchia un piccolo oratorio soli- tario. È il luogo dove sono trasportate le vittime frequenti dell'alpi-

ARTISTI MODERNI 261

nismo, poiché le cime che si vedono nello sfondo sono fra le più insidiose. La Catena del Mischabel, una grande tela di più di due metri, è una serie massiccia di vette a 4000 metri, riflesse in un breve e misterioso stagno montano. L'ora ha la grandiosità di un tramonto caldo, rapidissimo, che bacia le nevi immacolate e le accende im- provvisamente : così tutte le punte ardono, nell'aria soffice, d'una fiamma pura come l'oro. È il fuoco del sole diffuso sul candore delle cime che il pittore ha trascritto in note superbe nel suo quadro, e la scena rende la sublimità tragica della vetta:

...la vetta immacolata che dona, superba innamorata, al sole d'oro, suo superbo amante ;

come canta uno sfortunato poeta lombardo.

Il Carozzi, viaggiando fuori d'Italia (egli ha esposto, con molta lode, i suoi lavori a Monaco di Baviera, a Copenaghen e altrove) e frequentando la sera a Milano il circolo deìVOrologrio, presieduto dal Carcano, assistè a tutte le discussioni che si sono fatte in questi ultimi anni intomo alle novità della tecnica nella pittura. Il pleiji air, gl'insegnamenti del Ruskin, l'esempio dei pittori francesi del 1830, i successi di Eugenio Delacroix, il divisionismo, il puntinismo, la pittura filamentosa del Previati, formavano l'argomento serale delle conversazioni del Carcano, ch'era stato egli stesso un innova- tore della tecnica e che per il suo amore di verità, di aria e di luce, aveva dovuto sostenere le più fiere lotte contro gli accademici e contro i tradizionalisti. Queste discussioni incoraggiarono il Carozzi a meditare sempre più sui problemi della luce e dell'aria, tanto più ch'egli si sentiva spinto alla ricerca di una tecnica tutta sua. La spinta gli era venuta dal Fontanesi, ch'egli continuava a studiare con rinnovato ardore, e poi, visitando il paese che aveva ispirato i pittori del 1830, ebbe modo di approfondire coscienziosamente, spe- rimentalmente, le più importanti conquiste della luminosità, fino a che gli sembrò di aver superati tutti gli ostacoli e di conoscere il se- greto dell'arte de' veri grandi maestri. Dopo anni ed anni di espe- rienze e di studi, passando i lunghi inverni fra le nevi, in cospetto delle Alpi, come il Segantini, egli ormai aveva fissato il suo metodo e nelle sue nuove tele si mostrava il signore della luce e dell'aria, co- gliendo e trasportando nei colori gli effetti più vari, i momenti quasi inafferrabili, le sfumature più delicate, dalle ultime fosfore- scenze del giorno allo sfolgorio dorato di una cresta alpina affocata dal sole. Questa particolare tecnica del Carozzi, fondata specialmente sull'impressione che producono i colori complementari, ammette la pennellata grassa e copiosa, che rilievo e solidità alla pittura. Ma non è il caso d'insistere sopra simili particolarità : dirò soltanto che il Barbantini in un suo giudizio sulla tecnica del Carozzi la indicava nei seguenti caratteri principali : tavolozza composta di colori sem- plici; 2** esaltazione delle materie colorate con l'avvicinamento dei complementari; pennellata grande e plastica.

262 ARTISTI MODERNI

Così, considerando la produzione ormai nota di questo insigne paesista lombardo nelle sue diverse fasi e ne' suoi principali docu- menti, i dati più salienti della pittura di Giuseppe Garozzi sono :

La solida costruzione del quadro;

L'equilibrio del taglio, in modo che la scena non pesi più dall'una che dall'altra parte;

Un curioso dualismo fra le tele di carattere oggettivo, im- prontate direttamente al vero, e quelle, diremo così, poetiche, fatte per forza d'evocazione, nelle quali meglio si rivela il temperamento dell'artista;

Uno studio ostinato per ottenere la trasparenza e la lumino- sità nei toni più bassi, mediante la divisione dei colori opposti, però senza formule ricettarle e con metodi spontanei;

Una tecnica personale che ha per risultato la riproduzione suggestiva del vero.

Gerto è che nessun artista meglio di lui ha amata e compresa la bellezza pura e vera delle Alpi. Le sue vette e i suoi ghiacciai danno l'impressione solenne dello spirito delle montagne. Ricordate i versi di Gabriele d'Annunzio?

O Montagne immortali non parla nel vano silenzio

delle cose ignorate

il vostro Spirto? Ascolta l'anima mia se non giunga i

un messaggio.

Il messaggio giunge dai picchi nevosi, dalle rupi nude, dalle conche erbose, dalle ombre che scendono sulle valli lontane, dallo luci che si diffondono sui fianchi della montagna e si rispecchiano negli alti laghi silenziosi; è la sinfonia vasta come il cielo, pro- fonda come l'eternità, ricca di toni e di misteriosi accordi, che l'arte di Giuseppe Garozzi ha saputo cogliere e trasfondere nelle sue tele.

Giovanni Bistolfi.

RIZPAH

POEMETTO DI ALFRED TENNYSON

Ulula nella notte il vento insonne alto sul mare e sulla duna, e lungi la voce del mio bimbo odo chiamare... Willy, perchè mi chiami? ahimè, lo sai, venir non posso; splendono le dune bianche di neve sotto il plenilunio. Amore, ci vedrebbero le scolte della città. Per noi, le notti nere e le pioggie croscianti sulla duna, senza riposo, nell'oscurità, quando non scorgo la mia mano, e sola la catena stridendo mi conduce nel mio viaggio doloroso.

Ancora? che cosa cade ancora? non ce n'era nessuna, più; che le ho contate, e tutte nascoste... le ossa del mio bimbo... tutte. Che cosa dico?... e voi chi siete? forse una spia?... cosa cade? o niente, niente, l'albero cade, l'albero abbattuto...

Chi l'ha lasciata entrare sino a me? da molto tempo siete qua? che cosa udiste?... così zitta, che volete? Ah!... pregare con me!... buona signora, mi perdonate!... la notte m'ingombra il cuore, e le pupille già m'appanna.

Ah, voi!... ma cosi dolce fu la vita a voi! come saper potreste, come voi potreste conoscer la vetgogna, il gelo acuto del dolor, la punta

254 RIZPAH

del terrore?... Ma no, voi dormivate quand'io raminga andavo; il giorno chiaro sol è per voi... ma nella notte andavo l'ossa adunando del mio figlio... l'ossa...

Che dite? No, signora, io vi son grata ' d'esser venuta, che son vecchia, e muoio. Grazie; ma del mio figlio, o, non parlate male! è un'ora di vita che mi avanza... Pria che morisse io lo baciai, in prigione. « Dissero ch'io non avrei cuore a farlo » mi confidò, mai mi fu bugiardo, e un lontano lo frustai fanciullo per le mele dell'orto, e mi diceva : « m'ha sfidato a rubarle, l'ortolano ». Così vivace!... pigro? o no, che in ozio non potea stare, tanto era inquieto, in moto sempre... il Re poteva farne il più fedele, il suo miglior soldato!

Ma aveva dei compagni, l'infelice, che non volevan ch'egli fosse buono... Dissero : a svaligiare la vettura postale, no, non avresti coraggio! Giurò di sì, che l'avrebbe... nessuno uccise... no, prese una borsa sola, e la scagliò nel crocchio dei compagni! « Non ne voglio per me » disse mio figlio.

Andai dinanzi al .giudice, a contare tutta la verità... ma l'han voluto ammazzare. Assalì la diligenza! Impiccato! Un esempio! e la famiglia era onorata... Impiccato per ladro! Oh vergogna! Silenzio, nascondetelo! È vergogna bastante... no, l'han messo alto così sopra le dune, che tutte le navi della terra a lui volgon lo sguardo, nel passare al largo... Il nero corvo dell'inferno e i foschi uccelli della notte perdonati in presenza di Dio si libreranno, ma non l'anima nera di colui *che impiccò sulle dune il mio figliolo.

RIZPAH 255

Il carceriere abbreviò gli addii... Chiusa la porta, io me'n partiva.

« Mamma! » gridò. Mi volsi per tornare. È tardi!... mi spingono, non voglion ch'io riveda il figlio mio che aveva ancora in cuore una parola, ch'io non saprò mai... Quel grido, sempre da quel mi suona all'orecchio... Mi han presa e imprigionata, e « Mamma » sempre mi sussurra in cuore la voce di Willy... m'hanno battuta, ma la voce mi mormora pur sempre la dolcissima sillaba dei bimbi... Alfin, divenni stupida, smarrita... Mi lasciarono, allora, in libertà.

Il sangue del mio sangue era perduto; l'ossa dell'ossa mie sono rimase.

10 le sottrassi ai giudici, le presi

per me... signora, è questo un furto, dite!

11 bimbo mio! L'ossa che m'han succhiato la vita... che hanno pianto ed hanno riso con me! di loro? no, son mie, che ancora qui nel grembo le sento trasalire...

No, non ebbi paura; erano sue! Le .adunai, le baciai, le seppellii,

non posso scavar fondo, sono vecchia nel chiostro della chiesa, a tarda notte. Intero Willy mio risorgerà

quando la tromba del giudizio suona. Ma vi scongiuro, non dite, signora, a ninno ch'è sepolto in terra santa...

Se lo sanno, riscavano, ed ancora appendon l'ossa al ramo maledetto. ... Peccato? sì, siam peccatori tutti, ma leggete, leggete il libro santo... « Pieno di grazia © di bontà, il Signore, dice il Libro, perchè molto soffrì ». Nato è il giudice solo per uccidere; vive per benedire Iddio Signore. Ei non condannerà che il più malvagio, tristo fra i tristi... e i primi saran gli ultimi, (l'ho udito in Chiesa) e gli ultimi fra i primi. Tanto ha sofferto, come vuole Iddio, per anni ed anni, tra le nevi e il vento!.,.

266 RIZPAH

V'hanno detto? che cosa? che non s'è pentito del delitto? e che ne sanno loro? Son forse la sua madre, e voi siete parente forse? avete forse udito voi, quando si addensa il cielo sulle dune oscurate, il lamentoso .grido del vento, e il gemito del mare che son la voce del mio bimbo, in pianto?

Ah, sì, gli Eletti e i Reprobi, lo so... Ma stanotte io raggiungerò il mio bimbo, ed all'inferno non lo troverò. Il Signore ha pietà di me, che tutto diedi per il mio bimbo, ed Egli vuole ch'io sappia ch'Ei non l'abbandona, e che felici presto noi saremo, insieme.

Ma voi... sembra che sol di me v'importi... Salvar l'anima mia! ma se mio figlio fosse dal Cielo condannato al fuoco eterno, dite, e che m'importerebbe la salvezza dell'anima per me? andate, andate, voi non siete madre... Siete una pietra, non avete cuore...

Perdono!... perdonatemi, son pazza! voi volete, mi pare, esser gentile... perdono!... il vento piange e la sua voce piange nel vento, e chiama; e nessun'altra voce riesco ad ascoltare... 0 Dio! Sol nell'oscurità solea chiamarmi Willy, ed ora, nel lume della luna sopra la neve tinta di splendore... Ecco, ascoltate... la sua voce viene non dalla forca più, ma dalla Chiesa... Ascoltate... com'essa s'avvicina... Scuote le mura... celasi la luna... Io vado; ei chiama! io corro; ei chiama! Addio!

Attilio Rinieri De Rocchi

tradusse.

IL TEMPO DELLA PRIMA CISALPINA

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

CON DOCUMENTI INEDITI D'ARCHIVIO

I.

Veduta a un secolo di distanza, a traverso i documenti sincroni, l'invasione francese del 1796 e la repubblica Cisalpina che ne fu la conseguenza più importante e più immediata, appaiono come una carnevalata melodrammatica a spunti tragici, e come una pa- rodia della grande e sanguinosa rivoluzione.

Il rombo dei rivoluzionarii d'oltralpe si era affiochito attraverso le voci dei filosofi italiani imbevuti dei principi degli enciclopedisti francesi che inconsciamente prepararono la rivoluzione dell'ottan- tanove, poiché gli italiani erano dei francesi ben altrimenti prepa- rati, dalla vetusta tradizione democratica, ad accogliere la Libertà col corteo della Eguaglianza e della Fratellanza. L'uragano che in Francia aveva sconvolto l'ordinamento sociale, da noi si era mutato in un colpo di vento che aveva soltanto e per un momento get- tato lo scompiglio più alla superfìcie che nell'intima costituzione di esso. Un colpo di vento... un breve turbine che aveva raccolti uo- mini d'ingegno, ambiziosi e audaci fra la borghesia e fra il popolo e li aveva abburattati con gli ex-aristocratici nel governo della cosa pubblica : spezzate deboli e malferme barriere e date persone e pensieri in balìa a una più ampia libertà : sciolti i lacci di velluto e seta che trattenevano nelle loro case le donne patrizie come le borghesi e spinte nella vita fremente all'aperto senza più i ceppi della tradizione e dell'etichetta : cacciato dall'alcova e dal salotto e gettato sulla piazza il cavalier servente : dispersa la cipria e i nei delle signore, fatte volar via le parrucche inanellate : chiusi i parla- tori delle monache già minacciati da Giuseppe II anche nelle Pro- vincie italiane dell'Impero e trasportate le loro eleganti feste car- nascialesche nei tripudi sguaiati dei quadrivi e delle piazze... Era un colpo di vento che portava via cose tenui, non un uragano che abbatteva e devastava.

Per la profonda diversità dell'ambiente, la ripercussione in Italia dei tragici avvenimenti della Francia, fu di sorpresa, non di terrore. Per la diversa condizione degli animi, gli esaltati dalle idee nuove dovettero gonfiare i fatti e gli incidenti più meschini

268 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

per mascherarli... di atrocità. Non ci fu l'orribile, ci fu il grottesco. Non si ebbero atteggiamenti tragici, ma scimiottando i modi e i mozzi della tragedia, si aTrivò, senz'avvedersi, alla parodia. Gli animi e le tendenze non si mutarono anche se si ebbe in ap- parenza un diverso indirizzo nelle idee. Tanto è vero che i rap- porti segreti della polizia, interrogata dalle autorità governative, sullo stato dello spirito pubblico, non nascondono affatto l'indiffe- renza e la tenue ma sorda ostilità dei cisalpini al confusionismo deleterio e all'arruffìo pregiudicevole dei nuovi ordinamenti. Lo stesso Bonaparte che intuiva mirabilmente il sentimento pubblico scriveva al Direttorio francese : « Sopra venti lombardi appena uno è propizio al nuovo ordine di cose ». Le manifestazioni pub- bliche, raramente spontanee: gii entusiasmi di pochi figli esaltati non lo illudevano come illudevano Madame de Remusat, la quale vedeva una «Italie envahie et reconnaissante ». I Cisalpini, se li avessero lasciati fare liberamente, avrebbero manifestata la loro riconoscenza in una maniera ben singolare anche non volendo considerare come legittima loro emanazione le manifestazioni rea- zionarie — parodie scioane dovute a sedimenti austriacanti in pochi animi esacerbati.

Lo stato d'animo dei Cisalpini lo si comprende facilmente. Non avevano in casa loro privilegi insultanti di casta, barriere sociali ingiuste e infrangibili! Se c'erano ingiustizie e non mancavano erano commesse da un Governo straniero... E il nuovo Governo del pari straniero non dava affidamento di essere sostanzial- mente — migliore di quello fatto fuggire oltre la chiusa dell'Adige. Imponeva gravose requisizioni, esigeva prestiti forzati, predava nei Musei e nelle Gallerie lavori d'arte preziosissimi come si usa con un popolo vinto e curvato a implorar pietà dalla ferrea mano del vincitore, e non come si dovrebbe usare con un popolo che si pre- tende di aver sottratto al dominio straniero e restituito sebbene non richiesto a libertà politica. L'antico Governo, poi, da tempo conformatosi all'ambiente e alle tradizioni, non aveva creati pri- vilegi tali da produrre profondi e insanabili* odi di classe e di casta. Quindi l'esercito così detto « liberatore » non aveva potuto sommuovere i diversi stati sociali e lanciarli gli uni contro gli altri ebbri di livore, bramosi di vendetta, assetati di una speciale giustizi-n quella della rivincita che confina coll'ingiustizia violenta rigurgito d'animosità fermentate in secoli di schiavitù. L'esercito « liberatore » col conseguente nuovo impulso sociale, in Milano e nella Lombardia sollevò assai più l'entusiasmo dei non Cisalpini. I quali entrarono nelle provincie invase al seguito delle truppe di Bonaparte provenendo da province italiane dove la libertà di pen- siero e di opera era assai più limitata che non lo fosse in Lombardia. Comunque, l'assoggettamento prolungato a un regime straniero che pur non volendo esser grave si fa sentire sempre presente, e il vin- colo di tradizioni di estremo riserbo negli usi e nei costumi di fronte alla società o, più esattamente, di fronte alle classi popolari costituiscono sempre una schiavitù. Il paese in cui vige un simile stato di cose rassomiglia pur sempre a una prigione per quanto bella. Ora il prigioniero lo schiavo anche se non gli è negata una certa latitudine di movimenti, un certo diritto di godere mate- rialmente, è pur sempre un essere su cui grava una volontà altrui

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menomatrice di libertà. Egli subisce la costrizione della libertà di attuare se quella di intimamente concepire non gli può esser tolta, e anela infrenato alla libertà completa del pensiero e dell'azione. Se questa libertà giunge inaspettata, diventa perico- losa anche pei cervelli più equilibrati e aperti alle idee nuove... L'aria libera è pericolosa per chi mai ne ha goduto o da lungo tempo ne è privo: l'ebbrezza, esalta fino alla follìa!...

Quante follie furono commesse in quel primo anno della Li- bertà Italiana o Lombarda non c'è una gran precisione nei primi tempi nel definire questa Libertà sotto la « protezione » in so- stanza alquanto dura della repubblica francese! Tutte le trovate dei rivoluzionari della prima ora e tutte quelle create poi dai giaco- bini per mascherare il torrente di sangue che da Parigi scorreva fino agli estremi confini della Francia, furono ripetute... Più ingen- tilite — è verissimo meno tumultuose; ma sempre grottesche, anche perchè prive di significato politico proprio. Si ebbero le feste e i cortei dell'Essere Supremo, della Dea Ragione, della Rico- noscenza, della Federazione spettacoli grandiosi, di magnifica tea- tralità che qualche volta finivano in farse ridicole.

Si introdussero i banchetti civici, inventati da Gamier Launay

uno dei più vili schiavi di Robespierre e che qui, come in Francia, servirono solo a far del « civismo » disordinato e chiassoso, e ad aumentare... il numero delle nascite (1). I banchetti civici, fu- rono il complemento delle baldorie intomo all'albero della Libertà : balli liberi e audaci, libazioni copiose e pericolose per la tranquillità pubblica : esaltazioni di eloquenza incendiaria e di canti rivolu- zionari.

Il gioco, proibito da qualche anno nei ridotti degli i. r. teatri

e ai teatri forniva i mezzi per allestire ricchi spettacoli dilagò impetuoso nel ridotto della Scala, nei Circoli, e in alcune Case pa- trizie democratizzatesi.

A Parigi, gran protettori delle case da gioco erano deputati e uomini politici: da noi lo furono generali e commissari francesi e gli uomini nuovi venuti a galla coll'intrigo e coll'inframmettenzh .

Non è un mistero che Francesco di N3uicbateau, membro del Direttorio, deputato e autore di una Pamela dalle sorti assai fortu- nose, proteggeva il tripot dalla Raynal : J. M. Chénier cuopriva della sua influenza La Boucharderie, sua amante, alla cui cassa da gioco provvedeva madame de Staèl per mezzo di un tal Vivien. La satira prima e la storia poi ha colpito come frequentatori di bische e inte- ressati a intraprese assai losche, Talleyrand, Barras, Mirabeau...

(1) Per i banchetti civici si rizzava nel mezzo della strada, o della piazza, una tavola e c-gni inquilino della località doveva portare un jiiatto al desco comune. Naturalmente il proprietario, o l'inquilino del primo piano oflFriva un piatto superiore, per qualità e per_ quantità, a quello ctferto dal pigionale del terzo. Siccome la fraternità presiedeva a quei banchetti, così i cibi venivano messi in comune; ma più spesso il i>overo mangiava il cibo offerto dal ricco e viceversa. La società che si formava intorno a queste mense era molto mista, anche perchè spesso s'invitavano i passanti, e non tutti erano dotati di squi- sita delicatezza. Tanto è vero che un giorno lo stesso Garnier Launay fu borseg- giato del portafoglio. Il Garnier Launay finì sulla ghigliottina il 17 floreale dell'anno III.

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Da noi fra gli stipendiati diremo così dalle bische vi fu, fra i generali, anche il Murat.

Le rappresentazioni pubbliche gratuite offrivano il modo di far propaganda delle nuove idee e di introdurre nuove costumanze.

Le donpe, con sciarpe tricolori, berrette rosse, acconciate alla foggia repubblicana, seminude, folleggiavano voluttuosamente nei teatri, intorno agli alberi della Libertà e nelle feste pubbliche. Gli uomini, smesse le parrucche e il cappello a tre punte, si erano la- sciati crescere i baffi, tagliati i capelli alla Bruto, o alla Tito, come altri diceva (foggia inaugurata da Talma colla riforma del costume teatrale), avevano sostituito allo spadino un bastone nodoso e all'aria madrigalesca sguardo e atteggiamento truce. I giovani piantavano le scuole, farneticavano di rivoluzioni nei circoli e nelle piazze e in- sultavano chi non divideva le loro idee.

Pochi uomini assennati tentavano di arginare il torrente im- petuoso delle novità, brutte per la maggior parte. Qualcuno, come il Parini, si ritrasse presto disgustato. Altri lottarono valorosamente per salvare i .principi buoni e difendere nella misura del possibile il patrimonio storico e il patrimonio artistico dalla incetta violenta dei Commissari della repubblica e dal vandalismo violento dei de- magoghi — Marat e Robespierre in ritardo.

Costoro o non si erano avveduti o non si volevano persuadere che il novantatrè era tramontato nelle idee e negli atti : esigevano che si rinnovasse in Italia, per formare la base della promessa futura repubblica. Fatta larga provvista di frasi virulente nelle gaz- zette hebertiste e marattiane, così mal digerite, fin nella forma, da costituire un vero gergo italo-gali ico, nei giornali e nei clubs e sulle piazze si scagliavano contro i preti e contro gli aristocratici chie- dendo il bagno di sangue rinnovatore. Porro, Pelagatta, Salvator strillavano che la rivoluzione non era ancora fatta : che assoluta- mente bisognava « sterminare l'idra aristocratica, perchè il popolo toccasse l'apice della felicità».

Essi ignoravano o non volevano sapere che, tranne poche ecce- zioni, il clero e la nobiltà lombarda non meritavano la valanga dei loro discorsi saturi di desideri di fucilazioni e di ghigliottine. At- traverso la montatura a freddo finivano nel comico più grottesco. Come quel magnifico tipo di pazzo del Ranza, il quale intimava ai principi italiani di andarsene pena la vita entro il 1796: e pre- tendeva, in nome della fraternità e della eguaglianza, di portare il popolo alle feste offerte alle autorità, dai generali francesi... E finiva ruzzoloni giù dalle scale.

I demagoghi più accesi avevano come scusante di non conoscere l'ambiente. I più, come ho detto, venivano di fuori. Alcuni erano stati, altrove, vittime della loro libertà di pensare : altri si erano esaltati per una inaspettata libertà di parlare: altri aveva cercato qui rifugio contro le persecuzioni dei tribunali dei loro paesi... Chi era venuto nella futura repubblica Cisalpina per respirare aure po- litiche nuove e chi per pescare nel torbido : chi in cerca della rea- lizzazione di vaghi ideali di patria e chi per formarsi una posizione economica. Quest'ultimi erano i più. Uno dei grandi fattori delle rivoluzioni è l'interesse : ne è, anzi, una delle leggi che soffrono meno eccezioni. « Dès qu'une revolution a enrichi quelques milliers d'homme scrive il Madelin elle en a pour cent ans. Tous les

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repentirs sont possibles; mais on n'aime jamais s'exposer aux res- titutions ». Un governo democratico, basato sulla fratellanza e sulla eguaglianza, doveva essere largo di impieghi e di danaro con tutti i buoni repubblicani. E non erano tutti « buoni repubblicani »? ot- timi « patrioti »? ben inzuppati di « civismo »? Non erano delle vit- time politiche dei « tiranni »? Non avevano sempre sulla lingua e sulla penna l'odio per la « ciurma aristocratica »? la ferma volontà di distruggere l'impostura clericale? Non inneggiavano alla « Dea Ragione » specialmente quando era rappresentata da una bella ra- gazza, e non cantavano gli inni rivoluzionari francesi ballando in- torno all'albero della « Libertà »... troppo di frequente spogliato di nottetempo dalle simboliche berrette rosse, bianche e azzurre? E dunque?

* *

Insieme a questa folla tumultuosa di ambiziosi, di arruffoni, di esaltati politici e di pazzi, di speculatori astuti e di sognatori d'ideale vennero nella futura capitale della Cisalpina e del Regno Italico uomini di indiscutibile valore. Non furono sempre quelli che trionfarono. Anche perchè, nei primi tempi, neppure essi sep- pero vedere e valutare esattamente la profonda diversità che cor- reva fra la rivoluzione in Francia e l'invasione di stranieri in Italia: non vollero persuadersi che i diritti dell'uomo affermati a Parigi neirSQ e consacrati dal sangue nel '93, non abbisognavano di altri battesimi cruenti per trionfare in Italia: che la reazione di Termidoro, dopo una immediata e atroce serie di vendette, aveva segnato un deciso ritorno alla calma politica e a un tranquillo as- setto sociale secondo le nuove conquiste : che se un movimento nuovo si fosse accentuato, sarebbe stato un ritorno alla monarchia e se n'avevano dei cenni palesi con probabile compromissione delle conquiste fatte : che Bonaparte, entrando in Italia, fra le molte pro- messe aveva prodigato quelle di rispetto alla vita umana e alla reli- gione... Anche i migliori fra gli emigrati e fra i lombardi furono degli eccessivi nel valutare il nuovo stato di cose : e si ebbero delu- sioni, disinganni e reazioni seguite da repressioni rumorose. Più rumorose che altro, per fortuna!

Col corteo degli emigranti, insieme ai Salfì, ai Nova, ai Gianni, ai Ranza, ai Lattanzi... vennero a Milano due uomini di merito reale, due poeti destinati a passare alla posterità Ugo Foscolo e Vincenzo Monti.

Il primo, repubblicano ardente, propagandista delle idee nuove nella sua Venezia, soldato d'eccezione e non troppo disciplinato nella Cispadana, con un ideale di libertà nella mente e un turbine di pas- sioni amorose nel cuore.

L'altro, poeta classicamente forbito, ricco di erudizione e di fan- tasia, colla ingombrante zavorra di un poema antifrancese e contro- rivoluzionario — la Basvilliana. Il Salfì, nel Termometro politico, Io chiamava « poeta venduto e screditato, poeta di nobile stile e di sentimenti vigliacchi, denigratore di Basville ».

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Il Foscolo si lanciava con impeto giovanile nella turbinosa vita nuova, declamava intorno ai diritti dalla rivoluzione conquistati all'uomo, e sopratutto affermava i suoi alla vita sociale rinnovellata; passava dalle riunioni politiche dei clubs più rivoluzionari alle bische e scordava i doveri dell'impiegato per quelli dell'innamo- rato.

Il Monti si avvicinava alla nuova capitale con una certa titu- banza;-e, in certo qual modo, chiedeva il permesso all'ex-frate Salfi di bussare alla vita politica cisalpina e quasi lo invocava a projìet- tore e tutore. La cattiva accoglienza fatta all'umile lettera dai col- leghi del Salfì nel Termometro, non scossero troppo il Monti, forte e abile nel volere, risoluto a resistere, fermo nel proposito di arri- vare e fiducioso nella vittoria. Incominciò col lasciar cadere con grazia e disinvoltura il bagaglio impaccioso della Basvilliana. Era un taglio netto alla « coda » del passato. Altri avevano fatto altret- tanto prima di lui e con lui, gettando in olocausto ai piedi dell'al- bero della Libertà chi la parrucca incipriata più o meno simbolica, chi la cocolla, chi lo stemma gentilizio e i quarti di nobiltà: e inal- berando un ex come titolo d'onore o... di gloria. Vincenzo Monti chiedeva il diritto a due ex come abate e come poeta reazionario. Si poteva essere più severi con lui che con gli altri? È vero : la zi- marra aveva perduto ogni valore : ma la Musa poteva rifarsi una virginità di « civismo » nelle battaglie della nuova vita sociale.

La Lira di Vincenzo Monti, dai larghi suoni classici, ricca di ricordi mitologici e di vecchia rettorica, trovava negli avvenimenti nuovi vibrazioni sentite e fremiti che danno irhpressioni di sin- cerità.

È veramente sincero il Monti del periodo francese e cisalpino? Non è il poeta che fìnge per l'interesse dell'uomo?

Certo il canto di Vincenzo Monti in questo periodo esala libero, e l'impaccio di cui risentono alcune poesie proviene più dal gettito che egli fa delle riminiscenze classiche e delle rievocazioni mitolo- giche, che non dal timore di usare arditamente la materia poetica offertagli dagli avvenimenti politici. L' ispirazione montiana, in seguito, non più eguali sensazioni di sincerità : nel periodo na- poleonico torna ad appesantirsi di erudizione soffocante e nel susse- guente periodo austriaco è addirittura idropica. A me sembra che essa nel periodo rivoluzionario attinga liberamente alle sorgenti della vita e nei periodi successivi si rimetta soltanto... alle casse del Governo.

Si è fatto grave carico al Monti di questo suo adattamento : lo si è accusato di mancanza di convinzioni e di difetto di carattere. Non saprei e non vorrei difenderlo. Ma eguali accuse si possono muovere ad altri poeti dello stesso periodo. Anziché colpa di un uomo, non sarebbe colpa di un momento storico eccezionale? Mo- mento di subiti entusiasmi e di sollecite delusioni : di grandi spe- ranze in un avvenire inatteso e di gravi apprensioni pel ritorno di un passato da temere : di fede in un rinnovamento politico e sociale e di terrore che la rivoluzione non rompesse i limiti consigliati dalla ragione. Gli uomini politici come i poeti, mai come in questo pe- riodo hanno subito la seduzione e insieme il timore del nuovo stato di cose : hanno avuto ad un tempo il terrore e la nostalgia del ri- tomo agli antichi ordinamenti. Non si può, io credo, essere più ri-

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gorosi col Monti che con gli altri, e accusarlo di mancanza di coe- renza e di logico svolgimento del pensiero in un momento in cui la logica, la coerenza guidavano la vita pubblica e la sor- presa era appostata al sorgere di ogni anno se non di ogni giorno.

Vincenzo Monti aspirante alla libertà nella repubblica d'Apollo fin dal 1795 e dolente che non vi fossero in questa i Bruti e i Gassi come in quella di Roma, sentì presto il bisogno di aspirare alla li- bertà nella repubblica che Bonaparte prometteva di fondare.

L'ex-abate, non più segretario dei Braschi, inizia il suo rinno- vamento col famoso sonetto dedicato al generale in capo dell'Ar- mata d'Italia, in cui attacca aspramente la Chiesa di Roma già scossa nel potere temporale dagli uomini e dalle idee della Rivolu- zione, e a Milano già scrollata, col consentimento del pubblico, nel famoso ballo // General Colli a Roma. Il sonetto anticlericale co- mincia :

Costei che nata fra il giumento e il bue Nuda e oscura in Betlemme, ardì chiamarse Di Dio la Sposa, e forse degna fae. Finche povera, e casta al mondo apparse.

Prosegue affermando che, fatta adulta e ammogliatasi col vizio,

...l'orbe d'orror sparse, Santificando le nequizie sue...

e dice che ora, carica d'anni, « Bonaparte invitto » la sospinge a morte vendicando il Mondo del lungo affanno.

Ne dir ben so qual piìi ti debba, o Forte, L'Uom che dell'Uuomo alfin riprese il dritto, O il Nume., che cercò d'esser tiranno.

Naturalmente gli risposero con delle insolenze:

Taci, rate ignorante, e l'atre tue Bestemmie con orror al Mondo apparse Rendi a Cocito...

gli intimarono : e gli predissero

Morte perenne d'infinito afiFanno.

Non si sgomentò. In seguito si sentì dire anche di peggio.

Nella canzone 11 Congresso di Udine, la evoluzione del Monti é completa: il cosidetto denigratore di Ugo Basville é rivoluzionario e repubblicano: ed è sopratutto italiano e patriota nel senso mi- gliore della parola. Lo è tanto, che una strofa della canzone figura soltanto nella prima edizione (1) : nelle altre é soppressa dalla cen- sura, la qual censura non cessò mai... neppure quando fu abolita per lesrere.

(1) Questa strofa non fu più ripubblicata. Neppure il Carducci la nella sua edizione delle poesie del Monti.

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Dice la strofa incriminata;

Talun me forse ai boschi di Libetra

Cresciuto, e all'onde dell'Ascreo lavacro

Codardo estima, e nato alle ritorte.

Ei non sa che compagno a questa cetra

Un pugnai serbo che alla patria è sacro

In cui sta scritto: « 0 liberiate o Morte »

E con man salda e forte

Ben tratteroUo se la patria oppressa

Avrà tiranno nel suo sen venduto.

La luce che mi scalda è quella stessa

Che la fronte scaldò di Cassio e Bruto.

La strofa proibita, fu sostituita con quella che comincia :

Tu Magnanimo Eroe che sull'Isonzo...

la quale ha significato ben diverso.

I versi soppressi sono percorsi da un fremito di libertà e per- vasi da un sentimento di vendetta contro i traditori della Patria ita- liana che accenna a risorgere, così ardente e così elevato, da non garbare affatto a chi apponeva la firma al trattato di Gampoformio.

In questa sua canzone, Vincenzo Monti non ha saputo evitare il ricorso a « Cassio e Bruto » diventato un luogo comune in Francia e in Italia, abusato durante il triennio un poco da tutti e un poco dappertutto negli opuscoli, nei discorsi, nei teatri. Si minacciava il « pugnale di Bruto per spaventare tutti gli schiavi di Cesare e gli imitatori d'Antonio». Ranza così apostrofava i principi: «Noi sa- remo tanti Bruti e Cassi, cioè inesorabili tirannicidi». I «patrioti» vale a dire i giacobini, i quali avevano condannato a morte il general Trouvé perchè troppo moderato invitavano gli amici a raccogliersi, e ad eseguire la condanna con un indirizzo in cui dominava la frase : « stringiamo il ferro di Bruto nostro antico pro- console ». Si sa che neiradorazione pel romano vendicatore della libertà, arrivarono fino alla ridicolezza di decapitare la statua di bronzo di Filippo II di Spagna e di mettere sul busto di lui una testa di Marco Bruto modellata dallo scultore Garabelli.

Neppure in questa ridicolaggine però i demagoghi cisalpini fu- rono originali : quelli di Parigi li precedettero collocando sul pie- destallo della statua di Luigi XV una statua in gesso bronzato, rap- presentante la Libertà con tanto di berretto frigio in testa.

II Monti aveva offerto un'altra prova di «civismo», aveva cioè dato il saluto al sorgere dei volontari cisalpini il primo nucleo del futuro esercito italiano destinato alle glorie cruente di Spagna e di Russia. Al banchetto della compagnia milanese degli Usseri, comandata da Francesco Arese, il Monti « improvvisò » un brindisi, diffuso rapidamente e stampato dal Giornale senza titolo.

In questa composizione si sente l'ispirazione inceppata da un probabile ordine: una incertezza che trasmuta l'impeto guerresco quasi fino all'umorismo. L'espressione letteraria dev'essere forse in contrasto col sentimento del cittadino. Certo non c'è vibrazione di anima... A meno che manchi ancora il poeta che attinge alla vita

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e diguazza tuttavia intorno alla sorgente della rettorica. Il brindisi comincia

Non fragor di molli carrai

e ha espressioni comiche al pari di questa :

...Scudo a lei di vostre vite Fate, o prodi, e non fuggite

in cui si sente una eccessivamente scarsa fiducia nei volontari cisal- pini. Termina con altra espressione che ha del burlesco:

Dunque all'armi, e bello fate Di ferite il vostro petto.

È dell'Arcadia che tenta assurgere ad alto significato civile e patriottico e ruzzola a meno di mezza strada inciampando in figure rettoriche dinoccolate e sfibrate.

Vincenzo Monti nel « brindisi » non deriva certo la sua ispira- zione dagli Inni e dalle Canzoni patriottiche francesi, rimane infe- riore ad altri poeti più scorretti, senza dubbio, ma di lui più all'unis- sono nel fremito di rinascente patriottismo, È giocoforza però ri- conoscere come anche in queste, le figurazioni non siano sempre molto felici, e i ricordi classici vengano a turbare le visioni poetiche con anacronismi curiosi. In una si legge :

Odo il fragor de' concavi metalli. Che il Longobardo suolo assorda e fende: Veggo ondeggiar le sottoposte valli D'elmi, di scudi e di guerriere tende...

dove la mescolanza dei cannoni con gli elmi e gli scudi non una visione esatta, efficace de' campi di guerra della fine del Set- tecento. Le batterie scudate erano di da venire e le corazze im- perforabili non avevano ancora occupato le aule giudiziarie italiane qualificate come una truffa.

Si deve però dire, per debito di giustizia e di sincerità, che per prove di civismo di valore assai minori di queste del Monti furono ribenedetti, dagli uomini nuovi della repubblica Cisalpina, ex-am- miratori ed ex-devoti dell'antico regime. Sul Monti, invece, gravò sempre qualche sospetto; e s'appuntarono contro di lui ire, maldi- cenze e odi. Aveva un ingegno veramente forte e questo era colpa grave per gli emuli, pei rivali, pei non amici. I quali non sapevano perdonargli di aver potuto conquistare negli uffici del Governo un posto modesto e nel pubblico eletto una indubbia considerazione.

Si vuole non so con quanta ragione che specialmente ai suoi danni fosse diretta la famosa legge del 3 ventoso anno VI (21 febbraio 1798) con cui si espellevano dagli impieghi della re- pubblica anche coloro i quali dall'anno I (settembre 1792) avessero scritto opere atte a ispirare avversione alla libertà francese. La Ba- svilliana rientrava in questo periodo... Ma la legge di vendetta, che non ammette ravvedimento, voluta dai demagoghi, rimase inefficace contro il Monti, come contro altri: ad essa non fu conferita la re- troattività. E così il Gianni famoso trafficone di versi improvvi- sati e di libercoli, nei saloni dei nobili in Francia e in Italia prima

IO VoL CLXVII, Serie V 16 settembre 1913.

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del trionfo della rivoluzione e i giacobini furiosi rimasero una volta di più delusi nelle sperate vendette, di modello ormai anti quato in special modo a Parigi,

I fremebondi adoratori di un sanculottismo trapassato, divora- tore di nobili e di preti; instancabili stridatori di «à la lanterne», durante il periodo francese erano frenati da una volontà ferrea quella di Bonaparte. Il giovane comandante dell'armata d'Italia coi suoi proclami aveva ridotto sensibilmente il programma dei giaco- bini arrabbiati : egli non permetteva che si risalisse alle fonti mene pure e meno laudabili della rivoluzione. Non permetteva violenti at- tacchi alla nobiltà, ben sapendo come il propagarsi dei principi re- pubblicani al di qua delle Alpi era dovuto alla classe colta e nobile amante degli studi e del progresso e ben diversa da quella che al di delle Alpi vantava solo diritti ed erigeva barriere contro la borghesia: e frenava ogni aggressione contro il sentimento religioso non ignorando che solo secondando tale sentimento, in special modo in quel tempo, si dominavano le masse popolari. Bonapart-e non poteva scordare le funzioni e le processioni religiose fatte in pieno 1793 col permesso e la protezione del governo repubblicano, sotto gli occhi della polizia e colla partecipazione diretta delle san- culotte. Verissimo: pochi mesi dopo la memorabile processione del Corpus Domini i preti erano arrestati e deportati; ma il 9 termidoro riporgeva il modo di conciliare il sentimento religioso coi principi repubblicani.

II generale in capo dell'armata dell'Italia, invadendo le nostre province, prometteva il rispetto alla religione e non ammetteva con- tro di essa, quando poteva, ingiurie di sorta. Avendo i sanculotti italiani mutilate le statue delle Cappelle del Sacro Monte sopra Varese, Bonaparte rimproverò acerbamente il Ministro di Polizia, Porro, per non aver prevenuto e non aver saputo poi punire gli au- tori dello scandalo : e, in pieno giacobinismo, seguendo i suoi pre- cetti, si iniziò una inchiesta per punire gli autori della parodia di una funzione sacerdotale tentata in un palco del teatro alla Scala. Bonaparte aveva colpito ripetutamente i caporioni dei demagoghi: e quantunque non abbia sempre mantenute per ragioni di opportu- nità le severe disposizioni date taluno destituì da pubbliche fun- zioni, altri ammonì e qualcuno fece accompagnare al confine.

Proclamata però la Repubblica Cisalpina, sebbene più che mai esistesse la « protezione », per non dir soggezione, della Repubblica francese, i demagoghi ripresero ardire. Fino allora si erano rasse- gnati — dopo il primo momento di eccessiva libertà e di non mode- rata licenza a scimmiottare le manifestazioni esteriori più inno- cuamente chiassose e più innocentemente festose dei repubblicani francesi: dopo pretesero di assumere degli atteggiamenti truci. I clubs e le Società popolari ripresero vigore: intomo agli alberi della Liibertà si rinnovò la gazzarra dei patrioti e delle patriote, e lo sper- pero... dei sorbetti gratuiti: si celebrarono le feste civili della mag- gior sorella e tutrice, colla modificazione dell'intervento dei preti e magari del Vescovo mostratisi accessibili alle idee nuove, o abil- mente temperanti le discipline sacerdotali con le riforme rivoluzio-

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narie... Nel novero delle feste fu introdotta quella per celebrare l'anniversario della decapitazione degli ex-reali di Francia proposta e fatta accettare fin dal 1795 da Tallien l'uomo di Termidoro ormai caduto nel dimenticatoio e che tentava di quando in quando di rifarsi vivo con atti e proposte che risentivano troppo degli eccessi contro i quali i termidoriani appunto si sollevarono terribili, feroce- mente vendicatori! A meno che non siano esatti coloro i quali vedono m Termidoro soltanto la disperata rivolta di chi si sentiva condan- nato e voleva sterminare per non essere sterminato. Il movente vero della reazione termidoriana è ancora da fissare esattamente.

Si cominciò colla ricorrenza del 25 vendemmiale o vendemmia- tore — a piacere di chi scriveva giorno della morte di Maria An- tonietta.

L'Estensore Cisalpino^ inveendo a freddo contro la -infelice Re- gina, ricopiò la ormai antiquata fraseologia marattiana, e la chiamò lupa coronata di Francia. Lo strano festeggiamento, privo di signifi- cato per i Cisalpini, venne con magniloquenza descritto nei fogli repubblicani. Il Termometro politico scrisse che quel giorno « venne esemplarmente solennizzato dai nostri patrioti col gettare al fuoco diverse opere superstiziose... » E cioè opere religiose e reazionarie. Fra queste fu compresa la Basmlliana.

Al falò di epurazione assistettero Pelagatta, Gianni, Poggi, Aba monti. Ceroni, Salvatori, Lattanzi, Custodi, Morale e Caldi quasi tutto lo stato maggiore del partito demagogico. Si pronunziarono di scorsi violenti: Caldi chiese che si cantassero e si cantarono le canzoni e gli inni sgorgati nel periodo popolare francese da lette- rati, da musicisti e da quegli anonimi che costituiscono veramente la voce del popolo. Questi inni erano: la Marseillaise, (>'« ira, C/iant du départ, la Carmagnole ^ Veillons au salut de r Empire, ecc., (1) e un paio originali italiani in cui, è giustizia il dirlo, l'amor patrio degli italiani per una Italia prima d'allora mai seriamente sentita e vagheggiata ha parole e accenti fino a pochi mesi prima insospettati. Essi costituirono quasi intera la parte musicale del ballo II General Colli a Roma. Questo ballo, come era musicalmente una rapsodia di inni patriottici, letterariamente era una derivazione dal Jugement demier des rois di Sylvain Maréchal e dalla Joumée du Vatican ou le souper du Pape.

(1) Alcuni scrittori che si sono rocupati del periodo cisalpino, si sono mostrati t>erplessi dinanzi al titolo di questo canto repubblicano: qualcuno lo ha soppresso senz'altro, qualche altro ha trascritto incompleto il primo verso che è poi il titolo della canzone fermandosi a « salut » e sostituendo a «de l'Empire» un non compromettente «ecc.». Infatti quell' ((impero» in piena rivoluzione, non può non meravigliare Ma i rivoluzionari erano pro- dighi in fatto di meraviglie. Di fronte a una ragione metrica, hanno scaviz-. zolato su un possibile significato filologico, senza occuparsi della creazione di un equivoco politico, e hanno sostituito (( Empire » a « Nation ». Il Veilìons au salut de l'Empire fu composto nel 1791 da Roy che vi adattò un'aria del Se- naud d'Ast, opera allora popolarissima. La prim.a quartina dice:

Vt'illons au salut de l'Empire, Veillons au maintien de nos droits! Si le despotisme conspire, Conspirons la perte des rois.

Come si vede, « impero » ; ma niente (( monarchia ».

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Sul finire della festa grottesc'a si vuole che, attraversando la piazza del Duomo, rasentasse il rogo Vincenzo Monti... Egli non si preoccupò certo delle ceneri della Basvilliana disperse in segno di disprezzo dai giacobini della Cisalpina. Le aveva sparse lui al vento assai tempo prima!

# *

L'autodafé clerico-reazionario iniziò l'atteggiamento ribelle dei demagoghi. Partito Bonaparte dall'Italia e peggio ancora quando si fu imbarcato per la spedizione d'Egitto,, quell'atteggiamento diventò violento e provocatore. Nella debolezza e remissività della parte moderata del Gran Consiglio, nella protezione più o meno celata delle autorità militari francesi, la parte demagogica trovò eccita- mento alle declamazioni violente, alle denunzie demolitrici, alle ac- cuse atroci contro quanti non erano con essa.

La stampa, frenata per breve tempo, meno poche eccezioni ri- divenne libera tribuna di ingiuria e di vitupero.

Il periodo seguito alla partenza di Bonaparte, sempre rima- nendo nel campo della parodia, lo si può paragonare a quello del Terrore in Francia. Si ebbero nuovi, rinnovati e ' intensificati tutti gli eccessi dei terroristi : quelli ameni e quelli tragici, quelli grot- teschi e quelli pieni di idealità patriottica. Si rispolverò la circolare dell'octodì floreale (anno II) che imponeva l'abolizione dei titoli di conte, duca, barone, marchese, signore e signora « ces noms de féodalité, émanant d'une source trop impure ». Naturalmente ini Francia, e specialmente in Italia, questi titoli si davano ancora dagli intimi e dai servitori devoti, entro le pareti domestiche : e la satira, così a Parigi come nella Cisalpina, berteggiò gli ex-nobili che fuori di casa fraternizzavano col popolo ed esigevano fossero chiamati cittadini e in casa tenevano all'antico titolo ed al consuetudinario ossequio. Si iniziò la crociata contro gli stemmi. « Il ministro di Polizia, Porro, quello che aveva assaggiato i rimproveri di Bona- parte per lo scandalo delle Cappelle del Sacro Monte, decretava: « gli antichi titoli e stemmi di qualunque genere siano ed in qua- lunque modo esposti al pubblico debbono essere distrutti senza ri- sparmio, senza eccezione, senza misericordia». Luca Sgarzi a Bo- logna diceva le « portantine o maneggevoli vetture roba da popoli schiavi » e il Gonfaloniere felsineo notificava l'ordine di « privarsi dell'uso delle livree con trina, spallette, ecc. ». Incominciò quindi la caccia furiosa ad ogni segno che valesse nobiltà, aristocrazia : si ab- batterono stemmi nelle strade e sulle porte delle case; si graffiarono emblemi e blasoni dipinti nell'interno e all'esterno delle chiese e dei palazzi pubblici. Fu una furia di devastazione che avrebbe distrutto documenti storici e guastate opere d'arte... Per fortuna quasi in ogni città si trovarono cittadini avveduti e autorità non del tutto barba- rizzate, che riuscirono a dilazionare le esecuzioni e a salvare con mille pretesti opere già destinate a scomparire. A Parigi si era giunti alla ridicolaggine di imporre ai barrocciai di levare dai fini- menti delle loro bestie le corone e i gigli formati da teste di bullette a solo scopo decorativo : a Milano si ebbe la farsa di Francesco Porro (il Porrino) che si avventò contro la porta di un palco della Scala per sfondarla, essendovi sopra dipinto uno stemma. Durante lo spet-

' LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 269

taccio si fischiò la cantante Gazzotto, presentatasi con un pennac- chio nero in testa essendo il nero il colore dell'odiata Inghilterra; e la sera dopo la si rifischiò perchè l'aveva sostituito con uno bianco essendo il bianco il colore della ex-regnante casa in Francia. Gli ufficiali francesi promossero un gran fumulto e fecero sospendere la recita della Merope alla Scala, perchè la Merope era affetta da lue u moderatista », e perchè la Raucourt, che doveva recitarla, era stata una protetta di Maria Antonietta. Che importanza e che valore po- tessero avere queste pretese manifestazioni di anticivismo per i Ci- salpini non si riesce a oompfendere... La Gazzotto non si occupava di politica e la Raucourt veniva a Milano coU'approvazione del Di- rettorio francese! Si è quasi tratti a credere che gli ufficiali francesi volessero prendersi gioco dei forsennati ubriachi di civismo, e che i nemici del nuovo ordine di cose li secondassero per spargere il ri- dicolo sulla neonata repubblica.

Per rimanere nel teatro: come gli attori francesi in Franerai, gli attori francesi in Italia e i comici e i cantanti italiani, ornarono gli eroi delle tragedie, delle commedie e delle opere colle coccarde tri- colori e sanculottizzarono Schiller, Racine, Voltaire con modifica- zioni nel testo, con « licenze patriottiche » al termine d'ogni lavoro e con aggiunte di « balletti patriottici » al suono e al canto della Carmagnola. Prima di alzare il sipario e durante gli intermezzi, in applicazione di un decreto della Convenzione, si suonavano gli inni patriottici : e ciò non sempre avveniva come del resto a Parigi senza contrasti e senza proteste. Si finì, un bel giorno, per adottare una forma di protesta comune che, per me, almeno, è rimasta in- comprensibile. Nei teatri parigini si protestava, un tempo, chiedendo il Réceil du peuple di quel Sourignières che tradusse e fece rappre- sentare la Mirra di Alfieri; ma proibita questa il 18 nevoso anno IV, si ricorse a un'aria famosa della Lodoiska del Cherubini :

Perdre ma belle! Plutót le jour! Je vis i>our Elle Et ,meurs d'anioui-.

La strofe per i realisti e i moderati francesi suonava allusione a Maria Antonietta : ma cosa poteva significare per i contro-rivolu- zionari italiani la Lodoiska dal Mayr scritta, è vero, sullo stesso « libretto » per opporla alle richieste del (^a ira e della Marseillaiae?

I « patriotti » cisalpini, nella inverosimile imitazione dei loro predecessori francesi, ma con maggior modestia di edizione, di va- rietà, di diffusione, mandarono per le stampe dei fogli di questo ge- nere : « Nome, cognome e numero della casa di tutte le prostitute di Milano, a comodo della gioventù cisalpina ». A Parigi, oltre ad elenchi simili e a caricature oscene relative, ci furono anche « Pro- teste di prostitute », e in seguito « Appelli » a Ministri e ad Autorità; nella Cisalpina, che io mi sappia, si limitiirono a quel solo saggio.

Ci fu perfino una pallida caricatura di Théroigne de Méricourt nella figliola del chimico Sangiorgio. Una sera nel Circolo della Rosa il più sanculotto dei circoli repubblicani, e al quale appar- teneva il Foscolo la Sangiorgio chiuse una violenta apostrofe offrendo la sua mano a chi le avesse portata la testa del Papa. Sia che non garbasse l'offerta della mano, sia che i cittadini sbracati

270 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

conservassero ancora un abbondante sedimento religioso nelle loro anime pie... fino a pochi mesi prima: sia che repugnasse loro la vi- sione sanguinosa della testa recisa del vecchio pontefice, fatto sta che a quella scappata urlarono e fischiarono come biacchi, soste- nendo la lotta contro gli applausi furiosi dei più violenti. Un tal Maspero, nipote della neo-Théroigne di Méricourt, le gridò:

Chi vuoi che ti prenda? Sei tanto brutta!

L'umoristica interruzione fece perdere le staffe alla generosa « cittadina » e ricondusse la pace fra gli ingenui fucinatori a freddo di frasi d'odio. Il destino si incaricò di completare la caricatura della Théroigne milanese : poiché essa, malgrado la bruttezza, non soltanto si sposò regolarmente, ma fu moglie e madre esemplare. La cittadina sbracata pare passasse... incolume attraverso la licenza ri- voluzionaria regnante nei tripudi intorno agli alberi della Libertà e nei banchetti patriottici larghi di... figli alla repubblica.

L'imitazione dell'ultragiacobinismo, già tramontato in Francia, seguitò nelle feste civili. I demagoghi italiani, volendo ripercorrere, sia pure senza un preciso scopo e senza una seria ragione, le tappe di quelli francesi, dopo avere solennizzato l'anniversario della ese- cuzione di Maria Antonietta, celebrarono quello della decapitazione di Luigi XVL Loro scopo era di infondere nelle anime italiane l'odio alla regalità... Parrebbe strano che volessero avvelenarle d'odio ser- vendosi di un Re e di una Regina che non avevano mai partecipato alla vita del nostro paese e non avevano recato alcun danno alla patria nostra, alla nostra libertà. Contro ben altri regnanti avreb- bero dovuto volgere l'animosità dei Cisalpini : e verso ben altri ideali che non fossero d'odio verso le persone, avrebbero dovuto indiriz- zare le nostre aspirazioni! Parrebbe strano, ma se non si fosse trat- tato dei nostri giacobini, schiavi di una imitazione servile, assai più che di concetti elevati e veramente patriottici!

Essi si accanivano contro Luigi Capeto fino nei curiosi scritti di carattere semi-didattico di cui si servivano nella propaganda demo- cratica e pei quali avevano adottalo il metodo usato per l'insegna- mento della religione e per le preghiere cristiane. Il sistema era astuto non c'è che dire. Da un Credo democratico, tolgo questo brano :

« Credo nel popolo francese onnipotente, stupore del cielo e della terra; ed in Bonaparte suo figliolo, eroico redentor nostro, il quale fu animato da spirito patriottico, benché nato realista e sotto Vin- fame Capeto, ch'ei vide ghigliottinato, morto, sepellito (!) e disceso all'inferno... »

Sarà bene metter d'accordo la... Dea Ragione e la negazione di Dio con l'esistenza dell'Inferno...

Malgrado il Catechismo, il Credo, il Pater noster, ecc. l'odio vero, profondo, contro Capeto e la forma monarchica non penetrò nell'animo dei Cisalpini tanto é vero che allorquando i poeti vol- lero prendere degli atteggiamenti feroci, riuscirono soltanto a fare delle smorfie grottesche che muovono al riso. Basta ricordare una strofa rimasta famosa :

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 271

Fra pochi istanti, o Fillide, Farò ritomo a te, Col teschio esangue e pallido D'un inimico re.

L' « inimico re » è inutile ripetere chi sia.

La festa per celebrare la decapitazione di Lui, ricorreva il 2 pio- voso... In questo primo anno fu chiamata la «festa della Ricono- scenza della Repubblica Cisalpina per la Repubblica madre ».

La « riconoscenza » capitava a proposito. Pochi mesi prima era stato firmato il trattato di Gampoformio che dava allo straniero una parte d'Italia rimasta per secoli libera, indipendente e gloriosa!

Il Governo Gisalpino volle che tal festa dovunque assumesse una importanza speciale ; e, compatibilmente coi mezzi di cui dispo- nevano i municipi, riuscisse grandiosa: per parte sua vi contribuì con oltre un milione di lire.

A Milano il 2 piovoso (22 gennaio 1798) le truppe francesi fu- rono passate in rivista dal generale in capo, Berthier, ed eseguirono delle evoluzioni a fuoco. Per poco non ci fu una vittima un mo- naco olivetano il quale rimase colpito ad una coscia da una palla di fucile. I cittadini danzarono e cantarono intorno agli alberi della Libertà : e i soliti concionatori vicino all'albero parlarono di diritti, di conquiste, di civismo: inneggiarono alla rivoluzione e impreca- rono alle monarchie e ai re : il generale Berthier alla sera offrì un sontuoso banchetto di Stato, mentre sulle piazze si inframmezza- vano canti e danze con le consuete libazioni e fors'anco con la di- stribuzione di sorbetti pressoché immancabile nelle grandi solen- nità: i francesi, secondo il Courrier de VArmée d'Italie, recitarono il Brutus di Voltaire « en commémoration de cet événement, précur- seur de la liberté du monde ».

L'inno d'occasione per questo primo anno è anonimo: poeta e musicista rimasero nell'ombra. Forse lo meritavano.

Gosì comincia il poeta Vlnnx) al Popolo in occasione della Festa Patriottica da farsi in Milano per Vanniversario della morte di Luigi Capeto.

Cupo ancor per l'aer romba Della morte annunziator Quel feral squillo di tromba Che fé' batter l'ultim'ora Di Capeto usurpator.

Sul tiran la scura eletta Che salute al Mondo dà, Piomba, e un genio alla vendetta Grida altiero: t'apparecchia Oltraggiata umanità.

Italo Popolo, Giura implacabile Odio a tirannide Sovra l'esanime Spoglia d'un re.

272 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

E prosegue:

Già quel sangue il suolo arrossa Di Virtù fecondator, E coraggio, orgoglio e possa Fan sentirsi all'uom compagne, E il richiamano all'onor,

Onde caldo d'ardimento E feroce in suo poter. Ne periglio, ne cimento, Purché libero, non teme, \ Libertado è il suo pensier.

Italo Popolo, Giura implacabile Odio a tirannide Sovra l'esanime Spoglia d'un re.

E la frode a' Kegi amica Che non osa d'affrontar, Il pugnai cela nemica, E per noi l'aguzza vindice Della Pace suU'altar,

Quell'acciar liberticida Offre a' schiavi in man l'error, E l'inganno intorno grida: Si ferisca, in sen s'immerga Dei regnanti agli oppressor.

Italo Poiiolo, Giura implacabile Odio a tirannide Sovra l'esanime Spoglia d'un re.

Schiavitù con bieca faccia Ed esperta ad ingannar Nuovi ceppi a noi minaccia, Vuol rapirci spose e figli, E la forza del pensar.

Ah s'ardisca; e scettro e soglio, Nomi ignoti all'altre età Virtù renda, e il patrio orgoglio! Sin le ceneri del trono Son funeste a libertà.

Italo Popolo, Giura implacabile Odio a tirannide Sovra l'esanime Spoglia d'un re.

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 273

Non è davvero un capolavoro! Il ixjeta non ha neppur l'impeto (]i certi suoi confratelli, i quali davano, coll'apostrofe violenta, un aspetto meno monotono ai luoghi comuni.

A Milano fu celebrato l'anniversario della decapitazione di Luigi Capeto; ma fu rimandata la festa della Riconoscenza. Deli- berat-a con legge del 6 nevoso, il 30 fu sospesa e rimandata al 10 pio- voso causa l'imperversare del maltempo. Si tennero separati i due festeggiamenti, tanto che l'uno sembra improvvisato; e, probabil- mente, sotto la pressione dei comandanti francesi.

La legge del 6 nevoso istituisce la festa della Riconoscenza e ha una allusione vaga alla decapitazione di Luigi XVI :

« Art. II. Questa festa si celebra il giorno 2 Piovoso memo- rabile nella storia della Libertà della Francia ».

Null'altro. Nessuna allusione vi è nel programma dettagliato della festa stabilito dalla stessa legge; e nessuna nel manifesto fatto affiggere il 28 nevoso dal Governo che così illustra il signifì-cato della festa :

« È indegno di respirare l'aure di libertà, è cattivo Cittadino chi non si sente trascinato dai moti del cuore ad esternare in tal giorno con tutta l'espansione del sentimento unitamente a' suoi Con- cittadini la propria riconoscenza verso la Gran Nazione. Se col be- nefìcio si misura il dover di gratitudine, il Popolo Cisalpino tratto da, un vile serv^aggio ad una libera sovranità, e fatto artefice, e de- positario della propria felicità nel modo il più magnanimo e ge- neroso, non dee conoscer limiti alla sua riconoscenza. L'espressione di essa è quella del suo Patriottismo.

« Milano 28 Nevoso Anno V Repubblicano

« Il Ministro delVhUemo: « Ragazzi ».

« Maggi ».

A Bologna fu esplicitamente stampato che per quella festa si prendeva occasione « della ricorrenza del giorno che era memora- bile per l'avvenuta decapitazione di Luigi XVI ». Così la descrive rUngarelli : « In mezzo alla piazza Maggiore si era eretto un tempio di forma circolare d'ordine jonico, e dinanzi ad esso un'ara. por- tante l'iscrizione: Riconoscenza della Repubblica Cisalpina alla Re- pubblica Madre. Sull'ara stava un trofeo cogli emblemi dell'aristo- crazia. Schiere di milizia francese e cisalpina eseguirono evoluzioni sulla piazza alternate con suoni e spari di artiglieria; finché a un dato momento, si vede apparire il genio italico, il quale postosi a se- dere a piedi del trofeo si mostra dolente per la perduta libertà. Una musica lugubre intanto dispone gli spettatori alla malinconia. Ma ap- pena cessata questa, ecco che le campane suonano a distesa e i can- noni tuonano a brevi intervalli; e compariscono il genio della Fran- cia, il quale, scoccata una freccia, fa cadere a un tratto gli emblemi e rende sciolto dai ceppi il genio italico ». La cerimonia doveva anche a Milano svolgersi presso a poco nello stesso modo : lo si rileva dalle disposizioni date dal Municipio. Forse ci sarebbe stato un fasto maggiore.

Nello stesso giorno, 2 pluvioso anno VI Repubblicano, a Bologna fu solennemente murata una lapide in marmo sulla quale erano

274 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

scolpiti i primi tre articoli della Costituzione : e ciò secondo la delibe- razione del Direttorio Cisalpino.

Il Direttorio aveva decretato che lapidi marmoree simili fossero murate in tutti i capoluoghi, onde diffondere dovunque la notizia della nascita della repubblica Cisalpina, una e indivisibile, retta in forma costituzionale. Non tutti i capoluoghi furono in grado di so- stenere la spesa del marmo e dello scalpellino. Il Governo venne in soccorso dei comuni poveri, permettendo di prendere il marmo ne- cessario per le lapidi, nelle chiese, a condizione però che non avesse valore storico, artistico. In tal modo la spesa si ridusse al lavoro di scoltura dei tre articoli e alla muratura della lapide una cosa modesta. La spesa vera era quella del marmo, perché difficile a procurare e quindi assai costoso.

La festa della Riconoscenza si celebrò mentre fervevano i pre- parativi della spedizione contro Roma. Le truppe francesi e le vo- lontarie cisalpine si dirigevano verso la città dei Papi . per abbat- terne il trono.

L'anonimo poeta aveva cantato :

Sin le ceneri del trono Son funeste a libertà...

E col pretesto della libertà, le truppe della rivoluzione francese e quelle della rinascita italiana, andavano, nell'anniversario truce, ad incenerire il trono che incuteva maggior rispetto, se non maggior timore. E riuscirono. Le ceneri però le sparsero non le dispersero. Bonaparte, piìi tardi, le raccolse, e, taumaturgicamente, da esse fece uscire un trono esclusivamente spirituale e dal Papa su quel trono assiso, ottenne gli fosse cinta la corona d'Imperatore dei francesi e benedetta quella di Re d'Italia.

Intanto però a Roma il potere temporale dei Papi cessava...

{Continua).

Alberto Manzi.

PER UNA NOVELLA DEL BOCCACCIO

« Il grande merito di Mondino de' Liizzi (scrisse il prof. Marti- notti) (1) è di aver inaugurato il metodo di studiare l'anatomia non sui libri (come prima di lui si faceva); ma sul cadavere umano ». E questo metodo fu seguito tosto dai suoi contemporanei, come ne fa fede Alberto de' Zancari lettore di medicina pratica nello Studio bolognese nella prima metà del trecento, che, secondo il Boccac- cio (2), « fu un grandissimo medico e di chiara fama quasi a tutto il mondo ». Le scarse notizie che abbiamo della sua vita risalgono al Fantuzzi (3j, il quale afferma essersi laureato l'anno 1326. È certo invece» che fino dal 1310 egli era doctor physicae, ed in quest'anno, il 20 di giugno, prese in moglie Egidia di Fabiano Malpigli, con dote di seicento lire di bolognini. Il contratto nuziale, che leggesi nei Memoriali di Guido dalle Quercie presso l'Archivio di Stato di Bologna è notevole perchè ci fa conoscere, oltre al nome del padre di Maestro Alberto, che fu Maestro Galvano di Alberto medico, anche quello della madre di lui, che fu Beatrice del fu Jacopo Faffì.

Il 24 febbraio 1314 Alberto de' Zancari ottenne (come oggi si direbbe) una condotta medica a Ravenna per un anno, incomin- ciando dal 1" aprile. Il contratto fu stipulato dal Rettore della chiesa di S. Fabiano,, quale procuratore del Podestà di Ravenna Lamberto da Polenta. Lo stipendio assegnatogli era di trecento lire e da cia- scun ammalato non poteva ricevere più di tre lire di Ravegnani, secondo la qualità della malattia e la condizione dell'infermo.

Nel 1319 Alberto de' Zancari subì un processo per avere nella sua scuola insegnata l'anatomia sopra il cadavere di un giustiziato per nome Pasio, che era stato disseppellito di notte da alcuni suoi scolari. Nell'interrogatorio dei testimoni un servo, per nome Carlino di Bonetto da Pergamo, disse d'aver visto Maestro Alberto star sopra il cadavere dell'impiccato con rasoi, coltelli ed altri istrumenti ana- tomici. Primo a dare notizia di cotesto interessante processo fu il Mazzoni-Toselli (4); ma il De Renzi nella sua Storm della medi- cina (5) dubitò che si riferisse ad Alberto de' Zancari, e ritenne più probabile (non so perchè) che l'Alberto del processo potesse essere certo Alberto Ferri, o dal Ferro, laureato in medicina, secondo l'Ali-

(1) L'imsegnomento dell'anatomia in Bvlognu. In: Studi e Memorie per la storia dell'Università di Bologna. (Balogna. 1911, voi. IT, pag. 72).

(2) Decameron, Giorn. I, nov. X.

(3) Notizie degli scrittori Bolognesi (VITI, 236).

(4) Bacconti- storici. (Bologna, 1870. voi. ITI, p&g. 123-4).

(5) Voi. II. pag. '249.

276 PER UNA NOVELLA DEL BOCCACCIO

dosi, nel 1310, e ricordato fra gli Anziani nel 1313 e 1314. Gli argo- menti addotti dal Mazzoni-Toselli a conferma della sua opinione non parvero sufRcienti a togliere interamente l'incertezza; ma una testimonianza, che può desumersi dal contratto nuziale del 1310, parmi sufficiente a provare che il Maestro Alberto del processo non può essere altra persona che lo Zancari. Fra i vari testimoni citati è pure nominata Beatrice, la madre di Maestro Alberto, ed ora sap- piamo che Beatrice de' Faffi fu appunto la madre di Alberto de' Zancari.

Da un aneddoto della vita di Maestro Alberto trasse il Boc- caccio l'argomento della novella decima della giornata prima del De carrier oìi.

Così incomincia egli a narrare di Maestro Alberto : « Egli non sono ancora molti anni passati, che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama quasi a tutto '1 mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu maestro Alberto, il quale, essendo già vecchio di presso a settanta anni, tanta fu la nobiltà del suo spirito che, essendo già del corpo quasi ogni naturai caldo partito, in non schifò di ricevere l'amorose fiamme».

Domenico Maria Manni (1) non fu lontano dal credere che il pro- tagonista di cotesta novella Boccaccesca fosse Alberto Zancari, perchè niun medico bolognese di tal nome ed a quel tempo fu più chiaro di lui per fama, secondo le testimonianze di Ovidio Montalbani, Guido di Chauliac, Leandro Alberti, Benedetto Morandi ed altri scrittori.

« Ma quello che maggiore indizio mi che sia lo Zancari (sog- giunge il Manni) è il leggersi nel Boccaccio che l'anno 1348 questo Alberto forse si era ancor vivo; quando egli appunto di non so che mesi era venuto a mancare ».

Se non conosciamo la data precisa della morte di Alberto de"" Zancari, questa ad ogni modo non può essere avvenuta prima del 15 agosto 1348, nel qual giorno, essendo infermo, fece testamento; e quindi appare sempre più verosimile che il Boccaccio nel 1348 potesse scrivere : « e forse ancora vive » .

Anche l'età prossima ai settant'anni assegnata dal Boccaccio a maestro Alberto corrisponde con quella dello Zancari, che può esser nato verso il 1280, se nel 1310 era già laureato in medicina.

Continua il Boccaccio narrando che maestro Alberto, « avendo veduta ad una festa una bellissima donna vedova, chiamata, se- condo che alcuni dicono, madonna Margherita de' Ghisolieri, e pia- ciutagli sommamente, non altrimenti che un giovinetto» se ne in- vaghì. Incominciò a passare continuamente, quando a pie' e quando a cavallo davanti alla casa di questa donna; per la qual cosa od ella e molte altre donne più volte insieme ne motteggiarono di vedere un uomo così antico d'anni e di senno, innamorato. Avvenne che un giorno di festa, essendo Margherita de' Ghisilieri con molt« altre donne a sedere davanti alla sua porta, ed avendo di lontano veduto .maestro Alberto verso loro venire, con lei insieme tutte si

(1) Istoria del Decamerone di G. Boccaccio. (Firenze, 1742, pag. 183).

PER UNA NOVELLA DEL BOCCACCIO 277

proposero di riceverlo e di fargli onore, ed appresso di motteggiarlo d\ questo suo innamoramento; e così fecero. Lo invitarono ad en- trare in una fresca corte, dove gli furono offerti vini finissimi e con- fetti; poscia con leggiadre parole, gli chiesero come mai potesse es- sere innamorato di quella bella donna, sapendo che da molti gentili e leggiadri giovani era amata.

Il maestro rispose: «Madama, che io ami, questo non dee esser maraviglia ad alcuno savio... La speranza la quale mi muove che io, vecchio, ami voi amata da molti giovani, è questa : io ho veduto più volte, merendare le donne e mangiare lupini e porri; e come che nel porro sia più piacevole alla bocca il capo, voi quello vi tenete in mano e mangiate le fronde, che sono di malvagio sapore. Che so io, madonna, se nella scelta degli amanti voi non farete il simi- gliante? In questo caso io sarei colui che eletto sarei da voi e gli altri cacciati via ».

Alle quali parola la Ghisilieri rispose: «Maestro, il vostro amor m'è caro, come di savio e valente uomo esser dee; e perciò, salva la mia onestà, come a vostra cosa ogni vostro piacere imponete si- curamente ».

Cotesto aneddoto, che il Boccaccio molto probabilmente raccolse dalla tradizione orale, dev'essere accaduto fra il 1336 e il 1348; perchè la prima moglie di Maestro Alberto, cioè Egidia Malpigli, fece testamento il 14 ottobre 1336, lasciando eredi le figlie : Zamola, Margherita, Beatrice e Bartolomea, ed i figli maschi: Galvanino, Francesco e Fabiano.

Maestro Alberto de' Zancari, dopo la dichiarazione esplicita di Margherita Ghisilieri, da uomo di spirito quale era, sebbene pros- simo alla settantina, è molto probabile che abbia sposata la bella vedova bolognese. Nel Provvisore dei Memoriali di Domenico da Sala, presso l'Archivio di Stato di Bologna, Gaetano Lorenzo Monti trovò notizia del testamento di Margherita moglie di maestro Alberto de' Zancari, con la data del 2 agosto 1348. Ma per quante ricerche abbia fatte, non mi fu possibile di trovare il nome di famiglia della seconda moglie di Maestro Alberto, che tredici giorni dopo, cioè il 15 agosto 1348, fece egli pure testamento, lasciando eredi i figli : Fabiano, che fu pure medico ed egregio fisico. Galvano o Galvanino ed IpoUineo, oltre ai discendenti maschi di Francesco, altro suo figlio premorto. Noterò in fine che Maestro Alberto fu uno dei testi- moni presenti al testamento di Mondino de' Luzzi da me pubblicato.

Lodovico Frati.

IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE

Le recenti manifestazioni del sindacalismo in Italia richiamano il pensiero sul più caratteristico contributo al movimento operaio ri- voluzionario che si deve alla Francia. Certamente vi è stato in Inghil- terra un periodo nel quale la classe lavoratrice si è agitata con me- todi e in forme che molto si avvicinano a quelle dei sindacalisti con- temporanei fautori dello sciopero generale. E fu il periodo del Car- tismo, specialmente nel 1842, quando un abitante sopra undici di quel paese riceveva assistenza dai guardiani dei poveri e il Disraeli, tre anni dopo, nel suo romanzo Syhil, in cui due nazioni quella dei capitalisti e quella dei lavoratori sono tra loro contrapposte, descri- veva la cessazione del lavoro, la grande insurrezione sindacalista co- minciata tra i minatori e gradatamente diffusasi per tutto il paese. Ma le associazioni operaie inglesi, le Trade Unions a poco a poco si persuasero della inanità di simili rivolte, della impotenza della sola « phj'sical force»; così alle agitazioni sindacaliste vennero sosti- tuendosi le forme più miti e più civili di lotte con la discussione e la persuasione. Il nuovo unionismo, ossia le associazioni formate tra i lavoratori senza un'abilità professionale speciale, e per ciò stesso peggio retribuiti, potè in qualche momento lasciar credere che rivivessero le lotte sindacaliste del 1842 e gli stessi scioperi recenti (agosto 1911, marzo 1912) (1) hanno fatto sorgere l'impres- sione che anche al di della Manica il sindacalismo rivoluzio- nario abbia messo radici, tuttavia non è certo nell'Inghilterra che possiamo trovare un movimento sindacalista rivoluzionario vera- mente importante, attivo, fondato sopra dottrine nettamente definite. Bensì è in Francia che si presentano tali condizioni; ed è dalla Francia che altri paesi, il nostro compreso, hanno ricavato la dot- trina sindacalista e tratto l'ispirazione per dirigere il movimento che a quella dottrina si uniforma. La stessa Germania non conosce un simile movimento, le sue organizzazioni operaie socialiste rima- nendo fedeli ai dogni, ai metodi, alle aspirazioni della democrazia sociale. Solo in qualche piccolo paese, come il Belgio, l'Olanda, e ora in un grande paese d'oltre Oceano, agli Stati Uniti (2) la cor- rente sindacalista ha assunto una non trascurabile importanza. Ma poiché nella Unione americana questo movimento è di formazione affatto recente, e converrà trattarne in altra occasione, può essere sufficiente di limitarsi qui a considerare la dottrina francese e la sua massima applicazione con lo sciopero generale.

(1) Cfr. Bardoxjx, L'Angìeterre radicale. (Paris, Alcan, 1913).

(2) V. BkookSj American Syndicalism. (New York, 1913).

IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE 279

I.

Il sindacalismo è sorto in Francia quando le due correnti socia- liste, riformista e rivoluzionaria, contendevano fra loro e si strugge- vano di conserv'arsi il favore delle masse proletarie. Questo nuovo unionismo, per usare l'espressione inglese, ha per suo credo che la classe lavoratrice deve agire per la propria salute, con organi propri, con un'azione diretta e non delegata ad altri e che il sindacato o l'unione di mestiere, primo tra quegli organi, dev'essere considerato non unicamente come uno strumento per ottenere parziali migliora- menti del sistema capitalistico esistente, o un campo di reclutamenti per i partiti socialisti, ma per se stesso lo strumento della rivoluzione e la cellula del futuro organismo sociale. E i suoi caratteri peculiari possono meglio risaltare da un confronto coll'unionismo puro e sem- plice, dal quale differisce sia per le aspirazioni rivoluzionarie, sia per l'adesione alla dottrina della lotta di classe, come differisce dall'anar- chismo e dal socialismo ortodosso, il che apparirà fra poco. Il sinda- calismo non può confondersi coll'unionismo del tipo classico inglese per la triplice differenza nelle mire, nel metodo, nello spirito che lo informa. La sua mira è rivoluzionaria, perchè vuole la completa de- molizione del sistema capitalista. I miglioramenti parziali nella con- dizioni dei lavoratori possono essere accettati, e anche domandati, ma sempre con la chiara coscienza che nessuna concessione che il ca- pitalista abbia a fare può appagare le loro domande. Gl'interessi della borghesia e del proletariato sono inconciliabili e la lotta di classe è il solo mezzo possibile per regolarli.

Nel metodo la differenza è egualmente fondamentale. È nel suo credo che un sindacato operaio non deve riporre la propria fiducia in un tesoro di guerra ben fornito, ma che anzi esso possa lottare meglio quando quello è meschino. La diversità di spirito può essere bene illustrata da un passo alquanto rettorico in cui il Griffuelhes [Syrìdicalisme et socialisme, pag. 57) contrappone l'unionismo fran- cese a quello tedesco : « Ciò che caratterizza l'operaio francese è la sua audacia e indipendenza. Nulla lo intimidisce. Egli si pone al disopra d'ogni autorità, d'ogni riguardo, d'ogni gerarchia. Quando un ordine è dato dall'autorità, qualunque essa sia, mentre il primo istinto dell'operaio tedesco è di obbedire, il primo istinto dell'ope- raio francese è di ribellarsi... E a chi si fermi a considerare ciò che implica l'azione, la superiorità della risolutezza ed iniziativa francese sulla prudenza e sull'apatia tedesca diventa manifesta. Chi troppo riflette nulla mai intraprende. Bisogna andare avanti, la- sciarsi condurre dal proprio impeto, fidando solo in stessi e riflet- tere che non spetta a noi di adattarsi alla legge, ma alla legge di adattarsi alla nostra volontà... L'originalità del sindacalismo fran- cese sta nel fatto che la sua sola politica è Vazionen.

Goll'anarchismo questo nuovo movimento operaio ha non poco in comune, tanto che critici socialisti hanno insistito a dire che il sindacalismo è soltanto l'anarchismo travestito. Nella loro opposi- zione allo Stato, all'azione politica, al militarismo, i due movimenti sembrano la stessa cosa. Ma i teorici del sindacalismo oppongono che le rassomiglianze sono puramente superficiali e invece le differenze sono fondamentali. L'anarchismo è la sopravvivenza dell'individua-

'^80 IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE

lismo e sentimentalismo del decimoitavo secolo, mentre il sindaca- lismo sarebbe un precursore della cooperazione e del positivismo del ventesimo secolo. L'anarchismo riguarda tutta l'umanità, il sindaca- lismo soltanto il proletariato; il primo considera l'individuo come l'unità primordiale, il secondo si appoggia al sindacato di mestiere.

Fra il socialismo e il sindacalismo parrebbe dovesse essere ar- monia, poiché entrambi professano il principio della lotta di classe e mirano alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Pure i sin- dacalisti si rifiutano ostinatamente di accettare la cooperazione del partito socialista o di lasciarsi dirigere dai suoi capi, ed è certamente una situazione curiosa quella di lavoratori che tendono verso uno scopo del socialismo e non vogliono riconoscere i capi destinati a. dirigerlo, seguire il cammino da essi tracciato.

Il critico sindacalista accusa il socialismo ortodosso di essersi tra- sformato; come dottrina, dicono, è diventato puramente una va- riante della dottrina prevalente della solidarietà, come in Francia, o un commento cavilloso e inconcludente di alcune idee e frasi ambi- gue del Marx, come in Germania. Come movimento sociale poi è di- ventato incolore, apatico, un radicalismo borghese di tipo lieve- mente più avanzato. Il vecchio fuoco si è spento. E la responsabilità di questa condizione è attribuita alla tattica parlamentare, alla trasformazione del socialismo in un partito politico.

IL

La partecipazione al governo di uomini politici francesi ascritti al partito socialista sollevò il malcontento nel mondo sindacale, fra gli aderenti alle Borse del lavoro, e la sfiducia nell'azione politica parlamentare. Questa sfiducia colpì l'ala destra, come l'ala sinistra del partito, Guesde come Jaurés, perchè la tattica della penetrazione politica non aveva mutata la condizione dei lavoratori, l'atteggia- mento dello Stato, e se ne dedusse che ciò che si era visto con la con- quista frammentaria dei poteri dello Stato per opera di alcuni socia- listi poteva aspettarsi anche da una completa conquista del potere da parte di tutto il partito socialista.

Il malcontento si manifestò tostò nei fatti e nelle risoluzioni ap- provate dalla Confederazione generale del lavoro. Al congresso di Amiens nel 1906 fu deciso : « per ciò che riguarda l'individuo il Con- gresso afferma che il membro di un Sindacato è intieramente libero di partecipare, fuori del sindacato, a qualsiasi movimento conforme alle sue opinioni filosofiche o politiche, limitandosi a chiedere in cambio ch'egli non porti nel sindacato le opinioni che professa al di fuori di esso. Per ciò che riguarda la organizzazione, il Congresso dichiara che affinché il sindacalismo possa raggiungere il suo mas- simo effetto, la sua azione economica deve essere rivolta direttamente contro l'imprenditore, le organizzazioni federate avendo come orga- nizzazione di lavoro nulla a che fare coi partiti e le sette che, al di fuori della sua sfera, sono intieramente libere di procurare la tra- sformazione della società».

Il rifiuto del sindacalismo di. allearsi col socialismo parlamen- tare é basato da un lato sulla opinione che quest'ultimo é in una falsa posizione, dall'altro sull'opinione che il primo può bastare a stesso.

IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE 281

L'accusa portata contro il socialismo è che esso poggia sopra una concezione erronea della lotta di classe. La lotta di partito non è la letta di classe. Il partito è tenuto insieme dalla identità delle opi- nioni, la classe dalla identità degli interessi; il primo è un gruppo artificiale di uomini di ogni classe uniti per un temporaneo accordo, la classe è un'organica divisione di uomini soggetti alle stesse in- fluenze economiche, viventi e operanti sullo stesso piano di interessi materiali. Quella erronea concezione ha risultati fatali sulla compo- sizione del partito e sui suoi capi : nelle sue fila sono elementi rac- colti in tutte le sfere del malcontento, il partito è costretto alla difesa di ogni frazione della piccola borghesia decadente e condannata a scomparire, che soffra dal c-ammino incessante ed inevitabile del pro- gresso industriale; la sua azione è legata e impastoiata dalla neces- sità di procurarsi il maggior numero di suffragi. I capi sono sempre più degli intellettuali, alcuni portati nelle file socialiste da convin- zioni oneste, mentre altri vi cercano un impiego lucroso, dei seggi in parlamento, o la direzione degli organi del partito, e sono i se- guaci che Marx indicava come « avvocati senza clienti, medici senza malati e senza coltura, studenti di bigliardo». E, qualunque sia il movente che li ha determinati a entrare nel partito, essi non sono in ogni caso in contatto col pensiero e la vita del proletariato.

Fatale, inoltre, alla integrità della dottrina socialista, è la mu- tata attitudine verso lo Stato che risulta dall'azione parlamentare. Invece di diminuire la importanza dello Stato, essa aumenta sempre più; ed è temerario sperare che un semplice cambiamento nel perso- nale governativo sarà sufficiente per redimere il proletariato dal si- stema capitalista. Si vuol fare il tentativo di attuare il socialismo nelle condizioni dello Stato odierno; e frattanto i lavoratori hanno solo la funzione passiva di mettere nell'urna elettorale una scheda ogni tanti anni. Nessun tentativo vien fatto invece di creare le istituzioni economiche che devono controllare la società dell'avve- nire o formare gli operai per la nuova e maggiore parte che in essa dovranno avere.

E passando dalla critica negativa a quella costruttiva, il sinda- calismo adotta il vecchio grido di guerra dell'Internazionale : « La emancipazione dei lavoratori dev'essere opera degli stessi lavoratori ». Anzi, esso gli un nuovo significato. In ogni lotta di classe del tempo passato, il ceto medio ha ottenuto la vittoria, non coH'insi- nuarsi nelle istituzioni aristocratiche e col dominarle, ma creando nuove istituzioni, città libere e parlamenti; per tal modo, coll'erigere la struttura di una nuova società borghese, veniva demolita la vecchia società feudale. Così i lavoratori non devono perdere le loro energie per conquistare e trasformare quella istituzione bor- ghese fondamentale che è lo Stato, ma devono distruggerla e privarla delle sue funzioni. Il proletariato ha una propria speciale istituzione sotto mano : il sindacato, ed è la vera missione della Confederazione generale del lavoro di aiutare i lavoratori nel plasmare questo nuovo meccanismo adatto ai suoi vari scopi, fondare sindacati, federazioni, borse o camere del lavoro, ciascuno con una propria parte nella so- cietà futura. Lo stesso Marx, che i sindacalisti si compiacciono di citare contro i marxisti era il primo a riconoscere che nella lotta

19

Voi. CLXVn, Serie V 16 settembre 1913.

282 IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE

per l'emancipazione del proletariato il sindacato deve avere la parte che il comune ebbe nella lotta per l'emancipazione borghese (1).

Il sindacato quindi ha una duplice funzione, dichiarata anche nel XV° Congresso nazionale corporativo di Amiens (1906) : per il presente l'organizzazione della resistenza collettiva, per l'avvenire la unità della produzione e distribuzione, base della riorganizza- zione sociale. Come scriveva anni sono la Voix du peuple, i sindacati Imperai riconoscono sempre più chiaramente la parte importante che essi devono avere nella struttura sociale. Essi sanno che oltre a difendere il loro pane quotidiano devono preparare il futuro. Sanno che l'organizzazione del lavoro è la matrice nella quale il mondo di domani sarà plasmato. Le istituzioni dell'avvenire già esistono in embrione e possono essere fatti dei primi passi verso la edificazione dell'ordinamento che dovrà sorgere. Il sindacalismo è d'accordo col revisionismo o riformismo in quest'attitudine favorevole alla gra- duale attuazione del programma, per quanto i mezzi adottati differi- scano pel loro carattere. L'azione non è rinviata a qualche momento lontano in cui il cataclisma debba avvenire, ma come dice il Pou- get {Le pani du travail) la rivoluzione è l'opera di ogni momento, di oggi come di domani; è un movimento continuo, una battaglia quotidiana, senza tregua, respiro, contro le forze dell'oppressione e dello sfruttamento.

Gradatamente, adunque, le varie organizzazioni del lavoro do- vrebbero assumere quelle funzioni che esse possono togliere all'im- prenditore e allo Stato, preparando il giorno in cui li sostituiranno entrambi. Contro lo Stato l'azione diretta prende la forma di pres- sione esterna mediante l'agitazione e la dimostrazione di forza, come avvenne in Francia più volte; contro l'imprenditore i mezzi adot- tati sono nuovi non in stessi, ma nel vigore rivoluzionario con cui sono applicati. •saLo sciopero, principale arma, dipende, rispetto al suo successo, non tanto da considerevoli fondi accumulati, quanto « dal- l'entusiasmo, dallo spirito rivoluzionario, dal vigore aggressivo » dei lavoratori che riconoscono la futilità di competere coi loro impren- ditori nella resistenza pecuniaria.

E caratteristiche sono due istituzioni che hanno accompagnato gli scioperi recenti dei sindacalisti; le cucine comuniste e l'esodo dei bambini; questo per rendere più valida la resistenza e più aggres- siva la lotta, affidando ai simpatizzanti sindacalisti i bambini degli scioperanti; le altre per ragioni di economia e per avere occasioni di contatti. Il sabotaggio poi, che ha sollevato così aperta condanna fra gli avversari dei sindacalisti, còme un entusiasmo inconsulto tra questi, prende la forma talvolta di un rallentamento studiato nella produzione, talvolta di una cattiva lavorazione o di altri danni. Ma il culmine cui sale l'azione diretta è lo sciopero generale.

La dottrina sindacalista in Francia ha avuto una diffusione piut- tosto rapida, e questo può essere attribuito a varie cause. Anzitutto la debolezza numerica e specialmente finanziaria dei sindacati operai

(1) Si veggano gli scritti del Sorel, del Lagardelle, del Berth, ecc., nella BiblitMque du mouvement socialiste. (Paris, 1908). Cfr. Louis Levine, The labor movement in France (New York, 1912); e sulla dottrina sindacalista le opere del Prezzolini, del Leone, del Labriola, ecc., ma specialmente quella del primo, pubblicata a Napoli, Perrella editore, 1909.

IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE 283

francesi, debolezza che dispone più facilmente a un'azione più radi- cale di quella che sarebbe accettabile per le organizzazioni tedesche 0 inglesi. La reazione contro l'opportunismo parlamentare, il senti- mento che un manipolo di deputati di origine e di abitudini mentali principalmente delle classi medie non possa adeguatamente rappre- sentare le richieste della classe lavoratrice fecero deviare questo radi- calismo dalla politica, e l'agitazione antiparlamentare degli anar- chisti rafforzò quella tendenza. Abili capi sorsero a dare al nuovo movimento forma e direzione : Pelloutier, Pouget, Griffuelhes, Dele- salle, Yvetot e altri; © un gruppo di intellettuali borghesi, Giorgio Sorel, Hubert Lagardelle, Edouard Berth e altri hanno contribuito a sistematizzare e precisare la dottrina sindacalista.

Fra tutti merita di essere ricordato il Sorel per l'azione vera- mente importante esercitata coi suoi scritti intorno all'avvenire socia- lista dei sindacati operai, sulla violenza, sul Marxismo, ecc. Il primo scritto pubblicato nel 1897 lo designò quale esponente teoretico del punto di vista sindacalista. Due anni prima della pubblicazione di quell'articolo di rivista era stata formata la prima Confederazione del Lavoro, nella quale venivano ad amalgamarsi le federazioni ope- raie. Allora la politica interna francese attraversava una crisi gra- vissima. Gli scandali del Panama, i funzionari compromessi, i mini- steri di breve durata, tutto cospirava ad abbassare la vita parlamen- tare e la politica nell'opinione delle masse. Il Boulanger era stato l'idolo della folla parigina; le rivelazioni deìVaffaire Dreyfus avve- lenavano la vita morale di quel paese e proprio allora Giorgio Sorel mostrava ai sindacati come potevano evitare il contagio deleterio dell'intrigo politico, come essi non dovessero essere società di mutuo soccorso, società cooperative, ma corpi organici entro i quali sono i germi dell'avvenire economico e politico del paese.

III.

Gli avvenimenti degli anni successivi a quello della pubblica- zione dello scritto su l'avvenire socialista dei sindacati operai sem- bravano mostrare che la salute dei lavoratori non era nella politica. L'agitazione per Dreyfus svelò tutta la profondità della depravazione morale nella vita burocratica del paese. Alcuni socialisti partecipa- rono al governo, ma il risultato fu che le classi lavoratrici si trova- rono più indifese, più malcontente e inquiete. Scrittori quali Paul Adam, Octave Mirbeau e Anatole France divennero ancor più pessi- misti rispetto alla capacità dello Stato di fronteggiare le questioni sociali. Gli operai furono indotti a riunirsi, a calcolare sopra la loro forza, sopra le armi di cui potevano disporre. E il Sorel esaltò lo sciopero generale, del quale espose la teoria giustificatrice ricorrendo persino a Kant, a Bergson.

La società, affermano Sorel e Berth, non si riforma nel corso della sua evoluzione fatale. Marx fu ingannato a questo riguardo dal suo soggiorno in Inghilterra. Egli sentì gli economisti di quel paese proclamare la dottrina del laissez faire e fu ottimista quanto alle speranze per l'avvenire. Le imprese diventano sempre più grandi e queste con atto di libera volontà si prepareranno a una com- pleta scomparsa. Ciò che è necessario è che il proletariato sia unito

284 IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE

COSÌ da prepararsi a ricevere la consegna di tutte le industrie del paese quando gli perverranno come manna dal cielo. Per questo il famoso manifesto comunista preconizzava lo sviluppo delle libere associazioni del proletariato invece delle società segrete. Orbene, ì teorici sindacalisti mentre proclamano medesimi più marxisti dei marxisti si rifiutano di seguire il Marx in queste conclusioni otti- mistiche. Per essi la cosa non è così facile, spedita, come suppo- neva Marx, e gli operai devono essere preparati a una lotta aspra, ma l'arma formidabile essi l'hanno nello sciopero generale. Questo è rivoluzionario, pessimista, riconosce che vi è da compiere nell'av- venire un lavoro serio e difficile, il cui scopo è di rovesciare la so- cietà. E la filosofìa intuizionista del Bergson è messa a contributo per spiegare che anche se lo sciopero generale non può essere giu- stificato col dare una idea razionale della nuova società che sulle rovine della vecchia dovrà sorgere, l'intuizione ci il modo di averne lin concetto completo e preciso. Gli scioperi possono essere difesi, secondo il Sorel, se essi esprimono in un modo perfetto tutte le aspirazioni del socialismo con una precisione e un rigore di tratti che nessun altro modo di pensare può rendere. Ma qui si potrebbe chiedere al profeta sindacalista che la precisione e il ri- gore di concetti mostrati nella difesa dello sciopero siano applicati anche a descrivere la situazione che deve seguire allo sciopero vit- torioso. Senonchè, proprio a questo proposito il Sorel si ripara ancor meglio sotto il mantello del Bergson. Gli scioperi hanno dato origine nelle menti del popolo ai motivi più nobili, profondi e ispiratori, ma è lo sciopero generale che aggruppa tutte queste idee in un quadro universale, e riunendole insieme a ciascuna la massima influenza possibile. Noi otteniamo così tale una intuizione del so- cialismo che il linguaggio è impotente di esprimerla chiaramente.

Certamente, non tutti coloro che partecipano al movimento sin- dacalista hanno adottato il sottile punto di vista del Sorel e degli altri teorici. Ma da quando il Sorel ha fatto dell'idea rivoluzionaria dello sciopero generale un elemento dell'atmosfera intellettuale in cui i più ardenti spiriti del movimento sindacalista si muovono, esso è divenuto un motivo operante, invisibile e oscuro; in molte delle più serie convulsioni del quarto stato esso ha dato forza e potere agli uomini estremi, che diversamente sarebbero stati respinti dai compagni più moderati.

Lo sciopero generale ha in qualche cosa che seduce la imma- ginazione dei lavoratori, specie latini, col quadro della paralisi subi- tanea dell'industria in tutto uno Stato, mediante l'abbandono del lavoro da parte di tutte le forze attive del paese. Negli ultimi anni Belgio, Francia, Russia, It-alia, hanno sperimentato questa tattica sindacalista. Dapprima essa prese la forma quasi idillica della ri- voluzione con le braccia incrociate, ma più tardi, secondo l'espres- sione del Griffuelhes, non doveva essere la semplice cessazione del lavoro, bensì la presa di possesso della ricchezza della società pel bene comune, con mezzi violenti o pacifici secondo la resistenza da vincere {V action syndicaliste, pag. 33).

Deriso dapprima dalla maggioranza dei socialisti, e l'Auer, socia- lista tedesco, disse che lo sciopero generale è una sciocchezza gene- rale {Generalstreik, GeneralunsinnJ) , ha avuto negli ultimi anni fre- quenti applicazioni. Anche i socialisti tedeschi lo hanno accettato m

IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE 286

determinate circostanze per ottenere o difendere principi politici e subordinatamente all'attività politica.

Lo sciopero rivoluzionario proclamato quale mezzo sufficiente per determinare la caduta del capitalismo è mes^o in ridicolo da uomini quali Bebel e Guesde, che ritengono possa essere indotta a scioperare solo una parte della popolazione. Forse che milioni di lavoratori consentiranno a morire di fame per la loro classe, quando per la loro classe non sono nemmeno disposti a lasciar cadere una scheda nell'urna elettorale?

Ma la critica è vana contro l'entusiasmo che assume forma mor- bosa. Anche se lo sciopero generale è impraticabile, esso ha per i suoi aderenti teorici l'incomparabile beneficio di un mito che anima e guida coloro che cercamo un nuovo ordine di cose. L'esperienza ha dimostrato, scrive Arturo Labriola (1), che l'idea dello sciopero generale, come simbolo della catastrofe del capitalismo e della guerra sociale, è un buon mezzo per far crescere la temperatura rivoluzio- naria del proletariato ed educarne il sentimento eroico del sacrificio. Inoltre questa idea permette di vedere immediatamente che il socia- lismo dev'essere opera delle classi lavoratrici, svolgersi come un pro- cesso economico e risultare in un atto rivoluzionario. Lo sciopero infatti, egli prosegue, non può essere praticato che dagli operai se- condo le norme ordinarie delle competizioni economiche e concen- trarsi in una rottura violenta dello stato ordinario delle relazioni so- ciali. Il sindacalismo sostituisce questa nozione a quella tradizionale della conquista del potere, la quale si presta a interpretazioni equi- voche e fa apparire il socialismo come portato della attività dei le- gislatori, nozione manifestamente sbagliata e inconcludente. Per noi sindacalisti la predicazione dello sciopero generale equivale all'affer- mazione che il socialismo deve essere : operaio, economico e rivolu- zionario. Perciò noi sindacalisti affermiamo che il socialismo operaio è tutto nello sciopero generale, considerato non come una manifesta- zione politica ordinaria, ma come la formula abbreviativa della rivo- luzione sociale. Ciò che in esso noi scorgiamo non è il fatto esterno e materiale, ma il complesso delle idee che rappresenta come in sintesi ».

IV.

Il movimento sindacalista rivoluzionario ha una importanza che non può sfuggire ad alcuno; ma esso è più che altro il prodotto di un malcontento diffuso in certi strati della classe lavoratrice o per ragioni economiche o per ragioni politiche. Non tutti i sindacalisti sono, del resto, d'accordo intomo ai vari punti del loro credo teorico, in tomo alla politica o tattica pratica da seguire. La propaganda anti- militarista e il disprezzo degli ideali patriottici non trovano fra i sindacalisti lo stesso consenso, e anche lo sciopero generale, pur esercitando una innegabile seduzione sulle masse dei lavoratori, non è giudicato nelle fila dei sindacalisti allo stesso modo, non suscita lo stesso tono di entusiasmo. Il sindacato è uno strumento economico che ha avuto e avrà sempre più una funzione importante per la

(1) Economia, Socialismo, Sindacalisma , pag. 193 e seg., 2* edizione, (Na- poli, s. d.)-

286 IL SINDACALISMO E LO SCIOPERO GENERALE

classe lavoratrice, fino a tanto che esso rimane nella sfera degli inte- ressi economici; tramutarlo in strumento di rivoluzione sociale o po- litica vuol dire snaturarlo e renderlo effettivamente impotente a rag- giungere il fine di una palingenesi. Se esso ha subito questa trasfor- mazione, ciò si deve a vicende politiche transitorie, da un lato, e dal- l'altro alla decomposizione innegabile del marxismo e alla crisi so- cialista che ne è derivata. Invero sarebbe stato strano che la deca- denza parlamentare non avesse suscitato anche nelle file degli operai organizzati un senso di disgusto, accresciuto non di rado dal vedere che anche fra i deputati , socialisti il parlamentarismo decadente aveva fatto non piccola strage. E quanto al partito socialista diviso, dilaniato da lotte interne, incapace di avere un indirizzo pratico ben determinato, non poteva nemmeno esso continuare a ispirare fiducia in coloro che chiedevano programmi precisi, direttive nette e ferme, coerenza di proponimenti. Cosi l'azione parlamentare, il partito so- cialista e il suo programma ufficiale caddero in discredito; l'azione diretta parve più consentanea ai bisogni, alle finalità, alle vedute del proletariato. E teorici acuti ed eloquenti, pratici furbi e abili sfruttarono la situazione creata dalle vicende politiche e dalla disu- nione e impotenza socialista. Fu una reazione forse inevitabile, dato lo stato degli animi nelle fila dei lavoratori irregimentati nei sinda- cati, nelle unioni, nelle leghe. Però non tutti gli operai organizzati si lasciarono convincere dal verbo sindacalista, anzi una minoranza soltanto ha effettivamente partecipato e partecipa al movimento sin- dacalista; questo avviene in Francia come in Italia, in Inghilterra come negli Stati Uniti. E quando condizioni economiche peggiorate o questioni politiche male condotte hanno reso più acute le sofferenze dei lavoratori, o aggravato il dissidio fra governanti e governati, il sindacalismo' ha trovato la possibilità di inscenare scioperi generali che han dato risultati più o meno positivi a seconda delle circostanze nelle quali avvenivano. Ma si può credere che se lo spirito sindaca- lista non cesserà di avere traviamenti rivoluzionari, l'esperienza ren- derà meno imprudenti e impulsivi^ sindacati, meno avversi all'azione politica, la quale, se spesso ha mostrato di essere inconcludente e vana, ha pur dato alle classi lavoratrici benefici innegabili. E il mito dello sciopero generale alla prova salutare dei fatti si dimostrerà sempre più un'idea pazzesca, anche per coloro che vogliono rico- struire la società sulle rovine accumulate dalla rivoluzione sinda- calista.

R. Dalla Volta.

A SUPERGA

RICORRENZE TRISTI E GLORIOSE DEI REALI DI SAVOIA

Un senso alto e degno di gratitudine che non si affievolisce col volgere del tempo, ma si ravviva ognor più con la coscienza più evo- luta dei benefìci ricevuti : una fiamma nobilissima di patriottismo che non si spenge, ma si riaccende più ardente nelle più solenni ricorrenze che agitano tradizioni e memorie già sacrate alla storia, e tuttavia sempre vive per noi, ci hanno richiamati oggi come negli anni passati su questo storico Colle alle tombe gloriose dei nostri Reali per recarvi l'omaggio devoto delle anime vostre.

E nel solenne pellegrinaggio si uniscono i superstiti onorati delle nostre guerre dell'indipendenza e della unità, compagni d'arme dei nostri Re nei cimenti e negli onori delle battaglie, e le balde giovanili schiere della Unione Liberale Monarchica che in lotte meno cruenti, ma pur esse perigliose e difficili, intendono a con- servare alla Patria le libertà e l'unità conseguite dai valorosi vete- rani : uniti tutti nel pensiero che nulla avremmo conseguito, rico- stituita la Nazione, guarentite le franchigie liberali, senza una salda Monarchia e senza l'opera della dinastia di Savoia.

E poiché avete voluto con benevolenza che mi onora, ch'io fossi l'interprete di questo vostro pensiero e dei sentimenti che qui vi hanno condotti, ed ora si affollano nelle vostre menti e nei vostri cuori, io dirò non con lungo discorso, che non occorre, ma con sin- tesi concisa che incida e rammenti.

L'omaggio nostro per i mesti anniversari che celebriamo è ri- volto a Re Carlo Alberto che moriva esule in Oporto il 28 luglio 1849, a Re Umberto I che mano parricida ci rapiva in Monza il 29 lu- glio 1900. Ma a queste nobili figure di Re ricordati dal nostro dolore, si unisce e non può andare disgiunta in più alta visione la maestà del Padre della Patria, di Re Vittorio Emanuele II, che é tanta parte della epopea nazionale e nel quale col Padre e col Figlio si compendiano cinquanta anni della nostra storia italiana.

Re Carlo Alberto é tal uomo che grandeggia da lontano e nulla perde della grandezza sua quando se ne scrutino più da vicino le

Nota. Questo discorso fu pronunciato a Superga, ove sono le tombe dei Reali di Savoia, dall'on. Ferrerò di Cambiano per invito del Comizio dei \^e- terani e della Unione Liberale Monarchica di Torino commemorandosi i Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II e Umberto I e celebrandosi il bicentenario dell'assunzione alla dignità regia di Vittorio Amedeo II.

288 RICORRENZE TRISTI E GLORIOSE DEI REALI DI SAVOIA

gesta e la vita, i sentimenti ed i moventi, la gloria e le sventure. Tutto si può discutere di lui, dal i82i quando si inizia la sua vita di principe, al 1849 quando gliela tronca la morte. Si può chiedere con la licenza che è consentita allo storico e con la riverenza che si impone all'animo di un italiano, se Carlo Alberto nei moti del 1821 sia stato più generoso o più imprudente: se poi mancò fede ai compagni o se presago del futuro e cosciente di quello che avrebbe poi potuto compiere e compì, piegò dolorosamente, ma avveduta- mente alle ragioni di Stato. Si può dubitare che siano state neces- sarie, o si possano scusare le repressioni violente del 31 e del 33: si possono ben anche rimpiangere le diuturne titubanze e le alta- leno dell'Italo Amleto, mosso oggi da sentimenti più larghi, ri- condotto domani da altre influenze a più severe provvidenze.

Ma errerebbe e non si inspirerebbe a giustizia a concetti politici, chi. non conciliasse queste contraddizioni apparenti, chi non le coordinasse e non le subordinasse, anche nelle fallacie del mo- mento, a quello che é stato il pensiero informatore di tutta la vita di quel Re Martire : di fare dei suoi Stati un paese sotto ogni rap- porto civile, economicamente progredito, militarmente forte, per condurlo poi a quella guerra contro l'Austria che è stata sempre il sogno e il tormento della sua vita. E quelle che sembrarono e fu- rono pur anco contraddizioni apparentemente inesplicabili, erano forse movenze politiche per vincere e fondere contrarie tendenze, e le repressioni violente si spiegano col proposito di mantenere forte l'autorità dello Stato e di non lasciare che moti individuali ed inconsulti nuocessero al più vasto disegno che Egli maturava. E che lo maturasse con coscienza di Re e con affetto per il suo popolo, lo prova la concessione dello Statuto e lo dicono quelle splendide parole che ne sono il proemio. Lo dicono e lo provano la sincerità assoluta di Re Carlo Alberto e la impareggiabile fermezza sua dal giorno in cui ha largite le libertà costituzionali ed ha bandita la guerra dell'indipendenza. Non più l'ombra di una esitanza allora, ma tutto stesso ed i figli e gli interessi della sua Casa, gli affetti famigliari, quanto aveva di più caro sacrò alla causa della quale si era fatto patrono.

Il Pontefice Pio IX dopo la sua splendida aurora liberale emana la famosa enciclica deiraprile. Re Ferdinando di Napoli concede e poi ritoglie le libertà, i moti liberali nelle altre parti d'Italia pro- rompono, e poi evaniscono senza efficacia di effetti. Ma Carlo Al- berto che ha giurato le libertà e la guerra, quelle mantiene, questa prosiegue, e non lo vincono la disillusione della sconfìtta, le sconsigliate intemperanze dei più accesi. E quando vinto l'esercito a Novara, fatta più insolente l'Austria, diffidenti malgrado la lealtà ed i sagrifici suoi, non pochi fra i nostri. Egli dispera di raggiungere la méta, rinuncia con nobile abnegazione, nel nome stesso dei suoi disegni e dei suoi sogni di italiano, alla corona ed alla Patria. E lascia il campo, la Reggia, il Piemonte nella speranza che i patti imposti dal vincitore siano meno grevi per il suo Figlio, e che con Vittorio Emanuele si possano ricomporre le fortune del Paese e ricondurlo così a quella rivincita che è stata l'ultima visione dell'ul- tima sua ora terrena.

Ecco quale é la grande anima di Re Carlo Alberto. E chi ne misura tutti i tormenti che ha durati, tutte le speranze che ha va-

RICORRENZE TRISTI E GLORIOSE DEI REALI DI SAVOIA 289

gheggiate, tutti gli sforzi che ha tentati, o è invaso da ingiusta febbre partigiana, o non può non piegare le ginocchia della mente innanzi alla memoria del nobilissimo Re,

Anche nella sublime sua rinuncia di martire Carlo Alberto è stato presago dei destini del suo popolo.

Re Vittorio Emanuele II, emulo del Padre, non cedette alle pre- potenze dell'Austria vincitrice e mantenne le libertà che aveva giu- rato. Continuò con i suoi ministri l'opera di rigenerazione economica e civile dei suoi Stati e con l'opera loro, con quella segnatamente di Camillo Cavour, intese pure Egli a fare grande il Piemonte per comporre poi la grande Italia che diventò il programma aperto suo, del suo governo, del suo popolo.

Vittorio Emanuele II è stato il più grande Re dei tempi nostri, e così meritamente lo designa la storia.

Lo secondarono la fortuna, gli eventi, gli uomini. Il suo po- polo fu degno di lui coi sacrifìci che durò, con l'entusiasmo che lo animò, con la fiducia che mostrò in ogni tempo al suo Re ed ai suoi dirigenti : l'esercito ed i volontari col loro valore e con l'abnegazione si mostrarono pari all'impresa che erano chiamati a compiere : uomini eminenti in ogni parte d'Italia si unirono a Lui con l'opera e col consiglio. Napoleone III fu il potente alleato ai suoi disegni : la santità della causa della quale si faceva antesi- gnano e patrono mosse e commosse l'opinione pubblica italiana ed europea.

Ma senza di Lui non si sarebbe riusciti a costituire in nazione le sparse membra dell'Italia divisa in sette Stati.

Vittorio Emanuele II ebbe il fine intuito degli uomini e delle cose e sempre nettamente tracciata innanzi a la via da percorrere e la meta cui giungere. Ad essa subordinò ogni cosa e coordinò ogni atto. Intuì col suo grande ministro la importanza della guerra di Crimea, e di quanto valore fosse per il piccolo Piemonte l'alleanza coi grandi Stati Francia ed Inghilterra ed il diritto che gliene poteva venire, e poi gli fu riconosciuto, di parlare nel nome d'Italia. Intese il vantaggio del parentado coi Napoleonidi, e per quanto gli costasse consentì che andasse sposa al principe Gerolamo sua figlia, la vene- rata principessa Clotilde, alla quale, qui sepolta, è pur giusto che vadano i memori sensi di gratitudine del popolo italiano. Comprese e capitaneggiò il movimento unitario italiano, accettando, dovun- que gli venissero, concorsi ed aiuti : capì che Roma era e doveva es- sere la grande capitale storica dell'Italia unita vincendo ogni scru- polo intimo, anche quello dell'antico affetto alla sua Torino.

E così, pronto a tutto sacrificare e a tutto tentare, colla finezza del suo criterio e con la prontezza delle sue decisioni, mai fu un osta- colo, fu sempre un aiuto nei momenti più perigliosi e più ardimen- tosi della nostra politica intema e della nostra santa impresa di re- denzione.

La propaganda unitaria e l'azione convinta di Giuseppe Mazzini, le leggendarie audacie di Giuseppe Garibaldi, il genio e gli avvedi- menti del Conte di Cavour, sono stati i grandi fattori della risurre-

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zione d'Italia con quella nobile pleiade di uomini che con essi hanno cooperato alla grande impresa.

Ma se Vittorio Emanuele II non avesse data a questa impresa na- zionale l'autorità del suo nomo e il prestigio della sua Casa : se Egli non avesse con rara sapienza politica riunito intorno a tutte quelle forze e tutti quegli uomini, concordi nel pensiero, ma diversi nelle tendenze: se Egli non avesse data all'Europa la guarentigia che la rivoluzione che Egli guidava, diventava con Lui elemento di ordine : se Egli non avesse presa in mano quella bandiera dell'unità nazio- nale e non la avesse fatta trionfare sui campi di battaglia e nei ^xa- binetti delle Potenze, non saremmo, lo ripetiamo, risorti a Na- zione, né avremmo preso il posto che abbiamo conseguito nel .-on- sesso dei grandi Stati.

Questi sono i jiobilissimi titoli di Vittorio Emanuele II alla am- mirazione della storia ed alla riconoscenza del suo Popolo. Ond'é che nessuno é più degno di lui del titolo di Padre della Patria, e la gloria sua sarà eterna come eterna durerà la sua memoria nel cuore di ogni italiano.

La sua spoglia non riposa qui nelle cripte di Superga. Nella sventura che ha colpita l'Italia con la perdita di tanto Re, volle la sorte che egli morisse in Roma e che -al primo Re d'Italia si desse sepoltura nel Pantheon, quasi a nuova consacrazione del diritto na- zionale, quasi a conforto della dolente nazione.

con ciò sono divisi nell'eterno loro' riposo i nostri Reali, per- ché qui e colà li ricerca memore e concorde il sentimento degli ita- liani che si inspira dovunque al pensiero ed alla venerazione dei suoi grandi, giacciano essi colle spoglie mortali a Superga o a Roma, a Santena, a Caprera, a Staglieno.

Accanto al Padre riposa nel Pantheon il Re Buono Umberto I che ora pur qui commemoriamo, dolendoci anche oggi che una mano sacrilega abbia troncata la vita a quell'uomo che del suo al- tissimo ufficio regale aveva compresa © sentita tutta la nobiltà, tutta - la elevatezza.

Non era facile compito quello di succedere al gran Re, e nessuno elogio migliore può farsi del compianto Re Umberto di questo, che Egli se ne mostrò degno, che ne seguì la politica avveduta e seppe cattivarsi l'affetto e la devozione del popolo italiano. La grandezza dei sovrani non si può tutta misurare dagli eventi fortunati e dalle grandi imprese che la storia registra. Altra cosa è costituire uno Stato ed altra cosa é il governarlo, e vi si richiedono virtù, tempera- menti, energie differenti.

Re Umberto aveva pur dato come soldato il suo concorso di va- lore alle guerre nazionali e tutti ricordiamo lo storico quadrato di Villafranca, ma finita l'opera eroica toccò sopratutto a Lui il riordi- namento dello Stato e la sua redenzione economica. Ed Egli vi in- tese comprendendo i tempi nuovi ed i nuovi bisogni del suo Popolo e le nuove orientazioni a benefìcio di chi soffre e lavora, cosicché si compiaceva e si gloriava che dal suo Governo fossero iniziate quelle provvidenze sociali che mitigano le asprezze ed i dolori della vita

RICORRENZE TRISTI E GLORIOSE DEI REALI DI SAVOLA 291

negli infortuni e nella invalidità e disciplinano il lavoro con tem- peramenti di igiene e di equità sociale.

Rispettoso sempre della essenza del Governo costituzionale che fa del Re l'arbitro, non il fautore di partiti politici, e vuole che il Re regni e non governi, comprese però tutta la maestà della rega- lità nella generosità e nella bontà, ed in quella dignitosa squisitezza di sentimento che senza sopprimere le forme, elevandole e nobili- tandole le fa convergere ai fini ed al valore della Monarchia.

Ebbe compagna in questa alta funzione regale quella augusta donna che è la regina Margherita, modello di ogni grazia e di ogni virtù, la quale seppe col Re Umberto cattivare tante simpatie alla Casa di Savoia, da renderle amici e devoti anche i più fieri ed i più riottosi di un tempo.

La bontà di Re Umberto si manifestava operosa e generosa soc- corritrice in ogni sventura che colpisse il suo popolo. E tutti ricor- diamo come accorresse a Busca e a Napoli quando vi infieriva il co- lera, a Casamicciola quando la colpì il tremendo terremoto, a Ve- rona quando la afflissero le inondazioni, e l'ultimo suo atto che gli costò la vita, è stato ancora un atto di bontà, perchè non seppe ricusare un invito che gli intimi suoi gli sconsigliavano di tenere perchè in luogo malsicuro.

Non dimentichiamo ancora che Re Umberto intuì che l'avvenire politico ed economico dell'Italia stava pure nella espansione colo- niale, e concorse del suo in quelle spedizioni eritree che sono malau- guratamente segnate nella nostra storia coi lutti e coi dolori di Do- gali e di Adua, ma che sono state pure le antesignane di quelle più fortunate della Libia, che hanno riscossa l'anima italiana e ci hanno fatti anco una volta sentir degni dei nostri padri e dei nostri avi.

Un Re che tanti titoli aveva all'amore dei suoi sudditi, non avrebbe dovuto perire come Ei perì per mano assassina. L'esecra- zione di tutto un popolo che si è raccolto commosso attorno alla sua bara, ha fatto giustizia di quel tristo che lo ha colpito. E l'angoscia del dolore patito ha trovato soltanto conforto di liete speranze augu- rali nel giovane Re Vittorio Emanuele III, virilmente educato e tem- prato, erede coll'affetto di tutte le più nobili virtù del Padre. Auguri e speranze che il tempo ed i fatti consacrano e ravvivano.

Così risurge per li rami questa virtù dei Savoia. Non vi è di- nastia che la eguagli nell'amore che tutti i suoi Principi hanno avuto per i popoli loro e nell'affetto che i popoli hanno per Loro sentito. Nella lunga serie dei Sovrani Sabaudi non uno ne registra la storia che non sia stato buono anche nei tempi più tormentosi del medio- evo, dall'ottocento col primo Umberto Biancamano ai giorni nostri. Anche quando sovranità voleva dire imperio e violenza, e di Patria e di Nazione non si parlava, i popoli soggetti ai Savoia sentivano nell'affetto per i loro Principi il legame che di Patria e di Nazione teneva luogo. Ed erano vincoli di amore e di devozione sincera ripa- gati dai Sovrani con ogni atto di bontà e con ogni cura per i sud- diti loro.

Ed è perciò che la Casa Savoia partita dalle sue roccie montuose di oltre Alpi e scesa in Italia, vi pose salde radici e vi crebbe i suoi

292 RIjCORRENZE TRISTI E GLORIOSE DEI REALI DI SAVOIA

domini acquistando, perdendo, riconquistando, legando sempre più i popoli a sino a distendere il suo dominio su tutto il Piemonte, preludendo a quella sovranità italiana che elevò i destini della Gasa Sabauda.

Ed è perciò che noi siamo profondamente monarchici e dina- stici, perchè vediamo e sentiamo nella Monarchia e nella Dinastia la guarentigia più salda della nostra libertà e della nostra unità. La nostra è convinzione profonda che ha le sue radici nella storia, che ha la sua consacrazione nei fatti e nella visione del futuro, e che nessuna bufera potrà scuotere.

* #

E così, assoluto il nostro compito doloroso del ricordo reverente dei grandi nostri Reali perduti, noi assurgiamo col pensiero memore ed altero ad altro ricordo glorioso della Dinastia Sabauda.

In quest'anno si compiono duecent'anni da che la corona reale è stata posta sul capo del Duca Vittorio Amedeo II, uno dei sovrani più grandi di questa eletta schiera di principi sabaudi che la storia esalta.

Salendo al trono Vittorio Amedeo II malamente poteva difen- dere i suoi domini in Piemonte nelle lotte continue tra Francia ed Impero, or con quella or con questo alleandosi o stringendo paren- tadi e pattuendo compensi a seconda volevano le vicende delle guerre e consentivano le difficoltà dei negoziati.

Nelle tristi condizlioni politiche deiritalia di allora Vittorio Amedeo II era il solo Sovrano che italianamente e fieramente sen- tisse di e del suo Stato. Da Emanuele Filiberto in poi la tendenza della Dinastia si era fatta italiana ed aveva trasferita in Piemonte la base della sua potenza, ponendo la capitale in Torino. Vittorio Amedeo rinsaldò e crebbe questa potenza nel lungo regno col suo valore in guerra e coi suoi negoziati diplomàtici, forzatamente meno sinceri talvolta, sempre avveduti e degni di un grande poli- tico quale egli era.

E questo colle sacro alla gloria di Vittorio Amedeo II e da Lui consacrato colla erezione della Basilica in memoria e in voto per la vittoria conseguita sui francesi e per la liberazione di Torino del 1706, ci ricorda e testimonia la maggiore fra ie imprese poli- tiche e militari di quel grande Principe, la guerra per la succes- sione di Spagna, dalla quale uscirono più notevolmente che mai cresciuti i domini italiani dei Savoia. E più tardi, finita questa lunga contesa di cui l'assedio e la vittoria di Torino sono stati per noi il più splendido episodio, i maggiori Stati convenuti a Utrecht per ridar pace all'Europa, assegnavano il 13 luglio 1713 a Vittorio Ajnedeo II l'sola di Sicilia col titolo di Re, togliendola alla Spagna : titolo e dominio che col trattato di Londra del 1718 vennero poi mutati nel r-eame di Sardegna, da cui si intitolò la dinastia dei Savoia fino ai tempi nostri.

Era U'n presagio della missione di Gasa Savoia in Italia? Era il suggello di quella italianità che distingueva i nostri principi? Certo é che le acclamazioni con le quali il popolo siciliano accolse Vittorio Amedeo II ed il parlamento siciliano gli giurò fedeltà, quando in sul finire del 1713, libera l'isola dalla prepotenza spa-

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gnuola, il nuovo Re si recò a PaleiTno, sono stati preludio al ple- biscito del 21 ottobre 1860 col quale il popolo siciliano a voti qucisi unanimi dichiarava di volere l'Italia una ed indivisibile con Vit- torio Emanuele a suo Re, e quindi alle acclamazioni colle quali Palermo, il primo del dicembre 1860, con indicibile calore di entu- siasmo accoglieva il Re liberatore dalla tirannia borbonica negazione di Dio. Ed il posarsi dell'Aquila Sabauda in Sicilia colla incorona- zione di Vittorio Amedeo fu sicuro vaticinio di quel volo più grande che era destinata a spiccare dalle giogaie della Moriana ai colli di Roma.

Rammentando e celebrando questo bicentenario della regalità sabauda meritata dal senno, dal valore e dalla fortuna di Vittorio Amedeo II, ed esaltando con essa la fortuna di Casa Savoia cre- sciuta sempre dal primo conte al primo duca che fu Amedeo Vili al primo re di Sicilia e di Sardegna, per giungere ai Re d'Italia, noi celebriamo la gloria e la fortuna d'Italia nostra.

E Voi valorosi veterani delle nostre guerre nazionali, Noi del- l'Unione Liberale Monarchica abbiamo compiuto atto di italianità con questo pellegrinaggio e con questa funzione solenne nella mo- destia sua, affermazione convinta, della gratitudine di un Popolo e dell'indissolubile legame che avvince nella storia, nelle tradizioni, nelle lotte e nelle vittorie la Dinastia di Savoia alla grandezza d'Italia.

E posando lo sguardo su questo passato e su queste tradizioni nel dipartirci da questo Colle ognor più sacro al nostro affetto, pos- siamo con animo lieto e fidente guardare all'avvenire della Patria nostra. Ed auspicarlo in radiosa visione sempre più grande e fe- condo di potenza politica, di progresso civile, di operosità econo- mica, luminoso e benefico, nell'unione di tutte le classi, per ogni ordine di cittadini, se non verranno meno, come indubbiamente non lo verranno, il valore e le energie, il senno e le virtù 'dei nostri Re e del nostro Popolo.

Ferrerò di Cambiano.

NOTIZIE LE-TTERARIE

Cesare Sardi, Lucca e il suo Ducato, dal 18H al 1859. Firenze, Uff. della <( Ras- segna Nazionale », 1912, pag. 434 in-8°.

Dopo gli importanti articoli che Giovanni Sforza, fra il 1893 ed il 1900, pubblicò nella Nuova Antologia, intorno alla regina d'E- truria, poi duchessa di Lucca, Maria Luisa, ed a 'Carlo Lodovico; non riesce davvero superflua meno opportuna questa serie di articoli sullo stesso argomento, venuti in luce, durante . l'anno 1912, nella Rassegna Nazionale di Firenze e raccolti ora In un solo vo- lume.

Essi incominciano da un largo Cenno sulla madre del Duca, ma si estendono ad uno spazio di tempo più lungo, perchè com- prendono anche il breve regno di Ferdinando (Carlo III) figlio unico del Duca e poi duca, egli stesso, di Parma; e non solo la politica, ma altresì la vita privata dei Lucchesi, e molti fatti d'ogni genere ri- guardanti il governo di Carlo Lodovico. E sono, per la maggior parte, compilati sopra Diarii e Memorie inedite, e su documenti con- servati nell'Archivio della nobil famiglia Sardi dal conte Cesare, già illustre per molti studi storici intorno alle antichità, le vicende, i costumi della sua patria.

Vi abbondano quindi i curiosi particolari aneddotici, che si leg- gono con vero piacere, mentre si appoggiano su accreditate testimo- nianze : ed il libro partecipa della storia e della cronaca; poiché non manca altresì di savie considerazioni politiche, e, tra la varietà dei singoli avvenimenti, non perde di vista l'occulto andamento prov- videnziale. « Il mondo va, conclude l'Autore a pag. 415, perché Dio lo conduce e lo governa... Vi è una mente ordinatrice che plasma i fatti, e li dispone a suo modo. Se non fosse così, sarebbe una torre di Babele il grande edifìzio de' secoli ».

Dopo avere, nel primo capitolo, esposto i desideri e i tentativi dei Lucchesi, alla caduta dei Baciocchi, di restaurare il reggimento repubblicano, desideri non esauditi dal Congresso di Vienna, passa il Sardi a descrivere, con pochi tocchi ma sufficienti, il governo di Maria Luisa, della quale imparzialmente ricorda i pochi pregi e i molti difetti e, fra questi, la eccessiva timidità e bigotteria, che resero, massime negli ultimi anni, esoso il suo principato; onde, quando il figlio, di natura più liberale, salì al trono, parve ai Luc- chesi d'essere trasportati in più spirabil aere.

E veramente egli diede bene a sperare negli inizi del suo go- verno, e parve voler secondare i giusti desideri de' sudditi colla amnistia conceduta, contro ogni aspettazione, ai cospiratori del 1831,

NOTIZIE LETTERARIE 295

e con importanti riforme che effettuò o cercò effettuare, in quelli che lo Sforza, nei citati suoi articoli, chiamò i « ventidue anni di go- verno patriarcale ». Ma dovette ben presto fare i conti coli' Austria, ,che vedeva di mal. occhio certe tendenze liberaleggianti, e che da indi in poi lo tenne, or più or meno, sotto il suo ferreo vassallaggio. La vita girovaga ed irrequieta di questo principe, dotato per altro di una tal quale generosità d'animo e non fatto per il dispo- tismo, le dilapidazioni del pubblico denaro per servire ai suoi ca- pricci e stravizi, la baldanza data ai favoriti di Corte italiani e stra- nieri, da Fabrizio Ostini a Tommaso Ward, la severità, se non vo- gliamo dir crudeltà, nelle esecuzioni sanguinarie, sia pure di mal- fattori, e quel po' di bene che egli fece più per innata inclinazione che per riflessione o per norma, ma che pure gli guadagnò una non passeggiera affezione da parte de' suoi buoni sudditi; l'atteggia- mento a tiranno (contro l'indole propria) nelle forzate riforme a mala pena concedute nel 1847, fino alla spontanea abdicazione, pre- cedente di pochi giorni alla morte della Duchessa di Parma; gli in- certi prodromi del suo nuovo governo in quella città; sono minu- tamente tratteggiati dal Sardi con preziose notizie aneddotiche, ora autentiche, talvolta leggendarie, e con opportune riflessioni che ri- traggono i tempi, e i varii um^ori delle persone.

Un episodio che volentieri diremmo burlesco e tragico al tempo stesso, lo formano i portamenti del principe ereditario, Ferdinando, poi, dopo la seconda abdicazione del Duca, Carlo III di Parma colla sua nervosa indocilità, con le continue scapataggini e spesso ridevoli prepot-enze, che in Lucca gli avevano concitato il compatimento, più che il disprezzo, dei sudditi, e in Parma gli suscitarono l'odio po- polare, finito con la uccisione proditoria, che restò sempre impunita.

E intanto il padre, disgustato egli pel primo delle follie del nuovo Duca, innanzi e dopo la catastrofe, abbandonata Parma, vagava, secondo l'usanza, qua e là, conservandosi quel gioviale com- pagnone, sempre di lieto umore, che potè giungere alla tarda età di ottantaquattro anni, non senza fare sfoggio, nelle sue familiari con- versazioni, d'una certa bontà di cuore e di un certo senno natu- rale, agguerrito dalla dura esperienza.

Sopra un campo così svariato e curioso per ogni verso si aggira il tranquillo narratore, piuttosto con erodotea disinvoltura e faci- lità, che con rigoroso ordine storico, largheggiando in un'erudizione minuta e piacevole intorno ad uomini e cose, e dandoci assai bene, come suol dirsi, il color locale dei tempi.

Riassomma poi, nella Conclusione, per sommi capo le cose nar- rate e ci fa sfilare sotto gli occhi con tocchi incisivi i principali per- sonaggi alti e bassi che nel lungo racconto ha incontrati, e che formano, come dice l'Autore stesso, un piccolo mondo antico.

A noi pochi superstiti, che ricordiamo, almen in parte, quell'età e che, vivendo allora in Lucca, ci siamo trovati a molte delle cose qui esposte, il libro del Sardi, così sereno e imparziale, produce l'effetto di farci rivivere in un tempo tanto diverso dal nostro di oggi e, certamente, tanto, In paragone, meschino e ristretto; ma caro per liete reminiscenze, abbellite forse dalla immaginazione, la quale ci rende talvolta, secondo il noto detto oraziano, laudatores temporis acti, ecc.

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Il canto ZÌI del a Paradiso » letto da Alfonso Bertoldi nella sala di Dante in Orsammichele. Firenze, G. Sansoni, editore, 1913.

« Questi due uomini (San Francesco e San Domenico) d'indole e d'ingegno pur così diverso, sono ormai accoppiati per sempre nella mente d'ognuno, sin da quando gli accoppiarono i casi della vita, la storia, la leggenda, il pennello del Beato da Fiesole, il pen- siero di Niccolò Machiavelli, l'arte di Dante Alighieri, che alle lodi di essi volle serbato luogo così insigne nella sua immensa epopea. Le lodi di Francesco egli affidò, con profondo accorgimento, a un domenicano, e quelle di Domenico a un francescano, mentre, per contrario, assegnava a ciascuno de' due frati il biasimo de' propri confratelli ».

Così nell'esposizione del canto XII del Paradiso esordisce il prof. Alfonso Bertoldi, che già lesse e spiegò il canto precedente, dove si celebra con altissima poesia il serafico in ardore, pubblicato nel 1904; al quale fa seguire ora il presente che inneggia Colui, il quale

per sapienzia in terra fue di cherubica luce uno splendore:

ardore e luce, amore e sapienza, cospiranti insieme per la salva- zione dell'anima e per la riforma dei costumi umani su questa terra.

Non ci fermeremo a notare la diligenza e l'acutezza onde il chiaro Scrittore mostra anche in questo suo Studio ermeneutico, raccogliendo e vagliando quanto di meglio hanno detto i precedenti espositori, e riportandosi specialmente alle fonti più antiche e più genuine.

Ci preme invece osservare come effetto del suo lavoro critico, la rettificazione della figura storica di S. Domenico: «Non fu egli, quale se lo figurano ancora tanti di mediocre cultura, uomo violento, carnefice di eretici, inspiratore e creatore dell'Inquisizione, e ma- gari di quella spagnuola; ma fu invece, per irrefragabili testimo- nianze, uomo mitissimo e mondo d'ogni violenza, d'un'equanimità calma e sicura, se non quando lo movevano compassione e mise- ricordia, e sempre pronto alla rinunzia di tutto stesso, a propa- gazione della fede, e in vantaggio materiale e spirituale de' fratelli », del qua! giudizio porge ampia ragione nelle erudite annotazioni che illustrano questo passo; ed altresì dove sentenzia (pag. 25) che la opera del Santo contro gli Albigesi, dal 1205 al 1214, fu « energica e instancabile, ma di persuasione, di pacificazione, incontaminata di sangue, giacché nella terribile crociata condotta da Simone di Montfort e dai Gircestiensi contro quegli eretici... Domenico non ebbe parte alcuna » e chiama leggenda senza alcun fondamento quella che fa rimontare a lui l'origine della prima Inquisizione» (vedi a pag. 47).

Della narrazione che contiene la vita del Santo, il Bertoldi può vantare d'avere scoperta « come diretta e quasi unica fonte » la leg- genda di Teodorico d'Appoldia « l'ultima e la più ampia di quante diede il secolo xiii, composta per volere del settimo generale del-

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l'Ordine, Munione di Zamora, che stimò opportuno riunire in un sol corpo quanto era stato scritto sulla vita del gran Patriarca» per poter concludere : « Dante si servì adunque di una narrazione, a così dire, ufficiale » (vedi la nota 20 a pag. 45).

Le glorie principali dell'Ordine domenicano sono dall'Autore illustrate in compendio a pag. 29 e seg. come a conferma e preludio di quei diversi rivi che dal Santo si fecero; e queste pagine, dense di storia, trovano compimento e schiarimento nella lunga ed erudita nota bibliografica a pag. 55-57, ch'egli potè compilare con l'aiuto di un dotto domenicano, il P. Costanzo Maria Becchi di S. Maria Novella.

A proposito poi della fierezza di Dante contro gli eretici o gli ereticanti, il Bertoldi non l'approva certo in stessa, anche tenuto conto dei tempi oggi mutati profondamente; ma ne apprezza l'in- timo senso, affermando non « potersi dissimulare o negare l'esistenza d'un fatto e quindi d'un problema religioso, innanzi all'universal mistero dell'essere, alla coscienza che tutti abbiamo dell'incertezza del nostro destino, al sentimento del nostro valore morale, alla nostra inflessibile tendenza verso un ideale di felicità... e soprat- tutto innanzi all'infallibile nozione del bene e del male e alla sete di verità e di giustizia che ne tormenta, sete inesauribile ed insazia- bile di modo, che l'uomo può bensì tollerar la fame, non patire la ingiustizia e l'errore». E col Carducci esclama: «Ove e quando ferma e serena rifulge l'idea divina, ivi e allora le città surgono e fioriscono; ove e quando ella vacilla e si oscura, ivi e allora le città cadono e si guastano ».

Nel fissare poi certe varianti il Bertoldi non manca neppur qui del suo solito acume. Al v. 21 egli preferisce, per buoni argomenti, la lezione

e l'estrema all'infima rispose,

ripudiando l'altra, suffragata pur essa da diversi codici,

e l'estrema aìl' ultima rispose,

che racchiude, secondo che egli dice, «un solenne sproposito». E, quantunque, per manco di testimonianze, sia costretto ad accettare nel V. 142 la volgata

ad inveggiar cotanto paladino,

e cerchi, alla meglio, di spiegarla; pure crede probabile e quasi certa la congettura affacciata, prima di ogni altro, dall'Andreoli, che il poeta scrivesse ad inneggiar, la qual lezione, colla differenza di una sola lettera facilmente scambiabile, accomoderebbe, in modo mera- viglioso, il senso del contesto. D'altra parte, se d'inneggiare volgare non conosciamo esempi antichi, il latino hymnizare, da cui è indub- biamente derivato, si trova piìi volte nella bassa latinità, donde il poeta lo avrebbe preso con quella libertà che spesso usò. fa ma- raviglia che i copisti preferissero la voce inveggiare storpiata, così com'è, ddiWinvidere latino e a noi venuta dai Provenzali.

Con pari probabilità avea congetturato il buon P. Giuliani che le donne contigiate del canto XV del Paradiso, le quali rompono bru- scamente la serie delle lussuriose usanze femminili condannate dal

20 Voi. CLXVII, Serie V 16 settembre 1913.

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NOTIZIE LETTERARIE

poeta, fossero invece gonne contigiate. Ma errò, sostituendo, nella sua piccola edizione dantesca, all'altra de' codici, questa forma con- getturale, perchè, dove manca l'autorità dei documenti, non è lecito inventare varianti, siano pure, quanto si vuole, verosimili o ragio- nevoli.

Concludiamo che nella interpretazione di questi due canti, e più specialmente del secondo, che offriva forse maggiori difficoltà, l'egregio Bertoldi ha saputo innovare con illuminato giudizio e, senza abbondare in superflui accessori, farci rivivere in mezzo al- l'ardore religioso che da que' due campioni della Fede si riversò sul loro secolo, e si ripercosse nella mente infiammata del sommo poeta.

Raffaello Fornaciari.

Bibh'oteca della Nuova "Antologia,,

1. *Cenere, di Grazia Deledda. L. 3.

2. Gli Ammonitori, di G. Cena. L. 2.50.

3. I Nipoti della {Marchesa Laura, di M. L. Danieli-Camozzi e G. Manfro- Oadolini. L. 3.

4. Storia di Due Anime, di Matilde

Serao. L. 3.50.

5. Il fu Mattia Pascal, di Luigi Piran-

dello. L. 3.

6. L'ultima Dea, di 0. Del Balzo. L. 3.

7. Nostalgie, di G. Deledda. L. 3.50.

8. L'Illustrissimo, di A. Cantoni. L. 2.50.

9. Ore Calle, Sonetti romaneschi, di Au- gusto Sindici. L. 2.50.

♦Questi volumi sono esauriti.

10. Dopo il perdono, di M. Serao,. L. 4.

11. La via del male, di Grazia Deledda. L. 3.50.

12. I cantanti celebri, di Gino Monaldi. L. 3.

13. Homo Versi, di G. Cena. L. 2.50.

14. L'ombra del passato, di Grazia De ledda. L. 3.50.

15. L'Edera, di Grazia Deledda L. 3.50,

16. La Camminante, di G. Ferri. L. 3.50.

17. *Nuove Liriche, di V. Aganoor.L. 3.

18. Il Nonno, di Grazia Deledda. L. 3.

19. Evviva la Vita! di Matilde Serao. L. 4.

RASSEGNA DRAMMATICA

I

Gli Attori e il Cinematografo.

È una grossa questione, certamente : ed è agitata ora dai giornali della scena, con maggiore vivacità di altre, volte per quello che di questi giorni è accaduto. E cioè : alcune compagnie di prosa sono state scritturate da Case cinematografiche : la pellicola vuole ripro- durre, pare, i quadri scenici che le Case cinematografiche sceglie- ranno nei loro repertori. Di quando in quando, conseguentemente, le compagnie scritturate dovranno, armi e bagagli, dedicarsi allo scopo, e « posare » per varie ore della giornata dinnanzi all'obbiet- tivo; ma le compagnie hanno poi anche il loro dovere quotidiano, dovere che riguarda l'arte e che riguarda la loro azienda: lo studio, le prove, le rappresentazioni... E allora...

Ecco, io credo che si debba trattare la questione; e si debba trat- tarla non tanto nei riguardi dell'» affare », buono o cattivo, che ha tentato i capocomici, che hanno accettato, ad accettare, quanto nei riguardi della sorte dell'arte della scena in relazione alla interpre- tazione e alla esecuzione dei quadri scenici. Non nei riguardi del- l'" affare », perchè appunto gli affari sono gli affari; e poiché l'in- dustria del teatro di prosa è industria privata, colui che la esercita ha diritto di cercare di afferrare la chioma alla fortuna come crede, anche a rischio di fiaccarsi il collo in una impresa sballata. Chi segue tali manifestazioni non può che giudicarle, quando riescono o quando non riescono : tutt'al più potrà permettersi qualche consiglio vedendo fuorviare, consigli i quali come quelli della esperienza a nulla servono. Nei riguardi della sorte dell'arte della scena in rela- zione alla interpretazione e alla esecuzione dei quadri scenici, in- vece sì la questione va trattata : perchè quel commercio o quella in- dustria si serve d'un mezzo, l'arte, che è qualche cosa di diverso e di più alto dei quattrini che il capocomico con quel commercio o con quell'industria ambisce e raggranella.

Ora io credo che per le ragioni dell'arte abbiano commesso un errore, grave, gravissimo anzi, e le Case cinematografiche a scrittu- rare le Compagnie drammatiche e le Compagnie drammatiche ad ac- cettare la scrittura. Se le Compagnie drammatiche nell'accettare sono state spinte, unicamente, dal desiderio del maggiore lucro possibile, il che non è certo un'idealità, ma per quanto deplorevole è pure umano, le ragioni che hanno spinto le Case cinematografiche non risultano sufRcentemente meditate. Che un dato quadro scenico in- fatti interpretato e rappresentato da una Compagnia possa essere de-

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siderato dalle Case cinematografiche, per la fortuna della pellicola, s'intende : ma la riproduzione costante, pure con la scelta, non si comprende. Si capisce, ancora, che oltre un particolare quadro sce- nico, le Case cinematografiche vogliano questo o quell'attore, quando è adatto benint-eso alla pellicola, per le speciali interpretazioni del- l'attore 0 per particolari quadri cinematografici : ma la scrittura delle Compagnie complete, perchè? Ed ecco: in questa scrittura si rivela la incertezza e la confusione che governano, meglio sgover- nano, le Case cinematografiche nelle vie da seguire, nei fini da rag- giungere, a traverso il mezzo che possiedono, e cioè la cinemato- grafia.

L'errore delle Case cinematografiche, che hanno voluto quelle scritture, e dal quale derivano l'incertezza e la confusione, risiede in questo. Esse non hanno ancora compreso e non vedono ancora chiaro, quale dovrebbe essere il programma cinematografico: il suo contenuto, se si vuole. Hanno avviato questo programma quasi uni- camente verso il quadro scenico: riducendo così il vasto contenuto del cinematografo, e rendendolo un teatro come un altro, un teatro che anche per la mala visione di coloro che lo guidano è tra i peg- giori. Il programma quotidiano del cinematografo potrebbe conte- nere sì un quadro scenico; ma il quadro scenico dovrebbe costituire uno dei « numeri », per intenderci, di quel programma, il quale negli altri « numeri » andrebbe composto di tutto quanto ora il cinema- tografo o trascura o presenta in proporzioni minime. E si noti : pre- cisamente la parte, anzi le parti, che il cinematografo trascura o presenta in proporzioni minime, dovrebbero costituire il suo partico- lare carattere, il suo fine, e col fine e il carattere la sua maggiore fortuna e il suo titolo di nobiltà e di vittoria. Così è anche fiorita una nuova categoria di drammaturghi e di commediografi : comme- diografi e drammaturghi per cinematografo; e un repertorio che, per la commozione o l'ilarità, si avvia dalla ingenuità, dalla povertà, e va a tuffarsi nelle degenerazioni biasimevoli dello sciagurato labo- ratorio teatrale. E così è seguita quella discussione poi, prodotto na- turale della goffaggine prima; e cioè, se, col tempo, il teatro pro- priamente detto sarà o no distrutto dal cinematografo. Vale a dire, il cervello di Shakespeare messo in pericolo dalla pellicola! Quanto di più cretino si possa mai immaginare.

Ma se il cinematografo sperpera stolidamente quanto potrebbe essere la sua fortuna sicura, padrone. Non sarebbe questo certo il primo caso di qualche cosa utile resa infeconda o pericolosa per malo uso, malo intendimento, mala visione. Fermiamoci alle Com- pagnie drammatiche che hanno accettato le scritture. Non insisto, come ho detto, suir« affare ». Noto solo che affare » a ogni modo sarà per il capocomico se mai, non per l'attore. Il capocomico per l'attore provvederà aumentando di tanto o di quanto la sua paga, aggiungendo nel contratto l'obbligo per l'attore della « prestazione » per la pellicola. E meno ancora ricordo e commento quanto gli attori hanno declamato contro il cinematografo, nel nome dell'arte loro offesa dai contratti con la pellicola. Chiacchiere quelle da ozio di caffè; ma che, pur troppo, hanno consentito il diritto a qualche ri- vista cinematografica di ironicamente o violentemente osservare come le ire e gli orgogli si siano disfatti all'apparire del « tornaconto », con tutte le proclamate idealità sacre da custodire rinfoderate. Mi per-

RASSEGNA DRAMMATICA 301

metto accennare, invece, unicamente al danno che deriverà alle compagini di attori acquistate dalla Cinematografia, per la nova fatica che risulta dal fatto accettato e il malanno che conseguente- mente toccherà alla scena di prosa. Pare impossibile! Nessuna classe è gelosa della sua operosità, come quella degli attori; e nessuna classe si affatica a turbarla come quella degli attori! Deve essere un morbo che si diffonde dalle tavole del palcoscenico; poiché anche quando sul palcoscenico giungono, dalla vita non dalla «quinta», energie nuove, dopo alquante passeggiate su quelle tavole, son prese dal malo germe tale quale!

Le Compagnie drammatiche che hanno accettato il contratto offerto ad esse dalle Case cinematografiche hanno commesso dunque un errore gravissimo: gravissimo, relativamente al nuovo dovere che debbono assumere; relativamente alla nuova fatica che si aggraverà su quella che giorno per giorno debbono già compiere; relativamente alla individuale sorte di quelli attori che possono per l'ingegno am- bire a un avvenire; relativamente infine alle sorti della scena di prosa nei suoi maggiori destini, di arte, e alla quale concorre, per l'affermazione precisa e solenne, prima dell'attore l'autore.

Relativamente al nuovo dovere. Perchè per il quadro scenico cinematografico il mezzo di manifestazione per l'interpretazione è assolutamente diverso da quello per la scena di prosa. Si tratta di mimica : e una mimica che deve riassumersi non negli sbraccia- menti : è necessario parco gesto, e grande efficacia di espressione nel volto. Un'arte, come è chiaro, particolarissima: a riuscire nella quale nulla significa essere attore buono, eccellente, grande, sulla scena di prosa. Infatti si è veduto : grandi attori hanno fatto mala prova, me ne duole per la loro gloria e per la loro boria, mala prova in pellicola; mentre attori mediocri si sono affermati tra i migliori per il quadro scenico cinematografico. Occorre quindi, come per ogni manifesta- zione d'arte, essere adatti. L'obbligo del contratto col capocomico, per il quale l'attore non potrà sottrarsi alla cinematografia, non am- mette adatti e non adatti. Il quadro scenico che sarà richiesto dovrà esser riprodotto. L'attore deve quindi servire al doppio uso. E se non sa, e se non può? Si affanni a riuscire. Il che, per i piìi, certa- mente non adatti, rappresenterà un pericolo per quel pane quoti- diano che la scena di prosa già aveva invece assicurato.

Relativamente alla fatica quotidiana. È una nuova sciagura per l'attore. La giornata dell'attore è tra le più gravi di fatica. A segno che s'invocano, e vanno discutendosi e proponendosi, opportune e legittime provvidenze. Per studiare, sul serio, non restano che poche ore di notte, tolte al sonno. Nei nostri teatri di prosa, si muta pro- gramma ogni due o tre sere; sono rari i casi delle molte e molte repliche su una piazza. Poche ore di notte, tolte al sonno. La gente che non sa non crede : e a volte il critico che conosce lo strazio di quelle esistenze, si arresta commosso, pensoso se debba o no infierire sugli errori delle interpretazioni. Le prove, varie ore, la preparazione della « cesta » per il « fa bisogno » della recita, un pranzo strozzato, un breve riposo agitato, e la rappresentazione che se per lo spettatore comincia alle 21, per l'attore comincia alle 20 e per le attrici alle 19, e se per lo spettatore termina alle 24, per l'attore e l'attrice a notte inoltrata: una cena in furia, e, il fascicoletto della «parte» aspetta prepotente, per la recita di domani, per le recite seguenti, e le novità

302 RASSEGNA DRAMMATICA

di giorni dopo. A questa vita delle ventiquattr'ore si aggiungerà ora la fatica dell'attore da cinematografo. Una vita nella quale la prova che per l'attore della scena di prosa si svolge sul palcoscenico del teatro, per l'attore cinematografico si svolge sullo speciale palcosce- nico per alcuni ambienti, ma spesso occorre l'aria aperta : anzi per 1 quadri all'aria aperta la scenografìa cede alla natura : l'attore cine- matografico poi corre di qua di là, di su di giù, a piedi, a cavallo, in automobile, in ferrovia... Abbia pure un attore sortita una costi- tuzione delle più ferreamente resistenti, certo dopo un mese che una di queste Compagnie scritturate ora dalle Case cinematografiche avrà dovuto recitare tutte le sere, provare tutti i giorni, mettere in iscena quattro lavori nuovi, e eseguire tre quadri cinematografici, sarà ri- dotta in condizioni tali di estenuazione, per lo meno, lasciamo stare l'istupidimento, da richiedere urgenti le difese della pubblica salute. Al danni che procura agli organismi la trascurata igiene dei palco- scenici, si aggiungeranno gli altri dall'aria aperta provenienti. 0 mi inganno o ci avviamo alla follìa : e questo precisamente quando si studia una legge che dell'igiene della scena, anima e corpo, accenna a preoccuparsi!

Relativamente alla individuale sorte di quelli attori che possono per l'ingegno ambire a un avvenire, l'obbligo contrattuale cinema- tografico costituirà il pericolo di o non raggiungere o vedere assi- duamente minacciato quell'avvenire. Lasciamo stare anche l'igiene e la fatica : diciamo della vittoria d'arte. Se questo attore è adatto alla pellicola, il diverso studio che dovrà compiere per le due espressioni diverse di interpretazione, quella alla ribalta della scena di prosa e quella in pellicola, avrà per risultato tale un turbamento e tale una confusione nel suo spirito, che l'attore porterà in « pellicola » l'espres- sione della ribalta della scena di prosa, e in questa quella necessaria alla pellicola. Così, pure nato al successo della interpretazione sulla scena, per l'altro dovere della pellicola, e la conseguente mescolanza, sarà costretto a dedicarsi pienamente o al cinematografo o alla scena di prosa. Diciamo la verità, per un attore dalle felici disposizioni per la scena di prosa, doversi porre un simile dilemma è già mezza catastrofe per la sorte sua. Peggio il caso dell'attore che ha per l'in- gegno diritto all'avvenire, e che ottiene il successo particolare d'in- terpretazione sulla scena di prosa, ma per il cinematografo è negato o vale quanto uno dei mediocri. Le sue vittorie sulla scena di prosa saranno sempre adombrate dalla sua cinematografica insuffìcenza; e potrà trovarsi a questo dolore che comprometterà il suo migliore destino : di raccogliere, per la medesima interpretazione, l'applauso unanime nel quadro della scena di prosa, e il contrario nel quadro scenico cinematografico.

E le sorti della scena di prosa? Quei maggiori destini, di arte, che tutti invocano, che tutti anelano, dei quali tutti declamano nella terra italiana, per la terra italiana! Quale sarà la sorte dei quadri scenici con le compagnie strette in siffatte condizioni? Se finora i capocomici poco o niente si curano della formazione illuminata dei repertori, e aspettano o il capriccio indicatore a suo modo della voga, o la prepotenza cieca quando non è sciagurata della importazione, figurarsi d'ora in poi! Altro che assegnare una qualsiasi idealità alla cronistoria della compagnia che si governa ai fini non solo dell'in- dustria ma dell'arte! Potrà anche accadere che il capocomico, e

RASSEGNA DRAMMATICA 303

direttore, contro volontà, trascinato dallo imperio delle circostanze, porterà nello acquisto dei quadri scenici per la -sua compagnia l'in- tenzione della loro adattabilità alla pellicola; non solo : ma nella guida delle interpretazioni dei suoi attori, e degli «insieme», avrà la preoccupazione di destreggiarsi in modo che non si debba rico- minciar punto e da capo quando quel quadro scenico verrà poi ri- chiesto dal cinematografo! E sarà questa un'altra ventura dei giovani attori non più educati all'arte drammatica italiana, maravigliosa di storia di gloria e di vittoria sull'universale, ma all'arte drammatica per scena di prosa e per cinematografo ad un tempo: prodotto nuo- vissimo che risulterà quello che risulterà; e sarà ancora per gli scrit- tori, in ispecie quelli che sentono possente l'ambizione e la volontà d'una scena italiana, la ventura delle venture. Avere per la inter- pretazione e la esecuzione del proprio quadro scenico, il contributo d'un direttore che ha per i quadri scenici il contratto con la Gasa ci- nematografica la quale paga, bene, e sa il suo diritto; e il contributo di attori abburattati tra la scena di prosa e la pellicola, fra l'una e l'altra sperduti, spossati, storditi, che non possono a meno d'un mi- racolo dedicarsi a uno studio che era già arduo per la loro esistenza quotidiana prima del nuovo onore della pellicola; avere il contributo di quel direttore e di tali attori, sarà proprio il calcio nella schiena e il « fuor di qui », quattro e quattro otto, allo scrittore. Ma, diciamola com'è : l'autore drammatico italiano merita questo, e se c'è il resto ancora. Tutto quello che si compie giorno per giorno contro di lui, a teatro, di lui che dovrebbe esseme il padrone, illuminato ma pa- drone, egli gradisce e si compiace: si leva il cappello, s'inchina profondo, bacia la mano che lo respinge e l'oltraggia. Mai un mor- morio di protesta; e, più triste ancora, mai un'azione di protesta. Cia- scuno per sé, se si può; e nessuno per tutti!

Io sono fermamente convinto che non i capocomici e direttori, non gli attori, e meno di tutti gli autori, ciascuno per il suo errore, si avvedranno presto che occorreva raccogliere e confortare l'allarme che, alla notizia di quelle scritture, erompeva dal libero petto del- V Argante, il giornale della «Lega degli artisti drammatici», combat- tente strenuo e ammirevole, forte 'di fede e di ideale, per il migliora- mento morale e materiale della comica famiglia. Saranno invece le Case cinematografiche che si accorgeranno sollecito di non avere me- ditato prima di volere quelle scritture. Per il fine infatti che si pro- pongono in relazione ai quadri scenici cinematografici, a parte le altre discussioni sull'indirizzo dei medesimi, le Case cinematografiche debbono formare speciali Compagnie di attori cinematografici; sce- gliendo gli adatti dovunque si trovino, formandone nuovi. In difetto, quello di scritturare le compagnie di prosa, come ora, è il peggiore degli espedienti : è, esercitando l'industria della cinematografìa, non capire che debba essere l'attore da quadro scenico cinematografico.

Edoardo Boutet.

TRA LIBRI E RIVISTE

Il testamento del Boccaccio Francesco Papafava dei Carraresi Per la protezione degli oggetti d' arte La baronessa Orczy I giapponesi in California Heinrich Federer Un banchetto a Ibsen La libertà di coscienza nell'antica Roma Il quarto centenario della scoperta del Pacifico.

Il testamento del Boccaccio.

L' unica testimonianza attendibile sulla data di nascita di Giovanni Boc- caccio è quella fornitaci dal Petrarca, che in una lettera indirizzata allo stesso Boccaccio scriveva : « io nelVordine del nascere ti ho preceduto per lo spazio di nove anni », per il che, essendo nato il Petrarca nel 1304, Giovanni Boccaccio sareb- be nato nel 1313, cioè sei secoli or sono.

Il padre suo. Boccaccio di Chellino, voleva avviarlo alla mercatura; però vedendolo più appassionato alle lettere che ai negozi, pensò meglio di dedi- carlo allo studio del diritto ca- nonico. Ma l'autore del Decame- rone era nato per la poesia e per il piacevole novellare, la qual cosa se da un canto gli frut- tò gloria e nome immortale, dal- l'altro lo obbligò a vivere vita poverg e morire del pari povera- mente.

Quali fossero le sue condizioni economiche, soprattutto negli ul- timi anni, ce lo dice il fatto che Francesco Petrarca lasciò a lui per testamento cinquanta fiorini d'oro per comperarsi una veste onde ripararsi dal freddo nelle

lunghe veglie invernali consacrate allo studio; e meglio ancora ce lo dice il testamento fatto dallo stesso Boccaccio rS agosto 1374, circa quattro mesi e mezzo prima di morire.

Dal contenuto di questo testamento, il cui originale in pergamena trovasi

Casa del Boccaccio a Firenze.

TRA LIBRI E RIVISTE

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ora all'Archivio di Stato di Siena, pos- siamo ricostruire V intero patrimonio di Giovanni Boccaccio, che in realtà rappresenta ben povera cosa conside- rato in stesso, e più povera ancora se si consideri in rapporto alla gran- dezza del testatore, che, a parte la sua fama di letterato, ebbe ripetutamente incarichi e missioni di altissima im- portanza.

Ecco in qual modo egli dispose della sua modesta eredità : dieci soldi di fiorini piccoli alla chiesa di S. Repa-

testatore. e contenente le identiche di- sposizioni dell'originale latino già ri- cordato, si legge:

« Ancora lascio alla Bruna, figliuola che fu di ciango da monte magno, la quale lungamente è stata con meco, il letto nel quale era usa di dormire ad certaldo, cioè una lettiera d'albero, i coltricella di penna, i piumaccio, una coltre bianca piccola da quel lecto, I paio di lenzuola buone, i panca che star suole ad pie di quel lecto. Et ol- tre acciò un desco piccolo da mangiare

G. Boccaccio Fiammetta (Maria d'Aquino)

(da un affresco nella Cappella degli SpagnuoH a S. Maria Novella).

rata in Firenze, ed altrettanti per la costruzione delle mura della città di Firenze; cinque libre di fiorini piccoli alla Società di S. Maria di Certaldo, e dieci per la costruzione della chiesa di S. Giacomo di Certaldo.

Air infuori di questi pochi assegni in denaro, tutto il resto del patrimonio era rappresentato: da una casa posta nel rione di S. Giacomo in Certaldo, da un pezzo di terreno in parte col- tivato ed in parte piantato a vigna, nella contrada Valle Lizia presso Cer- taldo, da poche masserizie di casa, dai libri e da alcuni oggetti ed arredi sacri.

Riguardo alle masserizie, nel te- stamento italiano scritto dallo stesso

d'assi di noce, 2 tovaglie menate di lunghezza braccia 6 l'una, 2 tovagliole convenevoli, i botticello di 3 some. Ed oltre ad ciò una roba di monchino foderata di zendado porporino, gon- nella et guarnacca et cappuccio. Et ancora voglio che essa di quello che avere dovesse di suo salario di resto da me, sia interamente pagata ».

Ma Giovanni Boccaccio, a somiglian- za di qualcuno dei grandi poeti dei nostri giorni, ebbe anch'egli i suoi de- biti, e non volendo d'altra parte de- fraudare nulla ai suoi creditori, nello stesso testamento dispose :

u Ancora lascio che ciascuna perso- na la quale si trova scripta di mia propria mano nel libro delle mie ra-

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TRA LIBRI E RIVISTE

gioni soprasegnato A, che da me deb- ba avere, sia interamente pagato, et oltre acciò ciascuno altro che giusta- mente mostrasse di dovere avere. Et pagare le dette quantità et lascio, vo- glio che gl'infrascriptl miei executori ogni mio panno, masserizia, grano, e biada e vino e qualunque altra cosa mobile, exceptuati i libri, et le scrip ture mie, possano e debbano vendere

Lascia in oltre al monastero dei frati di S. Maria di Santo Sepolcro un cer- to numero di reliquie di santi, alla chie- sa di S. Giacomo di Certaldo una ima- ginetta di alabastro della Beata Vergine, una pianeta con stola, manipolo ed altri arredi sacri; a madonna Sandra, moglie di Francesco di Lapo Buonamichi « una tavoletta nella quale è dall'una parte dipincta nostra Donna col figliuolo in

Cortile della Casa del Boccaccio a Corbignano presso Firenze.

o far vendere; et dove delle decte mie cose mobili non s'avesse tanto che ba- stasse a decti pagamenti, voglio pos- sano vendere et alienare de miei beni come potrei io medesimo vivendo, et maximamente una casa posta in Cer- taldo nel popolo di S. Jacopo di Cer- taldo... e non bastando questa, possan vendere degli altri miei beni come decto è ».

In quanto ai libri ordina che sieno dati « al venerabile Maestro Martino dell'ordine de frati heremitani di Santo Agostino e del convento di sancto spirito di Firenze, li quali esso debba et p. tenere ad suo uso mentre vive,... et oltre far copia ad qualunque per- sonali volesse »».

braccio et dall'altra un teschio di mor- to » e da ultimo nomina eredi univer- sali i figli nati e nascituri, legittimi e naturali di suo fratello Jacopo di Boc- caccio.

Senza dubbio il patrimonio lasciato da Messer Giovanni Boccaccio, all' in- fuori dei preziosi suoi libri e dei pre- ziosissimi manoscritti, per i quali Mor- gan di buona memoria avrebbe dato parecchi milioni, non fu tale da arric- chire gli eredi ; tuttavia non ci sembra fuori di luogo mettere in evidenza il patriottismo del Certaldese, dove destina dieci soldi di fiorini piccoli per la costruzione delle mura di Fi- renze.

(P- P-)

TRA LIBRI E RIVISTE

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Francesco Papafava dei Carraresi.

A cura della famiglia e degli amici sono state raccolte in due volumi col titolo Dieci anni di vita italiana (Bari, Laterza, 1913, pagg. vxi-821, lire io), le Cronache, che Francesco Papafava dei Carraresi pubblicò nel Giornale degli economisti dal settembre del 1899 al gennaio del 1909.

Il Papafava, morto a Firenze il 30 marzo 1912, in età di 52 anni, è stato senza dubbio uno degli uomini più in- teressanti e più originali della sua ge- nerazione. Nato in una delle più anti- che e più ricche famiglie del \'eneto, ebbe soitimenti francamente e coeren- temente democratici ; e nessuno dei nostri più ardenti « popolari n si è mai ì trovato per sentimento di giustizia, per l amore di patria, per omaggio devoto l e incondizionato alle ragioni supreine - della verità a propugnare riforme più radicalmente audaci di questo gran signore veneto che avrebbe dovuto es- sere più che conservatore per posi- zione economica, per tradizione di fa- miglia, per interessi personali.

Uomo di squisito sentire, alieno dalle lotte e dai rumori, non fu tentato che assai mediocremente dalla politica atti- va. Preferì essere, degli avvenimenti contemporanei, piuttosto osservatore che attore. E il frutto di questo lavoro, apparentemente modesto ma difficile e faticoso per chi voglia farlo con sicura informazione e con coscienza onesta lavoro che egli continuò per dieci anni, con eroico sforzo di volontà, nono- stante la cagionevole salute è stato ; ora assai opportunamente esumato dalle pagine della rivista, in cui ebbe dapprima la luce, e può essere giudi- cato e apprezzato in questi due volumi assai meglio ehe nella primitiva fram- mentarietà della pubblicazione.

Sulla fine del 1899, allorché il Papa- fava cominciò a scrivere le Cronache, l'Italia era aflfaticata da una penosis« i sima crisi economica e morale, e in- torno al problema dell' esercizio delle libertà costituzionali ferveva una irosa battaglia fra i partiti democratici e i

partiti conservatori. Il Papafava prese risolutamente posizione per i partiti democratici. E caduto il ministero Pel- loux, dopo le elezioni del 1900, via via che andò delineandosi sempre più nettamente il prevalere nella nostra vita pubblica dei gruppi liberali e de- mocratici, sperò che questo mutamento di uomini dovesse portar seco tutta una grande opera di riforme interne : doganali, tributarie, amministrative; le

Francesco Papafava.

quali conducessero il nostro paese a una maggiore giustizia sociale e regio- nale, ad una pratica di amministrazione giornaliera più onesta e più rigida, ad essere forte un po' -neno in apparenza e un po' più in sostanza.

Ma le speranze nell'azione dei par- titi democratici caddero in pochi anni ad una ad una. Conservatori e demo- cratici s: dimostrarono equivalenti nel- l'azione positiva di ogni giorno. D'al- tra parte, la vita economica del paese, malgrado gli errori della politica go vernativa, si sveltiva, progrediva, face- va intravvedere la possibilità di un avvenire migliore.

Non più pessimismo, dunque, sulle condizioni reali della nazione, e otti- mismo sulle attitudini dei partiti de-

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TRA LIBRI E RIVISTE

mocratici a migliorarle ; ma crescente fede nella vitalità della fibra italiana, e sfiducia sempre più larga nell'opera dei partiti, a cui erano affidate una volta le speranze migliori. Non più i soli problemi della politica interna lo attirano ; la sua cura si rivolge sem- pre più vigile alla politica estera. E non però l'antimilitarismo e l'anticolo- nialismo delle prime cronache ; ma cre- scente preoccupazione della posizione internazionale dell'Italia, e favore espli- cito ad ogni ragionevole aumento di spese militari.

Questa, che è stata nel decennio 1899 -1909 l'evoluzione politica di Fran- cesco Papafava, è stata su per giù la evoluzione politica d' una gran parte dell'Italia d'oggi. E i due volumi delle Cronache del Papafava sono un docu- mento prezioso e caratteristico di que- sta trasformazione dell'opinione pub- blica, riflessa nel pensiero e nel tem- peramento di un uomo di larghi studi, di forte ingegno, di altissima coscienza morale.

Sono dieci anni di vita italiana e di uno dei periodi più interessanti della nuova vita italiana osservati mese per mese da uno studioso arguto, pe- netrante, aristocratico; commentati da un galantuomo coerente, purissimo, schietto negli odi e negli amori, fedele senza ostentazioni e senza angustie all'ideale democratico; raccontati in una forma semplice e vigorosa e ricca spes- so di uno squisito, originalissimo umo- rismo, che fa della lettura di questi due volumi una deliziosa gioia dello spirito oltre che una magnifica guida- breviario per ricostruire durante il de- cennio preso in esame la storia interna ed esterna dell'Italia.

Per la protezione degli oggetti d'arte.

L' avv. Jean Marguery di Marsiglia pubblicò lo scorso anno {Paris, Rous- seau) un grosso vulume su « La pro- tection des objets mobiliers d' intére t histofique cu artistique », il quale me- rita di essere conosciuto anche in Italia e non solo dagli studiosi di diritto ma

da quanti si interessano alla tutela le- gislativa del patrimonio artistico e sto- rico nazionale. Infatti in questo libro l'esposizione chiara e completa del si- stema francese è seguita, argomento per argomento, da uno studio della le- gislazione italiana così esatto, così bene illuminato mediante opportuni accenni ai precedenti storici e così al corrente con le ultime disposizioni, che non sa- prei quale opera nostra potrebbe or- mai reggere al confronto.

L'Autore, ordinato nella divisione della materia così come è chiaro nel- l'esporla, dopo avere dimostrato la ne- cessità di una tutela legislativa e avere ricordato le forme da essa prese nel corso della storia, parla brevemente degli organi di tutela per venire poi alle misure di protezione degli oggetti mobili in generale e degli oggetti tro- vati negli scavi. E l'opera, cui è unito in appendice il testo delle principali leggi, decreti e progetti, assume un contegno più vasto di quello che po- trebbe apparire dal titolo perchè l'af- finità della materia costringe quasi sem- pre l'Autore ad accennare anche alla tutela degli immobili. Ma la lettura del libro, più che per l'utilità pratica senza dubbio grandissima, può giovare a noi italiani per la particolare soddisfazione che ce ne deriva. Il sapere che i nostri fratelli d'oltr'Alpe soff"rono ora per gli stessi timori e s'accalorano intorno alle stesse questioni che noi abbiamo ormai superato, ci convince sempre più del- l'importanza e delia bontà delle nostre leggi e con un certo orgoglio vediamo che queste leggi sono dalle altre na- zioni studiate ed iniziate.

Il Marguery fa rilevare che le dispo- sizioni della Repubblica, dalla legge del 1887 a quelle del 1909 e del 1912 e a quelle di cui attualmente vengono studiati i progetti, rappresentano un orientamento sempre più deciso verso i principi italiani e il suo libro mira a diffondere la conoscenza del nostro sistema per dimostrarne la opportuna efficacia e spingere la Francia al passo decisivo pel quale ancora esita : l'am- missione di misure di protezione ob-

TRA LIBRI E RIVISTE

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bligatorie su cose di proprietà privata. Egli, che crede nella utilità del « clas- sement » e che del resto lo ritiene troppo radicato nell'opinione pubblica francese per poterne pensare la sop- pressione, vorrebbe ammessa la pos- sibilità di un « classement » di ufficio anche per le cose dei privati e non solo per quelle immobili, come propone il disegno di legge presentato alla Ca- mera r II novembre 1910, ma anche per quelle mobili.

Su gli oggetti classificati vorrebbe poi che lo Stato si riservasse il diritto di prelazione per le vendite all'interno e la facoltà di vietare le esportazioni. Non ritiene invece ammissibile, almeno nei riguardi della Francia e almeno per ora, il principio della demanialità del sottosuolo archeologico e perciò non crede opportuna l'introduzione di quelle disposizioni che, come il diritto dello Stato a una parte degli oggetti scoperti, sono una conseguenza di quel principio.

Questo libro di un valoroso giurista, significativa espressione di un bisogno ormai imperiosamente sentito dalla Francia, potrebbe ben essere inviato da Pompeo Molmenti all'antiquario Sedel- mayer come risposta alla lettera in cui questi gli diceva di essere dolente per la u peine patriotique » a lui causata dal recente e noto volo de' Tiepolo, ma si basava su quel volo per dimo- strare l'inutiUtà della « Loi Pacca w e per consigUarne agli italiani l'abolizio- ne. Che r avvocato Marguery riesca a turbare i proficui commerci del sig. Se- delmayer a Parigi? È da augurarselo: il patriottismo ha ben profonde radici nello spirito dei nostri fratelli latini per sperare fondatamente che libri come que- sto, lucido e profondamente sentito, del Marguery, siano presi in considerazio- ne dal governo e dal paese. (L. P.).

La baronessa Orczy.

L'editore Tauchnitz di Lipsia ha dato fuori testé nella notissima « Col- lection of British Authors » un nuovo romanzo della baronessa Orczy: El-

dorado, a Story of the scarlet Ptmper- nel. Questo fatto offre occasione ad Ar- thur Rutland di tracciare un profilo bio- grafico dell' insigne scrittrice nel Book- man di Londra.

Se la popolarità è un buon criterio per valutar l'opera d'un autore, la ba- ronessa Orczy occupa certo uno dei primi posti nella letteratura inglese contemporanea, perchè nessun altro

La baronessa Orczy.

scrittore ha più lettori di lei. Sino a dieci anni fa il suo nome era scono- sciuto, non già perchè essa avesse dovuto lottare per imporsi, ma perchè cominciò tardi a scrivere e quasi per caso.

Sebbene ami molto l'Inghilterra, la sua patria d'adozione, la Orczy è un- gherese ed è nata precisamente a Tarna- Eòrs, uno dei più bei luoghi d'Europa. Era già giovinetta quando i suoi ge- nitori si trasferirono in Inghilterra, tanto che a quindici anni non sapeva ancora una parola d' inglese.

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u Io credo, dice lei stessa, che avessi una straordinaria attitudine a imparar questa lingua perchè, giunta a Londra, dopo soli tre mesi di scuola la co- noscevo già bene », e vinse anzi un premio speciale per le lingue. « Certi miei amici teosofi, aggiunge arguta- mente, mi dicono ch'io sono una ri- prova della loro teoria della reincar- nazione, che cioè in una delle mie an- teriori esistenze ho vissuto certamente in una donna inglese ».

Il padre non fu soltanto un distinto diplomatico, ma anche un bravo mu- sico. « La sua opera, Jl rinnegato^ dedi-^ cata alla defunta regina del Belgio, che era un principessa ungherese, fu rappresentata a Londra con grande successo. Più volte diresse composizio- ni proprie ai famosi Philarmonic Con- certs, nonché la Rogai Amateur Or- chestrai Society, di cui il duca di Edin- burgo era un eccellente violinista ». Così la Orczy si familiarizzò fin da bambina con i capolavori dei più grandi musici. Malgrado ciò, « alla do- manda eh' io stessa mi rivolgevo se mi fosse piaciuto di coltivar l'arte di mio padre, rispondevo sempre: no ». Nemmeno però si sentiva la più lon- tana inclinazione per le lettere; la sua passione era la pittura, che studiava con amore e nella quale voleva riu- scire artista. Varie volte espose alla Royal Academy, dove un suo dipinto. The Jolly Young IVaterman ottenne la ammirazione del pubblico e della cri- tica.

In questo studio essa era incorag- giata dal suo vecchio amico Edv^^in Long, « l'autore di quelle ammiratis- sime pitture che s'intitolano Diana or Christ e The Babylonian Market ». Fu appunto in questo tempo che essa si incontrò con Montagu Barstow, « artista già ormai noto » e che doveva diven- tare suo marito. Nei primi anni del matrimonio essa attese a illustrare libri e riviste, e specialmente libri di lettura per bambini. Questo lavoro le giovò grandemente quando comin- ciò a scrivere, abituandola a veder chiaramente le cose che doveva illu-

strare « Un artista, dice la Orczy, vede sempre le cose, che egli imma- gina, compiute e nella loro cornice, prima che si accinga a scriverle... ».

I lettori dell' Orczy, dice il Rutland, sanno bene con qual precisione sono deUneate le scene e le figure de' suoi romanzi, e quale armonia siavi tra la parte narrativa e quella descrittiva.

Curiosissimi sono gli inizi della carriera letteraria della Orczy: « Io di- venni scrittrice ha narrato essa stes- sa al Rutland quasi di punto in bian- co. Accadde pochissimi anni fa. Mio marito ed io cercavamo una casa, o, per dir meglio, uno studio, e nel frat- tempo abitavamo presso una famiglia, dove i membri di questa trovavano grandissimo diletto nello scriver no- velle per riviste. A mano a mano che venivan composte esse eran lette ad alta voce in presenza di tutta la fa- miglia, e talvolta anche davanti a noi; quindi venivano inviate a vari editori, che le rimandavano sempre indietro coi soliti ringraziamenti. Una volta, nondimeno, una di esse fu accettata e, fissate le condizioni, venne pubbli- cata ». La gioia che provò quella fa- miglia per inaspettato successo non si descrive. Qualche cosa di quella specie d'ebbrezza si comunicò anche alla Orczy; d'onde la prima idea di scrivere. « Guarda diceva essa al marito questa famiglia che non ha mai viaggiato ed ha scarsa coltura: non solo scrive novelle, ma riesce a pubblicarle e a farsele pagare. Ora, perchè non ci proverei anch'io, che ho girato tutta l'Europa, e ho cono- sciuto tante persone? » Mio marito dis- se laconicamente: « Perchè non tenti?» E fu così che s'iniziò la mia carriera letteraria ».

Sino allora essa non vi aveva mai pensato un momento. Senza perder tempo, si mise al lavoro e in breve compose due novelle che vennero su- bito accettate dal Pearson's Magazine, e pagate dieci ghinee ciascuna. Di più l'editore s'impegnò a pubblicare qua- lunque altra cosa scrivesse. I principii erano incoraggianti e la giovane scrit-

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trice lavorava con alacrità, traendo ispirazione anche dalle cose in appa- renza più semplici e insignificanti. Un giorno, per esempio, viaggiando su un omnibus, oltre la Westbourne Park Station, fu colpita dall'orrore di certe vie luride e solitarie, e la sua mente corse subito ai molti e misteriosi de- litti che si compiono in quegli oscuri punti di Londra e che restano impu- niti. Su un soggetto così tenue essa scrisse una serie di bellissime novelle pubblicate prima nel Royal Magazine e poi. nel 1909, in un volume dal ti- tolo The Old Man in the Corner.

Ma già prima di questo libro, la Orczy aveva scritto in collaborazione col marito il dramma The Scarlet Pim- pernel, e il romanzo omonimo, che ebbe un successo straordinario. Il soggetto è storico : la rivoluzione francese, ma è condotto con tale maestria, i perso- naggi sono scolpiti con tale evidenza, e tale è la compiutezza d'ogni parti- colare che esso è stato, secondo il Ru- tland, il romanzo più popolare di que- sti ultimi anni.

Ma tanto il romanzo quanto il dram- ma ebbero vicende curiose. Il dramma fu scritto, accettato e rappresentato a Nottingham entro un solo anno. L'ac- coglienza fu lieta. Dodici mesi dopo si fecero i preparativi per rappresen- tarlo a Londra. Intanto il romanzo veniva offerto a una dozzina di edi- tori che lo respinsero tutti indistinta- mente. Uno o due soltanto dichiara- rono che qualora il dramma (accettato allora allora) avesse avuto buon esito, avrebbero esaminato il romanzo an- cora una volta. Finalmente esso fu pubblicato da Greening lo stesso gior- no che il dramma veniva rappresen- tato in Londra. Ma mentre quello, così tardivamente accettato, riceveva dai critici e dal pubblico un coro di lodi, questo, che era stato accolto senza in- dugio, fu biasimato da tutti i critici, sebbene il pubblico l'avesse ascoltato con indicibile entusiasmo. Esso venne messo in scena al New Theater il 5 gennaio 1905. Il teatro rigurgitava di gente, e gli applausi erano incessanti.

Ma, dice la baronessa, « l'indomani mattina ebbi una dolorosa sorpresa. Tranne un giornale o due (non di più), la nostra opera fu dai critici dram- matici stroncata in una maniera come io non avevo visto mai. Dicevano che era « melodrammatica ", « incoerente», « retorica », che « gli spettatori, in ge- nere amici, avevano applaudito gli at- tori, e condannato ad alta voce gli autori ». I quali, a dir vero, si senti- rono molto avviliti. Dietro queste cri- tiche, alla seconda rappresentazione il teatro era quasi deserto (non si fe- cero 50 sterline); sicché gli impresari si vedevano già rovinati. Ma a dispetto dei critici, la sorte del lavoro comin- ciò a poco a poco a risollevarsi. Il pub- blico, distratto per un momento dalle censure dei critici, riaÉfollò il teatro tanto che, dopo pochi mesi, furono incassati in una sola settimana oltre 50 mila franchi.

Frattanto il romanzo, malgrado le diffidenze degli editori, otteneva an- ch'esso, dal pubblico, come si è detto, un'accoglienza lietissima, e l'autrice riceveva da tutte le parti del mondo lettere di ammirazione e di lode.

A Scarlet Pimpcrnel seguì subito By the Gods Beloved che con / Will Re pay, ed A Son o/the People che « sono forse, io credo, le cose migliori, com- preso lo stesso Scarlet Pimpernel, di quanto ha pubblicato sin qui la baro- nessa Orczy ». Le altre opere sue sono: Beau Brocade, The Entperor's Candle- sticks, The Elusive Pimpernel, The Tangled Skein, The Lady Molly of Scotland Yard, The Nest of the Spar- row Hawk, e il romanzo novissimo Eldorado.

I giapponesi in California.

11 Japan Magazine, che si pubblica a Tokio, contiene in uno degli ultimi numeri un importantissimo articolo sui giapponesi in California. E una que- stione grave, questa, e che vivamente allarma lo « Stato d'Oro », il quale vede nell'immigrazione nipponica uno

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de' più seri pericoli per l'avvenire de' suoi figli. Sono giuste coteste appren- sioni ? Il Japan Magazine dice di no, e lo dimostra con una particolareggiata descrizione suU' opera dei giapponesi in California, dagli inizi del loro mo- vimento immigratorio sino ad oggi.

L'articolo è anonimo, ma si capisce che lo scrittore è un giapponese. Ad ogni modo però i suoi giudizi sono franchi e seren', e meritano d'essere conosciuti.

« 1 primi emigranti giapponesi per l'America, circa quaranta in tutti, dice l'articolista, partirono per la California nel 1869. Poco dopo il Giappone veni- va aperto agli stranieri. Da allora in poi l'emigrazione giapponese continuò ininterrotta, raggiungendo cifre che hanno fatto impensierire le classi ope- raie dell'Ovest.

« Nel 1878 v'erano in California sol- tanto centoventi giapponesi; nel se- guente decennio il loro numero rag- giungeva il migliaio e in quello suc- cessivo ascese a tredicimila. Nel 1907 lo. « Stato d' Oro » contava all' incirca cinquantasettemila giapponesi. Cosi in una popolazione di 2,377,369 abitanti, i giapponesi ammontavano a 56,760, erano cioè un quarto del numero totale degli abitanti. Nel 1908 essi furono 60,780: la più alta cifra raggiunta dal- l'immigrazione nella storia dello Stato. Le nuove leggi americane suU' immi- grazione nipponica, che si comincia- rono ad applicare poco dopo, fecero che questo movimento immigratorio andasse via via diminuendo ».

La maggior parte dei giapponesi che emigrano in California sono agricol- tori. Riguardo al loro numero e alla loro influenza, 1' articolista osserva : « Nel 191 1 il terreno coltivato dai giap- ponesi in California, era di 239,720 acri ed i prodotti, principalmente pa- tate, frutta ed erbaggi, ammontarono a non meno di 12,507,000 dollari. Sic- come il raccolto di tutto lo Stato ascese a circa 58,000,000 di dollari, è facile vedere come gli agricoltori giap- ponesi produssero quasi il venti per cento del raccolto totale. Si noti poi

che in questo calcolo non è tenuto conto del lavoro da essi fatto in terre sulle quali non è possibile esercitare un controllo. Se questo lavoro fosse computato non si esagererebbe dicendo che il giapponese produce almeno il novanta per cento del raccolto in Ca- lifornia. Il lavoro nei vigneti per più di una metà è compiuto dai giappo- nesi, e Io stesso dicasi della coltiva- zione degli erbaggi. Non è perciò una iperbole l'affermazione che i nipponici sono la vita dell'agricoltura in questo Stato. Le campagne senza l'opera loro sarebbero un deserto.

« Nei distretti che circondano la baia di San Francesco i giapponesi sono parte trascurabile della popolazione. Nel distretto di Alameda la popola- zione americana è di circa 26,000 abi- tanti, mentre quella giapponese è solo normalmente di circa 1200, e sale nel- l'estate a mala pena a 2000. Di que- sti, quasi 200 sono occupati nelle sa- line e tutti gli altri nel commercio dei fiori, frutta e prodotti agricoli in generale. Senza l'opera loro i frutti del distretto non sarebbe mai possi- bile spedirli a tempo opportuno ed in buone condizioni. È per le loro mani che passano i milioni di ciliege, po- modori, ed albicocche, di cui rigur- gita il mercato ; senza poi dire che essi occupano anche un importante posto nel raccolto dei grani delle va- ste e fertili valli della California.

« Nella parte settentrionale del gran- de Stato vi sono circa 16,500 giappo- nesi quasi tutti occupati nella coltiva- zione delle terre. Forse gli agricoltori nipponici più stimati si trovano in questo distretto del nord. Intorno alla città di Sacramento essi sono fra i più grandi produttori conosciuti in frutta ed erbaggi.

« I bassi terreni lungo il fiume era- no trascurati dalla popolazione ame- ricana e furono quasi completamente ceduti agli immigranti dalle risaie del Giappone. Senza i giapponesi questo distretto così fertile sarebbe ora pro- babilmente inutile e deserto. Vicino a Stockton gli agricoltori giapponesi so-

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no circa 4000. Io li ho conosciuti bene, ho vissuto vicino a loro, e da loro ho fatto acquisti ; e li ho sempre trovati pratici ed onesti ».

Nel descrivere la ricchezza dei pro- dotti nella San Joaquin Valley, lo scrit- tore ne attribuisce l'esclusivo merito agli operai giapponesi.

u Quesf immensa raccolta di frutta e di grano, egli scrive, difficilmente potrebbe ottenersi senza l'aiuto della mano giapponese. Durante il tempo dell'agitazione anti-asiatica, il numero dei nipponici in questo distretto si ridusse alquanto. I posti vacanti furono occupati da indiani, greci, messicani e italiani ; ma questi vennero subito giu- dicati inferiori a quelli. Gli economisti americani asseriscono che un agricol- tore giapponese vale, quanto a lavoro, tre o quattro uomini di altre naziona- lità. Perciò io credo che allo sviluppo completo della California centrale è indispensabile il concorso dell'operaio giapponese ».

Riguardo al carattere dei nipponici, lo scrittore è molto esplicito. Egli, evidentemente, parla con cognizione intima del Giappone e de' suoi con- nazionali. « Nei dintorni di Los Ange les, dice, i giapponesi sono i princi- pali agricoltori e giardinieri. Essi sono grandissima parte nei mercati di ver- dure della città meridionale.

« L' agricoltore giapponese, come nella sua terra natale, è sobrio ed at- tivo, sempre desideroso di possedere una casetta e una famiglia (quando gli è possibile avere una moglie). Egli non s'indugia nei bars od in luoghi equivoci sciupando i risparmi. Sarà certo un triste giorno per l'agricoltura in California, quando essa verrà ab- bandonata dai giapponesi ».

Non si creda però che questi siano tutti agricoltori, giacché si dedicano anche al commercio ed alle profes- sioni e non sono in ciò inferiori a nessuno.

« Il commercio dei giapponesi è ri- stretto pel fatto che gli indigeni pre- 21

feriscono fare acquisti dai loro com- mercianti, di modo che i nipponici non provvedono generi che ai propri conna- zionali. Ciononostante, i giapponesi, sia come importatori che come espor- tatori, vanno acquistando un posto sempre più importante nel commercio della California. Come albergatori, for- nitori, lavandai e stiratori di bianche- ria e cuochi, essi sono inarrivabili e fanno ottimi affari. Per ciascuna di queste aziende l'entrata fu, nello scorso anno, di oltre un milione di dollari. Varie altre arti ed industrie sono eser- citate da un rilevante numero di giap- ponesi con varia fortuna. I più agiati di queste classi vivono in San Fran- cisco dove la popolazione nipponica è attualmente di oltre 7000 abitanti. Quando si pensa a tutte le contrarietà ch'essi ebbero a superare non si può non stupire dei loro successi. La con- correnza fra lavanderie, sartorie, tin- torie e calzolerie è incredibile, ma i negozi dei giapponesi tengono i primi posti. In Fresno, nella California cen- trale, essi furono in principio separati dal centro commerciale dei mercanti indigeni; ma ora hanno potuto aprire anch'essi dei laboratori ».

I giapponesi, in California, prendono parte anche alle pesche dello Stato. « Avendo cominciato a Monterey ed a Los Angeles, essi presentemente pe- scano in quasi tutte le città lungo la costa ed in molte hanno quasi il mo- nopolio della pesca. 1 pescatori nip- ponici non solo forniscono in gran parte il mercato locale, ma il loro pe- sce viene spedito in conserva anche in Hawaii. In Los Angeles soltanto i sette decimi del pesce sul mercato è fornito dai giapponesi ».

Da un rapido esame alle infinite di- scussioni provocate dall'immigrazione giapponese in California può dedursi, dice lo scrittore, che « le questioni di etica sociale e di religione sono fra le più importanti che gl'immigranti debbono superare per riuscire nel 4oro diritto di vivere in America ».

I giapponesi amano « di educarsi e di far educare i loro figli quanto ogni Voi. CLXVn, Serie V 16 settembre 1913.

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altro popolo del mondo. Non è questa soltanto una caratteristica di quei giap- ponesi che si trovano in California, sibbene di tutti i loro connazionali che vivono al Giappone. Quando s'am- metta che le nascite dei giapponesi in California sono circa un migliaio al- l'anno, è facile comprendere che il problema della loro istruzione è uno dei più urgenti. Nel 191 1 si contavano 2426 giapponesi fra i 5 ed i 20 anni. Di questi, 582 frequentavano le scuole elementari americane, 532 le scuole .elementari giapponesi e un buon nu- mero, specialmente di fanciulli, le va- !!^ rie altre scuole dello Stato. Vi sono inoltre non pochi genitori i quali non s'inducono a decidere se man- dare i loro figli a scuole giapponesi o americane; d'onde spesso accade che non ne frequentino alcuna. Di più molti giapponesi, nelle zone agricole, sono così lontani dalle scuole che i fan- ciulli non ve li possono mandare.

« Anche le scuole superiori sono ab- bastanza frequentate dai giovani giap- ponesi. Di questi, 186 frequentano le scuole secondarie, e nelle diverse Uni- versità vi sono normalmente da 20 a 30 studenti giapponesi.

« I nipponici in California spendono annualmente circa 18,000 dollari per le loro scuole elementari, compresi undici asili annessi a dette scuole. Hanno fatto erigere anche scuole per l'insegnamento delle lingue, della cu- cina e dei mestieri. Insomma essi fanno di tutto per rendersi capaci a prender parte al gran movimento di civiltà del paese in cui si trovano ».

I giapponesi emigrando conservano in genere i loro usi e le loro tradi- zioni.

« Quanto a religione, sono buddisti o cristiani. Hanno le loro chiese e il loro clero, e i cristiani americani in- vian loro delle missioni. Nello Stato hanno presentemente almeno 48 chiese con 42 pastori o missionari. Il numero dei giapponesi che frequentano queste chiese è di 2600 circa, e l'anno scorso essi contribuirono con 23,462 dollari alle spese religiose.

« L'esistenza del buddismo presso i giapponesi in California, è sotto gli auspici della setta di Hongwanji, e i preti lavorano alacremente per la pro- pagazione della fede presso i loro connazionali. Attualmente vi sono 14 luoghi di adorazione con uno stesso numero di preti ».

u Nell'insieme, conchiude lo scrittore, si vede che i giapponesi in California, vivono in prospere condizioni e che confrontati con il resto della popola- zione hanno inclinazioni morali e spi- rituali non inferiori ad essa. Tenendo conto dei pregiudizi contro i quali ebbero a lottare, è certo ch'essi rag- giunsero un'importanza meravigliosa nella vita e nell'attività della Nazione ed ebbero parte considerevole nel suo sviluppo.

« Non v'è dubbio che quando il pre- giudizio di razza sarà completamente scomparso, i giapponesi verranno ac- colti nello « Stato d'Oro » non meno bene degli immigranti d' Europa ».

Heinrich Federer.

Se non si sapesse cne il romanziere Heinrich Federer è svizzero, ci sareb- be tutta l'opera sua ad attestarlo. La Svizzera e tutto ciò che le appartiene : montagne, ferrovie, industrie, commer- cio, popolo, animali, piante, formano gli elementi principali de' suoi roman- zi, e tale è l'evidenza con cui queste cose sono descritte, che chi le legge una volta non le dimentica più.

Nato e cresciuto in un paese fino a pochi anni fa quasi selvaggio, Federer sentì fin da bambino l'amore più gran- de per la libertà. Lo studio della sto- ria patria, che ha coltivato sempre con passione, lo esaltava e infiammava. Ma, come dice egli stesso in un « Auto- biographische Skizze » nel Literari- sche Echo, fu per lunghi anni un po- vero fanciullo che, afflitto dall' asma, doveva trascorrer metà dell' anno in una chiusa camera a pianterreno. « La tortura e il bisogno anziché soffocare, in questa prigione, il mio desiderio di libertà e di indipendenza, mi rendeva

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assetato più che mai di luce, di aria, dei campi liberi e aperti. Ero quasi in uno stato d'ossessione, da cui mi liberai soltanto con la lettura e con lo studio, o meglio col raccontare e il novellare. Ciò che desideravo e invano, volevo averlo per lo meno nella fantasia. Così m'accinsi a costruir trame di racconti su tutto ciò che non avevo : salute, imprudenza, orgoglio, dominio e libertà piena. Vivevo da povero e parlavo da grande. Ero ubbidiente e servizie- vole, ma le mie novelle erano assolute e imperiose. Per tutto un anno non mi allontanai un'ora dal villaggio. Le mie favole tuttavia facevano il giro del mondo sette volte al giorno. Par- lavo per un irresistibile impulso di libertà... Ai bambini, le più libere crea- ture dell'universo, dovevo raccontarle tante e tante volte. Sino a quaran- t'anni non mi venne mai l'idea di met- terle in iscritto e di pubblicarle. Ero troppo indolente, troppo malato, troppo amante della libertà. Per conto mio, le buttavo giù su pezzi di carta e le ri- facevo in mille maniere, ma mi servivo di segni, dirò così, stenografici. In breve, un intero cassetto della scriva- nia fu pieno di un pacco di illeggibili scarabocchi. Di più non volevo. Ma poi il prosaico bisogno della vita spinse me, malato e senza impiego, a conse- gnar tutto a un editore. È molto me- glio raccontare a voce ; scrivendo, non si è liberi. Vi sono le vere e le false re- gole della composizione e della tecni- ca ; quando si parla, di esse si fa a meno. La critica odierna è spavento- samente pedante; alla stregua delle sue grette regole condannerebbe anche un gorgheggio d'usignuolo ».

Vinte le prime riluttanze perla penna, il Federer trovò anche nello scrivere quel diletto che provava nel dir le sue novelle a voce. Padrone come pochi altri della lingua, scrive con sempli- cità, con eleganza, con brio. Alieno da qualsiasi artifizio retorico, il suo stile è lucido, e rende le cose con vivacità e immediatezza. Le opere fin qui da lui pubblicate sono Lachwetser Ge- schichten, Ber und Menschen^ Pilatus

(Berlin, G. Grotesche Verlagsbuchhand- lung). Secondo C. Ch. Bry, che al Fe- derer consacra un articolo nello stesso Literarische Echo, il suo capolavoro è il romanzo Berge und Menschen.

Amico dell'Italia e degli italiani, ha pubblicato sull'^ar una serie di no- velle e di bozzetti sull'Umbria {Um~ brische Reisegeschichilein). Il Tevere lo aflfascina, e ne parla con entu- siasmo. « Al termine della sua vita presso Isola, esso non si affretta più, non s' indugia più e si lascia baciare dal grande vecchio Oceano senza una parola di rimpianto. Questo meravi- glioso Tevere! "

Attualmente il Federer lavora a un nuovo romanzo di soggetto storico e che ha per isfondo la guerra dei con- tadini svizzeri nel 1653. L' argomento lo affascina, ma teme che sia superiore alle sue forze. « Io provo, dice. Se non vi riesco, riuscirà ad un altro più valoroso di me. E se vivrò sino a quel giorno, io sarò il primo a battergli le mani e a dirgli : bravo ! n

Un banchetto a Ibsen.

Da un interessantissimo scritto di Giorgio Brandes che è apparso nell'ul- timo numero del Mercure de France su " Ibsen intimo », riproduciamo un aneddoto, che sebbene già noto, si legge volentieri raccontato direttamen- te dal grande critico danese.

« Da giovane, scrive il Brandes, Ibsen era attento, vivace, cordiale nello stesso tempo che ruvido, mai « bon garfon », nemmeno quando fu cordiale. A tu per tu era gaio, afi"abile, comu- nicativo, aperto. Assai poco inclinato a vivere altrimenti che da eremita, in società mostravasi taciturno, facilmente impacciato e molto a disagio. Non di- menticò mai l'accoglienza poco bene- vola che la Norvegia aveva fatta alle sue prime opere, come mai si preoc- cupò del debito di riconoscenza verso gli stranieri.

« Bastava poco per metterlo di cat- tivo umore o per renderlo circospetto. Se aveva l' impressione che qualcuno

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voleva avvicinarglisi, la sua antropo- fobia scattava immediatamente.

u Nel 1891, io mi trovavo con dei pittori norvegesi a Sandviken, presso Cristiania. Il nostro soggiorno era pia- cevole, e trascorrevamo liete giornate. Una volta dissi :

u Quel povero Ibsen resta tutto il giorno chiuso nel suo albergo in mezzo alla città. Se lo si invitasse ?

u Chi oserebbe invitarlo ?

« Tenterò io stesso : lo vedo tutti i giorni, e domani pranzo precisamente con lui ».

L'indomani infatti Brandes dice al- ribsen che alcuni artisti desiderereb- bero averlo loro ospite in un giorno di suo piacimento.

« Quanti sono e chi sono ? chiede Ibsen.

« Io gli citai i nomi, e : « Siamo nove » dissi.

u Pranzare con tante persone sa- rebbe andar contro le mie abitudini ; ciò non mi è mai accaduto.

u Avendogli ricordato che proprio allora aveva permesso che a Budapest lo festeggiassero con forme ben altri- menti ufficiali, con l'intervento di pa- recchie centinaia di persone, riuscii infine a vincere la sua diffidenza, e ottenni l'autorizzazione di organizzare un piccolo banchetto. Per fargli pia- cere, decidemmo di farlo nell'albergo stesso dove trovavasi Ibsen, lasciando a lui la scelta dell'ora. Non appena si sparse la voce ch'io stavo per orga- nizzare un banchetto in onore di Ibsen, da lungo tempo assente dalla Nor- vegia, fui assalito da richieste d'invito da parte specialmente di famiglie che mi avevano amabilmente accolto. Per riuscir ne! mio piano, cominciai col dire ad Ibsen che una signora aveva espresso il desiderio di assistere al banchetto.

u Assolutamente mai ! fu la sua risposta.

« Ma è una giovane gaia e bella.

« Io non amo le giovani gaie e belle.

« Mi pare che in altri tempi fo-

ste innamorato di sua zia, e la no- minai.

« Allora, fa subito Ibsen, è un'al- tra faccenda, venga pure ! Ed ecco dunque la presenza di dieci persone autorizzate. Senonchè dovevamo essere ventidue I

« Temevo un disastro.

« Al giorno fissato, bussai alla porta di Ibsen. Con sguardo meravigliato e già scontento, esclamò :

« Voi siete già in abito di gala ?

« Si, e voi in maniche di camicia?

« Io sono sempre in maniche di camicia quando mi abbiglio, ma non ho abiti nella valigia.

« Quale disastro ! E noi che go- devamo come fanciulli al pensiero che avremmo visto Ibsen in abito di gala... allora dovremo rassegnarci a vedere un Ibsen in veste da camera !

u La signora X... c'è ?

u Sì, lei e qualche altro amico.

u Voi siete... ?

« Ventidue.

« Ma è un tradimento ! Avevate detto nove. Non vengo.

« Mi ci volle del bello e del buono per farlo discendere nella sala da pranzo.

« Quando entrò si fece un silenzio perfetto ; aveva una cera più arcigna del solito. 11 principio del banchetto fu piuttosto penoso. Fu necessario ser- vir lo champagne fino dal pesce, e dar la stura ai discorsi. « Caro Ibsen, in- cominciai io, col tempo voi siete dive- nuto un uomo d'una fama grande ch'è difficile fare il vostro elogio. Gli stranieri vi hanno guastato. Ma noi altri uomini del Nord vi comprendiamo me- glio degli stranieri, noi che vi abbiamo ammirato fin dalla prima ora, mentre gli stranieri non sono giunti che alla undecima. Certo, nella santa scrittura, è detto che i lavoratori della undeci- ma ora ebbero tanto merito quanto quelli che erano arrivati al principio della giornata ; nondimeno, io ho sem- pre interpretato questo passo nel senso che quelli che erano arrivati primi va- levano anche di più». «Non è vero».

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interruppe Ibsen. Lo pregai di atten- der la fine prima di protestare. Feci il suo elogio chiacchierando e parago- nandolo al sole stesso, e conchiusi : t. possibile che Sirio sia più grande del sole, ma è il sole che fa maturare le nostre messi ».

« Tutto fiato perduto. Ibsen continuò ad essere di cattivo umore, e si con- tentò di dire : Ecco un discorso con- tro il quale si potrebbero fare molte obiezioni, ma che preferisco di non formulare.

« Le faccia, le faccia subito : le gusteremo di più !

« Preferisco non formularne ri- battè.

u Un giornalista che siedeva vicino alla bella ed eccellente attrice Con- stance Brunn, si levò e disse: « La mia bella vicina mi prega di trasmettere al signor Ibsen i ringraziamenti delle at- trici del Teatro di Cristiania e di dir- gli che non vi sono parti ch'es«:e amano rappresentare di più e dalle quali hanno più da imparare di quelle del signor Ibsen ».

« A questo proposito, rispose il dram- maturgo, io osserverò solo che, in ma- niera generale, non scrivo mai parti, ma descrivo uomini : e mai in vita mia mi è accaduto di raffigurarmi scriven- do, un attore o un'attrice sulla scena. Ciò detto, mi dichiaro fortunatissimo di far la conoscenza d'una persona cosi bella come la vostra vicina ».

Costanza Brunn ebbe la presenza di spirito di rispondere che in nessun momento essa aveva creduto che Ibsen avesse potuto, scrivendo, pensare a lei, tanto più ch'era la prima volta ch'egli la vedeva ; e che. d'altronde, con l'in- felice vocabolo u parti », essa aveva voluto dire esattamente la stessa cosa che il maestro esprimeva con la parola « uomini ».

u Ibsen non si era reso conto dello stato d'animo che la sua rude franchez- za aveva provocato. Infatti, allorché ci levammo di tavola, egli mi ringraziò cordialmente del pranzo da me orga- nizzato, aggiungendo con tutta semplici- tà : « E stato un pranzo riuscitissimo ».

La libertà di coscienza nell'antica Roma.

Il decimosesto centenario dell'editto costantiniano in Milano (giugno 313) dovrebbe venir celebrato con maggiore solennità dai liberi pensatori che dalla stessa Chiesa cattolica, per la quale la famosa « pace della Chiesa » fu una splendida vittoria, ma anche principio di lotte intestine senza fine e di un abbassamento generale del valore spi- rituale della maggioranza de'suoi mem- bri. Questo è il pensiero che René Pichon esprime in un articolo suU' e- ditto costantiniano nella Revue des deux Mondes. Il miglior modo, egli dice, di celebrare un così grande av- venimento per uno storico imparziale è di metterne in evidenza l'originale no- vità in confronto allo stato di cose an- teriore. L'articolo del Pichon vuol es- sere anche una critica acuta del recente libro del Bouché - Leclercq L'iniolérance religieuse et la politique^ in cui è fatta una vivace pittura della politica reli- giosa dell' impero romano nei primi quattro secoli dell'era volgare.

Il Bouché-Leclercq crede che le mi- sure di rigore prese anche dai migliori imperatori romani fossero dovute allo spirito « anarchico » che caratterizzava la Chiesa dei primi secoli e che questa ha poi intieramente perduto. Le idee giudaiche che il cristianesimo portava con venivano introdotte in seno alla società pagana sotto una forma aggressiva che doveva farle apparire in- conciliabili con i principii di uno Stato regolare : così il disprezzo delle leggi umane, il sottrarsi al servizio militare, il deprezzamento della vita familiare e della vita pubblica, il rifiuto del culto dovuto alla divinità dell' imperatore, espressione convenzionale dell' obbe- dienza civile. La concezione del Bou- ché-Leclercq si può riassumere in due parole: il cristianesimo primitivo era antisociale e perciò la persecuzione contro di esso era legittima; il cristia- nesimo del secolo ventesimo non è più antisociale e perciò bisogna lasciarlo tranquillo.

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In realtà, osserva il Pichon, è ben difficile riassumere in una formula o in un principio la politica religiosa dei romani, uomini poco curanti di prin- cipii e di teorie, e che han tenuto at- titudini diverse di fronte a fatti nuovi, ispirate più alle circostanze del mo- mento che a regole astratte.

Nel periodo primitivo della storia romana, il problema dei rapporti e dei conflitti fra la vita religiosa e la vita politica non si presenta, perchè le isti- tuzioni politiche e civili sono intima- mente connesse con la religione na- zionale, come in tutte le altre città an- tiche. Però, mentre nelle altre città è il mutamento interno dei costumi e delle idee che rovina a poco a poco la vecchia armatura teologica, a Roma, oltre a questa causa, ne agisce un'altra ben più importante: l'evoluzione do- vuta alle aggiunte e annessioni succes- sive di popoli per cui in una sola pa- tria legale vengono a trovarsi in con- tatto razze e culti differenti fra loro. Ed ecco sorgere per lo stato romano un problema religioso, e precisamen- te subito dopo le guerre puniche, al principio del secondo secolo a. C, in cui alla influenza invàdente delle religioni di Grecia e d' Oriente si uni- va lo spirito dissolvente della filosofia ellenistica. È probabile che le espul- sioni dei retori e dei sofisti greci in- segnanti a Roma siano state ispirate dal loro scetticismo in materia reli- giosa ; è un fatto però che a Roma nes- sun impedimento limitò mai la libertà di parlare e di scrivere, sebbene nella pratica tutti s' adattassero alle forme tradizionali del culto, almeno quelli che volevano compiere un ufficio pub- blico.

Se il cittadino romano era libero, come privato, di non adorare gli dei pa- trii, poteva però adorarne altri? L'o- pinione più comune, appoggiata ad una testimonianza di Tertulliano, so- stiene che solo le divinità straniere approvate dal Senato potevano venir adorate. Nessuna traccia s' è trovata mai di una tal legge. E' molto più probabile, come più conforme al ca-

rattere pratico e realistico della razza latina, che sia stata affidata ai magi- strati, caso per caso, la cura di tolle- .rare e di proibire la celebrazione dei nuovi culti stranieri che invadevano Roma.

Fra i culti greci uno solo è stato oggetto di misure proibitive, quello di Bacco. Ma bisogna notare che il suo carattere mistico, estatico ed esotico, aveva incontrato gravi opposizioni an- che in Grecia. Sopratutto le singolari religioni della Frigia e dell'Egitto ri- chiamarono ben presto l' attenzione del governo romano e solo contro di esse se ne eccettuiamo l'affare dei Baccanali (i86 a. C.) l'autorità s'è fatta sentire nei due ultimi secoli della Repubblica.

Le misure adottate hanno un carat- tere poliziesco, non legislativo, ed è importante osservare che sono inspirate non da motivi religiosi, bensì da preoc- cupazioni politiche o sociali. Nel pe- riodo repubblicano i romani non han conosciuto l'intolleranza.

Ma non può dirsi altrettanto del pe- riodo imperiale. 1 primi secoli dell'im- pero ci mostrano, di fronte all' anar- chia e al dissolvimento degli ultimi tempi della republica, una duplice e forte reazione: politica, che rinforza ed allarga l'autorità del governo per lottare efficacemente contro l'anarchia individualista; religiosa, per cui la so- cietà romana passa dall'incredulità alla devozione.

Alla loro volta i capi dello Stato, anche i più razionalisti e i più indif- ferenti, sono dominati dall'idea che il rispetto della religione nazionale è le- gato con vincolo indissolubile alle virtù civili, e che non si può essere suddito fedele se si negano gli onori alle divi- nità consacrate.

Gli uomini di Stato dell' epoca re- pubblicana erano tolleranti perchè in- differenti; durante il periodo imperiale il risveglio della pietà portò con una certa intolleranza. Intolleranza che è bene notarlo non si manifestò solo contro il Cristianesimo, ma anche contro altri culti: nelle misure violente

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prese contro i giudei, nelle quali cer- tamente accanto a motivi politici do- vettero esser\n anche motivi religiosi; nella chiusura p. es. delle cappelle consacrate ai culti egiziani sotto Au- gusto, nella deportazione dei seguaci d'Iside sotto Tiberio, nella proscrizione dei druidi sotto Claudio. Del resto è probabile che se molti dei culti orien- tali introdotti in Roma vi avessero fattola loro apparizione sotto l'impero, invece che sotto la Repubblica, essi avrebbero trovato ostilità da parte del governo. Sicché l'antinomia fra la tol- leranza ordinaria dello Stato romano verso gli alti culti e la sua ostilità contro il cristianesimo è forse meno radicale di quanto comunemente si creda.

Le persecuzioni dei cristiani non hanno una causa unica. Gli stessi per- secutori si son latti guidare da motivi diversi, dal capriccio e dalla fantasia, come Nerone, da compiacenza ai pre- giudizi della folla, come Traiano, da intolleranza e superstizione religiosa, nella decadenza dell'impero, da ragioni esclusivamente politiche, come Decio e Diocleziano.

Ma per qual motivo i cristiani do- vevano sembrare allo Stato romano un pericolo per la sicurezza pubblica?

A causa del proselitismo, s'è detto, (ma anche gli altri culti basta ri- cordare quello di Mitra e d'Iside— ave- vano un largo proselitismo), a causa del mistero con cui amavano circon- dare le loro riunioni, e per il carat- tere misticamente esaltato e quasi anarchico, di fronte alla costituzione dell' antico impero, della predicazione cristiana. Ma tutte queste ragioni sono insufficienti a spiegare un fenomeno così vasto e di così lunga durata come le persecuzioni contro i cristiani.

Il Pichon sostiene, contro il Bouché- Leclercq che la vera ragione è che r impero vedeva in questi non già dei distruttori dello Stato, ma dei dispre- giatori degli dèi per il loro rifiuto si- stematico di partecipare al culto uffi-

ciale. La sottile distinzione dello sto- rico moderno fra cristiano e buon cittadino od apostata non aveva senso per gli uomini politici dell' impero. Ai loro occhi il culto delle divinità nazionali era parte integrante degli obbhghi del cittadino. Perciò l'intolle- ranza contro i cristiani è a un tempo politica e religiosa; essi vengono col- piti insieme a nome dello Stato e a nome degli dèi, come simbolo sacro dello Stato. In questo conflitto i primi cri- stiani sostennero una causa veramente moderna, quella della « separazione fra i doveri del cittadino e quelli del fedele » ; la concezione opposta può avere tutte le giustificazioni, ma è «essenzialmente arcaica », fondata cioè sulla struttura religiosa dell'antico Stato.

La legislazione latina in materia re- ligiosa era stata fino agli Antonini di- scretamente tollerante in pratica, se non in teoria; solo nella lotta contro il cristianesimo divenne intollerante per la prima volta.

Un periodo, del resto assai breve, di vera tolleranza, ispirata questa volta dal cristianesimo, si ha nella politica imperiale nel ventennio che seguì l'e- ditto di Milano (313). « Noi concediamo ai cristiani e a tutti la libera facoltà di seguire la religione che ciascuno preferisce », così principia questo ce- lebre documento. Il concetto è espresso parecchie volte, come se Costantino avesse voluto far comprendere ai fun- zionari dell' impero che la tolleranza dei cristiani non poteva significare per- secuzione dei pagani.

Questa specie di neutralità assunta da Costantino non ha nulla a che ve- dere, almeno nei motivi ispiratori, con la neutralità degli Stati moderni di fronte alle varie chiese.

L'autore dell'Editto non si crede af- fatto incompetente, come lo Stato mo- derno, in materia religiosa, si mo- stra punto preoccupato di ciò che noi chiamiamo i diritti dell'individuo: la ragione sulla quale insiste di più e

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che ripete più volte nel corso dell'e- ditto, quella che perciò deve avere avuto maggior peso su di lui e sui contemporanei, fu la necessità di non scontentarci, la divinità proscrivendo anche un solo dei culti che le son resi. Egli vuole che « tutto ciò che vi può essere di sostanza divina nel cielo » sia ben disposto verso di lui e verso ì suoi sudditi e che il « favore divino », che ha esperimentato durante le sue precedenti imprese, gli venga assicu- rato in maniera permanente. E' questo evidentemente un modo di vedere molto diverso dal nostro. L'idea dominante, l'idea nuova però dell'editto costanti- niana è che un culto forzato è un culto sacrilego, un oltraggio e non un omaggio all' essere divino che si in- tende onorare.

La proclamazione di questo rap- porto intimo fra la nozione di reli- gione e quella di libertà aveva già formato il tema favorito degli apo- logisti cristiani del II e del III secolo. Lattanzio, pochi anni prima dell'editto, scriveva: « Non c'è bisogno di ricor- rere alla violenza e all'ingiustizia, per- chè la religione non può venir impo- sta. Sono le parole e non le battiture che possono agire sulla volontà... Noi cristiani non costringiamo nessuno con- tro la sua volontà: Dio non sa che far- sene di quei che non han la pietà e la lede.... Difendere la propria reli- gione con il sangue e con la tortura, non è difenderla, ma è macchiarla. Non vi è nulla di così volontario come la religione.... Noi non vogliamo per il nostro Dio alcuna adorazione imposta ». Queste parole, sono 1' espressione di un'antitesi fra due concezioni della vita religiosa: Costantino non fa al- tro che trasportare in stile legisla- tivo la morale di Lattanzio, espressione del pensiero di quei primi difensori del cristianesimo. Essi avevano do- mandato una religione liberale ed egli ha cercato di attuarla. Ma ragioni politiche fecero fallire ben presto la tolleranza proclamata dall'editto. Co- stantino dopo aver restituito i beni della Chiesa, s'è appropriato quelli dei tempi

pagani: dopo aver autorizzato il libero esercizio del culto cristiano un tempo proscritto, ha finito col minacciare le- galmente il culto pagano un tempo trionfante. Quanto è diverso il lin- guaggio di Firmico Materno, scrittore ecclesiastico vissuto poco dopo Lat- tanzio ! Ai successori immediati di Co- stantino egli dice : « Bisogna, tagliare il male alle radici, distruggerlo, perchè il mondo romano non sia più a lungo infettato da questo errore mortale (il paganesimo) ». E ricorda ad essi l'an- tica repressione dei Baccanali, « questo supplizio degno della grandezza ro- mana » e il diritto divino dei re : « Dio non vi ha confidato l' impéro se non per guarire questa piaga ».

Se la pace religiosa inaugurata da Costantino e voluta sinceramente dai cristiani che avevano provato tutto il rigore delle persecuzioni ha avuto una corta durata, dovremmo noi ammirarla di meno? Gli uomini che han prepa- rato questo regno effimero della libertà di pensiero, conclude il Pichon, non debbono essere misconosciuti da alcun partito; per i cristiani sono dei bene- fattori, per i liberali dei precursori.

II quarto centenario della scoperta del Pacifico.

In questo mese di settembre 1913 si compiono quattrocento anni dacché Vasco Nunes di Balboa scoprì l'Oceano Pacifico. È un avvenimento degno di essere ricordato.

Lue spedizioni importanti, scrive H. de Varigny negli hebdo-Débats, erano state fatte dalla Spagna e da S. Domingo per fondar colonie sulla costa del golfo del Messico, da Car- tagena a Veragua. Disgraziatamente i capi di queste spedizioni erano morti, e i superstiti, sparpagliati lungo la costa, perivano di fame e di febbri. Vollero ritornare in patria, ma furono male accolti e ricacciati d'onde se ne erano partiti.

C'era fra essi, per fortuna, un fug- giasco, che privo di qualsiasi risorsa,

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erasi unito alla spedizione per sottrarsi ai creditori. Faceva parte della comi- tiva di Martino Fernandez d'Encise. Questi, fattolo sbarcare con gli altri al porto del golfo di Darien, se ne ritornò in Ispagna. La sua parte era compiuta.

Ma quella del fuggiasco, che era appunto Vasco Nunes, cominciava al- lora. Aveva tali qualità che tutti in breve riconobbero in lui un uomo su- periore e il capo, Pizzarro, gli cedette il posto.

Il primo pensiero di Nunes fu di radunare tutti gli individui delle spe- dizioni anteriori, sparsi per la costa, di aggrupparli, alloggiarli, curarli, nu- trirli, e di ripartire tra essi le terre.

Gli altri capi avevano sino allora maltrattato gli indigeni, ed eccitato in essi vivi sentimenti di ostilità; Nunes cambiò tattica : cercò subito di guada- gnarne la fiducia e di conciliarseli. Era l'unico modo per fare gli approvvigio- namenti. A poco a poco riusci nel suo intento, e gli indigeni gli portavano al forte, ove erasi stabilito, le provvisioni necessarie.

La colonia cominciava a prosperare. V^asco Nunes pensò esser giunto il mo- mento per chiedere aiuto alla madre patria. Disponeva di un pessimo bat- tello ch'egli mandò a S. Domingo per raccontare ciò che aveva fatto e dire ciò che gli occorreva. L'ammiraglio gli mandò delle barche col titolo d'rt/- cade mayor per Nunes.

Questi continuò la sua opera. Occu- pavasi molto a stringer relazioni nuove coi capi vicini, a visitar le regioni e a studiarne le risorse. Un giorno, un figlio di un capo gli diede una noti- zia veramente inaspettata: lo assicu- rava che dall'altra parte delle monta- gne si distendeva un oceano sconfinato. Nunes organizzò subito una spedizione, e con la scorta di amici indigeni si mise in viaggio traverso una densa foresta.

Dopo aspre fatiche, un bel giorno del settembre 1513,

Sileni tipon a peak in Darien, come ha detto Keats, Nunes e i suoi compagni contemplavano, ad occidente, l'immensa distesa del Pacifico. Questo nome è dovuto al fatto che l'Oceano è generalmente calmo, e non presenta il carattere tumultuoso del mare dei Caraibi.

La leggenda forse è storia : c'è spesso storia vera nella leggenda dice che dopo aver ammirato l'Oceano, Nunes si precipitasse verso di esso e si gittasse nell'acqua sventolando la bandiera di Castiglia e d'Aragona. Co- munque, il suo primo pensiero fu di provvedersi di barche per esplorare il nuovo dominio da lui scoperto.

Ma questa volta non trovò in Ispa- gna gli incoraggiamenti necessari. Do- vette sostenere lotte incredibili per farsi autorizzare a costruire alcune mi- sere caravelle. Tuttavia riuscì a fame quattro, e si accingeva a partire quando a tradimento fu arrestato e ucciso dal suo vecchio amico Pizzarro. Per quale ragione, non si è mai saputo.

Le sue barche servirono a scoprire la baia dove sorse poi Panama, e forse anche l' impero degli Incas e il Perù.

Soltanto nel 1520 l'oceano Pacifico fu traversato da Magellano, che andò a morire alle Filippine, dopo esser passato dall'Atlantico nel Pacifico gi- rando verso ry^merica del Sud e pren- dendo lo stretto che da allora porta il nome di questo ardito navigatore.

11 primo che traversò il Pacifico e ritornò sulle coste occidentali d'Ame- rica fu Andres di Urdaneda che, verso il 1564, andò dalle Filippine in Cali- fornia e di qui ad Acapulca.

Vasco Nunes fu il primo europeo a scoprire da un picco di Darien, or son quattro secoli, l'oceano Pacifico, e il suo nome vivrà nella memoria degli uomini.

Nemi.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

ITALIA.

Si è inaugurato a Greve un monumento a Giovanni da Terrazzano, opera di Romeo Pazzini.

Con bella veste tipografica la Presidenza delle Biennali di Venezia ha pubblicato l'elenco completo delle opere vendute nel 1912. Da questo elenco, risulta che la cifra delle vendite si eleva a lire 590,834.55 in totale, non por- tando ciascuna vendita il relativo prezzo. Siccome furono vendute 303 pit- ture, 26 sculture, 238 bianco e nero e 302 oggetti d'arte decorativa, risulta una media di lire 679 e centesimi per ciascun lavoroi. L'importo complessivo dei dieci esercizi è di lire 4,680,866,97; l'anno scorso fu il più profìcuo, il più magro il 1895 con 360,000.

I giornali annunziano essere stato firmato il decreto reale pel quale d'ora innanzi il paesello dove è sepolto Pascoli avrà il nome di Castelvecchio- Pascoli.

A Capri è morto recentemente il pittore Antonio Leto siciliano: aveva sessantanove anni. Studiò a Napoli e si educò a Parigi. Passò unanno a Firenze e il resto della vita, quasi sempre infermo, a Capri. Fu pittore di marine molto apprezzato. Il suo quadro più famoso è forse la Fesca del tonno.

Nell'occasione delle feste al Boccaccio, Giorgio Arcoleo ha pubblicato la sua magnifica conferenza Giovanni Boccaccio: l'uomo e l'artista, da lui letta nella Sala di Dante in Orsanmichele (Firenze, Sansoni).

In Venezia, i fianchi della loggetta del Sansovino, alla base del Cam- panile saranno ultimati per la festa di San Marco del 1914. Con i simulacri attuali si è deciso che il fianco verso la Piazzetta, che è identico a quello che esisteva prima del crollò, sarà ricostruito tale quale ; mentre quello verso la Torre dell'orologio subirà alcune modificazioni, che, ben accolte dall'architetto Moretti, furono approvate dalla Giunta comunale.

In un suo villino nei pressi di Verona è morto il pittore Vittorio Avanzi, un paesista di merito che per la sua eccezionale modestia non ebbe la fama che meritava. Espose sempre alla Mostra della Società per le B. A. di Verona (della quale fu per molti anni consigliere). Di lui ricordiamo Prima della pioggia, Le vicinanze di Dacha.u, La marina di Capri, Le prime foglie.

A Comisò (Sicilia) è stato inaugurato nella chiesa della SS. Annun- ziata un moinumentale battistero, opera pregevolissima dello scultore Mario Rutelli.

All'Olimpia di Milano ha avuto buon successo una commedia di Giu- seppe Adami: La capanna ed il suo cuore.

Trento ha inaugurato un busto di Verdi: è opera dello scultore Davide Bigatti.

Il Comitato per il monumento ad Antonio Fogazzaro ha firmato il contratto con lo scultore Edoardo Rubino per l'esecuzione della statua e basa- mento: dovrà essere pronta per il 1915.

L9, Galleria degli Uffici in Firenze ha ricevuto dalla signora Leontina De Nittis, vedova del i>ittore Giuseppe De Nittis immaturamente scomparso, il dono d'una bella collezione di quindici tavole fra acqueforti e punte secche, quasi tutte figure di donne.

.A Sant'Angelo Romano la Sopraintendenza dei monumenti ha fatto restaurare alcune pitture quattrocentesche esistenti nella chiesa parrocchiale di S. Maria e S. Biagio e nella chiesa comunale di Santa Liberata. Due di quelle tavole rappresentano la Vergine col bambino e Santa Liberata: le altre due, forse più importanti, appartenevano ad un piccolo trittico, di cui for-

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mavano i due sportelli di chiusura. Da una parte vi sono rappresentati due Santi, e dall'altra l'Angelo annunziente e la Vergine annunziata. Le due fi- gure, come i due santi, sono eseguite con molta finezza di disegno. L'età loro è documentata da una data, che vi si legge ancora e che fa risalire le due tavo- lette agli ultimi decenni del secolo decimoquinto.

A Pisa nel procedere a delle escavazioni per la costruzione del teatro estivo Redini, venne scoperta una cripta ove sono stati rinvenuti undici sche- letri completi. Con ogni riguardo saranno proseguiti gli scavi, perchè è pre- sumibile che nella cripta, oltre aUe ossa debbano trovarsi oggetti apparte- nenti ai defunti, e tali da poter designare l'epoica a cui risale la cripta stessa.

A Catania nei pressi di via Androne e di via del Plebiscito, nel così detto Orto del Re, è stato scoperto un sarcofago romano di marmo penteleo con coperchio di m. 1.94 di lunghezza, 0;6o d'altezza, 20.55 di fronte con 0.05 di spessore. Nel centro di uno dei due lati lunghi sono scolpiti in bassorilievo due gemetti alati reggenti una corona di lauro a nastri svolazzanti. Torno torno ai lati gira un festone di lauro che riprende e completa il motivo centrale. E stato trasportato al Museo Civico della città.

A Bologna, sotto il palazzo di re Enzo, è stato scoperto un frammento abbastanza grande di mosaico romano, appartenente con tutta probabilità al secolo di Augusto. E a tasselli bianchi e neri incuneati in uno strato di cal- cestruzzo dello spessore di parecchi centimetri. Nel centro, come di regola, do- veva esserci un tondo ; ma questo per un avvallamento molto profondo, avve- nuto chi sa da quanto tempo, è andato perduto e così non si può determinare a qual uso fosse destinato l'edificio nel quale si trovava.

FRANCIA.

La Itevue pubblica un curioso e interessante articolo di Fernand Caussy ftu Voltaire à Ferney.

La Francia celebrerà il 18 corrente il cinquantesimo anniversario della mort* di Alfredo de Vigny.

È stato t^stè innalzato al cimitero di Ferney un monumento a Henry Cazalis (Jean Lahor), opera dello scultore Maurice Favre.

E morto in un castello della Normandia il primo francese che entrò in Milano nel '59. Si chiamava Chappe ed era nel 1859 corriere nel reggimento di artiglieria che era stato spedito per la guerra in Italia. Il suo colonnello si lagnava di non ricevere regolarmente le sue lettere. Il Chappe si incaricò di recarsi in città per incontrare il fattorino postale e fu così che giunse in Mi- lano quando la città era sul punto di essere abbandonata dagli austriaci che avevano battuto in ritirata dinanzi alla forze franco-sarde. All'indomani l'eser- cito trionfatore francese entrava in Milano.

E uscito testé un importante libro di Albert de Bersancourt: Etudes ft liecherches. Notevole tra gli altri il capitolo con cui il volume si apre su « Balzac et sa Revue Parisienne ». E edito dal Mercure de France.

Lo stesso autore pubblica un libro sul poeta Thomas Brann (Les Mar- ches de l'Est)'.

.1 travers le Monde Rnmain è il titolo di una recente opera di B. Ca- gnat (Fontemoing).

E uscito recentemente nella traduzione francese l'opera di Kayze e E. Rolotf: Histoire d'Egypte, depuis les femps les plus recuiés jvsqu'à nos joìii}( (Editions Nilsson).

Ai profani di paleontologia segnaliamo un buon manuale di Maurice Exsteens: La préhistoire à la portée de tous (Paris, M. Rivière).

Segnaliamo alcune notevoli opere di geografia politica: Les Albanais fu Vieille Serhve et dfim le Sandjak de Xovibazar di Jov. Tomitch (Ha- chette) ; Les Serbes et les Bulgares dans l<i guerre Balkanique di Balkanicus; Les Roumains de Macédmne di A. Rubin ; L'Europe orientale et le róle histo- rique des Maurocordato (Plon).

UEffort libre consacra un articolo al poeta americano Joaquin Miller, morto nello scorso febbraio a 72 anni.

Le Cahier des Poètes dedica un numero speciale allo scrittore Pa\il Fort.

Nel Correspondant del 25 luglio è apparso un articolo di Dora Melegari su Florence Nightingale.

Si. LoTissort pubblica nella Grande Revue un interessante articolo su Une amie de E.. Heine et de H. faìne.

324 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

Dei romanzi apparsi recentemente in Francia notiamo i seguenti: Les Creux-de-Maison di E. Peroclion (Sansot) ; L'iilu.Htre famille di Richard Ranft (Ollendorff); Le Soncie d'Atiis di Reynès-Montlaur (Grasset) ; Les jevx de l'ombre di Eugénie Pradez (Perrin) ; Les Oiseaux de nuit di Maurice Level (Flammarion) ; Joe Trimhorrt di Grégoire Le Roy (Figuière) ; Xe Mystère du Cahier brun di Paul Junka (Tallandier) ; Charles Blanchard di Charles-Louis Philippe (Nouvelle Revue Fran^aise) ; Jja vie libre di Max Daireaux (Calmann- Lévy) ; Au delà du Capricorne di Marc Saunier (Sansot); Tonte la vie di M. C. Poinsot (Figuière); L'IIomme sur la cime di Octave Aubry (Plon); L'hom^me du désir di Robert Vallery-Radot (Plon) ; Criquet di Andrée VioUis (Calmann- Lévy) ; Le Gédéon di Antoine Jean (Plon); Sur le seuil de Vaiaour di Jean Morgan (Plon); Jjc Chàteaii-Iionheur di Barrante du Plessis (Lemerre).

AUSTRIA e GERMANIA.

La Deutsche Bvndschau consacra al maresciallo von der Goltz un articolo in occasione del suo settantesimo genetliaco.

Nella « Collection of British Authors » di Tauchnitz (Lipsia) è teste uscito uji volume di Bernard Shaw: Man and Superman.

Si pubblicherà prossimamente a Berlino un nuovo giornale, Zeifuri-/ der Zeitungen (Il Giornale dei giornali), che, come il titolo indica, sarà il giornale piìi grande che esista. 11 prezzo di abbonamento sarà nientemeno che di 375 franchi all'anno! liO scopo di questo nuovo giornale è di difendere gii interessi politici e commerciali tedeschi all'estero. Ed ha per patroni tre dei più grandi stabilimenti finanziari della Germania, dxie Compagnie di naviga- zione, Società di costruzioni navali, fabbriche di armi e di materiale da guerra. Il Giornale dei giornali sarà l'organo imperialista per eccellenza.

A Berlino si è teste costruito un nuovo dirigibile per la marina : Zcp- pelin 2. Questo dirigibile è il più grande di tutti ed ha 170 metri di lunghezza, 13.50 di diametro e quattro motori della forza totale di 800 cavalli lo mette- ranno in mcito. Il' hangar che lo contiene è vastissimo. Secondo gli ingegneri costruttori dello Zeppelin 2 esso potrebbe fare un viaggio in America senza troppi rischi.

L'illustre scrittore tedesco Paolo Heyse, le cui condizioni di salute de- starono recentemente non poche preoccupazioni, si è rimesso al lavoro. Si sta occupando anche, annunciano i giornali, della traduzione di commedie italiane, tra le quali la Mandragora.

Il fenomeno dello spoiiolamento delle campagne incomincia ad aliar, mare seriamente tutti i paesi civili. In Germania, il numero degl'individui de- diti alla cultura dei campi che era di 19 milioni, scese a 17 milioni nel 1907, mentre il numero degli abitanti delle città passava da 26 a 44 milioni. Nel 1871, il numero delle grandi città con una popolazione superiore a 100 mila e fino a 150 mila abitanti era di 8, e nel 1910 era passato a 48, con un totale di circa 14 milioni di abitanti. Ora il fenomeno sociale dello spopolamento è con- nesso a quello dell'esodo dalla campagna verso le città. La campagna promette prospere reclute alla patria mentre in città la mortalità infantile infierisce. La Germania constata che le due città di Amburgo e Berlino forniscono un nu- mero di reclute valide tre volte inferiore a quello delle campagne della Prussia orientale. I nazionalisti tedeschi ne sono allarmati.

In Germania la produzione dell'alcool, che era di 3,815,569 ettolitri nel 1898-899, è scesa nel 1911-912 a 3,456,347 ettolitri. Nel 1911-912 furono pro- dotti 2,479,696 ettolitri d'alcool di patate nelle distillerie agiicole e 18,922 etto- litri nelle distillerie industriali, 506,344 ettolitri di alcool di grano nelle distil- lerie agricole e 288,458 ettolitri nelle distillerie industriali. Il consumo dell'al- cool da un totale di 2,435,916 ettolitri nel 1898-899 è salito ad ettolitri 3,507,371 nel 1911-912. Il reddito dell'imposta sull'alcool, da 155,567,246 marchi nel 1898-899, è salito a 207,786,104 marchi nel 1910-911, per declinare a 205,376,764 marchi nel 1911-912.

11 Maerz d'agosto contiene vari importanti articoli politici e sociologici.

E. W. Fischer esamina nel lAtcrarischc Echo le origini di Madurne Bovary.

Nella stessa rivista Tony Kellen pubblica nn articolo sul romanzo di costumi in Turchia.

Felix Baumann si occupa con un interessante articolo nell'.l reno della tratta delle bianche.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 325

INGHILTERRA e STATI UNITI.

The y'nteteenth Century descrive le condizioni del clima e la possibilità di colonizzazione dell'Australia tropicale.

Presso la Houghton Mifflin Company di New York sono apparse recen- temente le seguenti opere: The Nation and the Empire, by lord Milner; Greek imperialism, by William Scott Ferguson; The significance of art, by Éleanor H. Rowland; The health master, by Samuel Hopkins Adams; The publisher, by Robert Sterling Yard; Story-telling poems, by Frances Jenkins Olcott; The little hook of modem verse, by Jessie B. Rittenhouse; The Greatest books in the world, by Laura Spencer Portor; The Housekeeper^s handy-book, by Lucia Millet Baxter; Trees and shrubs, by Charles Sprague Slargent; Wonderful esca- pes by americans, by William Stono Booth.

Il 19 agosto u. s. cadde il centenario della nascita di Jennine Luke, l'autrice degli inni religiosi più diÉFusi in Inghilterra. Era nata a Islington, e suo padre, Thomas Thompson, appartenne a un tempo alla Società della Bibbia e dell'Unione delle Scuole domenicali. Il suo inno: / think ichen I read that sweet Story ai Old fu composto nel 1841 e fu subito inserito nella raccolta dei caiiti religiosi. L'autrice morì nel 1906 nell'isola di Wight.

La Nation pubblica un articolo di Arthur Beatty su Vlnfluence of Hartley on Wordsworth.

Neil' Open Court di Chicago è apparso un notevole studio sul maggiore poeta contemporaneo delle Indie, Rabindranath Tagore.

È uscito, a cura di Richard Edgcumbe, il secondo volume di The Diary of Frances, lady Shelley (liondon, J. Lane).

Nel Times Literary Supplement del 7 agosto è apparso un importante studio su Dostoiewski.

The English Heview pubblica un interessante articolo di Anatole France: u Pour la Paix », in francese.

Il professor Lane Cooper ha dato fuori recentemente, corredata di note e di annotazioni critiche, la Poetica d'Aristotile ad uso degli studenti.

11 movimento a favore della formazione di gruppi di « Città Giardino » nei dintorni delle grandi città industriali ha preso un così grande sviluppo in Inghilterra, che in questi ultimi sei mesi sono stati studiati i progetti ed tnche iniziati i lavori, j>er la formazione di diciotto nuovi sobborghi-giardino di cui otto nei dintorni di Londra. Quando questi edifici saranno comple- tati essi copriranno un'area complessiva di circa duemila ettari, e potranno contenere una popolazione superiore ai centomila individui.

Da una relazione pubblicata in questi giorni a Londra dal Board of Trade risulta che 5046 lavoratori trovarono la morte in conseguenza di acci- denti derivanti dalla loro professione. Su questo totale, che rappresenta un aumento di 742 individui sulle cifre dell'anno precedente, 1876 lavoratori ap- I*artenevano alla categoria dei marinai, fuochisti e macchinisti, mentre 107 fa- cevano parte di equipaggi di navi da pesca naufragate. I lavoratori morti in seguito ad accidenti minerari sommarono a 1311 ; di cui 177 perirono in seguito a disgrazie avvenute aUa superficie del suolo, e gli altri IIM perirono nelle gallerie sotterranee. I lavoratori uccisi negli stabilimenti, negli opifici e nelle officine sommarono a 945, mentre le vittime dell'industria tessile furono 73. I casi di avvelenamento saturnino furono 5S7. I casi di avvelenamento mercu- riale, fosforo ed arsenicale furono 22.

Dalle tavole demografiche che si pubblicano ogni tre mesi dall'Home Office di Londra ri.sulta che durante il primo trimestre dell'anno corrente, i matrimoni hanno subito un notevole aumento. Difatti mentre nei primi tre mesi dell'anno scorso essi non furono che 58,313, nel primo trimestre di que- st'anno salirono a 74,403; in quanto alle nascite, per la prima volta dopo. molti anni mostrarono essere pure un incremento. Nel secondo trimestre dell'anno scorso le nascite registrate sommarono a 276,675, mentre nel trimestre dell'anno corrente sommarono a 285,831. In quanto alla mortalità è salita da 152,078 de- cessi nel secondo trimestre del 1912 a 159,881 nel periodo corispondente del 1913. La sua quota generale è quindi salita da 11.8 per miUe a 12.1 per mille.

Il Board of Trade di Londra ha pubblicato il rapporto sui fallimenti verificatisi in Inghilterra e nel Principato di Galles nel 1912. In totale i Tribu- nali pronunciarono 6351 ordinanze di fallimento, con una diminuzione di 341 in confronto dell'anno precedente. Il complesso delle cifre dei fallimenti am- montò ad un totale di 8,053,940 con aia diminuzione di 2,793,560 in confronto

326 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

dell'anno precedente. La perdita' totale dei creditori ammontò a sterline 6 mi- lioni 462,170. In Scozia i casi di fallimento furono 316, per un totale di ster- line 614,667, in Irlanda i fallimenti furono 372 per un totale di sterline 399,200. Fra i casi di fallimenti più curiosi vi è quello di una persona che acquistò un giorno tanti gioielli per il valore di quarantamila sterline e li vendette poche ore dopo per la somma di diecimila.

Il Ministero d'agricoltura d'Inghilterra annuncia che il Governo ha intrapreso alcuni esperimenti per dimostrare la possibilità della coltivazione delle dune sabbiose, situate lungo le coste inglesi, le quali complessivamente co- prono una superficie di tre milioni di acri. Il Governo, seguendo l'esempio già dato da quello danese, ha iniziato lavori nella contea di Norfolk appunto per ridurre una vasta area sabbiosa ed incolta a coltivazione intensiva. Il terreno viene arato profondamente e ad esso sono aggiunte l'argilla per dargli consi- stenza e materie fertilizzanti per svilupparne la produttività. Nella prossima primavera si inizieranno su parte dei terreni così fertilizzati coltivazioni reddi- tizie, fra le quali anche quella del tabacco.

ITALIA ALL'ESTERO.

Al Teatro Nazionale d'Atene è stato rappresentato con grandissimo suc- cesso Il perfetto amore di Roberto Bracco, pubblicato per la prima volta nella nostra Rivista. I giornali malgrado la Coincidenza dei turbamenti diplomatici tra la Grecia e l'Italia, hanno tributato le piìi ampie lodi alla commedia del Bracco. Essa è stata definita un vero gioiello. Contemporaneamente in un altro teatro ateniese, al Monstaka, si rappresentava un'altra commedia di Roberto Bracco: Il frutto acerbo, con eguale successa.

Nella seconda prova del concorso internazionale per il monumento allo Zar Alessandro II, prova alla quale furono ammessi gli scultori Ximenes, Ca- ncnica, Romanelli e Alezieff , è riuscito vincitore il Romanelli di Firenze. . il quale ha avuto l'incarico ufficiale di eseguire il monumento dopo aver fatto alcune modificazioni al progetto scelto, e ciò per volontà dello Zar.

Il numero di settembre di France-Itolie contiene tra l'altro: Jiilien Luchaire: La constitution fiorentine au temi>s des marchands; Charlotte Re- nauld: Un poète: Giovanni Cena; Arturo Stanghellini : Villes italiennea d'aujourd'hxn: Pistoie ; André Maurel: Rabelais à Rome; Giovanni Gentile: La philosophie de J. fì. Vico.

Molto alacremente procede al Castello Reale di Windsor la riproduzione fotografica dei manoscritti e disegni (oltre 900 fogli) di Leonardo da Vinci, eseguita da Andreani e Gherardelli, rappresentanti le Ditte Danesi di Roma e Arti Grafiche di Bergamo, Ditte alle quali la Commissione Reale Vinciana, presieduta dal senatore Blaserna, affidò l'importante e delicato lavoro. La Reale Accademia di Belle Arti, il Museo di Oxford, il Collegio Christchurch, la libreria di Chatsworth del Duca di Devonshire, la pinacoteca della signora Ludwig Mond, oltre al British Museum, e al Museo Vittoria e Alberto, aprirono le loro porte ai nostri artisti fotografi, onde facilitar loro questa grande opera d'Arte, destinata a popolarizzare attraverso il mondo civile la multiforme pro- digiosa versatilità del sommo genio italiano.

Ernesto Lémonon pubblica sulla Revue Politique et Parlementaire un lungo e denso articolo sul partito cattolico di fronte allo Stato italiano!.

Ora che anche l'ultima opera di Segantini, Due madri, è stata ven- duta, e, come era troppo facile prevedere, non è rimasta in Italia, può interes- sare l'elenco delle opere che all'estero rappresentano il nostro grande pittore. A Vienna: Nirvana, Cattive madri, Meriggio, cartoni del trittico e qualche altro disegno. A Berlino: Ora mesta, Ritorno al paese natio e disegni. A Mo- naco: Aratura in Engadvna. Ad Amburgo: Dolore confortato dalla fede, Paesaggio con pecore. A Lipsia: Ritratto, Il figlio dell'amore. A Zurigo: Ra- gazza che fa calze. A Basilea: Vacche aggiogate. A Liverpool: Inissuriose. A Coirà: Al balcone. A S. Moritz: Trittico, conservato nel Miiseo Segantini pel quale il Governo della Federazione Elvetica contribuì con 250 mila franchi. Per nessun altro artista moderno morto un maggior numero di Musei di Europa ha più gareggiato per assicurarsi almeno un'opera. Dalla gara si tennero fuori i soli Musei d'Italia.

Gaynor, sindaco di Nuova York, fece recentemente il più caldo elogio dell'attività italiana, dicendo: «Se tutti gl'italiani fossero domani espulsi, il progresso di questa nazione sarebbe assolutamente arrestato ». A New-York

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 327

vivono attualmente 500.009 italiani sopra circa 6 milioni di abitanti. Essi eser- citano con successo tutti i mestieri, arti e professioni. Nelle industrie tessili e della seta, la collaborazione preziosa degl'italiani ha permesso all'America del Nord di entrare in concorrenza con la Francia, sia per la quantità che per la qualità della produzione. Sopra 85.000 operai adibiti nei 642 setifici con 65.000 telai, 20.000 sono italiani. L'unione degli scalpellini italiani conta oltre 2500 soci. Gli scultori, scalpellini e figurinai, hanno preso una ijosizione impor- tante nella immensa metropoli. Annualmente si vendono per oltre 3 milioni di lire di statuette in marmo, in gesso ed altri oggetti d'arte. Nel 1890 vi erano solamente due axTocati e sette medici ; ora vi sono più di 100 avvocati e più di 500 medici, organizzati rispettivamente neUe Società professionali degli <( Avvocati italo-americani » e nella « Società medica italiana ». 75 ita- liani insegnano nelle scuole pubbliche di New York e due italiani occupano la carica di direttore ; 5 italiani sono membri della Commissione scolastica e un Commissario dell'educazione è italiano. I fanciulli italiani che frequentano le scuole di New York sono 99.925, dei quali 22.451 sono nati in Italia, 70.491 sono figli di genitori italiani e 6983 hanno almeno uno dei genitori nato in Italia.

La Direzione della Statistica e del Lavoro ha pubblicato il suo An- nuario per il 1912, nel quale uno speciale capitolo è dedicato agli italiani al- l'estero. Dalle cifre in esso raccolte risiilta che nel 1912 gli emigranti italiani furono 708.000, dei quali quasi 400.000 passarono gli Oceani, rimanendo gli altri in Europa o nel bacino mediterraneo. La proporzione dei maschi è dell'80 per cento. Il Veneto, con la sua grande fecondità ha dato nel 1911 il maggiore contributo all'emigrazione, con quasi 100.000 emigranti, superando anche la Calabria; eppure il 1911 fu uno degli anni di più scarsa nostra emigrazione. È noto che gli Stati Uniti assorbono quasi il 40 per cento della nostra emigra- zione: vengono poi l'Argentina, la Svizzera, la Francia, la Germania, l'Austria e il Brasile con cifre d'italiani che variano per ogni nazione dai 100 ai 200 mila. L'emigrazione nell'Africa mediterranea non tocca i 10.000 individui e si sposta ora verso la Libia. E molto più significativo conoscere, a proposito di emigrazione, non queste cifre di carattere dinamico, ma altre che diremo statiche. Vivono negli Stati Uniti 1.800.000 italiani (più che negli Abruzzi e poco meno che nelle Puglie), 1,500,000 nel Brasile e 1,000,000 nell'Argentina; 400.000 in Francia; 180.000 in Germania; 135.000 in Isvizzera, più di 100.000 in Tunisia e nell'Uruguay, quasi 100 mila in Austria, e poi in Algeria, in Egitto, nella Turchia d'ieri, nell'Inghilterra e nel Canada, abbiamo colonie che superano i ventimila abitanti. In totale gli italiani all'estero sono cinque milioni seicento mila, cioè un tesoro d'uomini e d'attività superiore alla Lom- barda e alla Liguria riunite.

CONCORSI, CONGRESSI, ESPOSIZIONI.

Il Consiglio direttivo della R. Accademia di S. Cecilia in Roma, ha deli- berato di sostituire all'annuale concorso, la istituzione di una Commissione j>ermanente di lettura per l'esame e la scelta di composizioni sinfoniche e vocali, che saranno inviate all'Accademia per essere eseguite nei concerti del- VAuguateo. Non vi sarà quindi termine fisso per la presentazione dei lavori, che potranno essere consegnati anche durante il corso della s-tagione. La Com- missione, composta dei Maestri Falchi, Pinelli, Vessella, Respighi, Setaccioli, Bustini e Molinari, inizierà le sue sedute nel prossimo mese di ottobre, ma gli autori che desiderano sottoporre all'esame della Commissione le loro com- posizioni, possono inviarle fin d'ora alla segreteria della R. Accademia di Santa Cecilia, Via Vittoria, 6.

A\V HorticuHural Hall di Londra si è aperta una Esposizione interna- zionale odontologica, la quale contiene tutti i più moderni apparecchi e stru- menti usati dai dentisti neUa loro professione. L'esposizione è di grande inte- resse anche per la sua estensione, perchè oltre ad un numero larghissimo di Tariatissimi apparecchi come poltrone operatorie, torni, vulcanizzatori, mo- tori elettrici, anestetizzanti, ecc., contiene opifici per la fabbricazione di den- tiere artificiali con tutti i sistemi sinora conosciuti e con tutti i metodi scien- tifici ed Igienici più perfezionati.

Nella primavera del 1914 si aprirà in Londra, alla White City, una esposizione anglo-americana per celebrare il centenario della pace fra gli Stati Uniti d'America ed il Regno Unito dopo la guerra scoppiata nel 1812 per

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uua questione di confine e di diritti marittimi. Il progetto venne iniziato l'anno scorso dal defunto ambasciatore Whitelaw Reid. La parte americana dell'esposizione sarà organizzata dal Commercial Museum di Filadelfia. Gli utili che ne deriveranno saranno destinati a creare una istituzione che serva a rendere piìi intimi i rapporti fra le due Nazioni.

Ite piratiche iniziate per preparare in Londra una grandiosa esposi- zione imperiale, col concorso del Governo inglese e di quelli di tutte le Colonie dell'Impero sono oa-amai giunte a buon punto. L'Esposizione si aprirà nel- l'aprile del 1915, quando in Londra avrà luogo la Conferenza imperiale fra i Primi Ministri delle colonie autonome. Nello stesso anno il Principe di Galles compirà il suo 21" anno raggiungendo quindi la maggiorità; cadrà il 7" cente- nario della promulgazione della Magna Carta, cioè dell'atto costituzionale fondamentale dell'Inghilterra ; si celebrerà il centenario della pace stabilita fra l'Inghilterra e la Francia dopo la battaglia di Waterloo, e quello della pace tra gli Stati Uniti e l'Inghilterra firmata a Gand nel gennaio del 1815. Lo scopo dell'Esposizione sarà di mostrare ai visitatori tutto quello che la madre Patria e le sue colonie posscaio produrre o manifatturare col proposito di inten- sificare il commercio tra le varie parti dell'Impero.

E indetto un concorso per esame ad una borsa di studio triennale (L. 1800 per 2 anni e L. 3500 pel terzo anno) per il perfezionamento nella storia dell'arte medioevale e moderna presso la R. Università di Roma. Possono con- corrervi coloro che hanno conseguito la laurea in lettere in una Università o Istituto d'istruzione superiore e che comprovino con documenti la conoscenza di due lingue straniere, la francese e la tedesca o l'inglese. Domande e relativi documenti al Ministero della P. I. (Direzione genei'ale istruzione superiore), scadenza 30 settembre.

Concorso ad una borsa di studio nella scuola di archeologia presso la R. Università di Roma*. Sono ammessi i laureati in lettere presso le R. Uni- versità, R. Istituti d'istruzione superiore. Domanda con i relativi documenti come sopra.

A Reggio Calabria concorso a premi per i progetti : Ospedale Civico, Asilo d'infanzia, Uffici della Congregazione di Carità: premi di L. 7000 per l'Ospedale, L. 3000 per l'Asilo ed Uffici. Per schiarimenti rivolgersi alla Se- greteria della Congregazione di Carità.

É bandito a Roma un concorso nazionale per un progetto di comuni- cazione fra i tre palazzi Capitolini: a) comunicazione intera dei palazzi Capi- tolini ; b) assoluto rispetto dell'organismo della piazza, dello stile e dell'armonia degli edifici. I concorrenti avranno la piìi assoluta -libertà di scelta dei modi, delle comunicazioni e dei luoghi ove queste dovrebbero effettuarsi mediante passaggi esterni o sotterranei. Per maggiori schiarimenti quanti intendono partecipare al concorso si rivolgano all'Ufficio tecnico municipale. Scadenza 23 ottobre 1913.

Al concorso Baruzzi (Bologna) per la scultura hanno preso parte 38 artisti fra i quali Ciusa, Regosa, Milani, Zambelli, Gualdi, Rivalta, Pram- polini. lia Commissione composta da Calandra, Romanelli, Rizzoli, Parmeg- giani e Maiani ha assegnato il premio a C. Rivalta.

Al congresso internazionale contro la disoccupazione, tenutosi in questi giorni a Gand, erano presenti, per la sezione italiana, il segretario generale della società Umanitaria, prof. Augusto Osimo, il dott. Livio Marchetti, capo sezione al ministero di Agricoltura, e Pietro Braga, per l'ufficio di tutela per gli emigranti di Padova. Il congresso si è pronunciato, in materia di colloca- mento, in favore di una larga e sistematica applicazione dei pubblici uffici di mediazione del lavoro, neutri e gratuiti ; in tema di assicurazione, ha ade- rito al principio della obbligatorietà già sancito in una recente legge inglese; ha invocato, nella distribuzione dei lavori pubblici, una intensificazione di attività in corrispondenza ai periodi di morta stagione; e quanto alla emigra- zione ha deliberato la nomina di una commissione mista, scelta d'accordo fra le principali Associazioni internazionali di carattere sociale, per esaminare il problema sotto i suoi aspetti piìi importanti.

Direttore-Proprietario: MAGGIORINO FERRARIS

Baffaello Messini, Besponsabile

Roma. - Stab. Cromo-Lito-Tipoerafico Armari à Stein - Piazzale Villa Umberto 1. - Bona.

PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE

La Federazione dei Consorzi di bonifiche delle Provincie Venete e di Mantova non vi ha convocati a Padova con fini di politica mili- tante, né per provocare dispute sottili e inutili, nelle quali le parole usano soffocare idee concrete e pratiche. Io stesso pregato di inau- gurare questo convegno, per salvarmi dagli impeti e dai pericoli del prorompente discorso, vi leggerò, se riesca a vincere l'abitudine del dire all'improvviso, le mie meditate proposte, poiché qui si tratta di annunciar chiaramente ciò che si deve compiere con rapida esattezza, nel solo supremo interesse della patria.

A Oderzo, l'anno scorso, aprendo il Congresso degli agricoltori italiani, alzai un grido, che fu raccolto. L'industria manifatturiera, notavo allora, ha nell'ultimo trentennio mirabilmente prosperato, procurando dei mercati ricchi e sempre aperti alla vendita dei nostri prodotti agrari; mirabile fattore di unità e di solidarietà nazionale fra il mezzodì e il settentrione d'Italia. Ma ora ha bisogno di racco- gliersi, di assestarsi, di riparare errori non lievi col beneficio del tempo, colla espiazione di non pochi opifìci ridotti di prezzo e con altre sagaci provvisioni; deve chiedere nuovo capitale per espan- dersi. Il residuo risparmio nazionale, rispettato dalle inesorabili e inevitabili avidità del Tesoro, sul quale, giova ricordarlo, preme tutta l'Italia, è uopo rivolgerlo alla terra, alla nostra antica madre, che compenserà con spontanea e prodiga tenerezza le cure dei suoi figli.

Quando imperversò per molti anni la crisi agraria, e tutti la ricordiamo coi lunghi svilimenti nei prezzi dei poderi e dei prodotti, fu fortuna e risarcimento la creazione e la fortificazione della Italia industriale, a cui si affidò una parte cospicua dei mezzi finanziari. Ora conservando, migliorando quanto si é fatto di grande e di dure- vole nelle industrie manifatturiere (ed è inutile dire a voi quali mi- rabili progressi si ottennero), conviene provvedere con nuova dili- genza alla produzione agraria, fonte di sicure rimunerazioni..

Calcolo che gli errori di questi ultimi quindici anni con le im- provvide moltiplicazioni di fabbriche sovrabbondanti e con altre im- previdenze tecniche, ci costino alcune centinaia di milioni, parte ri- cuperabili in appresso; bisogna riguadagnarli e oltrepassarli con la creazione rapida di una nuova ricchezza nell'agricoltura riparatrice.

I popoli forti si dolgono per curare i loro mali, per vincere gli effetti delle loro colpe, non per struggersi in vane rabbie di reci- proche accuse, o nella contemplazione inerte di sventure, che una

Nota. Questo discorso fu pronunziato dall'on. Luigi Luzzatti al con- vegno nazionale di Padova per l'immediato bonificamento delle terre paludose. 22 Voi. CLXVII, Serie V ottobre 1913.

330 PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE

sana operosità può soltanto mutare in letizie civili. A tale uopo ho concentrato in due luminosi esempi il programma di tornare alla terra materna; la creazione e la fortificazione della piccola proprietà rurale (accompagnata da salubri case), dov'è agrariamente consiglia- bile, illuminata dai provvidi ausili della mutualità; V asciugamento sollecito, tecnicamente perfetto, delle nostre terre acquitrinose, palu- dose, operato in modo di compiere finalmente le audaci iniziative, le quali in ogni parto d'Italia diedero sinora affetti fecondi, meravi- gliosi, onore, in tutto il mondo civile, dei nostri ingegneri, agricol- tori e lavoranti.

Trent'anni fa nel Ferrarese non si notavano che 100,000 ettari di terreno produttivo; oggi su 200,000 biondeggiano le liete messi, gra- zie alle bonifiche. Un'altra bonifica, alla quale assistemmo in questi ultimi anni, .dell'agro mantovano-reggiano, di 32,000 ettari, con una spesa di più che quindici milioni per la sola bonifica idraulica, e con una quota a carico dei consorziati, per 50 anni, di lire 15 in media all'ettaro, ha raddoppiato, in parecchi casi triplicato, il valore dei ter- reni, e perfino qualche volta quadruplicato. Dove prima si trovavano soltanto le grandi Corti dei latifondi distanti fra loro per parecchi chilometri, ora si vede una nitida scacchiera di nuove case, che va sempre aumentando per la divisione del latifondo in poderi. Il brac- ciante errabondo, a lavoro intermittente, un ribelle, è trasformato in mezzadro, in affittuario coltivatore, affezionato alla terra redenta e redentrice. E dove non erano che valli quasi continuamente allagate, delizia di pochi magnifici sfaccendati, intenti alla caccia degli uccelli palustri, tormento dei poveri, affranti dalla malaria, oggi splendono campi asciutti e ubertosi, simbolo di salute e di forza, trionfo dell'in- gegno e del lavoro umano sulla materia improduttiva e maligna.

Così avverrà per gli altri 27,000 ettari di terreno paludoso a de- stra del Parmigiano Moglia, ai quali occorrono soltanto venticinque milioni per dare i salutari frutti, che si ottennero dall'altra parte. E dappertutto la bonifica vanta in Italia gli stessi effetti liberatori; taccio del Veneto, dove le vittorie continue sulla natura ribelle non spetta a noi Veneti glorificare. Ond'è che se si potessero in meno di quindici anni asciugar almeno quattrocentomila ettari e ridurli feracemente coltivabili con la bonifica idraulica e agraria, i capitali dispersi nelle imprese industriali non felici si risarcirebbero a do- vizia. E quel che è più ancora, si fortificherebbe nell'ordine militare la patria, la quale troppo omai per la sua alimentazione si provvede dall'estero e dall'estero dipende.

Dobbiamo, non coi metodi artificiali, ma naturali, trarre dalla coltivazione intensiva e razionale di tutto il nostro suolo mezzi sem- pre maggiori e, per quanto è possibile, idonei alla sussistenza del popolo italiano, imitando l'opera della Francia dopo il 1870. Una na- zione fortissima, la più ricca d'Europa, forse la più ricca del mondo, ora trema pensando che solo un quinto del suo pane è provveduto dall'agricoltura patria; se la Gran Bretagna perdesse una guerra na- vale, dovrebbe arrendersi per fame! Quindi si adopera a tagliare riso- lutamente il latifondo, a rinvigorire la piccola proprietà, a imitare, per quanto le è possibile, la Francia, la Danimarca, ecc.

Noi siamo sulla buona via; tutto è predisposto dalla scienza tecnica e dagli studi concreti per condurre a compimento la bonifi- cazione delle nostre terre; non ci mancano che qualche maggiore as-

PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE 331

sistenza legislativa, ed essenzialmente, principalmente, i mezzi fi- nanziari.

Vi deve essere qualcosa di slegato, di deficiente nelle nostre isti- tuzioni sullo opere pubbliche, se sia possibile, per recare un solo triste esempio, in questo gran centro padovano di civiltà umana e italiana (due parole, le quali per fortuna nostra spesso si confondono e naturalmente si collegano), che, dopo venti anni di sforzi eroici, non siamo ancora riusciti per l'ostinazione di pochi potenti, non dirò prepotenti per non inasprire la controversia, ad asciugare i terreni paludosi, fecondi di malaria, dei Patriarcati, che mi costarono tanti affanni! Così dicasi delle renitenze di esili minoranze ostinate che la legge deve dare il modo di vincere, come ha proposto sagacemente Leone Romanin-Jacur, nel reggimento intemo dei Consorzi. E occor- reranno speciali provvedimenti e aiuti amministrativi e finanziari per non poche bonifiche del mezzodì, quali li studia e prepara il Mi- nistro dei lavori pubblici molto opportunamente. Ma di tutto ciò parleremo un'altra volta; ora si tratta di una ricerca più difficile e che tutti ci congiunge : il conseguimento dei mezzi finanziari.

Il lamento è universale; le opere di bonificazione sono sospese in tutta Italia, i migliori progetti, l'ultima legge benefica che promisi col Sacchi e col Tedesco quando eravamo insieme al Governo, e il Ministero Giolitti lodevolmente tradusse in atto, giacciono vani, inef- ficaci, perchè mancano i mezzi finanziari per avvivarli. Quando i bonificatori delle nostre terre si presentarono al Presidente del Con- siglio e al Ministro dei lavori pubblici nel 1910, chiesero una legge agevolatrice; a tale uopo consentirono a restringere il concorso del- l'Erario dal 60 al 50% per le bonifiche più difficili, di prima catego- ria, a mutare in annualità il conferimento della quota di capitale dello Stato, come si fissava nelle leggi precedenti. L'on. Romanin- Jacur, che per la età, per le utili, continue fatiche in questi studi e in queste opere, si può chiamare il patriarca delle bonifiche italiane, ebbe dal Governo l'incarico di preparare gli animi dei bonificatori e i provvedimenti legislativi accennati sopra col seguente telegramma :

« Preghiamo te che hai sempre sostenuto con competenza e fer- vore gli interessi idraulici del Veneto e di tutta l'Italia, di assicurare al convegno dei Consorzi Veneti di bonificamento che il Governo esa- minerà le proposte, le quali verranno presentate, e cercherà i mezzi migliori per dare il desiderato impulso a lavori, rappresentanti vera- mente Vaccivisto di nuovo territorio nazionale ».

« LuzzATTi, Sacchi ».

Mantengo oggi, fuori del Governo, gli impegni e i disegni del 1910 e sono sicuro (anche per discorsi fatti con loro) che li mantengono gli onorevoli Sacchi e Tedesco.

Ma come pensavo allora di raccogliere i mezzi finanziari? E per le mutate vicende della guerra libica, come penso ora di cercarli? È il problema formidabile! Escludo il consiglio di ricorrere alle Casse di risparmio. Esse non possono, non devono, tranne in particolari casi e per somme non rilevanti, impegnarsi in grosse operazioni a tanto lunga scadenza; non lo potevano fare nel 1910, tanto meno oggidì, esuberanti, come sono, di titoli di Stato, di Buoni quinquennali, di Buoni ordinari del Tesoro. Escludo anche gli istituti di credito fon-

332 PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE

diario, che maneg-giano le cartelle corrispondenti all'indole finan- ziaria delle nostre operazioni di bonifica, h' Istituto di credito fon- diario italiarto, segnatamente inteso all'opera salutare di combattere •le usure fondiarie nel mezzodì, non vuole distogliersi da questo no- bile intento, e i tempi si sono fatti sempre più ostili a larghi colloca- menti di obbligazioni a ragione d'interesse non disastrosa pei mutua- tari. Posto nella scelta di aiutare i bonificatori delle terre o i proprie- tari del mezzodì, l'Istituto di credito fondiario italiano non ha esitato a dedicarsi a questi ultimi; ha fatto bene, secondo il nostro giudizio. Gli altri crediti fondiari curati dalle Gasse di risparmio di Milano, di Verona, di Bologna, dal Monte dei Paschi di Siena, dall'Opera pia di San Paolo di Torino, si trovano nelle identiche condizioni, vogliono servire principalmente i proprietari di terreni e di case, sentono tutti l'effetto delle difficoltà per collocare ad alti corsi questi titoli. Interro- gati dal Governo alcuni di questi Istituti se, soli o insieme, potessero, come si suol dire oggidì con barbara parola, ma espressiva, finan- ziare la bonifica renana, la grande iniziativa, che si deve compiere per l'onore economico dell'Italia e per l'esperimento democratico di bene preparate associazioni di lavoratori, le quali serviranno di esem- pio, risposero che noi potevano. Viviamo in momenti, nei quali ogni Istituto ha l'obbligo, prima di ogni altra considerazione, di provve- dere alla integrità del suo credito e a quello dei suoi depositanti.

Si è anche pensato alla fondazione di un Istituto nazionale per le bonifiche, con capitali nostri e forestieri, munito del privilegio della cartella. Ma, quantunque un tale disegno sia appariscente, fosfore- scente anzi, oggi meno che mai è lecito pensare a porlo in atto. Il capitale estero non cura i compensi del quattro per cento con opera- zioni vincolate a lunghissimo termine; cerca rimunerazioni più alte con facili alienazioni, e le otterrà presso non pochi popoli europei fa- melici di prestiti a qualsiasi patto. vi è capitale italiano libero, di- sponibile per un forte Istituto di carattere essenzialmente bonifica- tore, né avrebbe la speranza di collocare la cartella a eque ragioni, possibili nel passato, negli anni alcionici, che sicuramente rivedremo. E tuttavia la cartella delle bonifiche si presenta come la più solida di tutte, perché sarebbe garantita, nel sei-vizio delle annualità, pel cin- quanta per cento dallo Stato, pel venticinque per cento dalle Pro- vincie e dai Comuni e pel venticinque per cento dai proprietari con esazione diretta e forzata come per la imposta fondiaria, mentre le altre cartelle dei crediti fondiari non hanno che le ipoteche sui fondi rustici e urbani. Negli istituti finanziari, anche i più potenti, possono ora occuparsene. ^ noto, a mo' d'esempio, che è la Banca Commer- ciale, la quale rese possibile la bonifica dell'agro mantovano-reg- giano, patrocinando la emissione di obbligazioni al quattro per cento in oro, garantite dalla sovvenzione governativa, da quella locale e dalle tasse consorziali. Ne fu facile il collocamento e l'operazione riuscì propizia alla Banca e ai bonificatori; ma oggi quale Istituto fi- nanziario ritenterebbe una simile prova?

E allora? Lasciate ogni speranza, o voi che volete bonificare?

Signori! Senz' alcun sacrifizio, diretto, indiretto, lo Stato italiano può subito, applicando le leggi vigenti, dedicare in prestiti alle bonifiche da trenta a quaranta milioni aWanno in media; il che, fra dieci e quindici anni, consentirebbe di compiere le opere princi- pali, di trasformare i canneti e le paludi in terre fiorenti, effondendo

PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE 333

la ricchezza colVaere salubre, trasformando, con opportune cautele sociali, gli inquieti e randagi lavoranti in coltivatori felici. Si farebbe un'opera di redenzione politica, economica, igienica; un ottimo af- fare e una ottima azione, preparando una materia imponibile magni- fica, spremuta dalla ricchezza e non dalla miseria, come spesso av- viene, ai futuri Ministri del Tesoro!

Chi vi parla ha convertito da Ministro del Tesoro i debiti del mezzodì (Sicilia, Sardegna), estendendo poi quel metodo di con- versione a Roma e altrove, coll'uso di una cartella emessa prima al 4 per cento e poi al 3.75, avidamente cercata come impiego eccellente dalla stessa Gassa dei depositi e prestiti, dal pubblico dei risparmia- tori e dalle nostre Casse di risparmio. In una nota densa (allegata al discorso) si epilogano queste felici operazioni, delle quali ancora mi allieto (1).

Con questa cartella si concedettero senza sforzo prestiti per circa 538 milioni, dei quali residuavano al 31 dicembre 1912, 501 mi- lioni; in cartelle 4 per cento per lire 249,136,000, e in cartelle 3.75 per cento per lire 251,967,000. Ma quando ho ideato e promosso questo istituto, che è una sezione della Cassa dei depositi e prestiti, beno- dctto dalle finanze comunali, non lo dedicai soltanto al riscatto dei debiti dei Comuni o delle Provincie, ma anche a benefìzio dei Con- sorzi di bonificazione. Infatti la legge che presentai, e con non lievi controversie vinsi nel 1898, contiene la seguente disposizione :

« La sezione autonoma di credito comunale e provinciale, istituita con gestione propria presso la Cassa ded depositi e prestiti con la legge 24 aprile 1898, n. 152, è autorizzata a far prestiti mediante emissione di cartelle agli enti indicati nella lettera e nelVart. 68 della primu parte libro della presente legge per riscatto di debiti con- tratti dagli enti stessi in c^uxilsiasi epoca e per la esecuzione di opere pubbliche debitamente autorizzate ».

E l'art. 68 alla lettera a) così dice : « / fondi tutti eccedenti i bisogni del servizio della Cassa dei depositi e prestiti saranno impiegati con l'assenso del Ministro del Tesoro in prestiti ai comuni e alle provincie, ai loro consorzi e ai consorzi di scolo, di bonificazione, di irrigazione, di derivazione di acque a scopo industriale e ai consorzi di opere idrauliche ».

La dimostrazione è evidente; a tenore delle leggi esistenti si può operar subito a favore delle bonifiche, anche colla emissione di cartelle.

Ora noi domandiamo, sull'esempio felice del Veneto, un Magi- strato nazionale delle acque e delle bonifiche, che governi su tutta Italia con opportuni snodamenti e discentramenti funzionali; ripar- tendole con equità territoriale queste operazioni redentrici, distri- buendole in modo di compierle fra dieci e quindici anni, con quattro- cento milioni, o giù di lì, ottenuti fra il 3.75 e il 4 per cento (su questo punto ci intenderemo in appresso), parte con emissione di cartelle e parte direttamente dai fondi disponibili della Cassa dei depositi. Essa, come con sua utilità ha fatto più volte, può preferire di emet- tere per tutte le somme le cartelle con la sezione autonoma, al fine di acquistarle poi, quale fruttuoso e infallibile impiego, all'uopo fa- cilmente alienabile.

(1) Vedi allegato a pag. 336.

334

PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE

Il Ministro del Tesoro, il mio eminente amico Tedesco, al quale anche di recente ragionai di questa delicata materia, mi affermava che, nonostante i compiti gravi ogni più addossati alla Gassa dei depositi (gli ultimi delle case popolari, degli acquedotti, degli edi- fici scolastici sono redentori anch'essi come quelli delle bonifiche), le disponibilità potranno essere sempre sufficienti per un piano di boni- fiche (1), quale io vagheggio.

Lo spero, lo auguro, lo attendiamo questo piano qui da noi in- vocato, dal sapiente patriottismo dei Ministri dei Lavori Pubblici e del Tesoro (2).

Però nei miei passaggi al Tesoro ho avvertito che i prestiti di- retti per i Consorzi di bonifiche erano invidiati da innumerevoli do- mande di altra specie, che si addensano su questa mirabile Banca dello Stato, qual'è la Cassa dei depositi. Parecchi mutui diretti e co- spicui ebbi la fortuna di concedere a Ferrara, a Rovigo e altrove; ma la Cassa dei depositi non potè compiere a tutt'oggi che 73 operazioni per 74 milioni, così distribuite secondo i luoghi :.

Ferrara L. 26,400,000

Mantova » 18,700,000

Rovigo » 17,700,000

Padova . » 5,000,000

Venezia » 4,200,000

Perugia » 994,000

Parma » 740,000

Ravenna » 120,000

Salerno » 155,000

Pesaro e Reggio Emilia . . » 97,000

Totale . . . L. 74,106,000

(1) Mutui concessi dulia Cassa dei depositi e pi-estiti ai Consorzi di bo- nifica .

La Cassa dei depositi e prestiti dal 1887 al luglio 1913 ha concessi ai consorzi di bonifica 73 prestiti per circa 74 milioni, al saggio di interesse vi- gente al momento della loro concessione e con ammortamento in 30 anni, salvo rare eccezioni.

I mutuatari hanno sempre regolafmente pagate le rate di estinzione.

La Cassa, per altro, non ha escluso queste operazioni dai benefizi della ri- duzione degli interessi e dal prolungamento del periodo di estinzione, tanto che quasi tutti i prestiti vigenti sono ora gravati dell'interesse del 4 per cento e per alcuni di essi la mora di restituzione è stata spinta ad anni 50.

(2) Queste sono le previsioni delle disponibilità della Cassa dei depositi

)ieghi economici :

1914 .

145,265,000

1915 .

144,800,000

1916 .

133,800,000

1917 .

138,400,00

1918 .

141,000,000

1919 .

153,000,000

1920 .

143,812,000

1921 .

133,000,905

1922 .

135,000,000

PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE 335

È perciò che nel nostro progetto razionale di finanza a favore delle bonifiche si additano due fonti : la sezione di credito che emette le cartelle, gli impieghi diretti della Gassa, insieme coordinati. Ma qui si affacciano obbiezioni non lievi. È possibile, è utile, nel pre- sente momento fiiianziario, la emissione di cartelle al 4 per cento o al 3.75? Rispondo nettamente e brevemente a queste due domande, delle quali riconosco la importanza. Se si trattasse di centinaia di milioni di emissioni di cartelle all'anno, anche di cento milioni in una sola volta, risponderei : no, date le condizioni attuali dei mer- cati. Ma noi chiediamo per dieci o quindici anni, trenta o quaranta milioni all'anno in media, dei quali solo una parte (comincierei con ima metà) si otterrebbe con la emissione delle cartelle. Ora pel credito dello Stato italiano, per le squisite garanzie delle cartelle, è fuori di contrasto che al 4 per cento saranno facilmente assorbite. E intanto se gli orizzonti politici si ostinassero a non rischiararsi [quod Dii aver tanti), la stessa Gassa, come ha fatto per somme ben più grosse al tempo della conversione dei debiti locali, potrà prenderle da sola come ottimo impiego, e facilmente si disseminerebbero dal Tesoro, occorrendo, fra parecchie Gasse di risparmio a piccole dosi. Quindi sarà possibile la operazione e sarà anche proficua alla Gassa dei de positi, che deve variare gli impieghi saldi del suo portafoglio. Augu- rando prossimo il momento nel quale le cartelle si emettano al 3.75 e al 3 /2 (e in esse, per effetto delle mie leggi, si convertirebbero le pre- cedenti collocate a più alto saggio), intanto, pur di cominciare, viste le disposizioni dei mercati, nessun Gonsorzio di bonifica rifiutereb- besi a pagare il 4 per cento, previsto quale saggio massimo dall'ul- tima legge, tanto più che le cartelle da me emesse al 3.75 erano gra- vate da una provvigione di 0.15 per cento, che le avvicinava al 4 per cento.

Quanto io propongo al Governo lo eseguirei se alla responsabilità della mia parola (io non dico mai che quanto all'uopo farei) si ac- compagnasse quella degli atti, e lo porrei a effetto perchè la Gassa dei depositi e prestiti ha la potenza di sostenere ben altri pesi pei gitto continuo dei fiorenti risparmi raccolti dalla posta. Aggiungasi ch'essa ora è rinforzata anche dagli impieghi dei premi versati al monopolio dalle assicurazioni sulla vita, le quali rappresentano un'altra Cassa di depositi e prestiti in formazione. Lo farei arche perchè, senza il minimo sforzo, senza alcun nuovo peso per l'Erario, lo Stato italiano, all'indomani della guerra libica, darebbe ai ^:uoi de- ti attori esteri lo spettacolo di una grande, eroica, fruttuosa inizia- tiva economica, ardita come quelle degli Americani del Nord, rapace di ampliare in Italia il territorio nazionale, di aumentarne la potenza produttiva, di renderla più sana, più forte in pace ed in guerra.

E fra quindici anni di lavoro intenso e glorioso, sottraente i no- stri braccianti alle incertezze della vita randagia, scemante per l'ab- bondanza del lavoro nazionale l'onda della emigrazione, rimarrebbe alla odierna impresa la data davvero romana di più che quattrocen- tomila ettari di terreno fruttifero aggiunto all'attuale, letizia del- l'Erario, orgoglio dell'agricoltura, seme fruttifero per fissare al suolo opportunamente frastagliato le falangi crescenti di libere e liete con- tadinanze. Il quale intento, sommamente democratico, come si possa raggiungere colle moderne provvisioni, spezzatrici del latifondo, age- Yolatrici delle piccole culture rurali, colle fìttanze collettive conce-

336 PER IL BONIFICAMENTO DELLE TERRE PALUDOSE

denti di lavorare le terre stesse alle stesse mani che le prosciugano, sarà argomento di un'altra adunanza, egualmente solenne, quando avremo la certezza di ottenere i mezzi finanziari occorrenti alla grande idea.

E se noi qui affratellati in una attesa iniziativa, pur movendo da principi politici diversi, talora perfino opposti, faremo oggi il giura- mento di Pontida (perchè si tratta di liberarsi da un nemico intemo non meno terribile dello straniero), per redimere dalle paludi e dalla malaria il suolo della patria, se non poseremo insino acche non sia coronata di lieto successo questa nostra proposta, potremo fra pochi anni (e spero di salutarla anche io, nonostante la grave età, questa aurora di pace agraria) narrare ai nostri figli e ai nostri nepoti : Era- vamo anche noi a quel convegno, che procurò rinnovate fonti di ric- chezza economica e morale, di salubrità, di popolare letizia, di per- petua giovinezza alla sacra terra d'Italia!

Luigi Luzzatti.

Allegato.

Operazioni della Sezione autonoma di credito comunale e provinciale.

Nella relazione siili' andamento della Cassa dei depositi e prestiti per l'anno 1912, presentata alla Commissione parlamentare di vigilanza, sono esposti a pag. 489 e seguenti j dati statistici concernenti i prestiti concessi sulla Sezione autonoma di credito comunale e provinciale, amministrata dalla Cassa pr,edetta.

Le operazioni ammontano alla ingente somma di L. 537,992j600 © si clas- sificano a seconda dei tre tipi di cartelle ©messe in perfetta corrispondenza ai mutui concessi, © cioè:

a) nelle cartelle 4 per cento create con la legge Luzzatti del 24 dicem- bre 1906, n. 551 a favore della Sicilia, della Sardegna e delle altre isole, alla quale seguirono le altre leggi Luzzatti del 27 giugno 1897, n. 227 a favore del Comune di Roma; del 24 aprile 1898, n. 132 di ordinamento della Sezione di credito; del 19 maggio 1904, n. 185 di ©stensione della predetta legge del 1896 agli enti locali del Mezzogiorno Continentale; deir8 luglio 1904, n. 320 (art. 1) di trasformazione di alcuni prestiti concessi al Comune di Roma ; del 29 di- cembre 1904, n. 676 di estensione della legge 19 maggio 1904, n. 185 alla media Italia; Carcano del 13 luglio 1905, n. 400, di estensione della stessa legge 19 maggio 1904 agli enti della regione Veneta; e Majorana del 19 luglio 1906, n. 364, che ©stese le ripetute leggi a tutto il Regno e che limitò la facoltà della emissione delle cartelle in casi di importanti operazioni speciali di mutui per somme eccedenti le disponibilità normali della Cassa dei depositi e prestiti e per le quali sia necessario il concorso delle disponibilità di altri Istituti di credito ;

6) nelle cartelle speciali 3.75 per cento pel riscatto del prestito di 150 mi- lioni emesso dal Comune di Roma, create con la legge Luzzatti dell'S luglio 1904, n. 320, a cui tenne seguito il decreto legislativo dello stesso mese ed annon. 337;

e) nelle cartelle ordinarie 3.75 per cento create col decreto Carcano del 2 febbraio 1908, n. 47, in virtù della precitata legge Majorana del 19 luglio 1906, n. 364, per render possibili due importanti prestiti a favore della città di Mi- lano per esecuzione di opere e di Genova per dimissione di debiti.

PER IL BONIFICAMENTO DELLE. TERRE PALUDOSE

337

Dal seguente prospetto risultano i prestiti concessi in corrispondenza alle cartelle emesse per ciascuno dei tre tipi, ed il loro importo residuo al 31 di- cembre 1912 al netto delle somme restituite per ammortamento graduale, per affranco anticipato e per rinuncia. Il residua dei prestiti coincide con quello delle cartelle in circolazione, salvo lievi differenze inferiori al valore unitario di una cartella e delle quali si terrà conto nelle estrazioni successive.

PRESTITI CONCESSI

TIPO

delle

CARTELLE

per 1

trasforma- ;

zione ;

di mutui i

sulla Cassa ;

Depositi

per

riscatto

di

debiti

per opere

pub- bliche

Totale

Num.

dei

prestiti

vigenti

Residuo dei prestiti

al

31 dicembre

191-2

4 •/o-^

3.75 % speciale . 3.75 % ordinario .

Totale . .

92,054,200 ^,854,400 | 277,241,600 1,159 249,135,763.03 152,582,000 ., i 152,582,000 1 146,293,672.55 57,169,000 61,000,000 108,169,000 ' 2 j 105,672,704.86

301,805,200 I 76,384,400 j 537,992,600

1,162

501,102,140.44

Sono, cioè, vigenti 1162 prestiti per un ammontare residuo di L. 501 mi- lioni 102,140.44 a cui corrisponde un complesso di cartelle in circolazione di L. 501.103,000

e cioè: cartelle 4 per cento . . . L. 249,136,000

cartelle 3.75 speciali ...» 146,294,000 cartelle 3.75 ordinarie ... » 105.673,000

Tornano

L. 501,103,000

ROGO D'AMORE

ROMANZO

Vili.

Una camera ampia, alta di soffitto, colle pareti dalla imbianca- tura gialliccia ricoperte di carte geografiche, di un crocefisso e di un ritratto rappresentante una brutta donna austera illuminata ap- pena nelle pupille da un raggio di smorta bontà. Sul pavimento di mattoni all'antica poggiano lunghe tavole dove sono schierati i lavori delle orfanelle simmetricamente disposti sopra un fondo di traliccio verde. Quattro finestre aperte danno su un cortile magra- mente alberato, battuto in pieno dal sole; un sole fastidioso che le tende di cannuccia non riescono a tenere lontano, che penetra afoso attraverso gli interstizi gialli e ripercotendosi sul giallo delle pa- reto diffonde nell'aria un tono persistente e monotono di landa, di aridità, di deserto. Il crocifisso rigido o il rigido ritratto femminile e le carte geografiche col loro reticolato asciutto, tutto pieno della noia e della fatica delle scolare, aggravano l'aere di un imponde- rabile senso di tedio.

La signora, prima fra le patronesse, girava lentamente intorno alle tavole dei lavori e una suora, accompagnandola, le andava mo- strando i più meritevoli, specialmente un lenzuolo ricamato sulla cui rimboccatura una fontana lanciava il suo getto a punto pieno rica- dendo intorno a una vasca dove nuotavano alcuni cigni. La suora fece osservare il rilievo dei cigni che sembravano vivi. C'è del co- tone sotto, naturalmente, si affrettò a soggiungere poi per scarico di coscienza, schiudendo le labbra a un sorriso meccanico senza luce, mentre con la mano additava altri lavori, tracciando nell'aria brevi gesti concentrici e timorosi che non smuovevano una sola piega della pellegrina raccolta sul suo petto.

Camicie, pantofole, cuscini, borse da tabacco', posapiiedi. Hanno lavorato molto quest'anno le nostre ragazze continuò la suora e non c'è nemmeno qui tutto. Una tovaglia da altare, com- messa dall'i^rcivescovo (fece una piccola riverenza) è già partita per una chiesa di Brianza. E si ingegnano anche a disegnare. Guardi questa capanna, abbastanza riuscita, nevvero? Pencola forse un poco a sinistra, ma si può immaginare che vi sia stata una scossa di terremoto.

ROGO d'amore 339

La soddisfazione di aver detto una cosa spiritosa a una signora del gran mondo diffuse una placida gioia sul volto della suora. Erano quelle le sue grandi occasioni, il cui ricordo doveva bastarle per le lunghe giornate di clausura che sarebbero venute in seguito. I suoi occhi trascorrevano placidi dal punto in croce all'orlo a giorno, ac- carezzando un mazzo di fiori di carta posati dentro a un vaso di maiolica celeste con tale serena incoscienza di tutto ciò che non fosse scuola, lavoro e preghiera che la signora ne provò una specie di disagio. Pensava : Se le dicessi ciò che mi tumultua nel cuore ora, mi comprenderebbe?

Desidera visitare le classi?

Oh! no, fa troppo caldo.

Caldo? ripetè la suora meravigliata. Abbiamo abbassate tutte le tende per conservare le stanze fresche.

Non aveva caldo, la suora, sotto l'abito di lana che pur non la- sciava scoperta una sola linea del collo, dei polsi. Ella aveva anche riunite le mani pallide e molli sotto la pellegrina. Somigliava così al quadro appeso alle pareti, il ritratto della fondatrice della casa, vestita al pari di lei, come se la pellegrina livellatrice delle forme avesse imprigionato la viva e la morta nello stesso sudario di rinunzie.

Lo sguardo della signora vagava dalle finestre assolate alle carte geografiche ed al crocefisso, arrestandosi un istante sul ritratto per ricadere a piombo sulla figura della suora che le stava davanti e che sentiva tanto lontana da lei. Mio Dio pensava ha ella mai avuto una fronte d'uomo appoggiata sul suo cuore?

Coiranno nuovo disse la suora, la quale avendo raggiunto l'ultima tavola si trovava presso la porta d'uscita e giudicava esser tempo di mettere fuori le sue ultime batterie di campagna avremo la luce elettrica.

Davvero?

Per opera di un benefattore, naturalmente, il quale si inca- rica dell'impianto. È stata una bella idea, non c'è che dire, ma ab- biamo molti altri bisogni... molti. Lo stato della guardaroba é com- passionevole... Aspettiamo lo slancio di qualche anima buona...

Lo slancio non basta, sorella interruppe la signora con un sorriso.

Certamente, ma speriamo... speriamo nella generosità delle nostre patronesse. Chi può, nevvero?...

Terrò nota del desiderio.

Che il Signore la benedica signora contessa.

. Non me! Non me! esclamò vivamente la signora e già nel suo pensiero si delineava la testa amata sulla quale avrebbe vo- luto ricondurre tutte le benedizioni.

Ogni suo atto, ogni suo pensiero, qualunque fosse, prendeva ormai quella direzione, gravitava per forza maggiore intorno al- l'astro da cui le veniva calore e luce e se per poco si trovava co- stretta ad allontanarsene, subito vi ritornava con un riflusso di gioia che le rendeva di volta in volta sempre piìi impossibile vivere al- trove. Il sogno era diventato la sua realtà. Per questo lasciando l'a- silo corse veloce alla propria dimora, già così piena di lui, dove le era caro raccogliersi per intensificare l'estasi.

340 ROGO d'amore

Ma un'amica l'aspettava, antica e fedele, venuta dalla pro- vincia, che non vedeva da gran tempo e alla quale tese le braccia con sincero affetto. Fu il loro incontro simile a una pagina cara di un libro dimenticato che si riapre improvvisamente.

Sei sempre la stessa disse l'amica con schietta ammira- zione.

Non potè la signora, per quanto lo avesse desiderato, renderle il medesimo tributo. La figura che le stava dinanzi, bellissima un giorno e non ancora vecchia, era già ricoperta dallo strato opaco e denso che scende sopra certi volti di donna come un sipario a rap- presentazione finita. I suoi capelli, tuttoché ancora bruni, non ave- vano quel movimento leggiero di una testa sulla quale passa l'ala vagabonda delle dolci visioni; ne' suoi occhi c'erano troppi numeri, troppe combinazioni sagge e scrupolose perchè lo sguardo potesse an- cora sfavillare di fronte all'impreveduto; la linea della bocca un po' arida in una posa ieratica di immobilità appariva chiusa per sempre ai fremiti del desiderio; bella coppa di Museo a cui nessuno pensa di accostare le labbra. C'era la polvere del tempo sulle sue guancie, dove la regolarità di una vita tranquilla trionfava nella pienezza di un frutto ben conservato, ma dove piìi non corre la linfa rinnovatrice del ramo; e quell'andare e venire delle luci, quell'ai temarsi di toni che dinota l'altalena continua dello spirito moriva sul volto del- l'amica in una patina uguale che ne materializzava l'espressione.

La signora rimase un attimo confusa. Aveva torto l'amica di avere tanto mutato o il torto era suo a non mutare ?

Stai molto bene le disse finalmente, lieta di aver trovato una frase opportuna in non assoluto dissidio colla verità.

Davvero la salute è buona, ne ho bisogno per condurre tutta la mia baracca.

Con molti burattini?

Cinque.

Si dilungò compiacentemente a parlare de' suoi figli, special- mente delle ragazze che erano le maggiori; una al ginnasio, l'altra in un collegio svizzero, la prima già laureata dottoressa in lettere.

Quanti anni ha?

Venti.

Presto presto dunque...

Si ha in vista una cattedra.

Scusa, volevo dire un marito.

Eh! che pensa al marito! È tutta studi, non ha in mente altro. Molto meglio per lei, del resto.

La signora ammutolì. Continuò l'altra narrando una storia com- plicata di affari andati male, di una causa perduta, di invidie fra parenti, di malattie, di morti, di eredità, di governo e di tasse.

Ecco la vita pensava la signora col senso bizzarro di guar- dare il mondo da un altro mondo, provando un po' di vertigine e un lieve ronzìo nelle orecchie.

E tu? fece a un tratto l'amica narrami di te.

Oh!... io... non ho nulla.

Come sei bella in questo momento! Ti è venuto un po' di rosso alle guancie. Mi riappari tale e quale eri quel giorno, sai, della famosa gita in barca? Avevi un abito rosa, allora, e ti si sciol- sero le treccie nell'impeto del vogare. Quanti anni sono passati?

ROGO d'amore 341

Fu la volta di rievocare cose e persone, tanti fatti, tanti avve- nimenti che avevano avuto il loro istante di importanza, per cui si era palpitato o riso o pianto insieme ad altra gente che ora non c'era più, morta, dispersa, perduta..".

E l'Adele? Ricordi il suo disperato amore per un uomo che aveva vent'anni più di lei, le sue lettere roventi, i versi che gii scri- veva, il proposito di farsi rapire? S'è poi monacata come ne ebbe l'intenzione? Non ne seppi più nulla. A noi ora tali follie non sem- brano possibili, vero? Ci vogliono proprio i quindici e i vent'anni per simili ubriacature.

La signora sembrava ascoltare questo cicaleccio sorridendo a fior di labbra, abbandonata sul cuscino di mussolina bianca a trafori che la spalleggiava nella piccola poltrona, ma la sua mano errante intorno ai ninnoli del tavolino aveva una carezza particolare per un cofanetto dove giaceva l'ultima lettera di Ariele Moéna; una lettera ricevuta quel mattino stesso, nella quale Moèna le annunciava la sua visita per la sera.

E a teatro vai?

Qualche volta.

Io ho veduto appunto ier l'altro la Gramatica nella commedia L-età d'amare. La conosci?

La commedia? No.

Magnifica. Gran trionfo per la Gramatica. A quarant'anni l'amore deve tacere e deve morire. Ella ha dato un bel rilievo a questa situazione arrischiata. Non ci voleva meno della sua abi- lità per rendere interessante una passione che diversamente non si capirebbe.

Noo?

No, assolutamente. Ogni cosa a suo tempo. L'amore col primo capello bianco è imperdonabile.

Vi fu un silenzio. La signora mormorò piano-:

Forse hai ragione; eppure, tutto comprendere non è tutto per- donare?

L'amica scuoteva il capo dubbiosa.

E si può fare un passo più innanzi disse una voce che fece voltare la testa alle due amiche. Perdonare anche quando non si comprende.

Un vecchietto era sulla soglia, lindo, sereno, col sorriso indul- gente di chi non chiede più nulla alla vita. La signora lo salutò con espansione, quasi con riconoscenza.

Neanche un grande commediografo, neanche una abilissima attrice continuò il vecchietto sempre sorridendo possono co- mandare all'amore di tacere e di morire. L'amore non ubbidisce che all'amore.

Nuove visite seguirono immediatamente il vecchietto che si vide soffocata la sua filosofìa tra una grossa matrona da una parte e due ragazze dall'altra; chiuso fra un cicaleccio serrato dove alter- nativamente emergeva la voce della matrona deplorante lo scarso raccolto dei bozzoli e quella delle ragazze esaltate nel racconto di una volata in aeroplano.

A un tratto la conversazione divenne generale intorno a un pette- golezzo di cronaca cittadina; brillò di spirito, spumeggiò di malizia, salì con violenza di razzo ai fastigi dell'iperbole, ricadde in bagliori

342 ROGO d'amore

di stelle filanti, languì, si spense. Il vecchietto stava per pronunciare un aforismo, una delle ragazze si guardava la punta degli scarpini; una signora in un angolo, che non aveva detto ancor nulla lanciò la parola « villeggiatura » e allora tutti si affrettarono ad annunciare i loro progetti, vantando quale i monti quale il mare, quale l'uno quale l'altro posto; si citarono alberghi, si calcolarono altezze; nomi umili e nomi reboanti incrociarono la sfida. Treni e automobili sfila- rono all'orizzonte.

La signora continuava a mostrarsi attenta ai discorsi de' suoi vi- sitatori, essendosi rizzata sulla poltroncina, il mento teso in avanti, le pupille aperte, l'espressione della fisionomia gentile e raccolta, approvando o disapprovando con un lieve cenno, con un mono- sillabo. Le stava dinanzi la grossa matrona, la quale ridendo aveva uno special modo di scuotere le spalle, come fa un anitroccolo le ali quando diguazza in uno stagno; tale vista le accresceva un males- sere indefinito, una impazienza, una noia che la rodeva tutta sotto l'aspetto grazioso. Fra due ore pensava a tratti socchiudendo rapi- damente le palpebre lo vedrò. Questa visione interna le dava una forza di resistenza sulla quale ognuno dei presenti poteva facil- mente ingannarsi.

Appena furono partiti corse ad aprire le finestre e nell'aria pura che entrava respirò a pieni polmoni, sollevata, libera; libera final- mente! Rientrò poi nella stanza misurandola a passi rapidi, mettendo a posto una sedia, un ricamo; la sua persona le apparve di traverso in uno specchio e si piacque : un'onda di gioia la invase tutta. Disse forte: Moéna! Moéna!...

Se quando la prima volta che lo vide ed ella aveva pensato: Quale donna passerà nel sogno di quegli occhi? una voce le avesse mormorato all'orecchio: Tu!... Ancora le sorgevano tali momenti di meraviglia, ancora le accadeva di chiedere a se stessa: Possibile?

La singolarità di quell'amore che stringeva in una rigida acer- bezza di bocciolo fermenti insospettati di frutto maturo, che univa a frigidi candori di alba la porpora magnifica e spasimante dei tra- monti per cui palpita in cielo tutta la morente voluttà della luce, la innalzava a uno stato di estasi panteistica come se convergessero in lei per vie di mistero le forze generatrici della natura creando nel suo seno il miracolo della giovinezza eterna.

Solo uno che dal sepolcro risorgesse, serbando memoria di essere stato morto e sulle sue ossa scheletriche vedesse rifiorire la carne, e sentisse battere i suoi polsi, ed alzarsi dall'immoto cervello il volo dei pensieri, ed affluire il sangue al cuore ricco di tutti i desideri della vita, quello solo poteva comprenderla: ma quell'uno non esisteva' E tutti gli altri che vedeva intorno, uomini e donne, si muovevano sulla pista dell'esistenza comune, avevano un'altra voce, pronuncia- vano altre parole; i loro gesti ripetevano per lei l'inconsistenza dei gesti di un automa. Forse erano fantasmi? Forse invece erano sem- plicemente uomini e allora era lei stessa che si trovava fuori della comunità, salamandra viva in un cerchio di fuoco, trasfigurata, transumanata. Ebbene? La coscienza di poter offrire un amore raro, di rispondere veramente al bel nome di Unica che Ariele le aveva dato, sosteneva il suo orgoglio all'altezza del suo amore..

Poiché il bisogno dell'eterno aveva tormentato senza consumarlo il suo spirito ardente, ella si slanciava con rinnovellato trasporto alla

ROGO D'amore 343

conquista del suo ideale. Confusamente in alcuni istanti, chiarissimo in alcuni altri, il pensiero che Ariele non avrebbe potuto conservarsi suo per sempre ed esclusivamente suo non era di ostacolo al pro- rompere della passione, nello stesso modo che alberi e sassi e dighe non arrestano l'impeto della bufera quando in essa si scatena la furia degli elementi; ma sovra tutto ella pensava che se l'ebbrezza d'amore è fugace, restare quale ricordo al sommo di una bell'anima, come altare in una coscienza, come faro in una vita, fosse tale premio che ben meritasse di affrontare amarezze e dolori e lagrime infinite.

Le deliziose parole di Ariele « Come nessuna mi ebbe, come nes- suna mi avrà » le stavano fìsse nel pensiero e le ripeteva follemente. Se anche ciò non dovesse essere vero nel futuro, nessuna forza umana cancellerebbe il divino istante in cui egli le aveva pronunciate con piena fede. E che cosa è la felicità se non uno di colali istanti la cui memoria irraggia tutta una esistenza? Poter dire : « Ho amato; fui amata; i tesori della terra i segreti del cielo mi furono rivelati in un bacio », non è mescersi alla immortalità del tutto, non è afferrare la vita nella sua intima essenza, forse nel suo unico perchè?

Oh! una sera, quale luce straordinaria era brillata nelle pupille di Moèna, abitualmente velate e gravi! una luce azzurra che accen- dendosi improvvisamente ne aveva mutato il colore dell'iride mentre egli la guardava a fondo, tenendola per i polsi in un desiderio am- biguo di allontanarla oppure di attirarsela violentemente sul petto, e un riso di voluttà, di sfida inconsapevole, faceva palpitare l'ugola a lei, quasi riversa! In quell'attimo la giovanile bellezza di Ariele ri- fulse così trionfante che il suo godimento a guardarlo se ne era esa- sperato fino alla sofferenza. Nulla vi poteva essere di più, nulla!

Ella sentiva che quella intima comprensione, quell'estasi, quel- l'amore condiviso e pieno non caimava la sete che aveva di lui; che, quando pure si fosse saziata di tutto il suo corpo, non lo avrebbe mai stretto abbastanza; che gli occhi, le braccia, la bocca non riescono a imprigionare l'anelito supremo di un'anima sitibonda di assoluto, che va fino all'annientamento, -alla distruzione, alla morte e quando la passione raggiunge tali vertici oltre cui non vi è posto che per Iddio la creatura mortale può alzare orgogliosa la fronte : ella ha toccato l'eterna verità; ma può anche morire, perchè la vita le ha dato tutto ciò che poteva dare.

IX.

Una separazione ancora; calda, fremente, senza promesse, come l'altra.

Potrò venire a trovarla? aveva chiesto Moena all'ultimo istante.

No, non era possibile. La signora si ritirava ogni anno, di quella stagione, in una sua terra dove tutti la conoscevano, dove era amata p venerata, dove i suoi passi, i suoi gesti, le menome azioni della sua vita semplice e pura si svolgevano in vista di un intero paese. Non era possibile. Partì sola.

Forse in tale spontanea rinuncia si celava un occulto istinto di tregua alla dolcezza dolorante delle carezze incomplete : a quella inti- mità di tutti i giorni che pur conservandosi casta rimoveva in en-

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trambi torbide fiamme. Nelle ultime sere aveva avuto l'impressione precisa di rasentare un abisso, e per quanto si ripetesse che ciò non poteva essere il brivido del pericolo le era rimasto nella carne com- misto ad una gioia profonda e spaventosa.

Molte volte era stata desiderata; molte volte aveva sorpreso ncile pupille di un uomo quel lampo di divina follia che lo prostra tutto intero, lui, il suo orgoglio e la sua volontà ai ginocchi di una donna; e sempre tale atto le era apparso misterioso e solenne, come quei magnifici spettacoli elementari che sollevano i turbini e le tempeste, che scuotono la terra nelle sue viscere più profonde, che dai cieli squarciati e dalle gonfie maree mandano a tutto ciò che vive il pal- pito fraterno della natura creatrice.

E lei pure aveva desiderato. Risalendo il corso degli anni ritro- vava nella memoria antiche battaglie dalle quali era uscita vincitrice portando stimmate gloriose di passione e di sacrificio; ma nel pen- sarvi ora (e quanto vi pensava all'ombra tranquilla degli alberi te- stimoni del passato!), sfogliando i suoi ricordi col gesto lento che stacca dal cuore di una rosa i petali ad uno ad uno, era dal suo proprio cuore che staccava le bende di ferite oramai chiuse e -le la- sciava cadere davanti a sé, ammucchiandole, gettandovi a furia come dentro a un rogo tanti fiori, tante lettere, tante dolci parole, e pro- messe © sospiri e illusioni felici.

Sorgevano per incanto (là sotto gli alberi che avevano misurato i suoi passi di bimba) i primi trionfi della sua bellezza nascente, i primi sguardi, i primi avvertimenti del senso sperduto nei veli con- fusi dell'innocenza. E le paure, i propositi, le lotte, gli accasciamenti, i giorni della desolazione, le notti della insonnia, quando l'amore uscendo dalla larva che lo mostra così dolce all'apparire le si era ri- velato nella sua potenza di dominatore tirannico e crudele. Tutto sor- geva. Ma da questo scrigno della memoria dove ella aveva accumu- lato e sepolto tesori di passioni le sue mani febbrili li andavano a ricercare con una frenesia acre di sacrifizio. Tutto ella traeva e tutto ella gettava in quel rogo fantastico; desideri, speranze, sconfitte, trionfi; l'ebbrezza degli amati, la disperazione dei respinti; lutto, tutto ciò che aveva sofferto, tutto ciò che aveva fatto soffrire. E an- cora: i rimpianti, i pentimenti, lo sdegno, la pietà, le fatali no- stalgie, i sottili veleni rimasti in fondo alle passioni morte simili ai rottami che si lascian dietro i naufragi, che le onde sollevano e sbat- tono sulle rive, sollevati da lei, sbattuti da lei contro il suo cuore, ricadevano nel rogo, lo colmavano.

Era la sua esistenza intera svolgentesi sotto i suoi occhi che ella guardava attraverso il nuovo incantesimo. Che via lunga! Come la piccola stessa appena affacciata al sentiero cresceva ad ogni passo, ad ogni passo tramuta vasi; e il sentiero s'affondava in lontananze nebulose dove alcune ombre passavano senza far rumore, dove non eravi più luce di vita, ma solo un crepuscolo di ricordi affievoliti.

Si vedeva distesa in un ampio letto, più pallida delle trine che la cingevano, così debole che mal sopportava l'impeto del sole balucci- cante sui vetri della finestra; e l'infermiera cauta, con scarpe di panno, attraversava la camera per andare a sciogliere le cortine se le rammentava ancora, azzurre che subito immersero la camera in una soave penombra. Risentiva il torpore morbido delle membra abbattute in seguito alla gran crisi della maternità, il languore delle

ROGO d'amore 345

vene vuotate e l'aspetto diverso delle cose che si ripresentavano a suoi sensi, dopo di avere rasentato l'abisso della morte. Che vi era più per lei, allora, se non un andirivieni di persone sorridenti chine sul suo letto e sulla piccola culla accanto, nell'odore aromatico della camomilla e del pane bruciato, fra un incrociarsi di consigli e di raccomandazioni fatte a bassa voce coll'indice sul labbro, al tinnire lieve del cucchiaino d'argento contro gli orli della coppa nella quale prendeva i primi alimenti?

Non credeva ella allora di avere compiuta la parabola ascendente de' suoi giorni? di avere chiusa la sua vita di giovane donna? e che la voce di quel piccolo essere suo (voce così nuova) dovesse sola oramai destare le misteriose rispondenze del suo cuore?

Ricordava la lunghissima convalescenza, quando era così debole, così debole che mai più avrebbe creduto di potersi reggere in piedi, e già tentava d'acconciarsi ad una placida vita di infennuccia, a muo- versi adagino nel suo bell'appartamento, a passare le giornate tran- quilla adagiata sulla poltrona, guardando il cielo attraverso i vetri, chi sa per quanto tempo! per sempre forse?

Ricordava in modo singolare l'impressione avuta da un luminoso meriggio sulla fine di marzo, con quella luce d'oro trasparente sul co- balto dell'aria, propria della stagione ventosa, e quella gaiezza impa- ziente dei mandorli che fa sprigionare i fiori prima delle foglie; e le folate di pollini misteriosi, di odorose pelurie roteanti a sciami nei raggi del sole, sotto il volo delle rondini; e i terrazzi e i balconi spa- lancati dove le donne affrancano con un Ilio di ferro i vasi delle viola- ciocche, tutta la primavera sorridente intorno a lei, alla sua giovi- nezza ammalata... Ah! la sottile malinconia che l'aveva presa scor- gendo in un giardinetto due vecchie ritte a ciarlare tra le aiuole di prezzemolo novellino; ritte su due piedi e salde, mentre lei non po- teva abbandonare la sedia a sdraio... Ridevano, le vecchie, accen- tuando le rughe dei loro volti incartapecoriti, coi cernetti grigi che danzavano nel vento; e un giovane can volpino ubriaco di primavera ad ogni po' addentava le loro gonne con uno squassone tanto forte che le faceva traballare. Allora ridevano, ridevano più ancora, le vecchie...

Anni 0 secoli erano trascorsi? Non li volle contare. Il rogo si col- mava di croci e di bare; ma una scintilla si era accesa dove il regno della morte aveva già steso le sue ombre acquietatrici. Una scintilla piccola dapprima, quasi inavvertita una fìammolina te- nue, un po' fredda ancora ed incerta, saliente serpentina con moti tardi, con indugi timorosi un istante di sosta in un tepore dolcis- simo — un occulto fremito un improvviso accendersi poi e un di- vampare magnifico in lingue di fuoco balzanti alla conquista, irrom- penti, dominatrici, folli, assurde raccogliendo nella festa dei loro colori la tenerezza madreperlacea delle albe, l'oro dei meriggi ar- denti, la sanguigna porpora del tramonto ^- ed in quella ebbrezza di combustione come il pulsare di mille vite in una delirante ora di febbre.

Rogo d'amore! La poesia del simbolo rispondeva alla poesia della fiamma; la vedeva ella e la sentiva veramente nella intensità delle sue carezze più profonde di un morso; già le carni le scottavano, già un primo grido di spasimo attraversava il piacere, già la fiamma le era cintura, manto e casco il rogo la investiva tutta. Il rogo la

23 Voi. CLXVn, Serie V 1* ottobre 1913.

34Q ROGO d'amore

investiva tutta ed ella cantava in mezzo alle lingue di fuoco le glorie dell'amore.

Creatura di passione, intelligenza vigile, l'Unica alternava a questi abbandoni della fantasia lucidi istanti di ragionamento. Quando si accorgeva che la sua carne e la sua anima soffrivano in- sieme di intimi flagelli era pur d'uopo che tendesse la mente alle oscure minacele del futuro. Per quanto luminoso sia un tramonto, per quanta apoteosi di raggi ne circondi il breve arco sul cielo, ella sapeva che lo segue da vicino la notte e Ariele era così giovane!

Un'ansia tormentosa, un sottile rodimento la assaliva pensando a lui in quelle lunghe sere estive in cui l'aria era pregna di effluvi, molle di languori. Dove era Ariele? Ah! perchè non aveva potuto fer- mare per l'eternità le sere trascorse insieme, lassù fra i monti tren- tini, nell'attimo felice del loro amore nascente? perchè ora, giunto alla piena maturanza, questo frutto d'oro che le Esperidi le avrebbero invidiato pesava già nelle sue mani coi fili misteriosi del presenti- mento? Una lettera fremeva ad ogni movimento del suo busto; Ariele le scriveva tutti i giorni; eppure attraverso lo spazio che li separava ella intuiva un esercito di nemici invisibili. Dove era, dove era Ariele?

Forse ad uno di "quei ritrovi dove gli uomini costretti nell'afa della città vanno a respirare la sera sotto un gruppo d'ippocastani, alla soglia di un caffè, mentre una orchestrina suona i pezzi della Bohème e donne biancovestite, colle braccia nude, gli omeri nudi, stanno sedute languidamente guardando? o forse egli era in casa, in quella casa che ella non conosceva, ma che aveva pensato tante volte con infinita tenerezza? Sì, doveva essere in casa; studiava, leggeva, pensava a lei forse... La sera era molto calda, egli stava presso alla finestra... Altre finestre erano in giro, certamente tutte aperte... Che effetto farebbe ad un giovane, solo, in una sera d'estate, in un'ora di abbandono, il profilarsi alla finestra dirimpetto di un grazioso volto femmineo, di uno sguardo cercatore?...

Non insisteva su questi pensieri, ma bastava che attraversassero il suo cervello per lasciarvi un'ombra e in quell'ombra il suo sogno d'amore si materializzava. Era ancora l'anima di Ariele che teneva la sua soggiogata in soavissima comunione, ma era pure la sua bocca e i suoi occhi che ella vedeva continuamente, sempre, fino alla soffe- renza.

Una idea pazza la tentava qualche volta. Tornare improvvisa- mente in città, correre a lui, alla sua casa, suonare il suo campa- nello, apparirgli!... La suggestione di tale istante le faceva passare un brivido nel midollo delle ossa abbandonandola al fascino della tentazione, alla vertigine del peccato.

Aveva temuto tutta la vita quel peccato; temuto dapprima e com- battuto per religiosità di sentimento, come onta e disonore massimo. Assurgendo in seguito ad un più alto concetto di dignità, aveva in- tuito l'orrore degli amplessi mentiti e divisi e la responsabilità grave sopra tutte del contrabbando coniugale per cui il frutto dell'amore clandestino usurpa il nome e i diritti della prole legittima. Più an- cora di qualsiasi altra considerazione quest'ultima, imponendosi alla sua lealtà, era stata la sua salvezza durante il periodo degli aspri assalti; non poteva averlo dimenticato. la sua coscienza era cam-

ROGO d'amohe 347

biata intorno al concetto del dovere che una donna onesta ha verso l'uomo di cui porta il nome, verso i figli che da lei aspettano l'esem- pio; la sua linea morale non si era scossa; era sempre la creatura di passione e di volontà che dell'amore aveva fatto. un calice di eleva- zione, un santuario sacro alla idealità della vita; sensibile e fiera, ardente e onesta.

Ma se nulla era cambiato in lei, se nelle sue fragili parvenze di fanciulla il cuore aveva conservato la freschezza dei vent'anni e la mente tutto il suo vigore, altro aspetto avevano assunto le circostanze e le cose. Sciolta dai vincoli di famiglia, padrona di sé, semplice di- nanzi a Dio che ella adorava con spirito religioso in tutte le forme del mistero, era libera, era sola; nessuna responsabilità incombeva più sulla sua coscienza, nessun compromesso coi suoi doveri; non l'umiliazione della menzogna, non la ripugnante divisione delle ca- rezze, non lo spettro del tradimento. Amata, amava, il peccato dol- cissimo che non poteva più nuocere ad alcuno, che era il suo diritto di natura', il premio forse delle passate rinuncie, tante volte respinto, tante volte domato, creduto così lontano oramai, ecco rialTacciavasi con tentazioni nuove alla sua resistenza disarmata. Una logica ferrea l'aveva condotta dal primo bacio, quasi inconsapevole tanto era stato sincero, a un crescendo di desideri, a quell'ardore di rogo dove il suo passato si consumava, dove ella stessa bruciando di una fiamma che era insieme divina ed umana giungeva a formulare, pur tremando, pur rifuggendo ancora, il terribile assioma : L'amore che non è tutto è nulla.

Con tale concessione ella ripudiava in un colpo ogni argomento di lotta. Cessate le ragioni altruistiche che erano state i veri alleati della sua virtù, la sua anima coraggiosa si sentiva attratta irresisti- bilmente a gettarsi intera, a perire intera sul suo rogo d'amore.

Conobbe ore di rapimenti sovrumani a pensarsi tutta di Ariele con l'abbandono assoluto che le donne appassionate ma di abitudini caste trovano appena nel segreto del loro desiderio, quando la ca- rezza è ancora immateriale e che nessuna realtà, nessuna causa esterna attutisce la vibrazione di una sensibilità che va oltre la carne e la sorpassa. Poiché ciò che vi é di profondo nella voluttà ha una recondita origine divina, l'amore il più nobile vi assurge col tre- more sacro di chi compie un rito e dove altri trova caduta esso consacra un olocausto.

Sola nei prati, nei boschi, al rezzo degli alberi, allo scrosciare delle fonti, presso l'intimità dei nidi, presso l'arcano dei boccioli, in- tenta ai silenzi delle lontananze, l'Unica si sentiva in comunione di vita colla natura. Posseduta dal bisogno dell'eterno che é la ragione stessa dell'amore, come già una sera a fianco di Moena, ella pen- sava ancora che qualche cosa della sua grande passione resterebbe in quei prati, in quei boschi, nell'eco di quelle fonti, nell'idilio rin- novato dei nidi, nel rinnovato arcano dei boccioli schiudentesi in fiore. E una. forza straordinaria la sospingeva quasi a volo, con un sentimento di riconoscenza alla vita per quella grande gioia che le aveva riserbata, con una tenerezza commossa che le teneva il cuore in un continuo palpito di simpatia e di pietà. Tese le braccia all'aria, al cielo, a Dio, il grido di Faust le prorompeva dalle labbra : « Arre- stati, ora felice! »

348 ROGO d'amore

X.

Un primo dolore le venne dalle lettere di Ariele piene di tri- stezza e di scoraggiamento. Egli accennava senza precisare a lotte diuturne che lo prostravano. Non scriveva mai a lungo: le sue pagine, anche quelle d'amore, erano formate da frasi a scatti, con una mancanza quasi assoluta di aggettivi, chiare e disadorne; qualche volta fredde ma attraversate da improvvisi slanci di passione; da una sola parola violenta, turbatrice, simile a un bagliore di lampo. Conservava, scrivendo, il pronome rispettoso in terza persona, quale era stato adottato per tacito accordo nei loro colloqui e che diffon- deva sulla loro intimità quel velo di pudore tanto caro alla loro deli- catezza; ma come nei colloqui, anche nelle lettere il tu a volta pro- rompeva, ripreso, riabbandonato, con una alternativa di movimenti così saldi di vita e di sincerità che davano a quei fogli un palpito di cuori. Una volta una lettera di tenore austero, dove in ogni parola trapelava la sofferenza, finiva bruscamente, come un singhiozzo : « Oh! potessi piangere almeno sul tuo seno adorato! »

Quel giorno ella sentì più che mai la penerazione del sentimento amoroso nelle cellule riposte del suo essere, dove è il deposito santo della pietà; pianse con lui, per lui, pensando essere le lagrime il cemento che rende tangibile l'ideale e imperituro il sogno; dolci la- grime che l'amore imbeveva di tutti i suo aromi, che le sfioravano le guancie con un sapore di baci consacrati e le cadevano in petto come fossero le lagrime stesse di Ariele. Ariele le raccolse nella calda risposta di lei rimandandole un nuovo grido del suo cuore esulcerato : « Non so ora se soffro più per me o per te ».

L'amata partì.

Egli andò ad incontrarla alla stazione, quando scese dal treno in un morente vespero di settembre, e i loro primi sguardi si evita- rono, smarriti, quasi come il giorno in cui si erano trovati lassù all'entrata del bosco non amandosi ancora e già trepidi del mistero che sfiorava le loro fronti. Moèna appariva molto cambiato. Il pal- lore del suo nobile viso aveva preso una tinta cerea; la signora se ne sentì il cuore stretto. Ella non volle servirsi della carrozza e preferì attraversare i giardini a piedi per stare più a lungo con lui. Sperava di trovarvi una solitudine che rammentasse ad entrambi i bei giorni del passato. Ma si ingannò.

I giardini a quell'ora erano attraversati da turbe di operai che uscivano dagli opifici, di ragazze impertinenti e ciarliere. Cercò col- l'occhio un sentiero appartato e non le riuscì di trovarne uno. Do- vunque, all'ombra delle magnolie, presso la fontana, dietro i cespugli delle azalee, nei grandi viali di ippocastani, intorno ai piccoli laghi, dovunque era folla di pupille curiose, di bocche schernitrici e scioc- camente e volgarmente maligne.

Non ci potremo parlare disse scoraggiata.

No, qui altrove rispose Moéna senza guardarla. Errarono un po' incerti, presi da un malessere irritante. Nuova

gente continuava ad affluire dai cancelli; non era così ch'ella aveva immaginato quell'incontro e una grande malinconia scendeva sulla sua irritazione. Perchè egli non parlava? Disse ancora:

ROGO d'amore 349

Ma infine che cos'ha?

Sono stanco.

Stanco?

Di lottare, di soffrire.

Ed io?

Voleva aggiungere : Sono io nulla? non posso nulla? Due ragazze si erano fermate a guardarla. Era la sola signora che si trovasse a quell'ora nei giardini. Mormorò pianissimo:

Andiamo, andiamo, è impossibile rimanere qui. Ma verrà, nevvero, verrà a dirmi tutto?

Verrò.

Domani?

Domani.

Affacciandosi più tardi a una finestra del suo salotto che dava sulla via, le parve di vederlo rasentare lentamente il sentiero opposto. Era veramente lui? o l'ombra del suo desiderio? La via era deserta, la finestra bassa; ella si chinò facendo schermo delle mani alla bocca, mormorando: Domani! L'ombra assentì col capo.

E furono finalmente soli nel salotto recòndito, caldo ancora dei loro ultimi colloqui. Moèna giunse prima che fosse notte, nell'ora dolce della sera che avvolge le cose in un fluido misterioso. Nessuno dei due aveva preparate le parole, nessuno dei due disse ciò che voleva dire, intimiditi dalla lontananza che li aveva divisi, tanto intimi e pure ancora ignoti l'uno all'altro.

Ritrovarono la commozione iniziale che aveva congiunte le loro anime resa più ardente e più profonda dalle memorie del passato non lontano; e se pure il bisogno delle confidenze tumultuava nei loro cuori le bocche restavano mute, dissuggellate appena da qualche parola che rispondeva troppo imperfettamente a ciò che sentivano.

Stando così in dolcissimo spirituale congiungimento sembrava loro che a parlare avrebbero sempre tempo, mentre quello era tempo d'amarsi in silenzioso ardore, cogli occhi e colle labbra anche, ma senza la voce che precisa in un suono materiale la celeste ar- monia delle anime e dei sensi.

E di che soffre?

Questa la prima domanda che -l'amata susurrò presso il volto pallido del suo amico.

Di tutto. Di questo amore...

Ma io soffro con lei, lo sa. Soffro più di lei...

Non più di me.

Io ho la disperazione di esserle così lontana!

Ed io quella di sapere che ho incontrato l'unica donna mia troppo presto per me, troppo tardi per lei...

Con un grande schianto ella replicò :

La sua via è lunga; incontrerà ancora.

Oh! non lo dica. Accade una sola volta, e non a tutti, di trovare il vero amore.

Ella pensò con uno schianto più grande ancora quanto sia facile l'inganno e l'illusione al cuore dei giovani, ma non lo disse. Mormorò invece pianissimo:

Noi non siamo solamente fuori della legge, lo sa, siamo fuori della natura.

350 ROGO d'amore

E che importa se ci accontentiamo?

Ma non ci accontentiamo concluse l'Unica lentamente, so- lennemente, in profonda tristezza.

Tacquero. La notte era scesa, il salotto si riempiva di ombre; ella si mosse per schiudere la luce.

Restiamo così disse Ariele arrestandola con un gesto.

La sua voce era velata. China la fronte sull'omero dell'Unica sembrava riposare in soave dolcezza come uno che da gran tempo non riposa, e lei, sovrastandogli col capo, muta lo riguardava alla tenue chiarità del cielo che per la finestra aperta rompeva appena le tenebre con un lontano riflesso. lunare. Sentiva l'amata la gravità dell'ora adducente una fase nuova al loro affetto e desiderosa di cimentare il proprio coraggio gli alitò sul volto: Parli.

Ma non era forse abbastanza densa la notte per ombrare il pu- dore di quel grande affanno che trapelava nell'abbandono del gio- vane. Senza far motto ella gli si strinse da presso accarezzandogli la fronte e le palpebre, nascondendolo contro il suo cuore. Soffi di eternità passarono in quell'amplesso.

Lei non mi conosce disse Moèna staccandosi lentamente, riprendendosi.

Un gran gelo strinse l'Unica ai lombi, le salì alla strozza : egli le era tuttora assai vicino per sentire che tremava. Era vero. Non lo conosceva. La rapida ascensione del loro amore, quella vampa che l'aveva investita senza quasi lasciarle il tempo di difendersi, aveva anche soffocato in lei la naturale curiosità. Ignorava troppe cose di lui, del suo passato, della sua vita. Nei loro dolci colloqui non vi era stato posto che per il sogno; giungeva forse l'ora del risveglio? Ma la trepidazione durò un attimo o la fiamma la cinse ancora, bramosa, sitibonda di spasimi. Mormorò in un rantolo: Chiun- que tu sia!

Moèna non rispose subito. Nel silenzio che seguì il pulsare dei loro cuori preludiava solo l'angoscia della confessione.

Quando le apparvi egli disse finalmente nel salotto signorile aperto ai fortunati della vita, ricorda? potevo sembrare anch'io uno di quei fortunati. Come da un vascello appena varato gii ottoni luccicavano al sole e il pavese sventolava baldanzoso. Non ho avuto io il coraggio di sfidare uno di quei signori perchè aveva insul- tato la mia patria?

Ebbene, questo coraggio lo avrebbe ancora.

Non so... Io mi domando ora se fui pazzo a riporre la mia fede in una causa che non ha seguaci, a credere amici miei, amici del mio ideale, gente ambiziosa e vile pronta a rinnegare il proprio credo quando il credo non risponde all'interesse : m'illudevo di avere con me un esercito di volonterosi e non era che un branco di assol- dati. Oh! è terribile essere solo!

Ma questo non è un demerito; nessuna ombra ne può venire a lei, se pur molto dolore.

Ombre ha sempre la disfatta.

Dai disinganni si risorge, agli errori si ripara... 'V^i fosse pure una colpa, la sincerità delle intenzioni la scusa.

L'Unica pronunciò queste ultime parole affacciata a possibilità mostruose che non osava precisare. Moèna sempre piìi triste sog- giunse :

ROGO d'amore 351

Certe colpe che non sono forse le più gravi nella vita di un giovane la società non le perdona. Lei stessa se mi vedesse un giorno, un prossimo giorno, esposto al pubblico disprezzo...

No!

Se fossi obbligato a lasciare questa città, a nascondermi... a portare lontano la mia miseria e la mia vergogna...

Ondate di tenerezza e di affanno schiantavano il cuore dell'Unica. Una sensibilità sovracuta le faceva provare in quell'istante la stessa impressione di inafferrabilità che l'aveva assalita una sera sotto il fascino giovanile della bellezza di Ariele. Come aveva sentito allora i limiti impotenti della voluttà, così la sofferenza la stringeva ora ne' suoi ferrei nodi ed ella vi si dibatteva incatenata fra i due poli estremi dell'amore e del dolore dove la creatura mortale si frange nella sua miseria.

Ma che avvenne? implorò con un gemito.

Io ho tutto perduto. Sono un vinto. Il tradimento di colui che credevo il più fido de' miei compagni ha attirato su di me la estrema misura dell'estradizione. Non potrò più rimettere il piede sulla mia terra.

Questa è una gloria! gridò l'Unica. È la palma dei martiri.

Moèna tacque. Nel buio della stanza fatto più profondo la linea della bella persona, tutta racchiusa e muta, emanava un in- quietante fluido di mistero. Ella quasi prona ai suoi ginocchi, divi- nando, mormorò :

Non è tutto.

Un sospiro di Ariele passò nell'aria ripetendo :

Non è tutto.

E allora, col volto inabissato nelle mani: di lei, a scatti, a pause penose, raccontò la folle giovinezza e le imprudenze che gli avevano fatto perdere tutto ciò che rimaneva del suo patrimonio affidandosi a falsi amici, trascinato dall'amore di patria nel quale voleva redi- mersi delle passate leggerezze e degli anni perduti; disse la somma di forze e di lavoro date alla santa missione lottando, solo, scono- sciuto nella grande città che egli sognava di attrarre al suo ideale e i fili di congiungimento che finalmente era riuscito a stabilire e che il decreto di esilio spezzava per sempre, lasciandolo alle prese con un groviglio di speranze deluse, di interessi lesi che si sareb- bero rivoltati contro di lui sotto la pressione brutale della lotta per la vita. Tutto non disse, ma ciò che l'orecchio non raccolse l'anima amante intese.

Amico mio, vorrei poter dare in questo istante alla sacra parola amico il suo significato più profondo e più ardente per dedi- carla a te! Tante, troppe donne hanno già detto di amarti; te lo diranno ancora. Io voglio oltrepassare questa misura limitata del- l'amore umano. Io voglio essere tu! E poiché tu soffri ora spasmo- dicamente, voglio soffrire anch'io per te, con te, inondarmi di tutte le tue lagrime, sanguinare di tutte le tue ferite. Mio povero fan- ciullo, che cosa posso fare?

Si comprendevano così sempre in una meravigliosa intuizione dei loro sentimenti; che se egli paventò per un istante il pericolo di una offerta, ella nella mente di lui ne lesse la ripugnanza e senza precisare, senza insistere, con atto umile e semplice soggiunse :

352 ROGO d'amore

Venga sempre da me quando soffre. Mi prometta questo almeno.

Oh! non vorrei che mi vedesse in certi momenti della mia vita...

Perchè? Perchè? angosciosamente ella chiese.

Momenti che non può nemmeno immaginare.

Si passò una mano sulla fronte. L'amata ne indovinò vagamente il gesto nell'ombra. Disse ancora lui (e la voce era sempre più fioca) :

Ricorda quando la lasciai dopo i giorni del nostro incontro lassìi?... il mio turbamento, che ella prese per freddezza, nell'ora del- l'addio?

Sì, ricordo.

Avevo ricevuto una notizia grave, la prima di un seguito disastroso, di una infinita sequela di guai.

Denaro? mormorò l'Unica col più fievole de' suoi accenti, quasi per nascondere il vocabolo brutale, per mitigarne la stonatura in quel soave concerto delle loro anime.

Anche denaro sospirò Moèna.

Pronunciato da loro, nella oscurità del salotto che li rendeva invisibili l'uno all'altra, il simbolo di ogni volgarità sembrava uscire dalla sua forma plebea per rivestirsi di un candore che era signi- ficato di fiducia intera. Si sentivano per tal modo maggiormente le- gati, come nel denudamento di una ferita, come se un nuovo velo fosse stato tolto al mistero del tempo in cui non si conoscevano, acqui- stando di minuto in minuto la sicurezza che potevano confidarsi qualunque segreto nella fusione assoluta dei loro cuori e della loro coscienza.

Egli le aveva detto una volta ai primi giorni della nascente sim- patia : « Crede lei che si ami una donna, che la si ami profondamente, per la sua sola bellezza? » Allora non si era soffermata su questo pen- siero, ma ecco'che ora lo comprendeva con una rispondenza di tutto il suo essere. Cercò nel buio la mano di Ariele accarezzandola dolcis- simamente, esclamando piano a più riprese :

Poveretto! Poveretto! e c'era più amore in quel lamento che non nel più caldo bacio. Soggiunse dopo una pausa: Un'altra cosa ancora aveva promesso di dirmi nell'ora dell'addio, la ricorda, quella?

E poi? fece Ariele turbato se ne ricevesse una cattiva impressione?

Come sarebbe possibile? Non ci dobbiamo noi intera sincerità?

La vuole?

Assolutamente. Non deve farmi anche piacere?

Un poco, forse.

Ariele sembrava pentito, esitava. Ma ella lo investì con insolita prepotenza amorosa:

Voglio!

La voce di Ariele non aveva più suono; l'Unica colle braccia tese si protendeva tutta verso di lui, ansando, ascoltando :

Poiché è la sola prova d'amore che posso offrirle se mai un giorno ella avesse a dubitare della sincerità de' miei sentimenti, le dirò dunque che per venire a raggiungerla lassù, per la gioia di restarle vicino, ho compiuto un sacrificio del quale mi è impossibile descrivere in poche parole il valore. Lei però deve comprendermi. Io,

ROGO d'amore 363

per la prima volta in vita mia ho umiliato la mia fierezza di genti- luomo, ho infranto il voto di non separarmi mai da una sacra re- liquia paterna, ho salito le scale del luogo dove i più miserabili vanno a cercare l'obolo per sfamarsi... L'anello che mio padre mo- rendo mi pose al dito, dove per crudele ironia è impresso lo stemma della mia famiglia...

Perduto! gridò l'Unica.

L'ho riscattato in questi giorni.

La penosa confessione aveva esaurito il giovane. Con voce rotta e fioca tentò di aggiungere una parola che non gli riuscì di pronun- ciare. Fu ancora lei che la indovinò, fu lei che posandogli una mano sulla bocca volle risparmiargli l'umiliazione ultima, ma lo aveva ap- pena tocco che si ritrasse sgomentata. Le labbra di Ariele erano fredde.

Balzò in piedi e corse ad aprire la chiave della luce elettrica. Ah! quel volto! Egli stava riverso, col capo abbandonato, le palpebre chiuse in un languore mortale. Le fini linee della guancia e del pro- filo assottigliate in un ritiro improvviso del sangue apparivano mar- moree accentuando l'espressione di immaterialità che lo rendeva si- mile in quell'istante a un deposto dalla croce. Si riscosse accorgen- dosi che l'amata andava in cerca di soccorso.

Non chiami nessuno implorò.

Vado io...

No, resti. Non mi occorre nulla, non voglio nulla. Resti presso a me, lei sola.

Con atto di infinita stanchezza le posò la testa in grembo. Ella conosceva quell'atto che era tra i più intimi della loro intimità e le era il più caro per il tenero significato di fiducia che racchiudeva nel suo abbandono quasi infantile; ma vedendolo grandemente ab- battuto volle che maggior agio trovasse sulle sue ginocchia e ve lo adagiò supino, reggendogli la nuca sul proprio braccio col gesto pie- toso della divina Madre.

Quale mai Calvario aveva egli percorso? Quali cadute lo avevano prostrato? Da quali, da quanti amari calici era sceso il tossico e l'assenzio a violare il fiore delle sue labbra? Molte cose egli aveva dette, ma le più sottili, le più profonde rimanevano chiuse nel cavo delle sue guancie emaciate, nella piega dolorosa della sua fronte dove raggiava il pallore dei martiri, nell'arco dei suoi occhi dove moriva un sogno di eroi.

Insensibilmente il giovane corpo cedeva alla dolcezza del riposo : le membra rigide, le labbra socchiuse nel volto cereo gli dettero per un momento un tale aspetto di cadavere che l'Unica, piegata su di lui, credette di assorbirne l'estremo anelito e tutta conversa su quella bocca che non osava baciare ne sfiorò appena il gelo in un lungo appassionato lievissimo congiungimento, tentando di soflBarvi dentro il proprio respiro; mai estasi d'amore felice scosse le viscere di una donna come in quell'attimo sovrumano attraversato dai brividi della morte.

Non così certo aveva pensato di ritrovarlo, non così lo aveva vagheggiato nella ardente solitudine del desiderio; ma quanto ogni gioia di accesa fantasia era sorpassata dal possesso di quell'anima venuta a spirare fra le sue braccia! Era suo, tutto suo.

354 ROGO d'amore

Con un tenero orgoglio, con una tacita sfida alla folla scono- sciuta di amici e di rivali che le constrastavano nell'ombra l'amore di Ariele, ella sentiva il peso delle care membra gravare sul suo grembo delicato, lo ascoltava, lo ricercava quel peso con squisita vo- luttà femminile, mentre guardando il nobile volto che la sofferenza cingeva di una aureola indefinita le sembrò che la bellezza interna di Ariele, tutto ciò che formava il nucleo e il fulcro della sua ragione d'essere chiusa oramai nel cerchio delle sue braccia, scendesse nel- l'anima sua come nel suo naturale sepolcro.

Nimbate di luce nuova, splendide di un fulgore d'oro su fondo di tenebre, le parole profetiche di Ariele le apparvero sciolte dai veli misteriosi del destino. « Come nessuna mi ebbe, come nessuna mi avrà ». Era vero. Così, così!

Nuove forze di idealità si riversarono a fiotti nel suo cuore esal- tandolo, trasportandolo in una magnifica assunzione. 0 mio Ariele, pensò chi ti ha amato, chi ti amerà mai come io t'amo?

Si chinò ancora una volta sulle labbra del giovane, le gentili labbra che ella prediligeva sopra ogni altra sua materiale bellezza, le labbra dalle quali era uscita la parola che prima l'aveva avvinta; e in un delirio rapido e folle, in un acuto desiderio di congiungi- mento eterno, la possibilità che egli le morisse veramente tra le braccia ed ella con lui le attraversò lo spirito come una liberazione divina.

(Continua).

Neera.

ANDRÉ OIDE

A quarantaquattr'anni, dopo oltre un ventennio di lavoro larga mente tecondo, André Gide è ancora ben lontano dalla popolarità, in Francia non meno che tra noi. Ci arriverà mai? È lecito dubitarne. Egli non è, infatti, un autore facile, che si possa seguire per diverti- mento e comprendere senza studio e senza amore. Per sentire la bel- lezza della sua opera complessa e multiforme, non basta accostarsele a guardarla con frettolosa curiosità; bisogna lasciarsi prendere da lei a poco a poco, e a poco a poco prenderla e farla propria. Del resto, alla popolarità André Gide non ha mirato mai. Egli ha scritto i suoi brevi libri (1) sopra tutto per chiarire a se stesso il mistero della sua anima, per dare una risposta alle interrogazioni angosciose della sua coscienza. Non c'è, si può dire, in tutta la sua òpera una pagina sola ir cui la preoccupazione sociale soverchi o sopisca l'ansia della ri- cerca interiore : ricerca continua infaticata, ora in una direzione ora in un'altra, ora verso l'uno ora verso l'altro polo della vita dello spirito. Ogni suo scritto è, essenzialmente, la conclusione d'un ardente dibattito interno, un nuovo tentativo di soluzione dell'e- norme problema ch'egli sente vivere in sé. Di qui l'unità e la diver- sità della sua opera, in cui le contradizioni di pensiero e di sen- timento abbondano e si mostrano apertamente quasi ad ogni passo, ma in cui una è la passione profonda, una l'ispirazione, uno lo stile. È una specie di concordia discors, di cui non possono non sentir la bellezza singolare e inquietante quanti domandano alla poesia sol- tanto che sia poesia : non filosofìa o pratica. Costoro non si preoc- cuperanno di cercare fra tante idee un'idea maestra che raccolga le altre in sistema (non la troverebbero, del resto), sbigottiranno in- contrandosi oggi in uno Gide ardente di idealismo cristiano, domani in uno Gide ebbro di gioiosa e libera sensualità... Considerato come filosofo, questi apparirà certamente manchevole e inconcludente; a imaginarlo uomo d'azione, non si può imaginario che pessimo; come poeta, è un poeta autentico. Si deve domandargli di più?

È un poeta autentico; ma, per l'esattezza, bisogna avvertire che tutta la sua opera è in prosa, se se ne tolga un quadernetto di versi giovanili, non notevolissimo. Poeta, dunque, per le sue qualità in- trinseche : per l'intensità del sentimento, per il vigore della fantasia

(1) Le opere di André Gide sono edite da Perrin, dalla Librairie de Vari indépendant, dalla Società del Mercure de France. dalla Bihliothèque de VOc- cident e dalla Xnuvelle revue fran^oise.

366 ANDRÉ GIDE

e per quella rara e misteriosa virtù di commozione panica ch'egli stesso ha definito «don de perpétuelle rencontre » (1). Del resto, la sua prosa è così armoniosamente equilibrata e così suggestivamente ritmata, che ci si potrebbe chiedere s'essa non possegga una musi- calità interiore che non sempre i versi anche i versi più canori possiedono. Se non che queste sono, in fondo, distinzioni oziose. Ed è meglio che, lasciandole da parte, ci facciamo senz'altro ad osser- vare l'opera che lo Gide ci ha dato finora. Quest'opera non potremo che scorrerla; e neppure potremo scorrerla tutta. Perchè la nostra osservazione non si sperda su una superficie troppo vasta, saremo costretti a lasciar nell'ombra qualche scritto anche di non secon- daria importanza e a trascurare qualche aspetto complementare, benché caratteristico, della personalità del nostro poeta. Non pre- tendiamo, dunque, d'essere completi : vogliamo non tanto dipingere un ritratto, quanto schizzare rapidamente un profilo (2).

I Cahiers d' André Walter (1891) sono il libro dei vent'anni. An- dré Gide vi ha espresso, sotto il tenue velo d'una finzione romantica e romanzesca, gli smarrimenti, le tristezze, gli entusiasmi della sua prima giovinezza, timida, pensosa e passionata. È il giornale, l'auto- biografia frammentaria d'un giovane poeta ardente e casto che, per paura e disdegno della vita, si avvelena voluttuosamente d'un im- possibile amore e si getta con smanioso desiderio e con volontà osti- nata incontro alla follìa e alla morte. Ma dietro André Walter è im- possibile non vedere André Gide; nella tragedia fittizia è impossibile non sentire l'eco d'un dramma di coscienza vero e reale. Perchè son nato?... Dove vado?... Che devo fare di questa mia anima?... André Gide, al primo urto contro la brutale banalità quotidiana, si raccoglie, si chiude tutto nella sua pena, e si scruta affannosamente per trovare in una causa e un fine al suo vivere. Una causa e un fine che contentino la sua ragione egli non li scopre (e per questo il suo eroe muore, tristemente farneticando); ma dal fondo dell'es- sere egli sente salire, come una fiamma, il desiderio, il bisogno della vita, che dissolve in lui ogni inquietudine metafisica e lo riempie tutto di gioia obliosa. Io vivo, e questa è già una cosa magnifica... La causa, il fine della vita? La vita : la più vasta e la più intensa vita... Non é uno stato duraturo neppur questo, che la ragione si ri- scuote ben tosto e ripiomba l'anima nel buio; ma è un momento che torna, e, tornando, rende accettabile e bella la lotta dolorosa che lo ha preceduto e lo seguirà. Questo si legge agevolmente fra le righe dei Cahiers e in fondo alla disperazione di Walter; il quale pensa e dice bensì che « ce que nous avons de mieux à faire ce serait de tàcher de nous endormir », ma non è poi a tal punto asservito alla sua desolata filosofia da non sentire e gridare con orgogliosa esul- tanza la chiusa ricchezza e le infinite promesse della sua giovinezza :

(1) Nel libro IV'di Nourritvres terrestres.

(2) V. André GÀde et l'inquiétude philosophique di Francis de Miomandre, in Mercure de France, maggio 1902; André Gide critique littéraire di Henri Cloxjard, ihidem, agosto 1911 e André Gide professeur d'energie di Tan- CRÈDE DE Visan, nel volume L'attitude du lyrisme contemporain (1911). Tra i molti studi intorno allo Gide poeta, i piìi importanti mi sembrano quelli di Henri Ghbon {Mercure de France, maggio 1897), di L. Dxtmont-Wilden (ibi- dem, 16 dicembre 1909) e di Jacques Rivière (Grande Bevue, 25 ottobre e 10 novembre 1911).

ANDRÉ GIDE 357

« La vie intense, voilà le superbe : je ne changerais la mienne con tre aucune; j'y ai vécu plusieurs vies, et la réelle a été la moindre ». A vent'anni, dunque, Gide, se proprio non concepisce, certo sente la vita, la sua vita, come una vicenda di tristi ma inebbrianti ri- nunzie e di gioconde e non meno inebbrianti possessioni, come un continuo « débat du corps et du coeur » in cui ora l'uno ora l'altro agonista resta vincitore; e già di questo sentimento informa e ri- scalda la sua arte. La sua opera futura non avrà, per grandissima parte, un diverso fondamento di pensiero,, una diversa ispira- zione, così che si può dire ch'essa è quasi tutta contenuta in germe nei giovanili Cahier s. Pel rispetto dell'arte, questi sono indubbia- mente cosa ben lontana dalla perfezione : Walt€r è un'ombra non una persona; il suo tragico caso è una favola letteraria non una vita; tutto ciò ch'è finzione non aderisce, resta sovrapposto alla parte viva e vitale del libro ch'è quella dove l'autore si dipinge tal qual'è, senza sforzarsi di divenire il suo eroe. Più tardi egli riuscirà a for- mare della sua passione qualche figura di romanzo più vera del vero; per ora non sa che imaginare dei pretesti per rivelare e in- sieme nascondere se stesso. Ma dove questi pretesti non occorrono, dove non si tratta che di notare in forma soggettiva una sensazione, un moto d'affetto, un pensiero realmente vissuti, con quale slancio facile sicuro diritto lo Gide sale a toccare la vetta dell'espressione poetica! Ecco un sogno soave: «...Ce serait l'automne; au soir; le feu clair et la lampe. Les regards familiers quand on lève les yeux, les sourires. Et toi par-dessus mon épaule penchée, parfois tu viendrais lire... ». Ecco un momento di sconforto: « ...Dans le noir des courages sombrés, les larmes coulent douloureuses... Et je pensais que jamais plus, peut-ètre, je n'entendrais par les nuits de prin- temps, chanter les espoirs en mon àme... ». Ed ecco degli appunti di carattere tecnico: « ...Je voudrais la forme si lyrique et si fré- missante que la poesie en profuse malgré les lignes si rigid<^s 0 ces lignes droites 1 des échalas ! mais je voudrais, s'enroulant autour, des volubilis et des folles vignes. La forme lyrique, la strophe mais sans mètres ni rimes scandée, balancée seulemont musicale plutòt. Et non point tant l'harmonie des mots que la musique des pensées car elles ont aussi leurs allitérations mysté- rieuses. Que le rythme des phrases ne soit point extérieur et postiche, par la succession seule des paroles sonores mais qu'il ondule selon la courbe des pensées cadencées, par une corrélation subtile... En fran^ais? Non, je voudrais écrire en musique ».

Nel Voyage d'Urien (1893) in Paludes (1895) e nelle Nourritures terrestres (1897) tre libri che non si possono staccare l'un dal- l'altro senza indebolire il vigore artistico e restringere il significato ideale di ciascuno si viene svolgendo in fiore il germe chiuso nei quaderni à' André Walter.

Le Voyage d'Urien è un racconto fantasioso che presenta qualche somiglianza esteriore (soltanto esteriore, si badi) con la bizzarra Storia vera di Luciano. Una sottile schiera di naviganti corre alla ventura le acque d'un oceano misterioso, tocca isole d'incanto, vede città prodigiose, passa accanto alle rive più ridenti e più allettanti; ma a tutti gli inviti resiste duramente; e va oltre, soffrendo e deli- ziandosi del suo soffrire, scotendo da il torpore del tedio e la gravezza delle disperazioni; e non s'arresta che tra i banchi di

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ghiaccio d'un deserto polare, sotto un cielo spento, in un silenzio senza fine. Chi siano questi naviganti e che simboleggi la loro odissea appare chiaro abbastanza a chi si sia reso conto, leggendo i CahierSy dello stato d'animo di Gide davanti alla vita. Urien e i suoi seguaci sono gli eroi della rinunzia, coloro che, travagliati da un desiderio vago e bruciante d'azioni gloriose, si esiliano con fiera pazienza da ogni voluttà e da ogTii gioia, cercano ogni più aspra prova, e non son sostenuti che dalla tenace volontà di combattere, di salire più in alto, di andare più in là. André Gide sa di non poter seguire la schiera eletta, perchè troppo dolce e suasivo giunge a lui, a quando a quando, il richiamo delle terre fiorite e delle città sonore; egli sa che la vita per lui non può esser tutta battaglia tutta godi- mento, e che la sua anima sarà sempre divisa da un'alterna e con- traria aspirazione. « Or, telle est notre incertitude : devant Ics hautes cathédrales, nous rèvions aux tours des mosquées; devant les mi- narets, aujourd'hui, nous rèvions aux clochers d'égiises ». Ma non per questo egli ama meno i fratelli suoi migliori, coloro che sosten- gono il cimento ch'egli pur vorrebbe sostenere e sogna di sostenere. Ed è precisamente questo invidioso affetto, misto alla triste coscienza dell'impotenza propria, che ispira allo Gide le più belle pagine del suo libro singolare. Il quale, dunque, è ben altro che un gioco di stile, come troppi han creduto che ne han considerato soltanto la veste sontuosa, e non ne han colto la patetica bellezza interiore... Nei Cahiers d'André Walter l'emozione del poeta appariva non di rado esagerata e falsata a causa della finzione romanzesca a cui do- veva e non sapeva adattarsi; qui invece essa è velata, rattenuta e quasi dissimulata, poiché non s'esprime se non per mezzo di descri- zioni di paesaggi e per allusioni sottili. talvolta si ostentava; qui cerca costantemente di occultarsi. Eppure bisogna leggerle ben di- strattamente queste pagine per non sentir vibrare, sotto l'onda ricca delle imagini, un'anima ad ora ad ora gioiosa o mesta, agitata sempre dall'ansia del più alto volo! « ... Nous étions parvenus au pied du glacier translucide; une fontaine claire s'est montrée. Elle stillait doucement de sous la giace; un quartz poli, qu'elle avait creusé en calice, la recueillait... Eau de giace, qui pourra dire ta pureté! Dans les gobelets nous en bùmes, elle était encore azurée; elle était limpide et si bleue, qu'elle avait toujours l'air profonde. Elle restait fraìche toujours ainsi que les eaux hiémales; elle était si pure qu'elle grisait comme l'air trés matinal des montagnes. Nous en bùmes, et une allegresse séraphique nous ravit; nous y avons trempé nos mains; nous en avons mouillé nos paupiéres; elle a lave la chaleur des fièvres et sa delicate vertu a glissé jusqu'à nos pensées, comme d'une eau lustrale. La campagne, après, nous a paru plus belle, et nous nous étonnions de tonte chose. Vers midi, nous avons retrouvé la mer, et nous marchions suivant le rivage. Nous récoltions des cailloux d'or dans le sable, les coquilles rares que le flot avait laissées, et les buprestes couleur d'émeraude sur les tamaris de la plage... ». .

Paludes è una caricatura comica e triste della vita nostra d'ogni giorno, della nostra miseria comune, di tutto ciò che Urien e i suoi compagni han saputo fuggire : agitazione senza avanzamento, felicità stagnante, piacere controllato, ridicolo affanno di guadagni e di onori, lagrimevole mediocrità universale... Vi si respira l'aria viziata dei

ANDRÉ GIDE 359

gabinetti di studio, dei salotti « intellettuali », delle società di bene- ficenza; e vi si incontrano molti chiunque confusi in una collettività amorfa e incolore. Lo Gide, dalla sponda della palude, ride di tutto e di tutti; anche di e della sua tristezza e della sua sete di eroismo. Ma è un riso, s'intende, che non arriva alla midolla e che non può esilarare nessuno. Talvolta, anzi, non si saprebbe dire s'egli, il poeta, rida veramente o piuttosto non cerchi di soffocare un singhiozzo an- goscioso; tal'altra la risata rompe o si scioglie in libero pianto: « ...Que de fois, cherchant un peu d'air, suffocant, j'ai connu le geste d'ouvrir des fenétres et je me suis arrété, sans espoir, parce qu'une fois, les ayant ouvertes... Vous avez pris froid dit Angele ... Parce qu'une fois les ayant ouvertes, j'ai vu qu'elles don- naient sur des cours ou sur d'autres salles voùtées sur des cours misérables, sans soleil et sans air et qu'alors, voyant cela, par détresse, je criai de toutes mes forces: Seigneur! Seigneur! nous sommes terriblement enfermés! et que ma voix me revint tout entière de la voùte... ». Ed è proprio in questo libro dallo strano riso ch'io ho trovato la piìi disperante definizione della vita, delle nostre vite d'oggi e di domani : « prolongations du passe » definizione che sembra riecheggiare due terribili e indimenticabili versi di Mi- chelangiolo : « L'avvenir nel passato specchio con trista e dolorosa speme... ». Non bisogna credere, tuttavia, che la filosofia di Pahides sia totalmente e assolutamente nichilista. Lo Gide schernisce bensì ogni specie d'attività pratica, sociale e anche individuale; ma implici- tamente esalta ogni tentativo di distacco e di affrancamento dello spirito dalla realtà bruta, ogni sforzo di sconfinamento dell'anima dalle paludi della normalità e del « coutumier », verso l'alto mare aperto del sogno, dell'ideale, delle possibilità infinite. « Je ne m'es- stime jamais que dans ce que je pourrais taire » (1), e, in altre pa- role: « io non sono quel che sono, ma quel che potrei essere »; questo è l'insegnamento segreto di Paludes. Ed è pure l'insegnamento palese di Noumtures terrestres.

Les Nourritures terrestres sono una lirica celebrazione dello istinto, una lode ditirambica della sensazione, un inno panteistico alla natura. Ci troviamo di fronte a un nuovo Gide?... No. Lo Gide è sempre lo stesso che scrisse i Cahiers d'André Walter: un poeta dall'anima ambigua ed eccessiva, ugualmente passionato del cielo e della terra e incapace di rinunziare all'una per l'altro o all'altro per l'una. Nel Voyage d'Urien egli ha cantato la perfetta letizia degli eroici rifiuti e il dominio dell'uomo sul destino; nelle Nourritures terrestres egli canterà le possessioni sensuali « belle come le aurore d'estate » e la dispersione dell'individuo nel divin tutto; in ogni mo- mento e dovunque anche attraverso l'ironia di Paludes egli esalterà il fervore, l'entusiasmo, l'elevazione verso l'una o l'altra cima dell'essere. « ...Quand tu m'auras lu dice egli al suo imaginario discepolo jette ce livre, et sors. Je voudrais qu'il t'etìt donne le désir de sortir sortir de n'importe où, de ta chembre, de ta pensée, de ta ville, de ta famille... ». Mirabile libro! luminoso bru- ciante e scomposto come una gran vampa flagellata dal vento... Impossibile riassumerlo, classificarlo, definirne la bellezza. Quando s'è detto ch'esso ammaestra a un continuo rinnovamento dello spi-

(1) Envoi di Xourritures terrestres.

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rito per mezzo dei sensi; che vi sono raccolte e fissate le impressioni più sottili più squisite e più fuggevoli. provate dal poeta nelle sue passeggiate favolose attraverso i meravigliosi regni della sensibilità, che, leggendolo, vien fatto spesso di pensare a certe pagine bibliche e a certi racconti delle Mille e una notte, tanta e così verginale è la forza della sensazione e della parola che l'esprime... non s'è detto ciò che il libro veramente è. si può dame un'idea, citandone qualche passo o esaminandone qualche episodio. Contentiamoci, dunque, di aver indicato ciò ch'esso vuol significare accanto a Pa- ludes e al Voyage d'Urien, di aver cioè rilevato ch'esso è come la terza parte dell'ampio trittico in cui lo Gide s'è studiato, appena uscito dalla prima giovinezza, di figurare la sua poetica concezione della vita.

Con le Nourritures terrestres si chiude il primo periodo d'attività artistica dello Gide: un periodo che si può dire impressionistico e considerare ancóra preparatorio. Ora il poeta muoverà a cercare nuove terre : motivi spirituali differenti e forme d'arte più composte più complesse e più meditate. Esaurito il primo fervore lirico, egli vuole ormai «uscir del bosco e gire in fra la gente ». E volge dap- prima il pensiero al teatro.

Per il teatro lo Gide ha scritto due tragedie : un Saul nel 1898 e Le roi Candaule nel 1901. Che un poeta così irreducibilmente inetto ad accomodare la sua visione e il suo pensiero al gusto della folla, e così naturalmente e volontariamente schivo dell'uso d'ogni grosso- lano artificio, abbia volto la mente al teatro, dove il patetico banale, il luogo comune e le astuzie del mestiere sono elementi, se non proprio necessari, certo utilissimi e sicurissimi di successo, è cosa che, a prima vista, può sembrare strana. « Au théàtre, ce qui sort de la convention paraìt faux. Le théàtre vit de conventions » dice lo Gide stesso (1). Ma basta pensare quale inquietudine avventurosa informi e caratterizzi tutta la vita spirituale di lui per comprendere com'egli sia stato condotto dalla sua stessa natura ad arrischiar bat- taglia anche su un campo così poco propizio il meno propizio certamente al suo talento essenzialmente aristocratico. Egli non poteva rinunziare a un'esperienza tanto importante. E d'altra parte egli pensava di dover contribuire all'opera generosa iniziata da pochi nobili artisti intorno a quegli anni : la creazione d'un teatro di poesia. Il dramma deve smetter di perseguire un'illusione vaga e vana di realtà, la quale, quand'anche fosse raggiunta, non sarebbe che un pleonasmo di fronte alla realtà vera: è tempo ch'esso si rinsangui e si ravvivi di poesia. Sono idee che lo Gide espresse nel 1904 par- lando delVEvolution du théàtre (2). Ma già parecchi anni prima egli aveva tentato di attuarle nelle due tragedie ricordate.

Il SaiXl non è mai stato rappresentato, nessun direttore di teatro avendo avuto fino ad oggi il coraggio di portarlo sul palcoscenico. Dobbiamo dunque contentarci di leggerlo. Ora, io non so davvero se

(1) Nella prefazione a Le Tìoì Candaule,.

(2) Conferenza pubblicata in fronte al Saul e ripubblicata nei Fout?eaua; prétextes (1911).

ANDRÉ GIDE 361

lo parecchie scene che alla lettura sembrano animate da un gran soffio di bellezza tragica non siano destinate, in una eventuale rap- presentazione, a passare inosservate o a stancare l'attenzione dello spettatore tanto meno intensa e volontaria che quella del lettore. Non so se la figura del re, d'una modernità così sconcertante, e la minu- ziosa e grandiosa drammatizzazione del suo disfacimento intelieltuile (Saul è assediato da una folla di loquaci demonietti che lo sospin- gono alla pazzia) non siano per apparire alquanto oscure a un pub- blico anche elettissimo. « Il mio valore è nella mia complicazione » dice l'eroe stesso; e ognun sa che il teatro, in generale, domanda caratteri semplici, evidenti, vorrei dire unilineari... Più teatrale, ap- punto per questo, mi pare il principe Jonathan, il povero giovinetto debole « come un uccello raro », e così tragicamente dolce e gentile, lo smascolinato amante della bellezza gloriosa di David. « Je vou- drais avec toi me promener sur la montagne : de mon sentier tu écar- terais chaque pierre; à midi nous baignerions nos pieds las dans l'eau fraìche, puis nous nous coucherions dans les vignes; tu chan- terais; je t'exagérerais mon amour... » Dirò apertamente il mio pen- siero. Il fanciullo dal sangue pallido e dall'animula malata che esala in questi lamenti il suo strano amore, e s'accoscia sotto il peso della porpora e della corona, mi pare la sola figura compiutamente viva di questa tragedia costruita con tanto ingegno. Ck)n troppo ingegno, vorrei dire, e con troppo scarsa commozione. Ma d'un'opera scritta per il teatro può esser giudice più o meno intelligente, s'intende soltanto lo spettatore. Un lettore che voglia manifestare le sue im- pressioni ha il dovere di dubitare della loro li'ustezza, in tutta co- scienza. È il caso nostro; e non solo rispetto al Saul, ma anche ri- spetto al Roi Candaule.

Infatti, anche di questo dramma, che fu rappresentato al teatro ùqW Oeuvre una sola sera (il 9 maggio 1901), oggi non si può prender conoscenza imperfetta conoscenza che attraverso il volume edito dalla Società del Mercure de France. Ci potrebbero, forse, fornir qualche lume i resoconti dei giornali del tempo (lo Gide ne riporta alcuni nella prefazione al volume), se tra le molte stroncature e le poche apologie si potesse trovare un solo giudizio evidentemente spas- sionato e disinteressato. Io l'ho cercato inutilmente. Bisogna, dunque, parlare anche del Roi Candaule .con qualche esitazione e con molte prudenti riserve. La favola è semplice, semplice... Si tratta dell'av- ventura leggendaria (Erodoto ce n'ha tramandato memoria nell'ot- tavo libro delle sue Storie e La Fontaine, tra gli altri, ce l'ha rinar- rata in uno dei suoi Contes) di quel bravo re di Lidia ch'ebbe un giorno la bizzarra idea di far conoscere ogni più segreta bellezza della consorte ad un suo favorito, e fu poi, da questo, ucciso per istigazione della regina stessa che non volle lasciare invendicato l'ol- traggio. Erodoto ci dice anche che l'oracolo di Delfi approvò con un suo solenne responso l'opera dell'uccisore salito sul trono della vittima, così che la dinastia degli Eraclidi cesse il posto a quella dei Mermnadi. Ma questo nel dramma di André Gide non ha alcuna importanza. Quel che passiona il nostro poeta è il caso umano e, più ancora che il caso umano, il suo significato morale e sociale. (Sì : una volta tanto il poeta si occupa degli uomini, oltre che del- l'uomo). Le Roi Candaule non è ciò che si può dire propriamente un dramma simbolico; è piuttosto un dramma «allusivo». L'autore ha

24 VoL CLXVn. Serie V 1* ottobre 1913.

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voluto fare anzitutto opera cTarte: creare dei caratteri e sviluppare un'azione; ma, sotto sotto, ha voluto anche proporre un problema fi- losofico e operare in modo che e caratteri e azione offrissero più d'un pretesto a generalizzare. Gandaule è l'uomo felice che non sa cosa farsi della sua felicità: una strana malattia, senza dubbio; ma non siamo tutti un po' malati come Gandaule? Non sapendo che farsene, egli la gioca... e la perde, naturalmente. E chi gliela porta via è Gigès, un povero pescatore che non chiedeva e non desiderava nulla, e che, domani, passata l'ebbrezza della nuova conquista, sentirà an- che lui il bisogno di giocare la sua felicità e sarà condotto fatalmente a perderla. La morale è che nessuno può essere durabilmente felice e che l'unica felicità è forse la conquista della felicità. Ma c'è anche un'altra morale più riposta e più nuova. Gandaule che non sa godere le sue ricchezze e la bellezza della moglie perchè è solo a goderne, e si lascia sospingere dalla sua inquietudine e da una specie di generosità indecisa a dividere ogni suo bene con gli altri, è un uomo social- mente rappresentativo: egli rappresenta l'aristocrazia ogni aristo- crazia — che, insoddisfatta della sua potenza, non sa custodirsela con egoistica energia tutta per sé, ma sente il bisogno di fame parte- cipi le classi inferiori. Le quali, messe sulla via delle conquiste, per- dono la loro tranquilla serenità, cedono alle più orgogliose ambizioni e sfrenano tutti i più rabbiosi desideri di possesso contro i benefat- tori di ieri. È il caso di Gigès, che, introdotto contro sua voglia nella camera della regina per vedere, quando ha visto, non sa starsi pago e vuole andar più oltre, e va più oltre, e s'arresta solo dopo aver ucciso il suo troppo generoso amico e averne usurpato il trono. Questi i si- gnificati nascosti del dramma dello Gide: significati da cui non si può cavare alcun definito insegnamento morale, alcuna norma di condotta sociale, poiché l'autore vuol soltanto constatare un fatto e proporre un suo dubbio. Lo spirito suo, così ondeggiante, prova una invincibile ripugnanza a concludere. Non c'è qui, dunque, neppur l'ombra d'una tesi : e le idee che io ho cercato di chiarire appaiono visibili soltanto a chi le indaghi, sotto il velo della favola, con qualche attenziofnè. Eppure, nonostante questa voluta subordinazione del- l'idea al dato fantastico, par certo che il dramma pecchi, se così posso dire, di eccessiva cerebralità e sia un po' povero di sentimento, parli un po' troppo alla mente e un po' troppo poco al cuore. È, in fondo, la stessa impressione che si prova leggendo il Saul; ma più accentuata e meglio definita, Gandaule e Gigès devono esser nati sotto specie di idea nello spirito dello Gide; e una certa astrattezza originaria è rimasta nei loro caratteri, benché il poeta si sia studiato di cacciamela tutta. La stessa regina Nyssia, che non ha quasi alcuna parte nello svolgimento della trama filosofica e che dovrebbe esser quindi una figura puramente drammatica, si risente della freddezza e della rarefazione dell'atmosfera che la circonda e non trova la forza per affermare in un grido di profonda passione la sua uma- nità viva.

Gli è che André Gide, per cercare nuove fonti d'ispirazione e nuove strade d'arte, s'è allontanato da se stesso e s'è smarrito nelle steppe dell'intellettualismo... Ma il giorno in cui egli si ritroverà, e, per l'impulso della sua passione antica e nuova, raggiungerà lo stato perfetto di equilibrio e di forza, è ormai vicino. Dopo il periodo preparatorio, anche quello di transizione è finito; viene adesso il periodo della piena e rigogliosa maturità.

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Lo Gide si volge ora al romanzo, che, per essere « une espèce lit- téraire indecise, multiforme et omnivore » (1), gli sembra la forma più adatta ad accogliere l'espressione del suo spirito complesso. Ch'egli fosse nel giusto, ciò pensando, lo dimostrano ora chiaramente e ad esuberanza i fatti. Primo fatto: Llmmoraliste, romanzo publicato nel 1902, a un solo anno di distanza, dunque, dal Roi Candaule.

Un giovane di più che mediocre ingegno, che ha molto studiato, molto vicLggiato, molto pensato, ma che ancóra ignora completa- mente i suoi sensi e la sua anima, ha sposato, più che per amore, per compiacere al padre morente una giovinetta graziosa sana buona e intelligente come tante altre. Egli non l'ama; ma crede di amarla; e questo potrebbe anche bastare per la felicità di ambedue. Se non che in lui si manifesta una malattia terribile, che, per esser rimasta a lungo latente, sembra aver acquistata tanto maggiore vio- lenza. Una notte, durante il viaggio di nozze, nella solitudine ardente d'un villaggio algerino, egli si sente montare d'improvviso alla gola un fiotto di sangue caldo denso salato; poi un altro, poi un altro. E, nello stesso tempo, si sente prendere, attenagliare da un amore pre- potente, selvaggio, furioso della vita. « Vivre! je veux vivre! Je serrai les dents, les poings, me concentrai tout entier éperdument, désolément, dans cet effort vers l'existence... » Le cure assidue e pas- sionate della moglie a poco a poco lo riconducono alla vita; ma ormai in lui è nato un essere nuovo, che non può sentire la gratitu- dine e non sa che farsi della bontà. La vita, la salute : ecco il suo solo pensiero, il suo solo dovere. E, nell'immobilità forzata della prima convalescenza, egli ripassa come una lezione la sua volontà, arma la sua ostilità contro tutte le cose, e guarda e palpa e carezza il suo povero corpo rinascente. Poi vengono le prime passeggiate nel giardinetto pubblico, dove l'ombra delle palme è così leggera che sembra appena dorare il suolo, e dove i giovinetti arabi lo innamo- rano dei loro bei corpi svelti, forti e armoniosi. Una nuova vita gli si rivela così a mano a mano : la vita dei sensi, meravigliosa come un giardino incantato. Dal fondo del passato, dalla più lontana in- fanzia, si svegliano i ricordi di mille sensazioni, soffocate in germe dall'educazione religiosa e dallo studio severo; e, in quei ricordi confusi, egli si ritrova e si riconosce con esultanza... Ride, intomo a lui, la folle primavera della terra africana, ebbra d'acqua e vibrante di germinazioni. Egli brucia d'una specie di febbre gioiosa che non è altra cosa che la vita... Da quest'ora, la moglie non sarà per lui (egli lo presente, lo sa già) che un peso morto da trascinare, un osta- colo al conseguimento della sua felicità, che vuol esser sempre più ricca, sempre più piena, che vuol esser libera sopra tutto. Passano i mesi; egli lavora, segretamente e senza posa, a far di un corpo ro- busto, bello, sensuale. E lei gli è intorno, ciecamente affettuosa e instancabile. Ma un abisso ormai li divide. Per un breve istante, mentre risalgono lentamente l'Italia, verso Parigi, si sentono uniti in un infinito palpito di gioia; ma è un punto, un punto solo. Egli cerca

(1) Prefazione al Saul.

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invano, in uno sforzo di ribellione contro se stesso, di prolungare l'istante. No : la sua felicità dev'essere sempre nuova e diversa : essa è come l'acqua dei fiumi che perderebbe la sua freschezza se per- desse la sua fugacità... Poco dopo l'arrivo a Parigi la donna comincia a deperire. Il male, da cui egli s'è liberato, è inavvertitamente en- trato in lei e già comincia la sua visibile opera di distruzione. Egli vorrebbe curarla, salvarla, far per lei quel ch'ella ha fatto per lui; e tenta ancóra una volta di chiudere la mano sul suo amore. Inutil- mente. Egli forse l'ama quella creatura ormai posseduta dalla morte; ma non può viverle vicino, non può guardarla nel viso pallido dove le narici si allargano sempre più; non può ascoltare i colpi secchi, continui, e come forzati della tosse che le rompe il petto. « Il me semble que je toussais mieux que cela... » Qualcosa si ribella fero- cemente in lui allo spettacolo di quella lenta dissoluzione d'una vita, a cui lo legano indissolubilmente tanti assurdi vincoli morali e so- ciali. Oh, com'egli ama invidiosamente gli esseri istintivi che igno- rano cosa sia una morale, che godono il piacere liberamente e con tutta la tranquilla forza del loro egoismo! Egli che ha curvato a tutti i più duri gioghi la sua prima giovinezza, non pensa ora se non a conquistare questa libertà, a godere questo abbandono voluttuoso al- l'istinto... Da un paese dell'alta Svizzera, dove, per consiglio dei me- dici, egli ha portato la malata, una specie di rabbia randagia e di ostinazione nel peggio lo risospinge, con la sua compagna dolorosa, giù giù, attraverso l'Italia, alle solitudini del deserto africano. Un dio tenebroso lo tiene ormai in infrangibile servitù. A mano a mano che la donna si spegne, egli impara una vita più violenta, impetuosa e ardente. Così che, quando la disgraziata muore, egli non ha un ri- morso, un attimo d'odio contro se stesso. Soltanto : la libertà, final- mente raggiunta, gli appare senza ragione, senza scopo... È una per- plessità che par contenere il germe d'una tragedia; ma il romanzo di André Gide si arresta qui. E noi non possiamo legittimamente prevedere, per quanta voglia ne abbiamo, una finale sconfìtta del- l'immoralista. Il quale, del resto, sconfitto o vincitore, non potrà mai essere un eroe. Lo Gide, da principio, aveva assai probabilmente vagheggiato di formarlo a imagine e somiglianza dell'immoralista nietzschiano; ma, nel dar carne all'idea, egli s'è poi lasciato vincere e condurre dalla logica intima della sua stessa opera, e ha creato una figura che è, sì, straordinariamente drammatica, ma che non ha proprio nulla di eroico. L'immoralista nietzschiano è l'uomo libero e forte, l'essere sovranamente e sublimemente egoistico, che combatte contro tutto e tutti per poter diventare interamente se stesso. L'immo- ralista di Gide, invece, è un redivivo in cui l'amore della vita si esalta e si esacerba sino a degenerare in malattia. Ciò non significa che lo Gide abbia voluto soltanto esporre un caso patologico ecce- zionale. No: egli ha anche voluto e saputo proporre, o meglio ripro- porre, un problema che ha torturato per tanti secoli e torturerà sem- pre gli uomini in cui viva una coscienza : il problema dei diritti e delle responsabilità individuali. Fino a qual punto e dentro quali li- miti posso e devo realizzare le possibilità che sono in me? Dove pren- derò la mia norma? Nella morale del sacrificio che diminuisce e de- forma la vita comprimendone gli istinti primi? o nell'immoralismo che esalta questi istinti, ma può soffocare l'anima nelle maglie d'un egoismo brutale?... «Je n'ai voulu faire en ce livre non plus acte

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d'accusation qu'apologie, et me suis gardé de juger » afferma lo Gide nella prefazione; e, da\^ero, bisognerebbe essere schiavi di preoccupazioni ben meschinamente partigiane per cercare e trovare (si sa che chi cerca trova) nel suo romanzo qualcosa che non sia l'agitazione d'uno spirito serrato dalle tenebre e ansiosamente desi- deroso di luce... La più bella ed esatta definizione doìVlmmoraliste l'ha data lo Gide stesso: « C'est un fruit plein de cendre amère ». Ed io penso che le moralisations di cento accusatori non potrebbero va- lere, per efficacia morale, il racconto apparentemente impassibile di questo amaro poeta, visitatore di abissi. Ma questo non conta. Quel che conta è l'eccellenza, la bellezza dell'opera d'arte. Bellezza impe- tuosa e ardente nell'intimo, calma e armoniosa al di fuori, che fa pensare a un Dostoiewski latino. Impressioni dei sensi, sentimenti, pensieri, stati di coscienza : tutto è rivissuto dal poeta con abbandono passionato. Ma la sua commozione è chiusa e profonda e par propa- garsi e giungere alle nostre anime per un tramite misterioso, senza passare attraverso la pagina. Nulla infatti turba o adombra la luce limpida ferma eguale che dalla pagina s'effonde... Scrisse recente- mente un critico di geniale acutezza : « Voilà le poète fran^ais. L'in- telligence méne toute la téte; et le branle des sens, les bonds du coeur, les lèvres et les yeux, si libres qu'ils soient, et quelque licence qu'ils se donnent, tout est là-dessous, comme les chevaux de l'attelage sous les rénes... « (1). Quale altro moderno meglio che lo Gide lo Gide deìYIrmTwraliste, deW Enfant prodigue e della Porte étroite potrebbe rispondere al tipo così deline'ato da André Suarès?

Le retour de V enfant prodigue è il titolo d'una breve prosa pub- blicata nel 1909 dalla Bibliothèque de VOccident : una piccola cosa stupenda che da sola basterebbe a sollevare lo Gide su la volgare schiera e a collocarlo fra i poeti più veramente degni di questo nome. « ...Lorsque après une longue absence, fatigué de sa fantaisie et comme désépris de lui-méme, l'enfant prodigue, du fond de ce de- nùment qu'il cherchait, songe au visage de son pére, à cette chambre point étroite sa mère au-dessus de son lit se penchait, à ce jardin abreuvé d'eau courante, mais clos et d'où toujours il désirait s'eva- der, à l'econome frère aìné qu'il n'a jamais aimé, mais qui détient encore dans l'attente cette part de ses biens à lui que, prodigue, il n'a pas pu dilapider l'enfant s'avoue qu'il n'a pas trouvé le bonheur, ni méme pu prolonger bien longtemps cette ivresse qu'à défaut de bonheur il cherchait... » Egli è ormai stanco di errori e gravato dal peso di cento morte speranze. Dove andare? che fare?... Tutto gli appare ormai vano e senza incanto. Ed egli cede alfine al tacito richiamo della casa patema e del cimitero dove dormono i suoi avi. E ritoma. Il padre apre le braccia all'atteso; la madre gli ac<:a- rezza la nuca chinata; il fratello maggiore lo ammonisce con affet- tuosa severità. E, la sera, il figliol prodigo ritrova la sua camera immutata e si addormenta, un po' triste e un po' lieto, nel suo letto d'una volta. Nella gran pace della vecchia casa il riposo è dolce e buono... Ma c'è qualcuno che non dorme, che non può dormire, e che non ha bisogno di dormire per sognare. È un giovinetto a cui il reduce, durante il pranzo non ha quasi posto mente, e in cui domani

(1) A. SxjAKka, Chronique de Caerdal, in Nouvelle revue fran^aise, gen- naio 1913.

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potrà riconoscere a stento il fratello minore, tanto cresciuto durante la sua assenza. Egli, l'adolescente insonne, bruciato da uno sma- nioso bisogno di libertà, tutto solo nell'ombra e nel silenzio notturno, protende avidamente il cuore agli arcani mondi e all'arcana felicità del suo sogno, e si prepara e si arma per il grande viaggio. Il do- mani, la madre parla di lui al fìgliol prodigo : « Il est tout pareli à ce que tu étais en partant... Il lit trop... Il est souvent juché sur le plus haut point du jardin, d'où Fon peut voir le pays, tu sais, par- dessus les murs... Parie-lui... De toi, je sais qu'il écoutera bien des choses... » E la sera, infatti, i due fratelli si attardano a vegliare in- sieme; e l'uno il prodigo, il deluso mostra all'altro tutte le sue ferite, tutta la sua miseria per distorglierlo dai sogni ambiziosi e fallaci. Ma il giovinetto non lo ascolta, non lo può ascoltare. « Sais- tu pourquoi je t'attendais ce soir? C'est avant la fin de la nuit que je pars. Gette nuit; cette nuit, dès qu'elle pàlira... J'ai ceint mes reins, j'ai gardé cette nuit mes sandales... » Egli è fermamente, follemente risoluto. E il prodigo non dice più nulla per trattenerlo : è neces- sario, è bello che egli vada... « A moi de t'admirer; à toi de m'ou- blier... Qu'emportes-tu? Tu sais bien que, puìné, je n'ai point part à l'héritage. Je pars sans rien. C'est mieux. Que regardes-tu donc à la croisée? Le jardin sont couchés nos parents morts. Mon frère... (et l'enfant, qui s'est leve du lit, pose autour du cou du prodigue son bras qui se fait aussi caressant que sa voix) pars avec moi! Laisse-moi! laisse-moi; je reste à consoler notre mère; sans moi tu seras plus vaill-ant. Il est temps à présent; le ciel pàlit; pars sans bruit. Allons! embrasse-moi, mon jeune frère; tu emportes tous mes espoirs. Sois fort; oublie-nous; oublie-moi. Puisses-tu ne pas revenir... Descends doucement. Je tiens la lampe. Ah! donne- moi du moins la main jusqu'à la porte. Prends garde aux marches du perron... » È proprio necessario, davanti a un'opera di tanta e così alta bellezza, chiedersi che cosa abbia voluto dire l'autore; e se, e fino a qual punto, sotto la finzione drammatica, egli si sia adope- rato ad allegorizzare i casi della sua vita spirituale? andare inda- gando per quanta parte Venfant prodigue possa essere lo Gide stesso e per quanta parte no, e da qual momento la madre cessi d'essere la madre per diventare la chiesa cattolica o protestante, e così via?... Lo Gide, per sua fortuna, non è ancora un « classico » da comentare per le scuole; e questa sua opera, meno d'ogni altra forse, domanda, per essere profondamente sentita e goduta, un lavorio di esegesi mi- nuta. Basterà per ciò notare quel che ad ogni lettore anche il meno curioso di scoprire, sotto l'artista, l'uomo non può non appa- rire evidentissimo: e cioè che l'inquieto pensiero del nostro poeta, facendo un ritorno su se stesso, ha cercato di accostarsi alla fede e alla morale tradizionali, sperando di trovarvi finalmente il riposo d'una certezza assoluta. Questo riposo il prodigo Gide non lo troverà neppure nella casa paterna; ma vi troverà l'ispirazione per l'opera sua più perfetta, per il suo capolavoro.

La Porte étroite (1909) è, infatti, un romanzo essenzialmente cri- stiano: l'eroismo che la illumina tutta è un eroismo di pura obbe- dienza e di puro sacrificio, secondo la legge morale evangelica. Su la sua prima pagina si potrebbe inscrivere il detto di Bossuet : « Mettez vos joies plus haut que les créatures ». Essa è giusto il rovescio del- Vlmmoraliste; e, come Vlmmoraliste era (ho dimenticato di dirlo.

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ma ognuno avrà potuto rilevarlo da sèj una reincarnazione dello spirito di Nourritures terrestres; così essa la Porte étroite è il frutto d'una nuova e più perfetta elaborazione artistica degli elementi di pensiero e di sentimento contenuti nel Voyage d'Urien.

« Sforzatevi di entrare per la porta stretta, però che la porta larga e la strada spaziosa conducono alla perdizione... ». Nella pic- cola cappella protestante del Havre, il pastore legge il sacro testo al consueto uditorio domenicale. V'è nella folla un pallido adolescente, grave, casto, cresciuto da una madre austeramente religiosa, che ascolta con tutta lanima le parole divine. Egli, Jerome, fìssa con occhi di sogno il viso soave di Alissa, la cugina sua, l'amica sua amata, cui un recente dolore ha donato una bellezza più profonda e più luminosa : una mistica bellezza di Beatrice. E, a poco a poco, si sente accendere tutto da un infinito ardore di bene. Mentre il pa- store parla, egli imagina, vede davanti a la porta stretta, per cui deve sforzarsi di passare, spogliandosi d'ogni sentimento egoistico; per cui, sì, passerà, soffrendo qualsiasi pena, ma pregustando, in- sieme, un po' della felicità celeste. E, di da tutte le tristezze e da tutti i tormenti, vede un paese di luce infinita, in cui egli e Alissa s'avanzano tenendosi per mano, e guardando verso uno stesso punto... « Stretta è la porta e angusta la strada che conducono alla Vita; e son pochi coloro che le trovano » finisce il pastore. E Jerome risponde fra sé: Io le troverò. E si allontana, fugge quasi dalla chiesa, senza cercar di parlare ad Alissa, volendo mettersi sùbito alla prova e confermare con un primo sacrificio la sua risoluzione. Sacri- fìcio che non ha nulla di eroico, certo; ma il ragazzo che ha saputo compierlo, cercherà domani e sempre, sopra tutte le vittorie, la vit- toria su se stesso, porrà più aito che la felicità lo sforzo per rag- giungerla, sarà il cavaliere doloroso della più ardua e più aspra virtù. Del resto, la figura eroica del romanzo non è quella di Jerome; bensì quella di Alissa. Alissa è un' « angeletta » cui una invincibile nostalgia del cielo chiama e attira verso l'alto, e un amore passionato abbatte e lega su la terra. Mi pare dice essa un giorno a Je- rome — che io dovrò restar separata da te tanto tempo, tanto tempo tutta la vita e che tutta la vita dovremo fare entrambi un grande sforzo per ricongiungerci... Il romanzo di André Gide é la storia di questo sforzo: vano e sublime sforzo di due povere anime che tendono l'una all'altra spasimosamente, e non possono unirsi perché le divide un tremendo destino di perfezione ultraterrena. Me- glio che un romanzo è un poema di amore e di dolore divinamente assurdi. Di dall'amore, più in alto che l'amore, Alissa ha intra- visto una felicità senza fine e senz'ombra, una fusione totale delle anime nella gloria etema. A questa felicità, a questa gloria ella deve guidare Jerome : é la missione a cui Dio l'ha destinata e a cui ella dovrà tutto sacrificare, e, prima di tutto, gli effimeri contentamenti di quaggiù, che potrebbero addormentare ogni volontà d'altezza nello spirito del suo fratello tanto arpato... « Oh! pouvoir entraìner à la fois nos deux àmes, à force d'amour, au delà de l'amour! » Di ri- nunzia in rinunzia, ella giunge, infatti, al sacrificio supremo: ella allontana da Jerome; ella sarà come una morta per lui finché duri il periodo di yigilia e di prova che si chiama vita. La povera anima si dibatte, così, fra la terra e il cielo, fra il suo amore sempre più ardente e la sua fede sempre più imperiosa, per pochi lunghi anni

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di tormento senza nome. Bisogna leggere le brevi pagine del suo giornale (degno in tutto d'essere affratellato a quello, sublime, di una Alissa realmente vissuta : Eugénie de Guérin) per sentire tutta la tragica bellezza di questo tormento: tormento d'una fragile donna amante che un immenso anelito d'ascesa, un'ebbra ricerca d'assoluto, strappa all'amore, divide dall'essere a cui pur si sente disperata- mente avvinta. « ...Jole, joie, joie, pleurs de joie » dice la penul- tima (pagina di codesto giornale. «Au-dessus de la joie humaine et par delà tonte douler, oui, je pressens cette joie radieuse». Alissa s' sente vicina all'ora della liberazione, presso alla soglia della felicità e della Vita. Il suo corpo s'è consumato, a poco a poco, nella fiamma della sua santa follia. E la sua anima canta e s'inabissa, come la lodoletta, nel cielo più profondo e più terso. Ma l'ultima pagina è triste, della più greve, della più povera tristezza umana, e si chiude con una parola di desolazione, quasi con un singhiozzo che irrompa dal cuore gonfio di lagrime e ricada sul cuore, silen- ziosamente: «... Ce matin, une crise de vomissements m'a brisée. Je me suis sentie, sitòt après, si faible qu'un instant j'ai pu espérer de mourir. Mais non; il s'est d'abord fait dans tout mon étre un grand calme; puis une angoisse s'est emparée de moi, un frisson de la chair et de l'àme; c'etait comme V éclaircissement brusque et dé- senchanté de ma vie. Il me semblait que je voyais pour la première fois les murs atrocement nus de ma chambre. J'ai pris peur. A pré- sent encore j'écris pour me rassurer, me calmer. 0 Seigneur! puisse-je atteindre jusqu'au bout sans blasphème!... J'ai pu me lever encore. Je me suis mise à genoux comme un enfant... Je voudrais mourir à présent, vite, avant d'avoir compris de nouveau que je suis seule ». Così muore Alissa. Jerome resta solo su la terra a ricordare e a sof- frire. Egli sente ora la vanità del sacrifìcio, l'inaccessibilità della cima verso cui l'anima sua, dietro quella di Alissa, ha levato il folle volo. Poi che il gran sogno è caduto, la sua sopravvivenza è ben più triste d'una morte.

Libro soave! libro così caro « che si vorrebbe non parlarne, ed anzi negare di averlo letto per conservarlo più vicino a » (1). Ed io ne parlerò il meno possibile, anche perchè con una sola parola potrò dire l'impressione che ne ho ricevuto. Questa parola, troppo e troppo spesso male usata nella critica letteraria, è: musica. André Gide ha creato una semplice e grande musica che c'innalza nella più pura luce e ci penetra d'una commozione soave e lacerante. Non una fiorettatura elegante; non un effetto ricercato; nessuna complica- zione sapiente; nessuna grazia esteriore. Questa musica ha un solo fascino : quello che le deriva dalla profondità e dalla ricchezza del sentimento che la satura e l'anima tutta. Ci sono pagine di così alto volo ideale e, insieme, di così calda umanità che fanno pensare a Cesar Franck... Ma io amo, sopra tutte, quelle che narrano e can- tano l'ultimo incontro degli amanti nel giardino dei crisantemi, sotto il cielo trascolorante e tra l'ombre sempre più cupe della sera autun- nale: pagine del più ardente e del più doloroso Chopin; pagine d'un romanticismo così schietto e puro intendo : deterso da ogni vizia- tura sentimentale e letteraria che non esiterei a dirle classiche, se non temessi con queste formule abusate di oscurare anzi che chia-

(1) J. Riviere, articolo citato.

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rire il mio pensiero. Lo Gide ha dato qui la misura delle sue mirabili facoltà artistiche. Egli ha qui realizzato il sogno giovanile dell'opera unica, formata di così alta e pura poesia da toccare i confini della divina musica.

Dopo la Porte étroite André Gide non ha pubblicato che Isa- belle (1911), un tenue romanzetto che sembra imaginato e composto in un momento d'indolente benessere e, direi quasi, di dolci vacanze spirituali. « Vous permettrez que je vous parie beaucoup de moi » avverte il protagonista, cominciando il suo racconto; e noi ci atten- diamo, da quell'implacato « eautontimorumenos » che sappiamo es- sere lo Gide, qualche nuova larvata confessione di affanni e d'in-, quietudini sue proprie. Troviamo, invece, un rifacimento delizioso della novella popolare « le héros tombe amoureux du seul por- trait de la princesse ». Troviamo descrizioni di paese e d'interni d'una verità profondamente poetica, figure e scene disegnate e colorite con sentimento sicuro e con mano leggera... Ma nulla di quanto ci aspet- tavamo. Che pensare dunque di questa IsabelW Come qualificarla? semplice svago d'artista, o indice d'un nuovo orientamento di co- scienza?.^ Per il momento io credo sia meglio leggerla, goderne la bellezza delicatissima, ma non pensarne nulla. Le opere venture ci diranno se lo Gide sia sempre lo stesso d'una volta, o s'egli non sia riuscito a rompere il cerchio della sua tormentata solitudine e a mettersi per nuovi cammini.

Diego Valeri.

QUANDO ! LUMI SONO SPENTI

SCENE

PERSONAGGI.

Erik Wendt, scienziato, professore di Gabriel. storia naturale (50 anni). Erland.

Maria, sua moglie (30 anni). Maud, moglie di Gabriel.

Harry Bille, scapolo (35 anni). Sallv, moglie di Erland.

Stokholm. Tempo nostro. Inverno. Sera.

La scena rappresenta il salone dei Wendt. Elegante; arredato con gusto sobrio, un po' severo. Nel fondo due grandi porte scorrevoli, aperte sulla bi- blioteca.

A destra una piccola tavola da tè, apparecchiata davanti al camino ac- ceso. Poltrone e seggiole attorno. A destra della chéminée una grande finestra con tende pesanti.

Altre porte che danno sulle stanze del professore e su quelle della signora Quella verso il fondo, la comune; al muro un armadio con dei bibelots. Luce elettrica nel lampadario, nelle piccole lampade, sulle tavole, sulla chéminée, ecc.

{Maria serve il tè. Conversazione a mezza voce fra gli ospiti. Erik Wendt, con Erland e Gabriel vengono dalla biblioteca, fU' mando. Si fermano, parlando, verso il fondo a sinistra).

Harry Bille {dietro la poltrona di Maud) Ma signora! È vero che non l'ha capita? Ed è la cosa la più semplice del mondo, via!

Maud {ride. Si volta un poco e parla verso Bille) Può darsi! Ma io vorrei imprimerla bene nella mente, sa! Siccome ha detto che è una regola per vivere! Ebbene! Di nuovo! {si mette dritta, aspettando, col ventaglio chiuso in mano)

Harry Bille {mettendo con una smorfia la caramella alVocchio. Parla con forza, come se facesse una conferenza) Le leggi son fatte per essere violate, i contratti per essere rotti, i principi per essere sviati! Questo è il mio principio, e da esso io non mi svio mai!

Maria {porgendo una tazza di a Maud sorride) Va bene! Ma, mantenendo il suo principio, lei svia proprio dal principio che sostiene.

Sally {spaventata) Dio mio, che labirinto!

Maud {colle mani alle tempie) Ah! Mi gira la testa!

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 371

Habry Dille {le stende la mano) Prego! Si appoggi a me! [Maud gli un colpettino col ventaglio. Harfy ride) Sì! Ha ragionel Sembra complicato; ma quel che ho detto, è la mia opinione inal- terabile.

Maria [sempre alla tavola da tè. Parla con voce calma e profonda) Allora deve spiegarlo un po' più chiaro, credo.

Maud {impaziente) Macché! Tu sei sempre tanto pedante! L'inte- ressante è proprio quello che non si capisce chiaramente! {guar- dando di traverso Bilie) Ma che lingua trascurata adopera lei, però, parlando di leggi e di tutta quella roba! Una donna può dirsi fortunata di non essere sua moglie!

Harry Bille {con noncuranza) Le stesse parole precise mi disse un'altra bella giovane signora, qualche giorno fa. E, l'assicuro, questo mi ha tentato di chiederle la mano.

Maud Bravo! Bene! Lo ha respinto la bella giovane signora?

Harry Bille [allegro] No; aspetto un'occasione favorevole!

Maud {ride) Ah, ma per avere un no non ci vuole un'occasione fa- vorevole, mi pare!

Harry Bille {con uno sguardo severo) La prego d'intendermi in modo giusto, se anche male, {a Maria, che gli offre del tè) Mille grazie! Non ne prendo : non dormirei tutta la notte.

Sally Sta sveglio la notte, lei? Non me lo posso immaginare af- fatto, {ride. Anche Maud ride)

Harry Bille {a Sally; con- un leggero inchino) Sissignora! con permesso. Ma non pretendo mica, che lei se lo debba immagi- nare; non oso dire che sia uno spettacolo divertente. {Sally e Maud ridono ancora)

Maria {verso Erland, con una tazza di tè) Perchè ridete? Proba- bilmente, il signor Bille non passa le notti insonni solo per suo piacere.

Harry Bille {con impeto) No! Non è vero, signora Maria! {sbada- tamente) Anche lei sta sveglia la notte?

Maria {di nuovo a destra) Sicuro. È una cosa che succede quasi a tutti, vero? Un male tanto ordinario.

Harry Bille Fi donc! Non esiste niente di più infame che le cose ordinarie! Toccano il ridicolo.

Maud {sorride) Badi! Ha visto che è già sulla via!

Erik Wendt {ad alta voce ad Erland con cui ha chiacchierato som,- messamente) Ma no! Non è possibile!

Tutti gli altri Ma come non è possibile?

Erik Wendt Scusate t-anto! Parlavamo fra di noi.

Maud {curiosa) Segreti? '

Erik Wendt No! Purtroppo, non è un segreto.

Sally e Maud {curiose, si piegarlo in avanti) Racconti! Racconti!

Erik Wendt {esitante) Che aria affamata di scandalo avete, care signore! {a Erland e Gabriel) Guardatele un po'!

Maud {con un accento lamentevole) Ebbene! C'è da maravigliarsi, forse? Da qualche tempo non succede più niente di interessante!

Sally Ah, ma sai! Ora sei un po' ingrata, però! In novembre, se ben ti ricordi, ci fu quell'orribile scandalo della signora...

Maud {alza le spalle, sdegnosamente) In novembre! Ma, cara! da novembre in qua c'è stata un'eternità, via!

372 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

Gabriel {ironicamente) Ah sì! Il tempo vola per chi l'adopera bene! È una verità conosciuta.

Maud [squadra ostilmente suo marito, con una scrollata di Sfalle) No, tutto, difatti, è tanto monotono, che si diventa gialli per tedio.

Harry Bille {galantemente) Lei è sempre raffinata. Il giallo le va a perfezione.

Maud {gli un colpettino col ventaglio. Irrequieta) Se potesse risparmiarmi le sue stupide chiacchiere! Io fremo di curiosità.

Harry Bille Lo vedo! Anche questo le sta bene.

Maud {con un tono di comando) Mi levi questa tazza, per pia- cere! {Harry prende la tazza e la depone sulla tavola da tè)

Sally {acerbamente) Che piacere, se provassero di stare zitti due minuti di seguito! Così il professore riprenderebbe il suo di- scorso.

Erik Wendt {volgendosi a Maud) A lei, dunque, pare che non « succeda » niente in questi tempi? Ah, sì! Dipende da quel che si esige. Io non parlo che per confo mio, sa! Le piccole battaglie, le tragicomedie degli uomini sono come fuori della jnia sfera d'interesse. Io mi salvo nel mio mondo interno e molto di rado getto uno sguardo sopra le mura della fortezza.

Erland M'immagino che è un istinto di conservazione di te stesso che ti costringe ad isolarti così colla tua scienza. Perchè senti in- volontariamente che demolendo le mura delle fortificazioni...

Erik Wendt Forse si!...

Sally Nel linguaggio triviale d'ogni giorno si chiama egoismo.

Maud {nervosa) Ah, ma zitti una volta, tutti! Cosa c'interessa, se il professore è un egoista! Tutti gli uomini lo sono e questa non è una novità.

Erik Wendt {sorridendo a Maud) Egoista? Io sarei?...

Maud {ridendo) Lei! Ah, ma senta un po'! Almeno credevo che conoscesse tanto gli uomini da sapere questo; benché sia dotto e scienziato!

Erik Wendt Egoista! È una parola così antipatica! Penso che oc- corra sceglierne un'altra quando si tratta della scienza.

Maud {inierrompe) Per carità! Usi pure quella che più le piace; soltanto si affretti a raccontare di che cosa parlavano un mo- mento fa.

Erik Wendt Io sarei contento di non parlarne affatto. È uno di quegli « affari » dei quali non mi occupo mai.

Sally Ma guardi! Lei ci vuole ingannare?

Maud {con grande energia) No, no! Ora lei non ci sfugge!

Erik Wendt È una storia così incresciosa. Ed è solo perchè tocca ad un amico e collega, che io...

Maud Oh Dio! Come sono curiosa! Sto sulle spine!

Sally {con serietà) Ora bisogna che parli!

Erik Wendt {esitante, con dispiacere) Parlavamo dell'alTare della famiglia Gullner, ecco!

Maud e Sally L'affare Gullner?

Sally {subito indifferente) Ah, sì, capisco!

Maud {sdegnosamente) Pf! La piccola Irene! {delusa) Quello! È una storia vecchia come la straxJa!

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 373

Erik Wendt [deluso] Dunque la conoscete già, questa storiaccia?

Maud (ridendo) Già?! Se la conosciamo!? Si capisce che lei non sente vede niente di quello che succede al di fuori delle sue « mura di fortezza » come le chiama. Questa storia Iddio e tutto il mondo la conoscono da un anno; tutti^ capisce, tranne il ma- rito, naturalmente cieco e sordo come lo sarebbe... sì, come lo sa- rebbe stato lei in un caso simile! {ride. Maria, che sta seduta più indietro, si alza di scatto ma riprende subito il suo posto. Piglia un fiore da un vaso vicino e lo sfoglia lentamente)

Erik Wendt [a Maud) E ora lei ne ride? Lei come donna dovrebbe almeno compiangerla, difenderla, se non per altra ragione, per solidarietà di... sesso!

Maud [facendosi seria) Già, già! Non ho riso per malvagità! Ma mi pare che quando una donna maneggia così male i suoi affari, ne debba anche subire le conseguenze, [si adagia meglio sulla pol- trona) Ma, Irene, poveretta, non ha mai avuto un cervello molto forte.

Harry Bille Dio mio! Se ci fosse stato almeno un po' di stile, un po' di chic! Se fosse questione di qualche piccolo fallo elegante, un capriccio femminile! Cosa facile ad accomodare! Così la cosa avrebbe avuto del bouquet, un profumo piccante! Ma, per ca- rità! « Una grande passione! » Non so quasi niente di più volgare, di più fuori moda delle così dette « grandi passioni ». E fini- scono sempre con qualche capitombolo, che mette in ridicolo l'uno o l'altro degli immischiati. 0 cosa ne dicono queste signore?

Maud [ridendo) Sì, sì! Le do perfettamente ragione. E come sa- rebbe terribilmente faticoso!

Gabriel Sì! Troppo almeno per una natura così indolente come la tua.

Maud [puntigliosa) Ah! non esseme troppo sicuro, tesoro mio!

Erik Wendt [a Harry Bille) Io, per conto mio, non riesco a sco- prire niente di «ridicolo» in questa cosa. E l'unica difesa per una donna, in un'occasione come questa, è, mi pare, precisa- mente il dire che si trattò di una « così detta grande passione » non di un capriccio femminile quale tu lo intendi. La povera si- gnora Gullner non appaiiiene al tipo di donne leggiere, come...

Maud [interrompe ridendo) Come me, voleva dire!

Erik Wendt [che ha camminato su e giù, si arresta di scatto da- vanti a Maud colle mani sulla schiena. Severamente) Sì, signora Maud! Appunto come lei!

Harry Bille [con fatuità a Maud) Non pianga, sa! Io lo prendo come un complimento! [Maud alza le spalle)

Erik Wendt [continua) È non ammetterò mai che il modo giusto di « punire » in questo caso sia di allontanare la così detta colpe- vole dalla casa, dai bambini. Io mi dico, che la signora Gullner è stata una buona madre e...

Maud [con sarcasmo) E una moglie fedele?...

Erik Wendt [deciso) Sì! Se non suonasse come un paradosso, sarei tentato di dire proprio questo! Una moglie fedele.

Maud [ride) Ah, ah! È Erik Wendt che parla? Non avrei mai so- gnato di vederlo presentarsi come difensore dell'amore libero.

Erik Wendt Scusi! Ma lei sbaglia del tutto.

k

374 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

Sally {inquieta) Zitta, Maud, ti prego. Amerei tanto conoscere il

parere del professore su una materia che non tocca la sua sfora

speciale. Erland Erik, un po' ironico) Ma non credi, però, che occorra

una certa esperienza per giudicare una questione così delicata?

Tu, hai detto, non ti occupi mai di...

{Maria si è alzata. Finge di mettere insieme qualche cosa stilla tavola da tè, mentre osserva suo marito).

Erik Wendt {a Erland) Non giudico mica. Io guardo soltanto, da lontano, tutto oggettivamente, e solo dal punto di vista umano. L'adulterio...

Harry Bille {interrompe vivamente) Fi! Fi! È quasi la parola più abominevole ch'io conosca! E se n'è abusato tanto negli ultimi tempi! È diventata troppo comune : penserò io a trovare una espressione nuova, più simpatica...

Maud {con ironia) Per essere adoperata nella vita privata, da lei, 0 per uso comune nella lingua parlata?

Sally Non possono dunque lasciar parlare il professore?

Erik Wendt Io rinunzio col più grande piacere.

Sally Lei forse sì, ma noi no!

Erik Wendt Bene! Volevo dire che l'adulterio può esser guardato da tante parti.

Maud {vivamente) Due, per quanto sappia io! Dalla parte del ma- rito e da quella della moglie.

Harry Bille Egregia signora, lei dimentica la terza e la più im- portante : quella dell'amante! {Maud gli volta le spalle)

Erik Wendt {ha finto di non sentire) Come ho già detto, può es- sere giudicato in diversi modi! {indifferente) Bene, lo confesso; io non conosco le donne, {sorridente) Non è la « mia sfera » come disse la signora Sally. Non ho mai avuto tempo interesse a studiarle da vicino.

Harry Bille No, no! Ognuno ha i suoi gusti. Tu preferisci le ra- nocchie.

Erik Wendt {continua tranquillo) Io, dunque, non sono un perito in questioni erotiche. Ma arrivo perfino a sostenere che tutto ciò che accade può essere spiegato e, ad un certo grado, difeso, e perciò, nei più dei casi, perdonato.

Harry Bille Ma no, sai, vai troppo in là! Questa è la leggerezza nuda, via!

Erik Wendt {finge di non sentire) Semplicemente perchè nella vita si ha da lavorare colla materia la più imperfetta, la più ricca di possibilità e visibilmente la più inconseguente che esista, cioè l'uomo stesso, e le sue relazioni con gli altri della stessa specie.

Harry Bille {interrornpe) Io! Io! Va bene, va bene, ma scusi! Un po' di differenza fra uomo ed uomo c'è! Io non sono un demo- cratico!

Erik Wendt {continua tranquillamente) La natura è governata ovunque da leggi le più severe, le più logiche. Più l'organismo ò perfetto, più le leggi sono combinate. Ma qualche volta pare nel- l'uomo come se un anello della catena causale manchi del tutto. Non hanno osservato come spesso succede che si dica di una per- sona : « Ed egli ha potuto fare questo? » Oppure : « Essa ha po- tuto agire così?

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 375

Harry Bille {con energia) Sì, sì, per bacco! È veramente così!

Erik Wendt Guardandolo superficialmente, un tale atto pare tutto distaccato, inconseguente, direi pauroso. Ma se si penetra meglio si scopre sempre in fondo qualche causa seria, qualche spiegazione logica; e dappertutto dove c'è una spiegazione, c'è il perdono! {Harry Bille piega la testa come ascoltando una pre- ghiera) C'è un vecchio detto francese, ricordano: Tout com- prendre, c'est tout jmrdonner!

Harry Bille Sciocchezze! Pare up proverbio fatto dallo stesso Dio, in una sera di domenica! No, no, io invece rammento un'altra sentenza di un autore francese; a dire il vero non ricordo quale: Cest Vennui qui fait le crime, o qualche cosa di simile.

Erik Wendt {lo guarda di traverso) Tu sei splendido, davvero!

Harry Bille {fatuo) Ah, sì! Ma quella massima mi pare anche una specie di scusa o di spiegazione, o come tu vuoi!

Erik Wendt {come parlando a se stesso) La vita c'insegna anche un'altra cosa. Forse la piìi importante di tutte.

Maud, Sally, Harry Sarebbe?

Erik Wendt {quasi solennemente) La pietà!

Harry Bille {sobbalza) Diamine! Dio me ne scampi!

Erik Wendt {sempre calmo) Ah sì, è naturale! Ma cogli anni si vede tutto in altro modo! Perciò non è necessario di amare molto l'umanità. Io non lo faccio, lo confesso francamente! 0 di occu- parsene in un grado supremo. Neppure questo ho mai fatto. Non ho mai permesso alla vita agli uomini di avvicinarsi troppo a me; forse per egoismo, come ha detto la signora. Io lo chiamo prudenza! Chi vuol raggiungere uno scopo non deve avere le mani legate. Ma col tempo si arriva a sentire pietà degli uomini; così oggettivamente nel senso generalmente umano, perchè, poveretti, soffrono e combattono tanto e con stessi e con gli altri. I più sono così deboli e così imperfetti!

Harry Bille {più attento) Sì, sì, può darsi; ma esistono però delle eccezioni, grazie al cielo,

Erik Wendt {continua senza badargli) Perchè negare loro la no- stra compassione? E più si riconosce la loro imperfezione più si trovano delle circostanze attenuanti ai loro errori.

Harry Bille {con serietà) Senti, ti alzi presto la mattina per stu- diare questa roba? Conosci molto bene i peccati e i peccatori di questo mondo!

Erik Wendt {sorridente) Tutt'altro! I miei pensieri di solito pren- dono un'altra direzione! Ma, non so; parlando dei Gullner, il problema mi si è presentato alla mente. Io andavo spesso da loro prima di sposarmi. Oggi ho veduto la piccola faccia tormen- tata, logorata della signora : mi fa proprio pena : son certo che ella ha sofferto con lui. La conosco!

Maud {con vivacità) Sì, sì, può darsi, ma mi pare che, in tutti i casi, avrebbe dovuto...

Erik Wendt {interrompe, come fra sé) Ma... è vero; sarebbe stato meglio che ella avesse avuto il coraggio di raccontare tutto al marito.

Harry, Maud, Sally, Gabriel {ad una voce) Che gli era stata in- fedele? .

Erik Wendt {con calma) Sì! {tutti ridono)

376 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

Harry Bille {ridendo) No, sai, no, caro! Tu sorpassi te stesso!

Erik Wendt {sempre calmo) Allora lui avrebbe dovuto perdo- narle! Ecco un'azione grande, da uomo!

Harry Bille {ridendo) Questa forse, sì! Ma quella assolutamente non è da donna.

Maud Ah no, scusi! Un po' di ragione si deve però conservare, dopo tutto.

Gabriel {aspro) Sì, tu non hai da lagnarti. Non te ne manca!

Erik Wendt Non si vive più n^l medioevo, vero? Oggidì un marito non trascina per i capelli o chiude in un muro la moglie che lo tradisce.

Harry Bille No, hai ragione! Ci sono dei mezzi più moderni.

Erik Wendt {sempre calmo) È dovere del marito di ascoltare la moglie, di sentirla difendersi, di ricondurla alla via giusta. Da un uomo moderno si esige comprensione e riguardo. Che bell'occa- sione per un uomo, questa, di dimostrare alla donna la sua su- periorità!

{Harry, Gabriel ed Erland ridono).

Harry Bille Ma sei proprio carino, tu! Proprio troppo carino! Scusa se te lo dico francamente. Parli come il cieco dei colori.

Erik Wendt Cosa vuoi dire?

Harry Bille {con solennità) E tu credi, che un uomo innamorato, che ama e che si vede offeso nei suoi più sacri sentimenti agisca così stupidamente come tu vai fantasticando? Vorrei vederti, io! Un marito geloso! Troppo .buffo!

Erik Wendt {con superiorità; le mani dietro il dorso) La gelosia appartiene ai popoli incolti, che sanno esprimersi solo col col- tello.

Harry 'Bille Signori, hanno sentito? La coltura e la gelosia non andrebbero bene insieme! Cosa ne dicono queste signore?

{Maud alza le spalle senza rispondere). ^

Sally {indifferente) Non so! Non ho nessunissima esperienza.

Harry Bille {con fermezza) Ma io ne ho, invece! Mi considero anche quasi troppo còlto, e non conosco un uomo più geloso di me escludendo Otello, poveretto, si capisce, {con superiori^, a Erik Wendt) No, no, sai; ci vuol altro, ragazzo mio; ci vuol altro, per parlare di...

Erik Wendt {con autorità) Infatti; vorresti servirmi da maestro per insegnarmi la natura e l'importanza dell'amore? {ride) Del resto mi pare che abbiamo speso già troppe parole su questo argomento! La colpa è di quella povera signora Gullner. Ma, in verità, si tanta importanza, in questo piccolo mondo, a quello che gli uomini chiamano l'amore, che fa rabbia! Eccita lo spi- rito di contraddizione l'amore! Nei tempi passati veniva sim- boleggiato con la figurina di un monellaccio, degno spesso di sca- paccioni. Ora pare che sia cresciuto, che sia diventato un de- mone, gigantesco, enorme, armato di una spada fiammeggiante. Io invece lo rassomiglio al bambino che messo su una sedia alta, davanti al tavolo, s'immagina d'essere già uomo fatto. E se gli uomini volessero imparare una volta per sempre a giudicare le" cose nel loro giusto valore, basterebbe lo rimettessero sul pavi-

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 377

mento per fargli riconoscere la sua piccolezza, [con enfasi) L'a- more! Quale uomo serio può spendere il suo tempo prezioso a giocare con lui, quando esistono ancora tanti enigmi ben più profondi da sciogliere? {fa un gesto sdegnoso) Che se ne occupino le donne!...

Ha^ry BiLLE {fìngendosi viortificato) Scusi; forse è un vecchio pre- giudizio, ma... io ho un ricordo confuso che sia meglio essere in due... a occuparsene!

Erik Wendt {^indica Harry col dito) Sono proprio i galantuomini simili a te, che ingrandiscono la figura di quel piccolo sciocco! Egli finirà col credere che lui solo deve governare il mondo. E questo appunto è l'errore...

Maud Chi dunque deve farlo, prego? .

Ei^iK Wendt Le potenze senza le quali il mondo sarebbe caos: l'intelligenza e la dominazione virile.

Harry Bille [con un fischio sommesso) Bravo! Binavo!

Erik Wendt E se un uomo, di idee elevate, con intelligenza e si- curezza di sé, viene offeso nei suoi più sacri sentimenti, come tu li chiami, ha perfettamente ragione di riconoscerlo, con forza, con giustizia; si tratta della sua dignità di uomo, del suo nome! Ma di perdere l'equilibrio, di dare in preda al pubblico la sua vita intima e rovinare la sua quieta vita domestica solo perchè...

Harry Bille {gli tocca cordialmente la spalla) No no, poverino, tu ti occupi troppo, credo, delle tue ranocchie e dei tuoi pesci, caro amico! Ho paura che ciò ti abbia guastato il sangue.

Erik Wendt {scrollando la testa) Gli uomini hanno la vista così corta, le leggi sono così rozze! È una verità tanto vecchia che ci si vergogna di ripeterla; ma bisogna seguire quelli che salgono le alture; lassù dove si può guardare l'umanità con lo sguardo libero, vasto, magnanimo!

Harry Bille {con finta gravità) Tu parli in un modo proprio molto, molto bello, ma, scusa se io sono indiscreto : Hai sempre avuto queste opinioni?

Erik Wendt {tranquillo) Presso a poco, sì!

Harry Bille {con uno sguardo a Maria, che siede silenziosa dietro gli altri) Ah! Bene! Allora compiango!

Erik Wendt Tutt'altro! Dovresti congratularti!

Harry Bille {a Maud) Mi sento sollevato come se assistessi ad una conferenza della Federazione.

Sally H professore è idealista.

Harry Bille Dio sa cos'è. Ma mi pare una cosa tanto semplice cha un uomo provi dolore e dispetto nel vedersi tirato pel naso da una donna! {con una smorfia) Ne so qualche cosa anch'io, sa!

Maud e Sally {curiose) Anche lei?

Harry Bille {con dignità) Sì, proprio io! 0 credono che si debba essere per forza padre e capo di famiglia per essere tradito da una donna? Succede a tutti, anche al migliore degli uomini; suc- cede tutti i giorni ed è la cosa più fatale e più ordinaria del mondo.

Maud {con ironia) Povero ragazzo! Che vita travagliata deve es- sere la sua!

Harry Bille Che intende dire con questo?

25 VoL CLXVn. Serie V 1* ottobre 1913.

378 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

Maud Ma niente, al solito! {si alza) Che direste se si facesse una partita di bridge? Abbiamo speso tanto tempo ragionando delle cose dal « punto di vista oggettivo e generalmente umano » come dice il professore, che sarebbe proprio un sollievo toccare qualche cosa di reale.

Gabriel Maud, cara, credo che sarebbe più opportuno togliere l'in- comodo alla gentile padrona di casa. La signora Maria ha l'aria stanca.

Maria {che è stata sempre seduta senza -prendere parte alla con- versazione, si alza) Ma no, ma no! Se desiderano faccio subito preparare una tavola da gioco.

Maud {a Maria) Ora soltanto m'accorgo che non sentivo la tua voce da tanto tempo.

Maria {con un lieve sorriso) Ho ascoltato.

Sally {indica Erland che sta sdraiato in una poltrona con le mani incrociate sul petto) No, cara, sarà meglio che andiamo. Erland si è già quasi addormentato.

Erland Ma niente! Sto digerendo le savie parole del professore!

Harry Bille Sei sicuro che non sia il pàté de foie gras7

Erland {si alza un po' contrariato) Ebbene; come desideri, cara Sally. Quel che vuole la donna. Iddio lo vuole. Diciamo buona notte, dunque! Buona notte, signora Maria {le prende la m,ano) 0 Dio! {cantarellando) « Che gelida manina! se la lasci riscal- dare » . (le bacia la mano)

Harry Bille Mani fredde : cuore caldo {prende la mano di Maria e la attira in disparte) Che cos'ha stassera, signora Maria? É molto lontana. Sono sicuro che avrà l'insonnia di nuovo que- sta notte. Io sto sempre sveglio, la notte, quando ritorno da casa Sua.

Maria {con un lieve sorriso) Sarà il pàté de foie grasl

Harry Bille {con voce lamentosa) Perchè nessuna donna mi vuol prendere sul serio? {guarda fisso Maria) C'è qualche cosa nella mia fisionomia che non va?

Maria {sorride) Ma no! Niente affatto, {guarda verso Maud) Creda, lei si sbaglia!

Harry Bille {che capisce Vallusione) Com'è crudele! Buona notte, vestale {le bacia la mano)

Maud {abbracciando Maria, con entusiasmo) Buona notte, cara! Che serata deliziosa! Sei pallida ma seducente stassera, tesoro! {sottovoce) Stai poco bene?

Maria {cahma) Grazie, non ho nulla.

Maud 0 Dio! Se fossi tuo marito, io! Come sarei geloso! Ma la tua vita è calma, perfetta! Un marito che non s'interessa d'altro che delle sue ranocchie e dei suoi pesci! Guarda Gabriel, invece! È tanto goloso, sai! {sottovoce) Mi fa una scenaccia solo se volgo gli occhi da una parte che non gli piace. A momenti mi prende la voglia di fuggire.

Maria {sorridendo) Non lo credo! E con chi?

Maud {alzando le spalle) Ah così, con due o tre diversi.

Maria {ride) Poco! Per poterti procurare una vita calma e per- fetta tu pure? Buona sera, Maud! Ci rivedremo!

Maud {ridendo) Ma certo! Lo spero, sebbene tu non abbi nessunis- sima pietà di me! {Maria scuote la testa)

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 379

Maud {al professore Wendt) Buona sera, professore! Proverò a co- minciare a salire le alture!

Erik Wendt {con voce grave) Non c'è mica bisogno! Siamo noi, uomini, che dobbiamo guardare loro donne dall'alto!

Maud {gaiamente) 0 Dio mio! Dall'alto? Niente di più disastroso per noi! {esce dalla comune)

Sally ^ {a Maria) Buona notte, cara! E curati! Hai l'aria stanca. Non credi che un cambiamento d'aria...

Maria Grazie! Ti assicuro che sto abbastanza bene. È questo tempo nebbioso, soltanto, che rende tutto grigio.

Harry Bille {ad Erik Wendt) Sarei tentato, sai, di fare una pic- cola iniezione di nitroglicerina nel tuo sangue di pesce, caro pro- fessore! Mah! Sta pur tranquillo! Non sei ancora morto! E quando meno l'aspetti... (/« un gesto come per dargU un colpo di box) Perchè nessuno sfugge a certi colpi! {gli accenna la porta della comune) Addio,vecchio cerbero! {ride. Si sentono le voci e le risate neW anticamera. Maria sta sulla soglia. Chiacchiera. Saluta. Erik Wendt va verso la tavola da tè. Mangia avidamente due sandwich, poi prende dei giornali e va a mettersi a sedere in una poltrona a sinistra. NeW anticamera silenzio. Maria chiude la porta della comune. Rientra)

Maria {colla mano sul bottone elettrico) Debbo spegnere qualche lampada?

Erik {distratto. Legge) Come ti pare.

Maria {spegne tutte le lampade tranne una sulla tavola a sinistra. Dalla biblioteca arriva una luce fioca, verdastra. Maria si avvi- cina alla tavola da tè. Sembra occupata a fare qualche cosa. Mette a posto le sedie. Poi cammina su e giù. Si ferma d'im- provviso. Guarda attentamente Erik, che legge sempre senza occuparsi di lei. Poi, come per dire qualche cosa) Povero Gabriel!

Erik {continua a leggere. Indifferente) Perchè povero, lui più degli altri? {pausa) Molluschi! A dire il vero non capisco affatto come questa gente sia entrata in casa mia. {alza le spalle) Mah! Anche questa gente dev'esserci!

Maria {H ferma) Ah sì; hai ragione! Non piacciono neppure a me; li sopporto solo per Gabriel. Stassera però dovrebbero pensare a qualche cosa, se pure hanno tempo di pensare sul serio!

Erik A quale cosa alludi?

Maria {sorride) A quello di cui tu parlasti. Deve dar loro da pen- sare, credo.

Erik {sempre leggendo; senza ricordarsi) Che cosa dissi io? Che cosa?

Maria Della... della signora Gullner. Il modo con cui l'hai" difesa contro le loro lingue velenose...

Erik {con indifferenza) Bene,... difesa è dire un po' troppo. Ma è tanto naturale, che il più forte difenda il più debole quando questo viene aggredito, {trae un taccuino di tasca e scrive, a metà rivolto verso Maria) Non vengo a colazione domani, proba- bilmente neppure a pranzo. Ho promesso a quei due professori tedeschi di andare con loro.

Maria {timidamente) Forse desideri invitarli qui a pranzo?

Erik {sempre scrivendo) No! Non vale la pena! Si discorre meglio fra uomini così, alla tavola di un ristorante che alla propria,

380 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

dove la padrona di casa ascolta annoiandosi o facendo domande a sproposito.

Maria {con calma rassegnata) Come vuoi! {va e viene nella stanza. Si ferma di nuovo) Erik!

Erik {che ha aperto un altro giornale) Ebbene? {legge sem-pre)

Maria Io penso a quello che dicesti della signora Gullner, che se...

Erik {scuote con impazienza il giornale. Ride un poco) Ma, strano, come quel piccolo episodio ti ha fatto impressione. Ti assicuro che la sorte di quella signora mi interessa solo fino a un certo punto. Così come si dice: «poveretto» se si vede un monello torcere il collo ad un uccellino, {fa un gesto colla wMno) Si passa!

Maria {scuote la testa) No! Le parole che tu hai pronunziato per difendere la signora Gullner non sono le parole di uno « che passa». Ci si ferma, con tali parole, ci si ferma riflettendo e approfondendole, {con impeto trattenuto) Hai detto che il meglio sarebbe stato, per la donna, di confessare la verità a -suo ma- rito, prima che egli l'avesse saputa da altri.

Erik {guarda un momento Maria fra il maravigliato e Vindiffe- rente) Ma sì! E sostengo la mia opinione malgrado Harry e Ga- briel che la considerano roba da manicomio! È la mia opinione e basta, {legge di nuovo) Ma loro donne sono proprio curiose! Un avvenimento come questo attira il loro interesse come il fatto più importante al mondo! Anche tu che sei una donna tranquilla e sensata...

Maria {interrompe con energia) Ma è veramente la tua opinione?

Erik {quasi offeso) Naturalmente! Tu credi dunque che io parli di cose serie, così, spensieratamente!

Maria {su e giù colle mani intrecciate convulse. Si ferma di scatto davanti ad Erik. Parla con voce cambiata,, quasi dura. Tutta la sua persona rivela il violento tumulto dell'anima sua) Erik! Fammi il piacere! Lascia un momento quel giornale! Ho qualche cosa da dirti.

Erik {con un piccolo riso ironico) Sembra, infatti! Si tratta di qualcuna delle tue piccole amiche? {riprende il giornale) Ma, i loro destini da uccellini m'interessano piuttosto mediocremente, sai. {ricomincia a leggere)

Maria {scuote la testa. Colla stessa voce concitata, ma quasi in tono di comando) No, Erik! Ti prego! Metti via per un momento quel giornale! Ho qualche cosa da dirti!

Erik {getta il giornale sul tavolo) Ma cosa c'è? È dunque una cosa di tanta importanza?

Maria {ansante) Sì!

Erik {indifferente) Ebbene, parla. Sai che sono stanco e che do- mani avrò una giornata faticosa con quei due signori stranieri. {pausa. Maria davanti a lui, ma senza forza di proseguire. Erik picchia colle dita sulla tavola) Dunque?! {si alza a metà) Ma forse puoi aspettare fino a domani.

Maria {colla stessa voce) No! {fa un gesto come per trattenerlo. Erik si butta di nuovo nella poltrona e sbadiglia) No, ora, pro- prio ora ho bisogno di dirlo, {quasi fra sé) C'è qualche cosa che mi spinge a farlo! Tu dicesti... dicesti che... si ha una conside- razione esagerata della potenza dell'amore. Credo che ti sbagli, Erik! L'amore non è un bambino che sta a tavola coi grandi ere-

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 381

dendosi grande! È più grande di tutti, di tutto! È la potenza più importante del mondo. E perciò si deve parlarne con rispetto, anche da quelli che non lo capiscono, anche dai forti, che si cre- dono più forti di lui.

Erik {si volta ad un tratto verso Maria) Io non capisco affatto cosa vuoi dire con tutto questo. Sei ammalata?

Maria {cercando di ritornare calma) No! Non sono ammalata. Ma forse non rifletto a quello che ora sto per fare, {respira profon- damente) Ma, che importa? Sento che deve essere fatto!... Erik! Se tu trovi delle ragioni di esplicazione... di perdono per un'altra donna, io credo che le troveresti anche quando si trattasse... di... me!

Erik {più attento) Non ti capisco.

Maria {davanti a lui; cerca sempre di dominarsi, ma la sua voce risuona dura, angosciosa) Se io,... se io avessi commesso un a delitto » come quello della donna che tu stassera hai difeso...

Erik {si alza, fulminato, col viso stravolto. Rimane un momento immobile, senza poter parlare^ Poi s'avvicina a Maria che in- dietreggia di un passo guardandolo sempre dritto negli occhi. Egli comincia a parlare impetuosamente, forzandosi di domi- nare il suo furore) Tu?!... Vuoi dire che tu!... {scoppia in una risata ironica) Ah, ah, ah! Una scena piena d'effetto e ben reci- tata! Ma solo non ne capisco la ragione! {su e giù, con impeto)

Maria {riynane immobile. Calma, ma con voce forte e intensa che vuole convincere) È vero! Vero! Ti dico la verità!

Erik {le balza davanti: con ira repressa) E se fosse così; se la cosa nefanda a cui tu alludi fosse vera, come potresti rimanere un solo momento nella stessa stanza con me... guardarmi,... par- larmi?...

Maria Perchè ti voglio parlare, Erik! Non so io stessa il perchè,... ma ora... ora!

Erik {con un gesto verso la porta. Parla a denti stretti) Taci! Non una parola di più! Va! Subito! Via!... Credi tu che io, io... voglia, possa... neppure una sola notte albergare in casa mia una donna perduta... una... come te...

Maria {sempre più, calma) Desideri dunque ch'io me ne vada? {si avvia verso la comune) Sì,... me ne vado,... ma credevo...

Erik {la raggiunge, le afferra il polso e la getta lontano. Parla sommessamente, in fretta) Di' che non è vero!

Maria {lo guarda) Ck)me potrò negare quello che è vero? {pausa. Rimangono Vuno in faccia alValtro, guardandosi)

Erik {con voce cupa) Tu!... Tu!... No! Non arrivi a farmelo cre- dere! Una tal cosa! Da te! Da te che ho conosciuto per anni ed anni! {pausa)

Maria {piano, triste) No, Erik, non mi hai conosciuto mai,... mai! {molto piano) Non mi hai neppure osservata,... fino a questa sera...

Erik Come hai il coraggio di dire questo?

Maria {con calma dignitosa) ,..e laggiù, laggiù nelle profondita dell'anima vi è sempre qualche causa logica, incorruttibile del nostro modo di agire. Tu stesso non hai sentito quanto hai detto di vero!

Erik Non ti capisco...

382 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

Maria {con tristezza mite) Sì, hai ragione! Non mi capisci. Perchè non ti sei mai curato di farlo! E ci ho pensato spesso, io, a questa tua indifferenza. In tutti questi lunghi anni hai vissuto accanto a me senza sentire nemmeno un momento il freddo e la povertà che ho sofferto.

Erik {con impeto) Tu? Ed io non ti ho dato tutto quello di cui avevi bisogno?

Maria {con dolcezza) Ah, sì!... Tutto! In senso materiale! Tutto quello che possedevi, che potevi dare! Tutto, fuori della cosa più necessaria! L'amore!

Erik {con ironia) L'amore?

Maria {piano, quasi solenne) Sì! Vam.ore! Tutte le donne, tutte, nel fondo del nostro essere nutriamo un sogno che bisogna rea- lizzare; nel matrimonio o fuori di esso! È una voce che chiama dalle nostre viscere : di tempo in tempo la soffochiamo, ma essa si alza sempre più imperiosa! Ci tira a sé! Ci esige! Se ci troviamo sulla riva di un fiume vorticoso, vertiginoso, viene un momento in cui lo dobbiamo attraversare, per quanto stretto sia il ponte, se la voce misteriosa ci chiama.

Erik {cammdna cornee fuori di su e giù per la stanza. Si ferma bruscamente davanti a Maria. Ironicamente) Ah! Ora non ti mancano, le parole!

Maria {continuando, senza badargli) Un uomo ha il suo lavoro, e, quando gli si tutto, allora la donna che egli ha scelto per com- pagna della sua vita...

Erik {interrompendola con durezza) Ella deve rassegnarsi! Il la- voro dell'uomo va prima di tutto! È il primo, il più sacro dei suoi doveri. La donna, per l'uomo che lavora, non è che un riposo. Voi dovete imparare .finalmente a guardare l'uomo con occhi giusti!

Maria Hai ragione! Noi altre donne dobbiamo sempre imparare a guardare con gli occhi vostri! Nessuno esige, che iioi tentiate di guardare coi nostri! Ma quando l'uomo scaccia la donna dal mondo dove egli si concentra tutto intero, senza darle niente in compenso di quello che ella gli ha dato, che ella sperava da lui; quando essa un giorno si ritrova sola accanto a colui col quale doveva dividere la vita, allora essa comincia a sentire dentro di un vuoto pericoloso.

Erik {sempre con durezza) Se possiede un briciolo di serietà sa- prà riempirlo, questo vuoto; anche lei può lavorare, può fare del bene attorno a sé.

Maria {sembra non ascoltarlo) Anche essa domanda di vivere, prima di morire. E allora, allora stende le braccia verso qualche cosa che le possa arricchire la vita. E per noialtre donne non esiste che una cosa sola! L'amore! E se una donna sostiene il contrario inganna stessa. Nuiraltro che non sia l'amore é un surrogato dell'amore.

Erik Una scusa comodissima per tradire il marito e vivere la vita di menzogna che tu...

Maria No! Non ho mentito! Non ho avuto bisogno di mentire! Ho vissuto la mia vita, in silenzio, come prima, come sempre. Tu non mi hai neppur osservata. Eri troppo occupato di te stesso e del tuo lavoro. E anche vivendo per conto mio non ho continuato

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 383

a darti egualmente tutto ciò che ti davo prima?... ho riempito il modesto posto nella tua esistenza, che prima riempivo. Avevo tanto, ah! tanto di più da darti! Ma tu,... non ne avevi bisogno,... non ne domandavi, e allora {più piano) allora l'ho dato ad un altro! Tu non te ne sei nemmeno accorto. Non ti è mancato nulla, perchè quello che davo ad altri era qualche cosa che tu non ti sei mai curato di possedere!

Erik {con voce cupa) Non riesco a capire! Tu! Tu che ho creduto calma, serena, immacolata come la neve! {con impeto) Ma tu sei eguale a tutte le altre! {le va vicino) Ah! Mi sento così forte, eppure così oltraggiato, quando sto qui guardandoti, piccola e fragile come sei! Potrei schiacciarti! Annientarti! {serra i pugni)

Maria {con grande calma. Lo guarda negli occhi) Fallo! So che ne hai il diritto. Non ho paura!

Erik {fuori di se) Se tu almeno ti gettassi qui davanti a me, piena di pentimento; se tu piangessi, almeno, implorando il mio per- dono, come qualunque donna farebbe. Invece stai lì...

Maria {con calm/i e semplicità) Non si può implorare il perdono di quello di cui non ci si pente.

Erik {a denti stretti) Ed hai anche l'insolenza di dirlo? Tu sorridi anche, spudorata! Osi sorridere!

Maria {tranquilla; con tristezza) Ho sorriso? Non lo so. Pensavo soltanto come siamo diversi, noialtre donne e voi, uomini. Noi donne abbiamo paura, più di tutto, che una rivale ci rubi l'a- nima dell'uomo che amiamo, ci privi della sua parte migliore. Voi uomini diventate inesorabili solo quando credete che un altro abbia posseduto il corpo della donna vostra.

Erik {con impeto) Non ricordare questo! Mi farai commettere qualche cosa che ti farà pentire se ancora non ti sei pentita.

Maria {dolcemente) Perdonami! Ma siccome questa sera andiamo fino in fondo l'uno dell'altra, bisogna...

Erik {sconvolto) Ah sì! Perchè hai insistito a voler parlare? Perchè hai rotto un'armonia che era così perfetta, così...

Maria {sorride) Perfetta?...

Erik Sì, sì, lo so, purtroppo! Nessuna cosa umana è perfetta, ma...

Maria C'era tanta bontà nelle tue parole, quando difendevi la si- gnora Gullner, che mi hai spinto ad aprirti l'anima mia. Non ti avevo mai sentito parlare così.

Erik [con amarezza) È facile essere generoso quando non si tratta del proprio capitale. Se avessi presentito...

Maria {quasi fra se] E credi tu che io presentissi il turbine che doveva irrompere nella mia vita? {piano; con semplicità) Mi ero abituata alla penombra in cui vivevo. Avevo finito con l'imma- ginarmi che il mio crepuscolo fosse la luce del sole, {sorride) Non sapevo! Non la conoscevo, la luce del sole, fino al giorno in cui penetrò realmente nel mio cuore, {fra se) Mi tagliò come una spada, quel raggio; credetti di morire! Non capivo che invece al- lora soltanto cominciavo a vivere.

Erik {traversando agitatissimo la stanza) E questo lo dici a me! A tuo marito!

Maria {come non badando alle parole di lui) Vidi una volta in e Ita montagna una piccola cascata che cadeva giù in una gola stretta e buia. Le roccie la serravano tutt'attomo ed in alto c'erano i

384 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

grandi boschi di abeti. Ma un giorno scoppiò un incendio. Il bosco si torceva e Yumoreggiava come un mare in tempesta; poi finì col raggrinzirsi, abbassarsi, sparire nella cenere. Era bru- ciato fino alle radici. Da quel giorno il sole giunse alla cascata nascosta fra le roccie. E l'acqua morta diventò viva come per incanto. L'amore è come il sole... Trasforma tutto!

Erik Tu ti difendi!

Maria {calma) No! Mi spiego soltanto. E se ti pare una difesa, non è me stessa che difendo, è l'amore! Credi tu che sia sempre un peso facile a portare? {piano; semplicemente) È come se si por- tasse in seno un bambino. Lo si sente sempre. È come se non si osasse fare un movimento per non nuocergli, non pensare un pensiero che gli farebbe del male. un'angoscia piena di fe- licità, e... ma tutto questo solo una donna lo capisce, chi ha por- tato una volta una creatura sua sotto il cuore... Voi, uomini...

Erik {tremante e incerto) Perchè mi dici tutto questo? Perchè non te ne vai? Perchè non te ne sei andata allora?

Maria {senza voce) C'era la mia piccina, allora. Non la potevo la- sciare. E dopo, dopo... era troppo tardi.

Erik Come troppo tardi?

Maria {piano) Sì! Anche lui non c'era più; era morto!

Erik {si ferma bruscamente. Riflette un momento. Esclama con furore) Ah! Capisco! Ora lo so! Fu dunque lui!

Maria {calma; con un gesto di diniego) No! Non fu « lui » {pausa) Tu non l'hai mai conosciuto, mai visto.

Erik {con violenza) Il suo nome! Io voglio sapere il suo nome!

Maria {con dignità serena) Perchè? A che ti servirebbe, gettare il tuo odio sul nome di un morto? Sarebbe un combattere con le ombre. Egli ora non può più farti nulla di male.

Erik {come seguendo il filo dei suoi pensieri) Ed io non l'avrei co- nosciuto? {si ferma) Fai delle conoscenze in istrada, tu? {con du' rezza) Dove, quando ti sei incontrata con lui?

Maria {dopo una pausa) Quell'estate che passai... in alta mon- tagna.

Erik {con amarezza) Ah! Ecco perchè ritornasti di così bene ristabilita, quasi con nuova vita.

Maria {molto piano) Sì, con nuova vita!

Erik {buttandosi su una poltrona. Pausa) Com'è possibile? Maria! Com'è possibile?

Maria Còsi anch'io mi domandavo, una volta! Adesso credo che tutto sia possibile per tutti. Basta incontrare questa possibilità nella forma e nel momento in cui l'anima nostra sta, per così dire, nuda pronta a riceverla. È duro di dirti questo, ma tu come uomo devi capirlo.

Erik Non mi hai mai amato!

Maria {dopo breve pausa) Sì! {Erik ha un brivido) Sì... una volta, molto tempo fa. Mi sentivo così sola, così piccola. Sentivo forte il bisogno di quacuno che mi potesse proteggere, che io potessi guardare con ammirazione; di qualcuno che volesse curarsi un po' di me. In quel tempo ho vissuto nella speranza di poterti dare qualche cosa di me stessa, ma tu non hai preso mai inte- resse al mio io. L'hai accettato come in distrazione, col pensiero altrove. Ma io ti ho sempre ammirato come una forza, una forza

QUANDO I LUAU SONO SPENTI 385

calma. Ho sempre ammirato la forza: del bene come del male. E continuavo ad ammirarti in distanza, nella mia solitudine.

Erik [con impeto) Tu esageri!

Maria {scuotendo la testa) Ma ogni volta che ho cercalo di avvi- cinarmi, mi hai respinto, ogni volta più lontano. Non con du- rezza, ma tranquillamente, senza pietà, come un uomo respinge e fa tacere una bambina che lo disturba nei suoi pensieri e nel suo lavoro. Alla fine fui sola, sola del tutto... [pausa] Perchè mi hai sposata? È una cosa che non ho mai capito.

Erik [alza la testa) Perchè non eri come le altre; eri sen/.i (\v»t teria, senza capricci, serena, placida, armoniosa. E poi, non eri una intellettu/de, una di quelle donne deformi e presuntuose ch'io odio. Ed era la calma ch'io cercavo; la calma per me e per il grande lavoro che occupa la mia vita. Un focolare dove trovare la pace ed il silenzio quando la tempesta della vita delira di fuori. Così io intendevo la felicità.

Maria [calma] Ah, sì; ognuno si crea il suo sogno della felicità. Non ti faccio rimproveri. In fondo sei buono e...

Erik [con durezza) Buono! Ed è la mia bontà che hai voluto ri- compensare col tradirmi! {ride con amarezza)

M.\ria [con grave convinzione) Ma la bontà, non ha niente a che fare con l'amore! Sono due cose del tutto diverse.

Erik [la guarda duramente) Adesso sai combattere! Adesso sei piena di forza, di profondità. Tu, che sempre hai lasciato passare tutto in silenzio, quasi con indifferenza.

Maria [con impeto) Perchè adesso combatto per la miglior parte di me stessa. Per l'amore! E questo coraggio!

Erik [sdegnosam,ente) L'amore! E questo tu chiami l'amore? Un amoruccio sudicio fuori della legge!

Maria [sorride] Vuoi dunque dire, che la legge pulisce il sudicio soltanto col farlo legittimo.

Erik [fuori di sé) Voglio dire che quel che è mio è mio! Nessuno ha il diritto di desiderarlo, di toccarlo, di possederlo!

Maria [sottovoce] Allora si deve curare bene quel che si possiede, perchè tutto che vive trasmuta... Ci scivola dalle mani..

Erik [le va vicino. Con voce rauca] Vergognati! Sei una perver- tita! [pausa]

Maria [con calma dignitosa) Quanti uomini non mi hanno desi- derata dopo che sono diventata tua moglie? Credi tu che li ho lasciati avvicinarsi a me d'un solo passo? Li ho tenuti distante, mi sono liberata da loro combattendo, senza che tu te ne av- vedessi.

Erik Perchè non sei venuta a me? Io ti avrei aiutato.

Maria Non avevo bisogno del tuo aiuto. Facevo da me! Sono abi- tuata ad essere sola.

Erik [tra i denti) E però, alla fine, sei caduta! Tu!

Maria [con voce alta e ferma] No! Io non sono « caduta ». Ho agito bene sveglia. L'ho voluto io. Il mio momento era arrivato. Ac- cettai ciò che la vita e l'amore mi diedero. E fui umilmente grata di conoscere una volta la felicità, ricevere e rendere.

Erik Sei senza vergogna! Come sei trasfigurata!

Maria (guardandolo in faccia] Sì! Sono trasfigurata! E perchè debbo avere vergogna? Vergogna della cosa più grande, più seria

386 QUANDO I LUMI SONO SPENTI

che mi abbia mai riempito l'anima; la più profonda cosa che io abbia mai vissuto!

{Erik la guarda senza trovare risposta; si passa la mano sul viso. Sospira)

Maria {piano. Guarda davanti a pensierosa) Il giorno in cui morì la nostra bambina, il mio dovere qui fu compiuto. Fui sola! Un momento credetti che noi due alfine ci incontrassimo: mah!... Tu non avevi mai tempo per ascoltarmi. Non vedevi la mia faccia l'anima mia. Anche quando non si è una persona im- portante, anche se si é solo una donna come tutte le altre, viene un momento in cui ci si sveglia e si reagisce, e si é costretti a indagare la ragione della propria esistenza. Allora si sente la necessità che qualcuno ascolti la nostra voce, i nostri passi, che ci aspetti, che senta la vita un po' più bella quando noi ci siamo. È un sentimento molto ingenuo, volgare forse, ma nel fondo é, credo, il più grande e più umano che esista. Tu vedi, può spin- gere fino ad un «delitto!» Per quanto insignificanti si sia, si desidera sempre di significare qualche cosa {pili piano) almeno per uno solo!

Erik {con grande amarezza) Questo « solo » dovevo essere io!

Maria {seriamente) Non si può prendere nulla dove non c'è nulla a prendere. Questo si vede anche adesso! Sei fuori di te! Ma non perché sei offeso nel tuo amore! È la tua fierezza di uomo, il tuo amor proprio che si sente offeso. Il tuo nome è, secondo te, macchiato, la nostra « relazione intima » oltraggiata. Ma nep- pure un momento hai sentito rimorso o dolore al pensiero di aver ucciso quell'amore che avrebbe potuto germogliare fra noi due, se te ne fossi curato fin dal principio! Guarda dentro di te! Sei offeso, ma non soffri!

Erik Che cosa sai tu dell'anima mia in questo momento?

Maria {pausa. Si guardano silenziosi immobili e tristi) No; hai ragione, {piano) Noi due non ci conosciamo!

Erik {sempre guardandola) Ma non posso ragionare con te. {scuote la testa) È come battere contro un muro!

Maria {piano, ma con forza interiore) Sì! Così é! Tu batti contro un muro! E un muro così forte che tu, nonostante tutta la tua sa- pienza e la tua intelligenza fortissima, non riesci a farvi la più piccola screpolatura.

Erik {costernato) Cosa farò di te? Dimmi!

Maria {calma e rassegnata) Quello che credi. Tu hai la legge per te.

Erik {coi pugni stretti) Vorrei piegarti! Piegarti sino a terra! Ma non posso! Ah! Sei dura, Maria!

Maria {con dolcezza) Dura? No! Sono pieghevole come la cera! Ma non mi troveresti ancora più degna del tuo disprezzo se io in questo momento provassi a diminuire, a rinnegare il senti- mento per- il quale avrei voluto arrischiare la mia vita? Lo soffri- resti da un uomo? No! In un uomo un tal modo di agire lo giu- dicheresti vile.

{Erik siede. Nasconde il viso fra le mani. Pausa. Maria rimane lontano, verso la comune; calma, aspettando la decisione di

Erik).

QUANDO I LUMI SONO SPENTI 387

Erik Non mi riesce di capire più nulla. Mi sembra di afferrare l'aria vuota... Non trovo nessun appoggio!... Sei tu che io devo punire, ma mi pare che le mie parole non ti arrivino! Rimbal- zano contro me stesso! [la guarda, annientato) Tu sei così pic- cola! Soltanto una donna, eppure così invulnerabile, inafferra- bile, così forte. Non capisco!...

Maria {piano, mite) Non sono io che sono forte! È la potenza che porto dentro di me, che mi ha aiutato a vivere, ma alla quale tu non credi!

Erik {la guarda attentamente) Mi pare, di non aver mai veduto la tua faccia. Solo adesso... No, no; come questa sera, mai! E però!,., {si alza con fatica) Dovrei punirti, dico! {con forza come per convincere stesso) Tu sei la colpevole! Io sono l'offeso! Ma non so! Ho la sensazione invece di essere stato punito io... per un delitto segreto, qualche cosa d'irreparabile! È come se volessi richiamare indietro tutta, la mia vita, domandarle perdono, perchè non ho saputo viverla... perchè non ho saputo compren- dere! {ricade seduto)

Maria {dolcemente) Si! Comprendere! {pausa. Maria va verso la comune) Addio, Erik!

Erik {si alza a metà. Con un gesto le accenna di fermarsi) No!... No!... Resta! {si passa la mano sulla fronte) Sono così stanco... stanco come non lo sono mai stato... Ci parleremo meglio do- mani!

Maria {si ferma, si volge verso Erik. Con accento di sorpresa e di vaga speranza) Domani?!

CALA LA TELA.

Ellen Lundberg Nyblom.

(Traduzione dallo svedese dell'autrice).

MOTIVI SCENICI A PARIGI

La confusione speciosa settaria fra religione e clericalismo dura forse da noi e a momenti imperversa, fino dal così detto tradimento di Pio IX. La restaurazione nazionale venne ad assumere un carat- tere decisamente anticlericale: e l'ha conservato. Ma troppo snatu- randosi : e qui è il male. Fede e politica son divenuti termini da indovinello, giochetti di palle. Se ne ha sofferto la coerenza e la integrità degli spiriti in tutte le lotte per la conquista di un collegio 0 di un seggio comunale, più che mai ne ha sofferto la valutazione dell'arte. La quale ha il suo substrato naturale in tutte le forme della vita, ma raggiunge le vette della sua espressione eterna, sol quando da esse si eleva nel mistero e lo vince. L'affermazione pare troppo forte? Ma io non parlo che della forma più alta dell'art-e, della tra- gedia, anzi della forma più pura della tragedia, in quanto è un rito religioso, e però nella sua espressione sta nei confini del teatro, come al di fuori e al di sopra del teatro.

Quando noi italiani ci siamo accorti e persuasi profondamente di avere nel Saul e iìqW Adelchi due di queste forme? Noi insistiamo in un monotono cotidiano brontolio sul nostro teatro deficiente : e a traverso i tempi abbiamo tesa una mano ad Eschilo!

Se noi avessimo non dico orgoglio ma rispetto di noi stessi; se non fossimo umiliati e affumicati da una autocritica disseccatrice, noi avremmo ben altra coscienza delle forme più pure dell'arte, e ascolteremmo nelle più grandi solennità dell'anno i due messaggi più alti che due genii, pienament-e italici, ci hanno inviati. Ma pel Man- zoni noi trinceriamo ancora la nostra pigrizia morale dietro l'affer- mazione che V Adelchi è una tragedia letteraria!

Certo, non senza grande meraviglia, la sera dell'anniversario della nascita di Corneille, io ho ascoltato il PoUuto alla « Gomédie Frangaise ». E poi ho veduto annunziato lo stesso spettacolo perula sera della gran festa Nazionale del 14 luglio. Quando si rifletta qual profonda tragedia religiosa sia il PoUuto e qual vivace scissione sia seguita in Francia fra la Chiesa e lo Stato, la meraviglia può essere giustificata. Ma non bisogna dimenticare che su le sorti del Teatro francese è passato il genio universale di Napoleone e che da noi purtroppo è mancata quella volontà sovrana che sapesse indirizzare le migliori espressioni dell'arte a quel prestigio di culto e di godi- mento che è parte sostanziale della vita.

La critica comune vuol definito il Corneille come l'autore del Cid, d'una pièce cioè di cappa e spada, in cui egli seppe genialmente rifondere un dramma spagnuolo. Ma il più e il meglio di fu da

MOTIVI SCENICI A PARIGI 389

lui impresso nel PoUtUo, Ora, riconoscere e riaffermare, in occa- sioni solenni, l'eccellenza del Politilo, è un fatto molto notevole d'in- dipendenza di criteri artistici da sofistici cavilli di setta. vi si può vedere soltanto un mezzo offerto al Mounet-SuUy per una raffi- gurazione veramente austera del personaggio mistico.

Che in Francia si tenti direttamente riportare su la scena i più puri motivi religiosi, è dimostrato dalle opere di Francis Jammes e del Claudel. Due di queste sono apparse nell'inverno su le scene del « Théàtre des arts » , in cui il direttore audace Lougné-Pòe resta sempre all'avanguardia di tutte le correnti ideali. Non posso discor- rerne, perchè non le ho vedute. Ma non potrei tacere che in esse la preoccupazione dell'argomento è senza dubbio una delle cause che può diminuirne il valore intrinseco.

Il Gorneille seppe dettare un acuto esame su la sua tragedia del Poliuto, accennando insieme alcuni canoni che non possono rite- nersi pedanteschi. « Nous ne devons qu'une croyance pieuse à la vie des saints, et nous avons le méme droit sur ce que nous en tirons pour le poi-ter sur le théàtre, que sur ce que nous emprun- tons des autres histoires: mais nous devons une foi chrétienne et indispensable à tout ce qui est dans la Bible, qui ne nous laisse au- cune liberto d'y rien changer. J 'estime toutefois qu'il ne nous est pas défendu d'y ajouter quelque chose... Je crois méme qu'on en peut supprimer quelque chose, quand il y a apparence qu'il ne plairait pas sur le théàtre, pourvu qu'on ne mette rien en la place... ».

Sono veri e accorti consigli d'un poeta e d'un uomo di teatro. Non avrei creduto che mi avrebbero aiutato a spiegare certe defi- cienze penose nel nuovo lavoro drammatico del Maeterlinck, di cui potei udire l'ultima delle rappresentazioni straordinarie a Parigi.

La Maria Maddalena di Maurizio Maeterlinck è un dramma in tre atti : ma si riduce sostanzialmente a tre quadri. Nel primo la grande sfavillante cortigiana, ospite nella villa di un filosofo stoico romano, è attratta dalle voci e dai clamori della folla che si riversa nella vicina casa di Lazzaro, a Betania, per vedere e ascoltare Gesù. Non a pena é uscita che tutto il popolo é addosso alla donna impura per lapidarla; ma le pietre cadono e la folla resta attonita contro il recinto della villa, quando si ode la voce solenne : « Chi é di voi senza peccato scagli la prima pietra! »

Nel secondo, la bella peccatrice è egualmente tra il filosofo e il tribuno romano, amico del filosofo. Ella cede all'amore ardente del tribuno, quando appare Lazzaro, il risuscitato, a chiamarla a nome del Maestro. I tre scalini della scena, la turba che circonda la figura spettrale del risorto aggiungono un reale effetto di spavento e di grandiosità. La donna é agitata, si ribella all'amante, non si cura più d'alcuno : ella deve seguire l'appello divino.

Eccola, infatti, spoglia di ogni allettamento, nella povera casa di Giuseppe d'Arimatea, dove l'ultima cena si è svolta, e dove son raccolti trepidanti tutti gl'infermi guariti e i seguaci di Cristo. Qui la insegue la cupidigia del tribuno romano, nelle cui mani il poeta imagina le sorti del Nazareno. Maddalena non può cedere : anche

390 MOTIVI SCENICI A PARIGI

quando dalle finestre basse s'intravede la folle gazzarra che con- duce al Golgota il Nazareno, ella, pietrificata dal dolore, non ha che una parola per l'amante : Vattene! Non vi sono preghiere scongiuri dei proseliti : il mercato le ripugna come cosa immonda : e d'altra parte ella è convinta che il Nazareno deve compiere il suo destino!

Questa Maddalena del Maeterlinck ha deluso francamente molte aspettative, specialmente quelle degli ammiratori stranieri. L'inda- gine sul mistero d'amore e di morte, premio e pena della vita, ha raggiunto nell'arte del poeta belga i limiti più sottili, i rapporti più eterei. Da un mistico così sereno nell'esprimere le relazioni fra l'u- mano e il divino, moltissimi attendevano una parola nuova, una sanzione rispetto all'argomento così seducente della peccatrice di amore, redenta per amore.

Che cosa è mancato al dramma? Precisamente questo palpito del divino. Il filosofo si è fatto raziocinatore, ha sopraffatto con la sua longanime serena virtù logica il palpito della passione nuova; e il drammaturgo si è confinato a intessere il gioco dei contrasti per l'effetto della scena. Tutto il dramma resta sulla scena. Tuttavia io non so dar torto al Maeterlinck, ripetendo le accuse del Doumic in- torno all'apparizione di Lazzaro: «è dell'ospedale sul teatro». L'ap- parizione del risorto su la fine del secondo atto è la tensione essen- ziale di tutto il dramma: ed è per le necessità sceniche un espe- diente magnifiico. Quando un poeta ha sentito così bene che la figura di Gesù doveva essere sottratta al ridicolo controllo di un qualunque spettatore, l'idea di far apparire Lazzaro mi appare felicissima.

Lazzaro, morto quatriduano, precorre in certo modo il Cristo che deve risorgere il terzo giorno : diventa e la scena crea queste iden- tificazioni che restano nelle didascalie un po' segni vaghi una emanazione stessa del Cristo. Io fui, nel vederlo, veramente preso da un sentimento misto di stupore e di terrore: e con me tutto il pubblico sentiva la voce del miracolo. Si comprende che la Madda- lena non potrà oltre resistere alla voce dell'Eletto : ella è vinta solo dall'aspetto del morto risuscitato.

Ma nei confini del teatro, dove tutto è colore e proporzione, questa scena giunge troppo tardi : doveva esisere la chiave di volta e resta un pilastro di sostegno. Perchè?

Una ragione potrebbe consistere appunto nei due espedienti tec- nici di cui il Maeterlinck si è avvalso, desumendoli e li dichiara dalla MaddaleTia di Paolo Heise. Io non conosco questo dramma, ma il solo accenno dei due espedienti mi basta a togliermene ogni desi- derio. Sarebbero la idea finale del primo atto, in cui la Maddalena è confusa con l'adultera, e nel terzo « l'alternative se trouve la grande pécheresse de sauver ou perdre le Fils de Dieu, selon qu'elle consent ou refuse de se donneir à un Romain ».

Ora sono appunto questi due prestiti che ottengono l'effetto op- posto a quello sperato dal poeta. L'episodio dell'adultera è troppo noto ed accettato, perchè possa essere confuso con quello della Mad- dalena. E noi italiani non possiamo dimenticare il breve ed efficace dramma di Giovanni Bovio Cristo alla festa di Purim in cui è ser- bata fedeltà al testo evangelico, e in cui egualmente Cristo non ap- pare, ma se ne ode la voce. Io che potei assistere alla prima rap-

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MOTIVI SCENICI A PARIGI 391

presentazione a Napoli del dramma, ne conservo tuttavia un ricordo prefondamente religioso.

Aggiungere sì, e con misura: modificare, non mai. I consigli del Corneille non sono inutili. L'ultimo episodio sarebbe una ag- giunta, ma troppo forte. Non vi è nessun appiglio a giustificare l'al- ternativa troppo umana, troppo bassa. La grandezza del Martire ne risulta sminuita, necessariamente.

si può sperare che, con altra interpretazione, le impressioni confermate del resto dalla lettura stessa del dramma possano mutare. L'interpretazione mi parve accurata e misurata in ogni parte. Georgette Leblanc, Maddalena a volta a volta vibrante di pas- sione od assorta nell'estasi o dolorante, lasciava molto indietro i ri- cordi delia Monna Vanna, che ella impersonò anche in Italia, or sono parecchi anni. La voce dell'autore è troppo viva, troppo dominante nella figura del filosofo, che l'arte sottile di Denis d'Ines rendeva quasi inquietante di verità storica.

La Maddalena del Maeterlinck resta, adunque, un dramma in- terno alla grande peccatrice, non il dramma della Peccatrice. Nobile nell'espressione, austera nello svolgimento, non ha alcuna parentela con quella teoria decorativa della Samaritana, che si trascinò anche per le scene italiane, ed in cui il Rostand pretese farci cantare e passeggiare a tutto spiano la figura del Nazareno.

E all'austerità della linea ben ho visto corrispondere la sempli- cità delle scene. Mentre solo da pochi mesi in Inghilterra si tenta giudiziosamente pK>rre un argine al soverchio sfarzo della scenogra- fia, nella riproduzione delle opere shakespeariane, è giusto ricono- scere che il Teatro delle arti in Francia ha intrapreso da gran tempo una sana applicazioAe di pochi mezzi acconci. Nulla che discordi, ma nulla che soprafaccia : sintesi, suggestione. Maxime De Thomas, a cui si debbono gli schizzi della Maddalena, svolge questo programma da tempo. Pure bisogna avvertire che l'esecuzione non mi è apparsa sempre felice. Occorreva nello scenografo lo stesso spirito deUJar- tista: e qua e alcune note di contrasto. Certo l'ultima scena 'del Cenacolo, con la folla dei poveri, riscaldata da una calda luce san- guigna, resta lungamente negli occhi. Perchè la proiezione della luce è tutta nell'effetto scenico. Solo occorre che le linee e le masse delle scene si prestino ad accogliere l'opportuno bagno suggestivo.

* *

Colorito mistico ed anche cispirazione alla vera catarsi possono accostare la Pisanella di Gabriele d'Annunzio alla Maddalena del Maeterlinck. Ma lo svolgimento e l'azione scenica sono indipendenti, come indipendenti sono gli spiriti dei due poeti, che sono nel mondo delle lettere fra i più discussi ed acclamati.

Non credo ingannarmi affermando che appunto in questa aspi- razione alla catarsi nella donna d'amore è la parte migliore della nuova opera dannunziana. L'eroina è nella stessa linea delle altre sue sorelle. Come la Figlia di Jorio è fra il padre e il figlio, come la Basiliola è fra due fratelli, così anche la Pisanella è fra due uomini, uno zio ed un nipote. Ma la donna lieta di purificarsi nella morte pel suo amore è solo e resta nella Fisrlia di Jorio.

392 MOTIVI SCENICI A PARIGI

Nella Pisanella, essa è condannata alla morte, alla più odorosa delle morti, perchè manda in rovina il Reuccio, perchè desta insieme un po' di gelosia nella Regina madre, ricca ancora di vezzi, perchè la sua morte deve servire ai fini del regno, togliendo ogni velo di follia (almeno così si può credere) al Re che, iniziato all'amore, ri- nunzierà a tutte de sue fisime di povertà e di ascetismo, per consa- crare legittime nozze, più oneste o più opportune ai destini del regno di Cipro.

Ma la Pisanella non vuol morire : vuol vivere e godere. E quando- si accorge che tutti i doni, tutte le arti più dolci non valgono a piegare l'anima della sua giustiziera, ella cerca ancora di eccitare amore e compassione nel giovine paggio della Regina: e nella disperazione del momento non pensa che affretta così il suo destino, eccitando la gelosia. In questo grido della Pisanella alla vita a me è parso cogliere l'espressione più sentita dell'arte complessa e delicata della signora Rubinstein.

Comedia è chiamata dal poeta la Pisanella. E se nell'azione scenica vi si svolgono due morti violente, non importa. In comedia egli ha forse inteso includere, oltre un riposto significato filosofico generale, tutto quello che di fiabe, di sogno, di pura mimica, di profusione pittorica vi è compreso. Sono quattro parti : quattro colo- ritissimi e ricchi episodi scenici. E non si potrebbero chiamar solo quattro quadri: i momenti drammatici non culminano sempre alla fine dell'atto, come ad esempio nella Maddalena ricordata. Ma nello stesso atto i quadri si svolgono e s'intrecciano, con la ricchezza ed esattezza ben nota nel rievocatore della Francesca da Rimini. Il la- voro si potrebbe definire un « tessuto di follia e di malinconia » come il Poeta chiama il cuore del suo giovine eroe,* Sire Ughetto. E ri- chiamando su la carta tutti gli episodii, svolgendo cioè tutti i fili del tessuto, vien fatto quasi di valersi degli stessi modi cari agli antichi fantasiosi novellieri nei proemi dei loro racconti : Come la Regina di Cipro, divisando dar moglie al suo giovine figliolo, bandì un solenne convito ai vescovi greci e latini di Cipro e agli ambasciatori conve- nuti; e come Sire Ughetto rifiutò tutte le proposte, per ascoltare la voce della Povertà che gli prometteva letizie avventurose e benedi- zioni per la terra affamata. Questo è il prologo. E si potrebbe conti- nuare per i tre atti.

L'Isola di Cipro è ancora, nel secolo dei Lusignani, sotto il do- minio pagano di Venere. Forse perciò il regno soffre ogni male: certo per tal motivo lo zio del Reuccio ha ottenuto che i vescovi greci dichiarati stregoni e lussuriosi, sieno cacciati in prigione. Una santa deve giungere d'oltremare : la liberatrice, la dolce santa attesa dal " Reuccio. Tre fuste saracine sono state predate dai cristiani : e tra le prede, il fiore più bello è una donna. Pel governatore ella è una prin- cipessa egizia, ma pel Re ella si immedesima per incanto con la immagine stessa della santa. E la rosa del bottino è accompagnata su un candido cavallo, tra l'esultanza del popolo, per tutta la città di Famagosta, fino al convento delle Clarisse, dove dovrà riposare. Al risveglio purissimo dell'alba claustrale la donna di piacere, fra il susurrìo e i sacri inviti delle monacelle, è per subire il fascino della purificazione. Ma tutte le volontà bestiali, che aveva già sca- tenate sul porto, quando era legata ed esposta all'incanto, ora si accentrano nei desiderii del Governatore. Occorre un atto violento

MOTIVI SCENICI A PARIGI 393

inaspettato perchè ella possa essere liberata. Le cortigiane del gover- natore hanno riconosciuto e dileggiano l'antica compagna dei loro piaceri. Ma Sire Ughetto non crede : e poiché la forza della sua fede non basta, egli uccide lo zio, e s'invola con la donna.

Tutto si compie nel modo umano più naturale, sempre sotto la efficace egida di Venere. Il Reuccio manda in rovina il reame: la regina vuol salvarlo. E invita la donna alla sua corte, e l'ammira e la vezzeggia e la fa danzare, finché non appaiono le schiave nu- biane con ampi fasci di rose e la circondano, la stringono, la soffo- cano nella «morte profumata». Quando ella ha cessato di danzare e di gridare il suo ultimo delirante appello alla vita, una ancella annunzia: il Re! E la storia può continuare.

Lo spirito che informa tutte le scene della nuova scuola russa si può dire anch'esso sintetico nelle linee; ma consiste in una grande violenza di masse cromatiche, rese con larghe chiazze o tocchi quadri di colori. Chi non ha dimenticato il Duello del Répine e le Conta- dine del Maliavine, si ritrova facilmente dinanzi al vibrato impres- sionismo di questi scenografi slavi, con a capo Leon Bakst. I colori della bassa maniera bizantina si riaccendono con contrasti violenti. I costumi vi s'intonano egualmente: sfoggio di gruppi arancioni, blu, violati, cremisini.

Uno degli scopi è quello di condensare il più degli elementi necessarii nel quadro di fondo. E pel mutamento facile delle scene l'idea non è nuova, ma è resa con molta foga.

Data la sontuosità con cui lo spettacolo della Pisanella ha potuto essere preparato, il Bakst ha voluto presentare visioni sceniche com- piute, ricostruendo sul teatro un proscenio, di una cupa intonazione nero ed oro. Ed ogni quadro aveva il suo sipario : rosso, turchino, verdognolo, secondo che le intonazioni delle scene erano in azzurro, ranciato, grigio incerto, verde schiettissimo. Approviamo. Dove non possiamo consentire è nel criterio decorativo sommario di alcune parti, come il trono della regina nel prologo decorato di liste dorate quasi un baldacchino da chiesa di campagna per la festa del pa- trono, e specialmente le porte ristrette, che hanno tolto al prologo stesso e al quadro finale due elementi pittorici benissimo intravisti dal poeta. La poesia delicata delle mistiche nozze del Reuccio con la mendicante; la visione porpurea delle rose del giardino son così mancate del tutto. E bisognava che le due scene facessero conver- gere l'effetto in quei due momenti. Il Bakst egualmente non si è curato troppo delle precise didascalie : il poeta pel banchetto ha pensato a una gran sala girata a volta, e per la morte della Pisa- nella a una loggia aperta. Per queste due scene, ora, non si aveva in realtà che la impressione di due chiese gotiche. Per l'atto deli- catissimo del convento, era indicato un portico con colonnette ge- mine, una grande meridiana, e un vecchio cipresso per angolo. Il pit- tore ci presenta un muro alto, con esilissimi pioppi sfumanti nel cielo. Convengo: tutto ciò è secondario: ma è un arbitrio, come quello di vestire in turchino le Clarisse, presentarci un francescano in una tonaca non mai veduta, e interpretare sempre largamente i costumi storici e più noti con una viva intonazione bizantina. Questa

26 Voi. CLXVII. Serie V l" ottobre 1913.

394 MOTIVI SCENICI A PARIGI

libertà è gustosa in un balletto, non in una comedia che ha per isfondo una ricostruzione storica studiata in moltissimi particolari. Più organica e rispondente è la parte musicale aggiunta alla comedia da Ildebrando Pizzetti. Questi che già trovò i cori per la Nave, e ha dato i suoni al delirio erotico di Fedra, era nelle migliori condizioni per assecondare le intenzioni dello scrittore. E poi, la atmosfera stessa dell'opera, ed alcune parti esplicitamente sono state concepite in una misura musicale. I preludii diversi svolgono a volta a volta il disio d'amore di Sire Ughetto, la tensione degli spiriti intorno alla rosa del bottino, il miracolo dell'alba nel chiostro, riac- cendendosi e salendo di foga nell'atto finale in cui le due danze dello sparviero e della morte hanno raggiunto un largo e gustoso effetto teatrale. Gli altri motivi minori, come YEntreméts per sette soli stru- m.enti ad arco, la canzone di Santa Aletis, ricomposta sul gusto di canzoni trobadoriche, la stampita svolta su altro motivo francese del secolo XII, l'inno di San Prudenzio al gallo per tre voci, hanno pro- dotto una sensazione sempre soave, e in qualche accento preziosa, rispondenza al gusto arcaico dell'opera, rievocante toni e frasi del Roman de la Rose.

Dove ancora resta da osservare è nella cosi detta musica di scena. E credo lo stesso squisito musicista ne sia convinto. La esal- tazione lirica di Sire Ughetto è sottolineata nel prologo da una lieve musica, che riprende i motivi del Preludio e della canzone della Santa. L'effetto per la platea è nullo o quasi. Forse noi non abbiamo ancora ritrovato il modo per cui gli antichi auleti accompagnavano le parti liriche della tragedia greca : forse anche la diversa disposi- zione del teatro, la diversità delle nostre costumanze, possono spie- garci l'insufficienza di questo mezzo, come di ogni melologo, e in- durci a pensare che solo col canto si può veramente comentare quel- l'esaltazione che canta dentro l'anima del compositore.

Certo, su questa via, bisogna che il poeta sia anche musicista. Altrimenti l'organismo non può che riuscire scontinuo o poco vitale. La caccia disperata dei musicisti a un lavoro d'effetto è la riprova della insufficienza dei loro sentimenti. Anche i più giovani maestri, che si sono rimessi su una via più nobile di estrinsecazione sinfonica nel dramma, non potranno giungere molto in alto, non potranno darci facilmente un'opera vitalmente originale. Non basta soppri- mere le cabalette, le ariette, tutte le parti dei virtuosi : la sovrapo- sizione resta egualmente, se il dramma non è scaturito di blocco.

Nell'attesa del nuovo genio poeta-musicista, tanto varrebbe se- guire il consiglio di Giovanni Pascoli, che un giorno mi diceva : Che cosa deve importare al musicista un libretto? Per la espressione di sentimenti musicali basta porger loro uno schema!

Il volume della Pisanella, quando sarà noto a tutti, permetterà giudicare il posto che merita nella ricca produzione del Poeta. Certo, pur nella veste francese, la comedia ha la stessa forza plastica, spe- cialmente nella varietà dei versi, che la Francesca da Rimini. Non bisogna dimenticare che Gabriele d'Annunzio ha formato il suo stile anche sul Flaubert: alcuni racconti, alcune liriche della Chimera rivelano questa compiacenza studiosa.

MOTIVI SCENia A PARIGI 396

posso negare che l'opera non sia un passo deciso verso il mimodramma. La funzione assolutamente muta della Pisanella, come rosa del bottino, se può farci ricordare la schiava Kundry del Parsifal, è un'affermazione di questa tendenza. E la molteplicità degli episodi, e la moltitudine dei personaggi, che dicono poche parole, le sole necessarie perchè possano meglio esprimere un'azione 0 un atteggiamento, lo confermano. Nello svolgimento clamoroso che hanno a Parigi e a Londra i balletti russi, egli, dovendosi avva- lere di elementi russi e specialmente d'una protagonista, Ida Ru- binstein, quanto mai spirituale, ha concesso qualche cosa alle neces- sità ed anche alle stesse sue tendenze. Ma l'opera è, nel complesso, di un poeta indipendente, e sempre aristocratico.

Del resto, io sono convinto della necessità di un ritomo al mi- modramma, come forma d'arte decorativa, come partito di spetta- colo, come aiuto alle forme più pure del dramma.

Affrancare il dramma da quanto vi è immesso di soverchio e nella ricerca del congegno e nel contorno esteriore, potrà forse ren- derlo alla sua espressione assoluta e necessaria, lungi da ogni affanno mercantile vilissimo. Affermo con piacere che alcuni giovani musi- cisti intendono questa ricerca. Ma il misoneismo, che ci affligge, è sconfortante. Se parlate con maestri illustri, vi daranno su la voce facilmente, senza ricordare che i mimi son anche nella più pura tradizione latina. Se ne accennate a' grandi direttori, vi risponde- ranno che non vi sono più scuole di mimi, quando tutto intorno al cinematografo ne sta a dimostrare una vitalissima rifioritura.

E pure il momento è quanto mai acconcio, per la enorme deca- denza della coreografìa virtuosa ed accademica. E pure da noi, senza grandi richiami di belle rassegne illustrate, si fanno grandi spese per spettacoli. Solo nello scorso inverno è apparsa su la scena della Scala una fontana degna di una piazza. Ma c'era un contomo di walzer viennesi.

Romualdo Fantini.

Neq. V. Sella di Biella. Il Cervino dal Colle delle Grandes-Murailles.

Il Gruppo del Bernina (versante italiano).

Xeg. Dott. A. Corti.

IL PRIMO CINQUANTENARIO

DEL CLUB ALPINO ITALIANO

Il primo Club Alpino venne fondato a Londra nel 1857. Nel 1862 se ne costituì un secondo a Vienna. Nel 1863 sorsero quasi contem- poraneamente il Club Alpino Italiano e il Club Alpino Svizzero. Seguivano a breve distanza di tempo i Club Alpini del Belgio, della Danimarca, della Germania, della Spagna, della Russia, della Svezia, dell'Ungheria, della Francia, della Transcaucasia, delle In- die, del Capo di Buona Speranza, dell'America del Nord, della Nuova Zelanda.

Insieme ai Club alpini nascevano in tutti i paesi, e rapidamente si facevano numerose, le società di escursionisti e di turisti. In breve volger d'anni, gli inscritti a questi sodalizi ammontarono a parecchie centinaia di migliaia, tutti affratellati nel desiderio della riconfortante vita attiva all'aria aperta e nel desiderio delle sen- sazioni sane e pure che il paesaggio multiforme produce.

Questo fatto grandioso, che si è venuto compiendo con tanto vigore negli ultimi cinquant'anni in tutte le nazioni incivilite, ri- vela un aspetto particolare della psiche dell'uomo moderno. Il suo studio sarebbe argomento importante, ma sarebbe ora troppo largo tema di discorso.

Dice una poetica leggenda: quando, dopo la bufera, che furi- bonda e terribile ha flagellato le pendici delle Jungfrau, ritorna la calma, in alto sulla montagna, sorge dalla neve immacolata, fra diafani vapori, una fata bellissima, che si profila nell'azzurro cupo del cielo. Un fremito passa allora per le fibre del monte e dai ghiac- ciai, dai burroni, da ogni rupe, una musica soave saluta la fata be-

NoTA. Dal discorso commemorativo che VA., Presidente del C. A. I., tenne a Torino nel castello del Valentino il 7 settembre.

398 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

nefica con armonia dolcissima, sovrumana, che dona la giovinezza eterna a chi ha la fortuna di poterla udire.

Bella e delicata leggenda e, ad un tempo, anche mito sapiente e profondo.

Del suo immaginoso linguaggio chiaro è il concetto. L'uomo che, dopo le bufere della vit-a, va alla montagna e ne sa compren- dere l'armonia sublime, sente che un vigor nuovo lo conforta e lo ringiovanisce, sente rinascere la fede negli alti ideali del progresso

Quintino Sella - Fondatore del Club Alpino Italiano Presidente dal 1876 al 1884.

umano, della scienza, dell'arte e con accresciuta energia ritorna alle inesorabili lotte per l'esistenza.

Il mito insegna ed ammonisce che invano l'uomo cerca sot- trarsi al dominio della natura, invano chiede la salute, la forza, la felicità all'artifìzioso ambiente della più complicata vita sociale. La natura sola può dargli il vigore per la lotta e la calma del ri- poso ristoratore, da essa sola egli può sperare quell'equilibrato espli- carsi delle proprie facoltà, che lo deve condurre a provare la sen- sazione di essere felice.

In nessun luogo, come sulla montagna, la natura fa sentire più potentemente la sua voce. Il mare, la foresta tropicale, il deserto, la steppa ci riempiono di meraviglia e di ammirazione per. la gran-

IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO 399

diosità dei loro aspetti e dei loro fenomeni: ma la montagnia sola sa toccare l'uomo nelle più recondite fibre della sua psiche e tutte sa farle vibrare.

L'azione che la montagna esercita sull'uomo è complessa, mul- tiforme, di analisi diflBcilissima.

Michele Lessona ha, forse più di tutti, saputo enumerare in poche linee le sensazioni che si provano quando, lasciato il tedio della vit^ cittadina, dopo lunga e faticosa salita, si giunge sulla vetta della montagna,

« Il cielo di un azzurro incomparabile, egli dice, vi ride mae- stosamente sul capo; una selva di creste, di cupole, di punte, di guglie, di culmini frastagliati d'ogni maniera, si spiega intermi- nabilmente sotto i vostri occhi; spiccano, fra le immense masse brune, i campi abbaglianti della neve immacolata; una natura sel- vaggia, grandiosa, terribile, immensa e sublime vi sta sotto gli occhi; il vostro cuore batte, i vostri muscoli si contraggono, la vo- stra mente si innalza, il vostro pensiero corre vertiginoso attraverso alle età passate, la storia dei monti vi turbina dentro colla storia dell'umanità, mari e terre, foreste e deserti, piante ed animali, bat- taglie e trionfi, vittorie e sconfitte, gioie e dolori vi lottano nel pen- siero concitatissimamente, pensate ai grandi trapassati, ai vostri cari morti, ai vostri cari vivi, ai vostri cari lontani, a chi amate tanto, e in ebbrezza di felicità ineffabile vi sentite migliorati, guariti, rige- aerati e vi pare che volete e potete far lieta per sempre e felice l'uma- aità tutta quanta » .

Parole bellissime queste del Lessona; ma che neppur esse espri- mono tutta la sensazione, che la montagna produce sull'uomo dalle sue vette eccelse, sensazione inenarrabile che fa dire a chi la prova :

Sono io che il cielo abbraccio, o dall'interno Mi riassorbe l'universo in se?

che fa esclamare a chi tenta di esprimerla in parole:

Ahi, fu una nota del poema eterno Quel' ch'io sentiva e picciol verso or è.

sensazione dolcissima, che più non si cancella, e che, come pro- fumo misterioso e soave, accompagna la vita di chi l'ha provata e come l'armonia sublime della leggenda ridona la giovinezza.

* *

A tutti gli uomini, a qualunque schiatta essi appartengano, in qualunque plaga della terra si trovino, la montagna parla il suo linguaggio, ora grave, terribile, solenne, ora dolce, delicato, affasci- nante. Ovunque, l'uomo ad esso risponde con leggende, con miti, con credenze ora rozze e paurose, ora gentili e liete.

Tutti i più grandi pensatori, tutti i più grandi artisti, che l'uma- nità ha prodotto, hanno provato innanzi agli spettacoli della mon- tagna una impressione profonda, che hanno in molte guise cer- cato di esprimere. Non alla vostra memoria è d'uopo che io richiami le pagine bellissime dei nostri classici prosatori o poeti, non le pagine di Rousseau, di Saussure, di Goethe, di Lamartine, di Mi-

IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALLANO 401

chelet, di Victor Hugo, di Tyndall, e di tanti e tanti altri. Vi ricor- derò soltanto le affermazioni di tre grandi pensatori, di Carlo Dar- win, di Giovanni Ruskin, di Ernesto Renan.

Carlo Darwin, che nel 1859 colla pubblicazione del suo lavoro suir« Origine delle specie mediante la selezione naturale» dava l'impulso che doveva scuotere l'intero mondo intellettuale nei suoi fondamenti più saldi, nel viaggio che compiè nel 1831 intorno al mondo, giunto sulla sommità delle Ande dice : « V'era in quella vita all'aria aperta un incanto indefinibile.... Passammo il giorno sulla cima del monte, ed io non provai mai piìi, dopo quella, una gioia che le si potesse paragonare».

Giovanni Ruskin, squisito artista e profondo pensatore, visi- tando, ancor giovinetto, per la prima volta le Alpi, esce in queste

L'Istituto scientifico al Col d'Olen e il laghetto di Cimalegra.

parole: «Le porte della montagna mi dischiusero una vita nuova, che non avrà fine, se non alle porte di quel monte dal quale non v'ha ri-tomo».

Ernesto Renan, filosofo geniale e critico finissimo, descrivendo il paese dove si svolse la vita di Gesù, dice : « In nessun paese del mondo le montagne si spiegano con maggior armonia e inspirano sentimenti più elevati. Gesù le amò in particolar modo. Tutti gli atti più importanti della sua vita sublime si svolsero sulla mon- tagna. Là, più che in ogni altro luogo, si sentì ispirato».

Ma non meno viva e profonda è l'impressione che la mon- tagna produce nell'animo dell'uomo ingenuo, umile ed incolto.

La prima volta, dice il Wimper, che Meynet, il povero e de- forme suo portatore, giunto sul colle del Lion, ebbe davanti lo spettacolo del Cervino nella intiera sua bellezza e maestà, dopo averlo guardato in silenzio, cadde in ginocchio in attitudine di ado- razione e, giungendo le mani, estatico, colle lacrime agli .occhi, esclamò: «Oh! le belle montagne!».

402 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

Gli è fuor di dubbio che il paesaggio con molteplici elementi agisce su di noi. Da ogni paesaggio si sprigionano idee e sensazioni, che con procedimento misterioso, ma continuo, danno alla psiche dell'uomo un carattere speciale.

L'uomo non dimentica mai le impressioni che ha ricevuto dal

Neg. A. Luino. La capanna Gnifetti al monte Rosa.

paesaggio ambiente all'inizio della sua vita intellettuale, e il loro ricordo di tratto in tratto risorge e accende il desiderio intenso di riprovarle. Ciò che avviene nella vita dell'individuo avviene pure nella evoluzione della schiatta umana.

Nella psiche degli uomini, anche delle razze più incivilite, per- mane più o meno vaga e confusa, l'impressione dei primi periodi dell'evoluzione della razza stessa, di quei periodi in cui, più che non ora, intimi erano i suoi rapporti colla natura.

Così è che le visioni che sorgono dal paesaggio, di tratto in tratto, fanno nascere negli spiriti più fini ed eletti, come nei più semplici ed incolti, un desiderio intenso di uscire dall'am-

IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO 403

biente artificioso del viver civile, di trovarsi soli a godere gli spet- tacoli sublimi della natura, di riprovare le prime e fresche sensa- zioni, che agli albori dello sviluppo intellettuale della razza fu- rono di conforto nella lotta per la vita aspra, dura, incessante. Si può dire, che, quanto più si complica e si perfeziona il viver civile, tanto più forte si fa nell'uomo il bisogno di ritornare, di tratto in tratto, a contatto intimo colla natura, come ad una madre sicura e benefica.

La montagna, più di qualunque altro ambiente naturale è atta a soddisfare l'uomo che anela godere la vita libera, semplice, pri- mitiva, le lotte che accrescono la forza e l'ardire, le calme operose che eccitano la mente all'osservare e al meditare.

Neg. E. Terschak di Ampezzo. L'Antelao dalla via fra Tai e Borea.

L'alpinismo, nel suo significato odierno, si presenta con larga e potente manifestazione verso la metà del secolo scorso.

L'alpinismo può, a primo aspetto, sembrare fenomeno brusco ed improvviso. In realtà non è così. L'alpinismo non è cosa recente e il suo rigoglioso sviluppo moderno deve considerarsi come la ri- sultante di cause molteplici strettamente legate ad altri fatti sociali.

Narrano gli storici antiche ascensioni di montagne compiute da personaggi celebri; ma si tratta di fatti determinati da speciali ragioni che non hanno stretto rapporto coll'alpinismo quale si in- tende oggi.

La prima salita su di una punta delle Alpi, che può essere paragonata ad una vera arrampicata moderna è quella compiuta nel 1492 da Antonio di Ville, per ordine di Carlo Vili, nel monte Aiguille, o monte inaccessibilie, uno dei così detti sette miracoli del Delfinato,

Il primo che scrisse delle deliziose sensazioni d'ogni sorta che si provano sulla montagna è (Corrado Gesner, medico e naturalista, autore celebrato deWHistoria animalium, in una lettera « sttlTam-

404 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

mir azione della montagna » diretta al suo amico Giacomo Vogel nel 1541 (Lettera stampata al principio del lavoro di Gesner inti- tolato: uLibellus de lacte et operibus lactariis '>^ , Zurigo, C. Fro- shauer, 1541). Nel 1555, lo stesso Gesner nella descrizione della sua salita al Monte Pilato descrive con grande entusiasmo le sensa- zioni squisite che i vari sensi dell'uomo provano in montagna e conchiude dicendo : « Dunque io dichiaro nemico della (natura chiunque non giudica le alte montagne degnissime di lunga con- templazione ».

Poco più tardi, nel 1558, Benedetto Marti di Berna descrisse una sua salita allo Stokhorn e al Niesen, con minor arte del Gesner ma con non minore entusiasmo, e parlando di coloro che non sen- tono amore per la montagna li considera : « fungos, stujridos, in- sulsos, pisces, lentosque chelonasy^.

Il primo, finalmente, che diede opera allo studio metodico della montagna è Josias Simler col suo libro : « De Alpibus commenta' riisn, stampato a Zurigo nel 1574. Questo lavoro è come un rias- sunto chiaro e ordinato delle cognizioni che allora si avevano in- torno alle Alpi considerate da tutti i punti di vista.

Antonio Ville, diremo col Coolidge, il dotto e diligentissimo sto- riografo dell'Alpinismo, è il primo che esprime le gioie fìsiche che si godono durante una ascensione difficile, Corrado Gesner è il primo che conto del godimento intellettuale o sentimentale che la montagna produce e Josias Simler è pure il primo che con opera organica e metodica inizia lo studio descrittivo della montagna stessa.

L'alpinismo adunque, inteso come l'intendiamo oggi, nel suo triplice aspetto, di esercizio fisico, di godimento estetico ed intel- lettuale e di studio del mondo alpino, si può dire che ebbe il suo inizio nel periodo di tempo che va dal 1492 al 1574.

Molteplici cause e, in particolar modo, il lungo periodo di guerre che insanguinò il xvii secolo non gli concessero di svilup- parsi. Nuova vita riprese nel xviii secolo per opera di Whindham e Peacocke, di Marco Teodoro Bourrit, di Von Haller, di Saussure, dei fratelli Lue, di Giacomo Balmat, del Murrith e di non pochi altri.

Io credo non sarebbe, tuttavia, stato possibile l'odierno grande sviluppo dell'alpinismo, come, del resto, di molte altre forme del- l'attività umana, senza un fatto storico di importanza somma, che si compiè alla fine del 1700, voglio dire, senza la Rivoluzione Francese.

Richiamiamo alla mente le condizioni del pensiero umano e del viver sociale prima della Rivoluzione francese e consideriamo il mutamento profondo che i principi, che essa consacrò, portarono in tutti i popoli inciviliti.

La Rivoluzione francese proclamò la eguaglianza sociale degli uomini e chiamò tutte le energie a coltivare i campi dell'umana at- tività e dell'umano sapere, ruppe, colla libertà di pensiero e di pa- rola, tutti i legami che per tanti secoli avevano stretto l'intelletto dell'uomo e concesse ad ogni individuo il libero sviluppo delle pro- prie facoltà in rapporto col vivere civile.

Risorti i popoli a nuova vita, molti caratteri latenti della psiche individuale e collettiva poterono liberamente manifestarsi e fra essi, in particolar modo, la tendenza a ritornare a più intimo contatto

IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALL\NO

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colla natura che ci circonda e a non più cercare nel meraviglioso e nel soprannaturale la spiegazione dei fenomeni naturali.

L'uomo, che per tanto tempo si era creduto al di fuori e al di- sopra della natura, cominciò a sentirsi parte integrante di essa e a riconoscersi soggetto alle sue leggi inesorabili.

Con questo profondo mutamento di idee int-orno ai rapporti dell'uomo colla natura coincide un non meno profondo mutamento nel modo di considerare i viventi vegetali ed animali e i feno- meni che riguardano la storia della superfìcie terrestre.

L'opera Linneana aveva dato un primo e grande impulso ai viaggi per la ricerca di piante e di animali, non solo nelle terre lontane, ma anche fra noi e in particolar modo nelle montagne, che erano a tal ri- guardo quasi com- pletamente inesplo- rate.

L'opera susse- guente del Lamarck e più tardi quella di Carlo Darwin e de- gli altri evoluzionisti diedero un impulso anche più efficace, sostituendo al con- cetto della fissità delle forme viventi, quello della loro con- tinua variazione e mettendo in eviden- za l'azione dell'am- biente , nella lotta per l'esistenza, nella scelta naturale e via

dicendo. Questi nuovi concetti spinsero i naturalisti a non ac- contentarsi dello studio, puro e semplice del materiale raccolto nei Musei; ma a ricercare direttamente nell'ambiente, in cui cia- scuna specie vive, le ragioni della sua forma e dei suoi costumi. Analogamente nel campo delle ricerche intorno ai fenomeni geolo- gici e di fìsica terrestre assumeva grande importanza lo studio delle modificazioni lente della superfìcie terrestre in contraposto alle an- tiche idee dei cataclismi. Per queste ragioni le esplorazioni dei naturalisti divennero oltre ogni dire numerose e le Alpi furono nella prima metà del secolo scorso campo a molte ricerche, come quelle che presentano un interesse grandissimo per la varietà dei loro ambienti naturali.

Negli scritti dei naturalisti di quel tempo si trovano spesso frasi che rivelano la profonda impressione che sugli Autori aveva fatto il mondo alpino e non raramente si leggono calde esortazioni ad accorrere alle montagne come luoghi di altissimo interesse.

Fra noi il Ghiliani, il Bellardi, il Sismonda, il Lessona, il Ga- staldi, il Delponte, il San Robert, lo Stoppani e molti e molti altri facevano, prima che sorgesse il Club Alpino Italiano, una propa- ganda larga e assidua in favore della montagna. E propaganda atti-

Seg. R. Caparro. Il Monte Macina (Alpi Apuane).

406 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

vissima in favore della montagna facevano pure i naturalisti degli altri paesi. Ricorderò fra tutti lo Tschudi, che nel 1853 pubblicò la prima edizione del suo classico libro « Das Thierleben der Alpen- welt», in cui transfuse tutto il suo dntenso amore per le Alpi del suo paese e descrisse la montagna sotto tutti i suoi aspetti con pa- rola calda, colorita, e, ad un tempo, scientificamente esatta.

Il libro dello Tschudi ebbe un successo grandissimo ed esercitò una azione di propaganda fra le più importanti in favore della montagna.

Gli scritti del Saussure, quelli piacevolissimi del Tòpfer, quello dello Tschudi, per non ricordare che alcuni nomi fra i più segna- lati, furono di incitamento a molti per visitare le Alpi nella prima metà del sècolo scorso. Le Alpi stesse col loro fascino potente fecero il resto e in breve periodò di anni si venne formando ciò, che con frase modernissima si dice, Vanima alpinistica.

Nell'evoluzione del pensiero umano, le gran-di idee si originano a poco, a poco, come da piccoli ruscelli, che in un dato momento si riuniscono in un fiume irresistibile. Così avvenne per l'Alpinismo. Fra le varie cause, che ne prepararono lo svolgimento fra noi, una deve essere considerata, che ebbe notevole importanza.

« Prima del 1848, dice Michele Lessona, volgeva un tempo di vacua, loquace letteratura in cui la potenza intellettuale aveva per misura un sonetto e si faceva buon assegnamento sull'avvenire di un giovane, che prima dell'età maggiorenne avesse sul tavolino il manoscritto di una tragedia in cinque atti. Le scienze non avevano guari parte nella pubblica coltura». Nel 1848, rinato il popolo a nuova vita politica, proruppe generale la manifestazione del bisogno irresistibile che il popolo stesso aveva di coltura, così che in breve volger d'anni si vennero istituendo scuole elementari, secondarie, speciali, magistrali e uomini di grande valore come l'Aporti, il Rayneri, il Berti, il Bertoldi, il Valerio, il Fava, il De Filippi si adoperarono ad organizzare l'istruzione pubblica nei vari suoi gradi e a soddisfare la bramosia di sapere delle popolazioni chia- mate colla libertà a nuova vita.

Il De Filippi, il Lessona, il Lioy, il Boccardo, l'Issel, il Man- tegazza, lo Stoppani e altri crearono fra noi la scienza popolare nella sua forma più elevata e diffusero l'amore per le scienze natu- rali. Nello stesso periodo di tempo Vincenzo Troya, il benemerito riformatore della scuola elementare, si fece il propugnatore della ginnastica nei fanciulli e delle gite all'aria aperta, convinto, come egli diceva, che il libro della natura fosse il più acconcio all'istru- zione delle giovani menti.

Questi profondi mutamenti nella istruzione popolare contri- buirono moltissimo a preparare alla generazione, che si trovò nel pieno vigore della vita alla costituzione della Patria nostra, una psiche nuova, atta a godere delle più squisite sensazioni della na- tura, psiche che si rivelò con manifestazioni molteplici nella lette- ratura, nella pittura e via dicendo e nel fiorire dell'alpinismo fra noi, in quel tempo.

IL PRIMO aNQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO 407

In Italia il rinnovamento dei metodi educativi della gioventù, verso la metà del secolo scorso, non avvenne senza lott-a aspra e pertinace da parte delle antiche idee e degli antichi pregiudizi, sopratutto per ciò che riguarda la ginnastica e le gite collettive al- l'aria aperta e in montagna.

Verso il 1860 era vivamente sentito il bisogno di rafforzare fisi- camente la gioventìi italiana.

Per quanto il soldato italiano avesse dato prove mirabili di valore e di resistenza nelle lotte gloriose per il risorgimento nazio- nale, tuttavia qua e si facevano evidenti i segni di una minor

Negativa A. Cassarini. Cima Orientale e Corno Piccolo dalla Piana Grande (Gran Sasso).

vigoria, dovuta in gran parte al lungo ed esauriente periodo di guerre che, da Napoleone I in poi, avevano con una dannosa sele- zione consumato le migliori energie fìsiche e in molti luoghi ave- vano peggiorato le condizioni economiche. Era urgente provvedere ad un rinnovamento dell'igiene dell'educazione e dell'igiene sociale.

Uomini dalla mente eletta e educatori di larghe vedute si ado- perarono allora, con ogni possa, per raggiungere questo nobilis- simo fine.

Primo fra essi Quintino Sella. « Della gioventù, egli diceva, essenzialmente noi ci dobbiamo preoccupare per l'avvenire del no- stro paese. Quindi ci ha da stare a cuore l'istruzione certo; ma più ancora l'educazione della gioventù». Nella educazione della gio- ventù egli era convinto dovessero avere parte precipua lo sviluppo delle energie fisiche, la resistenza alle fatiche e ai disagi, qualità che dovevano condurre all'amore per le imprese ardimentose, alla tenacità nel lavoro, alla attività perseverante, che dovevano con- durre, in una i>arola, al culto delle più alte e nobili idealità della vita.

408 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

Quintino Solla riconosceva nell'ambiente alpino, più che in ogni altro, tutti i migliori elementi per una forte educazione della gioventù italiana.

« Ck>rret-ei alle Alpi, egli diceva, alle montagne, o giovani ani- mosi, che vi troverete forza, bellezza, sapere e virtù».

« Il corpo vi si fa robusto, si trova diletto alle fatiche, vi si avvezza (ed è importante scuola) alle privazioni e alle sofferenze... ».

« Nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza e la previdenza onde superarli con incolumità... ».

« Stupenda scuola di costanza sono le Alpi. I momentanei slanci non vi bastano per riuscire. Vuoisi saper durare, perdurare e sof- frire... ».

« Vi ha nelle Alpi tanta profusione di stupendi e grandiosi spet- tacoli che anche i meno sensibili ne sono profodamente impres- sionati».

« Il sentimento del bello e del grande, dopo aver agito sull'in- telletto, per quella misteriosa armonia che è tra le facoltà umane, opera sul morale».

« Se io non vo' errato, l'alpinismo come combatte nell'ordine fisico le conseguenze della vita troppo sedentaria, cui ci costringe la odierna civiltà, così ci difende nell'ordine intellettuale e morale dai perniciosi effetti del soverchio culto degli interessi materiali, che pur hanno oggi importanza grandissima».

Quando, nel 1863, Quintino Sella lanciò per primo l'idea di fon- dare anche in Italia, come era già stato fatto a Londra e a Vienna, un Club Alpino, l'amore per le montagne si andava rapidamente diffondendo fra noi, e Quintino Sella stesso, nella ben nota lettera, che scrisse al Gastaldi dopo la sua salita al Monviso, osserva: « Ogni estate cresce di molto l'affluenza delle persone agiate ai luoghi montagnosi e tu vedi i migliori nostri appendicisti, il Ber- sezio, il Cimino, il Grimaldi intraprendere e descrivere salite al- pestri e con bellissime parole levare a cielo le bellezze delle Alpi. E mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani che seppero d'un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar di piglio al bastone ferrato ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi che ogni popolo ci invidia».

Quintino Sella non si ingannava. Il terreno era preparato e in pochi mesi il Club Alpino nostro era fondato e fondato su basì così salde, che gli concessero in breve numero di anni vita rigogliosa e feconda.

La lettera con la quale Quintino Sella comunicava a Barto- lomeo Gastaldi l'idea di fondare un Club Alpino in Italia è del 15 agosto 1863. In poco più di due mesi 200 furono gli aderenti fra gli uomini più insigni d'ogni parte d'Italia, e il giorno 23 ottobre dello stesso anno, in una sala dello storico castello del Valen- tino, il Club Alpino nostro veniva costituito come società na- zionale, col programma fondamentale di « far conoscere le mon-

IL PRIMO CINQUANTENAHI » DEL CLUB ALPINO ITALL\NO 409

Telefot. del pittore O. Silvestri. Torrioni della Cresta Segantini. (Alpi lombarde)i

tagne, più specialmente italiane, e agevolarvi le salite e le esplo- razioni scientifiche».

Le Alpi col loro fascino irresistibile fecero accorrere alla nostra istituzione, fin dal suo inizio, una numerosa schiera di innamo- rati della montagna, che attivamente, che entusiasticamente diedero opera a coltivare i vari campi segnati alla sua attività.

Apre la schiera dei soci del Club Alpino Italiano Casa Savoia, con i suoi Re e coi suoi Principi, Gasa Savoia gloriosa e lunga serie nei secoli di montanari leali, forti, generosi, gentili. Casa Savoia, che alla nostra istituzione fu sempre lar- ga di benevolenza e di aiuto.

Primo fra tutti Vittorio Emanue- le II, il più grande amatore che ab- biano avuto le montagne italiane, dice Quintino Sella, « in Lui i senti- « menti erano velati sotto forme ed « apparenze ruvide; ma chi lo co- « nobbe intimamente, chi lo conobbe «davvero, con chi davvero Egli sa- « peva di poter essere compreso, que- « gli sa, che sotto quelle forme si « nascondeva un'anima di poeta, di «poeta di primissimo ordine».

Seguono Umberto I e S. M. la Regina Margherita, che prima fra le Regine fu alpinista entusiasta e valorosa, e le Loro Maestà il Re Vit- torio Emanuele III e la Regina

27

Da un di.seqno di C. Chessa. La guida Jean Antoine Carrel di Valtournanche.

VoL CLXVn. Serie V l" ottobre 1913.

410 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

Elena, cresciuta nelle montagne del forte Montenegro e delle bel- lezze del paesaggio interprete squisitissima, e le loro Altezze il Principe Amedeo Duca di Aosta, il Principe Vittorio Emanuele Conte di Torino, il Principe Tommaso Duca di Genova e il Prin- cipe Luigi Amedeo Duca degli Abruzzi, che nelle nebulose e desoe late terre polari, che nelle Alpi nostre e nelle montagne dell'Alaska, del Ruwenzori, del Karakoram ha così brillantemente fatto riful- gere l'energia, l'ardire, la tenacia della fibra italiana.

Chi esamini la serie dei soci del Club Alpino italiano, dalla sua fondazione ad oggi, vedrà fra ossi gli uomini più illustri e più benemeriti della scienza, dell'arte, della letteratura, dell'industria, della politica italiana; vedrà una lunga schiera di uomini forti, animosi, arditi, di educatori illuminati, di mecenati generosi, i quali tutti seppero portare, e sanno mantenere, il Club Alpino Ita- liano all'altezza dei Club Alpini stranieri più celebrati.

Non dirò dei viventi. La loro modestia non me lo concederebbe, e d'altra parte le pagine delle pubblicazioni del Club Alpino par- lano eloquentemente delle loro gesta e delle loro benemerenze nel campo del suo sport nobilissimo e nel campo dello studio descrit- tivo e scientifico non solo delle montagne del nostro paese, ma anche di quelle di lontane terre, in America, in Asia ed in Africa.

Fra coloro, che la morte inesorabile ci ha rapito, non è certa- mente d'uopo che io ricordi i nomi di Giacomo Rey, che per lunghi anni fu l'oculato e generoso tesoriere del C. A. L; di R. H. Budden, amico sicuro del Club Alpino Italiano e apostolo convinto dell'Al- pinismo nel senso più elevato della parola; di Paolo Lioy, natura- lista illustre, scrittore elegante, vivace, che dei fini dell'alpinismo e delle bellezze del mondo alpino fu divulgatore fortunato ed amato, e neppure è d'uopo che io ricordi lo Stoppani, il Mosso, il Denza, il Baretti, il Giordano, lo Spezia, il Nigra, il Corona, il Barale, il Gorret, Alessandro e Alfonso Sella, il Magnaghi, il Prudenzini, il Rizzetti, il Campanile, il Bombicci, il Cesati, il Silvestri, il Timosci, lo Zona, il Salmoiraghi, il Darbelley, Pietro Calderini, il Montefiore Levi, il Balabio, l'Abate Chanoux, il Carestia, il Marinelli, il Pe- razzi e via dicendo, e neppure i nomi delle guide più celebrate Alberto Baroni, G. A. Carrel, A. Gastagneri, G. Maquignaz, M. Pet- tigay, E. Rey, ecc. L'esempio dell'opera loro sia incitamento a pro- seguire con rinnovata fede sulla via segnata al Club Alpino Italiano.

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Quintino Sella fu l'ideatore del Club Alpino Italiano. Barto- lomeo Gastaldi ne fu il vero organizzatore. Egli seppe vincere non solo le difficoltà inevitabili all'inizio di ogni umana impresa: ma anche quelle imprescindibili, che il Club Alpino incontrò nel primo decennio della sua vita, dovute in gran parte agli avvenimenti poli- tici di quel periodo di tempo.

Dal 1873 al 1876, il Club Alpino Italiano con successivi graduali mutamenti raggiunse l'ordinamento presente.

Ma nella vita delle istituzioni, come in quella degli individui, non raramente avvengono crisi gravi, che ne possono mettere in pericolo l'esistenza. Una di queste crisi il Club alpino nostro attra- versò dal 1880 al 1882. Si deve all'opera sagace, prudente ed ener-

Neg. E. Terschak di Cartina d'Ampezzo. Il Pelmo da San Vito di Cadore.

412 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

gica di Antonio Grober se il Club Alpino Italiano ha potuto supe- rare felicemente il periodo più critico per la sua esistenza. Egli per circa vent'anni fu presidente della nostra istituzione e. si dimostrò degno successore di Quintino Sella.

A Quintino Sella, a Bartolomeo Gastaldi, ad Antonio Grober, all'ideatore, all'organizzatore, al consolidatore del Club-Alpino Ita- liano noi dobbiamo riconoscenza imperitura.

I campi d'azione del Club Alpino Italiano furono, fino dal suo inizio, segnati con mano maestra da Quintino Sella.

II Club Alpino deve promovere l'amore per lo sport alpino nel significato più nobile ed elevato della parola, come grande mezzo educativo fisico e morale. Deve diffondere e sviluppare l'amore per la montagna, sorgente meraviglisa di profonde e sane sensazioni estetiche. Deve promovere lo studio e la descrizione delle montagne nostre in tutti i loro molteplici aspetti, nella loro costitu- zione, nella loro fiora, nella loro fauna, nei fenomeni che esse pre- sentano, nella vita, nei costumi, nella storia dei loro abitanti.

Il Club Alpino deve infine cooperare al raggiungimento del fine altamente patriottico di affratellare le genti italiane, che per tanti secoli furono divise, e di far loro conoscere ed amare le bellezze incomparabili della patria comune, della quale le montagne sono tanta parte e così importante, affinchè il nome d'Italia sia alla mente di tutti gli Italiani visione fulgida di forza e di bellezza.

A raggiungere queste finalità nobilissime il Club Alpino Ita- liano diede opera costante fin dal suo inizio, ed essa fu nei primi cinquant'anni della sua vita così estesa, e così complessa, che sa- rebbe troppo lunga e ardua )cosa esaminarla minutamente. Mi limiterò a profilarla rapidamente.

Nel primo cinquantennio del Club Alpino Italiano un uomo vi fu, che sintetizzò, si può dire, nella sua vita alpinistica, l'opera multiforme della nostra istituzione: Luigi Vaccarone.

Luigi Vaccarone incominciò le sue gite, in montagna nel 1871 e per oltre trent'anni percorse le Alpi, compiendovi ben 48 prime ascensioni. Egli, dice Gu^do Rey nella sua bellissima ed affettuosa biografia, ebbe compagni degni di lui; inspiratore ed iniziatore fu « il Martelli, compagni delle sue prime gite furono il Baretti, il «Palestrino, il Bertetti, il Barale, il Balduino, il Gramaglia, l'Abate « Gorret, e poi il Costa, il Brioschi, il Nigra, l'Andreis, il Tavallini, « Guido Rey, il Gonella, il Della Valle, lo Sciorelli, il Corrà, il Ci- « brario, il Bobba».

Mente larga ed aperta a qualunque innovazione. Luigi Vaccarone volle sperimentare tutte le forme dello sport alpinistico, ascensioni con guide, ascensioni senza guide, ascensioni da solo, ascensioni invernali, modalità tutte che si sono venute successivamente affer- mando fra i nostri soci, anche col costituirsi di gruppi speciali come : il Club Alpino accademico, il Gruppo Lombardo alpinisti senza guide ecc., e certamente, se la morte non lo avesse prema- turamente rapito, noi l'avremmo visto, al sorgere del recente sport degli ski, skiatore entusiasta e perfetto.

IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

413

Quando Luig^ Vacc^rone e i suoi compagni intrapresero le loro prime ascensioni, rarissime erano le guide alpine, e in molte delle nostre vallate mancavano del tutto. Essi furono i maestri, e se il corpo delle guide italiane ha potuto dare così splendide prove, non solo sulle Alpi, ma sulle montagne di tutto il mondo, ciò si deve in gran parte agli insegnamenti ed agli incitamenti di quei primi valorosi soci del Club Alpino Italiano.

« Ma come dice Guido Rey l'anima del biografo rimane esi- « tante se maggior parte di studio e di onore debba dare alle im- « prese che furono le cause, « od alle opere che furono gli « effetti ».

Ed invero l'opera di Luigi Vaccarone come studioso delle Alpi non fu inferiore a quella di alpinista.

A Luigi Vaccarone e al Martelli si deve la Guida alle Alpi occidentali, pubblicata nel 1880, che segna una data importante nello studio de- scrittivo delle nostre Alpi e dell'alpinismo italiano, poiché fu ]a prima, e gli inglesi stes- si la giudicarono « grande do- cumento di imprese e di ri- cerche alpine ».

Nel 1890 Luigi Vaccaro- ne, con patriottico intendi- mento e con ricerca scrupo- losa di dati e fina critica, ci diede « La statistica delle pri- me ascensioni delle Alpi occi- dentali fino al 1889 », nella quale sono registrate ben 1160

ascensioni, e colla quale vien messo in evidenza il contributo gran- dissimo che gli italiani, e prima e dopo la fondazione del nostro Club, portarono alla esplorazione delle Alpi. Egli ci diede ancora una lunga serie di bellissimi lavori intorno a ricerche storiche sulle Alpi, a cominciare da quello sulle « Vie delle Alpi Cozie, Graie, Pennine negli antichi tempi » per venire a quelle sui « Principi di Savoia attraverso le Alpi nel Medio Evo».

Luigi Vaccarone fu alpinista nel senso più completo ed elevato della parola, e la sua vita è la dimostrazione manifesta dell'azione che il mondo alpino esercita sull'uomo della civiltà odierna, sia nell'esercizio e nel rafforzarsi delle sue qualità fisiche, sia nell'espli- carsi e perfezionarsi delle sue qualità intellettuali e morali; azione che Quintino Sella seppe così bene formulare nelle parole che io ho precedentemente ricordato.

Lunghissima è la serie delle opere che il Club Alpino Italiano ha compiuto nel suo primo cinquantennio di vita. Esse si possono così raggruppare :

Luigi Vaccarone.

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IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

Esplorazione delle Alpi con numerosissime e ardite ascensioni individuali Costruzione di rifugi, di sentieri, di ponti, di strade mulattiere Collocamento di indicazioni e segnalazioni stradali, di corde ecc. Pubblicazione di guide, di monografìe descrittive delle Alpi Studi intorno alla storia e alle scienze naturali delle Alpi Pubblicazione di panorami alpini, di carte geografiche e ricerche di toponomastica alpina Fondazione di osservatori me- -:•■_ teorologici e di ricerche

sperimentali, fra i qua- li^ la papanna-osserva- torio « Regina Marghe- rita », il più elevato di Europa, sulla punta Grufetti Organizza- zione del servizio delle guide e dei portatori e fondazione di una spe- ciale cassa di previden- za e di soccorso Corsi di ski per le guide e portatori per opera di istruttori militari Creazione di collezioni relative al mondo alpi- no — Esposizioni di fotografìe e di quadri di alta montagna Esposizioni di industrie alpine Carovane sco- lastiche, gite sociali, gi- te operaie ecc. Con- ferenze di coltura e di propaganda alpina Pubblicazione di un Bollettino e di una Rivista mensile che so- no lo specchio della grande attività dei soci e che illustrano cogli scritti e col disegno le montagne nostre; pub- blicazioni che oggi non sono inferiori a nessune altre congeneri.

Il Club Alpino Italiano ha promosso ed aiutato le scuole delle piccole industrie alpine, l'opera di rimboschimento e quella di pro- tezione della flora e della fauna, dei massi erratici, del paesaggio, la piscicoltura in montagna, la fondazione dei giardini botanici alpini, le colonie alpine, le ricerche speleologiche, ecc. ecc.

Ha dato opera allo studio scientifìco dei ghiacciai, alle ricerche intorno al folk-lore, alla etnografìa, alla storia delle popolazioni alpine.

Con numerosi congressi ha fatto conoscere ad una larga schiera di italiani molte delle splendide regioni della patria comune.

Neg. J. Bracherei di Aosta. Guide in marcia attraverso una ripida parete di ghiaccio col solo mezzo dei ramponi.

La Punta delle Cinque Dita (Cadore).

Heg^. di A. Brofferio.

416 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

è stata dimenticata l'opera di soccorso alle popolazioni delle nostre montagne colpite da fatali sciagure.

Le sezioni del Club Alpino sparse per tutta l'Italia sono state con- cordi nel lavoro multiforme e complesso che io sono venutjo ricor- dando e in tutte uomini illuminati, generosi e disinteressati hanno portato il loro contributo al raggiungimento delle alte finalità della nostra Istituzione.

Questa è l'opera diretta ed immediata compiuta dal Club Alpino Italiano; ma non meno importante fu l'azione che esso esercitò in maniera indiretta.

Costume di Montecrestese Costume di Campello

(Ossola). (Valsesia).

{Quadri di A. Balduino).

Chi consideri gli elenchi bibliografici relativi ai vari rami delle scienze fìsiche e naturali dopo la fondazione del Club Alpino Italiano, vedrà una lunga serie di ricerche, geologiche, mineralogiche, bota- niche, zoologiche, di fìsica terrestre, di meteorologia, di etnografìa, di storia, di economia e via dicendo, che poterono essere compiute fra noi in seguito all'opera del Club Alpino, che fu ad un tempo di incitamento e di agevolazione allo studio delle montagne nostre.

é da dimenticarsi che il grande sviluppo delle società spor- tive, turistiche, escursionistiche e il mutamento dei sistemi della educazione fisica della gioventù ha avuto aiuto efficacissimo nel- l'azione esercitata dal Club Alpino nostro, poiché esso fu il primo so- dalizio che sorse in Italia con indirizzo ben preciso e primo che ebbe a combattere le antiche idee e gli antichi pregiudizi. La sua prò-

IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

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paganda illuminata, assidua ed estesa preparò il terreno all'odierno fiorire degli esercizi e degli sports all'aria aperta.

Oggi il Club Alpino Italiano è lieto di vedersi circondato da numerose associazioni, e prima fra tutte il Touring Club Italiano, che per vie e con modalità diverse, cooperano al rinvigorimento fisico e morale della fibra italiana e alla conoscenza della patria no- stra bellissima.

Alle consorelle il Club Alpino Italiano invia auguri vivissimi di ininterrotto progresso.

Ecco l'operoso passato del Club Alpino Italiano, passato, che la Reale Società Geografica Italiana, così benemerita della Scienza e della Patria, volle in modo particolare segnalare, con- ferendogli nel febbraio scorso « la grande medaglia d'oro, premio del Re Umber- to I », colle seguenti parole :

« Intendendo così riconoscere nel mo- do più solenne le altissime benemerenze acquistate dal glorioso Club in quaran- tott'anni di vita feconda e volendo atte- stare la sua ammirazione per l'opera espli- cata nei vari rami della scienza ».

E l'importanza dell'opera compiuta dal nostro Club volle pure riconoscere, nel primo cinquantenario della sua vita, S. E. Luigi Gredaro, ministro della Pubblica Istruzione, conferendo alla Sede Centrale, e alla Sezione di Torino, che anch'essa compie oggi cinquant'anni di vita attivis- sima, una medaglia d'oro di beneme- renza.

Da un quadro di A. Balduina. Ora ci sia lecito spingere un rapido Costume di Gressoney (Aosta).

Sguardo innanzi a noi.

Nulla vi ha da mutare nell'indirizzo del Club Alpino Italiano. La via che egli deve percorrere è stata nettamente e fortemente se- gnata sin dall'inizio della sua costituzione e le finalità da raggiun- gersi sono ben chiare alla mente di tutti. Esse trovano il loro fon- damento saldo nelle più alte idealità della razza umana; il perfe- zionamento dell'individuo nelle sue qualità fisiche, intellettuali e morali, il miglioramento della collettività, il progresso della scienza, la maggior gloria della patria.

Ma se immutati rimangono i fini ciò non può essere per le mo- dalità dei mezzi per raggiungerli; poiché variano incessantemente e l'ambiente sociale e il campo della ricerca scientifica e le tendenze e i bisogni della patria nostra.

Lo studio di queste variazioni deve essere cura precipua e co- stante del Club Alpino Italiano affinchè l'esplicazione dell'opera sua possa dare sempre risultamenti veramente efficaci. Esso, come ha fatto fino ad ora, deve continuare a dimostrarsi istituzione inac-

418 IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO

cessibile a qualunque forma di misoneismo, deve, in una parola, trarre dalla montagna sublime la giovinezza perenne, la forza, l'ar- dimento, l'attività perseverante.

Il primo cinquantenario del Club Alpino Italiano coincide coi primi cinquant'anni di vita nazionale. È questo un tratto di tempo molto breve per la vita di una nazione e pur tuttavia esso segna per l'Italia un periodo storico di importanza somma. In esso un lungo cammino si è percorso; molte difficoltà sono state vinte, al risorgi- mento politico seguì il risorgimento finanziario e industriale, la co- scienza popolare si è fortemente affermata e con essa il principio che tutti debbono cooperare col loro lavoro al benessere e al progresso sociale. Nuovi diritti e nuovi doveri sono stati proclamati e il campo dell'umana attività si è venuto meravigliosamente allargando.

Il Club Alpino Italiano si trova oggi in un ambiente sociale notevolmente diverso da quello in cui venne fondato, ambiente che egli stesso, nella sua sfera di azione, ha contribuito a mutare e a rendere migliore. Le scienze tutte hanno, in breve volger d'anni, pro- fondamente rinnovati i metodi di studio e la tecnica: nuovi campi di ricerca sono stati aperti; nuovi ed importanti problemi si pre- sentano continuamente alla mente degli osservatori che in particolar modo interessano il mondo alpino. Molto del lavoro scientifico che anche pochi anni fa si credeva sicuro deve oggi essere intieramente rifatto, e nel campo vastissimo di ricerca scientifica che offrono le Alpi le lacune delle nostre conoscenze si presentano oggi grandi e numerose.

Il Club Alpino deve intensificare in questo campo l'opera sua cogli intendimenti e le modalità che le varie scienze richieggono.

La via da percorersi è lunga, le difficoltà da superarsi non sono poche; ma io sono persuaso che il Club Alpino Italiano procederà animosamente e che quando si solennizzerà il suo secondo cinquan- tenario una nuova gemma brillerà nella sua corona, quella dello studio scientifico completo delle Alpi nostre.

Analogamente al campo scientifico si è mutato e allargato il campo delle quistioni economiche che interessano le nostre mon- tagne per i rapidi cambiamenti avvenuti nelle industrie, nel com- mercio, nelle vie di comunicazione, nei mezzi di trasporto, nei rap- porti internazionali e nelle condizioni degli abitanti delle mon- tagne stesse. Il Club Alpino Italiano che per l'opera tenace dei suoi soci illustri, il Torelli, il Lampertico, il Finali, il Biancheri,il Sella, riuscì ad ottenere la prima legge del nuovo Regno a protezione dei boschi, e che mai ristette dal propugnare tutto ciò che potesse riu- scire a vantaggio delle vallate e delle popolazioni alpine, deve pro- cedere attivamente per modo che l'opera sua futura non sia infe- riore a quella passata nei risultamenti pratici.

In cinquant'anni di assidua esplorazione delle nostre montagne le vette principali sono state vinte e tutti i gioghi sono stati valicati. Fra non molti anni le vette saranno state salite da tutti i lati e da

IL PRIMO CINQUANTENARIO DEL CLUB ALPINO ITALIANO 419

tutti gli spigoli possibili, in tutte le stagioni dell'anno e con tutte le più svariate tecniche alpinistiche. La soddisfazione della cima domata per la prima volta o della nuova via percorsa andrà facen- dosi sempre più rara.

Qualcuno vede in ciò un pericolo grave per lo sviluppo dell'al- pinismo e per l'incremento dei Club Alpini, qualcuno crede che tutto ciò che essi hanno fatto e fanno per agevolare le ascensioni delle montagne conduca ad un lento, ma sicuro loro suicidio. Questi timori sono assolutamente infondati.

Le cause che traggono oggi l'uomo alla montagna hanno oramai agito così estesam.ente e partono da qualità così profonde della psiche moderna che, a parte ogni altra considerazione, si può ri- tenere con Angelo Mosso « che il pensiero di rafforzare il nostro organismo, di ricostituirlo con una nuova vita tra le scene gran- diose dei monti e dei ghiacciai, il desiderio della fatica, sono le fonti inesauribili che faranno fiorire per sempre l'alpinismo».

Il nostro Club deve, con piena fiducia nel suo avvenire, conti- nuare ad agevolare le gite nelle montagne, e le loro ascensioni a rendervi più facile, più piacevole e meno costoso il soggiorno, au- mentando e migliorando i rifugi, le strade, i sentieri, l'organizza- zione del corpo delle guide, pubblicando sempre migliori e più pra- tiche monografìe, carte, itinerarii e via discorrendo, affinchè di- venga possibile al maggior numero di peTsone il godere l'ambiente alpino per trarne il più efficace miglioramento fisico, morale e intel- lettuale.

Tutto questo lavoro del Club Alpino deve non solo essere pre- parazione e aiuto allo studio scientifico delle Alpi nostre : ma deve anche riuscire cooperazione importante per una razionale educa- zione degli italiani.

Il Club Alpino Italiano iniziò, dopo il voto del suo XXIV con- gresso a Palermo nel 1891, le gite scolastiche alpine, mettendo in pratica i consigli che Angelo Mosso, primo fra noi, andava divul- gando come reazione contro la /grossolana e antigienica ginna- stica, che allora esclusivamente si eseguiva nelle palestre chiuse, umide e polverose delle nostre scuole. In breve volger d'anni l'opera del Club nostro fu così efficace che le gite scolastiche in montagna divennero parte principale della attività normale delle sezioni. E noi oggi assistiamo allo spettacolo confortante dell'accorrere della gioventù studiosa alle montagne, non solo negli anni più giovanili, ma anche in quegli anni nei quali gli allettamenti meno sani della vita sociale hanno su di essa facile presa.

Il Club Alpino Italiano è lieto del fiorire dei gruppi di alpinisti giovani e della Sezione Universitaria, che ha portato così efficace contributo alla risoluzione del non facile problema della educa- zione fìsica dei giovani degli Istituti superiori, educazione che è, come ognun sa, di importanza grandissima.

Il Club Alpino nostro deve dare tutto il suo aiuto e tutta la sua cura a queste nuove e salutari tendenze della gioventù stu- diosa.

I mutamenti avvenuti con grande rapidità, in questi ultimi anni, nelle condizioni sociali del popolo nostro hanno allargato il campo di azione del Club Alpino Italiano e gli impongono il com- pito nobilissimo di concorrere a rafforzare la fibra non solo della

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gioventù studiosa, ma di tutte le masse popolari nelle quali è la sorgente inesauribile delle forze vive della nazione per le lotte nei campi del lavoro e nei campi di battaglia.

Il Club Alpino deve cercare di diffondere anche fra gli operai di tutte le categorie l'amore per le gite in montagna. La montagna è una grande educatrice e in essa si troverà certamente uno dei più efRcaci rimedi per combattere Falcooli&mo, il giuoco e gli altri perniciosi allettamenti che nelle masse popolari esercitano così funesta azione fìsica e morale.

Nel 1874, Quintino Sella diceva ai giovani : « correte alle Alpi, alle montagne, o giovani animosi, che vi troverete forza, bellezza, sapere e virtù » .

Nello stesso anno Giosuè Carducci chiudeva un suo memora- bile discorso pure rivolgendosi ai giovani con queste parole :

« Raccogliete, o giovani, in cuore la costanza e la gloria degli avi magnanimi, che fecero la rivoluzione dei Comuni e il Risor- gimento, che discoprirono nuovi continenti alla operosità umana, nuovi campi all'arte, nuovi metodi alla scienza, e l'arte e la scienza amatele come l'esercizio e la manifestazione in cui la nobiltà del- l'uomo più appare, in cui il valore delle nazioni si eterna ».

Siano, o giovani, nella vostra mente e nel vostro cuore indisso- lubilmente collegate le parole del grande statista e del grande poeta e vi dicano che lo sviluppo delle attività fìsiche non deve es- sere fine a stesso; ma substrato saldo e sicuro per lo sviluppo armonico delle più alte qualità della mente e del cuore.

Il Club Alpino Italiano con opera assidua, lottando contro la scarsità dei mezzi, contro vecchie idee e vecchi pregiudizii e spesso anche contro l'indifferenza degli italiani, ha efficacemente contri- buito allo studio' e alla illustrazione delle nostre montagne, al progresso della scienza e alla educazione della gioventù traendola dalle scuole chiuse e melanconiche a godere gli spettacoli grandiosi e vivificanti del mondo alpino.

È urgente ora che alla rinnovata educazione fìsica segua una rinnovata educazione intellettuale e morale. È necessario che nelle nostre scuole di tutti i gradi, sia portata l'aura dei tempi nuovi e dei nuovi bisogni del viver civile, è necessario che i nostri ordina- menti scolastici siano modificati in guisa da concedere un miglior esplicarsi delle attitudini dell'individuo e una più razionale edu- cazione delle facoltà intellettuali.

Solamente col promuovere un equilibrato sviluppo delle forze fìsiche e delle qualità della mente e del cuore noi possiamo sperare di formare uomini che siano tali nel più elevato senso della pa- rola e cittadini che sappiano portare la patria nostra ad una altezza che sia degna del suo glorioso passato e del genio italiano.

Lorenzo Camerano.

VERDI IN TRIBUNALE

Giuseppe Verdi aveva intentato azione giudiziaria contro il Gal- zado, per impedire che al teatro italiano di Parigi si eseguisse il suo Rigoletto: si avvicinava la fine del 1856, e l'impresa, che aveva fatto eccellenti affari con altre opere del maestro italiano, intendeva porre in scena anche il Rigoletto; e l'intervento del Verdi aveva un doppio scopo : assicurare l'esito artistico della sua musica, ed evitare uno di quegli atti di pirat^eria che allora (e anche ora in qualche Stato) erano consueti ovunque mancavano apposite disposizioni intese a salva- guardare la proprietà artistica e letteraria. Si rappresentavano opere musicali e drammatiche su copie trafugate o raffazzonate da qualche scrittore o musicista senza scrupoli, in barba ad autori ed editori, massacrando con esecuzioni dozzinali le opere d'arte più degne di ri- spettosa cura.

Quando si seppe dei dissensi tra il Verdi e il Calzado, e che il maestro invocava l'intervento dei tribunali, ne nacque un putiferio: il Calzado levava alte strida, affermando che il Verdi voleva la sua rovina; faceva, o lasciava correr la voce che il maestro lo aveva obbli- gato a scritturare cantanti che gli costavano tesori, quali una Piccolo- mini, un Mario, un Corsi. Ed ecco apparire nella Gazzetta musicale di Milano, del 26 ottobre '56, una lunga lettera da Parigi, in cui il corrispondente, che firma P. 0., smentisce le voci false e rivela inte- ressanti particolari del dietroscena Verdi-Calzado. '

Io sono autorizzato a protestare, in nome suo (del Verdi), contro la falsità di queste asserzioni : locchè non toglie per altro nulla alla stima che Verdi professa pel talento dei suddetti due artisti (Mario e Corsi). Ciò che v'ha di esatto si è che Verdi ha consigliata la scrittui-a della Piccolomini. Del resto tale contratto non è poi oneroso quanto lo si volle far credere, dacché questa cantatrice non costa a Calzado che 24000 franchi per cinque mesi.

...Appena arrivato Verdi a Parigi, due mesi sono circa, ebbe luogo un abboccamento tra lui e Calzado, il quale era accompagnato, mi fu detto, dal signor di Saint-Salvi, suo consigliere. Calzado esternò il desiderio di far rappresentare quest'inverno la Traviata e Rigoletto. Io non mi oppongo, rispose Verdi. Credo ben fatto tuttavia non affrettar troppo il Rigoletto', ed anzi vi consiglierei, pel vostro interesse, per quello de' miei editori, ed anche per la mia riputazione, a fargli precedere la Traviata. Ho un impegno col teatro di Bologna, dove dovrei portarmi per mettere in scena un'opera da me rifusa, lo Stiffelio: desiderate forse che io rinunci a quest'impegno? Ma in tal caso converrebbe ch'io fossi compensato d'una perdita certa di piti che 10000 franchi. D'altro canto, se io devo restare a Parigi quattro mesi, parmi non essere troppo esigente domandandovi diecimila fianchi per le mie spese di soggiorno. Io sorveglierò le prove della Traviata, ed inoltre vi prometto che se gli esecutori del Rigoletto mi sembreranno acconci, dirigerò anche quest'opera.

422 VERDI IN TRIBUNALE

Pare, se in luogo di due spartiti credessi conveniente di non allestirne che un solo, voi non verserete che dodicimila franchi, che è alla fin fine quello che io perdo non andando a Bologna. Spetta a voi del resto adesso a intendervi col proprietario delle mie opei-e. Io non voglio debbo assumermi alcuna ingerenza in quest'argomento : ciò non ostante credo essere in grado di accertarvi ch'ei tratterà con voi per la Traviata e Rivoletto alle me- desime condizioni già convenute in addietro pel Trovatore. Non trattasi insomma che di 200 franchi per sera da pagarsi al sig. Ricordi.

Ma Galzado preferisce non pagar niente, e metter su il Rigoletto con gli artisti che paiono a lui : e il Verdi eJDbe contraria la sentenza del Tribunale. Si appellò; e in pari tempo intervenne altra azione intentata, dal suo esilio, da Victor Hugo, il quale voleva vietare al Galzado di rappresentare il Rigoletto, perchè non autorizzato rifaci- mento del suo dramma Le roi s'aynuse. Sosteneva le ragioni di Victor Hugo l'illustre avvocato Grémieux, di cui è nota la buona amicizia con i più eletti artisti del periodo romantico; egli attaccava vivace- mente il principio della reciprocanza, in fatto di pirateria artistico- letteraria, assolutamente indegno di una nazione civile; ecco la dot- trina proclamata dal tribunale e dalla corte, com'egli la riassumeva : « Allorché sulla superfìcie del globo troverete uno Stato il quale non accordi al compositore francese il diritto d'autore nel caso che sui teatri di quello Stato si rappresentino produzioni francesi, anche il compositore, appartenente al detto Stato, e le cui opere venissero eseguite in Francia, non potrà reclamare alcun diritto di autore! »

Giuseppe Verdi ci rimise le spese; e Rigoletto e Traviata furono eseguite al teatro Italiano quando e quanto piacque al Galzado, che fece affari d'oro : la Piccolomini fu una Violetta straordinaria.

A Parigi il Verdi ebbe anche il noto e aggrovigliato processo- con l'Escudier.

Ma se in quelle occasioni il Verdi si era messo in una condizione difficile, perchè (disgraziatamente per lui e per l'arte) la legge non era dalla sua; e d'altra parte sembra che egli stesso avesse qualche concetto non giusto circa il diritto che potesse spettare all'autore nel disporre di un medesimo spartito, se col libretto in una o in altra lingua; in altra occasione la ragione e la legge erano in suo favore e l'altrui azione giudiziaria si spuntò, dissolvendosi, di fronte al suo buon diritto. E questo avvenne a breve distanza dai processi pari- gini, allorché si trattò di porre in scena a Napoli un'opera nuova del Verdi, Una vendetta in domino, che doveva poi tramutarsi in Un ballo in maschera.

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Pochi anni or sono Alessandro Pascolato pubblicò una serie di interessantissime lettere del Verdi ad Antonio Somma, nelle quali il maestro, dopo avere espresso le sue opinioni sul modo di concepire il dramma per musica, gli proponeva di ricavare per lui un libretto dal Re Lear dello Shakespeare : e poi, venuti in proposito ad una intesa, con acume ammirevole e alto senso drammatico e poetico, il maestro conduceva il poeta ad elaborare il soggetto in modo conforme ai suoi sentimenti. Ad un tratto, abbandonato il Re Lear, che già pare fosse stato dal Somma condotto a termine, ecco i due procedere d'accordo

VERDI IN TRIBUNALE 423

alla preparazione di un altro libretto, che fu appunto quello del Ballo in maschera.

E qui credo riuscirà gradita una parentesi, che mi permette di porre in luce una lettera inedita del Verdi, di poco posteriore a quella diretta al Somma per esporgli come intendeva il dramma per mu- sica : la lettera al Somma è datata da S. Agata il 22 aprile 1853; quella che riproduco, da Busseto il 4 luglio successivo. Dopo le considera- zioni generali, ecco le eccezioni particolari, in merito ad un soggetto propostogli da Roma, redatto da un librettista romano, ora dimenti- cato, ma che godeva allora di certa stima : era questi Giuseppe Ghec- chetelli, il cui nome è legato con quello di Filippo Marchetti, che su libretto del poeta romano scrisse la prima sua opera, La demente, eseguita nel novembre del 1856 al Garignano di Torino; e con quello di Giovanni Pacini, che pose in musica II Saltimbanco del Ghecche- telli, eseguito la prima volta all'Argentina di Roma nel maggio del 1858. Ed ecco la lettera :

Tu sai che io sono franco e francamente ti parlerò intomo al programma che tu e Vaselli mi avete mandato. Ben inteso intendo di dire semplicemente la mia opinione, non di dare un giudizio. Maria la felice non potrebbe convenirmi. Ammiro il talento con cui è fatto questo programma poiché avvi varietà, dimensioni vaghe, molto effetto (forse un poco troppo ricerca di effetto) ma il soggetto è orribile, nissun carattere è simpatico, quindi difficilmente si può eccitare l'interesse del pubblico.

Avvi anche qualche cosa che somiglia alla Tour de Nesle almeno nelle tinte. In- fine cinque atti sono troppi : è vero che i francesi fanno così, ma le condizioni nostre sono diverse. Qui c'è opera e ballo; all'Opera quando c'è l'opera non c'è il ballo poi quei poemi sono variatissimi, avvi entro molti ballabili etc. etc. Con tutto ciò nulla è più noioso d'un'opera alla Grand'Opóra, ad onta dei loro capi d'opera e d' una mise en scène porten- tosa e di cui noi non possiamo formarcene un'idea senza essere stato colà.

Vaselli offre di farmene fare un secondo programma, ed anche un terzo, ma io non ardisco chiederlo perchè se, caso mai, non mi piacessero io non accetterei e tu vedi quanta fatica gettata pel poeta.

Peraltro se ciò dovesse succedere bisognerebbe attaccarsi ad un soggetto non lungo, molto variato e con caratteri decisi etc. etc.

Jaco vacci è stato da me ma non ha voluto segnare contratto.

La difficoltà sta nel soggetto : io non ne ho in vista alcuno che possa convenirmi. Se io ne troverò o che altri lo trovi, io verrò a scrivere a Roma, se no, io vi rinunzio per- chè assolutamente non voglio più scrivere altro che cose di mia soddisfazione Ripeto non ho nulla a dire intorno la maniera con cui è trattato il programma e dei versi del- V Eì'mengarda del bravo Chechetelli....

Non conosco VErmengarda e non ho trovato traccie di un melo- dramma Maria la felice, dal 1853 in poi : chi sa che non sia quel soggetto, modificato e accorciato, lo stesso posto in musica dal Mar- chetti col titolo La demente, al quale fu appunto mossa la critica di esser troppo triste e non simpatico?

Questa lettera, efficace corollario a quella diretta al Somma, ci riconduce al Somma stesso e al suo Ballo in maschera, ossia alla Vendetta in domino.

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* #

Il 9 aprile 1856 Vincenzo Torelli, segretario e socio della Impresa de' RR. Teatri di Napoli, scriveva al Verdi, allora a Parigi, una lunga lettera (1) complimentosissima, nella quale esponevagli che, « avendo tenuto proposito al signor Monaco Presidente e Censore della nostra Società, uomo di un positivo che spaventa la leggerezza moderna, che alla lealtà dei costumi unisce potenti mezzi di fortuna, ha creduto onorevole e necessario egli stosso assicurarvene e pregarvi di volere arricchire ancora il Teatro di Napoli nella stagione del 1857-58, di un capolavoro Verdiano, per cui m'incarica di tentare nuovamente la sorte e di farvi a suo nome tutte quelle offerte, che egli immagina potervi sorridere. In questa speranza la Impresa nulla tralascerà per far contento l'ambito Verdi. E volendo appianare le future difficoltà vi dico che oggi la nostra censura è assai più soddi- sfacente; che la proprietà dello spartito potrebbe esser divisa per le due Sicilie all'Impresa, per fuori a chi meglio vi piace; che per la paga e modo, aspettiamo di conoscere la vostra idea; che per la sta- gione, la scelta sarebbe vostra, ma propizia certamente fra l'ottobre e novembre; che per la compagnia sul 1857-58 abbiamo già scrittu- rato Fraschini; non è diffìcile rifermar Goletti, il quale è la delizia di Napoli : resterebbe a scegliere la donna : ci direste in grazia, in gran secreto, il vostro desiderio, e sarebbe appagato. Abbiamo qui la Viola bello e piacente mezzo soprano, che anzi canta da soprano, chi sa vi piacesse metterne due; che il libretto e poeta sarebbero di vostra scelta, e pagati da noi; in fine siamo pronti a tutto, e con piacere, sia per compagnia, e magnifica messa in iscena e qualunque altro sacri- fizio per avere il Maestro Verdi.

« Dopo ciò la penna si tace, e parla il cuore alla vostra bella im- maginazione per poterci comprendere, calcolare, ed esaudire ».

Al lirismo del Torelli segue la rattifica del presidente Monaco, il quale, augurandosi la consolazione di una affermativa del Verdi, si augura altresì « che resterà di tutto soddisfatto ».

Il Verdi, con lettera del 22 aprile, da Busseto, si dichiara lusin- gato di quanto gli è stato scritto.

Ma vedi fatalità! aggiunge Nel prossimo Carnevale io avrei potuto scrivere per l'Italia e per Napoli, ma l'Impresa che, oltre all'aver scritturato altro maestro, si è obbligata con l' Editore Cottreau {sic) a dargli V intera proprietà delle opere scritte per S. Carlo anche fuori del Regno delle due Sicilie, si è messa nell'impossibilità di effettuare un contratto che sarebbe stato conchiuso in due parole. Pel 1857-58 non è certo che io scriva in Italia, ed ecco anche per questa volta pressoché perduta la speranza di ritornare a Napoli. Tutto quello che io posso dire pel momento si è, che scrivendo l'anno venturo in Italia, scriverò per Napoli, qualoi'a all'Impresa possano convenire le seguenti condizioni:

1 La compagnia di mia soddisfazione.

(1) Trovasi riprodotta, con altri documenti, nel raro opuscolo Difesa del Maestro Cavalier Giuseppe Verdi, nel Tribunale di Commercio di Napoli, tipo- grafia del Vesuvio. La difesa è a firma dell'avvi. Ferdinando Arpino: debbo alla cortesia della Casa Ricordi l'aver potuto compulsare l'opuscolo, di cui essa ha nei suoi archivi un esemplare.

I

VERDI IN TRIBUNALE 425

2. Ducati 6000 per mettere in scena l'opera e lasciare all' impresa la proprietà dello spartito solo pel Regno delle due Sicilie. Quanto al modo dei pagamenti, ed alle condizioni secondarie saranno indicate al momento del contratto, il quale non potrebbe essere stipu- lato e firmato che nel principio del 1857.

Volendo fare il Re Lear occorrerebbero i seguenti artisti : Un gran baritono per la parte di Re Lear.

Una prima donna soprano non di forza, ma di gran sentimento per Cordelia. Due eccellenti comprimarie. Un buonissimo contralto.

Un tenore di forza con bella voce, ma non di grande importanza. Pel soprano e contralto mi dicono tutti bene della Piccolomini e Giuseppina Brambilla. Ambedue hanno molto sentimento e sono giovani !

Da Napoli (2 maggio) risposta desolata, con speranze per l'av- venire : confermasi il contratto per la proprietà delle opere, non col Cottrau, ma con l'editore Fabbricatore.

Dunque con profondo dolore, quest'anno prossimo non è cosa Per 1' anno ven- turo 57-58^ tutte le condizioni da voi esposte sono accettate all'unanimità; tutto il consi- glio plaudente : tutti vi desiderano, vi bramano, vi aspettano come la nostra gloria e con- solazione — se voi ci vedeste, se ci sentiste, direste, voi gejieroso, tanto amore merita ugual corrispondenza, e dovreste subito prendere la penna, e firmare....

Ma il Verdi tien duro : non sarà libero di firmare il contratto che ai primi del 1857; ad ogni modo, per evitare imbarazzi alla direzione del San Carlo, la dichiara libera, liberissima, pregandola soltanto di avvertirlo se si ritiene sciolta, per potersi regolare; e aggiunge :

Nella supposizione poi che la Direzione potesse e volesse gentilmente aspettare, ed il contratto avesse luogo, io darei positivamente il Re Lear.

Per rappresentare il protagonista abbisognerebbe un baritono artista in tutta l'e- stensione del termine: un artista per esempio come era Giorgio Ronconi. Se dovessi sce- gliere fra Coletti e Colini preferirei il primo.

Il tenore non potrebbe avere gran parte, e Fraschini sarebbe troppo. La Lotti è ec- cellente nelle parti forti: non saprei cosa farne per Cordelia. Amerei moltissimo un con- tralto, e ripeto ancora che la Giuseppina Brambilla potrebbe fare lo interesse dell'Im- presa....

In quanto alla Piccolomini potrò nel caso io stesso incaricarmene.

Da Napoli (27 maggio) Vincenzo Torelli, con la solita conferma del Monaco, risponde che hanno letto in segreto la lettera, e conser- veranno il segreto per quanto è possibile, aggiungendo : « siamo con- tenti di aspettare qualunque tempo, contenti di affrontare qualunque sacrifizio, contentissimi di esaudire qualunque vostro desiderio da ora ben mite, ed onesto, purché ci diate la consolazione di venire ».

Poi cominciano le nubi sul bel sereno; dopo aver fatto le dichia- razioni illimitate che ora abbiamo letto, l'Impresa ha delle diffi- coltà : il Verdi vuole artisti di sua scelta per il Re Lear, e insiste nel senso già esposto fino da principio. Da Parigi, durante la lotta col Calzado, è in corrispondenza con la Direzione del S. Carlo; e per questa il Torelli, il 27 novembre 1856, rispondeva ad una lettera del

28 Voi. CLXVII. Serie V ottobre 1913.

426 VERDI IN TRIBUNALE

Maestro in data del 12 : « Se le cose portano che restiate a Parigi col vostro gradimento (con che sorta di gradimento, già sappiamo!), re- stateci pure con tutti gli auguri del mio cuore, che già tanto vi ama ». Poi, con afflitte parole accenna ad una eredità che all'attuale impresa ha lasciato il defunto amministratore Flauti, il quale nella scrittura con la Penco aveva posto il patto che avrebbe essa cantato l'opera del Verdi : © con abili moine cerca di condurre l'autore ad accettarla, per evitare guai all'Impresa, accennando anche (dopo avere però fatto abilmente comprendere che la Penco avrebbe potuto costringere l'Impresa stessa a stare al patto) che erano « pronti a scritturare la Boccabadati, ma imploriamo indulgenza e transazione dalla vostra bontà sul contralto, promettendo di prenderne una, se non vi piace la Viola ma non la Brambilla».

E il Verdi, con uno dei suoi fieri scatti, risponde da Busseto il 7 dicembre 1856 :

Rispondo poche parole di volo alla vostra del 27 novembre per dirvi che mi è impossi- bile il fatto della Penco. È nelle mie abitudini di non lasciarmi imporre da nessun artista tornasse al mondo la Malibran. Tutto l'oro del mondo non mi farebbe rinunciare a questo principio. Io ho tutta la stima del talento della Penco, ma non voglio che Ella possa dirmi : Signor Maestro : datemi la parte della vostra opera, la voglio : ne ho il dritto !

La conclusione si ha in altra lettera del Verdi da Marsiglia :

Impossibile che io venga a Napoli per montare un' opera già data.

Impossibile che io trasporti la scrittura ad altro anno.

Impossibile scrivere il Re Lear per un contralto, ed un mezzo soprano, di cui non ho molta opinione, ed un soprano non adatto al soggetto. Per quell'opera mi ridurrei avere il solo Coletti. È poco!

Per rimediare a questo non vi sarebbe altro che scegliere altro soggetto per la Penco, Fraschini, Coletti, etc. etc. Il Teatro Spagnuolo è ricco abbastanza di drammi moderni. Bi- sognerebbe lasciarmi finire l'opera di Venezia (doveva essere il Simon Boccanegrà), la- sciarmi dopo trovare questo soggetto, farlo approvare dalla vostra revisione: fatto questo sarebbe mia cura farlo verseggiare, metterlo in musica, e venire a metterlo in scena.

Che ne dite, può convenirvi questo progetto^

Se vi conviene tenete la cosa fatta.

La proposta fu accettata, e il 5 febbraio 1857 a Busseto il Verdi firmava la scrittura con Luigi Alberti, Impresario de' Reali teatri di Napoli; obbligandosi a scrivere « una musica su libro di una grande opera pel Real Teatro di S. Carlo di Napoli non minore di tre atti », da andare in scena nel gennaio del 1858, o anche prima, se possibile; l'argomento del libretto da mandarsi nel giugno 1857, per l'approva- zione della censura di Napoli, « senza di che la musica non potrebbe andare in iscena »; a scelta del Maestro la compagnia tra gli scrittu- rati dell'Impresa»; cessione all'Impresa di Napoli della proprietà della musica e del libretto per tutto il Regno delle Due Sicilie; paga- mento al maestro della somma di 6000 ducati, in tre rate uguali, la prima alla prima prova al cembalo, la seconda alla prima prova d'or- chestra, la terza alla prova generale; il libretto pagato*metà dal Mae- stro, metà dall'Impresa, « ciò per generosità offerta dal cav. Maestro »

VERDI IN TRIBUNALE 427

(stile Torelli puro!); « lopera sarà messa in scena dall'Impresario, per scene, vestiario, macchinismo e come merita così illustre maestro e tale spettacolo».

Ed ecco il Verdi alla ricerca di un soggetto : « Infiniti drammi e libri il maestro lesse (scrive l'Arpino nella Difesa), ma nissuno soddi- sfaceva a tutte le cennate convenienze, ed esigenze (di teatro, di pub- blico, di maestro), per modo che propose anche lo scioglimento del contratto, che l'Impresa non accettò. L'Impresa conosceva tutta la difficoltà del maestro, e malgrado decorso giugno, per la di cui fine avea promesso rimettere Vargomento del libretto, non elevava nis- suna protesta altro atto di messa in mora ».

Il 9 settembre '57, da Busseto scrive il Verdi al Torelli che la- vora giorno e notte intorno al soggetto dell'opera nuova, avendo scelto un dramma spagnuolo. « Avrei amato fare il Ruy Blas, ma, avete ragione, non conviene fare la parte brillante a Coletti, d'altra parte non avrebbe potuto fare quella del protagonista ». Ma nem- meno il soggetto scelto gli va a genio, e tenta una differente soluzione alla grave difficoltà, come rilevasi dalla seguente lettera al Torelli, da Busseto, 19 settembre :

Sono nella desolazione I In questi ultimi mesi ho percorso un' infinità di drammi (fra i quali alcuni bellissimi), ma nessuno facente al caso miol La mia attenzione erasi fermata sopra un dramma molto bello ed interessante : // Tesoriere del Re D. Fedro, che feci subito tradurre; ma, nel farne lo schizzo per ridurlo a proporzioni musicabili, vi ho trovato tali inconvenienti da deporne il pensiero. Ora sto riducendo un dramma francese, Gu- stavo III di Svezia, libretto di Scribe, e fatto all'Qo(*/'« or sono più di vent'anni (1). È grandioso e vasto; è bello; ma anche questo ha i modi convenzionali di tutte le opere per musica, cosa che mi è sempre spiaciuta, ma che ora trovo insoffribUe. Vi ripeto che sono nella desolazione, perchè per trovare altri soggetti ora è troppo tardi, e d'altronde non sa- prei più dove andarmene a scartabellare: quelli che ho sotto la mano m'ispirano nessuna confidenza. Vi fciccio dunque un progetto che può accomodar tutto, ed essere d'interesse tanto per il teatro, quanto per la mia riputazione. Deponiamo il pensiero di scrivere per quest'anno un'opera totalmente nuova, e sostituiamo a quella la Battaglia di Legna/m riducendola ad altro soggetto, ed aggiungendo i pezzi necessari come feci per V Araldo. Potrei, in questo caso, venire a porre in scena il Boccanegra e, se volete, anche VAroldo, ed infine la Battaglia. Così, inveco d'una, avreste tre opere che io dirigerei e, se l'amor proprio non m'illude, ol'una, o l'altra doM-ebbe pur riuscire. Aggiungo che le tre opere sarebbero perfettamente adattate alla vostra Compagnia.

Accettando questa combinazione, io fino da questo momento (se ciò vi piace) mi obbli- gherò a scrivere il Re Lear per l'anno venturo, facendo però una Compagnia adattata, come voi sapete che è indispensabile. Per non perder tempo maggiore, e sbrigar tutto in una volta, vi faccio anche le proposizioni d' interesse. Quanto al Re Lear, il contratto re- sterebbe tal quale, se si eccettui il cambiamento delle date. Quanto al Boccanegra, Aroldo 0 Battaglia, che sono di proprietà di Ricordi, è necessario che me la intenda con lui ed abbia la sua adesione : mi lusingo però di ottenerla, ed in questo caso voi avreste a fare soltanto con me. Avreste VAroldo e il Boccanegra a semplice nolo per la stagione di au- tunno e carnevale 1857-58, Vi lascierei la proprietà, pel solo regno di Napoli, dell'altra opera che ridurrei colla Battaglia. Il compenso sarebbe, per il nolo e mia direzione del

(1) Era stato rappresentato a questo teatro parigino, per la prima volta, la sera del 27 febbraio 1833, con musica di Auber.

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Boccanegra, mille e cinquecento (1500) ducati. Altrettanti per V Araldo. Tremila (3000) ducati per la Battaglia. Riflettete ed accettate questa combinazione che mi pare di tutto vostro interesse : io solo ci perdo, e voi stesso ne converrete, perchè non ho spartito da ven- dere agli editori ; ma non importa. Qualora ciò non potesse convenirvi, io sarei costretto di fare il Gustavo, di cui non sono contento che per metà. .

La combinazione proposta dal Verdi non fu accettata e rimase fissata la scelta sul Gustavo III; però da Napoli si chiesero modifica- zioni al soggetto, © il Verdi ne mformò subito l'avvocato Somma, rautore del Re Lear, cui aveva affidato l'incarico di verseggiare il li- bretto : infatti il 14 ottobre '57, scrive da Busseto al Torelli di aver mandato al poeta una lettera del Torelli stesso : « credo non sarà dif- ficile trasportare la scena altrove e cambiare i nomi, ma ora che il poeta è in lena, è meglio finire il dramma, poi penseremo a cambiar soggetto. Peccato! Dover rinunziare alla pompa di una corte come quella di Gustavo III e poi sarà ben difficile trovare un duca del ta- glio di quel Gustavo!! Poveri poeti e poveri maestri! »

Il 20 ottobre scriveva da Busseto al Torelli :

Ecco il libretto del Gustavo da presentarsi alla censura, non è in poesia, ma non è degli schizzi ordinari : il dramma è disteso completamente con tutte le scene, dialoghi, par- late, tutto, tutto, salvo la rima Ho dovuto far questo per guadagnar tempo Il poeta scrive, e da qui a qualche giorno, io pure incomincierò Il libretto è di grande effetto : vi sono situazioni nuove, e potenti : spettacolo finché vorrete. È riuscito migliore di quanto io sperava.

Come procedesse il lavoro del Somma, è ben noto, per le lettere a lui scritte dal Verdi e pubblicate dal Pascolato, dalle quali si vede come acutamente e con sicuro giudizio il Maestro suggerisse cambia- menti e correzioni al testo poetico; come non lo persuadesse la pro- posta del Somma (in conseguenza delle modificazioni al soggetto ri- chieste da Napoli) di trasportare l'azione nel xii secolo, « troppo lon- tano per il nostro Gustavo. È un'epoca così rozza, così brutale, spe- cialmente in quei paesi, che mi pare grave controsenso mettere dei caratteri tagliati alla francese come Guglielmo ed Oscar, ed un dramma così brillante e fatto secondo i costumi dell'epoca nostra. Bisognerebbe trovare un principotto, un duca, un diavolo, sia pure del Nord, che avesse visto un po' di mondo e sentito l'odore della Corte di Luigi XIV ».

Il 3 gennaio 1857 l'opera era già compiuta, e il 4 il Verdi lasciava Busseto per Genova per imbarcarsi col primo vapore per Napoli: giunse colà il mattino del i4 e consegnò immediatamente al Torelli il libretto della Vendetta in dominò, nella sua forma definitiva e come era stato posto in musica. Attese vari giorni; poi, non ricevendo co- municazioni di sorta, scrisse il 23 gennaio all'Alberti, impresario, questa letterina :

Cora'ella sa, io mi trovo in Napoli da otto o dieci giorni, e pronto ad adempiere gli obblighi del mio contratto. Ho quindi l'onore di prevenirla che, in forza dell'articolo 3, io ho scelto per eseguire le parti della mia nuova opera Una vendetta in Damino ì seguenti artisti: ^w^m, signora Penco; Osmr, signora Fioretti; Indovina, signora Ganducci; Duca, signor Fraschini; Conte, signor Coletti. Le altre parti di niuna importanza le scie- glierò più tardi. Abbia la bontà di rispondermi in iscritto se i suddetti artisti sono liberi ed a mia disposizione, onde cominciare al più presto le prove.

VTRDI IN TRIBUNALE 429

Allora scoppiò la bomba : perchè allora soltanto il Verdi seppe che lo schema da lui inviato a Napoli il 20 ottobre, non soltanto non era stato approvato dalla censura, come ripetutamente si è detto; ma alla censura neppure era stato sottopostxD, come rilevasi da questa curiosa dichiarazione :

A richiesta del signor Cav. Giuseppe Verdi, e di autorizzazione ricevuta dal signor Duca di Satriano Sopraintendente dei teatri e spettacoli attesto io sottoscritto, qualmente il sig. Luigi Alberti Impi-esario dei Reali Teatri in data dei 31 ottobre 1857 dii-esse al lodato Sopraintendente i-apporto del tenor seguente. Eccellenza. In punto ricevo il libretto d'opera, su cui il Verdi sta scrivendo la musica, onde si benigni urgentemente ri- metterlo alla censura. Firmato L. Alberti. E poiché il libi-etto in parola non consiste in altro che una seinplice bozza d'un'ai-gomento di uno diamma in prosa, così fu di mestieri scriverei dal Sopraintendente al suddetto impressario un ufficio del tenor seguente. R. So- praintendenza dei teatri e spettacoli. Napoli 2 novembre 18.57 n. 1074. Signor Impresario. Il libretto Gustavo III, che ella mi ha rimesso con su/i del 31 p. mese non può da me essere spedito alla censura per essere incompleto, ej^erò che qui com- piegato glielo respingo. Pel Sopraintendente assente il Deputato firmato Duca di Ventignano. Napoli 22 febbraio 1858. Il Segretario della R. Sopraintendenza Vincenzo Brignole Visto il Sopraintendente Duca di Satriano.

Al Verdi, fieramente indignato perchè tutto eragli stato tenuto nascosto, l'Impresa (che evidentemente non si era fatta viva quando egli giunse a Napoli, perchè subito aveva iniziate pratiche presso la censura) rispondeva tergiversando, e assicurando che l'approvazione non sarebbe mancata, tanto più che lo stesso soggetto si rappresen- tava contemporaneamente a Roma. Giunta la nuova a Milano, e con- fermata da una lettera del Verdi, la Direzione del teatro della Scala, per mezzo del Ricordi, profittando del dissidio, proponeva al Verdi di mandar subito a Milano il libretto, nella convinzione che la censura milanese non avrebbe avuto tante difficoltà, cosicché l'opera avrebbe potuto essere eseguita colà il seguente anno.

Il Verdi intanto cercava di giungere ad una soluzione della incre- sciosa vertenza, che si acuiva di giorno in giorno per le richieste di modificazioni da parte della censura : e, per risolvere, scrisse al To- relli, il 14 febbraio la seguente fiera lettera:

A voi, socio Segretario dell'Impresa dei RR. Teatri, a voi col quale solo sono stato in carteggio prima e dopo questo malaugurato contratto, mi rivolgo onde vogliate, come socio principale dell' Impresa, adoperar\T per venire ad una decisione qualunque, nelle spiacevoli nostre vertenze. Si propongono ancora, ed ancora, ed ancora (e mi pare uno scherzo, per non dire uno schenio) cambiamenti al libretto, i quali non tendono ad altro che a toglierne ogni carattere ed ogni effetto, dopo un'approvazione già data e da voi comunicatami. Trasportare quest'azione a cinque o sei secoli indietro?! Quale ana- cronismo! Togliere la scena quando si trae a sorte il nome dell'uccisore?!... Ma questa è la più potente e la più nuova situazione del dramma... e si vuole che io vi rinunzia! Ve l'ho detto altra volta, io non posso commettere le mostruosità commesse qui nel Ri- goletto. Si fanno perchè non posso impedirle. vale dirmi del successo: se qua e qualche pezzo, due, tre, ecc., vengono applauditi, ciò non basta per formare il di-amma musicale. In ùitto d'arte ho le mie idee, le mie convinzioni ben nette, ben precise, alle quali non posso, devo rinunziare.

430 VERDI IN TRIBUNALE

Che l'Impresa dunque, se non può sostenere 1' approvazione di già ottenuta, pro- vochi dalla Censura in una maniera formale e decisa od una autorizzazione od un veto, ed allora potremo noi pure venire ad una soluzione. Se l'Impresa vorrà farmi una causa, come sento dire, io non la temo, perchè mi credo nel mio diritto. Se l'Impresa vuole annullare per cause indipendenti dalla nostra volontà il contratto, senza che ne venga danno ad alcuno, io accetto ancora. Com'ella vorrà, purché si decida e senza perdere altro tempo. Pettegolezzi ne furono fatti abbastanza.

10 sono forestiero : i miei affari non sono qui ; sono venuto in Napoli per adempiere gli obblighi di un contratto ; se ostacoli impossibili a prevedersi, dirò di più, a compren- dersi, lo impediscono, la colpa non è mia. Garantite i vostri diritti, se ne avete e se lo volete, ma lasciatemi libero.

11 17 febbraio fu reso al Verdi il libretto, approvato sì, ma ridotto irriconoscibile, col titolo sostituito con quello di Adelia degli Adi- mari, sicché il Verdi ebbe a dichiarare che non poteva accettarlo, eoe-, rente con quanto aveva già esposto nella lettera ora riportata : e su- bito, sapendo l'impresa intenzionata di prendere le vie legali, scrisse all'amico Luccardi, a Roma, di mandargli il manifesto del Gu- stavo III, che era stato colà rappresentato dalla compagnia Dondini; di andare dal Vasselli perchè trattenesse presso di partitura e parti del Simon Boccanegra, ove non le avesse ancora spedite al Ricordi, perché forse ne avrebbe avuto bisogno a Napoli; di spedirgli subito il libretto del Simon Boccanegra. Evidentemente per proporne la eventuale esecuzione, rinunziando alla Vendetta in domino.

Che la censura di molti paesi fosse allora sospettosa e irremovi- bile, era ben noto al Verdi, che ne aveva sofferte di tutte : in una cor- rispondenza da Roma (3 gennaio 1851) alla Gazzetta musicale di Mi- lano sulla esecuzione della Luisa Miller al teatro Apollo, é riferito che «nella scena: Quando le sere al placido ecc., il vocabolo a.rmo- nico sostituito dalla detta censura alla parola angelico promosse so- lenni risate nei palchetti e nella platea »; pure nel gennaio 1851, a Co- stantinopoli non si erano potuti eseguire / Lombardi col libretto ori- ginale : « Vi si é cambiato il titolo in quello di Giselda, e... fu traspor- tata l'azione in Sassonia all'epoca della guerra che Carlo Magno fa- ceva contro quei popoli idolatri»; sono bene note le trasformazioni del Rigoletto in Viscardello e Leonello; dello Stiffelio in Guglielmo Vellingrode: a Messina il donizettiano Marin Faliero diventa Pascià di Scutari, come, a Roma, Maria Padilla è trasformata, in Sposa legit- tima; e, sempre a Roma, il Saul del maestro Fenzi diviene La Pito- nessa d\Endor, Lorenzino de' Medici del Pacini si muta in Elisa Va- lasco, e, nel 1855, vi si eseguisce V Emani senza il terzo atto; L'Ebreo dell'Apolloni si cambia in Lida di Granata; il 'Nicolò de' Lapi del Pa- cini appare a Venezia col titolo La punizione.

E in proposito é preziosa una dichiarazione del buon Mazzuc- cato, quando nel 1856 si rappresentarono in Italia / vespri siciliani trasformati in Giovanna di Guzman : « Dacché la nuova opera di Verdi, per espresso volere dell'autore medesimo é destinata a rappre- sentarsi sulle scene italiane sott'altro nome non solo, ma con muta- mento di fatto, d'epoca, di nazione, di personaggi, la tela e il dialogo

VERDI IN TRIBUNALE 431

primitivi meramente conservando, tornerebbe intempestiva ed inu- tile qualunque riflessione sul libretto originario di questa musica, sui Vespri siciliani dello Scriba. Questi Vespri per noi non esistono, ma solo esiste Giovanna de Guzman, e su di questa la critica italiana deve limitarsi ad esporre il biasimo e la lode ».

Come mai colui che tanto aveva consentito e sopportato, si ribel- lava ora così fieramente contro l'azione dell'Impresa e della censura napolitana? Perchè quivi le cose erano giunte all'eccesso: l'Impresa citava in giudizio il Maestro « per Virragionevole rifiuto della con- segna della musica e della messa in scena, domandando danni ed in- teressi da liquidarsi per via di specifica, coll'arresto personale » : e i danni voleva fossero valutati quaranta mila ducati; e poi il libretto diOiV Adelia degli Adimari era troppo indegna sconciatura di quello del Somma.

Nella Difesa dell'avvocato Ferdinando Arpino sono esposte le dif- ferenze tra il libretto originario e quello raffazzonato dall'impresa; e, come prima di tale raffronto, esponendo idee generali circa la corri- spondenza tra musica e poesia, aveva l'estensore della memoria ci- tato Aristotile e riprodotto un tratto dell'Arce poetica di Orazio nella versione del Metastasio; così per quasi ogni tratto dell'esame dei due libretti, riporta frammenti della stessa Arte poetica, nella medesima traduzione; ne vien fuori un complesso curiosissimo, che vale la pena di riprodurre testualmente.

a) Il maestro prevedendo che la censura non avrebbe gradito per titolo del- l'opera il nome di un Sovrano, qual'era Gustavo III, l'aveva intitolata Una vendetta in Dominò. È risaputo che il titolo di un'opera letteraria qualunque deve presentare l'idea principale del trattato, e sotto quello di Una vendetta in Dcrminò era facile il concepire, che il dramma dovea comprendere la posizione principale di un atto tragico vendicativo.

L'impresa cangia il titolo, e surroga ({wdìo à\ Adelia degli Adimari, nome che non dice nulla, fantastico, non corrispondente all'argomento del maestro.

Non cominciar così, come già fece Quel narrator di lunghe storie in versi: Tutti di Priamo i fortunati eventi, La nabli guerra io canterò... Qual mai A larghe promesse opera eguale Darà costui? Partoriranno i monti, Vii topo nascerà.

(Vers. 202).

b) Il maestro Verdi riceve tutt' i giorni libretti ed argomenti da tutt' i poeti italiani, i quali aspirano all'onore di vedere musicato un loro lavoro dal suo genio. Costui avea in preferenza scelto il poeta A. Somma, di Venezia, autore della Parisina, e del Marco Bozzari, avvocato ragguardevole, e di riputazione colossale nella repubblica letteraria.

L' impresa, foggiando un nuovo libretto, sopprime il nome del poeta, quasicchè il maestro non avesse potuto trovare un poeta, che gli avesse voluto verseggiare un dramma. Ma tutti sanno quale prevenzione e quale stima merita un poeta distinto, e viceversa quale disprezzo un anonimo ! !

e) Il maestro per accomodare il soggetto alla scena, di Gustavo III Re di Svezia, ch'era il protagonista, ne aveva formato nella sua vendetta in Dominò un

432 VERDI IN TRIBUNALE

duca, di carattere amabile, brillante, cavalleresco, che fa tutto il bene possibile al proprio

L' impresa col suo libretto ne forma un uomo freddo, senz'azione, cinto di amici pe' quali non fa nulla.

... Se ne' tuoi carrai a sorte Vuoi far soggetto il celebrato Achille; Pronto, iracondo, inesorabil, fero, Leggi non soflEra, e isua ragion sian l'armi.

(Vers. 174).

d) Nel dramma del maestro era vi un paggio, imberbe, di carattere vivo, spen- sierato, che nella sua qualità di ragazzo si permette di scherzare e lanciare frizzi a tutti, senza che nissuno se ne offendesse.

Ì^QWAdelin- dell'impresa si sostituisce all'imberbe ragazzo e paggio un giovine guerriero, che dice presso a poco le stesse parole. Ma chi non rileva che ciò che riesce grazioso e piccante in un paggio, diviene falso, odioso, insulso nella bocca di un guerriero?

Fanciul che ad imitar già i detti apprese,

E già stampa il terren d'orme sicure.

Lieto scherzar vuol co' suoi pari ; a caso

E si sdegna e si placa, e se diverso

Cento volte da se mostra in breve ora.

L'età viril, cambiando genio, e brama

Ricchezza, e cerca amici, e ambisce onori.

(Vers. 236 e 251).

e) Nel libretto musicato dal maestro la donna era credula, entusiasta, appas- sionata, che lottava perpetuamente fra l'amore ed il dovere.

L'impresa, nella sua Adelia ne ha fatto un carattere insulso, freddo; ed il più ridicolo si è, che le si in mano un pugnale, senza che ella, alcuno possa com- prendere a qual'uso debba servire.

Inflelssibil Medea; sempre di fede Mancatore Issione; Io vagabonda; Ivo piangente; tormentato Oreste.

(Vers. 178).

f) L'epoca della Vendetta in dominò era del secolo XVII, secolo elegante e cavalleresco, come quello di Luigi XIV e XV.

V Adelia dell' impresa è del 1385, epoca di ferro e di sangue.

Ora non è possibile fare indietreggiare una musica nientemeno che di quattro secoli. Come ciò pratticare senza commettere il più stupido degli anacronismi?

Se il maestro ha cercato, com'era suo dovere, dare alla musica il carattere del- l'epoca, e la così detta tinta locale, è un' esorbitanza, il pretendere che potesse pre- starsi a rappresentare la tinta di quattrocento anni precedenti.

Ma se pure a giusti applausi aspiri {sic) Osservar d'ogni età dessi il costume, E l'indole spiegar qual si conviene, Varia in ciascun al variar degli anni.

(Vers. 234).

g) Nel dramma del maestro fra gli altri personaggi oravi per una scena il pro- tagonista Duca travestito da marinaro, che canta una ballata con espressioni marina- resche.

VERDI IN TRIBUNALE 433

L' impresa nella sua Adelia ne fa un cacciatore, che dovrebbe vagare fra i boschi e le foreste.

Scordar non denno, a parer mio, che tratti Furo i Fauni dal bosco, e lor disdice In cittadino stil, come nel foro Nati e ne' trivii, o folleggiar con troppo Teneri versi, o sempre aver fra labbri Ingiuriosi, osceni detti.

(Vers. 367).

h) La più potente, originale e culminante situazione del di-amma del maesti'O era un sorteggio, dal quale dovea uscire il nome destinato dalla sorte per commettere un gran misfatto. Il maesti'O sperava da essa in conseguenza risultare il più bel pezzo della musica.

L'impresa ha soppresso interamente questa situazione, sostituendo parole ed azione senza significato. Di grazia puossi ragionevolmente pretendere nel contempo che la musica non faccia un solenne fiasco?

Nissuno dotato di buon senso avrebbe potuto pretendere, che l'autore ed il mae- stro del Rigoletto avesse rinunziato alla situazione del Quartetto, od a quella del Mi- serere nel Trovatore.

i) Nel libretto del maestro eravi una scena di ballo, nella quale udivasi da diveree parti musica interna di ballo. Intanto diversi personaggi sul davanti della scena parte a viso scoperto, parte coverti da maschere, o cappucci passeggiavano, con- vereavano, scherzavano, s'interrogavano, e nascevano fra il paggio e gl'invitati gra- ziosissimi colpi e punti di scena. In mezzo a tanto movimento una donna parimenti mascherata, o coperta con cappuccio, si mischiava fra loro, ed avvisava in disparte l'a- mante che la sua vita era minacciata. Nissuno si accorgeva di essi : uno solo (ed era il marito) li seguiva, ed a tempo debito colpiva l'amante.

L'impresa nella sua Adelia sopprime il ballo: solo si vede una moltitudine di invitati (come dice il novello libretto), e non si capisce il perchè? Tutti sono a viso scoperto : tutti si riconoscono : quindi ogni giuoco di scena è perduto, e tutto quello che si dice non ha senso.

E può una musica scritta per tale situazione della Vendetta in dominò cor- rispondere a quella creata dall'impresa?

Or cosi meste voci al volto afflitto. Minacciose all'irato, austere al grave, Scherzevoli al festivo unir conviene

(.Vers. 155).

l) Nella scena anzidetta l' impresa nel suo libretto fa giungere una donna col volto coverto da un velo. Essendo la sola persona a viso coverto deve neces- sariamente essere rimarcata da tutti, e quindi anche dal marito. Come dunque av- vertire in disparte l'amante? Impossibile! E per conseguenza impossibile la cata- strofe, svanito ogni interesse ed ogni effetto:

E se allo stato di chi parla i detti

Non som concordi, andran le risa in Roma

E nobili e plebee sino alle stelle.

(VerB. 163).

m) Il libretto del maestro musicato esprimeva l'azione nella Pomerania, ossia nel Nord.

434 VERDI IN TRIBUNALE

L'impresa porta l'azione nel Sud, ossia in Firenze nel centro dell'Italia. Ma i costumi, la lingua, il carattere de' popoli settentrionali non possono adattarsi a' po- poli meridionali:

Perciò non poco importerà se un Nume È chi parla o un Eroe, Mercatante o villan, Pontico o Assiro, Se m Tebe fu, se fu nutrito in Argo.

(Vers. 165).

nj Nel dramma del maestro si faceva riconoscere il Duca protagonista dal cappuccio con nastro roseo al petto.

L' impresa ne designa l' indicazione col dire che era colui che insieme con altri usciva da una stanza. Ma tra due o più ch'escono dalla voluta stanza, come di- stinguere il protagonista? Potea benissimo cangiarsi l'uno per l'altro, e così divenire sconcio e ridicolo qualunque effetto.

Tutto ciò dei pensar, perchè a vergogna Non ti recassi mai la lira, il canto, Il commercio d'Apollo e delle Muse.

(Vers. 627).

Gran chiasso fecero i giornali intorno a tale processo; e dagli ar- ticoli allora pubblicati si ricavano curiose e interessanti notizie sul retroscena della questone e su talune consuetudini imperanti nello svolgimento della vita teatrale : e taluna non è ancora scomparsa! Si rileva, ad esempio, che per la mancata esecuzione dell'opera nuova del Verdi, abbonati e Governo protestavano contro l'impresa, rifiu- tandole la terza rata di dotazione e di abbonamento; erano circa qua- rantamila ducati, che l'impresa pretendeva dal Verdi a risarcimento dei danni sofferti per il rifiuto dello spartito.

Parve possibile un componimento tra i contendenti : Verdi si sa- rebbe impegnato a scrivere un'altra opera da rappresentarsi nella estate o nell'autunno : ma in una corrispondenza da Napoli alla Gaz- zetta musicale di Milano del 21 marzo 1858, dopo osservato che questo i< sarebbe stato il miglior partito da prendersi, perchè in tal modo Verdi portavasi con integro e vergine il libretto e lo spartito della Vendetta in domino da destinarsi ad altro pili fortunato teatro, ed avrebbe potuto compórre la nuova opera su libretto che fosse già passato sotto gli occhi di tutti gli Argo dell'approvazione senza più temere forbici veto », aggiunge:

Ma ecco che la serenità di questo componimento di nuovo s'intorbida, e più nera sorge la tempesta. Del resto, come mai dopo che le trattative d'accomodamento erano abbastanza inoltrate per non dubitare che fossero portate ad una conclusione, come mai, dico, andarono rotte e si venne a guerra? Uditene il motivo e stupite.

A Napoli non si usò mai di pubblicarsi dagli editori di musica le partiture delle opere teatrali ; se nonché venne a cognizione del maestro Verdi che questa novità voleva secretamente effettuarsi dall'editore di Napoli che avrebbe avuto in quel regno la proprietà dell'opera Una vendetta in dominò. Una tale pubblicazione si voleva fare allo scopo di diramare lo spartito in tutti i paesi, anche fuori del Regno delle Due Sicilie, pe;* enorme- mente compromettere gli interessi del maestro stesso e dell'editore proprietario dell'opera

VERDI IN TRIBUNALE 435

per tutti i paesi, meno che nel ristretto circolo del detto Regno di Napoli. Per impedire un tanto danno Verdi voleva, come di giustizia, che nel nuovo contratto si ponesse la condizione, che almeno per un certo tempo non si sarebbe mai stampata la partitura a grande orchestra, e che inolti-e le prime riduzioni dell'opera sai-ebbero state stampate 15 giorni dopo la prima rappresentazione onde lasciar tempo all'editore generale di fare la sua edizione. Tali condizioni così o^Tie e così giuste, e tanto consentanee alle abitudini in uso, furono negate dall'Impresa, ed il trattato di componimento fu rotto per tale pre- testo. Cosa pensare di questo rifiuto? Qual mistero vi si nasconde? Non sono queste bas- sezze ed infamie inaudite ?

L'impresa aveva intanto pubblicato anch'essa la sua brava com- parsa, a firma di Davide d'Aquino e Teodorico Cacace : e il corrispon- dente della Gazzetta inusicale (28 marzo 1858} richiama l'attenzione dei lettori su tale opuscolo « che si conchiude con un trattato d'Este- tica musicale da proporsi ai giovani che intendono a creare nuove opere musicali pel teatro, onde da esso apprendano come debbano sentirsi nello stesso modo in musica le passioni, sia che fervano nel petto d'un Otello o sotto il gilet dei nostri Dandy, e come debbano considerarsi le epoche dei tempi più o meno rimoti e le tinte locali quali vanità e superfluità dell'arte. Insomma io consiglierei l'Editore- proprietario di codesta Gazzetta musicale di fare una nuova edizione della celebrata, opera d'Asioli, Il Maestro di composizione, con ag- giunta d'un trattato d'Estetica sulla musica delle opere teatrali, trat- tato che d'ora innanzi avrebbe l'appellativo di Trattato d'Estetica Cacace ».

Allegava altresì l'impresa il fatto di una lettera da essa indiriz- zata al Verdi, per a\^ertirlo in tempo delle obiezioni della censura: ma tale lettera non esisteva. Il Giornale di Roma esponendo larga- mente i fatti é gli argomenti, insiste sul tranello che sarebbe stato teso al Verdi con la proposta, di conciliazione, fatta in modo da per- mettere all'impresa stessa di stampare la partitura d'orchestra della nuova opera, e ricavarne gran lucro potendola cedere anche fuori del regno delle due Sicilie. Nella Gazzetta di Venezia è poi una curio- sissima corrispondenza, irta di cifre, che rivela circostanze assai in- teressanti circa la vita teatrale di allora, e sulla tanto discussa im- presa dei teatri di Napoli.

... Se volete ben conoscere la storia delle cose, per far^•ene un'adeguata idea, vi dirò che, essendo questa impresa capitata in mano di usurai, si calcola, non quanto il molto spendere potrebbe produrre, ma quanto il poco spendere fa risparmiare. Così se per un bellissimo spettacolo, spendendo 20, produrrebbe 30, si spendon 10, e non fa nulla ch'e' produca soltanto 12, bastando quel 2 di guadagno ad anime grette ed avare. Così la malattia di Fraschini, della Viola ed altri, la mancanza di Verdi e di Battista, non han prodotto il calcolo che, non dando questi, si è meno introitato, ma che invece, per la man- canza, si è risparmiata la loro spesa.

E per meglio addimostrar\'i ciò, riduco a cifre il mio assunto :

Risparmio di Fraschini per tre mesi, 1400 il mese, fanno ducati . . . 4200

Per la Viola, malata per quattro mesi e mezzo, a ducati seicento il mese, ducati 2700

Per l'opera di Verdi 6000

Daripoitarsi . . . 12900

436 VERDI IN TRIBUNALE

Riporto . . . 12900

Per la messa in iscena di essa, vestiario, scene ed altro, ducati .... 2000

Per l'opera di Battista; ducati 500

Per messa in iscena, vestiario, scene ed altro della stessa, ducati . . . 1200

Tanti risparmiati, ducati 16600 Mancando Fraschini, sonosi spesi in Toffanari, Baldanza ed altri,

circa ducati ; 2000

Vuoisi che la Sopraintendenza condanni la Impresa, per gli obblighi mancati di Verdi, Battista ed altri, a rilasciare agli abbonati il terzo del- l'ultima rata in circa ducati 5500

ducati 7500 Onde, secondo il calcolo degli usurai, alla fin fine, dai ducati 16600 tolti questi 7500

Restano sempre di guadagno ducati 9100 Vedete dunque che gli usurai non sono ne rischiosi sciocchi, ma 1' onore del massimo teatro è vilipeso e gittato nel fango, mancando a tutti gli obblighi, strapazzando il pubblico, e mettendo in tasca bellamente 70000 ducati di regia dote.

La conciliazione con Verdi è stata impossibile perchè il maestro esigeva che si fosse scritturato Fraschini, che è la delizia di Napoli, essendo il Negrini sempre malato; ma gli avari, non allontanandosi dal loro calcolo dicono: « Fraschini non iscritturato è tanto di guadagnato: Ve?'di non iscritturato è tanto di risparmiato; dandosi le sue opere, nuove per Napoli, Aroldo e Boccanegra, jorm in frode, per ducati 50 l'una ». Calco- late or voi quale orrenda e disonorevole condotta è quella dell'Impresa di Napoli.

In tutto ciò, uno è il peccato originale; la debole Soprintendenza, la quale a tempo debito non provvedeva (dovendo garantir pubblico e regia dote) alle mancanze di Fraschini, della Viola, di Battista ed altre molte. Dove non ha onore, ci vuol rigore. Napoli, 31 marzo.

Ma ecco ad un tratto un'altra sopresa: mentre pareva che la lotta fosse per giungere al colmo, si sparge la nuova di un vero e defi- nitivo accomodamento; ossia, della completa ritirata dell'impresa di fronte alle ragioni del Maestro: la Gazzetta ufficiale milanese ne dava la notizia, in una corrispondenza da Napoli in data del 17 aprile. Il corrispondente, riassunte le fasi della controversia, scri- veva :

Fatto sta che, mentre moltissimi amici ed ammiratori del maestro attendevano non senza ansietà il risultato finale della controversia, si venne contro ogni aspetta- zione a sapere che l'impresa aveva d'un tratto smesse tutte le sue enormi pretese e ritirata l'istanza. Verdi naturalmente ritirava la sua anch'esso.

Soltanto, quasi a suggello di conciliazione, si chiese a Verdi di recarsi nel no- vembre a Napoli a dirigere i concerti del suo Simon Boccanegra, qualora l'impresa desiderasse allestire tale spartito per quell'epoca : il che sarebbe stato deciso definitiva- mente non più tardi del prossimo giugno. Verdi acconsentì, a condizione per altro che r impresa, per l'esecuzione di quest'opera, si valesse di una copia acquistata regolarmente dal vero proprietario dello spartito, il signor Ricordi di Milano, anziché di una copia contrafatta; come qui suolsi quasi sempre praticare: che di copie eontrafatte non v'ha da noi giammai penuria, stante il rifiuto di questo Governo di accedere alla convenzione

VERDI IN TRIBUNALE 437

dell'Austria cogli Stati Italiani, e stante le sfacciate piraterie che ne sono la necessaria e troppo deplorabile conseguenza.

L' impresa dal suo canto accettò la condizione impostale dal maestro.

Fa d'uopo quindi arguire che l'impresa medesima la si conoscesse navigare in assai attive ac^ue se, dopo la richiesta di un indennizzo spropositato, si risolse a sbor- dare ella stessa una somma non- indifferente per un altro spartito di quel Verdi cui avevu mossa una guerra accanita ed ingiusta : spartito inoltre che, come vi diceva, avrebbe potuto (volendo) qui procurarsi per pochissime lire, seppure non lo possedeva diggia!...

Frattanto il Verdi aveva già preso le sue brave misure per collo- car bene lo spartito incriminato e prendersi una rivincita dopo la sleale guerra mossagli a Napoli. Al Luccardi, che da Roma gli aveva mandato subito il programma del Gìistavo 111 eseguito dalla compa- gnia Dondini, e il libretto del Simon Boccanegra, chiesti il 18 feb- braio dal maestro, questi, ringraziando dell'invio, dava incarico di parlare all'impresario dell'Apollo, il famoso sor Cencio Jacovacci, per suggerirgli di prendere la Vendetta in domino; aveva avuto la ri- chiesta da Milano, come vedemmo; ma egli preferiva Roma. E il sor Cencio, che intravide un buon affare, abboccò : si adoprò presso la censura; non ottenne tutto quel che volle, come si è detto e ripetuto; ma il Verdi e il Somma ritoccarono il libretto sensibilmente, come è dimostrato dalle lettere pubblicate dal Pascolato, in conseguenza delle esigenze della censura romana : una importante riprova si ha nelle notizie ora pubblicate da Italo Carlo Falbo nel fascicolo di set- tembre della rivista 11 Secolo XX, in cui risulta chiara la ragione e la provenienza dei ritocchi formali e sostanziali apportati alla Vendetta, trasformata in Un ballo in maschera.

Come si sa, l'opera fu eseguita al teatro Apollo di Roma la sera del 17 febbraio 1859, un anno preciso, giorno per giorno, dalla resti- tuzione al Verdi del libretto trasformato in Adelia degli Adimari, col « nulla osta » della censura di Napoli : la cantarono il Fraschini e il Giraldoni, la Dejean, la Scotti, la Sbriscia: valentissimi i due primi, ma in cattive condizioni di salute; mediocri le donne : l'esito però fu eccellente. Il sor Cencio, mostrando di aver fatto gran cose per il Verdi in quella occasione, tentò poi di valersi delle sue benemerenze per ottenere che il Maestro intervenisse in favor suo presso il Ricordi, allo scopo di ottenere migliori condizioni per noleggio di spartiti ver- diani : e gli scrisse, il 26 maggio 1859, cominciando col dichiarare che contava su qualche riguardo « in vista anche della disgrazia avuta nel produrre il Ballo in muschera lo scorso carnevale in causa delle malattie degli artisti, e di tutte le mie premure per vantare i meriti di quest'opera e difenderla anche dalla maldicenza di alcuni gior- nali ».

Aveva sbagliato strada; il Verdi infatti gli rispose secco secco (5 giugno 1859, da Busseto) :

Avete avuto torto di difendere il Ballo in maschera contro gli attacchi dei

giornali. Dovevate fare come io feci sempre: non leggerli, oppure lasciarli cantare nel

*ono che volevano, come pure ho sempre fette ! Del resto, la questione è questa : l'opera

cattiva 0 buona. Se cattiva ed i giornalisti ne hanno parlato male avevano ragione,

>^ buona e non hanno voluto giudicarla tale per conto delle passioncelle proprie ed altrui,

:> per qualsiasi altro fine, bisognava lasciarli dire e non curarli. Convenite per altro

438 VERDI IN TRIBUNALE

che se vi era bisogno di difendere qualcuno o qualche cosa nella stagione carnevalesca, era la compagnia indegna che m'avete regalato. Mettetevi una mano sulla coscienza e confessate che io fui modello di rara abnegazione non prendendo lo spartito ed andar- mene in cerca di cani meno latranti di quelli da voi offertimi. Ma post factum con quel che segue ecc..

In quanto alla diminuzione dei noli, egli non poteva intervenire presso il Ricordi, e per principio generale, e tanto più per opere sue; gli dava però un consiglio : se voleva risparmiare, poteva benissimo mettere in scena taluna delle tante belle opere di dominio pubblico, senza spendere un soldo per i noli; e gli suggeriva la Nina pazza -per amore, e tante altre. Figuriamoci il naso del Sor Cencio!

Intanto il Ballo in maschera, sfuggito dalle unghie acute della giustizia, dalle forbici e dagli occhiali della censura, vinta la forza negativa di mediocre esecuzione, iniziava la sua vita vigorosa e trion- fale; e oggi ancora, dopo cinquantaquattro anni da che vide la luce della ribalta, è sempre saldo, colorito, animato. E sì, che nel 1859, non ostante la guerra, furono eseguite non meno di trentasei opere nuove italiane : tra gli autori di queste, si notano musicisti che eb- bero buona ed ottima fama: il Pedrotti, l'Asioli, il Petrella, il Sinico, il De Ferrari, Luigi Ricci; non ne è rimasta viva nemmeno una battuta!

Giorgio Barini.

Nota. I documenti compresi in questo scritto, oltre che da private co- municazioni, dalla Difesa dell' Arpino, dalla Gazzetta musicale di Milano e da altri periodici, sono anche in parte tratti dalla appendice alla edizione dei copialettere del Verdi, di imminente pubblicazione, curata con amore, com- petenza, dottrina a/mmirevoli, da Gaetano Cesari, cui il delicato e arduo la- voro (condotto a termine in un tempo miracolosamente breve) fu affidato dal Comitato milanese per le onoranze centenarie a Giuseppe Verdi.

IL TEMPO DELLA PRIMA CISALPINA

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

CON DOCUMENTI INEDITI D'AUCHIVIO

IL

Nella Cisalpina le cose cominciavano a guastarsi seriamente. I demagoghi, rotto ogni ritegno, avevano presa la mano al Gran Con- siglio e trascinati non cercavan di meglio! i Comandanti fran- cesi. La baraonda politica cresceva col crescer del malcontento del popolo, tiranneggiato e svaligiato dai Commissari della repubblica «madre». I liberatori si mutavano in oppressori. Le parole Libertà, Eguaglianza esistevano soltanto negli atti ufficiali, fìancheggianti la figura della Cisalpina e la formula « In nome della Repubblica Cisal- pina una e indivisibile ». La terza parola del trinomio repubblicano, Fraternità, da tempo era stata dimenticata dai tipografi del Governo. Era anche scomparsa dalla vita sociale.

In ogni classe cresceva il disagio. Il malcontento mandava in- torno le sue satire anonime i-aglienti e scottanti. La polizia ne seque- strava parecchie. Una pare venga da Bologna poiché la vedo ci- tata dairUngarelli ed è lo specchio della situazione generale. Esclama :

Maledetta sempre sia La crudel democrazia che la Francia ci mandò.

Maledice la bugiarda sovranità popolare

E la falsa libertade Che la borsa ci vuotò.

E l'ufficio di finanza

Che le tonde e ingorde ganze Dei francesi satollò...

Da Bologna come da Milano, se ne erano andate parecchie belle e ingorde donnine, insieme a' generali e a' commissari francesi, i quali in nome della fraternità e della eguaglianza le avevano arric- chite spogliando le popoleizioni.

440 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

Non nascondevano il loro malcontento neppure gli impiegati della Repubblica. Vincenzo Monti « attaccato al burò » degli Esteri come si qualificavano nel nuovo gergo gli addetti ai Ministeri si lagnava come gli altri.

« Il nostro G. G. (Gran Consiglio) scriveva a Containi Consta- bili il 17 termidoro (4 agosto) 1798 ha fissata la paga di tutti i capi di burò (il purismo montiano si perdeva in adulazione al nuovo linguaggio... d'ufficio) e le loro sezioni primarie a non più di due- mila lire per ciascheduno, e a mille quelle dei subalterni. Se i Se- niori approvano la risoluzione vengo a Ferrara a piantar cipolle e cocomeri more romano » .

11 28 termidoro è anche più disgustato. « Darei Milano per la più solitaria capanna dell'Appennino ».

Il Governo repubblicano sapeva però tenersi fidi gli uomini di ingegno per potersene servire al momento opportuno: e trovava modo di accrescere i loro grami stipendi con incarichi speciali, com- pensati a parte. Incarichi simili ne ebbero e se ne contesero un po' tutti, compresi il Foscolo e il Monti. Questi fu certo sistemato secondo il suo desiderio, perchè il 5 vendemmiale (26 settembre) 1798, scriveva a G. A. Testa: « ...io sono contento del mio impiego, poiché il Direttorio è contento dell'opera mia ».

Rimandava così a tempo migliore... o peggiore... di andar a Fer- rara a coltivar cipolle e cocomeri.

Secondo il Vicchi, il nostro poeta, come impiegato non è con- tento, e lo annovera fra i « sofferenti non ben veduti e scarsi di co- raggio». L'affermazione mi sembra per lo meno arrischiata, poiché il Monti scrive al Testa di « esser contento del suo impiego »,

Vero é che i poeti e in genere i letterati erano, specialmente in quel tempo, di difficile contentatura. Basta ricordare le esigenze del Foscolo!

Che il Monti non fosse « ben veduto » mi sembra un'altra ine- sattezza. Se con lui si fu prodighi di impieghi e di incarichi prima e dopo il ritorno degli austriaci! Se, appunto in quell'anno 1798, il Monti, pur scrivendo nel Compilatore Cisalpino del Poggi, sop- presso al 13° numero per critiche aspre al Governo e ai francesi, non ebbe seccature di sorta! E il Poggi ricordiamolo aveva incon- trato altra volta la disapprovazione del Governo. L'anno prima si era veduto sopprimere al numero il Tribuno per attacchi violenti a Bonaparte e al cittadino Serbelloni. Se Monti « era scarso di co- raggio » scrivendo nei giornali che pur essendo ligi al Governo si facevano sopprimere per critiche al Governo stesso, giocandosi in tal modo l'impiego, non so in che cosa possa consistere il coraggio di un impiegato. E di un impiegato che pare non mirasse a farsi una posi- zione nella vita politica Cisalpina!

Notiamo la singolarità di un giornale pressoché ufficioso, sop- presso, per due volte a c^usa di critiche violente a Bonaparte e al Governo. È un fenomeno che si verifica soltanto in un periodo... anor- male come questo. Il Poggi è punito non per imprudenze commesse in un compromettente eccesso di zelo; ma per l'esercizio del diritto di libera critica. Ufficioso o no. Poggi non rinunzia a stampare ciò elle pensa piaccia o dispiaccia al Governo. Gli « ufficiosi » odierni sono molto... degenerati.

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 441

Il giornalismo milanese del periodo Cisalpino è curioso e strano rispetto al giornalismo venuto dopo, e va giudicato con criteri spe- ciali. È violentò, denigratore, demolitore. Quando non discute pro- grammi e idee e lo fa di rado è personale, libellista. Intendia- moci: libellista, non ricattatore. Aggredisce le persone in nome dei principi : attacca le istituzioni in virtù delle idee. Denunzia aperta- mente uomini e fatti : entra nella vita privata : indaga le inten- zioni; mette alla berlina, invoca esigli, chiede esecuzioni capitali... Tutto ciò non per rancori contro persone o ben di rado ma per torbidi ideali politici e sociali. È una stampa che crede di epurare la società e invece la inquina : si illude di cementare le nuove istitu- zioni e invece le sgretola. Distrugge, non ha la forza di ricostruire.

Il Governo cerca di frenarla con speciali disposizioni, ma non vi riesce : e allora ricorre a mezzi più energici, sopprime i giornali e manda al confine i giornalisti.

L'opera è pressoché vana. Ormai giornali e giornalisti non hanno più influenza sul pubblico. Sono un po' tutti giornalisti e la critica più acerba la si esercita con le satire manoscritte. La polizia ha molto da fare. L'ispettore Comi è il depositario di una quantità di questi fogli appiccicati con la ceralacca o con della semplice pasta agli alberi della Libertà, alle Porte del Duomo, alla statua di Bruto, all'Uomo di Pietra... La cittadinanza è stanca di vessazioni, di depredazioni, di umiliazioni. Le pazzie dei primi due anni non la svagano più. Il carnevale quel senso di sfinimento che smuove la nausea. Il primo sintomo grave è rivelato dalla coscienza esatta del passato che si sente disgustoso. La poesia popolare quella ano- nima — così descrive bollandola a fuoco la Cisalpina :

Si gioca dappertutto alla follìa, Si va in bordello senza alcun rispetto. Si tracanna e si mangia all'osteria Finche ubbriaco non si trova il letto.

Le donne vanno intorno per la via Nude le coscio, altre le braccia e il petto E gli uomini spaventan chi si sia Tanto sono feroci nell'aspetto.

Tra preti e frati chi lascia la veste. Chi la sciabola dietro si trascina E chi dell'ateismo empie la testa.

Del pubblico la roba va in rovina: Briccon falliti, comandan le feste. La Repubblica è questa Cisalpina.

I poeti che firmano la loro poesia, arrivano più tardi quando il momento pericoloso è scomparso. Fra questi poeti violenti, sì... ma sopratutto prudenti, c'è anche Vincenzo Monti. Il quale si sente gorgogliare nell'anima il disgusto per gli eccessi pazzeschi dei sedi- centi cittadini.

Tiranni molti, cittadini pochi

scrive più tardi, fucinando a rosso un verso di Camillo Saint Aubin nel Modéré:

Et n'a de citoyen, en un mot, que la carte... 29 VoL CLXVn. Serie V 1' ottobre 1913.

442 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

Ma non gli basta : scalda anche di più la sua invettiva, escla- mando :

...oh! Cisalpina Non matrona, ma putta nel bordello.

Il bordelleggiamento è generale : nei costumi e nella vita pub- blica : nei legislatori e nell'amministrazione.

La coscienza nazionale non è ancora formata : ma nei cittadini incomincia a far capolino un certo senso di dignità. S'inizia la ribel- lione contro un governo arruffone e malversatore dominato e guidato da una mano straniera.

Melchiorre Gioia, un fervente dei primi tempi, è come gli altri disgustato. Come cittadino, come uomo politico, come studioso di economia si leva ardito contro quella società di ambiziosi, di traviati e di illusi che fa comunella coi fanatici, coi ladri e coi bricconi che giocano d'audacia per l'interesse personale. « Le corone spezzate scrive Gioia gli stemmi distrutti, le iscrizioni regie scancellate vi richiamano le idee di Sparta, l'oro e l'argento profuso sugli abiti re- pubblicani, le loro ricchezze rapide e per conseguenza sospette, vi dicono che siete in Persia! Milano offre uno spettacolo interessante, ma più comico che tragico. Culto e leggi d'uomini senza Dio, sicché sembra di essere in un paese di atei, e non avete che a volgere lo sguardo per veder tempj, sacerdoti e monaci ». Il confusionismo e la contradizione caratterizzano la neo-repubblica Cisalpina : e il mal- contento e la disapprovazione generale ne è la manifestazione più o meno aperta.

Quando vien resa pubblica la famosa convenzione fra la Repub- blica cisalpina e la Repubblica francese, il malumore aumenta. Il paese si sente offeso nel suo nome e nei suoi n:teressi e protesta mi- naccioso :

Popolo! Uinfame Direttorio non ardisce Palesarti i patti delVindegno trattato e s'egli te li paleserà saranno i veri?

Popolo! Diffidati di chi non è tocco che dall'interesse della sua carica.

Moscati è il capo dei traditori della PATRIA.

In altri manifesti al nome del Moscati se ne aggiungono altri come quello del milanese Lozza, che in omaggio alla fregola francese aveva trasformato il suo nome in quello di Làhoz e si designano alla pubblica indignazione.

Si chiama in soccorso anche... Bruto, togliendolo al dominio dei demagoghi. Dall'albero della Libertà di piazza del Duomo, da un « buon cittadino, vero patriota » si stacca questa satira :

Svegliati Bruto alfin, e il tuo pugnale De' liberi tiranni immergi in seno: Non t'accorgi che sei vero segnale Dell'interesse lor nefando e osceno? * Cadan estinti aJfin, e la lor morte

Di libertade a noi schiuda le porte.

I versi non sono una bellezza, ma il concetto non può esser più chiaro. Ai cittadini è stata promessa la libertà ed essi hanno avuto

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 443

soltanto dei tirannelli. Gli apportatori e i donatori della libertà non vedono oltre il loro interesse. Il paese che si pretende liberato dai dominatori, è solo un paese depredato. Il trattato d'alleanza è l'ul- tima e più limpida prova.

Le autorità civili sotto la pressione di quelle francesi fanno ce- lebrare collo sparo del cannone la firma del trattato : e lo sparo di gioia causa rovine e infinita tristezza. È fatale! Le cannonate del Palazzo Nazionale cagionano la rottura di molte vetriate istoriate delle finestre del Duomo. È un danno materiale notevole: e un danno artistico irreparabile. C'è un altro danno morale cui non si rimedia il dissidio aperto fra la popolazione e le autorità francesi.

Il Direttorio di Parigi non ha la sicura visione delle cose e manca dell'autorità necessaria per imporsi ad ambiziosi intriganti politici, ad amministratori rapaci, a generali incappaci e insubordi- nati. L'uomo che col suo meraviglioso senso di opportunità potrebbe rimettere ordine nel caos cisalpino è lontano in Egitto : e il suo prestigio si oscura, di quando in quando, colla diffusione di notizie di sconfìtte patite e della morte. Gli altri godono di scarsa autorità e di scarsissima stima. Brune, Fouché, Baraguay d'Hilliers, Jou- bert non sanno sottrarsi alle piccole congiure e ai piccoli intrighi; non sanno evitare il molto male che i più cagionano, incorag- giare lo scarso bene che pochi tentano di fare.

Sulla Repubblica Cisalpina rintoccano funebri segnali.

I Cisalpini non sanno ancora mirare alla realizzazione di un ideale di Libertà strettamente unito alla Indipendenza. La conce- zione ne è vaga. È sepsazione, più che proponimento. Le idee si coz- zano e si confondono : in alcuni troppo vaste, in altri così ristrette da ridomandare la libertà agli antichi dominatori.

II celebre Gregorio Fontana vagheggia l'unificazione d'Italia e la prevede «arbitra un tempo e signora del mondo».

Il Ceroni canta:

Una, indivisa coU'antico orgoglio Italia getti la straniera soma E vengan per te forti in Campidoglio I di Roma.

C'è anche un esercito in grandissima parte formato da volon- tari, i quali appartengono quasi tutti alle classi ricche : e questo eser- cito ha una bandiera nazionale il tricolore e ad esso inneggiano con brutti versi :

L'è bianca, l'è rossa e verde: La forma i tre color...

Ha pure delle canzoni guerresche. Il soldato canta con anda- jnento metastasiano, ingenuo:

Lasciami, amata Fillide, Lasciami trionfar.

444 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

Egli ha però proponimenti fermi, eroici:

Corro fra l'armi impavido: O morte o libertà!...

Questi militi hanno già subito la prova del fuoco e ottenuto lodi da Bonaparte.

Tutto ciò non basta: mancano gli uomini che sappiano riunire le vaghe aspirazioni e concretarle in un piano di pratica effettua- zione; che sappiano utilizzare le forze latenti e metterle in valore dando ad esse unità d'indirizzo: mancano, sopra tutto, la fiducia nelle proprie forze e la virtù di osare...

E così i sogni radiosi e le aspirazioni nobili finiscono... nel desi- derio del ritorno degli austriaci.

Gli aristocratici rimasti fidi all'antico regime lavorano con atti- vità, in ogni modo, con tutti i mezzi.

Fin dagli ultimi mesi del 1798 si trovano frasi e satire in senso austriacante. Viva la raligone (!) cattolica, c'è scritto in un cartello; e di seguito : Viva Vlmperatore.

Si è così sicuri della sconfitta delle armi francesi ormai dura- mente provate nella Cisalpina e nella Liguria, che si ordinano nella stessa Milano migliaia e migliaia di bottoni recanti « un'aquila col- l'olivo in bocca » e la scritta W. l'Imperatore.

Il momento non può essere più critico. Si corre ai ripari ten- tando di riaccendere gli antichi entusiasmi; ma inutilmente. Le casse sono vuote. Gli alberi della Libertà cadono in rovina, e il tesoro pub- blico non ha fondi per ripararli. Si faccia come si può! risponde il Governo a coloro i quali si lagnano dell'abbandono in cui si la- sciano gli « alberi ». I clubs giacobini si fanno iniziatori della ere- zione in vari quartieri dell' « arbor trionfale » come dice l'inno ormai invecchiato; ma il pubblico assiste in scarso numero alla festa d'inaugurazione.

Non mi pare risollevi molto lo spirito repubblicano la festa del 25 vendemmiatore per la seconda ricorrenza (nella Cisalpina, ben inteso) della morte di Maria Antonietta. Questa volta non la pa- rola ai giornali e al loro stile ampolloso, affetto da entusiasmo a scatti epilettici; ma a un rapporto della Polizia.

« Questa mattina verso il mezzogiorno da varj Patriotti sono state abbiiiciate varie carte aristocratiche e varj emblema vicino al l'albero della Libertà, su la piazza dello stesso nome ed indi con sinfonia si cantarono varie Canzoni Patriottiche, ballando intorno all'albero e tale festa terminò verso un'ora senz'essere successo alcun inconveniente.

« Dal cittadino Poggi venivano fatti varj discorsi analoghi alle dette scritture in confutazione dell'aristocrazia.

«Milano li 25 Vendemmiatore Anno VI Repubblicano».

Si vede che i patrioti tenevano a celebrare nel -25 vendemmiatore la festa della epurazione aristocratica.

Il pubblico pare non si commovesse gran fatto : rimanesse impressionato o entusiasmato dai discorsi del Poggi. Il tema contro l'aristocrazia era molto in ribasso!...

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 445

Non si riuscì a riportare il pubblico al tono dell'anno innanzi neppur col teatro, ridonato a cattedra di civismo. Le « pezze » pa- triottiche non avevano più la sicurezza del successo. Si approfittò più tardi della ricorrenza dell'anniversario della decapitazione di Luigi XVI per riaccendere nella folla l'entusiasmo rivoluzionario. Questa volta la Fesia della Riconoscenza non cuoprì la ricorrenza truce. I manifesti del Direttorio e del Comandante di Piazza invita- rono i Cisalpini a festeggiare la caduta del « tiranno ».

Il cronista Mantovani cita una frase ripugnante del manifesto del comandante Fiorella :

« Alle nove e mezzo del mattino, colpi di cannone annunzie- ranno al pubblico il momento in cui la testa del re di Francia stac- cata dal busto rotolava dal palco a deliziosa vista di tutto il popolo parigino ».

11 Direttorio Cisalpino non si mise però all'unissono coll'auto- rità militare, diretta emanazione dell'autorità francese. Il suo ma- nifesto fu più esplicito di quello dell'anno precedente; ma non ebbe frasi ciniche, disgustose. Non si preparò neppure per tempo a festeggiare la ricorrenza. Pare, anzi, si lasciasse sorprendere dal- l'avvenimento, se pure non tentò di lasciarlo passare inosservato. Il Direttorio non poteva ignorare il mutato spirito pubblico.

Il 27 nevoso soltanto imparte ordini per i festeggiamenti.

In quel giorno il ministro dell'Interno scrive al. Dicastero Cen- trale la seguente lettera :

« Il Direttorio E.vo ha determinato che nella sera del giorno 2 venturo Piovoso sia illuminato il Teatro Grande, che alla fine del primo atto si canti un Inno in Musica, il di cui argomento sarà il trionfo della Libertà per la morte di Luigi Capetto (!) ultimo Re di Francia: che il piccolo Teatro per detta sera sia gratis, e vi si rap- presenti una qualche commedia italiana veramente e decisamente patriottica.

« Vi invito quindi d'ordine dello stesso Direttorio sotto la vostra più stretta responsabilità, a dar tosto le più sollecite disposizioni, perchè presi gli opportuni concerti cogli appaltatori, e con chi altro conviene, sia composto il Inno, indi messo in musica da chi cre- dete più capace.

« Salute e Fratellanza!

« Pel Ministro dell'Interno « L'Ispettore Centrale : « Battaglia ».

Con decreto successivo, il Direttorio fa seguire allo spettacolo alla Scala una gran festa da ballo, alla quale perchè riesca più solenne è permesso di intervenire in maschera. Si dovevano però escludere le maschere di Arlecchino e Brighella e le altre dette del Teatro Italiano. Ragioni di prudenza? Le maschere del Teatro Ita- liano erano linguacciute e potevano pronunziare delle verità assai aspre e provocare qualche manifestazione non gradita al Governo o a qualcuno dei suoi membri, e sgradita ai francesi!

446 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

Nella deliberazione del Direttorio Esecutivo non c'è neppure la perorazione a grandi frasi apoplettiche in uso fino -a pochi mesi prima: non c'è neanco la rettorica patriottica della quale s'infarci- vano le più modeste risoluzioni. Segno del momento.

Appena ricevuta la comunicazione, il Municipio di Milano prese le disposizioni necessarie. Ben lontano dalla potenza di quello di Pa- rigi, che s'impose al Direttorio e a questi strappò la condanna di Luigi XVI, si rassegnò a preparare una cerimonia il cui significato non sentiva e forse gli repugnava. Poiché il tempo stringeva, il Mu- nicipio si rivolse per la poesia a Vincenzo Monti e per la musica al Maestro Minoja : il primo era raccomandato dalla sua qualità d'im- piegato del Governo, e dalla fama goduta anche per le precedenti composizioni di carattere patriottico l'altro pare avesse una certa facilità di improvvisazione musicale.

Il Monti accettò « in maniera obbligante » di soddisfare al desi- derio del Dicastero Centrale e improvvisò l'inno rimasto celebre. Dico « improvvisò » poiché il giorno 29 e cioè appena un giorno dopo aver avuto l'invito il maestro Minoja ricevette il mano- scritto del Monti. Il Dicastero Centrale raccomandava al musicista che la poesia non fosse « mostrata a tutti », perchè non ancora ritoc- cata e mancante di due strofe.

Data questa circostanza, appare evidente che l'Inno è la emana- zione sincera dei sentimenti del poeta. Si può piegare e domare l'ispi- razione, si può mentire l'espressione, ma solo in un componimento lungamente meditato e ponderatamente scritto, e cioè quando la ri- flessione prende il posto dell'impeto poetico.

Del resto, perchè il Monti avrebbe mentito il suo pensiero? Nes- suno lo obbligava ad accogliere l'incarico del Municipio milanese : e tanto meno poi a svolgere il tema « il trionfo della libertà » come fece. Un poeta dalla fantasia fervida e dalla erudizione vasta, quale era il Monti, poteva benissimo cantare la Libertà astraendosi dalle dottrine apologizzanti il regicidio. Se c'è da far una meraviglia, si è quella, che egli non abbia subito l'influenza della opinione pub- blica, ormai discorde dall'atteggiamento ultimo del gruppo dema- gogico sognante ghigliottinazioni di re, macello d'aristocratici, di- struzione di preti. Evidentemente nel Monti continuava l'evoluzione politica iniziatasi nel 1796 e volta verso le nuove idee democratiche. L'inno per la morte di Luigi Capeto è la naturale derivazione dalla famosa strofa della Canzone pel Congresso di Udi?ie soppressa dalla censura : è la libera espressione di sentimenti e di convinzioni ormai radicatisi in lui, manifestati in modo meno cincischiato che nelle precedenti composizioni ispirate dai principi rivoluzionari. Il suo pensiero è veramente libero, la sua espressione è limpida e precisa.

Il poeta può essere disgustato di quanto si svolge intorno a lui : può, in cuor suo e apertamente, disapprovare e sferzare la degene- razione fatta subire al principio di libertà e al governo popolare; ma intimamente è fedele ai concetti informatori del movimento po- litico determinatosi nel 1789. Può trascendere, come tutti coloro che hanno un passato da far dimenticare; ma non mentire sia pure per necessità d'arte e di politica. Che sia sincero nell'Inno e che

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 447

l'Inno risponda al carattere dimostrato dal Monti negli ultimi anni, lo sa il Dicastero Centrale : e lo scrive al Monti quasi felicitandosi con stesso per non essersi ingannato nella scelta del poeta. La lettera del Villa, eccola:

« Dicastero CentrcUe

« al Cittadino Vincenzo Monti

« altro de" Segretari presso il Dirett. Es°

« ad 2 Piovoso anno 7. R.° « L'obbligante maniera con cui aderiste al nostro invito, ed il

travaglio comunicatoci che non poteva non esser degno della vostra

penna provano il vostro carattere e il vostro genio.

« Impegnati a manifestarvi la nostra riconoscenza, accogliete

pertanto in pendenza de' mezzi, alcune copie dell'Opera Vostra.

« P. il D. C.

« Villa ».

Per quanto i poeti in generale siano ingenui e si lascino sorpren- dere dagli avA^enimenti, il Monti era ormai troppo navigato per non sentire tutto il pericolo che la sua improvvisazione gli creava. I fran- cesi perdevano terreno ogni giorno e gli alleati minacciavano dap- presso la Lombardia. Il miracolo Bonaparte era lontano e ignorato. Prossima e senza illusioni era la vendetta austriaca. E quando gli austro-russi giunsero a Milano, il Monti, con pochi, prese la via del- l'esiglio. Teneva fede, per allora, al suo nuovo ideale politico e so- ciale.

L'inno, come abbiamo veduto, la mattina del 2 piovoso era già distribuito. Il Municipio ne aveva ordinate quattromila copie, poi, segno non dubbio o di successo o di necessità di divulgazione, ne aveva fatte stampare altre mille. Era compreso in un foglio volante su due colonne.

Che si fossero ridotti a far tutto all'ultimo momento è prova anche una minuta del manifesto da affiggere al pubblico. Si avver- tiva che l'Inno sarebbe stato cantato « colla musica alla mano, non potendosi per ristrettezza di tempo, e per altre occupazioni impos- sessarsene la memoria». La scusa preparata fu poi omessa, sia che si comprendesse l'impressione brutta che avrebbe prodotto, sia che si fosse compiuto il miracolo di far imparare bene parole e musica agli esecutori.

Il manifesto del Municipio lo riproduco:

Libertà ^ Eguaglianza

In nome

DELLA Repubblica Cisalpina

una E indivisibile

Li 2 Piovoso Anno VII Repubblicano.

Il Dicastero Centrale della Comune di Milano.

Decorre quest'oggi l'epoca memorabile ne' fasti della Rivolu- zione francese, in cui estinto l'ultimo de' Capeti, e rovesciato il giogo dei re, venne pienamente rivendicata la Libertà.

448 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

Quest'atto solenne fu lo slancio più grandioso verso lo stabili- mento della Repubblica, e la di Lui ricordanza elettrizza il Popolo Francese.

Cittadini! Noi pure dobbiamo essere partecipi della gioia della Grande Nazione, e questo giorno dev'essere egualmente da noi fe- steggiato.

Il Dicastero Centrale, dietro anche le superiori intenzioni, si fa quindi sollecito di prevenire i suoi Concittadini, che vi sarà questa sera illuminazione al teatro alla Scala.

Finito il primo ballo, verrà cantato dalla prima Attrice Billinc- ton e dai tenori Bianchi e Braam un Inno ora scritto espressamente su questo grande avvenimento. Il Poeta Vincenzo Monti ed il filar- monico Mino j a sono concorsi rispettivamente coi loro talenti a render gradito questo patriottico spettacolo.

Al Teatro della Canobbiana verrà poi rappresentata dalla Com- pagnia Pianca una Commedia Repubblicana atta ad ispirare nel Po- polo le alte idee di Libertà, al quale effetto il medesimo Teatro sarà aperto gratis.

Dalla Casa del Comune.

i Pellegrini Villa.

De Simoni, segretario.

Freddino, non c'è che dire : all'unissono col decreto del Diret- torio Esecutivo, La prosa del Governo, come quella del Comune, non è fatta per elettrizzare il pubblico e trascinarlo a dimostrazioni en- tusiastiche. Si sente lo sforzo per non spiacere ai francesi, come si sente quello di non inneggiare al regicidio. Si scivola molto abil- mente sul terreno lubrico e si trova una salvezza nella « rivendicata Libertà ». Ci si rassegna a manifestare una gioia...; ma per conto di terzi. È una solidarietà forzata e non una convinzione.

Il programma dei festeggiamenti non è ricco. Di più si svolge in ambienti chiusi. È evidente che si teme la massa popolare. Diver- samente la si sarebbe invitata alla festa anzi per essa la festa sarebbe stata fatta come si era usato nelle grandi circostanze dei primi due anni del nuovo regime. Verissimo: al «teatrino», e cioè al teatro della Cannobiana, l'ingresso era libero; ma allora, come in ogni tempo, le autorità regolavano l'ingresso libero a loro piaci- mento.

Per la Cannobiana si prescrive vagamente una « Commedia Re- pubblicana atta ad ispirare al popolo le alte idee di libertà ».

Il Dicastero Centrale si doveva trovare in un certo imbarazzo a indicare il lavoro: e lasciava la scelta alla Compagnia. Una scelta non difficile per un capocomico perchè il teatro della rivoluzione in Italia aveva dato frutti assai scarsi. si potevano utilizzare tutti quelli molto migliori, in molto maggior numero del teatro francese: perché alcuni dopo il 9 termidoro erano stati proscritti: altri, dopo una breve riapparizione o una lieta accoglienza, se nuovi, nel periodo della reazione termidoriana, erano stati o modificati o radiati dai repertori dei teatri parigini.

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 449

* *

Artisticamente e politicamente la produzione drammatica rivo- luzionaria era di valore assai modesto, e non tutta trasportabile sulle nostre scene, sia per il diverso gusto del pubblico, sia per il diverso ambiente sociale e politico, sia per la formazione delle nostre com- pagnie comiche. Non bisogna dimenticare che le compagnie comiche italiane avevano tutte meno alcune delle cosidette di Lombardia e quelle dei teatri di Toscana le Maschere della Commedia del- l'Arte e su queste era basata una larga parte del repertorio sia di lavori all'improvviso sia di lavori scritti. Inoltre il dramma e la commedia rivoluzionaria francese avevano spesso allusioni affatto locali, non comprese o malcomprese dal grosso del nostro pubblico, ed era quindi necessario toglierle nella nduzione italiana. Poi, come ho già avvertito, l'ambiente sociale e politico in Francia e in Italia era diverso e si rendevano perciò necessarie non delle traduzioni, ma delle vere e proprie adattazioni. Di più: molti lavori teatrali vie- tati dalla censura della Monarchia in Francia e rappresentanti quindi idee sociali e politiche arrischiate, erano già da tempo liberamente rappresentati in Italia. Qui si badava assai più agli elementi emotivi che non alla significazione politica: e, ad ogni modo, anche nella esposizione e nella divulgazione di idee nuove politiche e sociali si era assai più tolleranti che non nel regno di Luigi XVI. Il critico del Teatro Moderno Ajyplaudito attribuiva, anzi, a queste idee nuove il successo di alcune composizioni non rispondenti all'antica poetica teatrale da lui divulgata e sostenuta. Da noi, per esempio, si reci- tavano Jemmabos, Maria Stuarda, Melania, Il Conte di Comin- gio, ecc., in Francia proibite come sovversive.

E ancora : le « tirate » che costituivano uno dei caratteri dei la- vori teatredi francesi ed erano uno degli elementi di maggior suc- cesso nel teatro rivoluzionario, sulle scene italiane non venivano tol- lerate 0 si subivano male e indisponevano presto.

Per questi varii motivi, il teatro rivoluzionario francese venne in Italia in quantità assai scarsa e con nessuna delle produzioni più violente, come Le demier jugement des rois. Le souper du Pape, ecc. : con nessuna delle sue composizioni di carattere pres- soché locale, come Vintérieur des Comités révoltUionnaires, Le Pa- triote. Madame Angot, ecc., e solo con drammi e commedie a fondo lacrimoso come Le vittime del chiostro di Boutet de Monvel, Fénelon

0 Le monache di Cambray dello Ghénier, Lucrezia di Amault e poche altre.

Il teatro rivoluzionario originale italiano seguì presso a poco le stesse sorti, nel senso che i lavori di carattere politico e di propa- ganda rimasero irrappresentati o sparvero subito dalle scene, e segui- tarono ad esser compresi nel repertorio quelli a fondo sentimentale.

1 quali, poi, differivano dalla commedia così detta sentimentale o lacrimosa, sorpresa dalla rivoluzione nella sua più rigogliosa fiori- tura, solo per la introduzione di frasi inneggianti alla rivoluzione e alla eguaglianza sociale e per l'aggiunta di canti e balletti patriottici.

L'etichetta rivoluzionaria la si faceva figurare nello stesso ti- tolo delle tragedie : Lucrezia Romana ossia La caduta dei re di

460 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

Roma per la saggia pazzia di Bruto. Agide martire della Libertà ossia il sacrifizio spartano alla Libertà ed Eguaglianza. Guglielmo Teli liberatore degli Svizzeri, tragedia patriottica.

Le commedie erano più modeste nella loro etichetta patriottico- rivoluzionaria : U ex-marchese della Tomboletta, Matrimonio demo- cratico, Il buon cittadino, ecc.

Da noi si ricorse assai per tempo, e prima che in Francia, alle apoteosi. Troviamo infatti // Trionfo della Libertà protetta dalle armi francesi. Il Supremo generale TSlapoleone Bonaparte coronato di allori e di gloria a base di inni patriottici che lascia sup- porre fin dal 1798 la sensazione degli italiani dell'alto destino cui era consacrato il giovine generale. Del resto lo si chiamava già 17m- perator anche da quelli che per la sua faccia gialla e sparuta e per i lunghi capelli arruffati e gli occhi irrequieti, ricercatori, impera- tori lo avevano soprannominato eoo de stria.

Però in Italia, come in Francia, i lavori teatrali ufifìciosi per non dire ufficiali furono Bruto di Voltaire, al quale i teatri civici sostituirono quasi subito il Bruto di Alfieri, Guglielmo Teli di Le- mière, e Cajo Gracco di Giuseppe Maria Ghénier, passati molto for- tunosamente, ma passati, attraverso le varie fasi della Rivoluzione e arrivati fino al Consolato, Il Cajo Gracco, dato il 7 febbraio 1792, col verso

...Autour de nous veille la tyrannie

aveva provocato, fra applausi entusiastici, un uragano di grida mi- nacciose : Alle Tuileries! Alle Tuileries! ed era stata la espressione prima del Terrorismo: a poco più di un anno di distanza, coH'emi- stichio

Des lois et ncm dii sang!...

aveva suscitato la disapprovazione generale dei patrioti e si era atti- rata la interruzione rabbiosa del convenzionale Albitte :

« A bas les maximes contre-révolutionnaires! c'est le vers d'un ennemi de la libertà! Du sang et non des lois! »

La compagnia Paganini e Pianca che con quella di Andrea Bianchi sopportò a Milano e in Lombardia il peso... e la gloria del teatro Patriottico forse non ricorse a nessuna di queste tragedie, poiché il programma ufficiale recava « commedia repubblicana ». Le commedie, come V Accademia dei Villici, si prestavano di più ad animare se non ad entusiasmare il pubblico. Si cantavano le arie patriottiche, si eseguivano balletti a base di coccarde tricolori... Si accarezzava tutta la concorrenza e non se ne urtava neppure una parte... Non c'era da far troppo assegnamento di far uscire dal teatro il pubblico con Vodio perH re nel cuore, come, secondo un cronista, succedeva alle recite di Orso Ipato del Pindemonte; perchè i Re, anzi l'Imperatore d'Austria, aveva avuto un gran rialzo nell'opinione del paese.

Bisognava poi evitare interpretazioni artifiziose e interruzioni a doppio senso da parte degli ascoltatori. I quali, ormai, sfogavano come potevano e appena potevano il loro malumore contro i francesi e il nuovo stato di cose. La tragedia si prestava assai di più alle allusioni provocatrici di dimostrazioncelle e di non gravi, ma sin- tomatici, disordini.

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 451

Appunto per poter meglio sorvegliare il pubblico e, all'occor- renza, essere in grado di soffocare ogni frase o atto che potessero turbare... Fentusiasmo ufficiale, anche alla Cannobiana si ordinò una grande illuminazione. Questa, era quindi meno una manife- stazione di gioia che un pi-ovvedimento di polizia. Furono dunque subito impartite le disposizioni opportune. Si appesero nella sala i sei grandi lampadari delle grandi occasioni, contenenti 120 candele, e si aumentarono sei candele nel ridotto. In tutto si consumarono circa 46 libbre di cera con una spesa di L. 111,14.6.

Il Municipio, si capisce, pagò la Compagnia Paganini-Pianca per l'opera prestata. A un dipresso il compenso corrisposto ai comici per una recita era di L. 300. Le compagnie facevano un certo asse- gnamento su queste serate gratis: poiché avevano la sicurezza di fare un buon incasso, ciò che accadeva di rado. In generale nei teatri si pagava in entusiasmo e non in lire; e i capocomici erano disperati. Municipio e Direttorio spesso facevano sospirare quelle poche centinaia di Ijre; ma finivano per pagarle.

La serata alla Cannobiana passò senza inconvenienti. Pare che niente turbasse la letizia, o più esattamente il divertimento atteso dal pubblico.

Neppure alla Scala vi furono dimostrazioni di qualche impor- tanza. La gente era troppo preoccupata del momento grave che si attraversava per abbandonarsi ad entusiasmi non sentiti o a dimo- strazioni contro-rivoluzionarie. La sorte delle armi non era decisa, e le sorprese potevano non far attendere invano. Il gruppo dei fre- menti si guardò dal cadere in eccessi, neppure al canto dell'Inno del Monti. Eppure si prestava assai a manifestazioni ultra-giacobine! I «patrioti» si sentivano isolati nello spirito pubblico e non vole- vano provocare delle reazioni. Quella mattina stessa erano stati col- piti da una nuova mazzata colla pubblicazione della legge sulla co- scrizione militare obbligatoria. La Lombardia non la conosceva e vi si era già manifestata apertamente contraria. Si erano avuti dei segni di non dissimulata ribellione. Il fascino delle vittorie di Bona- parte si era dissipato in lontananza. Vicine erano soltanto le scon- fìtte degli altri generali della repubblica.

L'inno del Monti arrivava troppo tardi per rimetter del fuoco negli spiriti depressi. Cantava la caduta di un tiranno, mentre si affermava una tirannia nuova, più dura dell'antica, e come l'antica straniera.

Cantava il poeta :

Il tiranno è caduto: sorgete, Genti oppresse, natura respira. Re superbi, tremate, scendete, Il più grande dei troni crollò.

Lo percosse co' fulmini invitti Libertate primiero de' dritti, Lo percosse del vile Capeto Lo spergiuro che il cielo stancò.

Re. tremate: l'estremo decreto, Per voi l'ira del cielo s^nò.

452 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

L'anno prima un anonimo aveva dato ééiV usurpatore a Luigi Capeto; ora il Monti gli dava del vile... L'uno e l'altro lo facevano per conto dei comandanti francesi, sulla falsariga e con la utilizza- zione dei fondi di magazzino dei terroristi falliti, e così ben fal- liti che l'anno prima si era scoperta una congiura con la parte- cipazione di alcuni uomini maggiori della rivoluzione per re- staurare la Monarchia. Il fallimento non poteva essere più completo.

Da noi si seguitava ad essere in arretrato.

Che il nostro poeta sentisse e cantasse pur essendo convinto ed ispirato per conto della Francia, appare anche piìi evidente in questa strofa:

Tingi il dito in quel sangue spietato, Francia, tolta all'indegne catene: Egli è sangue alle vene succhiato Dei tuoi figli che il crudo tradì.

Il poeta si capisce ha pure vibrazioni proprie, di profonda efficacia, e sature di alto senso di dignità nazionale, come nell'invet- tiva al Re di Napoli :

Chi è quel vile che vinto s'invola Via per l'onda che l'Etna circonda? Versa, o monte, dall'arsa tua gola, Tuoni, fiamme onde l'empio punir.

Sulle regie sue bende profane Fremon l'ire dell'ombre romane E di Bruto il pugnale già nudo Gli è sul petto, già chiede ferir.

Re insolente, re stolto, re crudo. Di tal ferro non merti morir.

L'ode si chiude con una invocazione alla Libertà che avrebbe dovuto avere un effetto prodigioso. Ma il tempo dei prodigi per allora era passato :

Punitrice de' regi delitti,

Libertade, primiero de' dritti.

Gli astri sono il tuo trono, e la terra

Lo sgabello del santo tuo pie'.

Ma il tuo ramo radice non pone Che fra brani d'infrante corone. Ne si pasce di mute rugiade Ma di nembi, e del sangue de' re.

* Re crudeli, già trema, già cade

Il poter che il delitto vi die.

Come commentò la musica l'alata improvvisazione lirica del Monti? Il maestro Ambrogio Mino j a non ha lasciato fama di com- positore geniale e ispirato. Non era un entusiasta della rivoluzione, e forse neppur un convinto. Pochi mesi dopo salutava con la sua musica il ritorno degli austriaci. Il Monti aspettò la caduta della potenza Napoleonica per cantare l'Austria. Nel frattempo si rifece

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 453

Tanima e' accordò la lira per cantare con Napoleone la Mo- narchia.

Quanti compagni ebbe nella nuova evoluzione!

La cantata del Monti e del Minoja non era compresa negli im- pegni degli artisti scritturati per la Scala: e il civismo di essi non era tale da indurli a rinunciare al compenso. Alle autorità Muni- cipali fu presentata la seguente nota di spese:

Al cittadino Monti per la Poesia del d.° Inno . . . . L. 180

Al C.no Minoja per la composizione della musica . . •>> 180

Alla G.na Billinton » 180

Al C.no Bianchi » 180

Al C.no Braan (Braham) » 180

Al C.no Terrani dirett. del Coro comprese le prove . . » 15

28 coristi a L. 6 cadauno comprese le prove .... » 168

Orchestra composta di n. 61 parti comprese le prove . » 250

Copista della musica, carta, ed altre piccole spese . . » 167

Totale . . . L. 1500

Per sapere quanto costò al Comune di Milano l'ultima festa del civismo cisalpino, a queste spese si devono aggiungere circa 700 lire per la illuminazione a giorno del teatro.

Il Municipio si mostrò assai largo nel compensare autori e ar- tisti, dato lo stato miserevole delle finanze pubbliche. Era stato assai più taccagno nel primo anno del Triennio, quando si fecero i grandi festeggiamenti per la resa del Castello. Allora il Visconti non resulta avesse compensi per la canzone patriottica : il maestro Baillou una celebrità dell'orchestra della Scala si accontentò di 14 lire per la musica: e la Cecilia Bolognesi ebbe 60 lire per la esecuzione. Allora è vero c'era l'entusiasmo per le vittorie dei francesi : e, sopratutto, c'era la grande illusione di una Libertà e di una Indi- pendenza tramontate troppo presto e troppo male!

Sono stato inesatto dicendo che nessun artista rinunciò al com- penso. La Billington lo rilasciò a benefìcio della Pia Istituzione Filarmonica fondata pochi anni prima per iniziativa del celebre Marchesi, a benefìcio degli artisti di teatro poveri.

Il De Simoni, segretario del Dicastero Centrale, ringraziava la Billington con la seguente lettera :

« La ricompensa che fu da noi esibita al vostro merito, ed alla vostra accondiscendenza con la quale vi siete prestata a cantare l'inno repubb.no sulla morte di Luigi Capeto venne versata nella Cassa della Pia Istituzione Filarmonica.

« Con questo atto non meno generoso che lodevole avete accre- sciuta la stima che si ha di voi, ed acquistate un diritto di gratitu- dine verso l'umanità.

« Noi godiamo il piacere di parteciparvelo.

«De Simoni ».

454 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

La Billington allora contava fra le cantanti più famose, e in quella stagione, e nelle precedenti, aveva riportato alla Scala dei successi trionfali per la voce meravigliosa e per l'arte squisita. I giornali repubblicani l'avevano sempre assai lodata... Il suo atto veniva da un impulso di generosità o da un moto di ripugnanza a ricevere del danaro per la celebrazione di una ricorrenza sanguinosa condannata dai tedeschi, fra i quali era nata, e dagli inglesi, ai quali apparteneva per origine e per educazione? La domanda, natu- ralmente, è formulata senza tener conto delle ultime affermazioni della storia, e cioè che la morte di Luigi Capeto sia dovuta in gran parte agli intrighi politici della Prussia, interessata a perdere Maria Antonietta per colpire l'Austria...

Accettiamo la supposizione migliore...

Gli avvenimenti precipitavano. Gli austro-russi, rovesciata la difesa francese ai confini della Cisalpina, entrarono in Milano. Anche essi si annunziarono come liberatori, e come tali furono accolti in special modo dai loro antichi fautori e dai repubblicani della prima ora, di poi pentitisi. Nei primi mesi ci fu una invasione di satire feroci contro i francesi e contro i loro partigiani : e ci furonO' anche molte e atroci vendette.

L'abate toscano Becattini, furioso avversario dei francesi e di Bonaparte, celebrò la resa del Castello agli austro-russi con un'ode nell'istesso metro di quella di Vincenzo Monti. Il Becattini non era poeta e si limitò a ritorcere contro i francesi le imprecazioni mon- tiane. Ad esempio, alle strofi contro il re di Napoli, il Becattini ri- spose:

Chi è quel Duce che vinto s'invola Dietro l'alpe che Italia circonda? Versi Averne dall'arsa sua gola Tuoni e fiamme l'indegno a punir.

SuUe perfide schiere profane Chi è seguace dell'alme Romane Corra all'armi e col brando già nudo Non s'arresti giammai nel ferir.

Ma il suo vate frenetico, e crudo Di tal ferro non merta morir.

Il Monti che al principio del Triennio si era buscato di « vate ignorante » e bestemmiatore e si era sentito predire e augurare

Morte perenne d'infinito affanno

ora era inseguito sulla via dell'esilio da un altro augurio di morte violenta. L'abate Becattini si rivelava educato ai metodi austriaci. piombo, ferro per il poeta che canta sia pure trasmodando la Libertà: il capestro!

L'apostrofe finale dell'ode dell'abate fiorentino, non è meno fiacca del resto del componimento : non solo ripone ogni felicità per

LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI 465

gli uomini nei Re per diritto divino; ma fa getto e rinnega ogni di- ritto conquistato dalla rivoluzione. È il supino ritorno all'antico re- gime, che si rinnoverà realmente quindici anni dopo, alla caduta della Monarchia napoleonica. Monarchia questa, sia pure, ma per diritto di conquista, con la conservazione di una parte notevole della pingue eredità della rivoluzione. Dunque una abeiTazione monar- chica! Monarchia legittima era quella dell'Austria. Il diritto di essa sulle Provincie italiane era dato da chi sa qual Dio... noto soltanto all'abate Becattini.

Diceva la chiusa della sua poesia :

Libertade, quai infami delitti Fero insorgere i falsi diritti Che spargesti nell'Insubre terra E schiacciasti di poi sotto i pie'!

Altra pianta radice non pone Sotto l'ombra d'august« corone, Irrigata dall'ampie rugiade Sol profuse dal trono di un R«.

De' Pentarchi già trema, già cade Il poter che il delitto lor die.

La reazione austro-russa dava poeti peggiori della Repubblica Cisalpina,

L'ode del Monti non ebbe fortuna. Infamata dagli austriacanti, non ebbe voga neppur presso i demagoghi foggiati alla francese. La invasione austro-russa la soffocò : Marengo la seppellì definitiva- mente.

Napoleone era spuntato sotto Bonaparte. Gli italiani lo avevano sentito tre anni prima. Hippolyte de Raray, all'indomani dell'atten- tato di Arena, lo aveva predetto alla duchessa d'Abrantes : « Votre ami Lucien, avec tout son républicanisme et sa colere contre notre club de Clichy, vient de faire un roi de son frère le caporal ».

E Luciano, un po' per il suo repubblicanesimo, un po' per un aspro dissenso causa il matrimonio contratto, tenne rancore al fra- tello : e a Milano, durante le feste per la incoronazione, solo la sua casa non si illuminò per partecipare al comandato gaudio comune!

Kellerman, ai ringraziamenti per quanto fatti a denti stretti

rivoltigli da Bonaparte per la carica famosa di cavalleria che assicurò la vittoria di Marengo, osservò :

Tanto più che vi mette la corona sulla testa!

Bonaparte stesso pare non lo nascondesse troppo, quantunque un paio d'anni dopo facesse rinchiudere come pazzo in un mani- comio il Lattanzi che imprudentemente annunziò aver il primo Con- sole assunto il titolo di « Imperatore delle Gallie ». Tanto è vero che avendogli l'arcivescovo Caprara fattogli chiedere come deside- rava di essere ricevuto alla porta maggiore del Duomo per assistere al Te Deum di ringraziamento per la vittoria su Melas, rispose :

« Comme Fempereur! »

456 LA RICORRENZA DEL 2 PIOVOSO E VINCENZO MONTI

Sarebbe stato imprudente ricantare il crollo del più grande dei troni, affermando:

Lo- percosse co" fulmini invitti Libertade primiero de' dritti...

con quel che segue. Sarebbe stato imprudente, e il Monti delle im- prudenze di simil genere ne commise poche.

Il Monti cantò la incoronazione di Napoleone "e la cantò assai peggio della caduta di Gapeto. In compenso fu pagato molto meglio. Ebbe una scatola d'oro contenente sei biglietti da mille.

Le centottanta lire della Cisalpina erano dimenticate insieme col pugnale di Bruto e Cassio... dell'ode antica, tutt'al più avrebbe po- tuto salvare due versi:

Bonaparte ha nel cielo i rivali Perchè averli non puote quaggiù...

Ma forse in Napoleone avrebbero destato dei ricordi antipatici.

Alberto Manzi.

LA DIFESA CONTRO IL TIFO

NELL'ESERCITO E IN LIBIA

Ritornato dall'estero, ove mi trovavo in missione per doveri di ufficio, sono venuto soltanto ora a conoscenza dell'articolo del senatore Gencelli sulla Difesa contro il tifo, pubblicato nel fascicolo del agosto nella Nuova Antologia.

La nota, scritta con caldo affetto per i nostri soldati e con larga conoscenza dell'argomento, poiché, mosso da pietà fami- gliare, l'Autore, come riferisce e come dimostra nella prima parte del suo articolo, ha studiato a fondo la questione del tifo è dedi- cata ai Ministri della guerra e della marina. Ai quali, il senatore Gencelli, dopo aver esposto come da vari anni si vada adottando presso alcune nazioni la vaccinazione antitifica quale mezzo profi- lattico efficace per gli eserciti, riportandone gli splendidi risultati ottenuti, domanda il perchè non si sia provveduto a difendere dal tifo anche i nostri soldati in Libia con la vaccinazione, e perchè non vi si provveda ora per tutte le milizie di guarnigione in Africa.

Data l'importanza e la diffusione della Nuova Antologia e l'au- torità dello Scrittore, l'articolo potrebbe generare un senso di sfi- ducia nel pubblico e nel mondo scientifico circa l'opera spiegata dal Ministero della guerra, e dall'Ispettorato di sanità militare in ispecie, per la tutela della salute del soldato; e credo pertanto mio dovere rispondere a quelle domande, e spero che la S, V. vorrà essere così cortese di dare a me pure ospitalità nel suo pregiato periodico.

Nelle guerre purtroppo, e in quelle coloniali sopratutto, vi è sempre a temere un nemico nascosto, il quale colpisce e miete vit- time come, e talora anche più delle armi dei combattenti, e questo nemico è rappresentato dalle malattie infettive, e prima fra queste dall'infezione tifica, specialmente in Africa, che, come ben dice il senatore Gencelli, è da considerarsi quasi come la patria di ele- zione della febbre tifoidea.

Tutte le storie delle guerre passate stanno a dimostrare la dolorosa verità, e sono pur troppo ben eloquenti le statistiche anche di alcune fra le piiì importanti e recenti, sia continentali che colo- niali, delle altre nazioni, malgrado la più accurata organizzazione

30 Voi. CLXVn. Serie V 1' ottobre 1913.

458 LA DIFESA CONTRO IL TIFO NELL'ESERCITO E IN LIBIA

dei loro servizi sanitari, che man mano si è venuto operando. Per il tifo si ha infatti:

Morbosità "/oo Mortalità «/oo

Guerra francoKprussiana 93.1 11.1

Guerra anglo-boera 151.56 21.07

Guerra ispano-americana 192.65 14.63

Marocco occidentale 168.43 21.13

Truppe inglesi massimo 37 mass. 10.4

Durante il periodo di guerra, invero, nei campi non si può fare purtroppo assegnamento sicuro sulle norme di profilassi e di ig-iene. Per quanto si voglia essere meticolosi, per quanto si voglia essere previdenti e severi nel proporre e nel disporre, le con- ting-enze di guerra, le sue necessità impellenti si impongono sempre a detrimento delle esigenze umanitarie. Mille © mille cause concor- rono e si sovrappongono a rendere vana tutta la solerzia dei medici e inattuabile l'applicazione dei loro precetti. Ed è per questo che negli ambienti militari, più ancora che nei civili, è stata accolta con entusiasmo e largamente applicata in parecchi eserciti la vac- cinazione antitifica allo scopo di rendere i soldati più resistenti al- l'infezione, come ha ampiamente riferito il senatore Gencelli nel suo articolo.

Ed io stesso fin dall'inizio della campagna libica, e prima an- cora che si manifestassero i primi casi di tifo nelle truppe, propo- nevo, neJ gennaio 1912, che qualche reparto destinato ad essere in- viato in Libia fosse sottoposto alla vaccinazione antitifica, e tale proposta ripetei più e più volte in prosieguo. Ma purtroppo per esigenze di mobilitazione non fu concesso di praticare detta vacci- nazione in Italia nelle truppe partenti per la nuova colonia.

Fu mia cura quindi studiare il modo di applicare la vaccina- zione nei luoghi stessi dove si svolgeva la guerra : problema di non facile soluzione sia per le condizioni disagiate di vita e di am- biente del nostro soldato, sia specialmente per le reazioni locali e g-enerali che ne derivavano, le quali avrebbero potuto immobiliz- zare truppe, costrette invece a vigilare giorno e notte alle trincee per prevenire e sventare le insidie di un nemico, maestro nell'arte delle continue sorprese, sia infine per il pericolo della fase nega- tiva, affermata ancora non è molto da numerosi autori, cioè che la vaccinazione in tempo di epidemia possa dare maggiore pre- disposizione alla malattia e rendere più grave la infezione in quelli nei quali già fosse in istato di incubazione.

Era quindi per me doveroso procedere con la massima cautela in una questione di così grande importanza, che poteva influire nello stesso tempo sulle condizioni sanitarie della truppa e sulla sorte dei combattimenti.

Ed ho voluto perciò stabilire innanzi tutto, in base a ricerche bio- logiche negli animali e nell'uomo stesso, quali fossero le prepara- zioni del vaccino antitifico più adatte al caso, fra le numerose pro- poste dagli autori; assicurare quindi sperimentalmente le dosi, che valessero a rendere meno sensibili le reazioni locali e generali; e determinare tutte quelle modificazioni nella preparazione stessa delle fialette, che valessero a rendere più semplice e rapida la vac- cinazione.

LA DIFESA CONTRO IL TIFO NELL'ESERCITO E IN LIBIA 459

Non starò qui a dettagliare tutta questa parte tecnica dell'ar- gomento, che sarebbe fuori luogo in questo periodico; mi limiterò soltanto a riferire che ritenni conveniente adottare il vaccino Kolle Pfeitfer, preparato collo stipite del bacillo tifico libico, e il vac- cino polibacillare del Vincent, facendovi comprendere pure, non soltanto il bacillo tifico libico, ma anche i paratifi A e B, per le numerose forme paralitiche che si osservano in Libia; e che il è stato preparato dal capitano medico dott. Grixoni, professore di igiene nella Scuola di applicazione di sanità militare, presso il laboratorio di micrografìa della Direzione di sanità pubblica, sotto la gentile direzione del Prof. Gosio, e di quello Vincent la prepa- razione è stata affidata invece all'Istituto Sieroterapico milanese, secondo le norme datene al prof. Belfanti.

* *

Chiariti così i punti principali, e rassicurato dalle vaccinazioni che ho voluto prima eseguire in Italia che il timore di una fase negativa era certamente per lo meno di molto esagerato, e che le truppe combattenti si potevano perciò senza pericolo di sorta vaccinare in Libia stessa, la vaccinazione antitifica, dietro autoriz- zazione ottenuta dalle Superiori Autorità, fu da me personalmente iniziata nell'agosto 1912 in Tripoli, e quindi fatta proseguire su larga scala, e si prosegue tuttora in tutti i presidi delle nuove colonie.

E posso di già riassumere i risultati fino al giugno u. s.

Durante questo periodo sono state eseguite 16,191 vaccinazioni e precisamente :

Prima Seconda Terza

Vaccinazione Vaccinazione Vaccinazione

Con vaccino Kolle Pfeiffer .... 1960 1759 963

Con vaccino polibacillare Vincent . 4736 3668 3105

66% 5427 4068

Ed è ragione di compiacimento poter asserire che non si è verificato alcun inconveniente degno di nota, e le reazioni gene- rali riscontrate corrispondono esattamente a quelle riferite dagli altri autori.

E circa i risultati, dai dati finora ottenuti si ha :

Dopo 1 vaccinazione (6696 uomini) = casi di tifo 9, morti 3, morbosità per mille 1.34, mortalità per mille 0.4.

Dopo 2 vaccinazioni (5427 uomini) = casi di tifo 9, morti 0, morbosità per mille 1.65, mortalità per mille 0.

Dopo 3 vaccinazioni (4068 uomini) = casi di tifo 3, morti 0, mor- bosità per mille 0.49, mortalità per mille 0,

mentre di fronte a queste cifre abbiamo che nei vari presidi della Libia durante lo stesso periodo di tempo, calcolato dal settem- bre 1912, vale a dire dal momento in cui si poteva registrare l'azione della vaccinazione, a tutto giugno 1913, la morbosità per tifo è stata del 35.3 per mille di forza e la mortalità del 7 sulla forza totale. Cifre queste che rispondono purtroppo in modo aifermativo alla domanda che si faceva il senatore Cencelli: è egli vero che in Libia molti dei nostri soldati siano stati colpiti dal tifo e ne siano morti? Si, purtroppo, ripeto, e tali cifre di morbosità e mortalità nei non

460 LA DIFESA CONTRO IL TIFO NELL'ESERCITO E IN LIBIA

vaccinati potrebbero anche colpire dolorosamente il Paese. Ma qua- lora esse si paragonino con quelle già surriferite delle altre guerre consimili, l'impressione dolorosa può fortunatamente cambiarsi in conforto, poiché risulta evidente al paragone quante vittime sono pure state risparmiate con la buona organizzazione del servizio sa- nitario e non meno colle mille cure, dalle quali furono circondati i nostri soldati, specialmente per quanto riguarda l'acqua e il vitto. Il che non toglie che chi scrive queste righe non senta pro- fondamonte il rimpianto che anche in questa nostra campagna della Libia si sia dovuto pagare ancora un così largo contributo di vittime alla febbre tifoidea e alle malattie epidemiche contagiose; e il suo rimpianto è tanto maggiore per l'appunto, perchè ha ragione di ritenere che se avesse potuto far praticare la vaccinazione antitifica fin dall'inizio della campagna, e con la intensità voluta e dovuta, si sarebbero potuto risparmiare tante perdite e tanti dolori.

Dai risultati riferiti, che non hanno bisogno di commenti, ri- sulta invero evidente l'azione protettrice della vaccinazione anti- tifica : ed è da augurarsi che, come giustamente scrive il Cencelli, vinte le prime naturali diffidenze, che non sono state lievi, poche, i militari chiedano spontaneamente di essere immunizzati, in attesa di poter dichiarare obbligatoria la vaccinazione antitifica fra le truppe quando lo si stimi necessario.

Ed è da augurarsi non meno che questo esperimento possa valere anche a fare adottare la vaccinazione antitifica presso le truppe in Italia e nello stesso ambiente civile.

La mortalità per febbre tifoidea disgraziatamente, come ha osservato il Cencelli, è infatti assai alta nella popolazione, e io devo aggiungere con vivo rincrescimento, anche nei militari, mal- grado tutte le misure igieniche che sono prescritte. E di ciò con- vinto, proposi di già anche la vaccinazione antitifica nei militari per due delle nostre grandi città, che in modo speciale e ripetuta- mente sono state infestate dal tifo e vi pagano un tributo maggiore.

Ed anche un altro giusto desiderio del senatore Cencelli sono lieto di avere prevenuto. Egli chiude la sua nota, dicendo che bi- sogna diffondere con conferenze e con pubblicazioni popolari le conoscenze intorno al tifo e il modo di prevenirlo. Ed io per l'ap- punto, fin dal febbraio 1913 sottoposi a S. E. il Ministro della guerra, che la accolse favorevolmente, la proposta che sia fatta più viva e più intensa per azione del Corpo sanitario militare l'opera, già da tempo da me iniziata, di propaganda igienica, mediante conferenze e proiezioni luminose, fra gli ufficiali e la truppa, facendo nascere quella coscienza igienica, che purtroppo, è doloroso il constatarlo, non esiste ancora neanche presso le classi più colte. E tra le confe- renze da me assegnate, riguardanti i principali argomenti di igiene e la profilassi delle malattie infettive, ve ne é anche una per il tifo e la vaccinazione antitifica, il cui valore si è affermato anche mag- giormente nel Congresso internazionale di medicina di Londra, tenu- tosi nell'agosto u. s.

LA DIFESA CONTRO IL TIFO NELL'ESERCITO E IN LIBIA 461

In quel Congresso la questione della vaccinazione antitifica negli eserciti è stata largamente trattata nella XX* sezione (medicina na- vale e militare). Relatori ne furono Sir William Leishman, colon- nello medico dell'esercito inglese, uno degli iniziatori, si può dire, insieme col Wright, della vaccinazione antitifica; il Russel, mag- giore medico dell'Esercito degli Stati Uniti d'America, che tanto contributo portò di già alla vaccinazione antitifica nell'Esercito ame- ricano; il prof. Vincent, tenente colonnello medico dell'Esercito francese, ai cui studi e alla cui azione intensa di propaganda si deve in non piccola parte la disposizione data ultimamente in Francia della obbligatorietà della vaccinazione antitifica per le truppe coloniali; e nelle loro relazioni furono riconfermati piena- mente i risultati già riportati dal Cencelli nella sua nota. Quelle statistiche portano invero conformemente che ora nei vaccinati la morbosità è così notevolmente ridotta da oscillare nei massimi sol- tanto fra 0,19 e 1,2 per mille, e la mortalità si può dire discesa a zero: che anzi, per molti reparti di truppa dei tre eserciti: inglese, americano e francese, la stessa morbosità risulta ridotta a zero.

E mi piace rilevare che fu anche riaffermalo essere certamente esagerati i danni di una fase negativa, non solo, ma che anzi il decorso della malattia in individui inoculati durante il periodo di incubazione è meno grave e pivi breve.

In mezzo a tanto favore per la vaccinazione antitifica sono stato pertanto assai lieto di potere riferire anche io, quale Delegato del Ministero della guerra, su quella praticata da noi in Libia, la quale, se pur troppo pareva modesta per numero di vaccinati innanzi alle cifre colossali portate dalle altre nazioni, pure presentava un alto interesse per le condizioni speciali nelle quali venne praticata, e per le modalità seguite sia nella preparazione del vaccino, che nelle dosi delle successive vaccinazioni.

Ed il generale medico Calcagno, Delegato del Ministero della marina, ha pure riferito sulle vaccinazioni antitifiche eseguite nei marinai della base navale di Tobruk e negli allievi dell'Accademia navale.

Si potè così dimostrare che nulla si è tralasciato di quanto fu possibile per la tutela della salute del nostro soldato in Libia, che, dietro altre comunicazioni fatte sulla sterilizzazione e potabi- lizzazione dell'acqua, sulla radiografia in campagna coll'apparec- chio portatile che così eflBcacemente rispose alle maggiori esi- genze della chirurgia di guerra sulle navi-ospedale, e su altri provvedimenti adottati, fu grandemente apprezzata l'organizzazione del servizio sanitario del nostro Esercito e della nostra Marina in questa nostra campagna coloniale.

Ho dovere pertanto di essere grato al senatore Cencelli di avermi dato occasione di rendere nota l'opera continua, attiva e si- lenziosa dei Corpo sanitari militari italiani, non solo nell'interesse dell'Esercito, ma anche di tutto il Paese.

L. Ferrerò di Cavallerleone

VOLUMI SCRITTI IN VERSI

(1)

Ciò che rende difficile lo scrivere buona poesia, si è che la poesia è l'arte della divina inutilità. Se c'è manifestazione che non possa esser direttamente ragguagliata ad alcun criterio intrinseco e mate- riale di profìtto, questa è la poesia, È essa necessità di canto, onde si raccoglie quanto nessun'altra espressione dice, e tanto più è grande quanto più raccoglie, ma quanto meno dice di quel dicono le altre espressioni. È essa magnifico adornamento dello spirto, è come il drappeggio dell'intelletto, per essa « materiato di pura bellezza », è fioritura sterile, quanto all'umana industria, ma feconda di forme, di stimoli, di colorimenti, che gli uomini autorizzano alcune creature privilegiate a suscitare. Come tecnica dell'irreale, è dunque la mera- vigliosa disciplina dell'inutile, fuor dalla logica, fuor dal profitto, fuor dall'insegnamento : ed in fatti la poesia è tanto più alta, quanto più, se tradotta in prosa, risulti vana.

Ma, a punto per tal suo corrispondere al ritmico palpito dell'ine- sprimibile, alla pura musica delle cose, alla più vera necessità che non ha legge, la poesia trova esigenti gli uomini che l'ascoltano. Per- ché gli uomini conferiscano ad uno di essi il diritto di esser se stesso solamente secondo una simile verità formale, convien che costui rag- giunga al meno un minimo di universalità che giustifichi il suo sa- crificio e che. lo collochi più in alto degli altri: per questo, instintiva- mente, gli uomini sentono quando tra l'intenzione e l'espressione si collochi un elemento estraneo, qualunque esso sia e per quanto ben dissimulato, che abbia aiutato, nel caso migliore, la manifestazione

(1) Carlo Baccari, Poemetti, La Stem editrice, Cassino 1913, di pagine yin-136. 2. Guido Cantini, Inno alla bellezza vergine, Nicola Zanichelli, Bo- logna 1913, di pp. xvi-192. 3. Franco Carocci, Campane a sera, Remo San- dron, Palermo, 1913, di pp. 92 4. Lamberto Carlini, La corona dei mesi, Tip. F.lli Lanzani, Milano 1912, di pp. xxii-130. 5. Filippo de Filippi, Aglaia, Niooletti Bros. Press, New York, di pp. 128. 6. Romolo Lucchese, Aoidie III La casa dell'Aide, Tip. Polizzi e Valentini, Roma 1913, di pp. 52. 7. Alfredo Minbo Dominedo', Arte pura, Tipografia Moderna, Milano 1913, d\ pp. 114. 8. Curio Mortari, I canti dei vecchi goliardi (1° La confessione di 320), Pubblicazione dei Nuovi Goliardi, Padova 1913, di pp. 24. 9. Gio- vanni Orsini, Il poema di Lepanto, Libreria editrice milanese, Milano 1912, di pp. 112. 10. Nino Pollio, / versi che ho detto, coi tipi di Tavassi, Na- poli, di pp. 56. 11. Dott. Giuseppe ^calLa, Mime, cav. Niccolò Giannotta, Catania 1913, di pp. 152. 12. Gesualdo Scordamaglia fu M.\tteo di Nic.\- STRO, Il Peana, Premiata tip. ed. moderna, Nicastro 1912, di pp. 200. 13. Antonio Tumbarello, Foglie disperse, Stab tip. Virzi, Palermo 1912, di pp. xvi-136.

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della poesìa.' Che in questa, come nell'amore, ogni intromissione che possa turbarne il disinteresse, è la morte; quando vanità, o desiderio di lucro, o bisogno di commiserazione, o presunzione, quando in fine la turpe verità delle cose getta la sua ombra traverso il raggio dell'in- spirazione, questo s'arresta, si decompone, diviene opaco, s'estingue.

Poiché, ognun che voglia scriver versi dovrebbe porsi questo quesito: Ma non si chiederanno i lettori, perché io abbia scritto tutto ciò? Ecco il problema: ed in fatti vero poeta è quello a cui chi legga non chiede ragione del suo canto (come che solo in questa domanda sia la condanna) ma senta naturalmente e spontaneamente la necessità di quel che è stato scritto, dal momento che sol tanto una ragion superiore di armonia può autorizzare un uomo alla profes- sione dell'arte che ha per iscopo la divina inutilità. A gran stento consegue in tal repubblica un minor diritto di cittadinanza chi mostri di possedere a sufficienza gli strumenti elementari, quelli con cui si raggiunge a pena una sopportabile espressione di poesia, e bastano a ciò qualche idea, un po' di sentimento, una tecnica regolare. Ma non è che il materiale quotidiano della vita poetica di una lingua, è il tes- suto connettivo, è la piattaforma, è quasi il mestiere di fronte alla professione, è l'occasione poetica, ripetuta con quel tanto di abilità che lasci per lo meno il dubbio, se veramente servisse a qualche cosa lo scrivere quelle illusioni inutili. Se non che, anche a questo punto non molti arrivano.

In fatti in questa categoria principe degli scrittori, potrebbe sta- bilirsi una gerarchia alla sommità della quale sono i grandi poeti, ma di questi l'umanità n'ha prodotti pochi; vengono poi i poeti, e di questi, anche ai giorni nostri, ne vivono alcuni, vi son poi coloro che scrivono versi", ed ogni epoca ha i suoi, che sono i continuatori di una consuetudine letteraria, i comentatori poetici di un momento sto- rico, i derivati dei poeti; e vengon per ultimi coloro che scrivono in versi, che sanno a mala pena disporre in versi la povertà delle loro parole, ed a costoro bisogna chiedere il perché, a costoro convien dire che non hanno il diritto di fare una cosa inutile e rammentare che l'attività umana ha infiniti altri campi ove proficuamente esplicarsi.

* #

Ed il difetto principale riscontrato nei volumi di cui imprendo a scrivere, è che essi tutti rivelano negli autori più una voglia che una volontà di esser poeta. Son per lo più concettini, imaginuzze, senti- mentalismi, stenti, ma tante, tante parole, e tanto, tanto pochi versi; son intenzioni, ma tanto lontane, sono persino a volte idee più grandi assai, pur se non troppo grandi, di chi le ha concepite e che vi si è torturato, senza pur giungere a renderle evidenti, son esercizi che senton la scuola, e sopra tutto son d'Annunzio, Pascoli, Gozzano, Stecchetti, e tanti altri, sino alia sazietà! Qualche cosa, in qualcuno, c'è, ma annegata in troppe altre le quali cancellano la promessa lon- tana che quella potrebbe significare e tolgon vigore ad ogni incorag- giamento : una lode di diligenza non può consacrare un poeta.

In tal modo, nessun che legga può negare che Carlo Baccari sia diligente e conscienzioso scrittore : questi suoi Poemetti son puliti, vorrebbero dir qualche cosa, mostrano studio, desiderio, buona vo- lontà. Ma quel tanto che potrebbe esprimersene è cosi soffocato tra

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le scorie, che si finisce per trovarli oscuri, affannosi, voluti. Ecco, per esempio una discreta idea come diventa in un sonetto che è pur una delle cose migliori del libro :

Ape, la nova tua fatica imprendi poi che dei favi fornito è il ricamo: di fiore in fiore e d'uno in altro ramo ronzi e cheta nei calici discendi.

Ma l'amoroso polline tu rendi al fior cui suggi il cor col piccol amo, e ritorni meli) fera allo sciamo cui tutto dai e così poco prendi.

Ai)e d'oro, poi versi ne la chiara ambra del miei la dolce primavera; e, quando nel silenzio secreto

cerca e freme e dehra l'inquieto spirito, calmo il foco di tua cera la vigilia notturna mi rischiara.

L'idea forse c'era, ma s'è sgretolata ed ha perduto vigore. Ma poi il Baccari vuol filosofare anche di più, vuol far sentire che conosce Lucrezio e vuol scrivere poesia di pensiero, ma gli vengon fatte certe strofi lunghe in cui non si salva che un verso, una similitudine, una parola...

e cantò l'usignolo.

Parve in pria che a le porte

battesse del silenzio.

E parve che le porte

aprisse del silenzio.

La voce forte e sola

liquida gorgheggiò,

eco vibrante in eco,

e si disperse e tacque.

Passò un susurro: Udite!

destatevi, destatevi,

che l'usignolo canta.

E come un'ala a volo,

e come acqua da fonte,

sgorgò, onde su onde,

empì tutto il silenzio

il prodigioso canto.

Salì, salì le cime

tremulo, voluttuoso;

si diffuse vibrante,

penetrò di dolcezza

ogni fronda, ogni fiore

ed ogni creatura;

ne ricercò securo

l'intime fibre, e alato

seco rapì gli spirti

pel regno de l'oblio.

Tal l'aere vibrava

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del concetto Sublime, qual d'acqua cheta il velo di voluttuosi cerchi palpita, se l'infrange picciolo sasso al mezzo. E parea, come tacque, corresse il musicale oceano pel silenzio.

Ed il volume è press'a poco tutto così. L'autore certamente è giovane ed ha avuto fretta; se avesse atteso a pubblicare i suoi versi li avrebbe scelti e resi migliori, ma forse con maggiore maturità di spirito, avrebbe preferito goderseli per sé, come compiacenza segreta di poesia.

Lo stesso potrebbe dirsi a Guido Cantini che nel suo inno alla bellezza vergine, seguito da sonetti e poemi, assai parla in prima persona, senza che apparisca nel suo verso una necessità imprescin- dibile di esprimersi. E poi perchè non volersi awedere che non è suo l'atteggiamento che l'induce a scrivere, per esempio, così?

Disse il Titano: « n fuoco ferirà tutte le nubi, violerà le grotte del corallo, il seno morderà delle montagne; lodatelo per tutte le fucine, lodatelo per tutti i focolari!

E noi, o d'ogni arte insegnatore,

noi ti lodiamo con l'Antiveggente:

ti lodiamo per tutte le fucine,

ti lodiamo per tutti i focolari,

ma più ti lodo io per quel che m'urge

Amore di Bellezza e d'Infinito.

Lettere maiuscole, enumerazioni, io, parole astratte, misteri im- perscrutabili, invocazioni... ah quelle laudi quanto, quanto male hanno insegnato a fare! E pure, anche il Cantini, come il Baccari, se rientrasse veramente in stesso, potrebbe rintracciare una sua economia, una sua disciplina, una sua maturità di giudizio, e nella sincerità che consegue al ravvedimento, accorgersi della realtà di un suo stato d'animo analizzando quanto vi sia di vero e di necessario in tutto quel che un impulso non del tutto spontaneo e personale può inspirargli di scrivere.

Malinconico, senza una plausibile ragione, apparisce invece Franco Caracci il quale offre nelle poesie raccolte nel suo precoce volumetto un esempio assai interessante di quel che potrebbe chia- marsi la deformazione romantica del pascolismo. Il Pascoli è stata una delle figure più attraenti della poesia mondiale dell'ultimo se- colo : non saprei trovare una vicenda spirituale più simile alla sua, che non in San Girolamo. Il grande traduttore dei Vangeli ebbe a sostenere una lotta torturante fra l'intelletto che lo conduceva al clcis- sicismo ed il sentimento che lo sospingeva nel Cristianesimo: tutto ciò, attenuato nella vicenda di uno spirito poetico, può ripetersi per il Pascoli, che troppo era uomo di gusto per non idolatrare la sua matura ed esperta convinzione classica, ma troppo era sincero per

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infrenare i suoi impulsi essenzialmente sentimentali. Ma fu artista di squisita genialità per questo, onde chi ne apparisca discepolo o seguace, dovrebbe manifestar lo stesso equilibrio di contrasti, che se manchi l'uno o l'altro elemento, non si ha che l'esercitazione sco- lastica od il sentimentalismo fiacco ed inane. Ed ecco Franco Garacci che, per esempio, sente così :

Silente discende la sera, di'scende la tenebra nera ne l'anima stanca.

Eppure ne l'anima, ascosa sorrise una volta qualcosa... qualcosa ch'or manca.

Cos'era?... è passata, disparve: s' inseguono tremule larve di sogni caduti

per sempre, per sempre! Le rose susurrano a tutte le cose: per sempre, caduti!

E son sempre sogni, notti, tramonti, campane, lagrime: c'è il sole malato, il gioi*no triste, la fede dolce, le vele bianche, la piccola buona, e c'è persino il « ricordi? », ma nulla c'è della virile tristezza di un'anima di vero poeta; che da questa non s'esprime un vano pudore del dolore, un'indeterminata lamentela, ma una formuki generale d'interpretazione e di consolazione.

Altro scrittor diligente è Giuseppe Scalìa, il quale nelle sue rime si palesa un carducciano puro. È certo miglior artefice di questi altri, manifesta maggior coltura, più corretta esperienza, più sicura perce- zione delle esigenze della poesia. Ma manca di una personalità sua ed al lettore fa sempre ricordare qualche altra armonia, qualche atteg- giamento già veduto, come se obedisse ad un'inspirazione di seconda mano. Onde dove si vorrebbe slancio alato, non è che enfasi, e dove si cerca elegante transparenza, non è che scuola; e non c'è verso che non presenti qualche imperfezione o qualche reminiscenza. Fin dal principio, ecco il primo sonetto :

Perché tant' ombra di fastidio gravi su questi tempi sonnacchiosi e rei non io te oblierò, arte degli avi, arte pura e gentil degli avi miei.

E tu copia d'incanti in lor versavi, piìi dolce ancor del miei dei favi iblei, e fiamma ed ira su gl'imbelli e ignavi, quasi fuoco dai rotti fianchi enei.

Ma ed ora? di delitti ardita scuola, Menade oscena suH'aperta via, ebbra gavazzi tra una ciurma impura.

Me disfiori vecchiezza orrida e sola, giaccia col corpo la memoria mia, ma serbi al retto e al bel l'anima pura!

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Il resto vorrebbe esser poesia civile, e qualche volta sembra acco- starsi ad una realtà poetica, per una certa facilità di periodo e di tessitura, ma sempre con così scarsa originalità e con così grave tran- scuranza della lima che dovrebbe quasi disperarsi dell'avvenire dello Scalìa, quanto al suo commercio con le Muse.

Dalla Sicilia vengono altri due volumi di versi, quello del Tum- barello e quello del Minèo Dominedò : gli autori son morti, am- bedue, e la critica tace. Forse dovrebbe tacere anche se fossero ancora vivi, ma di fronte alle tombe recenti non può fare a meno di trovare inopportune simili pubblicazioni di opere postume, che son legittime sol quando si tratti di cose di sicura bellezza. E tcile non è certo il caso per questi due volumi.

Invece, soffocato fra stranezze e seicentismi e decadentismi, si trova un accento di vera poesia in un volumetto che sembra la prima parte di piìi lungo lavoro. È di Curio Mortari e narra la storia di un delitto, e discorre di prigione dopo una vicenda criminale e morbosa. Ma questi versi meritano d'esser notati :

Ed era la casa di Pena fra il verde di Piazza Castello: giocavan davanti al cancello bimbi e bimbe prima di cena.

GÌ' ippocastani eran fioriti : mandavano languido odore... il vespro era un roseo cliiarore sui neri sobborghi turriti.

Passavano coppie d'amanti: le gronde eran tutto un cantare: era il vento come un gran mare fiorito di risa e di canti.

E rosso e grande il lunipieno già già conquistava la sera: oh primavera, primavera, diffusa pel vasto sereno!

Poi, ripeto, si cade pur troppo nell'eccessivamente strano, nel contorto, nell'inverosimile e l'accento di vera poesia si perde lontano. Non era un gran che, ma non mancava di gusto, non era originale ma offriva un quadro veduto e sentito, non era un capolavoro, ma al meno risuonava di sincerità.

Non diversamente potrebbe dirsi di una specie di calendario poetico che il Carlini pubblica in un volume che egli ha fatto di tutto perchè non invitasse alla lettura. Infatti, a parte il modo poco simpatico della stampa, il Carlini ha preposto alla sua corona di mesi una curiosa prefazione che incomincia con queste parole: «Mi pare ancora di vederlo, seduto sulla sua poltrona, con la berretta di velluto nero, rabescata di verde, sotto la quale gli uscivano i cer- necchi bianchi, con sull'estremo naso [sic) gli occhiali e tra le mani il libro o il giornale. Povero nonno! » Per quanto lodevole sia il me- more affetto per il proprio nonno, pure, così introdotto non è tale da incoraggiare alla lettura di un libro di versi. Con tutto ciò i poe- metti del Carlini non son perversi, e qualcuno è forse più che di-

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screto : se bene stampati per dir così in due tempi, i suoi sono esa- metri, di quelli della convenzione, fatti cioè di un settenario e di un novenario, e non mancano di sapore classico e di qualche felice ac- cento. Ecco per esempio il luglio :

Squarcia di larghe crepe

l'accesa canicola i campi E com'ombre di strali

trapassano obliqui i ramarri Sopra la bianca via.

Contorce la sferza del sole Di tra i bronchi ed i rovi

la scorza degli olmi e dei pini, Fermi ne l'aria calda

le chiome odoranti pel cielo. No, non è pura neve

ohe imbianca quelle Alpi Apuane tra l'azzurre forre,

ma. bianchi detriti di marmo Che v'arroventa il sole.

Lasciam queste mura infocate, Dove ristagna l'aria,

scendiamo a le rive del mare. Oh come dolce e fresca

la brezza portata da l'onde, Sciolte le vesti tutte,

s'insinua per entro a le carni! Tuffati insino al capo

oooi molle abbandono ne l'acque, Lascia che il blando flutto

ti culli sul fior de le spume. Poi con le membra fresche,

finito quel salso lavacro, Il pomeriggio lungo

s'abbrevi entro morbido letto.

Ed in ciascuno dei mesi si sente freschezza d'inspirazione, senti- mento della natura delicato e profondo, presenza viva ed efficace di un'anima poetica vergine e serena. Non esito a dire che il Carlini si rivela il miglior poeta fra quelli di cui si occupa il presente scritto, e che i suoi dodici poemetti son meritevoli della miglior fortuna.

* *

« La richiesta da parte di chi le aveva viste nel volo del mio dire, di tenerle ferme a disposizione, è il movente che m'ha indotto a stam- pare queste poesie ». Così nella ragion delV opera Nino Pollio inco- mincia a spiegare il perchè abbia pubblicato coi tipi di Tavassi 1 versi che ha detto. Sarebbe stato meglio si fosse contentato di dirli, appagandosi del «l'applauso conseguito ovunque e sempre che... le abbia recitate ». Vi son versi in fatti, come questo

O amore, amore, amor, chiara fontana

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che non si può dire costino grande fatica. Tanto più quando, più sotto, si legge che il poeta, di una certa onda scaturita dal suo pre- sente arido scoglio, intende far niente di meno che le cose seguenti :

Io me n'empierò il cavo delle mani

e fin qui ci sarebbe poco male, se il verso non fosse sbagliato. Ma poi egli manifesta anche altri propositi:

il core io n'empierò, tutte le vene^ perché a tutti ne dia gli esseri umani a tutte quante le vite terrene.

Ed avremmo ragione d'esser molto riconoscenti al generoso poeta, se non c'impensierisse l'altro suo proposito con cui, discorrendo della sua donna, conclude il volumetto :

io ti prenderò, rosa, e leverò dal mio cuore nei cieli ; io m'ergerò sull'alluce una notte, e mostrerò freschissima, aulentissima alla terra: farò chiuder le stelle, farò aprire i fiori, tutti i passeri garrire; gli uomini tutti si ridesteranno traendo alle finestre, e crederanno che un'Aurora d'amore il ciel disserra, che un altro sole sorge sulla terra!

Misericordia, quante cose succederanno quando questo poeta si ergerà! E veramente questo non è poi fatto che accada con così poca frequenza da menarne tanto scalpore !

Ecco un altro volumetto, che è stampato a New York, autore Filippo de Filippi, che scrive evidentemente in americano. Di fatti una sua lirica intitolata ^zY^rfe contiene molte strofi simili alle se- guenti :

So tutti i misteri dei fiori sorprendo i bisbigli dei succhi de' gorghi e de' rosei vilucchi allor cha s'ingemmano d'ori

e fuochi di tenera aurugine .

in gocciole appresa ne' calici, all'ombra trisulca de' salici tra l'irsuzie d'alba lanugine.

Ivi m'aggricchio e m'inglobo tra gli stami e il piatto pistillo; ascolto lo strido del grillo che rosicchia un caule di robe,

il lieve frullar delle piume nel nido del croceo scria, il viride afide che alia per gli orzi e s'aggromma alla glume.

Senza dubbio il poeta conosce moltissime parole che sono un mi- stero per la comune dei mortali. Per esempio per la morte dell'ammi- raglio Aubry, egli canta :

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... Ma apparve a Taranto nell'imminenza la man falcifera ch'il ruppe alla gola laurando. Stupefatta l'Italia s'inflesse.

Ed altrove usa persino la parola cachinni! Roba da restarne a bocca aperta!

Non in americano ma in puro linguaggio omerico vuol scrivere Romolo Lucchese: il suo opuscolo di quarantotto sonetti è tutto bello e dimostra che la poesia può cimentarsi a qualunque audacia. I sonetti si leggono tutti d'un fiato, perchè contengono parole, co- strutti © modi di singolarissima novità; se non che, giunti alla fin© si può dire d'aver capito molto: valga ad esempio questo gioielletto:

Amico uomo, ella mi disse, alla presenza

tu nostra stando un tal raccogliticcio

di ciancie o introduttore d'evidenza

non sarai, uno di quelli che d'impiccio

son coli' essere alla terra, e un gran pasticcio

pieno di cose fanno e ogni apparenza

piglian dal vero e i nomi, e niun credenza

dagli ned essi a se. Col modo spiccio

buona formalità di discorso havvi

in quei che ha il pensier giusto, e con misura

ci colloca i racconti, e presto davvi

ognuno ascolto e fede, e la sventura

come non lieta pure in viso stavvi

vaga come è d'altronde per natura.

I quarantotto sonetti son tutti così, e l'abilità dell'autore lascia veramente sbigottiti : il più remoto passato s'amplette con il più lontano avvenire, onde riman superato ogni più audace conato fu- turista.

Non dissimile impressione lascia la lettura del poema di Lepanto di Giovanni Orsini : il poeta è molto sicuro di poiché ritiene l'opera sua eterna per virtù d'arte, che il nome di Livorno passerà alla storia congiunto a quello di Lepanto, per la corazzata che si fu varata, per le pagine immortali di Francesco Domenico Guerrazzi, e per esso Poema, come l'autore s'incarica di farci sapere in una memoria posposta al lavoro. Di fatti, concluso il poema con la for- mula Tibi, Domine, gratias, in una pagina successiva l'autore epi- grafeggia dicendo: «... et Johannes de Ursinda gente labronicae terrae filius, propter aetemitatem. perfecit hoc». E non basta: in un'altra pagina l'autore informa come segue : « All'edizione presente del «poema, compiuta in Livorno... nel giorno della Esaltazione della « Croco, 14 settembre 1912, donò i disegni Manlio Martinelli pittore, «ed ebbe cure Guido Chiappini stampatore».

Ma via, non ci lasciamo prendere la mano da tali osservazioni esteriori : sì, sembrano affettazioni, ma su queste non si giudica un libro, e poi possono esser fregole di gioventù, presunzioni che fini- scono quasi a diventar simpatiche quando sian contraposte ad un contenuto realmente poetico, ad un'espressione sincera e disordinata di un'anima d'artista... Ecco la prima strofe:

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<( Voi ricordate di Nicolò Dandolo la testa rotear nelle vallari fosse, supremo nostro ammonimento? » A' prodi sogna tor deUe lagune trebacemente in orientai tumenzia, avea profato Mustafà superbo. Ravo sagato in sua consultazione stava. BoUiva un foco predatorio nelle vene piratiche, pensante di Nicosia il bel sibarissare.

E più in :

Uomo toroso, di sternace antico subaquila figura, è Bragadino.

Pare di vederlo. Più in questo endecasillabo

senti le pavide ossa tremare

E poi:

I prosternati nelli sabuleti Marcantonio Quirini capitano, Tiep(^o venerando, col Baglioni governatore, un silicernio attende. Sussannante ronzando la gazzarra corre, proietto Bragadino quale giumenta. <( Macellate i prostornati! » bestemmia, (c Gl'infedeli macellatel Sgozzammo, ardemmo; questi quattro cani i soli vivi, il solo seme. Morte! »

L'autore ha preveduto tutto, però, o quasi, ed in un'ombra corta di glossario, com'egli la chiama, che fa parte delle note, c'informa che trebacemente vuol dire astutamente, che ravo sagato vuol dire vestito di saio color marrone, che silicernio vuol dire convito funebre, e ci spiega altre sei parole rarissime ch'egli ha usato nel corso del poema, dicendo che son « latinismi tutti, sangue nostro, sangue puro, sangue laudabile». Forse non avrebbe fatto male a dire ancora che la Canzone di Legnano e La Nave son due bellissimi lavori. Ma d'altra parte l'Orsini nelle sue dette note ha anche voluto dare « un « serafico ammonimento ai grilli cantaioli della cara patria. Potreb- « bero essi zirlare sulla forma del Poema, malignando a sproposito ».

10 per ciò, non volendo malignare a sproposito, mi proclamo da me grillo cantaiolo e dichiaro che nel Poema di Lepanto non ho capito una maledetta.

Più vasta ancora di concepimento e d'intensità è l'opera di Ge- sualdo Scordamaglia. S'intitola « Il Peana, ossia la redenzione del <; mondo nella luce ad opera del mostro » ed è un « poema epico-so- « ciale in cinque canti ». Gesualdo Scordamaglia è nativo di Nicastro.

11 suo babbo si chiamava Matteo. Egli è socio dell'Accademia Inter- nazionale del Genio Latino, che, come ognun sa, è uno dei più au- torevoli consessi della civiltà mediterranea; e tutto ciò si apprende solo a leggere il frontispizio del Poema, che è dedicato a De Amicis, Bjòmson, Tolstoi, Fogazzaro, Brandes, non che « ai magnanimi « Roosevelt e Gamegie ». L'autore aveva mandato la prima edizione

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del suo Peana a vari scrittori che gli hanno risposto con evidenti e lusinghieri ringraziamenti, come il Gimbali che gli ha scritto : « Del « suo poema tutto si può dire, fuor che vi manchi un alto sentimento « umanitario » ed il Qesareo : « Grazie del suo istruttivo poema che « vo leggendo con sempre crescente avidità, da tanto che mi piace » ed il Ghiappelli ed altri. Volete di più? Anche il chiarissimo commen- datore Ugo Basso, Presidente della Società Internazionale del Genio Latino, per l'incremento delle Scienze, Lettere, Arti ed Industrie, ricevuto il poema s'affrettò a sollecitare dallo Scordamaglia la sua domanda per l'inscrizione all'Accademia da lui presieduta!

E veramente, se non rammentasse la Legende des Siècles, il Peana sarebbe la Divina Gomedia dei tempi moderni. G'è dentro l'Universo, ma ci son lodi per tutti; per la Monarchia, la Religione, il Socialismo, per Roosevelt, lo Zar, la Regina Margherita, Vincenzo Morello, Tommaso Gianfìone. Tommaso Gianflone, per quei pochi che ancora lo ignorano, è un concittadino e carissimo amico dell'au- tore, il quale quindici anni or sono inventò una macchina per volare. Vi son brani di pura poesia, e lunghi respiri di storia e di filosofìa poiché il poema è aggiornato sino ai più recenti avvenimenti, onde da astratte altitudini scende spesso ai fatti ootidiani, con elegante li- bertà. A volte l'autore si trova in gravi imbarazzi, poiché l'evolversi delle vicende nel mondo contemporaneo é così rapido e mutevole che non si sa oggi che pesci si piglieranno domani. Gosì per esempio, dopo aver tributato vigorose lodi ai Giovani Turchi nel canto III, si trova nel canto V alle prese con la spedizione di Tripoli, ed allora deve chiamare i Turchi « razza abbrobriosa di gente barbara e inu- «mana», soggiungendo: «Rinnego quindi quanto anch'io ne scrissi « in prò, in quest'istessa opera al Ganto III, ingannato dall'apparenti « speranze al momento della notizia gradita del riuscito movimento (c rivoluzionario dei giovini turchi e che poi invece è stato nei suoi '< effetti deleteri cotanto una vera ed amara disillusione!! »

L'umanitarismo, il pacifismo universale, il più vittorughiano sincretismo dicono con questo poema la loro parola definitiva, onde l'ottimo Scordamaglia merita un bravo di cuore.

Vedremo in una prossima rassegna qualche altro volume; la pianta della poesia alligna in Italia con incredibile fecondità pur se a dire il vero troppi più siano coloro che scrivono in versi, di co- loro che scrivono versi e più questi dei poeti. Ma forse è necessario e per ciò é meglio che sia così.

Emilio Bodrero.

RASSEGNA DRAMMATICA

Ricordando la Ristori.

...Mentre Cividale del Friuli consacra alla sua cittadina, Ade- laide Ristori, la gloria di un monumento, mi ritornano nell'anima i giorni di Roma, le onoranze, solenni nella loro affettuosità e nella loro reverenza, per l'ottantesimo anno compiuto dalla artista grande e dalla signora illustre. La rivedo, nel salone della sua casa, tra i fiori, tra i doni, nell'omaggio degli ammiratori antichi, dei vecchi compagni d'arte e dei giovani attori, nelle benedizioni dei beneficati; ancora commossa per il saluto che le inviava l'imperatore di Ger- mania a mezzo del suo ambcisciatore, con le lagrime negli occhi per l'augurio che il Re d'Italia aveva voluto portarle di p^ersona. E la ri- vedo, la sera, al teatro « Valle », avanzarsi, nel palchetto della sua Casa, con sul petto la medaglia della civile benemerenza, la sola de- corazione che aveva voluto portare in" quell'ora, inchinarsi, sorri- dendo felice, a quella ovazione straordinaria e senza fine che saliva a lei dalla sala e dalla scena. Ma più ancora mi punge il ricordo dei giorni della Esposizione di Torino, quando la Ristori concesse il con- tributo delle memorie della sua vita dell'arte, nei documenti pre- ziosi, e mi volle compagno nel lavoro di raccolta e di scelta. La ri- vedo, in quel suo studiolo : circondata dalle ricordanze più intime e più care; la cuffietta di merletti neri dalle orlature di merletti bian- chi le incorniciava il volto, dai dolci occhi e dai dolci sorrisi. Ella con vigoria giovanile cercava negli armadi, rovistava nei cassetti, svolgeva albi e cartelle, raccoglieva ritratti e scritti : pareva rivivere nella gloria e nella gioia dell'arte sua; e semplice, bonaria, spesso illustrava, comment^iva, raccontava. Io approfittavo della mia buona ventura, e interrogavo, e le pause di quella fatica derivavano da mie domande: fu così che un giorno Adelaide Ristori mi lesse alcune scene della Locandiera; un altro di Medea, e risentii lo storico Tu! a Giasone chiedente in furia chi avesse uccisa Creusa; e un altro an- cora, la scena di Lady Macbeth, nel sonno sonnambolico, che cerca cancellare la macchia di sangue che le pare di scorgere sulla sua mano, scena rimasta famosa nella storia della interpretazione.

Adelaide Ristori seguiva col maggiore interesse le sorti della scena di prosa italiana : appassionandosi, com'è naturale, particolar- mente di quelle riguardanti gli attori. E appunto io spesso avviavo le conversazioni sulla interpretazione di questo attore o di quella at- trice, scegliendo i più significanti per le vicende dell'arte. Di costoro ella quasi accompagnava le manifestazioni varie : giudicando con vi- sione alta e larga nelle idealità, e con sincerità avvalorata d'intelletto e di esperienza. CJome avrei voluto che quelle giovanili energie, quasi

31 VoL CLXVn, Serie V 1* ottobre 1913.

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sempre incerte o sperdute per ragioni diverse ma tutte penose pen- sando al fine, si fossero trovate raccolte a ascoltare! Era quella una vera e una sicura cattedra della scena per la interpretazione. Ma spesso la conversazione dal particolare caso si allargava alle conside- razioni generali. Ed è qualcuna di quelle osservazioni precise che voglio qui ricordare : poiché il maggior omaggio che i giovani do- vrebbero portare alla memoria grande della Ristori, intorno al mo- numento di Cividale, sarebbe non il fiore l'alloro, non il discorso e il telegramma, ma la certezza di intendere e di volere il benefìcio di quelli insegnamenti, per la individuale vittoria che é poi dell'arte la vittoria. Insegnamenti che per me poi erano incitamento e con- forto a proseguire nel dovere che ho assegnato alla mia discussione quotidiana : discussione dichiarata odio da comici ignoranti, mentre é invece immenso amore.

La Ristori era inesorabile relativamente alle attitudini. Si trat- tava per lei di un caso di coscienza. Quando a lei si rivolgevano gio- vani negati che ambivano alla fortuna dell'attore, dovesse anche spezzare una vita nel dolore, ella non ammetteva neppure l'inizio di un commento. « Non siete nato alla scena, sentenziava la- sciate, e sollecito, qualsiasi tentativo! » E ne ha salvati d'illusi, con quella onesta brutalità; e qual rispetto e qual difesa per l'arte in quella santa severità : senza pietà! Un giorno, si parlava delle dire- zioni. « Nort le pare, io dicevo, che il direttore non dovrebbe con- finare il suo dovere solo in quanto richiede il giorno per giorno d'una compagnia : sia anche per questo eccellente nel suo ufficio? Non do- vrebbe egli preoccuparsi ancora di quella che é la sorte dell'attore, individualmente, per i fini del quadro scenico ma fuori del quadro scenico : perchè quanto madre natura ha concesso all'attore possa sicuramente e saldamente fiorire? »

La Ristori ebbe un gesto come se dicesse: E come! Poi raccontandomi tutto quanto ella dovesse alla severità del padre che appariva fin crudele a lei ai primi passi, mi dimostrava come il diret- tore abbia addirittura cura d'anime : e aggiungeva come grave errore dei giovani sia quello di credere una pastoia il direttore illuminato quando si comincia a vagire alla ribalta. Per tanta stortura, sciagu- rata, energie di certissimo avvenire si sono smarrite o si sono tra- viate. Ma un direttore deve essere appunto illuminato. Non deve rias- sumere questo suo ufficio nel dire a un attore : « Piantati e fa come faccio io! » Così si creano « le scimie stupide e grottesche », la frase è della Ristori. Un direttore, per questo che é il più nobile fra i suoi molteplici doveri, deve non opprimere o deformare l'ingegno che ha la ventura di poter dischiudere alla vita dell'arte, ma farlo fiorire liberamente, secondo la sua potenza e la sua qualità, accortamente, senza alterarlo, difendendolo dai pericoli, e spianandogli le ardue vie della conquista : sempre ricordando che deve cercare di dare all'arte una individualità, non uno « scolare » e, peggio, un « imitatore ». « Ne vede lei, ora, di questi direttori? ^», mi permisi di osser- vare. La Ristori meditò alquanto, poi : « Ah, potenzialmente, per- ché no? qualcuno sì... Ma, non se ne fa nulla: anche perché... per- chè i giovani ora... ^ » E la Ristori ricominciò a cercare nei cassetti 8 negli armadi. Poi s'arrestò: e continuando con «perché», ebbe pa- role roventi per quei giovani, nati all'arte, che scambiano la indisci plina con l'audacia e la libertà dell'ingegno che sente la sua forza.

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E la coltura? Deve un attore non sfogliare ma studiare qualche pagina di libro oppure no? L'arte dell'interpretazione, per quanto in- gegno strabocchevole si sia sortito da natura, deve abbandonarsi alla improvvisazione, o acquistare nella coltura la coscienza? Coltura della .-pedale arte, e coltura generale. Io raccontavo alla Ristori come tutte quelle volte nelle quali cercavo di dimostrare agli attori la urgenza di questa coltura speciale e generale; e accennavo anche ad esempi di attori che non avendola acquistata in te^mpo cercavano raggranel- larne, certo con dubbio risultato, il più che ne potessero; tutte quelle volte io raccogliessi, incredulità sarebbe niente, ma vituperi addirit- tura. Le narrai che in una di quelle volte si abbaiò sguaiatamente e beotamente contro di me per il mio consiglio, quasi con la parola. « coltura », io intendessi leggere la « parte », scrivere lettere, e le re- gole prime dell'aritmetica. La Ristori lasciò le carte, e messi gli occhiali, mi fece cenno di avvicinarmi. Si accostò alla sua libreria. «' Tanto credo a quella coltura che voi dite, la speciale e la gene- rale, come la chiamate, che conservo, vedete, ancora e con quale re- ligione, e voglio dirlo, con quale orgoglio, i volumi sui quali da gio- vinetta ho cercato la coltura. Quante notti vegliate su quelle carte ora così gialle! » E la Ristori dopo un istante, gli ocehi le luccicavano, continuava : « Già, si dice ora : Sei nato, va, e recita. Si dimen- tica di aggiungere: «e recita bene». E per questo «recitare bene», ossia per lo studio di un'interpretazione e per la esecuzione poi di questa interpretazione, solo i dissennati possono disconoscere di quale aiuto sia appunto la coltura! » Ella ricordava che se non avesse avuto, fin dagli anni primi, la smania della coltura, "la fede nella coltura, e la consuetudine del libro necessario non avrebbe potuto procurarsi nella sua vita dell'arte soddisfazioni e vittòrie, come quelle, tra le altre, di recitare in francese su scene francesi, di reci- tare in inglese su scene inglesi. « Invecchiavo, esclamò : ma mi sorrideva di recitare anche in tedesco su scene tedesche! » Ed io ricordo ai giovani, che Adelaide Ristori, un'attrice, ha portato contri- buto prezioso alla « società », fiorente ancora, « per l'istruzione della donna ». E vorrei anche ricordare di essermi trovato qualche volta a casi dolorosi: artisti eccellenti dire cose, cose... che anche un re- lativo e blando amore della coltura avrebbe loro risparmiate!

La Ristori credeva anche che l'attore dovesse meditare, saper me- ditare, con sana critica, su quanto la discussione della critica dicesse sulle sue interpretazioni. « Certo, ella soggiungeva questa discussione non va giudicata con criteri di palcoscenico... »; e spie- gava che i criteri del palcoscenico spingono l'attore alla cecità di pre- tendere unicamente la lode, e sperticata; e alla vergogna di preten- dere per gli altri attori la lode risecata. Ella sorridendo continuava con una illustrazione di simpatica schiettezza. E cioè : « Si sa, di- ceva : al cospetto della gente andare a confessare : sissignori, tutti gli errori che la critica mi rileva, mentre gli spettatori mi acclamano, io li commetto e la critica ha ragione e gli spettatori han torto : non sa- rebbe compiutamente umano; ma lontano dalla folla, nell'intimo della coscienza, l'attore deve saper valutare quella discussione, e, piti ancora, saper determinare dove quella discussione affermi giusto, per correggersi, e dove no, per respingere! » Alla validità di questa , « sana critica », necessaria, per la fortuna dell'attore, e le vittorie, la Ristori era persuasa, come me, che contribuisse assai fecondamente

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appunto la sprezzatissima coltura. A questo proposito, le dissi una volta, cho se per un caso impossibile mi trovassi alla direzione di una compagnia drammatica, avrei voluto... Ecco: avrei voluto, a ogni prima rappresentazione di quadro scenico, nuovo o notevole, e ad ogni interpretazione, per qualche riguardo, d'importanza, racco- gliere le discussioni dei critici, tutte; e per concorrere alla formazione di quella meditazione di sana critica negli attori, avrei radunati i co- mici in palcoscenico, avrei dato lettura dei commenti dei critici, poi avrei aperta e guidata la discussione per determinare quanto vi fosse da accogliere e quanto no. Infervorato cercavo dimostrare il bene- fìcio sommo che sarebbe, secondo me, derivato all'attore, in ispecie, all'arte, in genere, da questo metodo che addirittura mi pareva chi sa che... Adelaide Ristori mi ascoltava, mi ascoltava incoraggiandomi con cortesi cenni del capo, a dire, a dire... Poi esaurita la dimostra- zione di quella mia convinzione, esclamò spontanea giungendo le mani : « Dio mio! Come siete ingenuo! Eppure siete pratico del palcoscenico di prosa!... » Rimasi male. Avevo chiacchierato con un'enfasi!... La Ristori se ne avvide: e « Dite cose molto giuste, certo, soggiunse affettuosamente ; ma... eh, per il fervore che vi anima io vi auguro di poter mettere in pratica un giorno quel che ora mi accennate... Mettere in pratica... Ed allora... » Ahi, si die il caso impossibile. Vennero i tempi della « Compagnia Stabile » al «Teatro Argentina». Tentai...; e come mi risuonò all'orecchio il «siete ingenuo » di Adelaide Ristori!

Ai giovani, particolarmente ai giovani che sono promesse vere, che hanno il diritto dell'ambizione, che mostrano ai primi passi di poter diventare i conquistatori del domani, la Ristori augurava un direttore che fosse come suo padre; il quale quando gli spettatori, giovinetta, l'acclamavano, e i critici inneggiavano a lei, le metteva sempre il dubbio nel cuore che quelli applausi che quelli inni pro- rompessero più per la bellezza di lei che per le espressioni prime del valore di lei. E augurava anche la saviezza che ella seppe trovare nella sua volontà: il dubbio la spinse allo studio, per il quale acqui- stare la certezza del proprio destino. E la Ristori osservava che spe- cialmente nei riguardi di questi giovani ai quali si può predire la vit- toria di quando che sia, ora si sia di troppo facile accontentatura : e non sanno gli spettatori e dimentica la critica il danno che deriva alle giovinezze, e quindi all'arte, dall'eccesso dell'applauso, dall'ec- cesso della lode: proprio pericolo di morte. Da questo malanno segue poi un altro : l'eccesso dell'applauso, l'eccesso della lode, tur- bano le menti, fanno perdere la testa: e rendono smisurata la va- nità del comico : quella vanità che, come i veleni, in dosi studiate può riuscire anche salutare, ma che abbandonata alla sua frenesia, men- tre rende grottesco l'attore, è la rovina degli ingegni migliori e più largamente promettenti. Dilagata la vanità, addio. Si hanno i casi delle glorie improvvisate, che poi traballano, e infine precipitano dai piedestalli; e si ha lo spettacolo di miseria, di miseria e che fa pena, di giovinezze che non sanno discernere quale elemento ciascuna di esse dovrebbe costituire in una compagine di attori. Dimenticando che vi ha chi nacque al passo e chi nacque alla fuga, non sanno pie- garsi a rappresentare, secondo l'ingegno sortito, e ingegno prometti- tore, e ingegno di ordine superiore, sia, a rappresentare l'ufficio che debbono nella compagine occorrente alla precisa animazione del qua-

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dro scenico : e così risultano, quando risultano, singoli valori : forse utili alla personale fortuna, ma al quadro scenico nei suoi mag-giori diritti no, all'arte ancora peggio. « Che parti vi sentireste di affron- tare? — » chiedeva la Ristori a una giovinetta tremant-e dinnanzi a lei e che le domandava consigli ed aiuto, mentre la Ristori già aveva compreso trattarsi di una creatura così così per l'art© : « La prima at- trice — » rispose senza più tremare la disgraziata. Chiedete a un gio- vinotto, nelle medesime condizioni, e risponderà : Il primo attore. Ma il male è che non solo i così così o i terra terra per l'arte ragionano in tal modo; ragionano o sragionano in siffatta maniera anche giovani nati, e forti, all'arte: dimenticando come l'umanità non si componga di soli primi attori e di sole prime attrici, e al quadro scenico che la rispecchia per i suoi fini supremi occorrono le creature diverse : diciamo, per intenderci : di ruolo diverso! Nei ruoli diversi si può ugualmente trovare la fortuna, la gloria; lo insegnano i vecchi nei ricordi solenni; e nossignori.

Tutti ricordano l'aneddoto della scenata sul palcoscenico di un teatro di Venezia tra la Ristori e il commissario di polizia austriaco. Mi permisi di chiederne il racconto alla Ristori un giorno. S'in- fiammò a un tratto: pareva come se rivivesse in quel momento, e provasse quello sdegno e quella nausea dei tanti anni fa. Ella aveva scacciato quel commissario dal suo camerino, perchè le veniva a ri- cordare di togliere da una tragedia, Giuditta mi pare, qualche verso che si prestava ad allusioni a libertà di patria serva, e che la Ristori meditatamente coloriva con particolare intensità. Lo aveva scacciato: ma quel commissario era un italiano. Ho ancora la visione del volto della Ristori, e il gesto, e l'accento col quale mi gridava: « Capite : un rinnegato! » E un altro giorno, ci trovammo a parlare di Gu- stavo Modena, la gloria purissima della scena e della patria. La ve- neranda signora pronunziò quel nome, ed ebbe poi un momento di raccoglimento addirittura religioso, quasi si inchinò reverente. Quei capelli bianchi,... quella emozione,... quel silenzio che seguì. So- lenne. Con quale orgoglio, ella che aveva compiuto quel che aveva compiuto nei giorni memorandi, con quale orgoglio ricordava gli at- tori, pagine memorabili e esemplari del palcoscenico di prosa ita- liano, i quali avevano dato il loro contributo di destino e di sangue al Risorgimento! Mi disse una volta : « A Santa Cecilia, nella vo- stra scuola, li rammentate ai vostri alunni? » E poiché le dicevo che non solo ai miei alunni rammentavo quella storia, titolo nobi- liare d'una classe, ma agli attori rammentavo, sempre, per i fini d'arte e per i fini sociali, la individualità maravigliosa di artista e di cittadino immortale nel nome di Gustavo Modena, ella mi strinse le mani soggiungendo con voce velata di emozione : « Bene. E insi- stete. Così quell'esempio... », e si arrestò. Si arrestò ma io la com- presi, e risposi: « Proprio: così quell'esempio... » Perchè Ade- laide Ristori parlava con compiacimento delle vicende quotidiajie della scena di prosa, e spesso deplorava che la giornata degli attori si svolgesse, unicamente, chiusa e racchiusa nei confini e nelle penom- bre del palcoscenico : lontana dalla vita di tutti e dalla vita della pa- tria. « Non sanno ella diceva che questo errore si riflette poi nelle espressioni dell'arte loro, e ancora, e peggio, nella sorte della loro esistenza di ogni giorno ». Così, spirito largo e cuore fraterno, ella seguiva anche con interesse e con simpatia, le mosse prime, che

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parvero ribellioni da patibolo ai diversi negrieri della scena e intorno la scena, del movimento per il miglioramento materiale e morale della famiglia comica. Movimento iniziale della bella battaglia del gruppo di generosi che gridarono, nelle quinte, tra lo sbalordi- mento dei compagni: « doveri e diritti »; cercando di far penetrare la grande luce feconda nel buio desolato : buio di ambiente e buio di coscienze. Io le raccontavo le fasi del movimento : ella, attenta, ascol- tava i miei commenti e le illustrazioni mie. E un giorno nel quale più diffusamente gliene dicevo, ella a un punto, interrompendomi, esclamò : « Ma, per carità, spieghino bene, spieghino chiaro, che ogni conquista di un diritto porta l'adempimento d'un dovere. Altri- menti... — »

Ricordando la Ristori...

Edoardo Boutet.

Biblioteca della Nuova ''Antologia,,

1. *Cenere, di Grazia Deledda. L. 3.

2. Gli Ammonitori, di G. Cena. L. 2.50.

3. i Nipoti della Marchesa Laura, di M. L. Danieli -Camozzi e G. Manfro- Cadolini. L. 3.

4. Storia di Due Anime, di Matilde

Serao. L. 3.50. 6. Il fu Mattia Pascal, di Luigi Piran- dello. L. 3.

6. L'ultima Dea, di 0. Del Balzo. L. 3.

7. Nostalgie, di G. Deledda. L. 3.50.

8. L'Illustrissimo, di A. Cantoni. L. 2.50.

9. Ore Calle, Sonetti romaneschi, di Au- gusto Sindi (3Ì. L. 2.50.

•Questi volumi sono esauriti.

10. Dopo il perdono, di M. Serao. L. 4

11. La via del male, di Grazia Deledda. L. 3.50.

12. I cantanti celebri, di Gino Monaldi. L. 3.

13. Homo Versi, di G. Cena. L. 2.50. .

14. L'ombra del passato, di Grazia De ledda. L. 3.50.

15. L'Edera, di Grazia Deledda L. 3.50.

16. La Camminante, di G. Ferri. L. 3.50.

17. *Nuove Liriche, di V. Aganoor.L. 3.

18. Il Nonno, di Grazia Deledda. L. B.

19. Evviva la Vital di Matilde Serao. L. 4.

TRA LIBRI E RIVISTE

Il Club Alpino Italiano e l'alpinismo popolare Bodoni a Roma Napoleone I e l'areo- nautica militare Heinrich Gerhardt II fatale amore di Carlotta Brontè Un animale nuovo : l'okapi L'aflfollamento dei nostri centri urbani Coltiviamo l'uva da tavola ! Canti scolastici Una Società d'incoraggiamento all'industria Libri di cultura.

II Club Alpino Italiano e l'alpinismo popolare.

Il crescente favore verso gli sports, l'estendersi delle società dedicate agli esercizi fisici e alcune fortunate ini- ziative recenti del Touring e del Qub Alpino hanno fatto rivolgere l'atten- zione generale anche all' alpinismo. Questa che è la più nobile forma dello sport non era molto praticata sinora dagli italiani, quantunque il nostro paese abbia in fronte la superba co- rona delle Alpi e sia tutto percorso da alte montagne fino nelle sue isole.

Nondimeno l'alpinismo italiano esi- ste da un pezzo, ha i suoi annali e conta vittorie e glorie. Le recenti feste del cinquantesimo anniversario dalla fondazione della Società hanno dato occasione di tracciare un quadro del- l'opera compiuta con tenacia e perse- veranza dal Club Alpino Italiano. In altra parte della Rivista riportiamo il discorso che l'attuale Presidente del- l'istituzione tenne inaugurando le feste e il Congresso degli alpinisti a To- rino. Un magnifico volume, pubblicato dal Consiglio direttivo, rimane a do- cumentare l'avvenimento : nel citato scritto del senatore prof. Camerano abbiamo riprodotto parecchi saggi delle incisioni che lo decorano. Infine è stata coniata una bella medaglia commemo- rativa, modellata da Edoardo Rubino,

che qui riproduciamo in grandezza doppia del naturale.

Questo volume merita di esser letto. Scorrendo gli scritti del Lampugnani, di N. Vigna, del dott. F. Santi, del Parona, del Bobba, del Ratti e di "W. Làng, il solerte redattore delle pub- blicazioni del C. A. I., il lettore rico- struisce meglio che non abbiano po- tuto fare gli scrittori stessi, i quali spesso devono parlare anche dell'ope* ra propria, la somma di lavoro e di studio vasto e variatissirao che fu ac- cumulato da pochi disinteressati a- manti della montagna in questi cin- quant'anni. I pionieri dovettero anzi- tutto formarsi una tecnica e un'espe- rienza, percorrendo e scoprendo le no- stre montagne ad una ad una. Allo scopo di facilitare poi questo lavoro e per attirarvi altri amatori, tracciarono sentieri, fondarono rifugi, stazioni al- pine, alberghetti. E gli studi si svol- sero intorno alla geologia, alla topo- grafia, alla toponomastica, alla llora e alla fauna, alla etnografia delle Alpi e dell' Apennino. La Rivista mt'.nsile del C. A. I. e il Bollettino formano, si può dire, una vera biblioteca di studi alpini, di cui si sta formando un in- dice bibliografico che li renderà facil- mente accessibili e utilizzabili.

Le iniziative del C. A. I. sono nu- merose e alcune furono anche assai dispendiose; leggendo in fondo al vo-

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TRA LIBRI E RIVISTE

lume l'elenco dei rifugi (122), dei sen- tieri alpini, dei segnavie e di parecchi lavori particolari (come osservatorii e stazioni alpine) compiuti o sussidiati dalla Sede centrale o dalle Sezioni, non si può non restare ammirati. Ol- tre alle pubblicazioni periodiche si stamparono pure numerose monogra- fie, itinerari, carte e guide. Nel 1912, la Sede centrale spese oltre 52 mila lire e sorpassa i tre milioni la somma spesa dal C. A. I. dalla sua fondazione sino ad oggi.

mico, l'alpinismo senza guide. V'è chi parteggia per l'uno o per l'altro e nella Rivista del C. A. 1. furono numerose le dichiarazioni prò o contro 1' una e l'altra corrente. A noi pare che non vi sia ragione di contrasto. Le due forme sono ugualmente legittime. V hanno soddisfazioni estetiche, v'hanno ricer- che scientifiche le quali richiedono la solitudine ed escludono ogni aduna- mento di persone, mentre è pur giu- sto che delle intere carovane si for- mino allo scopo di permettere che con

Medaglia commemorativa del Cinquantenario del C. A. I. (Grandezza doppia del naturale).

Un'iniziativa simpatica del C. A. I. fu r organizzazione delle Guide. Le prime Guide delle nostre Alpi fu- rono formate ed educate dagli stessi alpinisti. Ora esse sono ricercate in tutto il mondo e hanno preso parte alle più difficili e gloriose imprese alpinistiche. Neil' 87 si è fondata una Cassa di soccorso per le Guide. Guide e portatori inscritti al Consor- zio delle Alpi Occidentali vengono as- sicurati presso la Cassa Nazionale con- tro gì' infortuni e per un' indennità in caso di morte sul lavoro : nel 1910 fu fondata una Cassa pensioni per la vec- chiaia.

Mentre l'alpinismo diventa sempre più democratico, nasce e si sviluppa l'alpinismo aristocratico detto accade-

economia di tempo e di danaro un buon numero di persone possa godere dell'esercizio salubre, dell'aria pura e delle bellezze della montagna. Queste ben difficilmente s' incontreranno in quelle e non le turberanno !

Due società raggruppano gli alpini- sti senza guide, il C. A. A. I. (Club Alpi- no Accademico Italiano)e il G. L. A. S. G. (Gruppo Lombardo Alpinisti senza Guide), che contano, oltre a parecchie « prime ascensioni », alcune utili ini- ziative, come un Rifugio, delle «Guide », delle monografie, contribuendo anch'es- sa alla « Guida dei Monti d'Italia » che sarà un vero monumento dedicato dal Club Alpino Italiano al nostro paese.

Intanto è da notare che l' interesse per l'alpinismo in Italia decresce dal nord al sud. Nei primi anni dopo la fondazione del Club Alpino, le Sezioni

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furono subito assai numerose in tutta la penisola, ma molte si sciolsero ne- gli anni successivi. Oggi sono 37, sparse in grandi come in piccoli centri, gran parte però nell'Alta Italia. Nella cen- trale Bologna, Firenze, Roma, nella meridionale Napoli soltanto, nelle isole Palermo e Catania. Le Marche, l'Um- bria, lo stesso Abruzzo, che possiede le più alte cime dell'Apennino, non hanno una sezione del C. A. I.

Forse le grandi gite promosse dalla Sezione di Roma quest'anno al Gran Sasso e al Terminillo, gite che meri- tano di esser lodate e incoraggiate per- chè tendono a portare lontano e in alto almeno per qualche giorno la se- dentaria popolazione romana, riusci- ranno a dare maggior vita alle Sezioni che già esistono e a farne costituir delle nuove ? sl da sperarsi.

L'ing. Adolfo Hess, che ha compiuto una specie d'inchiesta fra i più pro- vetti e illustri alpinisti italiani e stra- nieri su l'alpinismo popolare {Rivista del C. A. /., febbraio I9r3) propone che si faccia in Italia quello che già si è compiuto in Francia. « Si sono create ad uso delle persone di condizione in- feriore dei legami sociali, dèi Clubs a quote minime, a due o cinque franchi all'anno, che permettessero loro di tro- varsi fra eguali, di combinare fra loro gite collettive, in cui erano messi a disposizione loro i resultati acquisiti dai Clubs creatori ». A Grenoble vi sono due Clubs superiori, la sezione locale del Club Alpin Fran^ais e la S. Turisti del Delfinato ; dopo queste vi sono quattro società democratiche con quote ridotte: la « Soc. Alpinistes Dauphi- nois n per gl'impiegati di commercio, a cinque franchi all'anno; la « Soc. Grim peurs des Alpes » per i piccoli com- mercianti, colla stessa quota ; il « Club Ascensionniste » e il « Club Monta- gnards » per gli operai, a due franchi al- l'anno. I soci delle società madri si tengono in contatto con queste società democratiche, fanno loro conferenze, li guidano, ecc. A Marsiglia v'è una So- cietà degli Escursionisti Marsigliesi che conta più di 6.000 soci, a quota annua

di I franco. Essa ha un proprio locale, una biblioteca, tiene conferenze e pub- blica un piccolo annuario; e da lunghi anni il presidente della Sezione Pro- venzale del C. A. I. è pure presidente di questa Società.

La proposta ci sembra opportuna. La bassa quota è il gran segreto : non si deve a ciò la prosperità del Touring? Siamo certi che nell' Italia centrale e meridionale tali società potrebbero at- tecchire largamente e contribuirebbero così all'alto scopo patriottico di far conoscere l'Italia agli italiani !

Bodoni a Roma.

Torino, Saluzzo, Parma hanno fe- steggiato il centenario di Giambattista Bodoni. Iniziatori della festa a Torino erano la fiorente Scuola tipografica di quella città e la rivista // Risorgimento grafico di Milano, i^l Castello medie- vale del Valentino il sindaco di To- rino, l'on. Vicini e Piero Barbera par- larono del grande tipografo; vi assi- stevano parecchi grandi editori e il dottor Volkmann, presidente del Co- mitato per l'Esposizione internazio- nale dell'industria del libro, che si terrà a Lipsia l'anno prossimo.

Saluzzo, patria del Bodoni, possiede un monumento all'insigne tipografo, opera esimia dello scultore Gabriele Ambrosio. Fu nel 1872 che un Comi- tato costituito da Giuseppe Pomba, tipografo-editore altamente beneme- rito della coltura nazionale, incuorato dal biografo del Bodoni l'abate Jacopo Bernardi, riuscì a innalzare quella sta- tua, non lungi dalla casa dove era nato il Bodoni, accanto al bellissimo San Giovanni, monumento d'arte go- tica. E su quella piazza il prof. Gia- como Rinaudo disegnò in un dotto e ispirato discorso la figura e l'opera del grande tipografo.

Roma nulla fece per onorare il Bo- doni in questa circostanza. Eppure fu qui che il giovine saluzzese, dopo es- sere stato apprendista a Torino, di- venne esperto nella sua arte. Egli entrò come tipografo compositore alla

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tipografia Poliglotta, ove restò circa un decennio, ottenendo anche di es- sere ammesso alla Sapienza ad impa- rare le lingue orientali. La Poliglotta, iniziata nel 1626, aveva caratteri di ben ventitré lingue diverse, oltre la dotazione di quelli provenienti dalla Vaticana, eretta già da Sisto V, com- posta di caratteri latini, greci, arabici, caldaici, ecc.

Troviamo in un interessante arti- colo di Carlo Stelluti nel Giornale d'Italia alcuni cenni sulle vicende di questa celebre tipografia, che il Bo- doni riconoscente aiutò in gravi fran- genti. Ciò avveniva nel tempo in cui i Francesi agivano riguardo allp no- stre opere d'arte come già i Romani antichi con quelle dei Greci vinti.

« Nell'aprile del 1779 il ministro del Direttorio Cacault ottenne dal Vati- cano il permesso di prelevare un cam- pione di caratteri orientali della Poli- glotta. Però i commissari francesi del Direttorio, oltre il permesso avuto dal Vaticano di prelevare pochi campioni, esibirono il seguente documento per- venuto loro da Parigi:

Caractères de l'Impriìnerie de Propa- gande. — Le Conservateur des Manuscrits Orientaux de la Bibliothèque Nationale et le directeur de l'Imprimerie de la Képubli- que, ont remis au Directoire exécutif des notes tendantes à demandar que les Com- missaires du Gouvernement chargés de choi- sir en Italie les monuments des arts, doni il importe d'eitrichir la France, prissent les mesures nécessaires pour procurer à l'Imprimerie de la République une frappe des matrices de tous les caractères étran- gers qui composent l'Imprimerie de la Pro- pagande à Rome. Leur solicitude pour un objet aussi important les détermine à re- noitveler cette demanda dont l'efifet est de compléter le dépòt des caractères de l'Im- primerle Nationale de la République. Paris, 12 Germinai, an cinq.

DUBOYRAVERNE.

« E così col pretesto di rilevare qual- che campione di matrici e di punzoni, partirono per Parigi in questa prima spedizione 39 casse e la giustificazione della preda risulta dalla seguente ri- cevuta :

J'ai re^u du citoyen F... les 39 caisses

contenant les poinijons destinés k étre en-

voyés à Paris, par arrèté de la Commission,

en nombre et qualités ci-dessus mentionnés.

Rome, 17 Floréal, an 6.

WicAR, Commissaire.

4 Seguirono indi altri prelevamenti di materiale tipografico che fu fatto incassare e trasportare a Ripagrande diretto per ordine del Direttorio per le stamperie da impiantare in Egitto ed a Corfij. Stavolta il Direttorio agì senza sotterfugi, perchè ordinò di pren- dere possesso, non più dei campioni di matrici, ma dei. materiali completi per l'impianto di più tipografie.

« E come il Direttorio fosse prodigo con le cose altrui nel compensare chi coadiuvò i suoi rappresentanti in Roma in questa ladresca impresa risulta dal seguente documento giustificativo:

Liberté, égalité.

A Rome, le 18 Floréal, an 6 de la Répu- blique fran^aise une et indivisible.

Au nom de la République fran^aise;

L'agent en chef des contributions et finan- ces à Rome;

Les citoyens Pavin et Barbiellini agents des finances remettront au citoyen Antonio Fulgoni en vertu de l'arrété des commis- saires du Directoire exécutif, eff date du 13 Floréal "du courant, parmi les effets de la Propagande, une presse à son choix et les caractères latins d'imprimerie, dont il n'a pas encore été dispose et dont le poids s'é- lève environ à cinq mille livres poids de Rome ; lesquels objets lui sont cédés, au terme du dit arrété, en tonte propriété.

« Con l'avvento di Napoleone impe- ratore sembrò che le cose si quietas- sero e la stamperia di Propaganda incominciò a ricostituirsi con rinno- vata lena. Nel 1802 fu nominato so- praintendente di essa il chiaro abate Cancellieri. Ma il concentrarsi di un nuovo flagello non più repubblicano, ma imperialista, determinò la chiusura prudente della tipografia Poliglotta. Questa chiusura però a nulla giovò, perchè l'anno appresso fu riaperta « manu militari » per prendere pos- sesso di tutte le matrici dei caratteri esotici, le quali furono inviate a Pa- rigi, e, siccome l'abate Cancellieri ten-

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tava mezzi dilatori per la consegna, un ordine della Consulta Imperiale tra- smesso al Prefetto francese di Roma dichiarava soppressa la tipografia di Propaganda e comminava che senza ulteriore indugio tutte le matrici dei caratteri esotici fossero inviate a Pa- rigi.

u In tale disgraziata contingenza il Bodoni non fu insensibile e volle di- mostrare tutta la sua gratitudine a quell'istituto che gli aveva dischiuso il cammino per raggiungere la cele- brità e l'agiatezza, facendo dono alla Poliglotta di quattro differenti carat- teri di testo da lui stesso fusi, il cui prezzo fu valutato a circa duemila zecchini ».

Napoleone I e l'areonautica militare.

Napoleone I, nel calore vivo della animosità contro gli Inglesi, pensò an- che alla possibilità di valersi delle vie dell'aria e calare d'improvviso sul popolo inglese con molti uomini e con cannoni !

Nel tomo XVIII della sua Corri- spondenza (pag. 22 n. 14,422) si legge:

« Le ministre de la guerre soumet à l'Empereur le projet d'un sieur L'Ho raand ex -chef de bataillon d'aérostiers, qui propose d'opérer une descente en Angleterre au moyen de cent Mont- golfières de cent mètres de diamètre dont la nacelle pourrait contenir mille hommes avec de vivres pour 15 jours; deux pièces de canons avec caissons, 25 cheveaux^ et le bois nécessaire pour alimenter les Montgolfières ».

Napoleone, sebbene avesse scarsa fi- ducia nelle molte invenzioni e novità scientifiche che gli venivano spesso sottoposte e che poi non rispondevano alle speranze concepite, non indugiò disdegnò di far studiare la nuo- vissima proposta. Già nell'esercito francese aveva istituito un battaglione di ingegneri incaricati di applicare la areonautica all'arte militare. Ma poca utilità avevano data, ed erano caduti in disuso.

Davanti alla proposta che gli avreb- be dato aiuto insperato nella guerra contro gli Inglesi, non decise di ri- gettarla: ma pensò di farla subito esa- minare.

Ecco infatti la Décision che segue nella Corrispondenza la proposta del ministro della Guerra:

« Renvoyé à Monsieur Monge pour savoir si cela vaut la peine de faire une expérience en grand ».

L'illustre scienziato che fu amico e protetto del Condorcet e ne seguì le idee politiche e nel 1792, senza sua soddisfazione, fu chiamato al Ministero della Marina, mentre avrebbe preferito vivere nel silenzio del suo gabinetto era bene conosciuto e stimato da Napo- leone che lo aveva voluto con nella spedizione in Egitto e più tardi lo fece conte di Péluse, in memoriam. Il Monge studiò ma non credette pratica la proposta e così cadde.

Ma la scienza, con l'areoplano, un secolo dopo, doveva render possibile ciò che allora pareva un sogno e che il genio del Monti aveva divinato can- tando l'invenzione del Montgolfier.

Per noi italiani gioverà anche ricor- dare che l'illustre scienziato, morto a Parigi nel 1818 quando imperavano i Borboni che l'esclusero dall' Istituto per vendetta politica, fu dal Direttorio francese, nel 1796, mandato in Italia per presiedere alla scelta dei quadri e monumenti che Bonaparte, generale in capo, aveva deciso di trasportare in Francia. E fu il Monge che portò a Parigi al Direttorio, insieme al gene- rale Berthier, non solo i quadri-ita- liani, ma anche il trattato di Campo- formio! (L. R.)

Heinrich Gerhardt.

Uno dei più noti e più stimati artisti stranieri che ispirarono la loro arte alle fonti artistiche del suolo italiano, il prof. H. Gerhardt, ha compiuto in que- sti giorni novant'anni ed il suo ge- netliaco fu festeggiato dalla colonia tedesca e da moltissimi amici italiani e stranieri dell'illustre ospite nostro

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nella Serpentara, quella zolla boscosa sacra agli artisti tedeschi che si eleva sopra Olevano e che fu acquistata anni fa dall'Imperatore Guglielmo IL Ora è un Secolo, che fra i piani verdeggianti e seminati di fiori e le rupi calcaree della Serpentara rinacque l'arte di pae-

segni un modesto villino, quale guar- dia fedele a quel gentile feudo impe- riale.Il quale è destinato ad ospitare i giovani artisti, che annualmente ven- gono in pellegrinaggio a Roma col premio dell'Accademia di Belle Arti di Berlino della quale il prof.Gerhardt è da

Heinrich Gerhardt Da un ritratto di Th. P. Kónig.

saggio tedesca ed i nomi dei maestri di quell'arte rinata, quali J. A. Koch, Ludwig Richter, Friedrich Preller, Reinhold, Fries, Franz Dreber, sono indissolubilmente legati a quell' idillio della classica Sabina, dove il prof.Ger- hardt, amico ancora dei più giovani di quella schiera e di quanti altri pittori, scultori, letterati ecc. soggiornarono a Roma dal 1844 in poi, si fece fabbri- care negli ultimi tempi su propri di-

lunghissimi anni rappresentante. Ger- hardt appartiene pure quale socio onorario all'Accademia di S. Luca.

Discepolo di Werner Henschel, Ger- hardt arrivò nel Natale dell'anno 1844 a Roma in compagnia del suo mae- stro e condusse col suo amico Dre- ber, uno dei più fini e profondi pae- sisti tedeschi di quell'epoca, una vita spesso stentata, ma sempre piena di brio ed entusiasmo nello studio della

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passeggiata di Ripetta che ancora oggi, dopo quasi settant'anni, conserva.

Da questo studio sono usciti nume- rosi lavori, dispersi oggi in collezioni private e pubbliche, mentre una parte della produzione artistica del Gerhardt, imbevuta di bellezza ed un po' di clas- sicismo, venne poi riunita in una ap- posita Galleria nella nativa Kassel, e che porta il nome del maestro.

La festa del 90** genetliaco diede solenne prova delle infinite simpatie che l'artista insigne seppe raccogliere fra italiani e tedeschi, pei quali ulti- mi Gerhardt acquistò grandissimi me- riti, che gh assicureranno l'imperitura gratitudine specialmente della colonia tedesca a Roma. Davanti a una folla di amici e connazionali il dott. Fried- rich Noack, lo storiografo dei tedeschi in Italia.disegnò con alate e commoventi parole un profilo del festeggiato mae- stro. L'imperatore Guglielmo gli ave- va mandato per mezzo del Presidente dell'Accademia di Berlino, prof Man- zel, appositamente inviato a Olevano, la Corona di Prussia di li classe e una medaglia d'argento col ritratto dell'Imperatore. L'Accademia oflFrì un indirizzo artistico, centinaia di lettere e telegrammi giunsero da tutte le parti. Noto gli auguri del Ministro del- la Pubblica Istruzione, Credaro, della Accademia di San Luca, dell'Amba- sciatore di Germania, del Principe e della Principessa di Bulow, vecchi a- mici di Gerhardt, del conte Podewils, già Presidente del Consiglio bavarese, di moltissimi altri diplomatici, uomini politici, artisti italiani, tedeschi ecc. e di molte autorità, associazioni, ecc. Verso sera arrivò alla Serpentara il Sindaco di Olevano con membri della Giunta comunale per presentare all' illustre ospite della gentile cittadina il Decreto di nomina a cittadino onorario. (St.)

Il fatale amore di Carlotta Bronté.

Sono apparse recentemente nel Ti- mes quattro lettere inedite scritte da Carlotta Brontè, la celebre romanziera inglese, al suo professoje di francese

Héger, che essa, come è noto, aveva imparato a conoscere in un pensionato di Bruxelles. Questa pubblicazione ha suscitato controversie vivissime. Tutti sanno di qual culto gli inglesi circon- dino la memoria dei loro grandi scrit- tori, e con quale curiosità ne scrutino la vita fin nei più piccoli particolari. Al British Museum una ricca sezione è consacrata ai manoscritti dei poeti, dei romanzieri, dei critici, e dei mu- sici. E appunto a questa sezione che Paolo Héger, professore all'Università di Bruxelles, ha donato le quattro let-

Carlotta Brontè.

tere in parola, indirizzate dalla Brontfi al padre, Costantino Héger, con la espressa condizione che fossero pub- blicate in un grande giornale inglese.

Molti si meraviglieranno, scrive VEx- pansion Belge, di veder date in pasto alla curiosità del pubblico cose tanto intime e dehcate; ma è da sapersi « che c'è, in Inghilterra, da tempo, una que- stione Brontè; che si è scritto tanto sul « segreto » della romanziera, sulla « tra- gedia di Bruxelles », sul contegno del professore, che il figlio di questo ha creduto opportuno intervenire con la pubblicazione delle suddette lettere ».

Ma prima di accennare al loro con- tenuto, non è inopportuno rievocare alcuni tratti biografici dell'insigne scrit- trice. Rimandiamo intanto i lettori ad

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altri scritti che sulla nostra rivista ap- parvero sulle sorelle Brontè (Carlo Segrè: Carlotta Bronte, lóNov. igoo). Ci sono poche esistenze così trava- gliate come quella di Carlotta Brontè. Era figlia di Patrick. Prunty, d'Ahabeg (County Down), che cambiò il nome in quello di Brontè, e che, essendo pa- store a Hartshead, sposò Maria, figlia di Tommaso Bramwell, di Penzance. La tendenza alle lettere era una tra- dizione di famiglia. Il pastore Brontè pubblicò ad Halifax due volumi di versi: Cottage Poems (1811) e The Ru- ral Minstrel (1813). Egli fu nominato « perpetuai curate » aThornton, presso Bradford. E qui che il 21 aprile 1816 nacque Carlotta. Quattro anni dopo la famiglia si trasferì a Haworth, Fin da bambina, Carlotta si sentiva spinta a scrivere da un irresistibile impulso. Dall'aprile 1829 all'agosto deil'anno seguente, essa riempì 22 quaderni di 60 pagine l'uno, di racconti per bam- bini e di memorie. Nel 1831, fu mandata alla scuola a Rochead, presso Leeds. Morto poco dopo il padre, divenne pro- fessoressa in questa stessa scuola. A- veva 19 anni soltanto, e dall'insegna- mento sperava trarre i mezzi necessari per far compiere al fratello Bramwell studi di scultura. Nel 1839 rifiuta due proposte di matrimonio. Tutti gii scrit- tori « arrivati ai quali essa sottopone i suoi primi saggi letterari cercano di scoraggiarla. Perfino Wordsworth e Southey, poeti di Corte, le dicono bru scamente di cambiar mestiere. Pensa allora di fondare una scuola con la sorella Emilia, che anch'essa ha la- sciato un nome nelle lettere; ma prima vuol conoscere a fondo il francese e il tedesco e, a questo scopo, entra al pensionato delle signorine Héger in Bruxelles, dove c'erano un centinaio di alunni, e dove il francese era in- segnato da Costantino Héger, un fra- tello ammogliato delle direttrici del pensionato. È qui che si svolge la do- lorosa storia d'amore, la « tragedia » su la quale le lettere offerte al British Museum gettano finalmente una luce completa.

Carlotta Brontè, che aveva allora 23 anni, ardente e sensibilissima, s'in- namora di Héger. I suoi due celebri romanzi // professore e Villette da- tano da quest'epoca e s'inspirano a questo amore.

Ritornata in Inghilterra, essa fonda con le sorelle Emilia e Anna un pen- sionato, che non attecchisce. Poi tutte e tre si danno agli studi letterari. Nel 1846 pubblicano insieme e a loro spese un libro di poesie, sotto gli pseudonimi di Acton, Ellis e Currer Bell. Offrirono poi a vari editori dei romanzi che ven- nero rifiutati. // professore era uno di questi. Senza avvilirsi, Carlotta scrive Jane Eyre, che è rimasta la sua opera più celebre. Un amico riuscì finalmente a far pubblicare questo romanzo da Smith; fu un gran successo letterario, e la critica si occupò molto di que- sto scrittore misterioso che si firmava Currer Bell. Ma, ahimè, mentre la glo- ria dopo tanto tempo veniva, Carlotta Brontè si vedeva morire, l'uno dopo l'altro, di consunzione, il fratello e le due sorelle. Carlotta era rimasta sola con il padre vecchio e cieco. Nel 1854 sposò A. B. Nicholls, ma dieci mesi dopo moriva anche lei a soli 39 anni.

Può esservi esistenza più triste e più tormentata? Ma non abbiamo par- lato ancora del dolore che aggiun- se a questa vita infelice 1' amore che in silenzio, nel profondo dell'a- nima, essa nutrì per Costantino Hé- ger, il suo professore a Bruxelles. Un amore disgraziato, timido, rassegnato, che si palesava trepidamente, e che non poteva essere condiviso. L'Héger se ne avvide e in principio sor- rise. Ma « non è sua colpa, diceva re- centemente il T. P's Weekly, s'egli non ha riconosciuto in questa timida in- glesina il genio quasi devastatore che doveva sommuovere tutta l'Inghil- terra».

Senonchè molti hanno rappresentato il professore di Bruxelles come un essere freddo, insensibile, e quasi un Lovelace. È 'per dissipare questa leg-

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genda che Paolo Héger ha pubblicato nel Times le quattro lettere suddette. Sono scritte in francese. Ne riferiremo vari brani : gioveranno, se non altro, a farci comprendere meglio l'opera della Bronté, che rispecchia in grandissima parte questo suo infelice amore.

Il 24 luglio 1844 ^ssa scriveva dal- l' Inghilterra al suo professore : « Je me rappelle bien que c'est maintenant l'epoque des compositions, que ce sera bientòt celle des examens et puis des prix et pendant toutce temps, vous étes condamné à respirer l'at- mosphère desséchante des classes à vous user à expliquer, à Inter - roger, à parler tonte la journée et puis le soir vous avez toutes ces malheu- reuses compositions à lire, à corriger, presqu'à refaire. Ah Monsieur! je vous ai écrit une fois une lettre peu raisonnable, par ce que le chagrin me serrait le coeur, mais je ne le ferai plus je tàcherai de ne plus étre egoiste, et tout en regardant vous {sic) lettres comme un de plus grands bon- heurs que je connaisse, j'attendrai patiemment pour en recevoir jusqu'à ce qu'il vous plaira et vous convien- dra de m'en envoyer. En méme temps je puis bien vous écrire de temps en temps une petite lettre vous m'y avez autorisée. »

La seconda lettera è del 24 otto- bre 1844 : « Voilà six mois dice tra l'altro la Brontè que j'attends une lettre de Monsieur six mois d'at- tente, C-est bien long cela ! Pourtant je ne me plains pas etje serai riche- ment recompensée pour un peu de chagrin si vous voulez maintenant écrire une lettre et la donner à ce monsieur ou à sa soeur qui me la remettrait sans fante.

« Quelque courte que soit la lettre j'en serai satisfaite n'oubliez pas seulement de me dire comment vous vous portez, Monsieur, et comment ma- dame et les enfants se portent et les maìtresses et les élèves.

« Mon pére et ma soeur vous pré- sentent leurs respects l'infirmile de mon pére augmente peu à peu ce- pendant il n'est pas encore tout à fait aveugle ; mes sceurs se portent bien, mais mon pauvre frère est tou- jours malade.

« Adieu, Monsieur, je compte bien- tòt avoir de vos nouvelles cette idée me sourit, car le souvenir de vos bontés ne s'affacera jamais de ma m6 moire et tant que ce souvenir durerà le respect qu'il m'a inspiré durerà aussi ».

Ma la più dolorosa, la più commo- vente di tutte è certamente la lettera deir8 gennaio 1845 " M. Taylor est revenu, je lui ai demande s'il n'avait pas une lettre pour moi. « Non, rien. » « Patience » dis-je « sa soeur vien- dra bientòt. » Mademoiselle Taylor est revenue. « Je n'ai rien pour vous de la part de Monsieur Heger, » dit-elle, u ni lettre ni message ».

« Ayant bien compris ces mots, je me suis dit, ce que je dirais à un autre en pareille circonstance: « Il faut vous résigner et, surtout, ne pas vous affliger d'un malheur que vous n'avez pas mérité. » Je me suis efforcée à ne pas pleurer, à ne pas me plaindre.

« Mais quand on ne se plaint pas et qu'on veut se dominer en tyran, les facultés se révoltent, et on paie le calme extérieur par une lutte inté- rieure presque insupportable.

« Jour et nuit je ne trouve ni repos ni paix; si je dors, je fais des réves tourmentants je vous vois toujours sevère, toujours sombre et irrite contre moi.

« Pardonnez-moi dono, Monsieur, si je prends le parti de vous écrire en- core. Comment puis-je supporter la vie si je ne fais pas un effort pour en alléger les souffrances?

« Je sais que vous serez impatienté quand vous lirez cette lettre. Vous direz encore que je suis exaltée, que j'ai des pensées noires etc. Soit, Mon- sieur, je ne cherche pas à me justi- fier, je me soumets à toutes sortes de reproches; tout ce que je ne puis

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pas, que je ne veux pas me résigner à perdre entièrement l'amitié de mon maitre, j'aime mieux subir les plus grandes douleurs physiques que d'a- voir toujours le coeur lacere par des regrets cuisants. Si mon maitre me retire entièrement son amitié je serai tout à fait sans espoir; s'il en donne un peu, très peu, je serai contente, heureuse, j'aurai un motif pourvivre, pour travailler.

« Monsieur, les pauvres ii'ont pas be- soin de grand'chose pour vivre ils ne demandent que les miettes d u pain qui tombe de la table des riches mais si on les refuse les miettes de pain ils meurent de faim Moi non plus je n'ai pas besoin de beau- coup d'affection de la part de ceux que j'aime, je ne saurais que faire d'une amitié entière et complète je n'y suis pas habituée mais vous me témoigniez, autrefois, un peu d' intérét, quand j'étais votre élève à Bruxelles et je tiens à conserver ce peu d'intérèt,

j'y tiens comme je tiendrais à la vie. « Vous me direz peut-étre Je ne

vous porte plus le moindre intérét M."e Charlotte vous n'étes plus de ma maison je vous ai oubliée.

« Eh bien, Monsieur, dites-moi cela franchement ce sera pour moi un choc n'importe, ce sera toujours moins hideux que l'incertitude.

« Je ne veux pas relire cette lettre

je l'envoie comme je l'ai écrite. Pourtant, j'ai comme la conscience obscure qu'il y a des personnes froi- des et sensées qui diraient en la li- sant « elle déraisonne ». Pour tonte vengeance, je souhaite à ces personnes un seul jour des tourments

que j'ai subis depuis huit mois on verrait allors s'elles (ne) déraison-

neraient pas de méme.

« On soujBfre en silence tant qu'on en a la force et quand cette force manque on parie sans trop mesurer ses paroles ».

Ecco infine l'ultima parte dell'ultima lettera, in data del i8 novembre 1845 :

« Dites-moi enfin ce que vous vou- lez, mon maitre, mais dites-moi quel- que chose. Ecrire à une ci-devant sous- maitresse (non je ne veux pas me souvenir de mon emploi de sous-maì- tresse, je le renie), mais enfin, écrire à une ancienne élève ne peut étre une occupation fort intéressante pour vous je le sais mais pour moi c'est la vie. Votre dernière lettre m'a servi de soutien, de nourriture, pen- dant six mois à présent il m'en faut une autre et vous me la donnerez pas parce que vous avez pour moi de l'amitié vous ne pouvez en avoir beaucoup, mais parce que vous avez l'àme compatissante et que vous ne condamneriez personne à de lon- gues souffrances pour vous épargner quelques moments d'ennui. Me défen- dre à vous écrire, refuser de me ré- pondre, ce serait m'arracher la seule joie que j'ai au monde, me priver de mon dernier privilège privilège au quel je ne consentirai jamais à renon cer volontairement. Croyez-moi, mor maitre, en m'écrivant vous faites un bon oeuvre tant que je vous crois assez content de moi, tant que j'a; l'espoir de recevoir de vos nouvelles je puis étre tranquille et pas trop triste ; mais quand un silence mornt et prolongé semble m'avertir de l'élol gnement de mon maitre à mon égarc quand de jour en jour j'attends une lettre et que de jour en joui le désappointement vient me rejetei dans un douloureux accablement e que cette douce joie de voir votn écriture, de lire vos conseils me fui comme une vaine vision, alors, j'ai \i fièvre je perds Fappétit et le - meil je dépéris.

« Puis-je vous écrire encore au mois de mai prochain? j'aurais voulu atten dre une année mais c'est impossi ble c'est trop long ».

È questo silenzio ostinato del prO' fessore Héger che molti scrittori con siderano come una crudeltà.

Alle lettere del Times bisogna ag giungere un poema inedito, di Carlotti Bronté, scritto nel 1843, pubblicato re

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centemente dal Globe e che comincia con queste parole : « Amo senz'essere amata... »

Un animale nuovo: l'okapi.

Nel 1860, durante alcuni scavi in Grecia, in una località poco lontana da Atene, venne in luce una quan- tità d'ossa d'animali oggi scomparsi. Ricomposti gli scheletri, si osservò che uno di essi somigliava a quello di una giraffa, e gli fu dato il nome di « Hel- ladotherium». Dopo circa quarant'anni, scrive Ernesto Mancini in un interes- sante articolo cella Gazzetta del Popolo, giungeva la sorprendente notizia che nelle foreste dell'Africa tropicale vi- veva ancora un discendente di questo antenato dell'epoca terziaria.

Intorno all'esistenza di un animale singolare, una specie di cavallo, nelle foreste del Congo, il primo a racco- glier qualche notizia fu lo Stanley, che durante il suo viaggio nell'Africa tro- picale, seppe dagli indigeni che questo animale era chiamato « okapi ». Altre descrizioni incomplete si ebbero poi da un agente del Governo del Congo, e dalla spedizione militare francese al Congo, guidata dal capitano Marchand, la quale intravide una bestia curiosa somigliante all'antilope, all' asino e alla giraffa.

Queste incertezze, e le indicazioni avute dallo stesso Stanley, spinsero Sir Harry Johnston, governatore del- l'Uganda, a cercare in tutti i modi di scoprir l'esistenza del misterioso ani- male ; finché dopo una lunga serie di persistenti e faticose indagini fra le popolazio i nane, i cui guerrieri por- tavano sui loro scudi strisele di pelle dell' introvabile essere, mercè l'aiuto dell'ufficiale svedese Eriksson, il John- ston potè venire in possesso di una pelle e di due crani di okapi. Queste spoglie furono inviate a Londra, dove il Ray-Lankester, direttore del British Museum, nel giugno del 1901 presentò la prima ricostruzione del ruminante, simile alla zebra pel suo pelame a ri- ghe, ma avente i piedi biforcati, che 32

viveva ignoto nella vasta regione pa- ludosa le cui acque scolando lenta- mente vanno a dare origine al Nilo. Finalmente la prima cattura di un okapi vivo fu fatta nel 1907 dal Ribotti, il quale mandò una fotografia dell' ani- male al marchese Doria di Genova ; il giovane animale che aveva appena un mese quando fu preso, non visse che poche settimane.

Si è asserito che l'okapi dovette es- sere conosciuto anticamente da alcune popolazioni, e persino dagli uomini dell'età della pietra, che ne avrebbero lasciati degli informi disegni incisi sulle

L'okapi.

rocce ; così parve al Gauthier di aver trovato di questi disegni su alcuni massi nel Sahara. Particolare analogia coll'okapi presenterebbero, secondo il Wiedermann, le figurazioni egizie del dio Set su taluni bassorilievi. Ma il carattere stilizzato e convenzio- nale dato dagli artisti egizi a queste figure rendono poco sicure tali ipo- tetiche somiglianze ; ed anzi il Bous- sac le rigetta addirittura col risa- lire alle più antiche, le quali rappre- senterebbero una specie di lepre cogli orecchi tagliati e non già un okapi. Oggi gli scheletri e le pelli di okapi non sono più tanto rare, e i principali Musei ne pos.neggono degli esemplari; il Museo zoologico di Roma possiede uno scheletro e un animale impagliato, donati dal nostro Re, dei quali il pro- fessor Carruccio pubblicò in addietro un interessante e accuratissimo studio.

VoL CliXVn. Serie V l* ottobre 1913.

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Le notizie più recenti dell'okapi sono quelle che in questi giorni vennero comunicate all'Accademia delle scienze di Parigi dal Wilmet, che potè averne uno vivo a Wamba e tenerlo in vita per un mese. Intanto è da notare com e il nome di okapi sia quello indigeno che all'animale danno le popolazioni Walesè e Mamvu che stanno sulle sponde di un confluente del Congo, rituri ; mentre altre genti lo chiamano Dumba e Kengè.

Non soltanto per la difficoltà, che sinora non potè esser superata, di por- tare un okapi vivo in Europa, ma an- che pel fatto dell'esser assai raro que- st'animale e per la sua selvatichezza, si rese difficile lo studio di questo in teressante ruminante. Si aggiunga a ciò che la pelle dell'okapi è tenuta in gran pregio dagli indigeni, i quali ne fabbricano cinture, guaine da coltelli, e ornamenti. Anzi da talune popola- zioni l'animale rientra fra i tabù ; e cioè qualche cosa di sacro, di cui sol- tanto i capi possono mangiar la carne o utilizzare le spoglie.

L'okapi non vive mai in pianura, fra la vegetazione dei pantani ; esso sta nelle foreste montuose, e special- mente nei dintorni di Medge e nei bo- schi montani del Walese dove esistono vastissime zone spopolate. Per tali ragioni i soli esseri che veggono gli okapi viventi sono i Pigmei cacciatori che li uccidono nei boschi. Una pelle di questo animale è valutata colà al massimo un centinaio di lire ; mentre in Europa siffatto prezzo, per un bel- l'esemplare, può arrivare anche a lire IO mila. Il pelame dell'okapi è nero e bianco, o bruno e bianco, senza che queste difìerenze del manto influiscano sulla formazione delle coppie; l'animale è di una straordinaria pulizia, e a so- miglianza dei gatti lecca di continuo il proprio pelame vellutato, per mante- nere immacolato il candore delle sue zampe sottili e nervose.

L'okapi ha le labbra nere, la lingua azzurra e assai lunga ; le sue orecchie molto sviluppate e mobilissime, dice il

Wilmet, sono piene di peli. Dotato di un udito e di un odorato finissimi, è molto pauroso ; e quando venga attac- cato si difende sferrando calci pode- rosi. 11 maschio ha due piccole corna, che mancano alla femmina. Questi ani- mali evitano la luce che sembra ab- bagliarli, e viaggiano e mangiano du- rante la notte, cibandosi delle foglie degli alberi, di quelle degli arbusti, e dei giovani getti di cui sono assai ghiotti. L'okapi cammina come la gi- raffa, procede cioè all'ambio, contem- poraneamente colle due zampe di un lato o con quelle dell'altro.

Durante il giorno esso dorme quasi sempre; coricandosi, appoggia la testa su di un ramo d'albero o sopra qual- che altro sostegno. Questi animali non vivono riuniti in branchi, ma ogni cop- pia sta da sé, al più con un piccolo, perchè sembra che la femmina non partorisca che un figlio ; le coppie si formano solamente quando comincia la stagione delle pioggie. Il maschio rag- giunge la femmina a qualunque di- stanza, tanto che gli indigeni, una volta catturata una femmina, sono sicuri di prendere alla stessa trappola anche il maschio.

L'okapi descritto dal Wilmet fu preso dagli indigeni mentre facevano il rac- colto del caucciù ; era un giovanissimo animale che trovavasi colla madre, al quale riuscì a fuggire. Il piccolo okapi si lasciò prendere e portare in bràc- cio per quattro giorni, ma durante questo tempo non volle mai mangiare. Giunto a Wamba si rimise dagli stra- pazzi del viaggio, e in un vasto stec- cato, costruito nella foresta, visse per un mese ; lo si nutriva con latte di capra, e con latte condensato e diluito misto a riso, ma troppo giovane per mangiare le foglie, non mostrò di gra- dire altro che qualche giovane ramo- scello. La povera bestiola si addome- sticò assai presto ; riconosceva i suoi padroni e leccava loro le mani. Quando già sembrava che si fosse acclimatato, a un tratto il giovane okapi non volle più mangiare e in tre giorni morì : si

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dileguò così la speranza di poter por- tare in Europa un esemplare vivente del singolare animale, che, ultimo ar- rivato nella immensa falange zoologica, ha una storia tanto recente e interes- sante.

L'affollamento dei nostri centri urbani.

Il dottor Ugo Giusti, noto per i suoi studi statistici sulle città italiane, ha compiuto, per incarico della « Unione statistica delle città italiane », uno stu- dio sui dati dell'ultimo censimento allo scopo di illustrare un fatto sociale tutto moderno, l'addensamento e l'af- follamento dei nostri centri urbani. Di questo studio alquanto arduo ci una breve sintesi il prof. R. Dalla Volta in un articolo della Perseveranza di cui citeremo le conclusioni.

E da notare anzitutto che nel com- plesso della popolazione italiana i centri urbani hanno una parte molto impor- tante. Abbiamo 21 centri che sorpas- sano i 50 mila abitanti, 89 tra i 50 e i 20. La popolazione che vive in città costituisce il 16,2 per cento nell'Italia settentrionale, il 17.5 nella centrale, il 19,2 nella meridionale e il 30 per cento nella insulare. Sono circa 6 milioni d'italiani che abitano in città.

« Per stabilire il grado di addensa- mento dei centri urbani non si può ricorrere al solito semplicistico crite- rio della densità ottenuta dividendo la superficie per la popolazione, ma bisogna, rendendosi indipendenti dai confini demograficamente arbitrari dei Comuni, definire i limiti del centro ur- bano di cui si vogliono appunto cono- scere le condizioni particolari di ad- densamento. Si ottengono così altri dati relativi alla densità urbana e fon- diaria; la prima delle quali è data dal rapporto fra tutta la superficie asse- gnata ad un centro (che non è però sempre quella del Comune) e la sua popolazione, mentre la densità fon- diaria risulta dal rapporto fra la po- polazione stessa e l'area coperta dai fabbricati e dalle loro dipendenze, e cioè da giardini privati, cortili, ecc.,

con esclusione quindi delle aree adi- bite ad uso di strade, di piazze, di giardini pubblici, di stazioni ferro- viarie, di cimiteri, ecc., o coperte da acque, nonché delle larghe zone an- cora coltivate o di quelle destinate alla fabbricazione e non ancora co- struite.

« Ecco la densità urbana e fondia- ria di alcuni grandi centri italiani al IO giugno 191 1:

DENSITÀ

URBANA

FONDIARIA

abitanti

abitanti

per ettaro

per ettaro

Milano .... 135

466

Torino .

182

438

Genova .

. 171

Venezia .

. 221

553

Bologna .

. 97

297

Verona .

. 141

271

Brescia .

115

230

Padova .

51

322

Roma

281

611

Firenze .

86

159

Livorno .

. 183

364

Napoli .

. 236

748

Bari . .

. 266

Andria .

. 475

832

Taranto .

. 378

Palermo .

. 207

802

Catania .

. . 169

Cagliari .

80

445

« Questi sono tutti centri urbani aventi oltre 50.000 abitanti, e per essi si notano difi"erenze sensibili che hanno spiegazioni loro proprie in ogni sin- golo caso, ma sulle quali non è possi- bile fermarsi qui. Le più alte densità urbane e fondiarie si notano nelle città meridionali e insulari, nelle quali la popolazione si agglomera in centri ge- neralmente piccoli di estensione, prov- visti di una minor quantità di spazi liberi (strade, piazze, giardini, acque) che non nel settentrione. Fra le città che hanno tra 20 e 50.000 abitanti si segnalano, per forti densità urbane, Chioggia, Faenza, Sampierdarena, Pe- rugia, Corato, Trapani, Caltagirone, Spezia ».

11 prof. Giusti ha pure studiato l'in- fluenza dei grandi centri sul territorio limitrofo, perchè ritiene anch'egli che

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non possa studiarsi lo svolgimento di un grande centro urbano senza com- prendere nel campo dello studio me- desimo quei centri minori (la banlieue dei francesi) che vivono in gran parte del riflesso della vita cittadina. Ma come determinare l'estensione di que- ste agglomerazioni urbane? Egli ri- tiene che non si possa adottare se non un criterio geometrico già se- guito anche in Germania cioè de- scrivendo dal punto centrale (poniamo per Milano, il Duomo) una circonfe- renza con raggio di io chilometri, li- mitando così intorno alla città una zona di chilometri quadrati 314, e ot- tenendo delle agglomerazioni urbane che comprendono un numero mag- giore o minore di Comuni; ad es. Mi- lano ne avrebbe 34, Firenze 6, Roma nessuno. Ebbene, le io maggiori agglo- merazioni urbane hanno avuto dal 1871 a oggi un notevole incremento di densità (abitanti per ettaro) special- mente Milano, Genova, Napoli, Cata- nia, ecc.

« Quanto all'affollamento della po- polazione, ossia all'indagine intorno alle abitazioni, rileviamo che rispetto ai centri principali di oltre 50.000 abi- tanti vi è una differenza notevole e caratteristica fra i grandi centri del Nord e del Centro e quelli del Sud e delle Isole ; nelle prime, fatta in parte eccezione dei due grandi centri industriali Milano e Torino, un nu- mero scarsissimo di abitanti vive in abitazioni di una stanza, nei centri meridionali invece, specialmente in quelli continentali, una parte grandis- sima e qualche volta la maggior parte della popolazione si affolla in abita- zioni siffatte. Così, mentre a Genova, a Venezia, a Firenze, a Livorno, meno dell'i per cento degli abitanti vive in abitazioni di una stanza, questa cifra sale al 42 per cento a Bari, al 70 per cento a Foggia, a Modica, con cifre anche più gravi nei centri secondari dei suddetti Comuni ».

L'inchiesta del Giusti è quindi pre- ziosa per chi voglia studiare le con-

dizioni di vita nelle città del nostro Paese, e potrà servire a non poche amministrazioni locali per utili prov- vedimenti.

Coltiviamo uva da tavola !

Uno dei mezzi migliori per combat- tere l'alcoolismo, recando un grande vantaggio alla salute delle nostre po- polazioni, consiste nel diffondere il consumo dell'uva da tavola, dei mosti e di tutti i prodotti analcoolici della vigna.

Nel Congresso internazionale contro l'alcoolismo tenutosi in questi giorni a Milano, il valente igienista prof. Er- nesto Bertarelli ha fatto un'ampia re- lazione sui prodotti non fermentati ottenuti dall' uva : questa industria è entrata in una nuova fase colla pre- parazione dei mosti concentrati a freddo, ottenuta da un enotecnico ita- liano, il prof. Eudo Monti. Il Berta- relli ha sintetizzato nei seguenti para- grafi la sua relazione :

,1) i mosti concentrati a freddo (ed è onesto aggiungere che essi pre- sentano differenze non lievi in confronto con altre preparazioni ottenute a cal- do) oltre ad altri elementi pari con- tengono una maggiore quantità di ma- teriale dinamogeno che non i corri- spettivi vini, talché già per questa ragione semplicista di economia di bilancio devono venire indicati come alimenti più economici dei vini ;

2) gustativamente pure non essendo comparabili ai vini, si presentano bene accetti e in condizioni tali che difficil- mente saprebbe pensarsi di potere an- dare oltre nella bontà delle prepara- zioni ;

3) il contenuto in fosforo organico lecitico e nucleinico dei mosti è molto maggiore, ad altri elementi pari, di quello dei rispettivi vini, sicché sotto tale rapporto la superiorità bromato- logica del mosto concentrato a freddo in confronto del vino è assoluta ;

4) nelle somministrazioni ad indi- vidui che meglio si prestano alla de-

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terminazione è facile vedere che l'ap- porto di calorie-mosto non è legato agli inconvenienti che si osservano nell'apporto di calorie-vino, talché gli educatori e i medici devono tenere presente il fatto per le eventuali pra- tiche applicazioni ;

5) che si comincia ad intravvedere qualche proprietà di coadiuvante dige- stivo nei mosti concentrati che dovrà (salve ben inteso le verifiche ulteriori) esser tenuto presente per le conse- guenze pratiche che ne derivano.

Il prof Eudo Monti ha presentato il seguente ordine del giorno :

u II Congresso, convinto che l'uso quotidiano dell' uva e di altre frutta zuccherine ed acide facilitando l'assi- milazione degli alimenti esercita un'a- zione benefica, sopratutto pei fanciulli, le donne, le persone indebolite ; con- vinto che il succo naturale dell'uva ossidandosi nel nostro organismo vi produce una quantità di calore almeno del 50 '^/^ superiore a quella prodotta dall'alcool derivante dalla sua fermen- tazione, e che esso contiene da 5 a io volte più di lecitina e fosforo proteico di quel che ne contenga il vino che se ne ricava ; convinto che il mosto sterilizzato col calore conserva gran parte delle sostanze benefiche conte- nute nell'uva, eccezione fatta per gli albuminoidi semplici e fosforati e per il profumo, e che i detti mosti steri- lizzati debbono pertanto considerarsi come una bibita aggradevole ed igie- nica ; convinto che i mosti concentrati a bassa temperatura per congelamento e nel vuoto conservano intatti il pro- fumo e tutti i componenti del succo naturale d'uva comprese le nucleine ed eccettuata soltanto una parte del tartaro che non è difficile ridisciogliere dopo la refrigerazione ;

« Constatando che i mosti concen- trati possono ossidarsi o eterificarsi e disciogliere in queste condizioni le pro- teine e le nucleine ed emulsionare i grassi ed i lecitini contenuti nel latte, nelle uova e nella carne, e che gli ali- menti così preparati si conservano in definitamente ;

" Persuaso infine che la chinina, il peptonato di ferro ed in generale tutte le droghe vegetali che s'impiegano per la preparazione degli aperitivi e dei vini medicati, sono solubili nel mosto concentrato e la soluzione si mantiene limpida ed inalterabile ;

« Constatando che il residuo della distillazione del vino, allo scopo di ricavarne dell'acquavite, non contiene alcuna sostanza utile all' organismo umano e che qualunque siano le opi- nioni dei congressisti sopra i vantaggi e gli inconvenienti dell'uso moderato del vino, tutti si accordano nel rico- noscere che esso è tanto meno nocivo quanto più è puro e di alcoolicità meno elevata ;

u Constatando che l'esaurimento si- stematico delle vinacce è molto piìi proficuo della loro distillazione, che sarebbe stata da lungo tempo abbando- nata se non fosse artificialmente incorag- giata per mezzo di esenzioni fiscali e del divieto di vendere od aggiungere a. dei vini anche eccessivamente alcoolici, il prodotto dell' esaurimento delle vi- nacce ;

« Constatando che l'acquavite grezza di vino e di vinacce a causa del suo contenuto in alcool superiori, aldeidi, furfurole ed eteri, è il più nocivo de- gli alcool e che è immorale obbligare tutti i contribuenti a sacrificare il loro denaro per incoraggiarne la produzione, fanno voti perchè :

u i.° Le organizzazioni antialcooii- che favoriscano la consumazione del- l'uva in natura fresca ed appassita e la costituzione di associazioni aventi per scopo di metterla a disposizione del popolo e sopratutto dei fanciulli e degli ammalati nelle scuole e negli ospedali a prezzi molto bassi e nelle migliori condizioni di conservazione ; « 2.° Che le organizzazioni antial- cooliche, d'accordo con gli istituti scien- tifici e medici, studino le proprietà alimentari del mosto naturale e con- centrato e ne favoriscanola sostituzione all'alcool nella preparazione delle me- dicine e degli aperitivi, come pure il suo impiego alla preparazione di alimenti

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concentrati che conservino intatte per il maggior tempo possibile le proprietà benefiche dell'uva fresca e degli alimen- ti che vi sono stati disciolti ;

« 3." Che gli Stati viticoli favori- scano la consumazione del succo d'uva e di frutta, naturale, sterilizzato o con- centrato ».

* * *

Questo metodo di lotta contro l'al- coolismo ottiene naturalmente tutto il suffragio dei produttori. La convenien- za di produrre vino fu sinora deter- minata dalla richiesta del mercato, disse il congressista prof. Arturo Marescal- chi. Se domani il mercato e l'industria richiederanno uva in natura o in mo- sto, i viticultori non avranno nessu- nissimo danno. 11 che è importante per una nazione che è, dopo la Fran- cia, la maggior produttrice viticola.

Canti scolastici.

L'insegnamento della musica, o, al- meno, del canto corale nelle nostre scuole, è questione che, a lungo di- battuta, non è mai giunta ad una so- luzione razionale e soddisfacente: per ciò è da noi deplorabilmente trascu- rata una parte importantissima della letteratura musicale: i canti scolastici, ossia quei canti semplici e chiari, che valgano ad istruire senza affaticare, a dilettare, e per ciò a interessare le menti giovanili. In Italia ben pochi ne scrivono ; e di questi la maggior parte ricordano quelli scrittori di no- velline e storielle per bambini, i quali, ignorando quale arte squisita occorra perchè la letteratura per l' infanzia raggiunga il suo scopo, credono basti buttar giù qualunque schiocchezza in forma volgarmente sciatta ; credono che per farsi intendere da menti non ancora ben coltivate sia utile... l'igno- ranza dello scrittore il quale si trovi, per istruzione, al livello meno ele- vato; e i bambini (critici innati seve rissimi) lasciano il libro da parte, o, se hanno maggiore giudizio e inizia- tiva, ne staccano le pagine per farne

delle barchette o delle oche: giusta e i simbolica vendetta contro l'autore. ; Per ciò fa piacere imbattersi qual- che volta nella eccezione : e una lodevo- le eccezione è formata da una racco 1- tina di Dodici canti ad una, due e tre voci, per uso delle scuole, del Maestro Carlo Matteo Rissone, pubblicata a Torino dall'editore G. D'Amato. Sono inni patriottici, qualche preghiera, canti di festa : le melodie sono scorrevoli e facili, contenute entro limiti che le ren- dono non faticose per le voci infantili e giovanili; non banali e spesso ben sostenute dagli accompagnamenti. Vi si incontrano talvolta delle modula- zioni un po' troppo ingenue, e che snervano alquanto la composizione : difetto sensibile sopra tutto nei canti di maggiore lunghezza, i quali risul- tano meno efficaci. Ma alcune delle più . brevi pagine hanno una grazia espressiva che le rende gustose e pia- centi ; e i ragazzi debbono veramente cantarle volentieri: questo è il migliore elogio che possa farsi ad una raccolta di canti scolastici, educativi.

Una Società d'incoraggiamento all'industria.

Si è fondata nel luglio scorso, in Roma, una Società che ha per iscopo « lo studio e l'attuazione di quanto possa efficacemente promuovere, in modo diretto od indiretto, l'industria in Italia ».

Secondo l'articolo 3 del suo statuto, « la Società si propone:

« a) la formazione di scuole indu- striali, superiori, medie, inferiori, sparse opportunamente in Italia e nelle Co- lonie;

« b) lo scambio di idee, di opinioni, di cognizioni industriali, usufruendo dei più moderni mezzi di diffusione;

« e) la formazione di buoni ope- rai, sostituendo insegnamenti sistema- tici teorico- pratici al lungo tirocinio dell'apprendista;

« d) lo studio dei più importanti problemi industriali, che interessano l'economia e l'avvenire della nazione.

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u La Società per attuare il suo pro- gramma si varrà dei contributi dei soci, delle oblazioni sotto qualsiasi forma dovute alla generosità dei privati, dei sussidi e delle facilitazioni che conce- deranno gli Enti pubblici e le pubbli- che Amministrazioni, e infine del con- corso dello Stato ».

Diramando lo statuto che abbiamo citato, la Società per l'incoraggiamento dell'industria fa appello ai cittadini che hanno a cuore l'avvenire industriale del paese, affinchè vogliano entrare a fame parte e a portare il loro consi- glio ed aiuto al patriottico fine.

Presidente della Società è il prof. Lu- ciano Orlando, consiglieri il prof. Moisè Ascoli, l'on. Battelli, il comm. Brunelli, il prof. C. Cattapani, l'architetto Giove- nale, il sen. Grassi, l'ing. Luiggi, l'av- vocato A. Mazza, il colonnello Moris, ring. Toja. Segretario l'ing. Nicolò Ma- netti, al quale possono rivolgersi i let- tori per informazioni e schiarimenti (via Condotti, 23, Roma).

Libri di cultura.

L'editore Formiggini è convinto che la missione spirituale dell'Italia sia al- legra, sia quella di portare un po' di riso per il mondo. E ha inaugurato una collezione di autori allegri, nella quale, a quanto appare subito dai vo- lumi già usciti, gli Italiani saranno il maggior numero. In massima non par- tecipo di questo nazionalismo dell'e- ditore. Tempo fa avevo ideata una raccolta di Capolavori allegri, e, a farlo apposta, nel catalogo preparato (poi non se ne fece nulla: cose che acca- dono) mi pareva, e con malinconia, di veder che l' Italia avesse sempre riso poco, e riso un po'troppo gravemente. La retorica che ci ha pesato sulle spalle per tanti secoli, aveva paludato e in- cortigianito un po'anche il nostro modo di ridere : informino i famigerati poe- metti giocosi, delizia dei linguisti e di chi soflFre d'insonnia. Ma queste sono personalità. Sono molto contento che il Formiggini la pensi diversamente da me: cosi egli saprà mostrarmi (e ha

già cominciato) tutto quello che c'è di veramente fresco nella grave lettera- tura allegra italiana. E mi fido a lui, il quale, oltre che editore, è anche psico- logo specialista in materia di lettera- tura comica. Intanto su cinque volumi usciti di questa elegante collezione quattro sono d'italiani. Lo straniero è il E e Maistre: ci son qui, tradotti molto bene dallo Spavènta-Filippi, i suoi due ben noti viaggi: l^iaggto intorno alla mia camera, e Spedizione notturna in- torno alla mia camera, il un tipo sin- golare d'umorista: l'umorista senza ma- lignità, l'umorista placido e un po' ma- linconico, che cura soprattutto i suoi co- modi. Non vede bella la vita, ma non ne piange perchè il piangere è incomo- dissimo ; com' è, del resto, anche rider troppo forte. Il De Maistre, se mai, è un classico del sorriso. Ride forte, invece, ride forte e fosco, dando ogni tanto un terribile morso, l'autore del Saty- ricon (lo ha tradotto il Limentani) ; ride elegante e un po' pretesco il Firen- zuola nelle novelle (curate da G. Lippa- rini); ride grasso e perfin sguaiato An- ton Francesco Doni. Del bizzarro frate sfratato, che fu un po' di tutto mu- sico, editore, bibliografo, disegnatore, accademico, cabalista, romito, avven- turiero — tutto fuorché letterato, an- che quando scrive, Fernando Palazzi ha scelto le cose più caratteristiche, traendole un po'da tutte le molte sue opere, e ne ha messo insieme un vo- lume molto nuovo (che il Doni fu po- chissimo ristampato) e molto piacevole. Il Palazzi stesso gli ha messo innanzi un saggio succoso e vivacissimo, che è un modello di sintesi critica.

La collezione s'è inaugurata con la prima giornata del Decamerone. 11 Boc- caccio è anche un tragico, ma ad una biblioteca del riso non poteva mancare l'opera in cui vivono Calandrino e frate Cipolla. Tutti questi volumi sono di un gusto tipografico ottimo, mezzo tra r antico e il modernissimo, adorni di xilografie, assai belle le une, meno le altre, nessuna volgare.

Ho detto più su del Palazzi come editore del Doni. In questi giorni sono

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usciti altri due suoi libri (presso 1' e- ditore Puccini, Ancona). L' uno è il primo volume di una traduzione dei Reisebilder di Heine, molto accurata e geniale: il Palazzi ha fatto molto bene a seguire, oltre che il testo tedesco, quello francese che dell'opera, più che una traduzione, fu una nuova edizione ampiamente riveduta e corretta dal- l'autore. Probabilmente quella fu, nella mente del Heine, edizione definitiva, atta a una più larga conoscenza del li- bro. Non per altro il Heine ne volle tolte tutte le allusioni a persone e fatti or- mai ignoti e le diede un aspetto più organico. Il traduttore italiano doveva seguire scrupolosamente le norme date dall'autore al francese, che fu, com' è noto, Gerard De Nerval. Il testo fran- cese è però qui in parte reintegrato col tedesco; per esempio, è tradotta la leggenda di Kuns delle Rose, che in quello era stata tolta.

Ma la vera rivelazione di se stesso il Palazzi nel saggio su Sem Be- nelli, che è il primo suo ampio lavoro critico. Oso dire ch'esso è un modello di saggio compiuto, in cui la conoscenza minuta dell' opera tutta d'un autore e il senso acuto dell'opera in cui essa si svolge, si completano sobriamente di quel tanto di conoscenza biografica che può illuminare la critica senza traviarla,

come avviene pur troppo spesso. Il Palazzi studia prima in generale il no- stro teatro contemporaneo, distinguen- do nella varia e disorganica procluzione nostra due correnti, quella del « teatro di vita », e quella del « teatro di poe- sia », ch'egli trova poi ricongiunte nella « Cena delle Beffe ». Attorno alla quale prima e dopo il critico raccoglie, per istudiarla, tutta la produzione del Benelli fino alla Gorgona, esclusiva- mente, penetrandone con grande se- renità tutti i pregi e i difetti, o meglio gli eccessi. Non so che teorie il Palazzi si faccia della critica, e se pur se ne faccia qualcuna. Certo quest' opera è notevolissima, non pure per i suoi ri- sultati attuali riguardo al soggetto (nes- suno potrà più parlare del Benelli sen- z'appoggiarsi a queste conclusioni), ma perchè ci presenta un critico affatto nuovo e singolare: una geniale com- binazione di disamina logica e di rico- struzione quasi pittorica delle opere esaminate, un contemperamento d'e- steticismo e di storicismo, che portano di colpo Fernando Palazzi in prima fila tra i nostri critici. Sono curio- so di vedere come la critica della critica accoglierà questo tipo energico e inaspettato: più curioso ancora di gu- stare altri frutti di una così equilibrata unione dell'arte e della vita. (M. B.

Nemi.

NOTIZIE. LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

ITALIA.

È morto a Genova il senatore marchese Giacomo Boria, il quale onorò personalmente il nome già così illustre del suo casato dedicandosi alle scienze naturali. Dai suoi viaggi egli riportò magnifiche collezioni che formarono il primo nucleo del Museo di Storia naturale, del quale si occupò recentemente la nostra rivista (fascicolo del febbraio 1913). Aveva 73 anni, essendo nato a Spezia nel 1840.

Con prefazione di M. Scherillo e a cura di un apposito comitato si pubblicheranno fra pochi giorni I copialettere di G. Verdi, raccolta di lettere scritte dal Maestro dal 1844 al 1901.

A Portolongone una rappresentanza dei ragionieri italiani si è recata il 20 scorso a portare un album artistico con dedica di Gaspare Finali a Giu- seppe Gerboni, il veterano degli studi di ragioneria, che ha compiuto l'Sc" anno di una vita operosa spesa a vantaggio della scienza e dell'Amministrazione pub- blica.

Inaugurato dall'on. Luigi Luzzatti a Venezia si è tenuto il Congresso della Mutualità scolastica.

Molto importante per autorità di intervenuti e per le relazioni pre- sentate fu il Congresso dei Magistrati indetto dalla benemerita Associazione dei Magistrati italiani, che si tenne a Napoli dal 18 al 21 settembre.

Inaugurato dal ministro Credaro si è svolto a Firenze il Congresso della Società per il Progresso delle Scienze.

Opera dello scultore Oddo Franceschi, si è inaugurato a Barberino in Toscana un monumento a Francesco Neri da Barberino, l'autore dei Documenti d'Amore e del Beggimenfo e Costume di Donna (1254-1Ì338).

A Sanseverino si è inaugurato un busto al grande anatomico Barto- lomeo Eustachio. I medici milanesi inviarono una targa in bronzo. Larga fu la partecipazione a queste onoranze da parte delle Università, e degli istituti scientifici italiani.

Si è tenuto a Milano nel castello Sforzesco il Congresso internazionale contro l'alcoolismo, alla presenza dei rappresentanti ufficiali del Governo e di quaranta Stati esteri.

Numerosi amici ed ammiratori hanno festeggiato a Missaglia (Lom- bardia) l'ottantesimo anno di E. T. Moneta, scrittore pubblicista, premiato col premio Nobel della pace.

La « Biblioteca Sandron di Scienze e Lettere » si è accresciuta di una nuova opera: Energia Morale, saggi scelti di R. W. Emerson, tradotti da Guido Ferrando.

Il signor Eugenio Spagna ha con gentile pensiero donato alla R. Biblio- teca di Lucca una ricca raccolta di manifesti, di giornali e di poesie popolari. Queste stampe hanno un certo valore storico perchè sono dell'epoca del Risor- gimento italiano.

La Compagnia Palmarini-Grassi rappresenterà prossimamente al Man- zoni di Milano una nuova. commedia di Silvio Zambaldi.

Il maestro Perosi ha scritto una nuova opera dal titolo L'orazione della sera.

Im drammatica a Parma, 1400-1900 è il titolo di una recentissima opera di Edgberto Bocchia, edita da Luigi Battei di Parma.

498 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

I « Manuali Hoepli » si sono arricchiti di un nuovo volumetto di F. Im- perato, Atlante di Bandiere. Insegne, Distintivi dei principali Stati del mondo. E ornato di 50 tavole a colori e di 19 figure nel testo.

Emanuele Orano ha affidato a Ignazio Mascalchi l'Epilogo, commedia in tre atti, che sarà rappresentata nel prossimo ottobre al Sannazzaro di Napoli.

La Compagnia di Ferruccio Benini metterà in iscena prossimamente una nuova commedia in tre atti, La portantina, di Luigi Chiarelli.

Aristide Sartorio ha già quasi ultimato il grande fregio, che deco- rerà l'aula nuova del Parlamento. Egli sta ora dando gli ultimi ritocchi al poderoso lavoro. Con questo fregio l'arte italiana ha mostrato di potersi rinno- vare senza rinnegare la sua tradizione e la sua anima essenzialmente plastica.

A Firenze, la Galleria degli Uffizi ha, acquistato per la sua collezione dei ritratti, l'autoritratto di Tommaso Minardi, pittore del principio dell'ot- tocento.

Scientia (fase, settembre-ottobre) contiene: La Teoria delle sostanze nei presocratici greci - I parte, di A. Mieli'; Dove ci trae il nostro sole? di Th. Mo- reux; Le unità superiori. Saggio geografico, di A. S. Hertbertson; L'evolu- zione del ragionamento - II parte: Dall'intuizione alla deduzione, di E. Ri- gnano; L'interesse della psico-analisi, di S. Freund; Che cosa è il Sanscrito? di H. Jacob; una nota di G. Jankelevitch sui Cavalli pensanti di Elberfeld; re- censioni, rassegne, ecc.

GitTSEPPE Fanciulli, L'Umorismo. Note di estetica psicologica. (<( La Cultura Filologica » editrice, Firenze 1913). Questo studio del Fanciulli che già nella piti voluminosa opera su La Coscienza Estetica aveva trattato con singolare acume problemi generali intorno all'arte e alla bellezza si propone di definire e di giustificare quella forma d'arte oltremodo interessante che dicesi umorismo. L'A. non ha voluto, con questo, tracciare la storia di tale « categoria estetica » a traverso le multiformi manifestazioni, e si è limitato ad assumere come materiale per sue ricerche solamente delle espressioni letterarie, apparte- nenti sopra a tutto alla letteratura inglese. Il primo capitolo mira a stabilire come si costituisca il temperamento umorista; e i dati delle biografie di umo- risti famosi e tipici, quali Swift, Gian Paolo, Fielding, Sterne, Goldsmith, Dickens, Thakeray, ecc., ecc., attestano con singolare uniformità che un simile temperamento è dato dalla ricchezza dell'esperienza della vita, e da una pecu- Ilare «reazione psicologica» molto sottilmente dall' A. analizzata. Lo studio mostra poi come dall'uomo si evolva l'artista, e quali sieno i caratteri peculiari della letteratura umoristica nella tecnica come nella sua finalità, nella presen- tazione dei personaggi, degli ambienti, e nel raggiungimento di una commo- zione morale. La seconda parte considera il medesimo problema alla rovescia; cerca cioè per quali vie lo spettatore arrivi a comprendere e sentire la produ- zione umoristica. Il libro condotto con severità di metodo, ricco di sottili osservazioni, scritto con grande piacevolezza di stile, reca anche, a prova delle osservazioni teoriche, varie pagine tradotte dagli umoristi piìi famosi, e scelte con ottimo gusto. (M. B.).

FRANCIA.

Le romAin social en Allemagne è il titolo di un'importante opera di J. Dresch, professore all'Università di Bordeaux. È edita da Alcan di Parigi.

Si annunzia che Casa di bambola di Ibsen sarà recitata alla Comédie Frangaise. Sinora nulla del grande norvegese era stato ammesso sulle scene ufficiali parigine.

Il celebre drammaturgo francese Francois de Curel ha scritto un nuovo lavoro. La danse devant le miroir, che sarà rappresentato prossimamente al- VAmbigu.

Nell'occasione del centododicesimo anniversario di Victor Hugo che avrà luogo il 12 febbraio prossimo, il governo francese ha stabilito di offrire all'Inghilterra un monumento del cantore della Legende des Siècles. Esso dovrà sorgere a Guernesey, in faccia al mare e non lungi àalla roccia dove il poeta soleva trascorrere lunghe ore.

Prossimamente si rappresenteranno all'Opera di Parigi tre opere di tre giovani artisti: Philotis, danseuse de Corinthe di Filippo Gaubert; Scemo di Alfredo Bachelet e Antar di Gabriele Dupont.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 499

Si è testé costituito un comitato a Parigi per innalzare un monumento a José-Maria de Hérédia.

Roger Albert e Louis Hornas pubblicano nella Phalange interessanti ricordi sul poeta Leon Deubel.

E morta a Losanna la scrittrice Pierre de Coulevain. II suo vero nome era Fabre, e la sua patria natia la Svizzera. Ha lasciato vari romanzi di cui ricordiamo: Xoblesse américaine (1897), che fu la sua prima opera; Ève victo- rieuse, Sur la branche (1903), L'Ile inconnue (1906), Au coeur de la vie (1908).

I signori Thersold e Thiers, incaricati dal Ministero dell'istruzione pub- blica e daUa Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere di Parigi di una mis- sione a Costantinopoli, hanno reso conto all'Accademia stessa, nell'ultima sua seduta, delle ricerche da essi fatte durante l'estate del 1912. Tali ricerche hanno avuto per iscopo lo studio delle costruzioni e delle rovine rese accessi- bili in seguito a un incendio che ha sbarazzato il luogo sul quale sorgeva il gran Palazzo^ degli Imperatori bizantini. Queste costruzioni e questi sotterranei forniscono nuovi dati per lo studio topografico del Palazzo. Il fuoco mise di più allo scoperto delle terrazze costruite per compensare il declivio del terreno e un gruppo di costruzioni molto interessanti. Durante questa missione, il signor Thiers ha fatto delle nuove osservazioni sull'architettura dell'Ippodromo, che permetteranno di fissare le dimensioni del Circo in tutte le sue parti.

Si è scoperto recentemente che l'atto di morte di Onorato Balzac, spentosi a Parigi, in una casa di via Forrunée, il 18 agosto 1850, contiene una grande inesattezza. Secondo essOj Balzac avrebbe sortito i natali a Parigi, mentre nacque a Tours. E dire che testimoni dell'atto di mort« furono il co- gnato di lui, Greneraye-Survil, e il pittore Laurent Jan, ambedue suUa cin- quantina!

Il municipio del villaggio di Labastide-Murat, dove nacque Mufat, re di Napoli, ha nominato un Comitato incaricato di organizzare i festeggia- menti pel prossimo centenario del generale di Napoleone.

AUSTRIA e GERMANIA.

Richard Garbe pubblica nella Deutsche Bevue la prima puntata di un importante studio sui Christliche Elemente in Brahmanismus und Hinduismus.

Alcuni malviventi sono penetrati nella villa della signora Richard Wagner a BajTeuth ed hanno rubato oggetti che appartennero al maestro, fra cui la sua tabacchiera ed un orologio d'oro regalatogli dal Re di Baviera.

La celebre scrittrice Enrichetta von Kandel Mazzetti ha pubblicato re- centemente un nuovo romanzo intitolato: Briiderleiii und Schiversterlein (Miin- chen, J. Kòsel).

Friedrich ha raccolto in un bel volume la corrispondenza inedita di Friedrich Hebbel. (Aus Friedrich Hebbels Korrespondenz. Ungedruckte Briefe von und- an den Dichter nebst Beitrdgen zur Textcritik einzelner Werke, Mun- chen, Miiller).

Edite e annotate da Hans F. Hehnolt, sono uscite recentemente molte lettere inedite di Gustav Freytag ad Albrecht von Stosch. {Gustav Freytags Briefe an Albrecht von Stosch, Stuttgart, G. Cotta).

Segnaliamo un'importante opera di Paul Wemle su Lessing e il cristia- nesimo {Lessing uìid Christentum, Tiibingen, Mohr).

^- Per festeggiare degnamente il secondo centenario di Gluck, che cadrà l'anno prossimo, si è fondata in Germania, sotto la presidenza di Max-Arend, una Gluck Gemeinde.

Ecco i titoli dei principali romanzi e novelle usciti recentemente in Germania: Der Mann im Spiegel di W. Miessner (Leipzig, WolfF); Wo Men- schen Frieden ^/wic/i, di Karl Bienenstein (Leipzig, Grethlein); Dos Anjekind, di Waldemar Bonsels (Berlin, Schuster)j Axel Martens Heimat di Niels Hoyer (Frankfurt a. M., Literarische Anstalt Riitten u. Loeming).

Il signor Arthur Neustadt ha raccolto le impressioni di un suo viaggio al Giappone in un interessante volume dal titolo Japanische Beisebriefe - Be- richte ùber eine Fahrt durch Japan (Berlin, Paul Cassirer).

Nei Suddeutsche Monatshefte è apparso un articolo di Joseph Hofmiller sullo scrittore svizzero Jacob Bosshart.

. È uscita, tradotta in tedesco, la pregevole opera di Henri Lichten- berger: Bichard Wagner, Der Dichter und Denker. Ein Handbuch seines Le-

6G0 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

bens und SchafFena. Traduttore ne è Oppeln-Bronikowski, editore, Reissner di Dresda.

Un altro importante lavoro su Bichard Wagner und seme Apostaten ha pubblicato recentemente Christian Ehrenfels presso H. Heller di Lipsia.

L'ultimo numero de] Literarische Écho si apre con un articolo di F. Schotthoefer dal titolo Stendhals Autobiographie.

Chi avesse detto a Bebel che gli sarebbe capitato di venire proposto da un pulpito di chiesa ad esempio di buon cristiano? Il fatto è avvenuto in un villaggio della Svizzera e ne notizia il Vorwacrts. Il parroco di Feuerhaler del Cantone di Zurigo predicando sul detto: «Ama Dio con tutte le tue forze, e il prossimo come te stesso », cita Bebel che aveva praticato come pochis- simi il precetto « ama il prossimo ». (( La sua fede non era la nostra con- tinua il parroco ma questo non conta; aveva la fede nella bontà umana e cercava di far trionfare il bene. E ciò è cristiano ». Il parroco invitò quindi i suoi parrocchiani a imitare Augusto Bebel! Il fatto è rilevato con indigna- zione dall'organo ortodosso^ protestante, la Kreuzzeitung .

INGHILTERRA e STATI UNITI.

È stato assai bene accolto dalla critica in questi giorni un nuovo romanzo del noto scrittore inglese W. B. Maxwell: The Devils's Garden (London, Hut- chinson).

E uscita recentemente un'importante biografia di Lord Lister, scritta da G. T. Wrench (Lord Lister: His Life and. WorJc, London Fisher).

Sir Arthur Conan Doyle ha pubblicato una nuova opera: The Poison Beli. (London, Hodder).

Il noto romanziere inglese Arnold Bennett ha dato fuori una nuova opera dal titolo The Begeni. È edita da Methuen di Londra.

Una delle donne pivi ricche degli Stati Uniti di America, la signora Russel Sage, ha comprato per il prezzo di 750,000 franchi, Marsh Island, isola situata al largo della Luisiana, e che serve di tappa al luogo di nidificazione a moltitudini di uccelli migratori. Per molto tempo si sono potute vedere colonie numerosissime di anatre e di oche selvatiche paalsarvi l'inverno. Gli agenti dei mercanti di piccioni uccisera milioni di questi uccelli. La generosità della signora Russel Sage farà di Marsh Island un rifugio sicuro per gli uccelli sel- vatici. Essi vi saranno protetti dalle guardie federali, che dipenderanno dal Governo federale e dallo Stato della Luilaiana.

Prossimamente uscirà una biografia del compianto W. T, Stead, scritta dalla figlia, miss Estelle W. Stead. Sarà una raccolta di ricordi, molti dei quali inediti, e che avrà per titolo Mvo Padre.

In un eccellente volume dal titolo Women of the Country (Duckwort) Gertrude Bone esamina il movimento della popolazione campagnola ingleise.

Il drammaturgo' inglese Henry Arthur Jones ha dato fuori un nuovis- simo lavoro dal titolo The Divine Gift (Duckwort).

Eccellente accoglienza ha avuto dalla critica il recentissimo romanzo di Hall Calne, The Woman Thou Gavest Me (Heinemann).

Sir Sidney Lee ha iniziato nella Contemporary Beview la pubblicazione di una serie di importantissimi articoli su Shakespeare and Public affairs.

Nella Fortnightly Bevieio, Margherita L. Moods esamina le facoltà poe- tiche della donna in opposizione a quelle dell'uomo.

JjEnglish Beview reca un pregevole studio di Austin Harrison sul poeta Francis Thompson, le cui opere furono edite recentemente a cura di Wilfrid Meynell (Burns and Oates).

Il poeta Arthur Symons sta per pubblicare coi tipi di Heinemann un volume di poesie: The Knave of Hearts. Oltre al poema con questo titolo, il volume contiene la traduzione di Fétes Galantes, Poèmes Saturniens del Ver- lain© e altre traduzioni da Andrea Chénier e da Catullo.

L'editore Murray pubblicherà fra poco le memorie del musicista Wilhelm Ganz, col titolo Memoirs of a Musician. Il Ganz fu in relazione con tutte le celebrità musicali contemporanee, da Jenny Lind alla Patti e le sue memorie tracciano un periodo di 64 anni.

È apparso in Inghilterra un buon volume di poesie scritte da Henry Newbolts: Poems Old and New (Murray).

Lo stesso editore ha in preparazione: Life and Letters of Lady Hester Stanhope.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 501

ITALIA ALL'ESTERO.

Il signor Max Birnbàum ha pubblicato un opuscolo di propaganda in fa- vore delle bellezze naturali del lago di Garda; Der Gardusee (Vienna, Perles).

Nel Jìeiiiner Ta(jehìait Hans Barth scrive un simpatico articolo sulle numerose e belle stazioni termali italiane.

Nella Xouvelle lievue è contenuto un articolo sulle relazioni intellet- tuali e politiche tra l'Italia e la Grecia.

Il Bollettino del Commissariato di emigrazione pubblica i seguenti dati circa il movimento di entrata ed uscita di passeggeri di 3* classe in Santos (Brasile) nel quadrimestre del corrente anno 1913: Entrati 33,904, di cui 7,349 italiani ; Usciti 11,856, di cui 1,194 italiani. Circa i rimpatri degli italiani è da notare che data l'imminenza del raccolto, in tempi normali si sarebbe dovuto osservare una diminuzione, anziché un aumento nelle partenze dei pas- seggeri di 3* classe nel 2"^ bimestre a confronto del primo: il movimento di rimpatrio in 3* classe di connazionali si va dunque accentuando, ciò che di- mostra ancora una volta quanto critiche siano le condizioni della massa dei nostri lavoratori in quello Stato.

Sulla Bevue des Deux Mondes un vecchio amico dell'Italia, Gabriel Faure, scrive alcune pagine sul paese dei pittori veneziani: Udine, Pordenone, Treviso, Castelfranco.

Nella Scuola Tecnica di Cardiff, il famoso centro minerario inglese, si è inaugurato il corso di lingua italiana. Così accanto al francese e al tedesco non mancherà d'or innanzi l'insegnamento deìla nostra lingua per i numerosi operai italiani che colà risiedono.

La Bevue del lo settembre reca un articolo firmato M. d'Albola col titolo Le conflit des deux Italies. Nello stesso numero P.-H. Loyson pubblica una poesia intitolata L'agonie de Venise.

A Londra all'<( Ambassador's Theatre » l'attrice Lydia Gavorska (prin- cii>essa Bariatinski) ha recitato con successo una traduzione inglese, col titolo I love you, della commedia di Roberto Bracco La fine dell'amore.

All'opera di Budapest si darà nella pi'ossima stagione un ciclo di opere verdiane.

Liisinghiero successo vanno ottenendo in questi giorni all'estero i lavori dei nostri commediografi. Ottimo esito ha avuto, ad esempio, la tournée fatta in Germania dall'attore Moissi con La cena delle beffe di Sem BeneUi. Ora un'altra commedia italiana, che si prepara ad affrontare il giudizio di un pub- blico straniero è II brutto e le belle di Sabatino Lopez, che verrà rappresen- tata ai primi di novembre al Burgtheater di Vienna col titolo Der Haessliche Ferrante, dal nome del protagonista. Il direttore del Burgtheater signor Thi- ming ha dedicato specialissime cure alle prove ed all'allestimento scenico di questo lavoro. Pure in alcuni teatri della Germania sarà rappresentato, da un eminente attore tedesco, il Guerin Meschino di Domenico Tumiati.

CONCORSI, CONGRESSI, ESPOSIZIONL

Si inaugurerà prossimamente a Lugano, nella sontuosa villa Ciani, una esposizione di belle arti della Svizzera italiana. Vi i^arteciperanno numerosi artisti del Ticino e dei Grigioni con un paio di centinaia d'opere di pittura e di scultura.

A Leopoli è stata aperta un'esposizione di pastelli, promossa da quella Associazione degli Amici delle Belle Arti-. Vi figurano molte opere, per la maggior parte del secolo xviii, appartenenti a nobili famiglie polacche e a vari musei e gallerie della Polonia. L'arte italiana è rappresentata da un magnifico pastello di Rosalba Carriera, raffigurante una dama della Corte del Re Au- gusto, e da vari lavori del pittore A. Gucchi, celebrato pastellista della prima metà del secolo xix.

Si è tenuto a Halle il primo congresso di rabdomanzia, l'arte di sco- prire vene di acqua sotterranea, metalli, carbone, ecc., mediante una verga. Intervennero geologi e industriali da tutte le parti d'Europa e furono eseguiti molti esperimenti.

502 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

VARIE.

Il consumo mondiale del gas si calcola, nel 1912, la 21,500,000,000 di metri cubi, la cui fabbricazione ha assorbito 60 milioni di tonnellate di carbone. Questa colossale fabbricazione ha fornito, inoltre, come sottoprodotti, 30 milioni di ton- nellate di coke, 3 milioni di tonnellate di catrame e 500 tonnellate di ammo- niaca. Londra consuma una media di 226,5 metri cubi di gas per abitante ; mentre Parigi, New York e Amsterdam ne consumano circa 161.

Il Figaro pubblica che in seguito a più esatti calcoli si può ritenere che, dopo il trattato di Bucarest, la superfìcie e la popolazione degli Stati bal- canici sarà la seguente: Romania: Prima del trattato 131,300 kmq. e 7,260,000 abitanti. Territorio annesso: 7,500 kmq. e 280,000 abitanti. Totale 138,800 kmq. e 7,540,000 abitanti. Bulgaria: Prima del trattato: 96,300 kmq. e 4,380,000 abi- tanti. Sottraendo il territorio annesso dalla Romania, rimangono 88,800 kmq. e 4,100,000 abitanti. Territorio annesso in Macedonia e in Tracia 32,700 kmq. e 670,000 abitanti. Totale 121,300 kmq. e 5,750,000 abitanti. Grecia: Prima del trattato: 64,000 kmq. e 2,800,000 abitanti. Territorio annesiso: 56,000 kmq. e 1,900,000 abitanti. Totale: 120,000 kmq. e 4,700,000 abitanti. Serbia: Prima del trattato: 48,900 kmq. e 2,950,000 abitanti. Territorio annesso: 35,000 kmq. e 1,290,000 abitanti. Totale: 839,000 kmq. e 240,000 abitanti.

L'archeologo L. Boat ha scoperto presso le rovine di Abido un cu- rioso cimitero di animali, specialmente di ibis e di altri uccelli sacri. Scavando sotto una strada antichissima, il Boat trovò molte giarre di terracotta conte- nenti numerosi ibis mummificati, falconi, serpenti, topi campagnoli e gatti. Le loro mummie erano avvolte in lunghe striscio di tela di lino, adorne di vari disegni in nero ed azzurro. Non lontano dal cimitero degli uccelli fu sco- perto anche un cimitero di animali domestici contenente numerosi cani di razze diverse. Quella caritatevole dama francese che, or fa qualche anno, lasciò parecchie migliaia di lire per costruire a Parigi un cimitero per i cani, ebbe dunque lontanissimi precursori nell'Egitto.

E morta teste a Volosca, in Istria, la contessa Adele Del Mistro,. di ori- gine italiana, lasciando erede della sua sostanza 600,000 corone il comune di Volosca che è amministrato dai croati. I parenti della contessa hanno impu- gnato il testamento sostenendo che la defunta ha lasciato quella somma al Comune per pressioni d'interessati.

Nella Svizzera esistono, fra grandi e piccole, trenta fabbriclie di cioc- colata. Di queste trenta fabbriche, tre assorbono circa i due terzi della produzione svizzera. L'esportazione della cioccolata svizzera ha raggiunto nel 1912 fr. 51,547,447, contro fr. 44,171,213 nell'anno precedente. Calcolandosi il consumo interno, la produzione della cioccolata nella Svizzera si aggira in- torno ai 75 milioni di franchi. L'esportazione della polvere di cacao e della pasta di cioccolata da fr. 2,939,792 nel 1911 è passata a 3,685,258 fr. nel 1913. L'aumento totale dell'esportazione dei prodotti dell'industria della cioccolata svizzera ha raggiunto in un solo anno la cifra di fr. 9,121,700.

A Nicopoli nell'Epiro, città fondata da Augusto presso il promontorio d'Anzio, sono state esplorate ben 80 tombe, e frutto delle ricerche fu una grande quantità di gioielli d'oro, fiale, lampade ornate di eleganti figure in rilievo, oltre ad un ingente numero di altri minuti oggetti.

Durante alcuni lavori di restauro nella Chiesa parrocchiale di Mal- vaglia (Valle di Blenio), si scoprirono sotto il pavimento i ruderi di un'anti- chissima chiesa ; muri con reliquie di affreschi, archi, tombe, ecc. L'Ufficio cantonale ticinese preposto alla conservazione dei monumenti storici sorveglia i lavori.

Il Museo delle arti decorative ed industriali di Bruxelles ha fatto di recente l'acquisto di un piccolo arazzo istoriato tessuto di lana, seta e argento, e rappresentante la Conversione di Sant'Uberto. L'autore di questo arazzo appartenne probabilmente aUa Scuola di Rubens.

Si è scoperta in una colonia tedesca dell'Africa una nuova pietra pre- ziosa. Essa è stata chiamata Beliador ed ha delle proprietà assai curiose. Di giorno ha un brillante magnifico color giallo oro ed alla luce artificiale riflessi verdi intensissimi. Sette di queste pietre sono state donate dall'Impe- ratore Guglielmo all'Imperatrice. È difficile dire ora il valore che possono avere queste pietre preziose; ma, data la loor rarità, è possibile che esse rag- giungano un altissimo prezzo.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 503

SPIGOLATURE.

In questi giorni si trova a Londra l'inventore del cinematografo parlante, il signor Eugenio Lauster, che sta eseguendo gli ultimi esperimenti per perfe- zionare la sua scoperta prima di permetterne l'adozione nei teatri. Ad una prova eseguita in un cinematografo londinese fu invitata la stampa che potè constatare la perfetta sincronizzazione dell'azione cinematografica e delle parole pronunciate dagli attori. E inutile entrare nei dettagli della inven- zione, anche perchè l'autore mantiene su di essa il più grande segreto, ma praticamente si può dire che il cinematografo parlante è costituito da una film della larghezza doppia delle consuete, la parte destra della film riproduce l'immagine, la parte sinistra riproduce i suoni. Siccome immagini e suoni sono stati fissati nello stesso tempo con un processo inventato dal Lauster e sono fissate sulla stessa film, la riproduzione è assolutamente perfetta. Le onde lumi- nose che passano attraverso la parte della film registrante i suoni sono pro- iettate su di una piccola intelaiatura, di una composizione sulla quale l'in- ventore conserva assoluto segreto, e che vibra per l'azione delle onde luminose riproducendo i suoni che vengono intensificati da un apparecchio speciale.

11 sistema è estremamente ingegnoso e di assoluta praticità. Il Lauster si è garantito con speciali brevetti contro ogni possibile violazione del suo segreto, e le rappresentazioni cominceranno fra poco.

Il mercato della seta in Tripoli è assai importante, dato il largo im- piego che si fa di tale prodotto nella fabbricazione dei baraccani. In Tripo- litania vengono molto usati i baraccani di seta dalle donne agiate musulmane ed israelita. Prima della guerra, la produzione di questi tessuti era abbastanza rilevante; tanto che, solo a Tripoli, se ne confezionavano da 7.000 a 7.500 al- l'anno per un valore di circa ps. 1,250,000, pari a lire 290,000. Un buon terzo di questa produzione veniva esportata a Bengasi. In Tripolitania vengono altresì fabbricati dei baraccani con cascame di seta, chiamati bab-el-roman ed usati solamente dalle giovani spose beduine. Le loro dimensioni sono di m. 1.40 per 3.70, non oltrepassano un chilogrammo di peso e costano, in media, da

12 a lo lire l'uno. Prima della occupazione si calcolava un'annua produzione di circa 5.500 di questi baracani per un complessivo valore di circa 70.000 lire.

L'aumento generale dei generi di prima necessità, secondo una pub- blicazione del Board of Trade di Londra, è stato del 25 % e non accenna ad arrestarsi. Fra molte spiegazioni che si danno all'aumento continuo dei prezzi dei commestibili e dei generi di prima necessità, vi è la seguente: I negozianti di commestibili hanno notato una certa tendenza nella massa della popolazione a comperare tutti le stesse cose e cioè lo stesso pezzo di carne o la stessa varietà di legumi o la stessa qualità di frutta, di modo che i prezzi correnti sul mercato sono oggi ridotti di piìi del 50 % in confronto del numero 0, portata dei consumatori 20 anni fa. La naturale conseguenza di questa co- stante ricerca di un limitato numero di generi è stato il loro rapido aumento di prezzo. Per esempio, le classi operaie si nutriscono quasi esclusivamente di bistecche o di costolette di montone e non usano far bollire il costato come usavano nel passato, perchè ciò implica tempo, cura e vigilanza, mentre la costoletta è preparata in 5 minuti. Così nessuno piìi usa neUe famiglie operaie i legumi essiccati, come lenticchie, fagiuoli, fave, ceci, che una volta costi- tuivano la base dell'alimentazione.

504

LIBRI

PERVENUTI ALLA DIREZIONE DELLA « NUOVA ANTOLOGIA »

Corso elementare storia dell'arte, di Giulio Carotti. Voi. II. Parte II.

L'arte regionale italiana nel medio Evo, con 553 incisioni. Milano, 'Hoepli. L. 10.

Corso elementare di storia dell'arte, di Giulio Carotti. Voi. Il, Parte III. - L'apogeo dell'arte italiana nel Me- dio Evo, con 591 incisioni. Milano, Hoepli. L. 12.

Pagine dantesche di Corrado Ricci.

Città di Castello, Lapi, pag. 146. L. 1.60.

Famiglia e Città secondo la mente di Dante. L'esilio, saggi di Giulio Salvadori. Città di Castello, Lapi, pag. 117. L. 2.

Letteratura e patria negli anni del- la dominazione Austriaca di Giuseppe BiADEGO. Città di Castello, Lapi, pag. 420. L. ,3.50.

Leon Battista Alberti e i libri della Famiglia di Enrico Aubel. Città di Castello, Lapi, pag. 117. L. 2.

Abbozzi di Filosofia umana di Na- tale CiFARELLi. Bari, Società Tip. Ed. Barese, pag. 204. L. 5.

La maschera della saggezza di Car- lo Baccari. Cassino, Società Tip. Ed. meridionale, pag. 112. L. 2l

Giovanni Boccaccio: l'uomo e l'ar- tista di Giorgio Arcoleo. Firenze, Sansoni, pag. 40. L. 1.

(( Fiammetta )> di Giovanni Boccac- cio di Vincenzo Crescini. Firenze, Sanscni, pag. 39. L. 1.

L'adolescente ed altre novelle di Mi- chele Mastropaolo. Firenze, Bem- porad, pag. 200. L. 2.50.

Di una curva degli sposi e coscritti ancdfabeti di Roberto Olmo. Tori- no, Unione Tip. Ed. Torinese, pag. 34.

Per lu (( Dante » di Sereno Loca- telli Milesi. Bergamo, Stab. Ti- po-Litografico Fratelli Bolis, pag. 18.

Tre stadi di Bernardo Chiara per Giovanni Faldella. Verolengo, ti- pografia Reali, pag. 29. L. 0.40.

Ad Alberto Guglielmotti, ode di Giuseppe Branca. Roma, Stab. ti- pografico « Aternum », pag. 8.

Catalogo di libri italiani della li- brerìa Sperling et- Kupfer di Milano, pag. 160.

PUBBLICAZIONI UFFICIALI.

Ministero di Agricoltura, Indu- stria E Commercio - Annali di Sta- tistica - Sessione febbraio 1813. Roma, Bertero, pag. 249.

Ministero delle Finanze. Azien- da dei tabacchi. Relazione e bilancio industriale per l'esercizio dal luglio 1911 al 30 giugno 1912. Roma, Ti- pografia Coop. Sociale, paig. 275.

Resoconto del III Congresso delle cooperative agricole. Roma, 20-21,

22 settembre 1912. A cura della Lega Nazionale delle Cooperative. Mi- lano, pag. 176.

Kaec est illa Neapolis... a cura del CuMUNE DI Napoli. Napoli, Offi- cine Arti Grafiche F. Giannini, pag. 94.

Società Romana Tramways-O'mni- Bus. Progetto di massima per la sistemazione e il completamento della rete tramviaria di Roma. Roma, ti- pografia Bracony, pag. 56.

PUBBLICAZIONI TAUCHNITZ. Ciascun volume L. 2.

Erica by Mrs. Henry De la Pa- sture. Voi. 4433.

An Average man by Robert Hugh Benson. Vols. 4434-4435.

Man and Superman by Bernard Shaw. Voi. 4436.

The way of ambition by Robert Hichens. Vols. 4437- 4438.

Direttore-Proprietario: MAGGIORINO FERRARIS

Raffaello Messini, Besponsahile

BOHA. stab. Cromo-Lito-Tipografloo Armai i & Stein - Piazzale Villa Umberto 1. Boha.

UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO

SUL BOCCACCIO

Pubblico qui tutto intero nell'originale italiano del Foscolo, come io l'ho ritrovato oggi, l'articolo uscito in inglese col titolo di « Boc- caccio », nel London M agazine del giugno 1826, poco più di un anno prima della morte dell'Autore. Come ebbi già ad accennare (1), questo articolo, escluso dall'edizione Le Monnier delle Opere fosco- liane, e non mai stampato in Italia, fu recentemente riprodotto dal prof, Francesco Viglione nel testo inglese dell'ignoto traduttore del London Magazine [2]. Del testo italiano, lo studioso Professore mo- strò di non conoscere altro che quelle prime pagine, manoscritte nella Labronica di Livorno, ch'egli inserisce, con più di una scorre- zione, nella sua nota all'articolo stesso.

Questo « Boccaccio » che, come appare dal titolo inglese : « lUu- strations on the Novels {sic) of Boccaccio», appostovi di propria mano su questo m.anoscritto (3), l'Autore voleva nominato «Illu- strazioni sulle Novelle del Boccaccio », rappresenta l'ultima espres- sione di ciò che il Foscolo pensò e ripetutamente scrisse sul Deca- merone.

Nelle brevi mie note al testo, indicherò la corrispondenza che ho trovato fra questo scritto del Poeta e gli altri suoi sul Boccaccio, e che mi ha aiutato a ricostruirlo fedelmente, mentre ne leggevo la traduzione nel London Magazine. Converrà tener presente che quegli articoli che furono pubblicati tra le opere del nostro Autore sotto il nome di « Discorso quarto e Discorso sesto sulla lingua italiana » (4), e dai quali, come qui resulterà chiaro, son tolti diversi passi di que- sto, benché pronti nel 1825 per essere tradotti in inglese nella Euro- pean Review (5), non vi uscirono mai, e che può parer logico e giusto che nel 1826 egli li adoperasse per compome un altro.

(1) Vedi Nuova Antologia, 16 luglio 1913.

(2) Viglione F., Scritti vari iiiediti di Ugo Foscolo. Livorno, Giusti, 1913, pag. 115.

(3) Apografo con correzioni autografe, nella Biblioteca Labronica di Li- vorno, voi. XXVIII, pag. B-] . La nota autografa che il Foscolo pose sul mano- scritto stesso: <( N. B. This paper would suit best Betrospective Beview », mostra il suo desiderio di vederlo stampato in questo periodico.

(é) Foscolo U., Opere edite e postume, a cura di F. Orlandini ed E. Mayer. Firenze, Felice Le Monnier, 1850, voi. 4, pag. 194-215 e 237-260.

(.5) V. Lettera di U. F. a Mr. Edgard Taylor, da Gundimore, 30 giu- gno 1825, nelle sue Opere cit., voi. 8, pag. 171.

33 , Voi. CLXVII. Serie V 16 ottobre 1913.

600 UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO

Come poi i due nominati « Discorsi » e anche quello stampato come « Discorso quinto sulla lingua italiana » (1) derivino dal suo Discorso storico sul Testo del Decamerone, uscito a Londra nel 1825 (2), quale introduzione al « Decamerone di Messer Giovanni Boccaccio » pub- blicato presso W. Pickering (3), apparirà evidente dalle mie note alla quarta edizione di esso Discorso storico ch'io sto preparando.

Eugenia Levi.

ILLUSTRAZIONI SULLE NOVELLE DEL BOCCACCIO

Fra (4) i libri più spesso ripubblicati dopo l'invenzione della stampa, e che probabilmente non cesseranno di moltiplicarsi nell'età nostra e nell'avvenire, pochi, se pur taluni, s'incontreranno che per rarità e quantità di edizioni e cure perpetue di critici, ed eleganza tipografica avanzino le novelle del Boccaccio. Una sola copia d'alcune delle loro antiche edizioni viene allo volte pagata a prezzo che baste- rebbe a procacciare una utile collezione di libri sufficiente ad un uomo di lettere. Un'altra n'è uscita da poco in qua, abbellita da di- segni dello Stoddart {sic)\ e per quanto merito abbia l'artista, a noi, considerando la tendenza morale del libro, parrebbe meglio di non parlarne, e lasciarla in cura de' dilettanti di eleganze bibliografiche. Ma nelle illustrazioni storiche che la precedono abbiamo incontrato assai notizie curiose, tanto piìi quanto sono al tutto nuovissime, benché riguardino un autore ed un libro famoso da quasi oggimai cinque secoli.

L'esame critico del Decamerone considerato come opera lette- raria, viene esposto dall'autore delle illustrazioni sotto nuovi punti di vista. Forse, gli entusiasti del merito del Boccaccio, i suoi fieri censori, saranno soddisfatti de' termini a' quali egli riduce la questione. Ma la ira de' litiganti contro al giudice che vorrebbe acque- tare le loro contese, non é poca prova dell'equità della sua sentenza. Le cagioni della celebrità del Decamerone in queste illustrazioni sono tracciate per entro la storia politica e religiosa d'Italia; e illustrate d'aneddoti sconosciuti a tanti de' nostri compilatori di nuove e vec- chie curiosità letterarie, che sono curiose e nuove solo perchè chi le copia da libri altrui le raffazzona come apocrife circostanze atte a procacciarsi l'ammirazione e la credulità di chiunque legge

(1) Foscolo U., Op. cit., voi. 4, pag. 216-236.

(2) La seconda edizione di questo Discorso storico uscì a Lugano presso G. Ruggia e C. nel 1828, la terza a Firenze nel 1850, nel terzo volume delle Opere cit. di Ugo Foscolo, da pag. 3-81, ma tutte queste edizioni sono ora esaurite.

(3) Per particolari su questa edizione, abbellita da un ritratto del Boccaccio inciso dal Worthington e da dieci incisioni di Aug. Fox su disegni del norto pittore Th. Stothard, si veda il mio articolo <( Una edizione del Decamerone di Messer Giovanni Boccaccio curata da Ugo Foscolo » nella Bibliofilia di Fi- renze, settembre 1913.

(4) Di qui fino a « rappresentazioni di forti » seguo esattamente il testo del manoscritto della Labronica, il quale dopo (( forti » s'interrompe. (E. L.).

UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO 507

per ozio. Finalmente nelle illustrazioni dinanzi a noi, vediamo osser- vato più addentro il cuore e la mente d'un autore celebre, di cui naturalmente ci facciamo un'idea consentanea al suo libro; e sco- priamo, non senza maraviglia, che il carattere del libro era opposto del tutto al tenore della vita di chi lo scrisse.

Quanto al merito delle novelle considerate come lavoro di genio, il loro pregio maggiore consiste nella varietà (i) degli umani carat- teri che vi sono descritti. L'autore seppe adattare mirabilmente il suo stile a principi, ed a matrone, ed a giovinetti, e a fanciulle, ed a frati e a furfanti, senza mai esagerare, e se le fisonomie de' suoi per- sonaggi non hanno forza d'espressione, non mancano mai d'esat- tezza e di grazia, e fanno illusione appunto perchè l'autore non pare che si sforzi mai di produrla.

A' critici suoi devoti pur nondimeno pare che il Boccaccio sia narratore più nobile di qualunque della storia antica : e più potente di Cicerone e di Demostene nelle dicerie de' suoi personaggi : e più tragico di Eschilo e d'ogni tragico nella rappresentazione di forti anime lottanti contro a passioni e sciagure; e più arguto di Luciano a deridere. Ma lodi siffatte sentono di fanatismo. Il Boccaccio, senza esser sommo in alcuna di tante guise di stile, seppe trattarle felice- mente pur tutte : il che non incontra a verun altro, o a rarissimi.

Nondimeno Mr. Ginguené, uno dei critici più eleganti e più ce- lebri dell'età nostra, giudica che il Boccaccio, avendo avuto sotto gli occhi la storia di Tucidide e il poema di Lucrezio, abbia emulato le loro doti diverse in guisa che gli venne fatto di superarli, e de- scrisse la peste, da storico, da filosofo e da poeta (2). Se il Boccaccio vedesse l'uno e l'altro di quegli scrittori non sappiamo dirlo: ad ogni passo bastava il latino, il quale segue di passo in passo Tucidide. Molta parte dell'italiano sembra parafrasi, non pure di avvenimenti originati per avventura e in Atene e in Firenze dalla medesima epi- demia, ma ben anche di riflessione e di minute particolarità, nelle quali è improbabile che gli scrittori concorressero a caso. Il merito della descrizione della pestilenza nel Decamerone non risulta così dallo stile che raffrontato a quello di Tucidide e di Lucrezio è freddissimo - come dal contrasto degl'infermi e de' funerali e della desolazione nella città, con la gioia tranquilla e le danze e le cene e le canzonette e il novellar della villa. In questo il Boccaccio, quando anche avesse imitato la narrazione, l'adoperò da inventore. Bensì, guardando ciascuna descrizione da sé, la pietà e il terrore prorom- pono insistenti dalle parole del Greco; e s'affollano, ma senza con-

(1) Di qui fino a « diporto » il testo segue quello del Discorso quarto sulla lingua italiana, nelle Opere di Ugo Foscolo, cit., voi. (pag. 195, 1. 22, 199^ 1. 5), salvo in queste prime parole, in cui il Discorso dice: « e tanto più quanto la qualità diversa di cento novelle e la varietà degli umani caratteri che vi sono descritti, porsero occasioni all'autore di applicare ogni colore e ogni stile alla lingua, e farla parlare ed a matrone e a furfanti e a fantesche e a ton- surati ed a vergini, ed a chi no? onde in questo il Boccaccio è scrittore unico forse. A' critici suoi devoti... ecc. ». Questo testo poi, salvo poche modificazioni, corrisponde a quello del Discorso storico sul Testo del Decamerone da pag. lxxi 1. 15 a pag. Lxxvii 1. 2 dell'edizione Pickering di Londra, da pag. 94 1. 22 a pag. 101 1. 16 in quella Ruggia di Lugano, e da pag. 56 1. 16 a pag. 60 1. 17 in quella Le Monnier di Firenze. (E. L.).

(2) Ginguené, Histoire liti. d'Italie, tom. Ili, pag. 87 e seg.

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fondersi, da che ei procede con l'ordine che la natura diede al prin- cipio, al progresso e agli effetti di tante calamità. Radunando cir- costanze due volte più che il Boccaccio, le dipinge energicamente in pochissimi tratti, che tutti cospirino simultaneamente a occupare tutte le facoltà dell'anima nostra. Il Boccaccio si sofferma a bell'agio di cosa in cosa pur a sfoggiarle con quel suo pennelleggiare che da" pittori si chiamerebbe piazzoso; e le amplifica in guisa da far sospet- tare ch'egli esageri. « Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di 'molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quan- tunque da fededegno udito V avessi ». E non gli basta a Di che gli occhi miei {siccome poco davanti è detto) presero, tra Valtre volte^ un così fatta esperienza... nella via pubblica » (1).

Vero è che Tucidide narra con maggior efficacia, perchè n'ebbe esperienza più certa « Ho patito di quel morbo anch'io, e l'ho ve- duto patire da altri »; (2) ma s'astiene da ogni esclamazione retto- rica, e da professioni di verità. La tempra diversa de' loro ingegni e la diversità de' loro studi gli ammaestrava a disegnare e colorire i medesimi fatti in due maniere affatto diverse. Le arti meretricie dell'orazione, che il Boccaccio derivò con ammirazione dai retori romani, non erano ancora fatturate da Isocrate e da que' parolai, celebrate in Atene all'età di Tucidide, ond'è il men attico fra gli Ateniesi, perchè modellava il suo dialetto materno sovra la lingua universale e schiettissima discesa da Omero, la quale non fu con- gegnata a mosaico di dialetti diversi, com'è generale opinione, ma fu studiata da poeti e da storici a infondere qualità letteraria a' dia- letti delle loro città, che scrivendoli riuscissero più agevoli a tutta la Grecia; e perchè quella lingua primitiva era nazionale e vivente, 1 dialetti acquistavano decoro per essa, e non perdeano vigore. Il Boccaccio modellando l'idioma fiorentino su la lingua morta de' La- tini, accrescevagli dignità, ma gli mortificava la nativa energia. Fi- nalmente Tucidide adopera i vocaboli quasi materia passiva, e li co- stringe a raddensare passioni, immagini e riflessioni più molte che forse non possono talor contenere; ond'ei pare quasi tiranno della sua lingua. Or il Boccaccio la vezzeggia da innamorato. Diresti ch'ei ve- desse in ogni parola una vita che le fosse propria, bisognosa altri- menti d'essere animata dall'intelletto; e però a poter narrare intera- mente, desiderava lingua d'eloquenza splendida e di vocaboli eccel- lenti feconda (3). La loro eccellenza gli era indicata dall'orecchio, ch'egli a disporli nella prosa avea delicatissimo. Certo è che l'esteriore e permanente beltà d'ogni lingua è creata da' suoni, perchè sono qua- lità naturali e le sole perpetue nelle parole. Tutte altre qualità le ri- cevono dal consenso dell'uso, che è spesso incostante, o dalle modifi- cazioni dissimili di sentire e di pensare degli scrittori. Non però è meno vero che quanto maggior numero di parole concorre a rappre- sentare il pensiero, tanto minore porzione di mente umana tocca ne- cessariamente a ciascuna d'esse, bensì la loro moltitudine, per la va- rietà continua de' suoni, genera più facilmente armonia. Quindi ogni stile composto più di suoni che di significati, s'aggira piacevole in-

(1) Introduzione.

(2) Tucidide, lib. II, 48 ult.

(3) Fiammetta, lib. IV.

UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO 509

tomo alla mente, perchè la tien desta, e non l'affatica. Ma se l'armonia compensa il languore, ritarda assai volte la velocità del pensiero, e il pensiero acquistando chiarezza dalle perifrasi, perde l'evidenza che risalta dalla proprietà e precisione delle espressioni. fatti scrit- tori risplendono e non riscaldano, e, dove sono passionati, sembrano più addestrati che nati all'eloquenza; perciò il lettore non può per- suadersi che mai sentano quanto dicono : e narrando, descrivono e non dipingono; vien loro mai fatto di costringere la loro sentenza in un conflato di fatti, ragioni, immagini e affetti, a vibrarla quasi saetta che senza fragore fiamma lasci visibile il suo corso in un solco di calore e di luce, e arrivi dirittissima al segno. Bellissimi scrittori pur sono nel loro genere; non però vediamo come altri possa ammirare in essi riunite in sommo grado le doti dello stile de' filo- sofi, degli storici e de' poeti. Sono doti dissimili, o che noi c'ingan- niamo, da quelle del Boccaccio; e n'è prova che il loro abuso le fa degenerare in difetti al tutto contrari. Tucidide ti affatica, imponen- doti di pensare senza riposo; e il Boccaccio forse (1) t'annoia come chi non rifìna di ricrearti con la musica. È stile ad ogni modo felicemente appropriato a donne briose e giovani innamorati, che seggono novel- lando a diporto.

Gli antiquari italiani (Black letter scholars) (2) hanno frugato ne' libri d'ogni biblioteca ed archivio, a scoprire gli autori antichi e gli aneddoti che somministrarono al Boccaccio la materia delle sue novelle. E se il genio consiste piuttosto nell'invenzione de' fatti, che nella novità e nell'arte d'esporli, il Boccaccio non sarebbe scrittore degno del nome d'originale. Ma per questa ragione sarebbero da tenersi per copiatori tutti i tragici, senza eccettuare Shakespeare, perchè fondarono l'azione de' loro drammi sopra circostanze e per- sone descritte già dagli storici. Le prime origini de' fatti de' drammi e delle novelle sono alla critica di poco momento. Importa bensì di osservare i miglioramenti e i progressi che ogni grande scrittore fa fare a quel dipartimento della letteratura nel quale è stato più for- tunato. Nel Medio Evo i novellatori (story tellers) erano stipendiati a rallegrare gli ozi e le mense de' grandi, e talvolta il narratore di novellette aveva titolo d'uflQciale di corte. Il mestiere di raccontarle agevolò il modo e l'esercizio di scriverle anche in que' tempi barbari ne' quali i principi appena sapevano leggere. I primi ineleganti fra' saggi primitivi della lingua italiana nascente, per quanto riguarda la prosa, sono da incontrarsi in questo genere di composizioni : la seguente novella fu scritta cento e più anni innanzi l'età del Boc- caccio.

« La Damigella (3) tanto amò Lancialotto ch'ella venne alla morte, e comandò che quando sua anima fosse partita dal corpo, che

(1) il testo del manoscritto nella Labronica ricomincia qui. (E. L.).

(2) Le parole inglesi fra parentesi sono quelle che il Foscolo indicava al traduttore come le meglio rispondenti all'italiano. (E. L.).

(3) Di qui fino a « vedere » il testo segue nuovamente quello del Discorso quarto (pag. 201, 1. 25 202, 1. 18) che corrisponde interamente a quello del Discorso storico, cit., salvo nelle prime parole, che qui dicono: «Tanto amò costei Lancialotto». (Ediz. Pick., pag. lxi 1. 24 lxiii I. 2. Ed. Le Monnier, pag. 49-50, 1. 12). Ometto d^ora innanzi, come superflue, le citazioni delle pà^ gine dell'edizione di Lugano, in tutto eguale alle altre e più difficile a tro- varsi. (E. L.).

510 UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO

fosse arredata una ricca navicella, coperta d'un vermiglio sciamito con un ricco letto ivi entro, con ricche e nobili coverture di seta, ornato di ricche pietre preziose; e fosse il suo corpo messo in su questo letto, vestito de' suoi più nobili vestimenti, e con bella corona in capo, ricca di molto oro e di molte ricche pietre preziose; e con ricca cintura e borsa. Ed in quella borsa aveva una lettera dello infrascritto tenore. Ma in prima diciamo di ciò che va dinanzi alla let- tera. La Damigella morio del mal d'amore : e fu fatto de lei ciò ch'ella aveva detto della navicella sanza vela, e sanza remi, e sanza ninno sopra sagliente; e fu messa in mare. Il mare la guidò a Gamalot, e ristette alla riva. Il grido fu per la Corte. I Cavalieri, e Baroni dis- montarono de' palazzi; e lo nobile Re Artù vi venne: e meraviglian- dosi forte molti, che sanza ninna guida questa navicella era così apportata ivi. Il Re entrò dentro; vide la Damigella, e l'arnese. aprire la borsa, trovaro quella lettera. Fecela leggere, e dicea così. A tutti 1 Cavalieri della ritonda manda salute questa Damigella di Scalot, siccome alla miglior gente del mondo. E se voi volete sapere perchè io a mio fine sono venuta, ciò è per lo migliore Cavaliere del mondo e per lo più villano, cioè Monsignore Messer Lancialotto de Lac, che già noi seppi tanto pregare d'amore, ch'elli avesse di me mercede. E così, lassa, sono morta per bene amare, come voi potete vedere » (1).

Se (2) fosse piaciuto al Boccaccio di abbellire ed allungare per via di molta varietà di circostanze, di passioni, e caratteri, e di ricchezza di stile questo racconto, com'ei pur fé' di que' molti ch'ei derivò da' romanzi, ei di certo si sarebbe giovato mirabilmente del nuovo modo di morire adottato dalla giovinetta, e le avrebbe disposte e colorite in maniera da conferire più verosimiglianza alla bizzarra invenzione. Se non che forse, volendo troppo descrivere la fanciulla morta vestita a nozze, e il cadavere ramingo nel mare senza certezza di sepoltura, e far parlare la giovinetta morente confortandosi della speranza di manifestare al mondo che il Cavaliere non riamandola la lasciava perire, la rettorica avrebbe raffreddata la fantasia del lettore, e spar- pagliate tutte quelle immagini, e quegli affetti che escono a un tratto, spontanei dalla schietta ripetizione delle parole senz'arte. La Dami- gella w,orìo del mal d'amore, e fu fatto de lei ciò che ella aveva detto della navicella sanza vela, e sanza remi, e sanza ninno sopra sa- gliente; e fu messa in mare. L'aridità di quasi tutti que' primi narra- tori è talor compensata dalla libertà alla quale essi lasciano la mente del lettore a sentire e pensare da sé.

Avendo sin qui trasunto dalle illustrazioni dinanzi a noi quanto ci è sembrato importante ad apprezzare nel loro giusto valore il merito delle novelle come opera letteraria, procederemo ad accen- nare storicamente le cagioni che per tanti secoli le fecero riguardare e adottare come l'unico modello di stile, e il solo codice grammati- cale in Italia. Questo è fenomeno che fino ad oggi non è stato spie- gato mai. L' autore morì senza, non che sperarsi, pure desi- ci) Novelle antiche, lxxxi.

(2) Di qui sino a « pensare da se » segue il testo del Discorso quarto citato (pag. 203 1. 4-24) che, salvo una variante, corrisponde a quello del Discorso sto- rico cit. (nell'ediz. Pick., pag. lxiii, 1. 3-20; nell'ediz. Le Mounier, pag. 60, 1. 13-32). (E. L.).

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derare che il suo Decamerone gli sopravvivesse. Il suo autografo non s'è mai ritrovato, e da quanto diremo fra poco intorno al suo carat- tere, esciranno indizi fortissimi ch'egli l'abbia distrutto da sé. Un giovine amico suo, otto o dieci anni dopo la sua morte, lo trascrisse con esattezza scrupolosissima, confessando egli a ogni modo che la copia di cui si serviva era piena di scorrezioni. Ma anche questo esemplare mezzo autentico restò smarrito per quasi due secoli. Frattanto, dopo l'introduzione della stampa, gli esemplari si moltiplicarono con errori e mostri (?) d'ogni maniera, derivati in parte da manoscritti di tristi copiatori, e parte accumulativi per ne- gligenza degli stampatori, quando la loro arte era tuttavia nella sua infanzia. Ma dall'età del Boccaccio sino a Lorenzo de' Medici e al Pontificato di Leone X la lingua italiana s'era imbarbarita in guisa che pareva perduta per i letterati italiani, e oggimai da più d'un secolo scrivevano tutti in lingua latina, perciò che aveva regole certe ed era comune a tutta l'Europa. I critici di quell'epoca illustre adope- rarono in ogni modo a ridurre la lingua parlata dagli Italiani in lingua letteraria atta a scriversi ed essere intesa da tutta la na- zione, e nella (1) penuria d'autori, che somministrassero osservazioni ed esempi, o di principj che insegnassero un giusto metodo, ricor- sero di comune consentimento alle novelle del Boccaccio : vi trova- rono parole evidenti, native ed elegantissime, artifìcj di costruzione, periodi musicali e diversi generi di stile, e forse per allora non avreb- bero potuto ideare espediente migliore a tante difficoltà. Tuttavia (2) la massima e la pratica de' letterati di quell'età consistevano non tanto a ricavare un metodo dalle osservazioni, quanto a imitare puntual- mente, servilmente, puerilmente gli scrittori che parevano eccel- lenti. In poesia italiana copiavano il Petrarca e cantavano santamente d'amore. In latino imitavano Virgilio e Cicerone e scrivevano pro- fanamente di cose sacre. Così la -dottrina di ristringere tutta una lingua morta nelle opere di pochi scrittori fu più assurdamente appli- cata alla lingua viva degli Ftaliani; e i loro critici quasi tutti con- vennero non doversi attingere alcun esempio da veruna poesia fuor- ché dal Canzoniere amoroso del Petrarca (3). Quindi i Protestanti pigliarono argomento ad imputare a que' letterati pochissimo ri- guardo a' costumi e niun senso di religione. La prima accusa é esa-

(1) Di qui fino a « difficoltà » il testo segue quello del Discorso sesto cit. (pag. 241 1. 21-28) che corrisponde, con qualche modificazione, a quello del Discorso storico sopra citato. (Ed. Pick., pag. lxix, 1. 22, - lxx, 1. 3; Ed. Le Mounier, pag. oo, 1. 9-16). (E. L.).

(2) Di qui fino ad « assurdissima » il testo segue quello del medesimo Di- scorso sesto (pag. 241, 1. 31,-242, 1. 15) che dalle parole « Così la dottrina » fino a « secolo d'Augusto » corrisponde quasi sempre, ma con varie trasposizioni a quella del Discorso storico. (Ed. Pick. pag. xvn, 1. 17, - xix, 1. 3; Ed. Le Mou- nier, pag. 18, 1. 22, - 19, 1. 14). (E. L.).

(3) Qui il Discorso sesto (pag. 242, 1. 8-12) aggiungeva, come nel Discorso storico, « per Laura ; alcun esempio di prosa da scrittore o scritto veruno, fuorché dalle novelle del Decamerone. Con quanto frutto della religione non pretendiamo di dirlo; ma la letteratura purtroppo discese efiFeminatissima a molte generazioni ». Queste parole si trovano anche nel manoscritto labronico, ma furono omesse nella traduzione stampata. (E. L.).

612 UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO

gerata, ed era comune a tutta l'Europa, l'altra è assurdissima (1), ma prevale nelle Università protestanti sino d'allora e per lunghissima tradizione dopo la testimonianza de' primi riformatori di religione, i quali, a fine di spianare per tutti i modi la via alle loro dottrine, imputavano miscredenza a tutti gli uomini dotti della Corte di Leone X. Pur (2) se non tutti, moltissimi sentivano la fede che pro- fessavano, ed erano talor combattuti da superstizioni contrarie. Alcuni facevano voto di non leggere mai libri profani : ma non potendo lun- gamente reggere al voto, ne impetravano l'assoluzione dal Papa Altri per non contaminare le cose cristiane con l'impura latinità de' frati e de' monaci, avrebbero voluto poter tradurre la Bibbia col frasario del secolo d'Augusto.

Siffatta dottrina di scrivere sempre imitando servilmente gli au- tori eccellenti, non impedì che alcuni uomini di genio, e segnata- mente gli storici, intraprendessero di narrare con originalità, dignità ed energia di stile le vicende della patria. Ma erano scrittori viventi, la lunga celebrità e la prescrizione del tempo avevano per anche accordato a loro d'essere considerati come modelli. A questa ragione che prevale nella letteratura d'ogni gente ed età, s'aggiungeva che la libertà di tante Repubbliche in Italia, nate dalla barbarie del Medio Evo, cadeva nel secolo piìi ricco e più splendido della lette- ratura, e gli storici che erano stati spettatori ed attori delle sciagure e dell'avvilimento della loro patria, scrivevano in guisa da non pia- cere ai loro tiranni. Quindi il Machiavelli, il Guicciardini, il Segni ed altri che oggi sono studiati come artisti di stile, allora non erano letti se non da pochi; le loro opere appena si conoscevano manoscritte, e, se talora erano pubblicate, si mutilavano, e le edizioni intere delle loro storie non furono stampate se non due secoli e piìi dopo ch'essi le avevano composte.

Così le novelle del Boccaccio tennero il campo e giovavano tanto quanto agl'Italiani, non foss'altro perchè ispiravano abborrimento e disprezzo contro la ipocrisia e la tristizia dei frati.

Alcuni (3) giovani fiorentini congiuravano contro il Duca Ales- sandro, bastardo di Clemente VII, a cacciarlo (4) dalla loro patria, a fine di costituirla di nuovo in repubblica. Palliarono la ragione delle loro adunanze sotto colore di emendare col confronto di manoscritti e con critico studio il testo delle novelle del Boccaccio (5) e ne derivò

(1) Di qui fino a « Leone X » il Discorso sesto citato (pag. 242, 1. 15-20) ha invece, come nel Discorso storico, « Erasmo imputavali di sacrilegio, e deri- deva a un'ora l'ignoranza fratesca e la latinità non cristiana in Italia, a fine di spia,nare in tutti i modi la via alla Rifonna, nelle Università di Germania e d'Inghilterra: e giudicavali secondo la tradizione della miscredenza de' pre- lati di Leone X ». (E. L.).

(2) Di qui fino ad « Augusto » il teiste segue di nuovo quello del Discorso sesto citato (pag. 242, 1. 20-27) eccetto per le parole <( facevano voto » che là, come nel Discorso storico, si leggono « votavansi ». (E. L.).

(3) Di qui fino ad « antipapisti » il testo segue quasi sempre quello del Di- scorso sesto, cit. (pag. 246, 1. 10 - pag. 247, 1. 11). (E. L.).

(4) Il testo del Discorso sesto diceva : « Ippolito ed Alessandro bastardi de' Medici per cacciarli... ». (E. L.).

(5) Il testo del Discorso sesto citato, continuava così : « La perdita degli autografi sino dall'età dell'autore e le scorrezioni e alterazioni incorse nelle edizioni ch'erano uscite sino allora di quel libro, giustificavano la loro intrapresa letteraria e celavano i loro disegni politici. Da que' giovani derivò... » (E. L.).

UNO. SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO 613

la celebrata, edizione (1) dei Giunti del 1527, tenuta oggi fra le più rare curiosità de' bibliotecarj, e serbata sino d'allora come vanto della Repubblica fiorentina, perchè quasi tutti que' giovani combattevano contro alla Casa de' Medici e morirono nell'assedio di Firenze, o in esilio. Poscia il libro divenne più raro, perchè stava a rischio d'essere mutilato 0 inibito per amore dei frati (2). Leone X faceva commedia dell'Abate di Gaeta coronandolo d'alloro e di cavoli sopra un elefante. Adriano VI, che gli succedeva, era stato claustrale e i cardinali della sua scuola proposero poco dopo che i colloquj di Erasmo e ogni libro popolare ingiurioso al clero, si proibissero. A Paolo III parve che la minaccia bastasse, s'adempì per allora, se non che (3) il Decamerone, già tradotto in più lingue, allegavasi dagli antipapisti. La Chiesa (4) cessò dal minacciare e cominciò attualmente a proi- bire la ristampa e la lettura delle novelle del Boccaccio, e ninno po- teva nemmeno possederne una copia senza licenza del suo confessore. La Riforma de' Protestanti provocò la Riforma cattolica, che rimas-e meno apparente, benché fosse maggiore e certamente più stabi^c^. I Protestanti la derivarono dalla libertà d'interpretare gli oracoli dello Spirito Santo con l'aiuto dell'umana ragione; 'e i Cattolici non am- mettevano interpretazioni, se non le inspirate da Dio rappresentato dai Papi. Quale delle due dottrine provvedesse meglio alla religione è questione difficile (5). Forse ogni religione troppo scandagliata dalla umana ragione cessa d'esser fede; e ogni fede inculcata senza il consentimento della ragione, degenera in cieca superstizione. Ma quanto alla letteratura, la libertà di coscienza preparava in molti paesi la libertà civile, e di pensare e di scrivere; mentre in Italia l'ob- bedienza passiva alla religione accrebbe la politica tirannia, e l'avvi- limento e la lunga servitù degli ingegni. La riforma de' Protestanti mirava principalmente a' dogmi; e la cattolica unicamente alla disci- plina: e però anche le opinioni intorno alla vita e a' costumi degli ef'clesiastici furono allora represse, come tendenti a nuove eresie. li Concilio di Trento vide che ì popoli incominciando in Germania a dolersi che i frati fossero bottegai d'indulgenze, si ridussero a rinne- gare il sacramento della confessione, il celibato degli ecclesiastici, e il Papa. Adunque fu provveduto, che. per qualunque allusione in vituperio del clero, i libri si registrassero nell'Indice de' proibiti, e che il leggerli, o il serbarli senza licenza di Vescovi, fosse peccato in-

(1) Di qui il testo del Discorso sesto segue queUo del Discorso storico Ed. Pick. pag. xxiv, 1. 25 - xxv, 1. 16; Ed. Le Mounier, pag. 23, 1. 23 - 24, 1. 10. (E. L.).

(2) Il testo del Discorso sesto cit., continuava: (( TI Bembo mentre era se-, gretario di Leone X si travaglia.va molto mal volentieri in cose di frati, perchè vi trovava sotto, molte volte, tutte le umane scelleratezze coperte da diabolica ipocrisia e Leone X faceva, eco. ». (E. L.).

(3) Il testo del Discorso sesto diceva: « Ma chi sapeva che il Decamerone già tradotto in più lingue, allegavasi dagli antipapisti, s'affrettò a provvedersi dell'edizione fiorentina, la quale, anche da' dotti, che non ne facevano gran caso per l'emendazione critica, era creduta schietta d'inavvertenze di stampa. Ma neppur questo era vero ». (E. L.).

(4) Il testo segue ancora, fino a « innanzi la stampa », con una sola va- riante, queUo del Discorso sesto cit. (pag. 247, 1. 27 - 248, 1. 28). (E. L.).

(o) Qui il testo del Discorso sesto, invece di « è questione difficile », diceva (( non so ». (E. L.).

514 UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO

sieme e delitto, da punirsi in virtù dell'anatema. Le leggi canoniche furono d'indi in poi interpretate e applicate da' tribunali civili, pre- sieduti da' Padri Inquisitori della regola di San Domenico, i quali, inoltre, per consentimento de' Governi italiani, furono investiti del- l'autorità di esaminare, alterare, mutilare e sopprimere ogni libro, antico o nuovo innanzi la stampa.

La «dominazione (1) spagnuola in Italia, il lungo regno di Fi- lippo II, tirannissimo fra' tiranni, e il Concilio di Trento avevano im- posto silenzio al Genio. Cosimo I (2), Granduca di Toscana, teneva a' suoi stipendi uno o due scrittori di storie della Casa de' Medici, faceva raccogliere da per tutto le copie delle altre, scritte con meno adulazione, e le ardeva. Era dunque il Decamerone, anche per poli- tica necessità, predicato da' letterati come unico regolatore della lin- gua scritta in prosa. Per cancellare ogni memoria di libertà, Cosimo I soppresse tutte le Accademie istituite in Toscana quando le città si reggevano a Repubblica (3), e non si mostrò indulgente fuorché a una adunanza di grammatici che divennero poi piuttosto famosi che il- lustri sotto il nome di Accademici della Crusca. E allora mentre l'ozio della servitù intiepidiva le passioni; l'educazione commessa a' Gesuiti sfibrava gl'ingegni; i letterati divenivano arredi di Corti spesso straniere; le Università eranO' pasciute dai Re, e l'Inquisizione le udiva; allora l'Accademia della Crusca incominciò ad insigno- rirsi della letteratura italiana, e adottare le novelle del Boccaccio per unico testo regolatore d'ogni dizionario e grammatica, e d'ogni teoria filosofica intorno alla lingua.

Non però (4) gli Accademici trovarono che il Decamerone fosse mai stato stampato genuino e corretto in guisa ch'essi potessero gio- varsene a fondarvi la lingua. Dopo più anni di consulte e d'emenda- zioni e di raffronti di manoscritti, prepararono un'edizione che si spe- ravano di consacrare come oracolo in tutte le questioni grammaticali.

(1) Di qui fino a « imposto silenzio » il testo segue quello del Discorso sesto, cit. (pag. 252, 1. 27-29), il quale poi, invece che <( al Genio », continua « in Italia anche all'eloquenza degli scrittori in latino », come nel Discorso storico (Ed. Pick, xeni, 1. 26 - xcv, 1. 2 ; ed. Le Monnier 72, 1. 4-24), al quale tutto que»sto passo corrisponde in parte fino a <( lingua ». (E. L.).

(2) Di qui fino a « intorno alla lingua » il testo segue, modificato in un punto, e con diverse trasposizicoii, quello del medesimo Discorso sesto, cit. (pag. 250, 1. 8-26). (E. L.).

(3) Di qui il Discorso sesto, cit., invece che continuare colle due righe seguenti fino ad «Accademia della Crusca», continuava: <( e venne a dilatare Ja giurisdizione della fiorentina, ch'ei disprezzava. Compiacevasi di vederla sgrammaticare a bell'agio, e udirsi paragonare a Cosimo, Padre della Patria, ne da questo in fuori fece verun favore alle lettere ». (E. L.).

(4) Di qui fino a « deputarono » il testo del Discorso sesto cit. (pag. 248, 1. 29 - 249, 1. 4) che segue in parte quello del Discorso storico (xli-xliii), diceva: (( Tuttavia l'Accademia della Crusca temeva che nelle edizioni fino allora uscite, ed erano quasi sessanta, l'emendazione dei critici forestieri, così allora chiama- vano gli Italiani, la fama delle Novelle del Boccaccio e la purità deUa lingua fossero guastate. Patteggiarono dunque di potere, non foss'altro, stamparne una mutilata in Firenze, e confidavano che l'utilità della loro emendazicoie grammaticale sarebbe compenso equivalente allo strazio che il ferro e il fuoco del Santo Uffizio farebbero de' tratti più comici delle novelle. Cosimo I, per agevolare il trattato, deputò... », eco. (E. L.).

UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO 515

Ma il Santo UflBcio vi s'interpose ferocissimo, permetteva che fosse stampata. Patteggiarono dunque di poter, non foss'altro, stamparne una mutilata. I Granduchi di Toscana, a fine di agevolare il trattato, deputarono (1) a negoziare co] Maestro del Sacro Palazzo in Vati- cano alcuni uomini dotti, uno de' quali era vescovo, e quasi tutti erano ecclesiastici in dignità (2). Il Maestro del Sacro Palazzo, frate domenicano e Spagnuolo, si aggregò di proprio diritto alla loro adu- nanza. Scrivendo le sue opinioni in lingua bastarda, dava consiglio anche in virtù della sua autorità di grammatico; non però venivano a conclusione. Finalmente un Domenicano italiano e di natura più facile (3) vi s'interpose; e, per essere stato confessore di Pio V, im- petrò -da Gregorio XIII che il Decamerone non fosse mutato se non in quanto bisognava al buon nome degli ecclesiastici. Così le badesse e le monache innamorate de' loro ortolani furono mutate in ma- trone e damigelle, e i frati impostori di miracoli, in negromanti; e i preti adulteri delle comari, in soldati; e in virtù di cento altre tras- formazioni e mutilazioni inevitabili, riuscì agli Accademici, dopo quattr'anni di pratiche, di pubblicare in Firenze il Decamerone, illu- strato da' loro studi. Ma Sisto V ordinò che anche quest'edizione, benché approvata dal suo predecessore, fosse infamata nell'Indice. Fu dunque necessario avere ricorso a nuove storpiature ed interpo- lazioni; e quindi sopra fatti testi gli Accademici della Crusca mi- nuzzarono ogni parola e ogni sillaba delle novelle : magnificarono ogni minuzia; e descrissero ogni cosa sotto nomi di ricchezze, pro- prietà, grazie, eleganze, figure, leggi e principj di lingua.

Questi aneddoti, che i nostri limiti ci stringono a condensare, e spogliare delle circostanze che li rendono molto più comici, parreb- bero invenzioni satiriche, se l'autore delle illustrazioni non giustifi- casse la sua narrazione di passo in passo con autorità e documenti. Dalle varie riflessioni ch'ei ne desume, trasceglieremo quest'unica : che la lingua letteraria degli Italiani era fondata sopra una raccolta di novelle non troppo edificanti, appunto nel tempo che la lingua let- teraria degli Inglesi fondavasi sulla traduzione delle Sacre Scritture.

Tanta fortuna d'un'opera composta dall'autore per passatempo, fece dimenticare gli altri suoi meriti letterari e più utili alla civiliz- zazione dell'Europa: e lasciò sovra il suo nome un'infame celebrità che ha sempre impedito di conoscere il vero carattere dell'anima sua. Le illustrazioni che abbiamo sott'occhio, osservando alcuni tratti della vita del Boccaccio, interessano tanto più quanto ci guidano ad esaminare il cuore umano. .

Certo (4), se il Petrarca avesse dovuto spendere a scrivere in prosa italiana la decima parte della fatica ch'ei diede a' suoi versi,

(1) Di qui fino a « principj di lingua » il testo segue quello del Discorso sesto citato (pag. 249, 1. 4-34) omettendone qualche riga. (E. L.).

(2) Qui il testo del Discorso sesto cit. continuava : <( e fra gli altri Vincenzo Borghini, illustratore delle antichità toscane, e scrittore non pedantesco ; ma i nomi degli altri sono men noti alla storia letteraria d'Italia che ai Fasti Conso- lari, com'ei li chiamavano, delle loro Accademie. Le nuove alterazioni al Deca- merone mandate a Roma erano quasi sempre lodate, ma non bastavano. Il Maestro », ecc. (E. L.).

(3) Il testo del Discorso sesto citato aggiungeva fra parentesi « (chiamavasi Eustachio LocateUi, e morì vescovo in Reggio) ». (E. L.).

(4) Di qui fino in fondo segue il testo del Discorso quarto cit. (pag. 208, 1. 29, 215). (E. L.).

616 UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO

©gli non avrebbe potuto scrivere tanto. Questa ragione contribuì, fra le molte altre, ad indurlo a comporre ogni sua cosa in latino; ma l'allettamento principale era la gloria allora ottenuta da' poeti latini, e appena conceduta dagli italiani nelle Università e nelle Corti de' principi. E nondimeno tutti sapevano poco o nulla intorno all'essenza e alla qualità della lingua latina. Coluccio Salutati era dottissimo, e in gran fama fra' letterati di quell'età; e pronunziò che il Boccaccio, nelle sue poesie pastorali scritte in latino, non era inferiore che al solo Petrarca, ma che il Petrarca era superiore chi il crederebbe? a Virgilio (1). Erasmo per altro, critico d'altri tempi e d'altra mente, osservando la letteratura del secolo decimoquarto, scema al- quanto le lodi date al Petrarca e ne aggiunge al Boccaccio, giudican- dolo scrittore di latinità meno barbara (2).

Il danno che il Petrarca, per la troppa ambizione di scrivere in latino, recò alla sua lingua materna, fu compensato da lui con l'infa- ticabile e generosa perseveranza a ridonare all'Europa gli avanzi più nobili dell'ingegno umano. i monumenti dell'antichità, le serie delle medaglie, alcun manoscritto di romana letteratura fu tra- scurato da lui, ogni qualvolta ei potè sperare di toglierlo alla dimen- ticanza e farlo trascrivere a moltiplicarne le copie. S'acquistò la gratitudine di tutta l'Europa, ed é tuttavia meritamente chiamato primo ristoratore della classica letteratura. Pur nondimeno al Boc- caccio spetta non solo una porzione, ma la metà, a dir poco, di questa lode. Non ignoriamo che la nostra opinione sarà al primo tratto cre- duta paradossale, avanzata per ambizioni di novità, ma le prove, che anche brevissimamente possiamo dame, faranno invece meravigliare i nostri lettori della scarsa retribuzione che il Boccaccio ottenne fino ad oggi, malgrado i suoi giganteschi e felici tentativi a disperdere l'ignoranza del Medio Evo.

La mitologia allegorica, e quindi la teologia e la filosofìa meta- fìsica degli antichi, gli aneddoti della storia di secoli più recenti, e fino anche la geografìa, furono illustrati dal Boccaccio ne' suoi voluminosi trattati in latino, oggi poco letti, ma allora studiati da tutti come le prime e le migliori opere di solida erudizione. Il Pe- trarca non sapeva di greco; e quanto in quel secolo la Toscana e l'Italia conobbero degli autori di quella lingua, era dovuto tutto al Boccaccio. Andò in Sicilia, dov'erano ancora alcuni avanzi d'un gran dialetto, e maestri che lo insegnavano; e poi ricorse a due precettori di maggior merito, Barlaamo e Leonzio. Sotto questi due studiò per più anni; e per Leonzio ottenne dalla Repubblica di Firenze che si fondasse una cattedra di lingua greca. Senza il Boccaccio, i poemi d'Omero si sarebbero rimasti sconosciuti ancora per lungo tempo. La guerra di Troia si leggeva nel romanzo famoso sotto nome di Storia di Guido delle Colonne, dal quale derivarono poi tante altre pazze invenzioni ed erudizioni apocrife de' tempi Omerici, e diversi drammi simili al Troilo e Cresside di Shakespeare, e ne' quali non v'é un'unica circostanza che si possa riscontrare nelVIliade e nel- VOdissea. Aggiungasi a ciò, che l'impresa domandava abbondanza di aanaro posseduto dal Petrarca; e il Boccaccio non conobbe mai che

(1) CoLUTius Saltjtattjs, Epist. ad Bocc.

(2) Ciceronianus.

UNO. SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO 617

angustie di fortuna e di vita. Vi supplì con laboriosissima industria, e si assoggettò al lavoro meccanico, contrario all'indole del suo genio, e copiò i codici di sua mano. Leonardo Bruni, il quale era già noto innanzi che il Boccaccio morisse, vedendo tutta quella moltitudine di autori e di esemplari trascritti da lui, ne rimase maravigliato (1;. Benvenuto da Imola, che fu discepolo del Boccaccio, racconta a que- sto proposito un curioso aneddoto, che noi riferiremo, perchè non sappiamo che possa leggersi fuorché nella grande collezione degli scrittori del Medio Evo del Muratori, ed è una di quelle opere inac- cessibili alla più parte de' nostri lettori (2). Arrivando il Boccaccio all'Abbazia di Monte Gassino, celebrata per l'immenso numero di manoscritti che vi giacevano sconosciuti, richiese umilmente d'essere introdotto nella biblioteca del Monastero. Un monaco rispondendogli asciuttamente: «Andate, sta aperta», gli additò un'altissima scala. Il buon Boccaccio trovò mutilati e laceri quanti libri apriva, e ge- mendo che tante fatiche de' grandi uomini dell'antichità fossero ca- .dute in potere di tristi padroni, si partì lacrimando. Scendendo la scala incontrò un altro monaco e gli richiese : « come mai que' libri fossero così tronchi?». «Noi delle pagine scritte in pergamena di que' volumi » rispose il monaco freddamente « facciamo coperte di libricciuoli di preghiere, e li vendiamo per due, tre, e talvolta anche per cinque soldi ». « Or va », conclude il discepolo del Boc- caccio, « va tu, povero letterato, a romperti il capo per comporre de' libri! ».

Tali erano gli ostacoli che quest'uomo benemerito ha dovuto superare a promuovere col Petrarca la civilizzazione del suo secolo; ed era debito di tarda ma religiosa giustizia il inanifestare che in questa parte la porzione di ricordanza riconoscente ch'ei s'aspetta- va dai posteri fu assegnata quasi tutta al suo più fortunato con- temporaneo. Non concluderemo la nostra osservazione senza pagare un altro debito alla memoria del Boccaccio. La inverecondia delle Novelle e la loro tendenza morale non può giustificarsi, atte- nuarsi : ma tanti scrittori che, segnatamente in Inghilterra, ripetono quasi d'anno in anno la censura meritata dal Boccaccio, pare che non sappiano come, quasi subito dopo che egli ebbe pubblicate le sue Novelle, se ne pentì. Purtroppo (3) lo studio della lingua e dello stile fu pretesto a gratificare l'immaginazione dei lettori di fantasie alle quali tutti propendono, e sono costretti a dissimularle, le Novelle del Boccaccio avrebbero predominato su la letteratura se fos- sero state più caste. L'arte di additare cose bramate e vietarle, adula insieme ed irrita le passioni, e giova eflBcacemente a governare la coscienza e de' fanciulli e de' barbati e dei prudentissimi vecchi. Onde i Gesuiti, non tosto s'insignorirono delle scuole d'Italia, adot- tarono quel libro, mutilato come avevano fatto de' poeti licenziosi latini; ma i passi mutilati sono i più desiderati, appunto perché m*ìii- cano, e l'immaginazione della gioventù vi supplisce idee peggiori che non avrebbero forse trovato ne' libri, se fossero interi.

(1) Leonardo Aretino, Vita del Petrarca, in fine.

(2) Benveuutus Imolensis apud Muratorittm, Script. Ber. Ital.

(3) Di qui incominciando : « Purtroppo » invece che « Spesso » e fino a <( vecchi », il Discorso quarto segue il testo del Discorso storico. Ed. Pick, pag. CI, 1. 15 - cn, 1. 2. Ed. Le Mounier, pag. 77, 1. 20-28. (E. L.).

518 UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO

I Gesuiti (1), per adonestare l'uso ch'essi facevano del Decame- rane ne' loro collegi, indussero per avventura il Bellarmino a giusti- ficare nelle sue controversie le intenzioni dell'autore. Forse anche interpolarono quegli argomenti, come altri parecchi, nelle edizioni del Bellarmino, ogni qualvolta le sile dottrine non si uniformavano agli interessi dell'Istituto (2). Inoltre è probabile che favorissero un libro famoso per le invettive contro alle regole claustrali, e scritto, assai prima ch'essi nascessero, ad occupare la giurisdizione di tutti! Anzi, il Bellarmino perdonò meno assai che il Boccaccio alla fama delle vecchie congregazioni; e benché altri, a difenderle, chiami quel suo Gewitus Collimò ae apocrifo, fu stampato a ogni modo mentr'ei viveva, fra l'opere sue. Ma quanto al Boccaccio, egli innanzi di mo- rire avea fatto ammenda del suo poco riguardo a' costumi. Sentì che gli uomini lo credevano reo, ed espiò le Novelle con pena più grave, forse, che non era la colpa; e direste che le scrivesse indotto dal pre- dominio d'una donna, forse quella ch'ei poco prima rinnegò, diffa- mandola nel Laberinto d'Amore. Comunque si fosse, scongiurava i padri di famiglia a non permettere il Decamerone a chi non aveva per anche perduto la verecondia. « Non lasciate leggere quel libro; e se pur è vero, che voi per amor mio piangete nelle mie afflizioni, ab- biate pietà, non foss'altro, dell'onor mio».

Inoltre con rimorsi di coscienza, che fanno più onore alla pro- bità della sua vita, che alla forza della sua mente, fece ammenda anche a' frati e alle loro superstizioni ch'egli aveva derise. Ninno (3) forse, dopo Aristofane, ricavò tanto amaramente il ridicolo dalla sfac- ciataggine dei predicatori ignoranti, e dalla credulità d'ignoranti ascol- tatori, quanto il Boccaccio con le Novelle, dove si mostra implacabile a' frati. In una d'esse introduce uno di que' vagabondi a vantarsi dal pulpito d'avere pellegrinato in tutti i paesi che sono e non sono nel globo terracqueo, a trovar reliquie di santi, e farle adorare per denari al popolo nelle chiese. E nondimeno il Boccaccio, morendo, diceva d'aver da gran tempo cercato per sante reliquie in diverse parti del mondo, e le lasciava alla devozione del popolo in un convento di frati. Quella sua volontà trovasi scritta in un testamento in ita- liano, tutto di suo pugno, e in un altro in latino fatto molti anni dopo, da un notaio, e approvato e sottoscritto dal Boccaccio poco prima ch'egli morisse. E in tutti e due i testamenti lasciò ogni suo libro e manoscritto al suo confessore, e al convento di Santo Spirito, perchè i frati preghino Dio per l'anima sua, e i suoi concittadini potessero leggerli e copiarli per loro ammaestramento. È dunque più che probabile che fra quei libri non vi fosse copia veruna del Deca- merone; e dal seguente aneddoto, che rimase quasi ignoto, perchè è da desumersi da libri che pochissimi leggono, apparirà che l'ori-

(1) Di qui fino a « onor mio » il Discorso quarto segue, salvo due leggere varianti, il testo del Discorso storico, ed. Pick., pag. cii, 1. 3 - cui, 1. 9; ed. Le Monnier, pag. 77, 1. ult. - 78, 1. ult. (E. L.).

(2) FuLiGATTXJS, in Vita Belìarmini.

(3) Di qui fino a (( convento di frati » il testo del Discorso quarto segue, con qualche variante e qualche aggiunta, quello del Discorso storico (ed. Pick, p. ix, 1. 20, - X, 1. 6; ed. L. M. pag. 13, 1. 6-15). (E. L.).

ì

UNO «CRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO 619

ginale manoscritto delle Novelle fu distrutto lungo tempo innanzi dall'Autore; e infatti non è stato mai possibile di trovarlo.

Verso (1) la fine dell'età sua, la povertà, che è più grave nella vecchiaia, e lo stato turbolento di Firenze, gli fecero increscere la vita sociale, e rifuggiva alla solitudine; ed allora l'anima sua generosa ed amabile era invilita e intristita da' terrori della religione. Vive- vano a que' due Sanesi, che poi furono venerati sopra gli altari. L'un d'essi era letterato e monaco certosino, e lo trovi citato dal Fa- bricio. Sanctus Petrus Petronus. L'altro era Giovanni Colombini, che fondò un altro ordine di frati, e scrisse la vita di San Pietro Petroni per divina inspirazione. I Bollandisti allegano che il manoscritto del nuovo Santo, smarritosi per due secoli e mezzo, capitò miracolosa- mente nelle mani d'un Certosino, che lo tradusse dall'italiano in latino, e nel 1619 lo dedicò a un Cardinale de' Medici. Forse il Co- lombini non ha mai scritto, e il biografo de' Santi nel secolo xvii ricavò le notizie de' miracoli, registrati nelle cronache e nelle altre me- morie del secolo xiv; e, per esagerare la conversione miracolosa del Boccaccio, pervertì una lettera del Petrarca, che nelle sue opere latine ha per titolo : De vaticinio morientium. Il beato Petroni, morendo, aveva infatti commesso, verso l'anno 1360, a un frate, d'intimare al Boccaccio che lasciasse da parte gli. studi, e s'apparecchiasse alla morte : e il Boccaccio ne scrisse atterrito al Petrarca, il quale ri- spose : « Fratel mio, la tua lettera m'ha riempiuto la mente d'orribili fantasie, ed io ieggevala combattuto e da grande stupore e da grande afflizione. Or come poteva io senz'occhi piangenti vederti piangere e ricordare la tua prossima mort€, mentre che io, non bene informato del fatto, attendeva ansiosissimo alle tue parole? Ma oramai che ho scoperta la cagione de' tuoi terrori, e ci ho pensato un po' sopra, non ho più malinconia, stupore. Tu scrivi come un non so chi Pietro di Siena, celebre per religione ed anche per miracoli, pre- disse a noi due molte sorti future, e per fede della verità ti mandò a significare alcune cose passate che tu ed io abbiamo tenute secrete ad ogni uomo; ed egli, che non ci ha mai conosciuti, fu mai conosciuto da noi, pur le sapeva, come s'ei ci avesse veduto nel- l'anima. Gran cosa è questa, purché sia vera. Ma l'arte di adonestare le imposture col velo della religione e della santimonia, é frequen- tissima e antica. Coloro che l'usano esplorano l'età, l'aspetto, gli occhi, i costumi dell'uomo; le sue giornaliere consuetudini, gli studi, i moti, lo stare, il sedere, la voce, il discorso, e più che altro le intenzioni e gli affetti; e derivano vaticinj ascritti ad inspirazione divina. Or s'ei morendo ti predisse la morte, anche Ettore in altri tempi la predisse morendo ad Achilie; e l'Orode V^irgiliano a Me- senzio; e il Oberamene di Cicerone ad Erizia; e Calano ad Alessandro; e Possidonio, l'illustre filosofo, morendo nominò sei de' suoi coetanei presti a seguirlo sotterra, e chi morrebbe prima e chi dopo. Non importa, il disputare per ora intomo alla verità ed all'origine di si- mili profezie; a te, quando pur anche codesto tuo spaventatore {terrifìcator hic tuus) ti pronosticasse il vero, importa l'affliggerti. Che? se costui non tei mandava a far sapere, avresti tu forse ignorato

(1) Di qui sino a « occhio tranquillo » il testo del Discorso quarto segue con leggere varianti, omissioni e trasposizioni il Discorso storico. (E. L.).

620 UNO SCRITTO INEDITO DI UGO FOSCOLO SUL BOCCACCIO

che non t'avanza molto spazio di vita? E s'anche tu fossi giovane, la morte non guarda ad età ».

Ma questo, tutti gli altri argomenti della lettera del Pe- trarca, che è lunghissima, l'eloquenza con la quale egli congiunge i conforti della religione cristiana alla civile filosofìa degli antichi, hanno potuto liberare l'amico suo da' terrori superstiziosi. Il Boc- caccio sopravvisse più di dodici anni al prognostico; e quanto più in- vecchiava, tanto più sentiva germogliare nel suo cuore, a guisa di spine, i semi sparsivi dalla nonna e dalla balia. Morì nel 1375, d'anni sessantadue, e non più che dodici o quattordici mesi dopo il Petrarca. pure il Petrarca guardava sempre in faccia la morte con occhio tranquillo. Tale era il carattere di que' tempi, e tale, sotto diverse apparenze, sarà perpetuamente la natura degli uomini.

Ugo Foscolo.

L'EVOLUZIONE DELLA PARTITURA VERDIANA

Sulla produzione di Giuseppe Verdi dal punto di vista stru- mentale poco è stato scritto, certamente per l'idea, in parte giusta, che la musica italiana in generale e la musica di Verdi in particolare abbian basata la loro potenza soprattutto sul canto vocale.

Non è il caso qui, in una rivista non tecnica, di tentare uno studio completo sulla strumentazione verdiana, che richiederebbe una esau- riente analisi e un copioso corredo di esempi musicali che qui non è possibile riprodurre. Mi limiterò perciò alle grandi linee, alle mie impressioni più vive e ai fatti più caratteristici; cercando tuttavia di disegnare in una linea organica e continua quella che è stata la evoluzione della strumentazione verdiana, particolar fenomeno questo nel fenomeno generale,- colossale e stupendo, della evoluzione artistica del Maestro, che presenta come tutti gli altri un magnifico graduale e costante progresso, dai primi tentativi del giovane ignaro, dal- VOberto, dal Nabucco fino alVOtello, al Falstaff, ai Pezzi sacri.

Per questa continuità ,di sviluppo dell'arte verdiana, nella quale non c'è anello che non si riconnetta con un anello anteriore, e per il suo ininterrotto ascendere verso la perfezione tecnica e formale, che essa raggiunge nell'ultimo periodo, lo studio ne presenta parti- colar interesse ed utilità : non c'è niente di più bello e attraente che il seguire in un grande spirito lo svolgersi e il progredire di esso verso un ideale e una mèta agognata; e non c'è niente di più istruttivo per coloro che coltivano la stessa arte, e lo stesso cammino, per quanto comportano le loro forze, voglion percorrere.

* # #

Nella musica di Verdi, come in tutta la musica che è veramente musica, la strumentazione non ha l'importanza predominante.

Non accada al lettore, perchè diciamo ciò, di confonderci con coloro i quali considerano la melodia, l'armonia, il contrappunto, la strumentazione, e che so io, come tante cose staccate e che si pos- sano scomporre e ricomporre a piacimento del compositore o del critico come tanti pezzi di un giocattolo; e che credono che il com- positore nel suo lavoro di creazione passi dall'una all'altra di esse successivamente e con taglio netto, e con quel dato ordine che si suole enunciare nelle scuole (che cioè egli prima « componga », poi armonizzi, poi contrappunti, infine strumenti). Per carità! Questo modo di concepire l'arte ripugna a tutto il nostro essere. L'opera d'arte, tanto nella mente dell'artista creatore come nella mente dello spettatore che la contempla, sorge e si presenta in una globalità si-

34 Voi. CLXVn. Serie V 16 ottobre 1913.

622 l'evoluzione della partitura verdiana

multanea e inseparabile, e che solo l'anatomico per comodità di studio può scindere in vari elementi, ma sempre in via provvisoria, con molta intelligenza, e senza perdere la chiara coscienza della natura e dello scopo della sua operazione, che è completamente estranea al fatto artistico, tanto creativo che recettivo.

Con tutto ciò è indubitato che ci sono delle musiche (special- mente moderne di nostra conoscenza) le quali in tanto esistono (ciò appare spesso evidentissimo) in quanto devono la loro origine a un passaggio o ad una combinazione di strumenti; in quanto sono frutto di un puro virtuosismo strumentale. Togliete queste musiche dal loro strumento o dalla loro strumentazione, esse sono distrutte. Poiché in esse lo strumento o la strumentazione son fine a stessi, non mezzi per esprimere qualcosa di più intimo e di più elevato.

Tale non è la musica di Verdi. La quale, eseguita anche con strumenti diversi da quelli per cui è scritta, non dico conservi inal- terata la sua bellezza, ma rimane sempre bella. Pregio questo che si potrebbe paragonare a quello che Rossini si dice esigesse per la melodia: che cioè essa fosse tale da non perdere nulla della sua bellezza, anche qualora venga privata di qualsiasi accompagnamento od armonia. Sul che molto dovrebbero meditare i giovani compo- sitori odierni.

Sebbene la strumentazione verdiana non arrivi mai ad essere fine a stessa e non raggiunga mai quello sviluppo elefantiaco e quella raffinatezza morbosa che son proprie di certe composizioni moderne (sviluppo e raffinatezza che non giovano anzi nuocciono all'effietto risultante del melodramma e specialmente del meloi- dramma italianamente inteso) pure essa occupa un posto ben di- verso nelle prime opere del Maestro e nelle opere ultime.

Nei lavori giovanili la strumentazione ha, tolta qualche rara eccezione relativa in ogni modo a qualche accenno rudimentale, un semplice ufficio di accompagnamento e di rinforzo delle voci : é una strumentazione convenzionale, trascurata, anodina. Negli ultimi la- vori invece essa, pure rimanendo sempre mezzo di espressione e non scopo, ha raggiunto un altissimo valore estetico e tecnico, tale che i nostri giovani musicisti possono e debbono prenderla a modello di perfezione: l'orchestra, trattata da mano maestra e che sa tutti i segreti e le risorse degli strumenti e tutte le finezze della scrittura, non serve più di accompagnamento, ma vive, palpita, si agita, si contorce col dramma.

E tra questi due estremi della strumentazione verdiana c'è tutta una gradazione di momenti intermedi, il cui esame, che offre un vivo interesse, mostra quanto studio e quanto amore il maestro po- nesse per elevarsi sempre più dalla sua primitiva ingenuità e roz- zezza.

Nella strumentazione verdiana io distinguerei tre periodi.

Il primo periodo, che si potrebbe chiamare infantile, che ab- braccia la sua produzione giovanile, nella quale l'orchestra non si solleva quasi mai dall'ufficio di accompagnamento, e palesa una grande povertà tecnica e un gusto che al nostro occhio (o meglio orecchio) appare assai discutibile. Una delle caratteristiche di questa

l'evoluzione della partitura verdiana 523

primitiva orchestra verdiana, caratteristica che veniva notata clanao- rosamente anche dai contemporanei, è l'abuso della grancassa e degli ottoni.

Sembra incredibile, ma nella sinfonia del Nabucco, che come ognun sa è tutt'altro che lunga, ci sono duecentoventisei colpi di gran- cassa. (Noto fra parentesi che nella sinfonia della Forza del Destino, che appartiene al periodo successivo della strumentazione verdiana, in cui questa mania di rumorosità andò scomparendo e scomparve fin dal Rigoletto i cui resoconti del tempo son pieni di elogi a tale proposito il numero dei colpi è ridotto a sessantaquattro: il raf- fronto mi è suggerito dal fatto che proprio in questi giorni ho dovuto dirigere le due sinfonie in una commemorazione verdiana). Mi vien pensato che nel preludio del Lohengrin c'è un solo colpo di cassa e piatti; e come e dove collocato!

Vorrei astenermi dal raccontare la storiella perchè è notissima, ma troppo opportuno cade qui ricordare il bisticcio che tirarono fuori al Nabucco quando fu rappresentato a Parigi : « ma questo, dissero, non è un Xabucodonos-or, è un Xabucodonos-cuivre ». E non avevano tutti torti, poiché in quest'opera, a cominciare dalla sinfonia, i trom- boni si associano anche ai punti più delicati del quartetto d'archi in cui noi non ci sogneremmo mai di farli sonare; e son ben poche le battute in cui gli ottoni tacciono.

Un'altra caratteristica di questo primo periodo della strumen- tazione verdiana son certi unisoni scoperti di oboe e clarinetto, così acidi e oggi tanto aborriti. Parrebbe che queste parti fossero scritte, come dicono i francesi, à défaut, per il caso che mancando uno dei due strumenti o essendo incapace uno dei due sonatori, il pas- saggio venga eseguito dall'altro, cioè dal clarino solo o dall'oboe solo. Di questi unisoni se ne trovano anche nel Trovatore: per esempio, nel piccolo ritornello che è interposto fra le due strofe della canzone della Zingara Stride la vampa; e nel racconto del tenore Mal reg- gendo alVaspro assalto, alle parole Quando arresta un moto arcano, sotto le quali l'entrata dell'oboe, che s'unisce alla melodia della voce e dei violini, dopo l'accompagnamento semplicissimo di quartetto che precede, è così toccante se eseguita dall'oboe solo, mentre è brutta se affidata all'unisono all'oboe e clarinetto, come è scritto.

Nella sinfonia del Nabucco c'è un esempio curioso di unione del clarinetto con l'oboe. Il motivo del celebre coro Va pensiero suIPali dorate si presenta in essa la prima volta cantato dal clarinetto con l'oboe all'ottava superiore; il che produce un impasto gradevole e per noi originale. Ugualmente interessante, e di effetto anche piìi caratteristico, è l'unisono della tromba e dell'oboe nelle note basse alla seconda ripresa dello stesso motivo.

Un'altra nota distintiva di questo primo periodo della strumen- tazione verdiana è l'abuso dell'ottavino, continuamente sfischiettante ai sette cieli.

Gli strumenti a fiato sono trattati con grande superficialità, e tenendo scarsissimo conto delle speciali esigenze tecniche di cia- scuno. Specialmente l'oboe viene spessissimo costretto a torturarsi, senza ragione e senza alcun effetto, con passaggi arduissimi di note basse e a saltare qua e con la massima disinvoltura per tutta la sua estensione come fosse un violino e come se non esistesse alcuna differenza fra i registri acuto, centrale e grave, il quale ultimo va

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trattato con tanta delicatezza. Si arriva a disattenzioni di questo ge- nere, codificate nelle partiture e nelle parti stampate : nell'accom- pagnamento della bellissima melodia Prendi, quesVè Vimmagine, nel finale ultimo della Traviata, il flauto vien spinto fino al sol sotto le righe; e nell'accompagnamento del Miserere nel Trovatore l'oboe fino al la bemolle ugualmente sotto le righe! Il che mi fa pensare a certi passaggi di Riccardo Strauss, nei quali egli scrive per un certo strumento una melodia che sorpassa la sua estensione, in modo che lo strumentista debba poi lasciare e sottointendere le note che non può eseguire, senza perdere però di vista la linea generale della frase. Ma il caso però è molto diverso.

Tali sviste di Verdi si giustificano però con il carattere di quei tali accompagnamenti : che si trovano, ripeto, negli ultimi atti del Trovatore e della Traviata, e vi occupano un posto affatto analogo sia come materialità tecnica, che come senso drammatico ed estetico. Il lettore deve avere ben presenti questi accompagnamenti, che sono caratteristici di Verdi sebbene non sarebbe forse difficile trovarne i precedenti : sono accordi ribattuti e staccati in ritmo singhiozzante di tutta l'orchestra compresi gli ottoni e gli strumenti a percussione, ma eseguiti col massimo pianissimo (Verdi lo raccomanda in una speciale nota). L'effetto è sommamente tragico. Si vede che Verdi era talmente invasato dall'idea di far sonare in questo accompagna- mento d'incubo tutti gli strumenti della sua orchestra, che non ha badato a spingere il flauto e l'oboe quattro o cinque note al disotto della loro estensione. Dei due accompagnamenti, ,che strumental- mente son perfettamente uguali, io preferisco quello della Traviata in cui l'alternarsi degli accordi inesorabili di tutta l'orchestra con il dolcissimo e semplicissimo accompagnamento legato dei soli archi sotto le parole Se una pudica vergine vi schianta l'anima. Un accom- pagnamento simile e in una situazione analoga è stato introdotto da Puccini nel secondo atto della Fanciulla del West.

Di altre caratteristiche parleremo poi, quando seguiremo per sommi capi l'evoluzione della strumentazione verdiana, in riguardo ai singoli gruppi di strumenti.

Il secondo periodo nella storia della partitura verdiana si po- trebbe chiamare di transizione, e abbraccia i diversi gradini a tra- verso i quali il Maestro, con lungo studio e grande amore, si andò a poco a poco elevando dalla primitiva infantilità e rozzezza fino a rag- giungere la meravigliosa perfezione e maturità degli ultimi anni. Sa- rebbe interessantissimo, ma ciò non è nell'indole e nelle possibilità di questo saggio, seguire passo passo questo elevamento: e sceverare quanta parte di esso sia dovuta alla esperienza e all'intuito personale del Maestro, e quanto all'influenza dei più grandi autori contempo- ranei specialmente stranieri, cioè V^agner, Meyerbeer, Gounod, Bizet. La stessa partitura di Rossini io credo in origine non fosse pro- fondamente nota a Verdi; il quale in seguito avrà preso a studiarla ricavandone grandi vantaggi. Come tarda in lui si manifesta l'in- fluenza classica tedesca : Haydn, Mozart, Beethoven non pare fossero principio noti a lui, come invece erano stati ben noti a Rossini, a Bellini, à Donizetti.

Il terzo ed ultimo periodo della strumentazione verdiana si po- trebbe chiamare della perfezione; Q, a cominciare dall' A^■rftì!, abbraccia roteilo, il Falstaff e i Pezzi sacri. In questo periodo la sua strumen-

l'evoluzione della partitura verdiana 525

tazione, oltre ad avere acquistato un valore estatico ed artistico supe- riore e un posto importantissimo nella economia del melodramma, ha raggiunto tecnicamente la massima finezza e perfezione, tale da poter reggere vittoriosamente il confronto con le migliori partiture straniere e da poter essere presa a modello sotto tutti gli aspetti.

*

Questo graduale differenziarsi della strumentazione di Verdi dalla giovinezza del Maestro fino all'apice della sua gloriosa carriera artistica, lo si può osservare con particolare interesse e profìtto in quella parte dell'orchestra che costituisce il fondamento delia mede- sima : cioè il quartetto d'archi.

Nelle prime opere di Verdi il quartetto manca, si può dire, di ogni traccia di polifonia. È trattato nelle solite forme convenzionali o di note ribattute, o di arpeggi, o di note tenute ma senza alcun mo- vimento di voci : per quest'ultima parte Verdi pare che non faccia altro che riprodurre col quartetto le reminiscenze del suo preludiare all'organo quando era maestro nella chiesa del paese natale (ricordo in proposito le poche battute, del resto così efficaci e suggestive, che aprono l'ultimo atto di Rigoletto). Quanta incertezza s'incontra nella c-isposizione delle parti, nell'uso dei bicordi spesso ineseguibili cor- rettamente, mentre con modificazioni solo leggere si sarebbe potuto ottenere un effetto di gran lunga migliore e più sicuro!

Con l'andar del tempo il quartetto di Verdi si ravviva, acquista ricchezza, sonorità, varietà, movimento. Da principio sono tentativi e conati scolastici : si osservi per esempio il pretensioso fugato che è incluso nella sinfonia della Forza del Destino. Ma poi la mano di- venta libera, e facile, e sicura. Ed è un interessantissimo documento in proposito il qxiartetto d'archi in mi minore, che il Maestro scrisse a Napoli mentre attendeva l'andata in scena di non ricordo quale opera, nel 1872; lavoro che dimostra l'attenzione che Verdi aveva rivolto a questo ramo della composizione musicale, e in cui sono ac- cennati e contenuti molti elementi stilistici che ritroviamo introdotti e sviluppati nelle opere posteriori, specialmente nel Falstaff.

Nelle ultime opere di Verdi il quartetto d'archi ha raggiunto il massimo grado di ricchezza, di finezza, di vigore, tanto sotto l'aspetto delle sonorità pittoresche, come della plasticità e squisitezza polifo- nica. Chi non ricorda il delizioso principio del terzo atto e il dolcis- simo finale dell' Azdfa? Quale delicatezza di buon gusto e quale legge- rezza e scioltezza di mano Verdi ha acquistato! Basta pensare al soa- vissimo ed elegantissimo accompagnamento déìVAve Maria nell'O- tello e del duellino tra Fenton e Nannetta del Falstaff. E in quest'ul- tima opera il quartetto d'archi ha raggiunto tale una snellezza, sicu- rezza e incisività di movenze, quale soltanto gli può essere infusa da un artista consumato conoscitore e maneggiatore dei suoi mezzi.

E osservando questo progresso continuo e magnifico di sicurezza, di ricchezza, di buon gusto, e confrontando le prime composizioni di Verdi con quelle dell'età matura, vien dato di riflettere che cosa possa l'educazione su chi è nato con ingegno, con animo e cuore di artista.

526 l'evoluzione della partitura verdiana

Gli strumenti a fiato (legni) nelle opere del primo periodo, oltre che per rinforzo meccanico nei pioni e come agenti melodici, sono usati da Verdi, secondo l'uso del vecchio melodramma italiano, per introdurre delle armonie tenute, in mezzo a degli accompagnamenti di quartetto. A coloro che sono seguaci di un'orchestra complicata nel melodramma, dirò che non si può immaginare come talvolta queste entrate semplicissime degli strumenti a fiato in mezzo a un movi- mento arpeggiato o pizzicato o ribattuto di quartetto siano espressive ed affettuose.

Potrei citare mille esempi : mi viene in mente l'entrata dei legni alla dodicesima battuta del preludio dell'atto quarto della Traviata. Specialmente certe note tenute dei corni sono efficacissime.

Quanto ai legni usati come agenti melodici Verdi non trascura di servirsi del timbro di ciascuno per esprimere .certi dati sentimenti e certe date situazioni. Gli strumenti cui egli attribuisce un valore espressivo particolare sono, secondo la mia impressione, il clarinetto e l'oboe. La voce del clarinetto parrebbe volesse esprimere il can- dore, la bontà, l'innocenza calma : ricordo i diversi punti in cui tale strumento è associato efficacissimamente alla figura di Leonora nel Trovatore. L'oboe parrebbe invece volesse cantare l'innocenza, la bontà ferita, offesa, lacerata ; si ponga mente ai celebri assolo annessi alV Addio del passato della Traviata e al Tutte le feste al tempio del Rigoletto.

Ma in queste opere l'uso dei legni appare primitivo e rudimen- tale se si paragona con quello che si ritrova nelle ultime opere del Maestro. Se si confronta il celebre preludietto per clarinetti e fagotti dell'atto quarto del Trovatore del resto così patetico e suggestivo con la introduzione deiratto quarto di^WOtello si vede a colpo d'oc- chio il grande progresso compiuto.

Come dato puramente tecnico e interessante perchè caratteri- stico del Maestro che, si vede, sentiva il bisogno di armonie nutrite nelle parti centrali e gravi dell'orchestra è da notarsi l'adozione da parte di Verdi, ^dlVOtello in poi, di quattro fagotti.

I corni, nelle opere più antiche, sono usati da Verdi con grande parsimonia e senza che formino parte assolutamente necessaria del- l'armonia. Tant'è vero che, dovendo adottare una orchestra limitata, si può benissimo nelle esecuzioni del Trovatore, della Traviata, del Rigoletto fare ameno del terzo e quarto corno; cosa che, per esempio, è più fastidiosa nelle opere di Donizetti. Un altro strumento che si può sopprimere senza danno è il secondo oboe : più sensibile, e anzi tale da rendere necessarie delle surrogazioni, è la soppressione del se- condo fagotto. Un ultimo strumento di cui si può fare a meno più con vantaggio che con danno nelle orchestre poco numerose è il terzo trombone, spesso segnato con note gravi di pessimo effetto e raddop- piante il cimbasso. Ho creduto non inutile registrare qui queste no- zioni da me apprese nella mia pratica di direttore d'orchestra.

Gli ottoni, e con essi i timpani, nelle prime opere verdiane sono adoperati puramente e semplicemente per marcare delle formule ritmiche ordinariamente di cadenza, che son le formule della mu-

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sica melodrammatica del tempo. Ma a parte i passaggi me- lodici di rinforzo del canto affidati alla tromba talvolta efficacis- simi — ci sono delle eccezioni. Ricordo, per esempio, la serie discen- dente di note gravi dei tromboni nel Trovatore sotto le parole della Zingara Mira la terribil vampa, ecc.; il mi grave dei tromboni e tim- pani nella stessa opera sotto le parole di Ferrando DelVempia strega; e nella Traviata quel sol trafiggente e inesorabile sulle parole di Vio- letta Digli che vivere ancor voglio (ultimo atto).

E bisogna notar questo che quando Verdi si trova con una situa- zione veramente drammatica e con un personaggio intensamente umano, anche nelle sue " opere più antiche la strumentazione si anima, e acquista forza, colorito, vigore. Per esempio, nel Trovatore la parte della Zingara è anche orchestralmente di non comune inte- resse : e che dire delle parti di Rigoletto e di Violetta, e che dire poi dell'aria di Filippo II nel Don Carlos, e delle scene più belle del- VAida?

A me preme soprattutto mettere in luce il Verdi genuino, il Verdi primitivo: ma è certo che questi pregi si sono andati in lui sempre più ingigantendo e generalizzando. Nel periodo di transizione e nel periodo di perfezione è tutta una serie magnifica di nuove vittorie ed affermazioni. ì^éìVOtello e nella Messa da Requiem specialmente, gli ottoni hanno assunto nella strumentazione un posto importantissimo e delicato.

E un progresso consimile si nota nell'impiego degli strumenti a percussione che, come accennammo, davano all'orchestra primitiva del Verdi un aspetto di banda da strapazzo. Nelle ultime opere si fa di essi un uso eminentemente artistico : ricordo solo i colpi pianis- simo di gran cassa che sono interposti fra la melodia cupa e miste- riosa dei contrabassi e il sommesso fremere delle viole nell'appari- zione di Otello all'ultim'atto.

L'arpa si può dire sconosciuta alle prime opere di Verdi; poi la si trova con ufficio di arpeggiamento romantico, per esempio, nella Forza del Destino; infine anch'essa penetra nella orchestra verdiana con tutta la infinita ricchezza delle sue seduzioni : nel Falstaff 1 suoni armonici sono impiegati con particolare bell'effetto.

Un altro rilievo da farsi, e che sta a dimostrare come il Maestro si sia lentamente orientato dopo un lungo stadio di incertezza e di inesperienza, è che gli strumenti nelle partiture verdiane prima di prendere la giacitura definitivamente adottata dal Maestro, che è la giacitura ordinaria delle orchestre moderne, passino per tutte le di- sposizioni possibili e per tutti i nomi possibili. Ho qui una partitura della sinfonia del Nabucco in cui i fagotti son collocati presso i trom- boni; una della Forza del Destino in cui i violini e le viole son messi all'antica in capo alla pagina, e i fagotti ugualmente accanto ai trom- boni. Il basso degli ottoni assume da una partitura all'altra i vari nomi di cimbasso, bombardone, oficleide, serpano, serpentone, prima di arrivare a quello definitivo di trombone basso.

Ma tutto ciò non fa che mettere in maggiore rilievo il magnìfico cammino, il magnifico superamento di stesso compiuto da Verdi : cammino e superamento che possono e devono essere ai nuovi artisti italiani di monito e di guida.

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Ed io chiudo questo mio breve cenno con un incitamento e un voto, incitamento e voto cui esso soprattutto mirava, poiché, ripeto, non ora mia intenzione e non sarebbe stato possibile, dato il carattere questa rivista, che io dessi un saggio compiuto sulla strumenta- zione verdiana.

E poi in questo campo le parole valgono molto poco: occorre ascoltare le musiche e studiare le partiture. A questo appunto è ri- volto il mio fervido voto e incitamento.

Ora fortunatamente non ci troviamo più nelle disgraziate condi- zioni di alcuni anni fa quando era difficilissimo poter avere fra le mani una partitura di Verdi : le biblioteche ne erano sprovviste; gli editori non le concedevano a nolo se non a condizioni gravose in modo che soltanto i direttori d'orchestra nelle loro contingenze pro- fessionali si trovavano in grado di prenderne visione.

Ora la benemerita Gasa Ricordi, che del patrimonio artistico di Verdi è così gelosa custode e così fervida divulgatrice, ha pubblicato in bellissima e nitidissima edizione e nel formato ridotto così gra- dito ai musicisti, le partiture deìVOtello, del Falstaff, e della Messa da Requieììi: seguiranno, per quanto mi consta, le partiture ÙBÌVAida e di altre opere. Questo avvenimento ha una incalcolabile importanza nelle vicende dell'arte musicale italiana. Intanto io formulo il fer- vido augurio che la Gasa Ricordi, esaurita questa serie delle parti- ture verdiane, prosegua nella via intrapresa e pubblichi anche le par- titure più importanti degli altri grandi autori italiani di melo- drammi: basta ricordare, per non andare più indietro del secolo scorso, Spontini, Rossini, Bellini, Donizetti. Abbiamo il coraggio di proclamare e spiegare le nostre glorie alla luce del sole; di difendere ad alta voce anche di fronte agli stranieri l'arte nostra così limpida, così schietta, così sorridente. E, invece di sgobbare esclusivamente sulle partiture tedesche, formiamo la nostra anima, educhiamo il nostro gusto sulle opere dei nostri grandi predecessori.

E questo fervido incitamento io rivolgo ai giovani musicisti ita- liani, come succo di questo mio modesto cenno sulla strumentazione verdiana: studiate profondamente le partiture di Verdi, ora che avete la fortuna di poterle avere facilmente a vostra disposizione. Quanti palpiti dell'anima vostra vi troverete espressi! Il vostro istinto di artisti troverà in esse un terreno mirabilmente propizio alla educa- zione e allo sviluppo. Questa è la via più sicura e più efficace per- chè.la via naturale per preparare il risveglio e la riaffermazione dell'arte italiana.

Domenico Alaleona.

LIBRETTISTI E LIBRETTI DI GIUSEPPE VERDI

I collaboratori dei grandi, qualunque sia la forma della loro collaborazione, vorrei paragonarli ai fratelli di latte di quei prin- cipi, che il destino sceglie per farli salire sul trono. Una tal quale parentela li unisce, perchè essi furono, anche per pochi giorni o per poche ore, nutriti dal medesimo seno; e nulla importa se l'uno non cambi la condizione sua di oscuro lavoratore della terra, e ascenda l'altro ai gradi più augusti della vita e della potenza sociale. Quel vincolo non s'infrange per mutar di casi o di fortune: e il re che abbia milioni e milioni di sudditi, risentirà talvolta un palpito di memore affetto per colui, che la consuetudine vuole si chiami fra- tello di latte.

Fratelli nel medesimo grado di Giuseppe Verdi furono i suoi librettisti : ma i due che seppero, più presto d'ogni altro, conqui- stare il cuore di lui, ebbero nome Temistocle Solérà e Francesco Maria Piave: e furono anche i primi che gli ammannirono libretti. Io conobbi il Solérà quando reduce dall'Egitto, dove aveva organiz- zata la Polizia del Kedive, ottenne un posto di Questore in Italia dopo una vita avventurosissima. Habent sua fata anche i poeti melo- drammatici. Lo conobbi in Firenze, Capitale provvisoria del regno, negli anni che precedettero gli a\Tenimenti del settanta. Dell'antica maschia bellezza fìsica, largitagli dalla natura, non rimanevano che traccie fuggevoli, tentate mvano di perpetuare con l'ingannevole tin- tura che non inganna nessuno, e con l'aria spavalda dell'uomo vis- suto in intimi rapporti con gli eroi e le eroine di tante opere verdiane.

Parlatore fecondo e piacevolissimo, inesauribile nel raccontare aneddoti, tornava volentieri e spesso a parlare di sé: e c-erti episodi della sua vita, che ripetuti oggi nel freddo racconto di un cronista non sarebbero accettati se non col benefìzio d'inventario, sentiti raccontare da lui, con quell'accento di profonda convinzione che esclude ogni sospetto di menzogna, incatenavano l'attenzione di tutti. Quando poi taluno mettesse in ballo il nome del Verdi, era come un invitare a nozze il Solérà: dalle cui labbra uscivano fiumi di parole per esaltare il genio del Maestro, e per dire corna della sua fastidiosa incontentabilità : dalla quale nascevano vicende alterne di guerre e di paci. «E il torto (mi diceva l'irascibile raccontatore) era sempre dalla parte del Verdi, perché librettisti come me, a parte la modestia, non ne troverà più nessuno finché campi. È un gran maestro, non dico di no, ma debole come una donnicciòla : fino ad accettare libretti da quell'asino del Piave... asino, sissignori, e non mi disdico; e da quell'imbroglione di Salvatore Cammarano, che

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per avere scritto il libretto del Trovatore meriterebbe a dir poco la galera a vita, preceduta da qualche tratto di corda».

E qui, preso l'aire, continuava a dir male dei poetucoli che si arrabattavano a scrivere per i maestri di musica, e mettevano al mondo dei mostri che Dio ne scampi e liberi.

« E Felice Romani? » gli domandai un giorno a bruciapelo.

L'inesorabile critico atteggiò le labbra a una espressione di be- nigno compatimento, poi disse :

« Il Romani ha qualche bella strofa: lui almeno è un uomo che sa fare i versi, ma gli manca l'intuito delle situazioni dramma- tiche. QuandO' non le trova bell'e fatte nei drammi e nei romanzi che riduce a libretti, perde subito le staffe. Vincenzo Bellini n'era contento: ma sapete perchè? perchè alle melodie belliniane occor- revano versi scorrevoli, con qualche bella immagine poetica: e il Romani riusciva a farglieli ».

A parte una certa crudezza di giudizi, forse il Solérà non aveva torto. Chi scriverà la storia del melodramma italiano nel secolo decimonono, dovrà pur tener conto di questo fatto : della preva- lenza che andò acquistando a poco a poco la musica sulla parola, e della condizione di assoluta inferiorità onde furono colpiti i libret- tisti. Nel secolo decimottavo, finché durò la sovranità ideale di Pietro Metastasio, al poeta e non al musicista era riserbato il posto d'onore : alla musica, commento obbligato della parola, non si dava che l'importanza d'una cosa accessoria. Ma brillò a un tratto di vivida luce, quasi riflesso luminoso dei sereni paesaggi partenopei, la nuova scuola musicale napoletana, creatrice, si può dire, del- l'opera buffa; e allora la musica fu non tiranneggiata ma tiranna, dettò la sua volontà, volle regnar da sovrana. Apostolo Zeno era morto; Pietro Metastasio, carico d'anni e cinta la fronte aulica di allori viennesi, non aveva più in Italia voce in capitolo; e, a diffe- renza dell'altro esule volontario Carlo Goldoni, anelante invano dalla ospitale Parigi alla sua Venezia, non ebbe rimpianti o desi- deri per la patria lontana. Moriva con Pietro Trapassi l'Arcadia, e anche moriva il melodramma quale opera nobilmente poetica. I due grandi creatori dell'opera buffa italiana, Paisiello e Gimarosa, vollero schiavi legati al proprio carro i librettisti, e d'allora in poi la poesia se pure potè chiamarsi tale fu, meno poche eccezioni, l'ancella umilissima della musica.

Giuseppe Verdi, non ostante iL Clamoroso insuccesso del melo- dramma giocoso II finto Stanislao, che fu la seconda sua opera, di- ceva d'essere di quando in quando assalito da una voglia matta di scrivere opere buffe; ma se ne ritrasse sempre impaurito, perchè gli pareva impresa temeraria far concorrenza al Matrimonio Segreto del Gimarosa, che egli giudicava il più perfetto modello del genere, il capolavoro dei capolavori. È anche vero che all'età d'ottant'anni regalava al mondo stupito quel Falstaff, che i posteri crederanno forse essere stato scritto, come 11 Barbiere del Rossini, da un gio- vine di genio. Orbene : // Matrimonio Segreto fu composto dal Gi- marosa sopra uno dei più balordi, dei più sconclusionati libretti dell'operistica italiana.

Come fosse regolata questa faccenda dei libretti per musica, prima che il Verdi si affacciasse timidamente alla soglia del teatro melodrammatico, è cosa ignorata dai più. L'impresario scritturava,

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per una data stagione, artisti di canto e maestri compositori : un solo maestro, se avesse avuto nome, per esempio, Gioacchino Ros- sini, il quale, diciamo la verità, valeva per tre, per dieci, per cento. Nel cassetto dell'impresario stavano pronti vari libretti; e al musi- cista, appena giunto sulla piazza e allogato nel modesto albergo o nella modestissima pensione fissatagli dall'impresario, si lasciava li- bera la scelta del libretto che più gli piacesse fra quelli. Ma prima di scrivere una nota, l'autore faceva la conoscenza delle voci e del me- todo di canto degli artisti : e l'opera che balzava fuori dalla fantasia, era appunto scritta tenendo conto dei pregi e delle manchevolezze di quelle voci. Nei mesi in cui il maestro lavorava, il povero libret- tista, presente o lontano che fosse, doveva sottoporsi alla tortura di modificare una strofa, un duetto, un finale; aggiungere una ro- manza per il cantante a cui paresse troppo esigua la parte assegna- tagli (fu così che nacque la celebre cavatina « Di tanti palpiti, di tante pene » nel Tancredi di Rossini) : con quanto guadagno della verosimiglianza e del buon senso letterario, ognuno può facilmente immaginare. Ma, oramai, al soggetto trattato dal poeta nessuno badava più che tanto, nessuno si scandalizzava per la balordaggine degli intrecci, la puerilità dei caratteri, la sciatteria grottesca dei versi. «Dei versi belli (diceva il Rossini) non so che farmene: da- temi invece delle buone situazioni drammatiche». E di queste si- tuazioni principalmente andavano in cerca i librettisti, se ne preoc- cupavano i compositori, ed erano esse che accendevano i fuochi divini dell'estro, e facevano sprigionare scintille dal ferro rovente battuto sulla lucida incudine.

Infarinati di letteratura soltanto alla superficie, incapaci per- fino, quasi tutti, di scrivere una lettera che non fosse in guerra aperta con la sintassi (escludo subito dal mazzo Gaetano Donizetti, il quale compose anche libretti per proprio conto) i maestri della prima metà del secolo decimonono possedevajio, inoculato nel sangue, il germe della musica, soprattutto della musica melodica, di quel « cantar che nell'anima si sente » e che penetrando dai ben temprati orecchi nelle anime, le esaltano, le commuovono, le rapi- scono. Gli eroi e le eroine del dramma poco interessavano come persone, perchè tagliate quasi sempre con l'ascia, senza la più pic- cola ombra di umanità: ma il poeta chiamiamolo pure così per intenderci sapeva che la vita dell'arte sarebbe stata infusa nei suoi personaggi dalla magiche note del maestro, e, dando prova di doverosa rassegnazione, sapeva ecclissarsi in silenzio.

Veramente, così non la pensava Temistocle Solérà, primo li- brettista, in ordine cronologico, di Giuseppe Verdi. Aveva egli una così alta, sincera, e spropositata opinione di sé, che non dubitava di affermare essere stato lui la principal cagione dei clamorosi suc- cessi, ottenuti col Xabucco e con / Lombardi alla prima Crociata. Che anzi, scrivendo i versi (che non sono addirittura il diavolo) di questa seconda opera, diceva il Solérà che non soltanto era riuscito a ispirare e accendere la fantasia del maestro, ma aveva, proprio lui, invogliata la gente a leggere il poema di Tommaso Grossi col me- desimo titolo, e che è aggiungeva l'ottimo Temistocle un mezzo aborto, una pallida caricatura della « Gerusalemme » del Tasso, non ostante gli elogi prodigati al poema del Grossi da quel buon uomo del Manzoni.

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Ma per rimettere le cose a posto, e far la debita tara alle in- nocue smargiassate del librettista, sta in fatto che il Solérà, come poi il Piave ed il Cammarano, dovette piegare la schiena alle ferree volontà del Verdi. Il quale un giorno, chiamato a casa sua l'autore dei Lombardi, gli disse che in un certo duetto fra Giselda e Oronte mancava affatto l'impeto della passione, e che l'innamorato Oronte, personaggio orientale, avrebbe dovuto parlare più concitato, più immaginoso. E concluse che bisognava cambiare due intiere strofe : e cambiarle subito.

Il Solérà, per natura sua fannullone, difese a spada tratta quei versi : ma il Verdi, ostinato e incontentabile, non sentiva ragione : e dovendo uscire di casa per andare alla direzione del teatro, chiuse in camera a chiave il poeta, imponendogli di lavorare. Tornato dopo un'ora, vide il Solérà con gli occhi al soffitto, con la penna in aria, e sulla tavola fogli volanti scarabocchiati : sopra uno di quei fogli lesse, tra infinite cancellature, questa strofa rimasta in tronco:

Per dirupi e per foreste come belva errante io movo; gioco ai venti e alle tempeste spesso albergo ho un antro, un covo! Avrai talamo l'arena del deserto interminato...

E il poeta s'era arenato qui. Ma il Verdi, che con la sua bella voce baritonale aveva prima letto, poi declamato con enfasi, pensò un momento: poi battuto un gran pugno sulla tavola, e fissando con occhi fiammeggianti il suo collaboratore, gridò con quanto fiato aveva in gola:

Sarà l'urlo della Jena la canzone dell'amor.

Il Solérà, bontà sua, si degnò di accettare i due versi così im- provvisati e se ne attribuì la paternità.

Quando Giuseppe Verdi, dopo le due prime non felici opere Oberto conte di San Bonifacio e II finto Stanislao ottenne col Nabucco un successo fulmineo, che fu il primo gradino per ascen- dere al tempio della gloria, di vera poesia melodrammatica non si discorreva quasi più. Gli ultimi suoi aneliti s'erano sentiti nei versi di Felice Romani, autore acclamato della Sonnambula, della Norma, del pirata, della Straniera, tutt'e quattro musicate dal Bellini : e poi della Lucrezia Borgia, della Partsina, déìVEUxir d'amore e di altre molte che alla fantasia mirabilmente feconda del Donizetti suggerirono melodie di non comune bellezza. Quando spuntarono i primi albori, già così fulgidi, del genio del Verdi, che non ebbe mai, e la ragione m'é ignota, soverchia simpatia per il Romani, tantoché del nome di quest'ultimo nessuna opera verdiana si fregia, ad ecce- zione del melodramma II finto StamislOiO che non piacque; fino dunque dall'anno del Nabucco che è del '42, non rimanevano dispo- nibili, per la pratica e la tecnica del teatro, che il Solérà, il Piave, il Cammarano : poeta non volgare quest'ultimo, che non raggiunse bensì, con i quattro libretti destinati al Verdi, la castigata forma poetica della dolcissima Lucia di Lammermoor musicata dal Doni- zetti. Ma, ripeto, poco si badava allora ai versi: il turbine del ro-

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manticismo, tra germanico e francese, oscillante fra le tendenze rivoluzionarie dello Schiller e le audacissime antitesi dell'Hugo, cacciava in bando, o, meglio forse, relegava in seconda linea i ge- nerosi conati della scuola classica. Il Verdi, mente acutissima, indo- vinò quali preziosi materiali avrebbe potuto fornirgli il romanti- cismo con la violenza delle sue passioni, con la ricchezza stragrande dei suoi intrecci, con gli esuberanti colori della sua tavolozza; e volle essere, e fu, il primo romantico, non superato uguagliato poi da nessuno, della scuola musicale italiana. Morto il Bellini; già insidiato il Etonizetti dal terribile male che gli spense, prima della vita, il lume dell'intelletto; olimpicamente ozioso per incurabile infingardaggine il Rossini; imperò solo e brillò, fra una coorte di piccoli astri minori, il genio di Giuseppe Verdi : il quale, fatta sua la sentenza dell'autore del Barbiere, cercò e volle per le sue opere non la levigata cesellatura delle strofe, ma il forte dramma, le forti passioni in contrasto, le fiere battaglie delle anime. Tutto questo, checché possano averne pensato i neo-classici che giuravano in nome dell'Alfieri, del Foscolo del Monti, non poteva trovarsi che nella letteratura romantica : e il Verdi vi si gettò risolutamente a capofitto. Gli parve opportuno attingere intanto al romanticismo italiano, ed ebbe dal Solérà il libretto dei Lombardi: ma nei brevi riposi, concessi all'impeto tumultuoso della fantasia, lesse con feb- brile avidità drammi, romanzi, poemi, poemetti, libri di storia. Erano letture aiTollate, vertiginose, come di chi voglia riguada- gnare il tempo perduto : egli si creò così una coltura un po' disordi- nata, un po' frammentaria; ma sufficente per suscitare in lui un nuovo mondo, mondo che andava popolandosi a poco a poco di perso- naggi ideali e fantastici, i quali avrebbero ottenuto più tardi, mercè sua, gli spiccati contomi della realtà, i palpiti inestinguibili della vita.

In quest'anno di meditate e talora affrettate commemorazioni verdiane (quasi ogni città ha voluto avere la sua) i piìi dei confe- renzieri hanno affermato come vero un fatto, che é invece un in- nocuo anacronismo: che cioè il Verdi delle prime opere abbia voluto deliberatamente inneggiare alla riscossa italiana contro gli oppressori della patria, e preparar gli animi alle guerre d'indipen- denza. Basti riflettere che il Nabucco, con l'ispirata melodia del « Va', pensiero, sull'ali dorate », è del '42, e che nel febbraio dell'anno seguente furono rappresentati / Lombardi, per doverne concludere che l'autore fu, se mai, un profeta inconsapevole, ma non pensò neanche per sogno a scrivere musica, come oggi si direbbe, patriot- tica. Erano, cotesti, gli anni del quieto vivere, della serena rasse- gnazione dei popoli italiani ai governi dispotici sì, ma di un dispo- tismo annacquato, che non sarebbe riuscito, neanche volendo, a incrudelire oltre misura. Dei moti del '21 e del '31, repressi col carcere duro e con i patiboli, rimaneva, è vero, il ricordo rovente nelle anime generose di pochi : ma chi voglia esser fedele alla storia, dovrà riconoscere che nell'intervallo fra il '31 e il '46 (l'anno di Pio IX) alla patria, alla libertà, alla guerra, la grande maggioranza del popolo non pensava: o ci pensava, come a un bellissimo sogno inattuabile. Potè bene il popolo, quando nel '48 pars^ero accendersi

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le speranze che quel sogno dovesse diventare realtà, potè bene ripe- tere come fatidico inno nazionale il coro famoso dei Lombardi:

quello « O Signore, dal tetto natio » che tanti petti ha scossi e inebriati ;

e di certo fu primo il Verdi a compiacersene : ma fu soltanto mera combinazione, se i bei versi del Solérà e la divina musica del maestro popolarissimo corrisposero, benché scritti cinque anni prima, alle trepide aspettative e, diciamolo pure, alle accarezzate illusioni di un popolo smanioso di combattere contro lo straniero. Come non accettare alla lettera quel « Noi siam corsi all'invito d'un pio» quando appunto da Pio IX (e Giovan Battista Niccolini ne fremette di sdegno) partiva la parola di redenzione? Anche il Man- zoni fu preso all'amo di quelle speranze, di quelli entusiasmi, di quelle illusioni, quantunque più tardi affermasse, malinconica- mente arguto, che « Pio IX aveva benedetta l'Italia, ma poi la mandò a farsi benedire».

Non alteriamo dunque la verità : soprattutto non riduciamo alle minuscole proporzioni di un maestro d'occasione l'autore di capolavori, che non morranno fino a tanto che non si capovolgano le leggi del bello. La Battaglia di Legnano, succeduta in ordine di tempo d^VErnani, ai Due Foscari, a Giovanna d'Arco, alVAlzira, al- V Attila, ai Masnadieri, al Corsaro, fu scritta dal Verdi negli ultimi mesi del '48, e fu detto allora essere cotesta opera un monito pa- triottico' per incitare gl'italiani alla rivincita contro il nuovo Barba- rossa. Ma l'opera, rappresentata al teatro Argentina di Roma nel gennaio del '49, se piacque per lì, cadde poi subito nell'oblio, può sorriderle la speranza di un risveglio. La fantasia del maestro, innamorata di altri soggetti che gli fremevano tumultuosi nel- l'anima e lo premevano d'ogni parte, non seppe rispondere all'ap- pello. La Battaglia di Legnano fu, poco dopo nata, un'opera morta. Il libretto, fra i migliori del Cammarano, fa nascere il dubbio che non lo ignorasse molti anni più tardi Vittoriano Sardou, quando riprodusse nel suo dramma Patria una delle più belle e commo- venti situazioni della trama ordita dal poeta italiano.

Dai Lombardi alVEmani corse a malapena un anno : il Verdi, sedotto ormai dalla affascinante sirena del romanticismo, si buttò a corpo morto nello studiO' dei drammi di Victor Hugo, e la scelta cadde sul bandito Emani, che Francesco Maria Piave, seguendo la trama fornitagli dal maestro, ridusse a libretto. Fu quello il primo capitolo di una collaborazione umile, devota, genialmente servile, durata dal '44 al '62, e dalla quale scaturiscono nove opere : l'ultima fu La forza del destino. La preferenza data dal Verdi a un libret- tista, i cui versi chiedevano vendetta a tutti gli abitatori del Par- naso, é spiegabile in questo modo soltanto : che il maestro aveva trovato nel collaboratore una felicissima attitudine a riassumere, a lumeggiare con pochi tocchi, le situazioni drammatiche: che erano appunto quelle di cui il compositore unicamente si preoccupava: poco importandogli se le inverosimiglianze saltassero agli occhi di tutti, e se con la metrica, magari anche con la sintassi il poeta rima- nesse perpetuamente in debito. Contro di lui si accanivano, spal- leggiati dai critici teatrali, i librettisti che non erano nel calendario del Verdi: ma il buon Piave se ne consolava con l'affetto fraterno

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tribut-atogli dal maestro, il quale lo sovvenne generosamente, anche quando gli acciacchi della vecchiaia impedirono al librettista favo- rito di continuargli la sua collaborazione. Si volle anche da taluno spiegare la generosità del Verdi con questo fatto : che nei suoi anni difficili egli andò un giorno a chiedere al Piave una porzione del suo desinare, composto di pane e di formaggio. Di questo, e di altri episodi germogliati dalla facile immaginazione dei novellieri, mi permisi nel 1887 (l'anno deìVOtello) di chiedere al Verdi stesso che cosa ci fosse di vero : e dalla cortesissima lettera, che n'ebbi in ri- sposta, trascrivo questo brano:

« Non ho nulla a ridire sulle notizie scritte sul conto mio. Cer- tamente molte e molte cose non sono esatte, come per esempio quella che un giorno andai affamato dal Piave, che divise con me il suo pranzo un pezzo di formaggio ed un tozzo di pane. Po- vero Piave! io lo conobbi soltanto quando scrissi VErnani, ed allora io non avevo più bisogno ne di formaggio ne di pane. E così di tante altre inezie che non vale la pena di rettificare».

Povero Piave! e solamente chi non ignora qua! cuore grande ebbe il Verdi, può indovinare di che preziose elargizioni egli fosse prodigo col suo librettista.

Affatto diverso dal Solérà, Francesco Maria Piave non sentì mai il prurito, della più innocua velleità letteraria, non si sognò mai di protestare contro le esigenze del maestro : il quale se passava sopra, noncurante, alla sciattezza e alla volgarità dei versi, si mo- strava terribilmente difficile per la distribuzione degli episodi, per il taglio delle scene, per la sapienza nel preparare il succedersi degli avA^enimenti che dovevano far capo, logicamente, alla catastrofe. In tutto questo il Piave non fu che l'obbediente esecutore della volontà dell'altro, adorato da lui come un dio, come il più grande fra i com- positori passati, presenti e futuri. Era il primo lui, il Piave, a rico- noscere — esempio piuttosto unico che raro la miseria dei propri versi : « Ma che cosa importa? » diceva imperturbabile agli amici che lo deridevano : « le note sublimi che il Maestro adatta ai miei versi li fa parere bellissimi. Voi mi canzonate? e il Verdi invece, bontà sua, è contento di me ».

N'era contentissimo infatti : anche perchè il Piave, stando quasi sempre alle costole del compositore come un buon cane fedele, gli risparmiava seccature infinite, lo liberava dai fastidii, dai pet- tegolezzi, dai ripicchi dei cantanti, per i quali l'irascibile busse- tano non ebbe mai tenerezze soverchie. Più che librettista, il Piave fu l'uomo di fiducia, il factotum, l'intermediario nelle que- stioni un po' imbrogliate. A lui si deve se di una delle più belle opere verdiane, tolta dal dramma dell'Hugo Le Rai s'amuse, non fu rimandata a tempo indeterminato l'andata in scena. S'intitolava « La Maledizione » : titolo suggerito dal Verdi stesso, che nell'ana- tema" scagliato contro il buffone del re di Francia Francesco I ve- deva il primo germe delle sventure toceate a Triboulet. L'opera era destinata al teatro « La Fenice » di Venezia, e il maestro stava appunto scrivendone la musica, quando il Piave gli si presentò ad annunziare che la censura respingeva il libretto: non tanto per il poco ortodosso titolo di « Maledizione », ma anche per vedere un re di Francia far quella brutta figura immaginata da Victor Hugo nel celebre dramma. Non ostante la intromissione di personaggi

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eminenti, la censura di Venezia tenne duro : e il Verdi fu sul punto di abbandonare l'impresa, e di cercare un altro soggetto. Ma il librettista lo salvò. Corse dal commissario di Polizia, che era tutta una zuppa e un pan molle con la censura, e che per l'appunto aveva per il Verdi e la sua musica una ammirazione sconfinata. Discu- tendo' insiom© trovarono, per salvar capra e cavoli, un mezzo ter- mine : e fu di cambiar Parigi in una città italiana; fare del re Fran- cesco I un duca di Mantova purchessia; e del buffone Triboulet un Viscardello o meglio ancora un Rigoletto. E non più « Maledizione » per titolo, ma « Rigoletto » addirittura.

Col cuore che gli s'era fatto piccino piccino per la paura di un rabbuffo, si presentò il Piave dal Verdi e riferì l'esito delle tratta- tive. Stette egli ad ascoltare con i sopraccigli terribilmente aggrot- tati : ma a sentir pronunziare il nome di Rigoletto, che il Piave asse- riva essere stato suggerito dal commissario di Polizia, scoppiò in una gran risata, e battuto il pugno sulla tavola gridò :

« Ma questo figlio d'un cane di commissario dev'essere tut- t'altro che un imbecille! Il nome di Rigoletto mi piace, ma per ca- rità, nessuno sappia chi è che l'ha inventato».

L'opera ebbe un successo straordinario, è popolarissima oggi come sessantadue anni fa, ricomparisce di quando in quando nei teatri d'Italia, del rimanente d'Europa, delle due Americhe, e brilla sempre della incorruttibile e incomunicabile giovinezza del genio. Il Rigoletto è del 1851 : nel 1853 la Gazzetta Musicale di Parigi scri- veva che « in quest'opera manca la melodia, e la mancanza non è compensata da qualche bel pezzo d'insieme». Concludeva l'articolo, profetando che il Rigoletto avrebbe avuta vita brevissima. Il cri- tico della Gazzetta Musicale era uno dei tecnici più competenti; non ardisco immaginare che cosa dovessero valere gli altri.

In meno di due anni il Verdi offriva al mondO' stupito tre capo- lavori. Dopo il dramma dell'amore dissoluto e la tragica catastrofe del buffone, prorompe sulla scena la violenza dell'amore barbara- mente contrastato nel Trovatore. E quando Di quella pira Vorrendo fuoco avrà fatto scattare in piedi le platee di mezzo mondo, ecco la pallida immagine di Violetta [La Traviata) che fa spargere anch'oggi fiumi di lacrime nei teatri sempre affollatissimi. Il Piave, accet- tando a occhi chiusi dal Verdi lo scenario tratto dal dramma di Dumas fils, altro non fece che tradurre in strofe e in recitativi, con pochissime varianti, le parole del fortunato testo francese. Chi leg- gesse il libretto, e non conoscesse dello spartito musicale neppure una nota, griderebbe molto probabilmente al sacrilegio. Chi invece di quella musica, vibrante di passione, ha una lunga pratica per fre- quenti udizioni, non si scandalizza e non protesta, ma fa sue, e vo- lentieri ripete con accento commosso, frasi come queste:

Ah, forse è lui che l'anima solinga, nei tumulti godea sovente pingere de' suoi colori occulti...

con quel che segue : ed è bravo chi ne capisce qualcosa : ma perdo- niamo volentieri al poeta i più lepidi strafalcioni, perchè in loro aiuto giunge a tempo opportuno la musica ad esprimere nel Un-

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giiaggio divino dei suoni quelle due cose eterne che sono l'amore e il dolore.

Delle tre opere scritte dal '51 al '53, Il Trovatore fu la più popo- lare. Da un mediocre dramma dello spagnuolo Guttierez, Salvatore Cammarano tirò fuori per imito del Verdi un libretto, mediocris- simo per la frettolosa trascrizione dei versi, ma ricco di quelle vio- lenta situazioni che tanto piacquero al grrande romantico della mu- sica. Tutti quelli che, letta la verseggiatura del Trovatore, si sono provati a raccontarne anche in succinto la trama, han dovuto rinun- ziarvi per l'intricato garbuglio degli episodi, per le mostruose inve- rosimiglianze che non stanno in cielo in terra. Lo stesso Verdi, che pure s'era innamorato del soggetto e ne dettò la musica con la febbre dell'ispirazione a quaranta gradi, interrogato da qualche in- timo, ebbe a dire che di certe oscurità ambigue dell'intreccio non era riuscito a raccapezzare il filo. Ma a lui splendevano vivide nella mente le situazioni principali, e ciò gli bastava. L'opera fu composta con rapidità fulminea: in uno stato di quasi spasmodica eccitazione. E un giorno che lo svogliato Cammarano tardava a mandare una certa strofa promessa, invece di un'altra che non era piaciuta affatto, il Verdi, che aveva come chi dicesse sulla punta delle dita le note già balenantigli nella fantasia, e aveva per giunta il diavolo in corpo, afferrò la penna, e declamando forte scrisse le due strofe che cominciano :

stride la vampa! la folla indomita corre a quel fuoco lieta in sembianza.

Il Trovatore fu l'ultimo libretto scritto dal Cammarano per il Vérdi : o fosse un'invincibile antipatia, che non avvinse mai con troppo tenaci legami i due uomini, o per qualsiasi altra ragione, fatto sta che il Verdi tornò ancora al suo carissimo Piave, e n'ebbe quattro nuovi libretti : La Traviata, VAroldo (opera dimenticata quest'ultima), Simon Boccanegra e La forza del destino: e questa povera Forza fu il canto del cigno, cigno spelacchiato, del più fido e del più umile fra i librettisti. Ma tutt'e tre, il Solérà, il Piave, il Cammarano, ebbero in grado diverso questo gran merito: d'aver compreso fino dalle prime opere che la forma poetica diventava una cosa ben secondaria per il Verdi, al quale occorrevano energia di ritmi e violenza d'espressioni, perché ne balzasse fuori una mu- sica impetuosa come torrente montano, colorita all'eccesso, vi- brante, saettante, irrompente. Se all'autore d'Emani, dei Lombardi, della Forza del destino fossero capitati libretti di soave ingenuità come La Sonnambula o la Linda di Chamounix, egli non avrebbe saputo da che parte rifarsi per mettere il sordino alle corde .-iissul- tanti della tempestosa sua fantasia. Simile al Mefìstofele del Goethe, che nelle serene trasparenze del cielo dell'Eliade non si raccapezza più, e prova la mesta nostalgia delle gazzarre demoniache del Sabba romantico, così il Verdi, chi avesse voluto sbalzarlo dal dramma truculento, non sarebbe stato più lui. C'è sempre nei suoi canti ispirati, inneggianti quasi tutti all'amore, un non so che di concitato, di trepido, di spasmodico. La tranquillità, la rassegna- zione, la pacatezza, e quella che potrebbe dirsi la voluttà del do- lore, sono bandite dalle anime. Eroi ed eroine par che camminino

35 Voi. CliXVII. Serie V 16 ottobre 1913.

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sopra un terreno saturo d'elettricità, e che ogni dieci passi abbiano da inciampare in una pila voltaica. L'alata schiera delle melodie scioglie libero il volo sulle vicende del dramma, ma c'è in quella musica qualche cosa di convulso sempre, una voglia matta di var- care i confini del possibile e del ragionevole. Chi ama, non racconta mai il proprio amore, ma lo grida : chi odia, non vede l'ora di snudare un ferro e di uccidere : e nel più dei casi, si finisce sempre con scene di sangue e di morte. Se uno o due morti non bastano, si arriva al numero tre, talora al numero quattro : musica sublime senza dubbio, e degna d'ammirazione: ma sanguinaria un po' troppo.

I tre librettisti di cui finora ho discorso, tennero bordone al Verdi : con i loro diciotto libretti costruirono addirittura un cimi- tero, e lo popolarono di cadaveri.

Andrea Maffei, cedendo a un caloroso invito del maestro che altamente pregiava le traduzioni del teatro di Schiller, trasse da un dramma di quest'ultimo / Masnadieri lo scenario per un li- bretto, di cui in pochi giorni compose i versi. Accintosi a musicarlo, confessava il Verdi parergli d'essere un pesce fuor d'acqua. La forma soverchiamente letteraria e agghindata inceppava i voli alla fantasia, abituata alle strofe un po' volgaruccie, ma sonanti e ar- moniose del Solérà, e ai ritmi pedestri, ma non privi di un certo colorito del Piave. Ond'è che sui versi torniti del poeta Maffei che fu caro a Vincenzo Monti, il Verdi scrisse una musica raramente ispirata : e l'opera, di a pochi anni, trovò decorosa sepoltura nei magazzini dell'editore. L'autore se ne consolò facilmente: e scan- sata con bel garbo ogni altra collaborazione col futuro traduttore del Faust, tornò ai librettisti antichi, ne trovò dei nuovi in Francia per i Vespri Siciliani (1855) e per il Don Carlo (1867) : finché, dopo VAida di Antonio Ghislanzoni, verseggiatore elegante sopra sce- nari fornitigli da un egittologo, ebbe la ventura d'incontrarsi con Arrigo Boito, autore del libretto La Gioconda di Amilcare Pon- chielli.

Non erano più i tempi del lasciarsi andare in fatto di melo- drammi. Quel periodo s'era chiuso con Gioacchino Rossini, il quale diceva che sarebbe stato capace di mettere in musica anche la lista del bucato. Col Bellini e col Donizetti fu un altro paio di maniche, perchè se i libretti erano forniti dagli impresari e dalle direzioni dei teatri, ai maestri compositori si concedeva la libertà di discu- terli, ed essi li rifiutavano se non piacessero. Il Verdi fa un passo più innanzi : e se accetta tale e quale il 'Nabucco datogli dall'im- presario della Scala, dopoché il maestro Nicolai ebbe rinunziato a musicarlo, d'ora innanzi intende e vuole esser lui l'arbitro e il so- vrano assoluto. Ricorre dunque per la sua seconda opera (sarebbe quarta veramente : ma le prime due non contano, se non come documenti di cronistoria) ricorre a quel medesimo Solérà che aveva scritto il Nabucco, e del quale già erano diventati popolarissimi i versi

Va', pensiero, sull'ali dorate, va', ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano libere e molli l'aure dolci del suolo natal.

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Il poeta, inorgoglito della preferenza, si mette con ardore a connporre / Lombardi suggeritigli dal maestro, che s'era innamo- rato del poemetto del Grossi in quel germogliare della nuova fiori- tura romantico-religiosa: e memore il poeta del grande successo ottenuto, in grazia della musica, col « Va', pensiero, sull'ali dorate », detta il famoso coro « dei lombardi miseri assetati » che incomincia ^O Signore, dal tetto natio»; parafrasi di quell'altro, e accolto con acclamazioni di ancor più vivo entusiasmo: il che starebbe a dimo- strare esser falsa talvolta la prudente massima del non bis in idem.. Oramai il Verdi è avviato sul campo della fama e della gloria, e può dettar legge ai librettisti, torturarli, imporre la propria vo- lontà tirannica. Il Solérà si prova ogni tanto a recalcitrare, a im- pennarsi : ma una vigorosa tirata di morso lo rimette subito in carreggiata. Col Piave le cose procedono diversamente: il po- ver'uomo, l'abbiamo visto, è schiavo umilissimo del maestro a cui sempre ragione, e non si ha a male di nulla, neppur quando Andrea Maf^ei è pregato dal Verdi ad assumere le funzioni di orto- pedico per raddirizzare le gambe a qualche strofa

che non può andare e mal reggasi in piede,

come dice della Pigrizia messer Ludovico. Con Salvatore Camma- rano, per natura intollerantissimo, sono frequenti i battibecchi, tan- toché (e l'ho già accennato) dopo II Trovatore è mandato cordial- mente al diavolo.

Ora però, con le due ultime opere, le cose cambiano aspetto: Giuseppe Verdi e Arrigo Boito si cpiisultano quasi da pari a pari, discutono con uguale competenza, si fanno l'uno con l'altro reci- proche concessioni. Nei precedenti quattordici anni, in quell'appa- rente riposo che succedette oXVAida, il futuro, anzi prossimo autore diOiVOtcUo -<Q dato allo studio profondo dello Shakespeare, con più maturo senno di quando componeva nel '47 su libretto del Piave e anche costì mise lo zampino il Maffei il tragico melodramma del Macbeth. Ora il Verdi si é reso conto dei nuovi progressi tecnici, ha assistito alla evoluzione del dramma musicale, di cui si vuole sia creatore il Wagner, e risale invece al Gluck e forse allo Spon- tini : ed ecco perché, non rinnegando il suo celebre monito « tor- niamo all'antico! », fa due nuovi passi, passi d'atleta, anzi di gigante, con Otello e con Falstaff.

Egli ha bisogno peraltro di un poderoso collaboratore, abituato a lottare e fare alle braccia con qualche grande per davvero: ha scelto perciò Arrigo Boito, autore di un capolavoro, Mefistofele. Le due ultime opere, che il poeta intitola dramma lirico l'una e com- media lirica l'altra, non serbano più alcuna traccia della vecchia tradizione librettistica, con i pezzi tagliati in quel dato modo quale era imposto dalle inveterate consuetudini, che volevano la cavatina, la romanza con relativa cabaletta, il duo, il quartetto, il finale. Hanno tutt'e due le opere la forma schietta e concisa del dramma destinato alla musica: ma il poeta, in pieno accordo col maestro, può liberamente spaziare, e all'ali della fantasia tradurre con felice genialità i concetti del più grande drammaturgo che sia stato mai al mondo.

L'ardua prova mirabilmente riuscì, così n^WOtello come nel Falstaff. A proposito di quest'ultimo, avendo io chiesto al Verdi

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nel dicembre del '90 (l'opera fu rappresentata nel febbraio del '93) che cosa ci fosse di vero nelle notizie che si stampavano sul nuovo lavoro, ebbi quest-a risposta :

« Cosa potrei dirle? tutto è stato detto intorno a Falstaff ed anche più del vero. Il vero è questo. Boito mi ha scritto un libretto buffo, comico, come vogliono. È divertente assai, ed io mi diverto a martirizzarlo di note. Poco o quasi nulla è fatto della musica. Quando la finirò? Chi sa! La finirò? Ma!! Questa è la pura, la vera verità. Saluti ed auguri.

« G. Verdi ».

Quelle parole « libretto buffo, comico, come vogliono » non forse indicano una superstite nostalgica rimembranza dei primi studi fatti sulle opere settecentesche della scuola napoletana, e sui capo- lavori rossiniani? Certo è però che fino dal '70, dal tempo dell'Affa, vediamo una profonda modificazione nella struttura poetica del melodramma, il quale poi raggiunge, nei due lavori del Boito, una singolare nobiltà, e una smagliante lucentezza di forma. E siccome era questo ciò che il Verdi voleva, cosi la duplice opera d'arte cor- rispose pienamente ai nuovi ideali della musica melodrammatica, quella cioè che deve tradurre in note i concetti espressi con le pa- role. Se un nuovo Verdi si rivelò al mondo stupito con la penultima opera che fu Otello, una parte di merito deve asseg'narsi al poeta: e se il Falstaff che Enrico Panzacchi definì felicemente « un colpo di fulmine » e io volentieri aggiungerei « fulmine a ciel sereno » se cotesto ultimo titanico sforzo del genio fece dire a italiani e a stranieri parere l'opera di un giovine, penetrato d'un balzo nel tempio della gloria, anche bisogna aggiungere che nessun altro autor di libretti miniò e cesellò versi di cosi perfetta musicalità, come quelli che si leggono nel Falstaff. Basti un solo esempio : il canto svolgentesi in purissima melodia della regina delle Fate :

Erriam sotto la luna scegliendo fior da fiore, ogni corolla in core porta la sua fortuna. Coi gigli e le viole scriviam dei nomi arcani, dalle fatate mani germoglino parole: parole alluminate di puro argento e d'or, carmi e malìe. Le fate hanno per cifre i fior.

Ma chi seppe scrivere questi versi pensava già, fin d'allora, a dare con Nerone un fratello all'acclamatissimo Mefistofele. Possa Giuseppe Verdi dal regno delle ombre, se pur questo regno esista, e non sieno vana illusione dei sensi e deirintelletto i sublimi spet- tacoli della natura e le divine armonie delle grandi opere umane, possa trasfondere nella perplessa trepidante anima di Arrigo Boito la fiducia dei forti, sicché l'Italia giubilante veda scritta un'altra pagina luminosa nella storia del melodramma, che è gloria e vanto nostro, inutilmente invidiatici dagli stranieri.

Eugenio Checchi,

Monumento a Giuseppe Verdi dello scultore Enrico Butti inaugurato a Milano il 10 ottobre.

Altorilievi del piedistallo del Monumento a Giuseppe Verdi.

VERDI INTIMO

Nel riandare col pensiero in questi giorni dell'apoteosi di Giu- seppe Verdi, le ore passate nella dolce atmosfera di Sant'Agata, dove il buon Genio Italico mi accoglieva con tanta simpatia amorevole e mi autorizzava a dirgli tutto quel che mi passava pel capo {capo sca- rico a quei tempi felici) con quella bontà che, se eccedeva i miei scarsi meriti, restava però per me entro i limiti di un rispetto che confinava colla venerazione, trovo un cumulo di lettere, di memorie, di aneddoti, che mi fanno come riaprire una finestra luminosa nel passato e mi fanno rivivere di giorni di ebbrezza intellettuale, tra- montati per sempre.

Pochi potranno dire ai contemporanei e ai posteri di aver vis- suto in dolce consuetudine, se non con intimità, in casa di Giuseppe Verdi. Quei fortunati che poterono avvicinarlo non potranno dire i se- greti di quell'animo, gli scatti di quel cuore, gl'impeti di quel carat- tere, poiché violerebbero i misteri del genio, a cui è riservato il culto degli nomini discreti; qualità che egli sopratutto prediligeva, e a cui, chi scrive queste parole, deve l'indulgente e costante bontà con cui fu trattata.

E anche pochi potranno dirlo, poiché quell'animo libero e rac- chiuso in sé, come in un tempio di armonie deliziose, aveva poco tempo e poco modo di espandersi; e gl'intimi avrebbero tolto a lui quella grande libertà solitaria, in cui egli contemplava l'infinito : in solihidine Deus.

Certo è che quando intomo a lui, dopo averne misurato tutta la bontà candida e semplice, poiché il genio è un'innocenza come diceva quel Greco; quando qualcuno si lasciava andare lietamente alla celia e al racconto delle piccole miserie degli uomini e della fortuna, il suo occhio scintillava, la sua bocca si componeva ad un lieto sorriso, che mostrava in lui un fondo di quella giocondità, la quale poi si spri- gionò nel cicaleccio delle Allegri Comari di Windsor, e che in Fra Melitone e nel primo atto di Rigoletto, dimostrava quanto vibrasse la corda della beffa buona, in quella cetra così completa delle umane armonie.

Quella sua concentrazione, quel suo sfuggire il mondo, quel quasi rimpiattarsi davanti alla gente, che tanta parte di uomini ha attribuito ad orgoglio, non era che una timidezza quasi forese di cui, nella signorilità della sua persona, non si era mai del tutto spogliato; era un'umiltà tutta manzoniana di quel Grande Lombardo, che egli ha tanto amato e da cui era tanto amato : era un'attenzione tutta spe- ciale al valore ch'egli attribuiva agli altri, quasi fosse sempre al suo

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primo incontro col mondo: quasi fosse Giuseppe Verdi... senza sa- perlo.

Quello che può diro chi lo ha conosciuto da vicino, si è che in quel grande animo era la bontà più tenera, la pietà per gl'infelici, la compassione per chi soffre. Egli ricordava le privazioni della sua età più bella; gli sconforti di quando non fu trovato degno di diventare l'organista di Busseto; di quando fu dichiarato inetto alia carriera musicale dai barbassori del Conservatorio di Milano; di quando la sua prima moglie, Margherita Barezzi, dovette vendere i suoi gioielli di sposa per pagare la pigione di casa : di quando dovette a Giusep- pina Strepponi il primo successo del Nabucco, che lo portò a essere quel Giuseppe Verdi, il quale dopo aver riempito il mondo della sua gloria in vita, oggi gli celebra degnamente la sua apoteosi. E noi che lo abbiamo conosciuto, sappiamo anche quel che aveva in cuore di gra- titudine per quel Barezzi, suo primo protettore e poi suo suocero, del quale raccolse in casa con affettuosa cura filiale la seconda moglie e le assegnò posto degno, riservandole tutti gli onori come se gli appar- tenesse per vincoli di sangue: e come disponesse delle sue sostanze anche in vita con una beneficenza infinita, insieme alla sua Peppina, le', fata benefica di quell'asilo di arte e di carità, donde si dipartiva come una luce rigeneratrice di lavoro e di virtù.

Certo che se Carlyle lo avesse a' suoi tempi conosciuto, lo avrebbe posto nel Libro degli Eroi. Poiché egli non era soltanto un genio mu- sicale; era un cittadino perfetto, era un uOmo d'ordine; era un equi- librato morale; era il baiardo della patria nuova, che aveva col suo genio onorato e col suo grande carattere contribuito a fondare, per sentimento, per istinto, per fortezza, per fermezza e per virtù.

In mezzo a così grandi memorie riscaldate nel cuore, per tanti anni e per tanti eventi, mi piace rievocarne qualcuno dei più grati, dei più vivi, dei più solenni, dei quali ormai, triste privilegio di vec- chiaia, io sono tra i pochi superstiti che possano testimoniare; docu- menti intimi soavi che sono il mio tesoro e il mio conforto.

Ormai di quanto riguarda l'arte sua, la sua vita pubblica, i suoi successi, i suoi trionfi, la sua gloria tutto è detto.

Non è detto però quanto egli lasciava cadere di gioielli ne' col- loqui geniali, nella intima conversazione che faceva cogli umili, per esempio con delle persone modeste come me, che andavo ogni anno in pellegrinaggio, non a bruciargli incensi o ad implorare favori, ma ad elevare lo spirito, respirando l'aura serena e indimenticabile della sua casa ospitale.

E il suo copialettere non riproduce le lettere soavi, che a quando a quando scriveva a qualcuno di quelli che avevano avuto la fortuna di piacergli e che non lo seccavano a parlargli di musica o a doman- dargli quale opera scrivesse in quel momento.

Ne ho qui davanti alcune di quelle lettere che si riferiscono a col- loqui avuti, a discussioni accalorate e libere, a circostanze improv- vise, a slanci di sentimento, a finezze di cortesie, in cui spiccava sem- pre la nota madre di una modestia sincera, che a chi le riceveva pro- ducevano un incanto indicibile.

Questa che riproduco in facsimile, non ne è che una prova. E questa prova io non metto qui per la vanità, che sarebbe puerile in me e imperdonabile, per quanto mi diceva di lusinghiero per me, ma

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perchè è quella che rivela il carattere della sua personalità, così mo- desta che, senza ostentare la povertà in cui egli era nato, manifesta quanto gli sembrasse cosa naturale e ovvia di dirlo schiettamente, e a raccontare da quali umili principi fosse salito così in alto.

Egli era nato il giorno 9 ottobre 1813 e in ogni anno io gli man- davo i miei augurii. E il giorno di San Donnino, titolare della dio- cesi, io gli avevo scritto una lettera che lo aveva fatto ridere. Gli avevo detto che a San Donnino i suoi carnefici avevano tagliata la testa, e che egli la raccolse e la baciò e poi la buttò via; e aggiungevo: « Se io avessi la testa la butterei via anch'io, pensando che in questo giorno è nato il Maestro che ha tante note e io non ne ho nessuna di intonata! »

E mi rispose così :

Se sapessi scrivere bene come Lei, e anche un po' meno (non faccio complimenti che, specialmente la lettera scritta a Peppina, è un piccolo capolavoro). Dunque, se sa- pessi scriver bene. Le direi chi sa quante belle «ose : e lasciando anche da parte San Donnino, le parlerei di altri santi, di diavoli, che ne ho conosciuti molti, di scienze, di arte e perfino di politica, che detesto di giorno in giorno sempre di più ! Ma ohimè ! nato povero in povero villaggio, non ho avuto mezzi di istruirmi in nulla: mi hanno messo sotto le mani una meschina spinetta e qualche tempo dopo mi son messo a scri- vere note sopra note e nient'altro che note!? Ecco tutto! li peggio si è che ora. a 82 anni, dubito forte sul valore di quelle tante note!

E' un rimorso per me e una desolazione!...

Fortunatamente a 82 anni vi è poco tempo da desolarsi ! La ringrazio, egregia signora Pigorini dei suoi augurii e mi tenga per suo sincei'O ammiratore

G. Verdi.

Il Maestro pel suo ultimo compleanno però non era di buon umore; sentiva la stanchezza della vita; e difatti la sua scrittura, che negli ultimi tempi si era andata gradatamente trasformando, in una breve letterina si mostra incerta, tremante, come se la penna fosse una pena, secondo le parole del buon abate Taverna, suo compro- vinciale di Piacenza, e il calamaio un... non posso ripetere lo scherzo sul quale si era riso un giorno, perchè me lo vieta il rispetto; e che gli aveva fatto domandare a me, l'ultima volta che lo vidi: «Mi trova molto vecchio, non è vero? » La sua letterina datata da Santa Agata l'H ottobre e impostata a Busseto 12, diceva così :

Carissima Signora Caterina, Scrivo a stento e vo scusarmi se mi limito a ringraziarla degli augurii, e dirle che mi terrò onorato tutte le volte che si compiacerà scrivermi di quelle sue letterine, che pochi sanno fare come Lei. Affettuosi saluti.

Suo Giuseppe Vérdi.

Egli aveva voluto conservare fino all'ultimo la sua vecchia abitu- dine di scrivermi in quel giorno, in cui mi aveva una volta mandato le prime battute del Credo di Jago, musica e parole, in due esem- plari; uno per me e uno per un amico, che mi aveva dimostrato il desiderio di avere un autografo del Maestro.

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Era la resistenza volontaria che egli metteva al tempo inesora- bile, e che gli faceva scrivere spesso, il suo affezionatissimo ex Mae- stro, il tutto suo decrepito ex Maestro.

Questo ex, questo decrepito non toglieva a lui di stare al corrente delle cose della vita, della scienza e della lingua italiana, la quale mercè la sua arte divina, aveva fatto il giro del mondo, nei tempi in cui l'Italia era una espressione geografica. Per lui si parlò di patria italiana quando di patria eravamo privi: per lui l'Arabo, il Parto^ il Siro, in suo sermon udì il nome santo della patria. La sua reve- renza affettuosa pel Manzoni, il conversare con tutti i più grandi in- telletti del mondo; la convivenza colla « sua Peppina », che scriveva come Madama di Sévigné, e di cui ho pubblicato, coll'ammirazione dovuta, alcune lettere in diverse occasioni che riguardavano quella donna egregia; l'ingegno alacre, rapido, direi, attento, anche all'in- fuori del suo gran genio musicale, e la lettura assidua, costante, ap- passionata di tutti i capolavori letterari e filosofici, facevano di lui un critico sicuro, geniale, spigliato, indipendente dalle scuole, dalle sette, dalle fazioni e dalle chiesuole letterarie, in quella immensa semplicità di esporre il suo pensiero.

Egli parlava bene di tutte le cose : anche di agricoltura di cui, come tutti sanno, era appassionatissimo; non come hanno detto i cro- nisti e i corrispondenti dei giornali anche esteri, che non conoscen- done la larghezza del concetto gli hanno attribuito anche una specie di economia piccola e esagerata; ma ne parlava come rispetto delv ars magna in cui era nato, essendone ammiratore entusiasta, perchè è l'arte della vita e della natura. E se qualche volta raspava male nella cultura de' suoi campi, o nel forare i suoi pozzi artesiani, o nel ven- dere le sue derrate, il suo concetto era sempre sano, giusto, equili- brato.

Quell'equilibrio gli aveva fatto negare il genio dal Lombroso, il quale uscendo dal metodo scientifico per entrare nel sistema parti- giano, non gli trovava altra caratteristica di degenerazione, che se- condo lui era necessaria al genio per potersi dire tale, che la sterilità e la decrepitezza.

Bisognava vederlo come rideva nella sua modestia a proposito di queste caratteristiche a lui attribuite dal m^edico dei matti. A buoni conti egli aveva conosciuto dei centenari che erano altresì dei grandi idioti; e questa caratteristica della degenerazione del genio, non gli pareva potesse essergli attribuita : e quanto alla sterilità; non era le- cito ad alcun italiano di ignorare (se per sterilità si deve intendere la mancanza di prole), che egli aveva veduto morire in un anno crudele per lui due suoi bambini. In quello stesso anno fu fischiato per una sua opera che non piacque, e perdette la sua prima moglie: Mar- gherita Barezzi.

Il solo sorriso che gli spuntò sul labbro su quel triste avveni- mento della sua vita mortale, fu determinato da Cesare Lombroso; il quale, se non altro, avrà potuto vantarsi di avere con quel sorriso, aggiunto un filo d'oro alla trama della sua vita.

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Cesare Lombroso gli negava il genio ispirandosi ad un libro di un suo compagno di studio, di stirpe e di culto, Max Nordau; perchè il Verdi non essendo cattivo, non truccandosi, non posando, e sa- pendo fare i suoi affari, era un uomo normale e quindi non poteva aver genio. « Se Verdi, aggiungeva il Lombroso, pervenne e rag- giunse e completò la linea de' suoi contemporanei, non la sorpassò; e se fu subito 0 quasi subito applaudito, fu appunto perchè la sua nota non era originalissima e profonda come quella del genio; e andò de- cadendo a pochi lustri di distanza della sua origine; e i trionfi del Falstaff, vanno raggiungendo gli oblii della già trionfante Aida, e del più ancor trionfante Trovatore. Il Wagner invece, bizzarro, pazzo, epilettico forse, cattivo, che tutto derideva e da tutti era de- riso, va dopo un quarto di secolo sulle spoglie dell'applaudito avver- sario, trionfando ogni giorno più, perchè di molte leghe sorpassò i contemporanei».

Per un italiano e anche per un ammiratore del genio teutonico bisogna dire che il Lombroso è stato un critico molto indipendente, se non troppo autorevole; © non sarebbe il caso di parlarne qui, se per questo io non avessi ricevuto una lettera del Maestro che mi è grato di riprodurre.

Nell'istituire il confronto fra il genio di Wagner e quello di Giu- seppe Verdi, il prof. Lombroso aveva enunciato dei principii straor- dmarii ai cultori della filosofia anche positiva, e contro la verità storica non solo, ma contro la realtà contemporanea.

Dato per sistema che il genio è follia. Cesare Lombroso aveva detto che il Verdi non era un genio, perchè viveva come gli altri uo- mini, perchè poteva dettare una romanza a ottant'anni, e mezz'ora dopo contrattare un paio di buoi, cose che non avrebbero potuto fare Ibsen Wagner, il suo rivale teutonico trionfante. E io gli avevo comunicato tanto il giornale che lo attaccava, e che era la Domenica letteraria di Milano, quanto il Fanfulla della Domenica, in cui mi permettevo di dire, che il pretendere che uno stato violento d'ingegno e di costumi, fosse una condizione favorevole alla manifestazione del genio o ne fosse anzi la principale espressione, è uno di quei pregiu- dizii che la scienza dovrebbe distruggere anziché sanzionare. Un caso accidentale (dicevo in quelle pagine e in una lettera colla quale ac- compagnavo quei due giornali) non dovrebbe indurre alcuno a trarne una regola generale : sarebbe come se si volesse prendere il carattere di Benvenuto Cellini, colle sue spiritose invenzioni, la sua prontezza di mano e le sue braverie di spaccamontagne, come elemento indi- spensabile a saper fondere il Perseo, o a cesellare così finemen^ Jc coppe e i reliquiarii.

E a questo proposito il Maestro si affrettava a scrivermi questa letterina.

Gentilissima Signora,

Ringrazio vivamente dei gentili augurii.

Devo a Lei una risposta ad una lettera scritta per l'articolo di Lombroso : ma sa, ' egregia Signora Caterina, che per un artista che si espone al pubblico, è una gran for- tuna quando la stampa gli è contraria? L'artista resta così indipendente. Non ha bi- sogno di perdere il suo tempo a ringraziare l'uno e l'altro; di piegare ai consigli altrui:

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scrive liberamente secondo la mente p il ciiorp <rli (!fift;inn, e se in lui v'è stoffa fa... e fa bene.

Queste cose che iu Le dico male, le mteuda come se fossero dette bene e mi creda con sincera stima

Suo devotissimo G. Verdi.

Ciò che dèi resto lo aveva ferito di più, era l'accusa di essere av- versario di Wagner. L'Italia sa quale espressione di dolore egli mani festò quando il grande tedesco mancò alla vita. E non aveva alcuna necessità di fìngere l'emozione, tanto piìi, che il suo dolore per la scomparsa di tanto raggio, fu muto, e se ne trovarono i segni sol- tanto dopo che anch'egli chiuse la sua gloriosa giornata.

Lasciamo stare che Giuseppe Verdi non era avversario di al- cuno: amava e ammirava il bello in ogni sua forma, in ogni sua espressione. E ch'egli non lo fosse del Wagner lo provano queste grandi parole che egli disse a me, in un giorno di ospitale confidenza e che, lui sparito, si possono ripetere come precetto fondamentale dell'arte di un giovane Maestro, attualmente e alternamente festeg- giato e combattuto : « Quando conoscerà il Mascagni gli dica in mio nome che non faccia del Wagner, perchè il Wagner è già stato fatto ».

E io potrei aggiungere di mio che, quando il Mascagni andò a Vienna a mietere allori, e per cui la reclame esagerata generò una reazione alquanto beffarda nei giornali paesani, che si traduceva in epigrammi, egli ne fu dolentissimo, perchè gli dispiaceva che l'Italia esprimesse per un Italiuno e a Vienna una specie di biasimo, che egli credeva si dovesse assolutamente evitare.

# *

Egli voleva in tutto, nella gloria, nella fama, nella fortuna, nella musica, e nell'arte, sempre Vitalianità, il carattere, il gusto, l'ar- monia nazionale.

L'ideale dell'arte e della lingua specialmente per lui, vissuto nel- l'intimità del Grande Lombardo, di quel sanlo di Don Alessandro, era sempre italiano. L'Italia egli non la divideva da alcuna nobile aspirazione; e benché nato povero in povero villaggio non avesse avuto mezzo di istruirsi in nulla, intanto, con una di quelle intui- zioni nazionali, come Santa Caterina da Siena che, nata povera come lui, operaia come lui, a trent'anni sapeva appena leggere e scrivere e ha lasciato il più puro tesoro della lingua italiana, Giuseppe Verdi seguiva la quistione della dolce favella materna, con una passione da innamorato geloso. E in una polemica, a cui la cortesia non to- glieva nulla alla vivacità, che ebbi con Ugo Ojetti, sul decadimento della lingua italiana, Giuseppe Verdi mi seguì con paterna, amorosa premura, finché non mi vide assicurata la vittoria finale.

Era morto in quel tempo Ruggero Donghi, presidente della Daìite Alighieri, e il Gianturco ne aveva fatto la commemorazione in modo degno di lui, anzi in modo degno di entrambi, parlando inci- dentalmente del decadimento della lingua italiana.

Nel fame il resoconto e nel lamentare che nell'educazione nazio- nale, specialmente della classe dirigente, le donne coltivassero più le

36 Voi. CLXVII. Serie V 16 ottobre 1915.

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lingue straniere che la lingua nazionale, secondo le parole del Gian- turco che aveva evocato il ricordo del libro di Ruggero Bonghi Perchè lo letteratura italiana non sia popolare in Italia, io mostravo la fede che la Dante Alighieri avrebbe contribuito a che la lingua italiana ri- prendesse il suo primato nelle classi elevate e che si tenesse conto anche dell'origine dei dialetti, che rivelano il carattere nazionale.

Ugo Ojetti, non era allora di questa opinione; e mi rispondeva con un atto di speranza che, le letterature straniere anzi dovevano completare la nostra; quasi rinsanguarla con nuove forme e nuove frasi, più espressive e, a Dio piacendo, più moderne e più scelte. Di più con bella maniera mi dava della codina e della provinciale, con una punta di beffa che destò tutti i miei ribelli ardori paesani.

Provinciale sì, dicevo, ma codina no; perchè l'amare e l'onorare la lingua connaturata col suolo, respirata coU'aura della patria, be- vuta col latte delle prime impressioni, cioè la lingua di Dante e quella di Giusti, non poteva essermi attribuito a peccato; e alla mia volta risposi con un atto di carità del natio loco a cui, per cortesia del mio contraddittore, fece seguito un suo atto di contrizione, che fu la prima acqua messa nel suo vino straniero, diventato poi suo nutri- mento vitale, nello studio che egli fece per il centenario della restau- razione della Crusca, auspice Ferdinando Martini.

Quell'alto di contrizione fu oggetto di grande compiacenza per Giuseppe Verdi, che aveva temuto per un istante di vedermi ridotta al silenzio sotto i colpi di così brillante avversario : e anche allora mi scrisse in proposito la seguente premurosa lettera da Montecatini :

Cara Signora Caterina,

Tutto dire! Gli ozii di Montecatini mangiano il tempo. Strano caso... e sarei ben curioso di penetrare questo mistero non far nulla e non aver tempo !

Ho peraltro letto i suoi scritti sui quali, se potessi dare giudizi, direi che sono bejlissimi, che Ella ha un ingegno che va in fondo. Ma che potrebbe Ella credere al giudizio di un guasta-note?

Fra le tante cose. Ella domanda una lingua nostra, proprio nostra... e vorrebbe anche che «o^ fossimo noi!!! Ah! è troppo!

Bisogna essere modesti, e contentarci di fare quello che fanno gli altri... e anche se non fanno bene cosa importa?... È ehie ammirare, imitare, adorare tutto quello che viene dal di là; ed è anche più comodo.

La ringrazio, egregia Signora, e mi jallegro con Lei.

Riceva i cordiali saluti di mia moglie ed i miei e mi creda

Suo devotissimo G. Verdi.

Certo non è modestia da parte mia il mostrare qui la bontà che Giuseppe Verdi ebbe per me; ma la vita delVuomo sulla terra è una tentazione. L'ha detto Giobbe. Nessuno mi farà colpa di aver tanto osato. E se qualcuno me la facesse, direi con Giuseppina Verdi : Va- nità delle vanità! Tutto sotto il sole è vanità! Vero verissimo; perchè io pure, completissimo zero, mi pavoneggio tutta... (non di quello che essa diceva di pavoneggiarsi, e che potrebbe aumentare la mia vanità) di aver goduto per molti anni la benevolenza affettuosa del buon Genio della patria.

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Si è parlato anche molto di un inno nazionale che il Maestro ivrebbe dovuto musfcare per preghiera, mi pare, di Giovanni Bovio. H stata anche pubblicata una lettera del Maestono a Giuseppe Mazzini 111 data del 18 ottobre 1848, in cui accettava di musicare Unno mili- tare sopra parole del Mameli, che coU'inno Fratelli cTltalia si era ri- \ elato il poeta della patria. ,

Quella lettera al Mazzini si chiudeva così :

Possa quest'inno, fra la musica del cannone, essere presto cantato nella pianura ! imbarda!

G. Verdi.

L'Inno aveva queste due strofe:

Suona la tromba, ondeggiano Le insegne gialle e nere: Fuoco per Dio! sui barbari Sulle vendute schiere! Già ferve la battaglia Al Dio dei forti osanna! Le baionette in canna £ l'ora del pugnar!

deporrem la spada FiiK-hf sia M-biavu un angolo Dell'Itala Contrada, Finche non sia l'Italia Una dall'Alpi al mar!

I versi non eran belli, e non so se sia piaciuta la musica al Maz- zini, per cui il Maestro gli faceva delle spiegazioni sui tronchi e .sugli sdruccioli che erano certamente fuori dall'interesse dell'agitatore : certo, che io mi sappia quella musica non fu pubblicata. Ma un altro inno doveva essere musicato dal Verdi : ed era di Jacopo Sanvitale, il poeta della \osUilgia, a cui trilustre i modi ridean di Fiacco, e che aveva subito una prigione di Stato nel 1811, perchè aveva osato dire aU'L'om fatale che avrebbe dovuto rendere l'Italia, egli che lo poteva, libera e ricca.

Giuseppe Verdi e Jacopo Sanvitale furono delegati a portare i voti dell'Assemblea parmense a Re Vittorio Emanuele pel Plebiscito, e vi si recarono insieme passando per Milano; il Maestro che aveva ancora la sua barba e i suoi capelli quasi del tutto neri; il poeta colla Ita bianca ricciaia da natura attorta, appena reduce dall'esiglio, e he aveva consacrato alla ribellione contro la tirannide la sua forte energia di bardo e di pensatore.

II popolo di Milano accolse con entusiasmo caloroso i due dele- gati del patriottismo parmense, e i tessitori lombardi, che tante volte, secondo le parole del poeta tedesco, avevano temuto di aver tessuto il lenzuolo funebre della patria, ordito di maledizioni e di iitiruiccie per gli oppressori, presentarono ai due più illustri cittadini (li Parma una bandiera tricolore di un sol pezzo, su cui la spola indu- -tre aveva contesto il nome della loro Associazione.

Quella bandiera fu ceduta dal Grande Maestro al suo illustre ompagno, perchè gli pareva fosse a lui più giustamente dovuta. E

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quando il popolo li acclamò e volle vederli alla finestra, e il Maestro si ritrasse sgomento dietro il vecchio poeta, che agitava la chioma canuta pel tremito di una vecchiaia già inoltrata, Jacopo Sanvitale gli afferrò il braccio, lo spinse avanti a e nel silenzio ammira- tivo della folla esclamò fortemente :

È questi il Legato della patria mia, Questi è il prence dell'Italica Armonia!

Non è senza profonda commozione che io rievoco questo ricordo, perchè fu in quel giorno che ira Jacopo Sanvitale e Giuseppe Verdi stabilito che uno avrebbe scritto l'inno nazionale e l'altro lo avrebbe musicato: e io, discepola f quasi segretaria di quel Poeta, che mi chiamava la sua Beniamina, all'ombra di quella bandiera, allora giovinetta, scrissi sotto dettato del Poeta in gran parte quell'inno nel paese de' miei padri, ael 1859, di cui ricordo ancora alcuni versi :

Troppo ardente è per voi questo sole, Ne la terra ne il ciel non vi vuole: Questo suol, questo mar, questo ciel Non è fatto per l'uomo crudeli

E qui un ritornello che non ricordo più. Poi seguitando :

O Francesil Voi miti e gagliardi, Sempre uniti fien nostri stendardi! Per voi libero il mondo sarà! Benedetti per tutte le età!

Ungheresi! perchè contro noi Del servaggio vi fate gli eroi?! Qua con noi, sui briosi destrier, E sarete i piìi bei cavalieri

Anche quell'inno non fu poi musicato perchè era in forma me- lodrammatica, con cori di giovinette e di guerrieri; ma il Maestro ri- cordava con commozione intensa quel momento politico della sua vita; e ne parlammo insieme un giorno a Sant'Agata, quando la sua dolce Peppina era ancora vicina a lui, ad aggiungere grazia ad una ospitalità così cortese ed illustre.

*

E poiché da un ricordo ad un altro, come da un vaso di miele che trabocca, ho parlato di questa comunione felice di anime, di cui la dolcezza ancor dentro mi suona, non posso tacere di una mia impresa che compii in un giorno solenne per me.

Tutto il mondo sa che a Loreto vi è una basilica, a cui l'arte, la leggenda, la storia, la fede, hanno assegnato un nome universale e dove un umile fraticello, che si chiamava in quei tempi il Padre Malaga, accoglieva come in un mare d'oro i fiumi e i rivoletti della fede di tutto il mondo.

Pel centenario che era allora imminente di quel Santuario, si dovevano celebrare feste artistiche straordinarie; e per quella grande

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solennità dello scoprimento della cupola, si sarebbero volute cantare delle litanie classiche^ immortali.

10 fui deputata ad andare a Sant'Agata con una tratta in bianco, di cui l'enorme valore non occorre neppure accennare. Per quel cen- tenario, il Sacconi vi ha rintracciate nella basilica le antiche linee a sesto acuto, che ne innalzano l'arco verso il cielo. Il Maccari vi ha dipinto nella cupola, con simboli meravigliosi, le Litanie e la Saluta- zione angelica, .^e i putti rotolano deliziosamente in nastri splen- didi : il Seilz vi ha posto, con un pennello di quattrocentista, resi più splendidi dall'arte del Rinascimento, i misteri della fede, le si- bille, i profeti e la grande stirpe di Davidde, da cui discese la Vergi- nella che cantò il Magnificat, sotto l'umile architrave della casetta di Nazareth. La scodella del Cellini, si erge a confronto del taber- nacolo di bronzo del Maccagnani, nato in quella Magna Grecia, che ancora i suoi figli onorano coU'arte piìi pura; le lampade d'oro, la profusione delle pietre preziose, i quadri del Reni e di mille artisti sommi : gli arazzi e i vasi di antica Faenza, con disegni di Raffaello, di Giulio Romano, di Pierin del Vaga; l'architettura del Bramante, la musica conservata nell'archivio del Palestrina, facevano nascere in me la fede, che il Maestro non mi avrebbe ascoltata indamo.

Io, modestamente parlando, e abbassando gli occhi e la voce per non farmi scorgere, dovevo scriverne la storia, ma ne rifiutai umil- mente, come dovevo, l'incarico. Per compenso di felice usura, Giu- seppe Giacosa l'aveva raccolto e ne doveva intessere una conferenza degna di lui. Questo forte pensiero formulato da quel gruppo di ar- tisti, poteva essere ascoltato da colui che aveva personificato il genio latino, e aveva mediterranizzato la musica, che a guisa di polvere so- nora su cui fosse caduto un raggio di sole, aveva rivelato una nuova potenza irresistibile; e io accettai di esseme interprete.

Quando andai a Sant'Agata ci trovai anche la Stolz. Il Maestro mi fece entrare con essa e con la Signora Peppina nella sua stanza, a grandi damaschi bleu del, a mobili d'ebano, dalla cui finestra aperta entravano il profumo dei fiori e il canto degli uccelli svolazzanti su- gli alti alberi del giardino.

La fede è intrepida. E tentai.

Non dirò il mio esordio, perchè questo squarcio di autobiografìa potrebbe interessare i miei lettori assai mediocremente.

11 Maestro, malgrado che io avessi due tanto valorose alleate, mi disse subito:

Lei è furba, ma io lo sono più di lei. Vuole che dopo aver fatto quel birbante di Falstaff io faccia della musica sacra?

Modestamente io risposi, forte dell'appoggio delle due insigni artiste che imploravano con me

Maestro: scusi, ha pur fatto il tuba miruml

Avevo tubato prima!

Ma tubi anche dopo. Guardi : Lei che ha pregato requie a quel Santo di Don Alessandro, sulle ali dorate dell'organo in una ba- silica antica, scusi, non uscirebbe dal suo genio: sarebbe il primo motivo che oscillerebbe ancora nell'ultima corda!

Lei è furba, ripetè, ma io sono piìi furbo di lei. Vada dal Maestro *** (e me lo indicò). Questo potrà farle quello che vuole. Se è per un'opera son qui : se no, noi

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Non osai insistere e partii.

Di a pochi giorni, ricorrendo il suo 78° anniversario, nel dargli il buon giorno, come facevo sempre, osai sottoporgli il mio progetto, scritto in questi termini :

Maestro,

Anche il mio augurio, Maestro, per domani e per sempre; e molte grazie perchè le mie stonature di ier l'altro furono perdonate, o mi parve, da Lei o dalle gentili creature che stavano prendendo con me il caffè nel Santuario.

Santuario! Se mi sentissero coloro che stanno attaccati alla lettera e non allo spirito della legge!

Ma questa pai'ola Santuario, mi riconduce al pensiero della mia gloria se io riu- scissi... Basta! Non voglio fare \\ guastafeste.,, e sarà la sola parola che mi sarò ri- mangiata nella vita!

Eppure non è stata proposta indegna del Maestro che fece cantare la Salutazione angelica alla Sposa del Moro di Venezia, e che sotto gli archi e le colonne del Monastero fece risonare il Miserere al figlio della Zingara ; e dopo la mestolata di Fra Melitene, nel fraticello umile e rassegnato per l'immensità dell'amore perduto, trovò la nota santa e innamorata della fanciulla, vittima della forza del destino.

Saper destare i morti nella sepoltura, come nel giudizio universale di Michelangelo, e strappare lo scettro ai tiranni come la libertà, riducendo nel deserto colui che aveva sognato il colosso dai piedi di creta ; e nella nota melanconica dei Lombai'di alla prima Crociata, far piangere i Panduri dai ceffi di Jena nella Chiesa di Sant'Ambrogio (se ne ricorda dunque, Maestro?); saper farci guardare in alto anche quando non sappiamo più pregare : saper trovare tutte le vie del cuore, tutte le vie dell'intelletto, tutte le fibre più misteriose delle anime, e dire di no pei' questa Verginella umile e mansueta, che conquistò il mondo coll'amore?

Non è Davidde il ceppo suo? Con Lei Era il pensier dei nostri antiqui vati!...

E questo ceppo di re, all'infuori anche della rivelazione non è tutta una poesia, piena di fascini misteriosi'?

Io non so se altri abbia detto, o scritto o pensato, uno di quei paradossi, di cui il Carducci mi ha accordata la privativa ; ma per esempio, questo ceppo di re e di poeta da Salomone a Davidde, che ha saputo cantare il Magnificat e ha portato nelle viscere X Au- tore d'un'opera come il Vangelo; questa fanciulla, che deve rimaner Vergine, quando da quel popolo si aspetta il Salvatore ; quando perfino la sterilità per questo, è considerata un obbrobrio per la donna ebrea e che è insieme d'un fahro nazaren la sposa e il solo ceppo vivente della Stirpe di Davidde, a cui spetta il regno di (jiudea... 0 dica, Maestro, dica, non le pare che anche allora, la ragion di stato che ragion calpesta, la politica, non abbia messa la sua mano in questa faccenda ?

Se non che qualche cosa di più forte della legge umana ha segnato l'impronta su quel seno; e Y Aspettato è giunto; d'ond' era atteso uscì: e figlio dello Spirito, la Giudea ebbe il suo erede presuntivo alla corona.

Rea Silvia, la Vestale, nella leggenda di Roma, ha qualche lontana e poetica analogia, colla leggenda rivelata ; e anche la figlia di Faraone non ha soltanto salvato Mosè dalle acque ma ne parrebbe esser stata la madre.

VERDI INTIMO 559

La leggenda pagana, come la semitica, come la cristiana confrontate fra di esse, sublimi tutte, affidate alla tradizione, al culto e alla Storia, hanno dato il Decalogo, il Cristiane- simo, Roma.

Quale grandezza. Maestro !

Che più ? Le orìgini dei re e dei culti primitivi subiscono gli stessi rischi, gli stessi perìcoli, prìma di assurgere alla luce della potenza. Giove stesso non doveva essere divorato da Saturno? Una pietra fu sostituita per saziare quel mangiatore di figli, perchè il cielo avesse il fulmine vendicatore ; la leggenda fatidica ha fatto scendere nel fiume la figlia di Faraone, perchè il mondo avesse il Decalogo, e l'arte la statua del Mosè di Michelangelo ; la lupa porse le sue mammelle ai gemelli, perchè il gran nome di Roma si stabilisse sulla terra : e la fuga in Egitto, salvò l'erede del trono di Giudea, perchè la libertà e l'amore redi- messero il mondo.

E questa Verginella, questa Madre, questa Sposa, per cui il mondo fu piccolo e il cui nome è s;into ;

Ne il verrà che d'oblianza il copra: Anco ogni giorno se ne parla ; e tanto Secol vi corse sopra...

come ha detto a Lei e a noi, quel Santo di Don Alessandro ; invocato dal poverello d'Assisi che diede la lingua all'Italia, e cantò // frate sole e la suora luna e le stelle: ed ebbe per genio l'amore e la carità per sentimento, che la chiamò Beata, e piatito i rosai che ancora fiorìseoDO senza spine all'ombra delle basiliche dipinte da Giotto, e di cui la tradizione inge- nua dei pellegrini lauretani dice profetizzasse che sarebbe stata portate la Casa di Nazareth in terra d'Italia; e i Crociati poterono ben portarla; e gli ori affluirono al tempio e le preci volarono al cielo.

Tanto piacque al Signor di porre in cima Questa fanciulla ebrea...

0 dica. Maestro, considerate in ogni lato le litanie che risuonano sotto gli occhi gotici, non le sembrano degne di tentare un genio?

O Vergine, o Signora, o Tutta Santa, Che bei nomi ti serba, ogni loquela! Più d'un popol superbo esser si vanta In tua gentil tutela!

Ospite di Genova, Città di Maria Santissima, come dice la scrìtta ; Colai che cantò requie al Poeta della Vergine Signora e Tuttasanta, e parla un linguaggio cosi univer- sale che l'Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l'udì, potrebbe esser pago di far invo- care in sua favella. Colei che i preghi ascolta e le querele, non come suole il mondo. E l'organo maestoso sotto la cupola degna del Brunelleschi farebbe il rìscontro più grande, e dirò, più vittorughiano all'umile organetto della Chiesa di Roncole.

Maestro, sarebbe sublime!

Quella lettera ebbe una risposta strana inaspettata, insperata, incredibile ; e la ebbe molto più tardi : quando cioè le Laudi furono cantate a Torino.

Egli aveva detto ad un amico: Tutti credono che la mia ultima musica sarà un'opera buffa : invece sarà una musica sacra. E lo fu! Il Maestro mi scrisse da Montecatini :

660 VERDI INTIMO

Montecatini, 24 luglio 1898.

Gentilissima Signora Caterina,

Scrivo presentemente a stento, e scrivo male, come in passato. Scuserà quindi se sarò breve.

Ch'ella sia furba lo credo ; ma non credo (né Ella lo crede) di aver bisogno del tramite di Monteverde.

Ad ogni modo la ringrazio della oortese graziosa letterina, e della buona memoria che conserva del suo decrepito ex Maestro. Le stringo le mani e sono

Sempre suo devotissimo G. Verdi.

Con questo nome e con quello del Monteverde, chiudo oggi queste reminiscenze, col dolce in bocca di questi nomi, associati nell'arte e nella storia, e coU'innocente compiacenza che nessuno potrebbe to- gliermi dalla mente di aver creduto e di credere che una lontana ispi- razione a quelle Laudi, non sia venuta dalla mia lettera; quasi un granello di seme, come diceva il Grande Lombardo, caduto a caso, o trasportato dal vento, o lasciato cadere dal becco d'un uccello o in- volto in una lanuggine rustica, e che può far germinare un bel la- pazio nel giardino d'un Genio.

Il che non può essermi attribuito a superbia, ma mi è pensiero consolatore!

Caterina Pigorini Beri.

GIUSEPPE VERDI

NELLA MUSICA SACRA

Invitato a collaborare nella Nuova Antologia in onore del grande Maestro italiano, mi veniva assegnato un tema che a tutta prima re- semi quasi dubbioso e diffidente : Giuseppe Verdi nella musica sacra.

Come parlare infatti di questo argomento e con quali criteri, se tutta la mia modesta vita d'artista, da un trentennio ad oggi, ha mi- rato soltanto al proposito di promuovere la restaurazione della mu- sica sacra secondo quei principi estetici e liturgici, dai quali e pei maggiori e pei minori compositori parve per lungo tempo soltanto in Italia l'arte sacra discostarsi?

Avrei dunque dovuto rifiutare : o pure, al lume delle nuove idee oramai diffuse e praticate ovunque, pretendere di accingermi a soste- nere e difendere i principi pei quali ho combattuto e combatto cri- ticando ingenuamente una parte dell'opera grandiosa dell'autore della Messa da requiem composta i>er l'anniversario della morte di Alessandro Manzoni: quella Messa cioè che al suo apparire nel 1874 faceva sorridere maliziosamente e poscia, a venti anni di distanza, ricredere ed Hans von Bùlow e Camillo Saint-Saèns? Pensai allora che ognuno deve avere il coraggio delle proprie idee non solo per negare ma anche per affermare, e mi accinsi a dettare il presente articolo.

Poiché quella prudenza che per senso di rispetto mi avrebbe po- tuto suggerire di tacere, qualcuno avrebbe potuto giudicarla debo- lezza; mentre ad una tacita dedizione nessuno finirebbe per credere essendo essa troppo lontana da' miei principi e dal mio passato non soltanto di critico comunque mi si voglia giudicare ma altresì di propagandista, nel senso pratico, dell'arte liturgica.

D'altra parte le mie relazioni personali col Maestro: i lunghi conversari sull'arduo tema : le di Lui precise idee acquisite cogli anni intomo alla musica sacra ed alle sue finalità, mi vennero in suffi- ciente aiuto e mi determinarono ad assumere il compito che, senza jattanza e senza timidezza, mi accingo ad affrontare ed a svolgere.

* # #

Qualche mese innanzi la morte del sommo Maestro ebbi occa- sione di avere fra le mani un suo Tantum ergo autografo composto in gioventìi, trascritto con ogni cura e nitidezza e dedicato ad un suo carissimo amico dilettante baritono e farmacista in Busseto. Rile- gato in tutta pelle e decorato con fregi dorati, era stato presentato

562 GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA

dai possessori al Maestro stesso perchè dichiarasse se riconosceva per suo il componimento e l'autografo prezioso! Ed il compositore nel- Tautenticare il proprio manoscritto, alla distanza di oltre sessanta anni, v'aveva aggiunto di suo pugno press'a poco questa dichiara- zione : « Purtroppo riconosco per mia questa brutta composizione. Consiglio chi ne è possessore di gittarla alle tiamme non avendo essa alcun valore artistico liturgico ».

A quegli il quale riteneva il Tantum ergo in parola non parve vero di essere riuscito a rendere più prezioso il duplice autografo, e se lo tenne come era ben logico oltremodo caro. Ma se a me fu offerta occasione di vedere in qw^ìV andantino di carattere villereccio e nella cabaletta del Genitori null'altro che una delle solite composi- zioni da chiesa tanto in voga in quel tempo, dettate sulla falsariga dei Tantum ergo di Mercadante e di Coccia, potei anche, nella chiosa più recente, rilevare quanto il Maestro fosse compreso dell'impor- tanza di alcune sue affermazioni che in materia di musica sacra eb- bero, si può dire, valore assoluto : cioè lo storico Torniamo all'antico ripetuto a Francesco Florimo, ed il « Noi pure figli di Palestrina, ave- vamo un giorno una scuola grande e nostra! Ora si è fatta bastarda e minaccia rovina. Occorre tornare da capo! », con cui nel 1892 si ri- volse ad Hans von Bùlow. E che queste affermazioni non fossero, dal suo labbro, frasi d'occasione, lo prova il fatto del vivo assoluto inte- ressamento da Lui dimostrato sovente, di conoscere ed approfondire le opere dei classici maestri italiani della polifonia. Mi. narrava Egli con rammarico, nella silenziosa quiete della sua grande camera da studio e da letto a Sant'Agata, di avere sempre nutrito il proposito di prendere domicilio per qualche tempo a Bologna, a Roma od a Napoli per trovar modo di studiare nelle Biblioteche sulle grandi composizioni dei maestri del bel periodo antico; ma che purtroppo, stretto dal tempo, dalle imperiose necessità della sua vita d'artista, dall'obbligo di lunghi viaggi e di doverose visite, non gli riuscì mai di attuare il suo divisamento.

Come appare dalle lettere più innanzi riprodotte, sul principio del 1896 il Maestro chiese a me di poter conoscere alcune composi- zioni sacre d'autori settecentisti della scuola veneta sui temi dei quali diceva di essersi esercitato da giovane alla scuola del Lavigna.

Parlando di queste circostanze dimostrò più volte d'aver saputo rilevare con intuizione sicura le differenze di stile che corrono fra i polifonisti del secolo xvi e quelli di un secolo o di due secoli appresso. Meglio; ricordo ancora come Egli insistesse sulle affinità che qualche volta si palesano fra alcuni passi di G. S. Bach e di Haèndel con dei brani dei Salmi di Marcello. Il discorso per l'appunto fu portato un giorno sulla identità del tema della prima Fuga del Clavecin bien tempere col primo Salmo del maestro veneziano.

soltanto della risorta polifonia vocale dimostrò Egli di interes- sarsi pur dal punto di vista liturgico: che lo stesso canto gregoriano, nelle tonalità, nel ritmo, nella scrittura gli si palesò in tutta la sua bellezza formale ed intrinseca.

Quando Giuseppe Verdi si accinse a dettare la sua grande Messa da requiem, ogni idea di restaurazione e di riforma della musica

GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA 563

sacra in Italia non si era peranco affacciata. Quel che accadeva in Germania ed in Francia, da noi si ignorava completamente.

Franz Witt fondatore del cecilianismo tedesco tutto pervaso allora di anima italiana era appena all'inizio del suo poderoso la- voro di organizzazione. Non potevasi quindi, da Verdi da altri che già non fosse entrato nell'atmosfera delle nuove idee, porre la questione quale dovesse essere la musica sacra, come considerare la sua portata estetica e liturgica se i più grandi maestri, da Bach ad Haydn, da Mozart a Beethoven, da Schubert a Liszt, da Rossini a Berlioz, tutti o quasi avevano preferito seguire la via spaziosa della lirica e della drammatica, cercando con questi mezzi di espres- sione di accostarsi al senso profondo dei suoi testi.

Cherubini classico ed accademico Mendelssohn più puro ed ideale : entrambi più castigati e contenuti, parvero aver detto una parola, se non mistica o liturgica, senza dubbio più affine al senti- mento religioso. Schumann, tutto pervaso di romanticismo, nel Sanctus della Messa in do min. musicalmente s'era innalzato ad altezze sublimi, ma aggiungendo immagini ad immagini, dalla sere- nità dei primi temi ampliando le linee sonore della sua architettura, sovrapponendo fantasticamente testi fra di loro disparati, aveva tolto alla propria Messa ogni valore liturgico.

Soltanto Riccardo Wagner e Gaspare Spontini parlarono alto e solenne in favore della restaurazione palestriniana da entrambi più volte ma isolatamente praticatcì.

Nessun contributo a questo movimento poteva però recare Gou- nod troppo romantico e sentimentale nelle sue Messe numerose, men- tre in Italia l'opera veramente singolare e nobilissima di Mons. Ja- copo Tomadini malgrado i premi conseguiti a Firenze ed a Parigi era rimasta ai più affatto ignorata, perché circoscritta alle valli del natio Friuli.

Verdi per conseguenza non si propose nel 1873, l'avrebbe po- tuto dato il movimento musicale di quegli anni, il quesito sul carat- tere cui informare il proprio grandioso componimento. Del resto non diversamente seppero fare compositori altrettanto celebrati venuti ap- presso — come il Dworak pur in altre Messe da requiem.

Per me e per queste considerazioni cade quindi ogni ragione di critica sulla base del principio liturgico alla Messa composta in morte di Alessandro Manzoni. Entrare poi nella disamina di essa, mentre l'opera celebrata sta per raggiungere il quarantesimo anno di esistenza, mi sembra ^ lo dichiaro affatto inutile.

Non posso fare a meno tuttavia di rilevare le patenti contraddi- zioni cui la critica italiana, pur recentemente, si é abbandonata in modo strano. Gli uni e furono i dilettanti gridarono crucifige alle asserite banalità di alcune pagine descrittive; gli altri e par- vero i dotCi scoprirono nella Messa perfino la mistica sensualità della polifonia palestriniana! E costoro credettero avvalorare la loro tesi gabellando Palestrina per umanista, figlio della rinascenza, solo perchè vissuto in pieno secolo xvi. Dove, quando ed in che modo avranno essi imparato a conoscere il grande compositore romano,

56 ± GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA

Dio lo sa! Verdi, lui stesso lo scriveva nel 1836 ad un amico il maestro Pietro Massini in Milano -per genio non si sentì mai in- clinato alla musica di chiesa.

Dai primi anni in cui visse a Busseto, e parve aspirare al posto di Maestro di Cappella del Duomo di Monza, sino al 1873, non si oc- cupò mai di musica sacra. Dettò la Messa da requiem spinto dal desiderio di lasciare traccia della sua religiosa venerazione per la memoria di Alessandro Manzoni. E compose musica eminentemente drammatica, in cui i sentimenti espressi dal testo sono resi nella loro significazione ideale, sintetica e concreta, ma senza riguardo alcuno alla disposizione letterale del testo medesimo.

Gito un solo esempio. La breve frase di due battute : Salva me fons pietatis del Dies irae, ritorna alle diverse voci dei solisti ed al coro, ben ventisette volte in cinquantatre battute di musica.

Verdi, così conciso, rapido e sicuro nel tracciare le linee de' suoi quadri musicali in teatro, avrebbe fatto questo in un'opera scenica su testo italiano? No certamente! Tosto ne avrebbe rilevato l'anacro- nismo, e l'avrebbe soppressa.

Ma lasciando ad ognuno che mi ha preceduto o mi seguirà di pronunziarsi a proprio talento sulle diverse parti della Messa, al lume dei criteri estetici che in fatto di musica sacra ho sempre pro- fessato dichiaro tosto che mi sento assai più vicino al Requiem tutto pervaso di supplice implorazione ed al Te decet hymnus, i quali en- trano nel primo quadro del vasto componimento, che non agli altri grandiosi brani prepotentemente suggestivi ed ormai da due genera- zioni acclamati. E ciò perchè in essi rilevasi una certa analogia con gli ultimi Pezz-i sacri eseguiti per la prima volta a Parigi nella Set- timana Santa del 1898.

La calma serena del primo tema, il procedimento imitativo di quello che vi succede, si accostano stilisticamente al Pater noster a 5 voci : meglio forse allo Stabat Mater ed al Te Deum.

Qualcuno che dalla asserita conversione di Giuseppe Verdi verso l'estetica degli antichi maestri italiani si era immaginato di arrivare finalmente a scorgere, nelle ultime sue composizioni sacre, il riflesso della vera classica polifonia vocale, sarà rimasto quasi deluso, quin- dici anni sono, quando apparvero, nel leggere quei Pezzi sacri cui ora volgo la mia attenzione. Eppure a me sembra che il cammino percorso da Verdi dal Tantum ergo composto pel farmacista di Bus- seto allo Stabat Mater ed al Te Deum di sessant'anni più tardi non l'abbia compiuto alcun compositore a lui contemporaneo, altri di cui la storia abbia lasciato ricordo e traccia.

Nel febbraio del 1896 così mi scriveva il Maestro riferendosi ad una mia recente pubblicazione d'indole storico-critica (1) : « Ella parla a lungo del P. Vallotti di cui io sono ammiratore, anzi... rico- noscente per alcuni studi fatti su suoi temi nella mia gioventù, ed a pag. 45 vedo citato un Te Deum del P. Vallotti!

« È stata una sorpresa per me che cerco da tanto tempo questa Cantica musicata, senza trovarla in Palestrina, in alcuni suoi

(1) L^Archivio Musicale della Cappella. Antoniana in Padova, 1895.

GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA 566

contemporanei! Di altri Te Deum scritti per occasione alla fine del secolo passato, od al principio di questo, m'importa poco; ma mi piacerebbe assai conoscere questo del Vallotti... qualunque ne sia il valore ».

Una restrizione regolamentare fece credere al Maestro non si potesse appagare il suo desiderio. Intanto egli, in data marzo suc- cessivo, mi indirizzava da Genova la lettera qui riprodotta in fac- simile e che per maggior chiarezza trascrivo nei brani principali :

« Io conosco alcuni Te Deum antichi, ne ho sentiti altri pochi moderni, e mai sono stato convinto dell'interpretazione (a parte il valor musicale) data a quella Cantica.

« Questa viene ordinariamente eseguita nelle feste grandi, so- lenni, chiassose, o per una vittoria, o per una incoronazione, ecc.

« Il principio vi si presta, che Cielo e Terra esultano... Sanctus, Sanclus Deus Sabaoth; ma verso la metà cambia colore ed espres- sione. Tu ad Liberandum, è il Cristo -che nasce dalla Vergine ed apre all'umanità regnum coelorum.

« L'umanità crede al Judex venturus; lo invoca Salvum, fac... e finisce con una preghiera: Dignare Dom,ine die isto... commovente, cupa, triste fino al terrore!

« Tutto questo ha nulla a fare colle vittorie e colle incoronazioni; e perciò desideravo conoscere se Vallotti, che viveva in epoca in cui poteva disporre d'un'orchestra e d'un'armonia abbastanza ricca, ab- bia trovato espressioni e colori, ed avesse intendimenti diversi da molti de' suoi predecessori».

L'esegesi che Verdi in questa lettera vien facendo del testo del- ìTnno aìnbrosiano presenta senza dubbio molto interesse i>erchè per- mette d'osservare cpme e quanto nella composizione musicale abbia seguito il disegno che si era tracciato.

L'interpretazione puramente liturgica dell'Inno in parola non poteva certamente appagare la fervida fantasia del compositore, abi- tuato a cogliere tutti i particolari d'espressione lirica in ogni più pic- colo dettaglio. Lo si vede chiaramente dal commento qui riferito. In- fatti le varianti contenute nella melodia ambrosiana non ricorrono sempre ove il testo secondo l'interpretazione di Verdi lo vor- rebbe. Da ciò appare evidente che il Te Deum. di Verdi come lo Stabat Mater va considerato quale Cantata di carattere religioso invece che quale composizione sacra strettamente liturgica.

Abbiamo constatato adunque con quali intendimenti Verdi si sia accinto a rivestire di note Ylnno am,brosiano. S'inizia esso sul tema liturgico, bello, grandioso, imponente. Poscia attraverso ad una suc- cessione di accordi semplici che passano dall'uno all'altro coro e che rivestono il carattere del falso bordone, s'arriva al Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth, scoppio improvviso di allegrezza, di sono- rità gioconda. Pieni sunt cceli et terra majestatis gloriae tuae canta il primo coro: Sanctus, Sanctus, risponde l'altro con impeto di esul- tanza. Ed ecco spuntare il bellissimo tema che dovrà passare come tenue filo e risplendere poi luminoso, sotto diverse forme e diversi colori, attraverso tutta la imponente composizione. Il contrappunto delle voci riveste qui un carattere corale veramente nobile e distinto. Ripetono i violini il tema precedente: tema che poscia viene imitato dai bassi, mentre le parti acute dell'orchestra e del coro contrappun- tano con frasi ricche e sonore.

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GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA 669

Ampiezza di linee, chiarezza di condotta, ricchezza di coloriti, ecco la caratteristica di questa grandiosa concezione i cui temi prin- cipali, ora in frammenti, poscia quasi per intero, fanno la loro com- parsa come preparazione ad una più ampia ripresa di essi sotto nuove vesti orchestrali, talvolta più adorne, più lussureggianti, tal'altra più dimesse, più tenui, più quiete. Ma il finale sulle parole In te. Domine^ speravi con quello squillo di tromba che si alterna ai legni unendosi alla voce del soprano, come è nuovo e sopratutto come è pensato!

Venendo a dire dello Stabat niater, fin dalle prime battute di esso, per gli accordi vuoti di quinta dati dagli archi, dai fagotti e dai corni, si rivela ad un tratto la vigoria di concezione che formò la ca- ratteristica — in ogni tempo dell'opera verdiana. E tosto lo stru- mentale si impone, pur nella sua semplicità, nella sua chiarezza, per la fusione, per l'amalgama delle diverse famiglie orchestrali. V'ha un punto di questo Stabat, dove i baritoni cantano soli al Quae moerebat, in cui sembra risovvenirsi dello Stabat di Rossini. Ma può essere questa non altro che una impressione passeggera di cui non valga la pena tener conto.

Sia nell'architettura generale che nello sviluppo delle idee parti- colari, ritengo più completo il Te Deum in confronto dello Stabat Mater. Nondimeno anche di quest'ultimo merita siano ricordati i brani più interessanti. Episodi istrumentali arditi e bizzarri si suc- cedono ogni tanto. Così accade dei sommessi squilli di trombe che accompagnano il Pro peccatis come per le voci insistenti dei comi che

37 Voi. CLXVII. Serie V 16 ottobre 1913.

670 GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA

per otto misure continue vanno lentamente languendo in unissono fino al Dum, emisit spirituml

Tralasciando altri rilievi, che pure sarebbero interessanti, mi fermo all'ultimo versetto :

Quando corpus morietur Fac ut animae donetur Paradisi gloria

saliente pensiero che informa tutta la concezione così potentemente lirica della parafrasi musicale alla Sequenza di Jacopone da Todi.

Dapprincipio è il terrore, lo spavento che sembra dominare; po- scia la speranza, il conforto, il gaudio della vita futura annunciata e presentita. Qui il compositore ha saputo rendere con magistrale effi- cacia il contrasto immediato di questi due opposti sentimenti; con- trasto che egli già aveva ricercato nel Te Deum.

Squillano i corni e ad essi si accompagnano, a mo' di strappate, sommessi accordi degli altri ottoni, fino a che, sulle note lunghe del coro, le arpe, i violini vanno delineando tutta una progressione ascen- dente la quale, coll'aiuto di tutto il resto dell'orchestra, va man mano aumentando sempre più di forza e di calore, per poi decrescere no- vellamente sugli arpeggi dei violini, appoggiati appunto dalle arpe. Agli archi soltanto è dato poscia di chiudere questa squisita pagina per la quale apparisce come una lontana rimembranza di quel sospi- roso e così puro colorito che precede il duo d'amore nel primo atto d'Otello e che si inizia sulle parole :

Già nella notte densa S'estingue ogni clamor.

Così, in una vaga, indefinita e serena contemplazione del futuro ha termine la elegia verdiana che tutta sta racchiusa in poco piìi che duecento misure.

Fra il ridestarsi del fervore di critica verdiana in questi ultimi mesi, è apparso assai spesso sotto varie forme il commento più superficiale che la musica sacra di Giuseppe Verdi potesse mai sug- gerire, sia dal punto di vista liturgico, sia nella libera espressione di ideali sensi religiosi. E per entrambe le opposte tendenze si è potuto rilevare come un giudizio equo e sicuro, su questa particolare manife- stazione del genio verdiano, venga tutt'ora offuscato da una unilate- ralità di vedute assolutamente povera, gretta, meschina.

La Messa da Requiem non è certamente conciliabile con le esi- genze della liturgia molto opportunamente richiamate in osservanza in questi ultimi anni, non per stesse soltanto, ma ancora per un ritorno alVantico che pure, dal semplice punto di vista artistico, nella Chiesa, si imponeva in modo assoluto. Ma lo Stahat Mater ed il Te Deum potrebbero anche considerarsi con diversi criteri ed accogliere se non come propria e vera musica sacra, quale manifesta tendenza dell'autore verso più severe ed alte forme di espressione religiosa.

GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA 671

L'avere Verdi escluso nelle sue ultime composizioni le voci dei solisti prova l'attendibilità del mio asserto.

Ma il leggere poi che le leggi liturgiche le quali regolano la mu- sica nella Chiesa non sono che dei pregiudizi, e che il prendere a mo- dello per la musica sacra le opere di Palestrina maschera una asso- luta aridità di idee, desta un senso di commiserazione. Ancora non hanno saputo e voluto comprendere taluni, che van per la maggiore, quale differenza passi fra il carattere narrativo ed il carattere descrit- tivo dei sacri testi; fra le proprietà intime della preghiera pura e semplice, anche se essa evoca fatti materiali, e la ripetizione ogget- tiva dei fatti medesimi. qui è tutto; che ancora si osa parlare di una resuscitata forma d'arte, la quale tanto ha influito a promuovere lo sviluppo delle piìi moderne tendenze tecniche ed estetiche, come s. trattasse d'una fissazione di pochi incapaci di commuoversi e di assurgere alle più emotive espressioni dell'arte de' nostri giorni. Gli è che coloro i quali scrivono e sentenziano in questo modo mancano di ogni ombra di coltura e di suscettibilità spirituale in materia reli- giosa, mentre non avendo avuto tempo di studiare mai sulle opere di Palestrina e de' suoi seguaci antichi e moderni, di eseguirle o sen- tirle eseguite, si sono perfino dimenticati di ricordare quello che di Palestrina consigliandone lo studio costante e la esecuzione in pubblico ebbe a dire ed a proclamare più volte in sua vita lo stesso Verdi.

È mia gioia ed è mio orgoglio posso dirlo liberamente aver cercato ne' miei studi di estetica esposti al pubblico, e con gli scritti e con la parola, di riaccostare nelle varie loro opere i grandi maestri della polifonia vocale coi contemporanei che nelle arti del pennello e dello scalpello seppero assurgere al più alto grado di assoluta bellezza e di profonda espressività.

Alcuni, a questo proposito, si sono domandati quasi stupiti quali relazioni e quali rapporti possano correre mai fra un quadro lu- minoso d'un pittore cinquecentista, ad esempio, ed uno squarcio poli- fonico vocale d'uno dei compositori più insigni che ebbero a trattare un medesimo soggetto o ad illustrare un avvenimento religioso di cui la liturgia abbia creato un simbolo ideale. Gli è che certe voci intime ed ascose si sentono, o non si sentono; si percepiscono, o no; certe luci vaghe ed indistinte si vedono, o non si vedono, si scorgono o re- stano per sempre occultate, specialmente alle persone di debole vista.

Cogliendo, delle diverse manifestazioni d'arte nella Chiesa, le af- finità tecniche ed estetiche, m'è sembrato come di schiudere innanzi allo sguardo di chi m'ascoltava un orizzonte ampio, vasto, sfolgo- rante, in cui lo sguardo potesse affissarsi come d'innanzi a più com- pleta visione di bellezza.

E come tale visione si rivelò a John Ruskin, cui la volta istoriata da Giotto in Assisi, alta da terra a mala pena trenta piedi e tutta rico- perta della parola di Dio, apparve come un messale miniato dagli an- tichi alluminatori, così anch'io sentii più volte di poter accompagnare la visione sublime dell'arte pittorica degli antichi alla grande poli- fonia palestriniana ove le voci si rincorrono, si seguono, si alternano vicendevolmente, pur nello stile imitativo, con una meravigliosa con- tinuità ed indipendenza melodica.

572 GIUSEPPE VERD\ NELLA MUSICA SACRA

Passando poi da quegli esempì alle creazioni successive parvemi di poter riaccostare Andrea Gabrieli, compositore pieno di intima potenzialità espressiva, a Gian Bellini; e Giovanni Gabrieli, più li- bero ed audace coloritore, a Tiziano; ed Orazio Benevoli, ridondante, a Bernini; ed Antonio Lotti, quasi verista, a Giambattista Tiepolo.

Tante coincidenze noi troviamo infatti fra i musicisti ed i pittori loro contemporanei da rimanere assai spesso non soltanto sorpresi, ma talvolta benanco sbalorditi. La musica sacra per conseguenza io giudico sia stata quasi sempre tanto nelle grandiosi cattedrali quanto nelle più modeste chiese di campagna il riflesso della pit- tura e della scultura religiosa. E mi domando: « Esistette sotto questo rapporto nel secolo xix un'arte degna della tradizione secolare della Chiesa e del culto cattolico sia in Italia che fuori d'Italia? » Rispondo : « No, assolutamente! »

Detto questi appunti presso le volte secolari di un grando isto- rie© santuario e fissando lo sguardo su due concezioni pittoriche mo- derne, fra di loro profondamente diverse, rilevo le differenze spiri- tuali che animano entrambe.

La grandiosa cupola dipinta con ricchezza di linee, molteplicità di episodi e fasto pittorico da Cesare Maccari in Loreto, corrisponde esattamente, nel mio modo di sentire, allo Stabat Mater di Rossini ed alla Messa da requiem di Verdi.

La cappella del coro invece, religiosamente quasi direi devota- mente — animata dal pennello di Ludovico Seitz, appare come la di- vinazione rivelata di quella risorta polifonia palestriniana la quale se non ha trovato ancora l'eletto rianimatore ha però, in una collettiva resurrezione spirituale, acceso tante giovani anime che si vanno idealmente preparando al grande avvento.

Ora, per riepilogare e concludere, io affermo che la musica sacra di Giuseppe Verdi nella assoluta diversità di stile che dalla Messa da reqU)iem allo Stabat Mater ed al Te Deum l'informa e la vivifica rispecchia le condizioni dell'arte religiosa in genere dapprima non concepita che quale espressione drammatica, poscia più vicina, senza entrarvi risolutametne, allo spirito della restaurazione litur- gica — quale si animò e visse attraverso la seconda metà del se- colo XIX. Ed a convincermi di questo, poiché la maggioranza della folla d'artisti e del pubblico che vive del teatro e nel teatro non è ancora riuscita potrebbe tanto facilmente riuscire a comprendere cosa voglia significare nel concetto nostro musica sacra allo stesso modo che è ancora tanto lontana dalì'intuire le proprietà della pit- tura veramente religiosa basta il fatto che in questa ricorrenza del centenario verdiano nessuno dei nostri più illustri maestri direttori d'orchestra ha pensato di far eseguire lo Stabat Mater ed il Te Deum. Tutti si fermarono alla Messa da requiem e più in non vollero o non seppero procedere.

Si escogiteranno certamente delle ragioni per giustificare tale fatto, ma la verità in fondo è questa : le ultime composizioni di Verdi i nostri interpreti non le sentono; forse perchè in esse manca l'ele- mento drammatico di cui invece va ricca la Messa da requiem e del quale essi hanno bisogno assoluto per raggiungere quei risultati ed ottenere quell'effetto immediato cui sono abituati ed al quale hanno abituato il pubblico.

GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA 673

A Parigi nell'aprile del 1898 ho assistito alla prima esecuzione dello Stabat Mater e del Te Deuni. L'interpretazione parve accurata ma non animata al certo; l'accoglienza, rispettosa ma non fatta di convinzione. Ebbene; io auguro che una mente eletta, un fervido cuore, un braccio securo, quali in Italia fra i nostri interpreti pos- siamo grazie a Dio contare, vinte le riluttanze ed i preconcetti, sappia e voglia addurre nell'anima del pubblico le ultime composizioni di Giuseppe Verdi, che la sua nobile, alta ed austera figura abbia finalmente ad apparire tutta intera, lumeggiata in ogni piìi ascosa latebra dello spirito, e circonfusa di tutta quell'aureola che le età av- venire indubbiamente sapranno mantenere vivida, fulgida, incon- taminata.

Giovanni Tebaldini.

Biblioteca della Nuova "Antologia,,

1. *Cenere, di Grazia Deledda. L. 3. 10. Dopo il perdono, di M. Serao. L. 4.

2. Gli Ammonitori, di G. Cena. L. 2.50. 11. La via del male, di Grazia Deledda.

3. I Nipoti della Marchesa Laura, di M. ^- ^■^■

L. Danieli-Camozzi e G. Manfro- 12. I cantanti celebri, di Gino Monaldi. Cadolini. L. 3. ij L. 3.

4. Storia di Due Anime, di Matilde i^ 13. Homo Versi, di G. Cena. L. 2.50.

Serao. L. 3.50. 14. L'ombra del passato, di Grazia De-

5. Il fu Mattia Pascal, di Luigi Piran- ledda. L. 3.50.

dello. L. 3. '; 15. L'Edera, di Grazia Deledda L. 3.50.

6. L'ultima Dea, di C. Del Balzo. L. 3. '_^ 16. La Camminante, di G. Ferri. L. 3.50.

7. Nostalgie, di G. Deledda. L. 3.50. "* 17. *Nuove Liriche, di V. Aganoor.L. 3.

8. L'Illustrissimo, di A. Cantoni. L. 2.50. 18. li Nonno, di Grazia Deledda. L. 3.

9. Ore Calle, Sonetti romaneschi, di Au- ,, 19. Evviva la Vita! di Matilde Serao. gusto Sindici. L. 2.50. |j L. 4.

*Qaesti volami sono esatirìti.

ROGO D'AMORE

ROMANZO

XI.

Tutto in natura prooede a stati consecutivi che non possono mai •né essere eguali rinnovarsi. Questo pensiero le stava fìsso nella mente una sera di autunno avanzato, sola, nel salotto dove Moèna non sarebbe venuto quella sera.

Qualche cosa cambiava intorno a lei col movimento delle mole- cole d'aria che si spostano, movimento invisibile ma pure avvertito da una sensibilità amorosa che vigila. Ella era immensamente triste. Sapeva Ariele immerso nella duplice lotta per l'esistenza e per l'ideale e dinanzi al dramma oscuro di quella giovane vita la fiamma della sua passione la cingeva con maggior impeto, commista al nuovo elemento di dolore che raddoppiava in lei la sensazione umiliante della sua impotenza a farlo felice.

Una coppa ricolma d'acqua era a portata della sua mano. In quella coppa ella ed Ariele avevano tante volte ©stinta la sete in- sieme, trepidi di desiderio, e il ricordo dolcissimo la indusse ad ac- costarvi le labbra. Poi tornò a colmarla, che non vi era più spazio per una sol goccia. Il filosofo pensò vi porrebbe una foglia di rosa... ma io, io che cosa posso aggiungere ancora? Che c'è oltre l'amore se non la morte?

La morte corona e premio, sola conservatrice dell'amore. Questa idea si impossessò di lei col fascino di esempi immortali. Francesca, Parisina, Isotta, Ines de Castro, l'ignota amante del re di Thule, Giulietta, Ofelia, non devono forse alla morte di essere ancora così vive? Quale amore in carni caduche resiste all'azione del tempo? E il suo, il suo, per intima fatalità non doveva essere più che ogni altro caduco?

Ella avrebbe pur voluto come l'eroica Sita del Ramayana farsi compagna appassionata -dell'esilio di Ariele, seguirlo nelle aspre lotte, spezzare con lui il duro pane e come Sita gettarsi nelle fiamme per provargli la purezza del suo amore se al pari di Sita nella veste vermiglia della trionfante giovinezza, della imperitura bellezza, po- tesse dischiudergli le braccia e dirgli: Sono tua per sempre! Ma un amore che non può pronunciare questa promessa ha esso il diritto di esistere?

ROGO d'amore 575

Finche Ariele le stava vicino, i suoi sguardi, le sue parole, il suo raro sorriso, i suoi silenzi penetranti erano una realtà troppo cara alla donna amante perch'eila non ne subisse il dominio; ma in quelle sere di solitudine nelle quali Ariele lontano da lei combat- teva ignote battaglie, la eccezionalità dolorosa della sua condizione balzava fuori crudelmente nuda da un vero inesorabile e senza veli, poiché non un uomo, non un vincolo, non una legge, non scrupolo, non prudenza, non paura, non rispetti umani le impedivano di darsi intera ad Ariele. L'ostacolo che li divideva era di natura insormon- tabile, cresceva anzi di giorno in giorno scavando fra di loro l'abisso. Non era già oggi un po' più vecchia di ieri? E domani?...

« Liba l'ebbrezza insieme all'amato, mesci il tuo spirito al suo, fosse un solo istante, e avvenga che può! » Sì, anche questo pensava in una ripresa violenta dell'istinto; ma dopo, morire!

La bellezza pacificatrice della morte quale le si era rivelata la sera in cui aveva tenuto Ariele inerte sui suoi ginocchi, ingigantiva nella sua mente promettendo riposo a' suoi ner\-i esasperati, apoteosi magnifica di un amore impossibile. Morire intanto che il suo corpo resisteva ancora all'oltraggio degli anni, intanto che i suoi occhi sa- pevano ancora accendere il desiderio e la sua bocca soddisfarlo e l'anima sua con ala leggiera ancora non aveva scordate le vie del volo. Morire così, nelle braccia di Ariele, coU'amore di Ariele.

Si inteneriva a tale visione che l'avrebbe assisa nel di lui pen- siero veramente come l'unica donna degna di lui. Quale mai fra le tante che lo avevano amato, fra quelle che lo ameranno in av\'enire porgendogli ricchi doni di gioventù e di bellezza, quale potrà esa- lare con più umile ardore l'incenso di un'anima come la sua? Altre lo amino nel tripudio della speranza, nell'orgoglio della conquista, lo amino nella gioia, lo amino nel piacere; resti a lei la sorte divina di soffrire e di morire per lui.

Composta nelle pure linee del ricordo non sarebbe ella l'indi- menticata? E se i destini della patria si svolgessero gloriosi dopo il lungo ser\'aggio, se egli avesse la gioia di entrare nella sua città ac- clamando Trento libera qualsiasi l'ora segnata sull'invisibile qua- drante — potrebbe egli attraversare quella \ia senza guardare quella finestra?... Potrebbe egli non pensare, allora, al cuore che aveva bat- tuto così intensamente accanto al suo?

E più tardi, forse, più tardi, in una blanda sera, fra suoi monti, seduto all'aperto al limitare di un bosco, ascoltando una musica lon- tana, gli si reclinerà sul petto la pallida bella fronte e qualche bam- bino ruzzandogli ai ginocchi chiederà incuriosito :

Che hai, padre, che piangi?...

Le ultime grigie brevi giornate di novembre precipitavano verso la fine dell'anno. Moena non veniva più tutte le sere, aggravato da una soma di lavoro al quale doveva sobbarcarsi per far fronte a suoi impegni e per riannodare le interrotte fila del suo sogno di patria. L'amata restava sola, col vago presagio di solitudini anche più tristi, presagio alimentato dal crudele bisogno di rimuovere il ferro nella sua ferita.

Già erano lontane le ore della letizia prima, quando il cuore le trillava in petto con saluto di allodola allo schiudersi mattutino delle pupille, balzando dall'oblio del sonno al ritmo della vita nella gioia straripante di sentirsi amata. Il foUeggiante fanciullo che è amore

57-6 ROGO d'amore

bam]5ìno le apportava crescendo il pondo grave di ogni maturanza, Tocculto strazio delle forme che mutano, della sostanza che si rin- nova, della vita che passa. Troppo sentitamente amava perchè il do- lore non fosse con lei e troppo alta era l'anima sua per non acco- gliere il compagno inseparabile di ogni profondo cuore; ma la legge misteriosa ed oscura che lega alle più nobili coscienze una più fort'3 facoltà di soffrire concede pure l'inesprimibile dolcezza che nel fiero supplizio doveva rammentare a Prometeo l'orgoglio di misurarsi con un Dio.

Ed aveva pure quel suo dolore latente, diffuso come un velo sulle più dolci ebbrezze, una azione purificatrice che sembrava ren- darle innocenti, sembrava detergerle dall'originario istinto sensuale sommergendole in tanta offerta di sacrifìcio, in pronta e sincera dedizione che ogni volgare scoria cadeva. Poiché anche stringendo Ariele fra le sue braccia ella sentiva in la presenza del dolore, e mai poteva dimenticare la crudeltà del suo destino che in olo- causto ardente trasformavasi il bacio sulle sue labbra smorte, colpa ed espiazione insieme le era il suo grande amore e perciò sacro.

Per torturarsi maggiormente, per flagellare e per domare i sensi aveva la crudeltà di guardare in faccia l'avvenire e la donna che da soglie sconosciute, ancora non vista ma sicura avanzavasi lenta- mente contro a lei, sul suo sentiero... Colei che l'avrebbe surrogata.

Tenero © grave Ariele l'assicurava che ciò non doveva accadere, che non accadrebbe mai, ch'ella resterebbe l'Unica nel futuro come nel passato. Ed ella taceva, ma non credeva.

Con una raffinatezza da inquisitore si indugiava talvolta a im- maginare le sembianze di quella donna bella certamente, più bella di lei, sopratutto più giovane e il modo e il come della loro conoscenza, e i primi sguardi. Una serpe le si aggrovigliava nel seno a rammentare i silenzi di lui così eloquenti, i parchi detti, il riserbo signorile e pure così penetrante d'ogni suo gesto, quel pallore, quella voce. Sapendo le attitudini care al suo pensiero e le parole che torna- vano più frequenti alle sue labbra ne improvvisava i colloqui : E dove si vedranno? Quali altri luoghi gli saranno prediletti? Quali forme nuove gli si imprimeranno nella mente? Quale colore egli amerà nell'abito della novella amata? In quale ora, in quale istante scoccherà l'attimo supremo?... Aveva allora una visione acuta di ciò che doveva accadere, il ricordo precisando le immagini con un rea- lismo spietato.

Troppo conosceva le minime inflessioni della sua voce, i muta- menti del suo volto, e come s'accendeva il desiderio nelle sue pupille, ed in qual modo e per quale curva lenta e dolce piegavasi la sua bocca al bacio perchè, tutto il suo essere non fremesse di un infinito spasimo. Il supplizio era talvolta così forte che decideva di sottrar- visi, di fuggire, per dimenticarlo, per mettere mare e monti fra lei e quell'impossibile amore. Ma egli appariva e ricominciava il sogno.

Sul finire di un giorno d'inverno da due o tre giorni non si vedevano il caso li pose di fronte nelle vie della città. Fu una gioia improvvisa ed ingenua che li riportò ai loro primi incontri.

Come lassù disse Moéna ponendosele al fianco.

Ella volse un poco la testa per guardarlo alla luce dei fanali che stavano accendendo e riprovò la stessa impressione penetrante che aveva avuto una volta alla finestra dell'Albergo di Trento.

ROGO d'amore 677

Oh! lassù, lassù mormorò appassionatamente vi ritor- neremo mai?

Io lo spero.

Sempre si spera, ma...

Io lo voglio.

Erano in mezzo alla folla che tratto tratto li spingeva l'uno verso l'altra e quel rapido contatto li faceva trasalire di una non ancora conosciuta dolcezza. Accadeva pure che per il rapido avanzarsi di un tram, di una automobile egli la arrestasse stringendola al braccio lie- vemente e sotto la pelliccia l'amata sentiva la carezza. Non potevano parlarsi con tante persone intorno, con tanto rumore, ma era nuovo il piacere di trovarsi lor due soli mischiati a una turba di indifferenti che rendeva più acuta la sensazione della loro vicinanza, più squisito il mistero del loro amore.

Cadeva la nebbia rigida e avvolgente con un fascino di veli so- vrapposti in un fluttuare d'ombre, in un vanire fantastico di con- torni e di luci. Ella si serrò il manicotto contro il petto, fin sotto la gola. A un tratto lo porse a lui :

Senta come è morbido.

Ariele vi immerse il volto e la bocca:

Crescit eundo? chiese lei, pianissimo, toccando quasi colle labbra la spalla del giovane.

Tutte le rose che fiorivano intomo a loro in quell'evocato giorno di lontana letizia riapparvero, si diffusero nella nebbia umida, si sparsero a petali, a ciocche, a corone, invermigliando l'aria che di- venne tutta del colore di quelle rose, come quel giorno!

E non dissero più nulla, camminando insieme, vicini, beati, senza vedere i passanti, urtandoli.

Ma queste alternative di scoramento e di ebbrezza la uccide- vano. Ella aveva da tempo la prescrizione medica di evitare le forti commozioni, minacciata da un mal di cuore che la sua eccessiva sensibilità rendeva pericoloso. La vita del pensiero era in lei così intensa che un'ora sola di gioia o di dolore le alimentava un seguilo di vibrazioni tali da esaurirla. Bastava talvolta una lettura per far sorgere d'un colpo tutti i tormenti della sua anima. Appunto in quei giorni le accadde di leggere una di quelle creazioni tra la fiaba e il romanzo dove gli autori nordici sanno trasfondere il loro profondo senso della vita.

« Un bambino errando per le vie della città si trova dinanzi a un gran muro bianco forato da una porta verde. Un istinto inconsa- pevole lo spinge ad aprire quella porta ed eccolo in un giardino me- raviglioso pieno di fiori olezzanti, di frutti, di uccelli dalle piume iridate e lucenti come gemme, dal canto soave di arpe d'oro. Eleganti pantere, piccoli leoni mansueti gli si avvicinano lambendogli le mani. Schiere di fanciulli sorridenti lo circondano, lo invitano a giuocaré ed egli giuoca ed è felice. Tutto intorno a lui è bellezza, luce, ar- monia, bontà. Come mai egli si ritrova solo, piangendo, in una via deserta sotto la pioggia, sotto le raffiche?... Non glielo doman- date; non lo sa. Ma il ricordo del giardino meraviglioso ritoma pe- riodicamente nella sua esistenza ricondotto quasi dalle crisi succes- sive della vita. Egli rivede ancora la porta verde nel muro bianco, ma tutte le volte che cerca di awicinarvisi, un incidente si mette tra lui e il sogno e gli impedisce di entrare. Quante occasioni mancate!

578 ROGO d'amore

Che struggimento del bene perduto! Finalmente una notte in cui la fantasia eccitata e i n^rvi tesi gli rendono più che mai imperioso il bisogno della felicità, passando da una via sconosciuta si trova dinanzi ad una impalcatura che sembra un muro bianco segnato da una porta verde. Gol cuore che gli palpita si accosta, apre, fa alcuni passi e cade da un'altezza di trenta piedi. Egli aveva creduto... ».

Lesse e pianse.

Tutto quell'inverno Moèna non apparve in società. Poco noto prima, lo si stava dimenticando. Solo una volta la signora sorprese il suo nome pronunciato da due giovani che stavano in disparte a narrare i particolari di una partita galante.

Non ci doveva essere anche Moéna?

Non ha accettato.

E strano quel giovane.

Sì, strano. Dicono che sia innamorato.

Di chi?

Fino ad ora è mistero, ma sai, sono di quelle cose che si fiutano nell'aria.

Alle prime parole udite tutto il sangue della signora le affluì ai cuore, rombò violento nel suo petto sollevandolo, ricadde lungo le vene, giacque, lasciando lei immobile nello stordimento di una leggera ebbrezza. Poi le venne un po' di paura pensando che qualche cosa del suo segreto fosse già trapelato nel pubblico e con tale rodio nella mente la assalì il bisogno di vedere subito Moèna, di comu- nicargli i suoi timori, forse sperando di esserne rassicurata e gli scrisse raccomandandogli di non mancare quella sera; ma sul punto di spedire la lettera riflettè che la posta non l'avrebbe recapitata che il giorno dopo e come il suo domestico trovavasi assente per altre incombenze si avviò lei stes=;a alla dimora di Moèna per lasciargli la lettera alla porta.

La casa dove Ariele abitava era da gran tempo il punto con- vergente de' suoi pensieri, l'aveva tante volte immaginata e sognata che ad accostarvisi in realtà le tremavano i ginocchi. Già appena im- boccata la via, dopo di avere letto e riletto il nome sulla targa quasi non si potesse persuadere che fosse proprio quella, sprofondò lo sguardo fino all'estremità con un morbido languore di carezza, pen- sando : questi sono i luoghi che egli vede sempre, sono le pietre dove i suoi piedi passano e ripassano, è l'aria impregnata della sua per- sona. Strinse le labbra e respirò forte colle narici aperte, la fronte alta, sembrandole che qualche cosa di lui la penetrasse.

Forse una allucinazione fluttuava dinanzi alle sue pupille? No. Ariele le veniva incontro rapidamente con una espressione negli occhi di felicità e di stupore.

Lei qui?

Dovette spiegargli la singolarità dell'incontro e il desiderio di trovarsi con lui per conferire sui discorsi uditi e sulle conseguenze che ne verrebbero se il loro amore fosse divulgato. Era un po' con- vulsa, tremava.

Ariele volle subito protestare sulla sua discrezione. Ella lo in- terruppe non permettendo che fra loro due potesse nemmeno insi- nuarsi l'ombra del sospetto e cercava nomi, cercava fatti per spiegare

ROGO d'amore 579

le parole che aveva sorprese. Mi dica tutto, mi dica tutto pre- gava il giovane.

Ma sulla via, nella chiara luce del giorno, agitati entrambi, compresero che era impossibile parlare. Si trovavano proprio di- nanzi alla porta di Ariele. Egli l'accennava con uno de' suoi gesti brevi e riservati. La signora ebbe un sussulto.

Un momento solo... mormorò lui, supplice.

Venga lei questa sera da me.

Non posso questa sera, assolutamente.

Ella lo guardò dritto negli occhi, vide che era sincero, esitò. Esitavano entrambi. Furono pochi momenti che sembrarono un secolo.

Incomincia a piovere disse Ariele.

È vero confermò la signora.

Entrarono, rapidi, in silenzio: ella dietro lui, fiduciosa, su per le scale chiare. Quando udì stridere la chiave nella toppa ebbe ancora un istintivo movimento di arresto che le parve una inutile viltà e che superò varcando la soglia alteramente. Forte delle sue intenzioni appena messo il piede nelle camere di Ariele sedette sovra un piccolo divano che le si presentò per primo, continuando il discorso inter- rotto, con tutta naturalezza, come se si fossero riparati semplicemente sotto a una grondaia. Era tutta\ia una calma d'apparenza; lo senti- vano, se lo leggevano reciprocamente sul volto.

A una pausa del loro conversare la signora volgendo gli occhi in giro li arrestò sopra un ritratto a olio di giovane donna; una deli- cata e fine e fiera bellezza.

Mia madre disse Ariele.

Ella si alzò, commossa, avvicinandosi al dipinto con religiosa curiosità, con una tenera gelosia del vincolo indistruttibile che le- gava quella donna ad Ariele. Toccò la cornice, lieve, con un gesto di carezza, mormorando: Fortunata! Le parve allora di potere con maggior franchezza guardare il luogo dove si trovava, i mobili, i quadri. Ogni cosa aveva per lei un interesse profondo, ma anche un mistero inquietante. Moèna che le leggeva nel pensiero si affrettò a dire col suo mesto sorriso :

Tutte queste suppellettili sono un avanzo del naufragio della mia famiglia.

Erano infatti mobili antichi e signorili, qualche ceramica di fabbrica vecchia, una pendola di stile, uno stipo intarsiato, un bel bronzo di soggetto classico. Moèna accompagnando lo sguardo della signora e interpretandone l'espressione soggiunse :

Credo che morirei di fame piuttosto che separarmi da questi oggetti.

Comprese l'Unica allora interamente nella loro intima nobiltà le lotte eroiche e sconosciute del giovane. Più ancora quando aperto lo stipo le volle mostrare i cimeli sacri al suo cuore, i ricordi del congiunto morto nelle prigioni dell'Austria, le ultime righe di lui scritte col proprio sangue come la pezzuola di Enrico Tazzoli e le lettere, e i capelli che sua madre stessa aveva recisi sulla testa del martire. Moena si esaltava nella evocazione, si trasfigurava sotto la vampa dello sdegno e della pietà; il pallore della sua fronte bellissima lo aureolava di una luce ideale.

680 ROGO d'amore

Oh! come la ringrazio esclamò comò la ringrazio di essere venuta! Questi sono brani di vita, della vera vita che non mi è, che non mi sarà mai concessa.-

La fatalità inesorabile dei loro destini acuiva in modo meravi- glioso l'illusione che li rendeva felici in quell'istante. Un impeto di passione disperata li gettò, quasi inconsapevoli, nelle braccia l'uno dell'altra. Egli la sentì fremere come un giunco sul suo petto, un solo istante, poi sùbito si divelse.

La signora guardava ora un piccolo oggetto, un ricamo elegante e fresco gettato sulla spalliera di una poltrona che non poteva avere nessun rapporto coi mobili antichi. Anche quello sguardo Ariele comprese :

Il dono di una amica mormorò.

Non chiedo spiegazioni interruppe la signora con insolita alterigia.

Non può ascrivermi a colpa se prima di conoscerla... insistè Ariele.

Ella si pose un dito sulle labbra invitandolo al silenzio, ma tutte le sue torture l'avevano ripresa. Eccola dunque, lei, l'invincibile, nella camera del suo amante; eccola travolta dalla volgarità dei soliti amori, decaduta da tutti i suoi sogni. Potrebbe lasciare anche lei un ricordo in quella casa, un nastro, un guanto e quel nastro e quel guanto andrebbero confusi chi sa con quanti altri, dimenticato alfine, spazzato via...

Si strinse nel mantello, gli tese la mano :

Addio, Moéna.

Non così supplicò lui.

La prese per i polsi, la fece sedere con delicata violenza sul di- vanino, le si pose ai ginocchi e con tenerezza, con umiltà, con quel suo riserbo più avvincente di qualsiasi ardore rifece la loro storia, così semplice, così divinamente pura e divinamente triste.

Non mi lasci, per carità, non mi lasci...

Fanciullo! ella disse.

Ed aveva sorriso. Quando sorrideva sembrava giovanissima.

Come sei bella! esclamò Ariele ammirandola.

Si alzò di scatto sfuggendogli verso il fondo della stanza, cre- dendo di dirigersi all'uscita. Si trovò invece presso ad una porta aperta dalla quale scorgevasi la camera di Ariele. Volle retrocedere; ma egli l'aveva raggiunta e gli palpitava nello sguardo quella luce azzurra che l'amata conosceva, che lo trasfigurava tutto. Muto, tre- mante, la cinse ai fianchi. Anima e sensi spasimavano.

Per un attimo le forze dell'Unica parvero mancare in quella ten- tazione suprema. La voce di Ariele le soffiò sulle labbra: Mia... E mentre la serrava anelante al petto, mentre e luce e ragione e vita sparivano dai loro sguardi le labbra baciate mormorarono in uno spasimo di terrore e di ultima difesa :

No, Ariele... morirei!

Il giovane allentò le braccia..

ROGO D'AMORE 581

XII.

La glicine è fiorita disse -un mattino la cameriera schiu- dendo le persiane in camera della signora.

Poco dopo la signora affacciossi a sua volta guardando giìi nel giardino i bei grappoli color d'ametista pendenti sul muro, turgidi sotto le goccie della rugiada come gole di donna indiamantate. Ri- fiorirono — pensava ma non sono più i grappoli dell'anno scorso.

L'alta specchiera fra due colonnine dorate la riflettè, discinta come era, ancora avvenente in una sua speciale eleganza di linee, ancora donna. Ancora? e per quanto tempo? Salì col palmo della mano lungo il braccio, il braccio bianco che Ariele non conosceva, che non avrebbe mai cinto così nudo il suo collo; piegò la faccia len- tamente fino a toccarlo, in alto, dove si congiunge alla spalla e stette un attimo con le labbra appoggiate alla fresca morbidezza della propria carne chiudendo gli occhi con uno spasimo disperato.

Sul vassoio del caffè c'era il saluto quotidiano di Ariele, il suo raggio di sole. Poche parole, talvolta una sillaba sola, un grido ar- dente dell'anima « Tu! » Il saluto di quel mattino recava « Più che come sempre ». Così rinasceva l'alternativa del dubbio scorato e dell'inebbriante miraggio, della ragione che le suggeriva: fuggi, e dell'amore che le diceva : vieni.

Fu ancora in quel tempo di primavera, durante un molle ve- spero, pochi giorni appresso dalla fioritura delle glicini che ella cre- dette di scorgere in Ariele una inquietudine nascosta, una specie di disagio nel quale egli si distraeva sfuggendo alle di lei carezze. Si pose allora ad esaminarlo acutamente, a scrutargli in volto le gradazioni di quel suo pallore di sensitivo; avrebbe voluto svisce- rargli i pensieri, leggergli dentro, cogliere gli aneliti del suo cuore nelle inflessioni della sua voce; ma il segreto che si nasconde in ogni creatura umana le rimaneva invisibile anche in quella creatura amata. Tutta la sua passione, tutta la sua dedizione erano vane. La estasi amorosa le poteva far credere in certi istanti di formare una anima sola, ma non era vero. Le loro anime restavano due anche nei momenti della maggiore intimità come erano due i loro corpi per quanto un disperato amplesso li avvincesse in questo desiderio supremo.

Ariele...

Si scosse, la guardò con occhi ingranditi da un'ombra violacea. Il profumo delle glicini saliva dal giardino umido e oscuro, miste- riosamente. Il pensiero, ha volo d'angelo e volo di strige. Ella pensò : Una donna! Ma ecco che egli non lo vedeva questo pensiero e affinchè nulla di esso trasparisse sulla sua fronte agitata, nella soffocazione improvvisa che la prese al sommo del petto, corse ad affacciarsi al balcone.

Che ha? chiese Ariele.

Nulla.

Era la prima volta che mentiva e una grande amarezza gliene rimase sulle labbra ermeticamente chiuse da un suggello d'orgoglio. Il giovane la raggiunse appoggiandosi vicino ad essa sul davanzale.

Come a Trento disse dolcemente.

582 ROGO d'amore

L'amata fece un gesto vago curvandosi nell'olezzo delle glicini che non erano più quelle dell'anno scorso...

Mio Dio, mio Dio! mormorò quando fu sola, tutta colma la bocca, gli occhi e l'anima della presenza di Ariele dovrò io en- trare nella volgarità e nel ridicolo della gelosia?

L'assurdo di un amore che non poteva avere nessuna via di uscita, che era fuori del tempo e della possibilità, impotente a dare la gioia della continuazione, quell'amore che era il suo, folle amore, dolorosissimo fra tutti gli amori, le riaffacciò alla mente la visione del rogo. Come erano belle le prime faville! come balzavano liete e vivide e sicure a ricercare l'altezza! Oh! dove era più il divino in- canto dei primi sguardi, delle prime parole? dove il primo avvolgere trepido e caldo della fiamma? dove il primo morso ardente. Ecco ora ' una grevezza di fumo salirle al respiro e un bruciore insopportabile dilaniarle le carni e l'aria intorno mancarle a poco a poco e velarsi la luce e cessare la magìa dei suoni e sentire la voragine che la inghiottiva membro a membro. E poi?... Genere.

Lo doveva sapere. Lo sapeva infatti, nello stesso modo che giunti all'età della ragione si sa che si deve morire; ma come la visione della morte non paralizza la vita così ella aveva amato senza pen- sare più alla fine dell'amore o piuttosto trovando una superiorità di sentimento, un generoso disdegno di ogni calcolo in quel suo offrirsi deliberatamente al sacrificio. Appunto perchè privo di spe- ranza sentiva la rarità del dono fatto ad Ariele e lo misurava con appassionata fierezza all'amore che gli avrebbero offerto le altre donne con tanta usura di interesse e di ipoteche. Se c'era un pen- siero che la sorreggeva nello strazio era quello : sapere che malgrado le insidie del destino, malgrado le seduzioni che attendevano al varco la giovinezza di Ariele, malgrado egli potesse amare ancora, molto, perdutamente, quando vorrà raccogliersi in nelle ore fo- lenni del ricordo e meditare e giudicare quel nome di Unica che egli aveva trovato per lei, tutta la sua coscienza gli griderebbe : « È vero. Ella sola ti ha amato! »

Ora bisognava morire. Morire come? Fuggire, strapparselo 'lai cuore, distruggere ogni memoria ogni segno del passato, lasciarlo libero. Morire a lui, per lui.

Una sera in cui era sola e più ardentemente lo desiderava si volle figurare la disperata solitudine che l'attendeva quando egli non venisse più; le ore tremende dell'abbandono in quella stanza tutta piena di lui, dove avevano tante volte evocato l'idillio timido e con- fuso del loro amore nascente argomentando che dovesse essere etemo. Qualunque cosa avvenga egli diceva non posso nemmeno im- maginare di vivere senza di te. Ma lei col tormentoso presagio che fn di certe anime il carnefice di stesse vedeva già il suo posto vuoto e l'aria agitata un dalle loro parole starsi immobile nella tragica immobilità che circonda i sepolcri. Quando quella portiera non si sollevasse più, quando la bella persona di Ariele riempiendo il. vano dell'uscio non accendesse più di mille lumi lo spazio, quando egli non toccasse più i suoi ninnoli, i suoi libri col grazioso gesto infantile che le piaceva tanto in lui, quando sorridendo e guardan- dola non accostasse più le dolci labbra alla coppa dove ella beveva, quando tutte le care intimità del loro amore fossero finite e l'ombra

ROGO d'amore 683

terribile del nulla scendesse sulle sere del futuro, come potrebbe resistere a tanta ruina?

Morire, morire, morire! Con questa parola terminava ogni suo soliloquio; era diventata la sua ossessione, il suo incubo. Rimpian- geva continuamente l'ora di passione profonda durante la quale aveva tenuto Ariele sfinito in grembo, suo, tutto suo, in suo pieno dominio, con quelle labbra gelide dove ella aveva soffiata la propria vita, dove avrebbe potuto accostare la morte e morire con lui e sparire per sempre nel vortice oscuro dell'ai di là, insieme.

Che cosa è mai il senso occulto che al cieco barcollante nel buio indica l'avvicinarsi di un ostacolo? E sulla spiaggia battuta dal mare, mentre il pescatore si allontana gonfie le vele di vento e di speranza sorridendo alle promesse di felice ritomo, che cosa è l'improvviso presentimento che nei raggi del sole e nella festa delle onde stringe il cuore alla donna rimasta sulla riva? Non è forse che per certe sensibilità acute e in alcune circostanze e in alcuni stati speciali dell'animo sembra di sentire nell'ombra i passi mi- steriosi del nemico ignoto? Lei stessa, la sopravissuta alle battaglie della vita, muto il cuore, muti i sensi, spenta la fantasia nell'acquie- tamento d'ogni desiderio non aveva sentito il tacito avanzarsi di un palpito nuovo, non nato ancora ma già esistente intomo a lei nell'aria, nel cielo, nell'invisibile giro degli atomi, nel sospiro etemo delle cose, lassù, sul terrazzo di Trento, in una indimenticabile notte? Ora sul plettro de' suoi nervi le voci fatidiche piangevano con accenti di terrore. Perchè, se nulla era mutato, se un anno appena era trascorso dall'incanto iniziale, se Ariele giurava di amarla ed ella lo amava ogni giorno piìi?

Giunse a non potersi dominare, a non sapere più nascondere nemmeno a lui lo stato di inquietudine dal quale scaturivano a volta parole amare che dovevano apparire ingiuste ad Ariele, che lo tur- bavano e lo indisponevano mentre lei rifugiandosi in una dignità incompresa si rifiutava alle dolci carezze quanto più ne aveva co- cente la bramosìa.

Un bisogno la prese all'improvviso di staccarsi da Ariele col- l'atto inconsulto del ferito che stracciando le bende si illude di sfug- gire al tormento, ma travolta nelle astuzie dell'istinto scelse per meta della sua fuga il posto medesimo dove ad ogni sasso, ad ogni fronda avrebbe incontrato ancora la memoria di Ariele, dove si erano amati.

Partì con meraviglia di lui e tristezza contenuta che ella giudicò indifferenza mentre Ariele non comprendeva tale subitanea decisione di recarsi in una terra a lui vietata. Il saluto ultimo alla stazione tra la folla irritante e vuota fu come un agitarsi di fiac<!ole dietro un vetro opaco. I loro cuori si cercarono invano ed ella andò, chiamata dalla voce che non ha nome, verso il compimento del suo destino.

Rivide le città, rivide i paesi, le verdi selve, i piani ondulati, le Dolomiti splendenti, le Giudicarie austere, l'Adige bello e dolo- roso, Rovereto dolcissima, Trento memore. Un'onda di commozione che era quasi felicità le sollevava il petto ripassando per i luoghi noti, ribevendo quell'aria e quella luce. Le memorie, dono crudele e magnifico per cui si centuplica la vita, solo possesso vero nel tra- scorrere ininterrotto del tempo, sorgevano ad ogni passo awilup-

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pandola in una carezza d'amore. Sogno? Che importa! Il sogno è l'ala della realtà.

Quando giunse al rifugio alpestre dove Moèna era venuto a rintracciarla credette le mancasse il cuore. Volgeva il tramonto, l'ora stessa dell'arrivo di Moèna. Nel momento che la carrozza pas- sava all'entrata del bosco i suoi occhi spalancati cercarono se stessa, in quella sera, rifacendo il loro incontro così timido e scolorito nel- l'alba ancora frigida dei sensi chiusi. Ma quando a notte fatta volle riaffacciarsi ai primi albori del bosco, ansiosa, tremante, allucinata, non le fu possibile inoltrarsi di un passo. I fantasmi del passato la ricacciavano indietro; udiva la voce di Moéna bassa e alterata sus- surrare nell'ombra: Ha paura?...

Disfatta, convulsa, si accasciò contro un albero, urtando alla ruvida scorza le mani delicate con un bisogno fisico di farsi male, di trarre alla superficie della pelle quello spasimo orrendo che la straziava dentro. Anche Ariele una volta nello stringerla le aveva fatto male e rievocandone ora la sensazione tutto il suo corpo fre- meva in una indicibile voluttà di martirio sentendo veramente una fitta acuta che le trapassava il cuore. Da qualche tempo soffriva così nella sua carne, nel giro del sangue, in tutti i nervi schiantati dalla intensità della passione e della lotta. Abbandonata sul tronco dell'al- bero ebbe in quel punto pieno sentore della propria miseria, di essere un povero corpo stremato, una povera anima inutilmente dolorante. Si premette con tutte e due le mani, le braccia, le spalle, i fianchi gemendo: Misera me!; e piegò la testa, umile, vinta.

Un rumore d'acqua veniva dalle cupe profondità dello spazio, ma ella non ricordava che vi fosse in vicinanza cascata fontana e poiché la notte, il silenzio, un misterioso terrore, un senso di isolamento e di abbandono la cingevano di una cattiva malìa le parve che quello fosse un pianto disperato, il pianto dei luoghi dove era passato l'amore, dove non passerebbe più.

Ascoltando sempre a capo chino, tutta raccolta in quasi per nascondersi -e immedesimarsi e sparire nel palpito universale, per non essere piìi nulla altro che una cosa morta, parvele ancora che nell'acqua invisibile scrosciasse improvvisamente un riso di scherno alto, sonante poi, lento, a tratti, un lieve e molle pispigliare di goccie, un indugio di soavità; come un rosario sgranato di baci, come un mormorio di parole raccolte da labbro a labbro e le lagrime di nuovo; e di nuovo alta, sonante, prolungata, acutissima la risata di scherno...

Non é più lei, signora le disse un giorno in sua ingenua schiettezza una vecchierella del paese.

Era vero. Lo sentiva, lo vedeva; non era più lei. Accadevate ora di fermarsi dinanzi allo specchio per guardare se ci fosse an- cora sotto gli occhi il cerchio bruno che le era rimasto dalla notte insonne, se crescesse il solco emaciato della guancia e ripeteva a mezza voce con una tristezza che era tutto uno schianto un verso di Keats: « Oh! dove sono i canti di primavera, dove? »

E la natura intorno era tanto bella, tutta verde e azzurra, pun- teggiata dalle stelle bianche delle pratelline nella distesa dei prati, dai ciuffi d'oro delle ginestre nei boschi, fra quelle deliziose mon- tagne trentine colore d'ambra e di lapislazzuli, colore di croco e

ROGO D AMORE 585

di opale, varie, eleganti, disegnate sullo sfondo del cielo con la morbidezza di profili a sanguigna. La vita si svolgeva così, tran- quilla nelle opere dei campi, nelle placide case, tra le viuzze sas- sose dove i bimbi giuocavano sotto l'occhio sereno delle madri, dove le fanciulle appendevano tralci di garofani alle finestre e nulla ve- niva mai a turbare la calma un po' dormiente un po' infingarda di quei montanari cui il breve orizzonte era mondo.

L'anima in pena cercava di interessarsi a questa vita semplice, discorreva colle donne delle loro faccende, dei loro figliuoli; ascol- tava racconti di cose umili; voleva mettersi al loro livello, voleva dimenticare di essere la creatura di passione e di pensiero, scen- dere a loro, assidersi placida con loro alla mensa quotidiana, ai quotidiani lavori; guardare l'erba che spunta, le galline che razzo- lano, le nubi in cielo, e incrociare a sera le mani sul grembo nella attesa indifferente del dimane sempre eguale. Vi riusciva in certi m.omenti di atonia durante i quali un velo soffice, tessuto di languore e di rassegnazione, la fasciava, dandole il momentaneo sollievo di una applicazione fresca sopra una piaga che brucia. Ma improv- visamente, senza che nulla fosse mutato nell'aria, nel cielo, nel ra- meggiare degli alberi, nello scorrere dei ruscelli, nella torpida pace circostante, il cuore le dava un balzo, la memoria le riaffacciava una visione, e folle di rinnovellata angoscia fuggiva per sentieri deserti torcendosi le mani sul petto affannoso.

I fanciulli l'amavano; sovente guardandoli si acquietava nella loro innocenza. Talvolta sulla fronte dell'uno, sulla bocca dell'altro credeva di ritrovare una somiglianza con Ariele e allora piìi in- tensa si faceva la sua attenzione, più dolci e prolungate le sue ca- rezze; ma erano illusioni fuggevoli. In realtà nessun volto somi- gliava a quello di Ariele; il desiderio dell'amante lo cercava invano. Solo guardando dentro stessa, nel raccoglimento desioso delle ri- membranze, le linee dell'amato si ricomponevano in loro specialis- sima delicatezza virile, in loro fine regolarità di cammèo e il senso acuto della di lui bellezza, anche lontana, le dava quel tormento di cosa inafferrabile già provato quando Ariele era nelle sue braccia per l'ansia segreta che la bellezza suscita in fondo al piacere che essa dà, quasi un senso più preciso della morte nel maggior fervore di vita.

Erano andati i fanciulli, renitenti le madri, a una sagra su un monte vicino e le madri stavano in gran pensiero per un folto accavallarsi di nubi nun/.iatrici di prossima bufera, rifacendosi ad ogni istante sulle porte delle loro case a guardare da lungi se appa- rissero e la signora buona prendeva parte alla loro preoccupazione tentando rassicurarle. Se non che a un tratto la bufera incalza sol- levando turbini di vento e di foglie, lampi spaventosi fendono le nubi, terribili boati echeggiano di valle in valle, stridono gli alberi piegati al suolo, muggiscono le mandre spaventate; schianti di im- poste sbattute, di assi che si fendono raddoppiano gli strilli delle donne e il pianto dei pargoli mentre qualche vecchia in disparte prega ferv'orosamente. Ma un grido li domina tutti : « I nostri figli! i nostri figli! » Le madri non dicono altro, immobili sulle soglie, il grembiule buttato sulla testa a riparare la furia dell'acquazzone, col- l'occhio che non abbandona la strada per la quale devono giungere i fanciulli.

38 Voi. CLXVn, Serie V 16 ottobre 1913.

68G ROGO d'amore

Eccoli finalmente! Una macchia bruna appare in alto sul de- clivio del monte. Si muove, si snoda; un punto rosso emerge. « È lei, è Maria! » esclama una donna. Un fremito di gioia corre in tutti i cuori. Le vecchie dicono : « Sia ringraziato il Signore! » La furia dell'uragano è calmata; piove ancora, ma già il cielo si chia- risce attraversato dall'arcobaleno: «Sia ringraziato il Signore! Sia rmgraziato il Signore! »

Il gruppo dei fanciulli si approssima; la gonnella rossa della piccola Maria danza al vento. Corrono, gocciolanti d'acqua, giù dai viottoli, balzando di sasso in sasso, agitando in alto i cappelli. Già sono vicini; già si ode lo scroscio delle loro risa, si vedono le treccie delle bimbe disfatte appiccicate sul collo e sul dorso; più di un bimbo ha strappato i pantaloncini, ha perduto il cappello; e ridono. Uno inciampa e cade; ride, si rialza, torna a correre. Un altro canta, spavaldo, colle mani in tasca, il nasino per aria a sfidare le ultime gocciole. « Come ci siamo divertiti! » esclama la piccola Maria ap- pena può far udire la sua voce. Un bambino, soletto, piagnucola; aveva comperato alla sagra una bella trottola e non la trova più. « Ora minacciano le madri con piglio tra il burbero o il com- mosso dobbiamo fare i conti. A letto subito! »

Ma la Maria non si muove. È la capoccia della compagnia, deve narrare in qual modo andò la gita e lo fa stando in piedi contro la tavola, addentando una mela acerba. Piccoletta, tarchiata, ha le braccia nude a metà, sode, un po' ruvide per il vento e per il sole, colla pelle tesa fragrante di salute, scura verso le mani, più bianca nel risalire. Non è bella, è giovane. I suoi capelli hanno il rigoglio di una criniera e di una foresta; i suoi occhi guardano tra le pal- pebre liscie come specchi di laghi alpini; una peluria di pistillo adombra con un incomparabile belletto le sue guancie troppo tonde; ha la bocca carnosa di una freschezza insolente con denti acuti e bianchi di bestiola selvaggia e morde la mela con tanto impeto che il sangue sprizzando dalle gengive riga di vermiglio la polpa del frutto. Sembra che la bufera invece di abbatterla abbia rintuzzate tutte le sue forze, come se tra lei e l'acqua e il vento e i fulmini fosse corsa una magnifica tenzone, una gioiosa battaglia risolta in sua vittoria.

Oh! giovinezza, giovinezza! pensa l'attardata viandante; e tutto in le pare vano, trista la sua carne, vuoto il suo cuore, inu- tile il suo affetto Giovinezza, solo tesoro!

Ariele tardava a scrivere, ella per fierezza sollecitava le sue lettere. Era forse la fine? la fine sempre temuta pur se qualche volta implorata, liberatrice finché lontana, spaventosa nei rantoli del- l'agonia? la fine gelida e volgare che non lascia nulla dietro a se, la fine dell'avventura comune? Era questo che la aspettava dopo tanto slancio ideale, dopo tanta intima, profonda, appassionata in- tesa? Era questo che meritava l'anima sua?

Che cosa sarebbe di lei, della sua vita, non sapeva, non voleva pensare. Era giunta a quel punto della sofferenza che confina colla insensibilità. In tale stato ipnotico errava tra le piante e le erbe atrofizzando il pensiero nella contemplazione dei piani verdi, spro- fondandovi l'occhio fino ad averne una ebbrezza sensuale dove l'as- sillo del ricordo annegava morbidamente.

ROGO D AMORE 587

L'ora suprema di tale abbandono ricorreva ogni giorno al tra- monto del sole. Le piaceva allora portarsi all'entrata del bosco presso alcuni scalini di pietra dai quali aveva visto arrivare Ariele. Sedeva, abbattuta, chiuso il capo nel suo velo bianco, chiuse le mani in grembo, simile a un marmoreo simulacro del dolore, a una sfinge dal segreto inviolato.

Stava così una sera, immobile, in solitudine assoluta i grilli appena stornellavano in fondo al prato quando un passo d'uomo vicino a lei le fece sollevare la fronte.

Unica!

Si scolorì nel volto che apparve come un'ostia tra la nuvola del velo, le pupille sbarrate per la grande fissità non avevano sguardo; balzò in piedi, muta. Egli vide in quegli occhi altrettanto timore quanto amore.

È l'addio disse.

L'addio? fece ella scuotendosi.

Forse l'addio ultimo.

No!

Tutte le sue energie scattarono. Gli si appigliò al braccio, an- sante, delirante:

Che avvenne? Ck)me sei qui?

Parto. Sono venuto a dirti addio.

Addio? Perc'hè?

Parto ripetè Ariele.

Ella vide allora un grande smarrimento ne' suoi sguardi e in- sieme una risolutezza disperata.

Dove vai?

Non so. Molte cose sono avvenute che tu ignori.

Dimmele.

Ariele si guardò intomo sospettoso. Ella comprese.

Quale rischio corri?

Il rischio di perder tatto.

E sei venuto?

Per te.

Aspetta, aspettami qui. Il luogo è deserto, fra poco sarà notte, non ci vedrà nessuno. Vado a fingere di coricarmi e poi ritomo. Aspettami.

Divorò la via in un baleno. Breve tempo era trascorso dalle prime parole quasi febbrili e già ella rifaceva il cammino con passo così rapido e leggero che pareva un volo.

Ora siamo liberi. Hai tempo?

L'alba non mi deve trovare qui. Più che il pericolo mio penso che se mi arrestassero non potrei servire la causa nei fini che mi sono proposto. Fui scelto per una missione difficile che mi colma di gioia ma anche di responsabilità. Dipende da una risposta che avrò domani il sapere come e dove mi sia possibile agire.

Agire?...

Ariele sorrise al tremito che ella ebbe :

Non colle armi ancora. In regime di tirannia la lotta deve essere cauta, la preparazione lunga, i mezzi occulti. Ma il momento è propizio, molte cose sono da fare.

E non vi è pericolo?

Pericolo?

588 ROGO d'amore

Per te, per la tua vita.

Egli si illuminò tutto di quella sua luce pallida che lo ren- deva simile ad un martire e ad un eroe.

La mia vita? ma è ciò che desidero, dare la vita per la mia patria!

Aveva pronunciato queste parole con tanto ardore che l'amata se ne sentì quasi ferita. Chiuse le palpebre, un attimo, serrando i denti con un profondo sospiro.

E non posso far nulla io?

Sì, amarmi,

Oltre l'amore, nevvero? oltre la vita. È così che intendi?

L'anima tua grande è il mio faro. Credo ciò che tu credi.

E come non avessero più nulla da aggiungere all'armonia dei loro cuori, tacquero.

La notte li avvolgeva morbida e discreta con panneggiamenti d'ombra; il bosco dinanzi a loro commosso da fremiti impercetti- bili univa il suo respiro all'ansia dei loro petti. Nello stesso mo- mento ricordarono entrambi la sera in cui vi erano penetrati e sìibito l'uno sentì ciò che l'altra sentiva nel meraviglioso intuito della loro vibrante sensibilità. A lenti passi, senza pronunciare una parola, Ariele si avviò verso i primi alberi radi dove le stelle posa- vano i raggi attenuati del loro splendore sui candelabri degli abeti. Senza pronunciare una parola l'Unica lo seguì.

Repente uno strido lugubre fendette l'aria. Egli la scorse che trasaliva e cingendola lieve alla vita disse per rassicurarla :

Non è nulla, un uccello notturno.

Quel contatto tolse a lei un po' della sue forze. La sua spalla toccava la spalla del giovine; al tenue chiarore delle stelle vide l'a- vorio de' suoi denti biancheggiare nel roseo arco delle labbra. Un sofRo le uscì dalla gola riarsa :

Mi ami ancora?

Ariele non rispose, la strinse forte. L'ora ineluttabile si librava su di essi, fatale, misteriosa, tutta pervasa di passione e di lagrime. Un altro soffio quasi indistinto:

Non ti vedrò forse più...

Perchè dici questo? Certe cose non si devono dire.

È vero. Non si devono dire.

Tacquero ancora, inoltrandosi. Le stelle erano lontane; nessuna luce giungeva oramai sotto la volta fittissima dei rami; l'incenso della foresta vaporava solo qual profumo sull'ara in attesa del sa- crifìcio. L'Unica rabbrividì a un tratto come se una mano che non fosse quella di Ariele l'avesse toccata.

Ho paura gli singhiozzò tutta tremante colla faccia na- scosta nel suo petto.

Egli la resse sulle braccia mormorando :

Amore...

L'abisso nero delle conifere li avvolse, li inghiottì... Nell'ombra fascinatrice il silenzio si fece sacro dello spasimo di due anime.

ROGO d'amore 589

XIII.

Morta!

L'incredibile notizia percorse rapidamente il piccolo paese. Non si voleva credere. Le donne accorsero, per vederla, seguite dai fan- ciulli e tutti piangevano.

L'avevano trovata al mattino sulla soglia della sua camera, ri- versa, fredda.

Come mai chiedevansi l'un l'altra se la sera antecedente si era ritirata presto ed ora ella era vestita interamente e il letto non appariva tocco?

Aneurisma era stata la sentenza del dottore; ma le donne si guardavano tra loro con un brivido ed a quella parola incompren- sibile facevano seguire un'interrogazione : Perchè?

Composta amorosamente sulle coltri era bella di una bellezza arcana non mai vista. Le sue ciglia abbandonando la luce sembra- vano chiuse sopra la dolcezza immortale di un sogno.

In vita non aveva questa espressione beata osservò una delle donne.

No, si direbbe che ora è felice.

Alcuni fanciulli che erano andati in cerca di rami d'abete entra- rono in punta di piedi e ne copersero il letto. La piccola Maria re- cante un fascio di ciclamini si accingeva a coronarne il guanciale, ma si interruppe con una esclamazione di sorpresa :

Ha degli aghi di pino nei capelli!

E in basso alla gonna! confermò un fanciullo.

Un silenzio religioso si fece nella camera. Di nuovo le donne guardarono la morta e si guardarono tra loro, colpite dalla sensa- zione di quel mistero che non sapevano spiegare, che stava sospeso sul bel cadavere a guisa di nube adunata dagli angeli per difendere il segreto che l'aveva spenta.

(Fine).

Neera.

VERS

Anacreontica moderna

Cantarti, Amore? Tu non sei fanciullo dagli occhi ignari sul cui capo io possa distendere la mano per solcare le sue morbide chiome, mentre il viso scherzosamente mi nasconde in seno, mentre per gioco sfugge, e poi si volge e mi tende le braccia e a m'avvince in una stretta tepida e soave. Tu non mi piangi disperatamente più tra le braccia, e poi sollevi il volto, con improvviso giubilo, ridendo! Amore, tu sei fatto adolescente; sei corrotto e viziato. Io non potrei più cantarti con gioia. Tu non hai più alcuna purità nei tuoi pensieri: e non m'offri tu più gigli, ma acanti.

Ti guardo bene in volto. Rassomigli nel tuo pallore a un ubbriaco ancora stordito per il vino che ha bevuto la vigilia nell'orgia fragorosa. Ilare più non sei; non sei giocondo; non trascorri sui prati in folle gioia beandoti del sole e delle foglie, degli arbusti e dei fiori. Non sorridi se scopri qualche strana coccinella, 0 se ti s'apre innanzi una vanessa. Se un frullo d'ala passa tra le fronde, tu più non alzi gli occhi luminosi. Hai smarrito l'ingenuità divina che ti rese bello al mio pensiero : come potrei cantarti, adolescente, se il bistro già ti segna le palpebre?

VERSI 591

Un ritorno

O dolcezza del mio cielo nativo, del vento che mi sfiora sibilando la fronte e scherza dentro i miei capelli! Felicità di ritrovare l'aria che nato respirai, d'abbeverarmi alla sorgente che mi dissetava la prima volta, e rivedere ad una ad una queste piante e questi fiori che coltivai con dura assidua mano, riposandomi a tratti e rimirando del mare azzurro il cerchio, in lontananza!

Vagan per l'aria mille morte cose, mille ricordi fragili e soavi. La vita qui mi parve un campo aperto per facile dominio e per trionfo : e valli e monti e cielo me la rendono, com'era allora, tutta accompagnata dalle vane speranze fuggitive. Trasfigurata è certo dalla morte, dolcissima a guardare! Ed io qui godo, senza speranze più, senza più sogni, assorto nel silenzio a contemplarla.

Invocazione a Pan

Sono tornato alla mia culla antica; ho ribaciato la mia dolce madre. Troppo lontano da me stesso andavo per l'ampio mondo! Venni a riposare.

Di fistole sonora è la campagna in questo chiaro giorno di gennaio. Pan, dove sono le tue greggi antiche? Odo fanciulli sufolare intomo per le convalli qualche nota, triste come un lamento d'assiolo, quando le notti estive paiono indugiare prese dalla dolcezza delle stelle.

592 VERSI

Solo un porcaro soffia nella bùccina, chiama a raccolta il suo disperso branco, in cerca delle ghiande tra i burroni. All'ombra delle querce centenarie io t'invoco per me. Ritoma in terra : fa ch'io mi senta vivere con essa! Elios alto risplende oggi nei cieli : e le tue greggi? Sono morte, o Pan? Tu sul meriggio non le aduni più? E che vale la vita allora a me! Foglia che va col vento, nube vana che si discioglie in pianto al più lieve urto dei venti, quando cozzano nel cielo!

L'apparizione

Guardai l'albero spoglio. Era l'inverno. Si levavano i rami neri in alto con un intrico senza vestimento, nulla celando, scheletri spolpati, aggrovigliati in una danza màcabra. E mi credetti simile a quell'albero.

Tornai d'aprile. In cima e lungo i rami verdeggiavano gemme, nell'attesa di aprirsi, dilatarsi, e rivestire con nuove fronde tutto quel groviglio di neri stecchi. E in cuore m'apparì il volto eterno della Primavera.

Ella mi sorrideva coi grandi occhi stupiti di fanciulla che si sveglia in un reame delle maraviglie. Mi riconobbe pronta e sussurrò : Non ti ricordi più quand'eri il mio compagno? Quante risse e giochi insieme! quante corse pei campi! quanti gridi, quando ci celavamo per i boschi l'uno in cerca dell'altro! Le risposi :

Io non ti misconobbi mai, dolcezza odorosa del maggio, in ogni terra dove vagai, dove sostai, pensoso

VERSI 693

di te che più non mi apparivi agli occhi, di te che più non mi parlavi al cuore. Ma ogni fronda mi piacque in tua memoria e all'apparire d'ogni fiore un balzo mi dava il cuore da te molto amato.

Ora sono perduto in una cieca strada che non ha fine, e non ritorno. Somiglia un prodigioso labirinto. Cammino in essa stanco e desolato, poiché sono, divina Primavera, un uomo che ha perduto la speranza. E mi rest^ a compagno un duro orgoglio, che solo m'impedisce di prostrarmi e mi grida: « Sopporta! » Nulla più.

Così parlavo; ma la Primavera s'era tuffata, lieta canticchiando, in una fonte d'acque cristalline... E un vecchio vidi, un vecchio molto bianco, con la schiena piegata ad arco. Andava senza bastone, faticosamente.

L'anima mia tremò, credendo di vedere l'immagine incarnata di stessa, che le passasse innanzi, rattrappita. Il vecchio seguitò nel suo cammino; ed una voce ignota disse : È il Tempo.

Luigi Siciliani.

GIOBERTI ED IL POPOLO PIEMONTESE

NEL DICEMBRE 1848

Edmondo Solmi, non mai abbastanza compianto, che, con intel- letto d'amore, studiò il Gioberti ed il difficile e complesso fenomeno storico-filosofico, che va sotto il nome di giobertismo, scrisse (1), che il sommo filosofo fu colui il quale, nel 1848, diresse, dominò gli uomini e le cose. Ed invero, dai primi giorni del 1847, in cui il popolo romano, toscano e piemontese, festeggiante Pio IX, apparso quale ispiratore di vita nuova all'Italia, celebrava con inni di giubilo il nome del filosofo insieme a quello del Pontefice; dall'epoca delle ri- forme, quando al Re, al Granduca, al Papa, nelle cantiche, nelle di- mostrazioni pubbliche, univasi in intimo connubio l'autore del Pri- mato, e della immagine del Gioberti fregiavansi non pur le signore, ma gli uomini ed i fanciulli, e se ne adornavano i luoghi pubblici ed i privati; dalle gloriose epoche delle costituzioni, per le quali un oriz- zonte d'infinita grandezza si apriva alla nostra patria, fino alle dolo- rose giornate del dicembre 1848, che segnavano il trionfo della rea- zione in Napoli, del demagogismo in Roma ed in Toscana, della guerra parlamentare in Piemonte; in ogni momento di questa nostra prima rinascita politica, il popolo italico aveva invocato, esaltato, be- nedetto il nome del Gioberti, come l'unico salvatore dell'onore e del- l'indipendenza italiana.

A quale causa dobbiamo attribuire ciò? Difficile il rispondere ad una questione siffatta, che ci si presenta più sotto il lato psicologico che sotto quello storico : ma se è possibile darne ragione con i mezzi, che abbiamo ora a disposizione nostra, saremmo tentati d'asserire, che ciò si dovette all'aver saputo il Gioberti conseguire questo do- minio con il precorrere più degli altri suoi contemporanei gli avveni- menti, traendone in precedenza quella che a lui sembrava, ed in gran parte era, la via migliore. Noi non vogliamo negare, che al fascino esercitato sulle folle dall'autor del Primato non cooperassero efficacemente la vita intemerata, l'italianità adamantina provata e con gli scritti e con le azioni; i dolori sofferti per amore di libertà, l'alto senso di patriottismo e d'indipendenza. Non che a questo entu- siasmo nelle folle italiche, imbevute di idee nuove, come dimostre- remo in seguito, non fosse efficace movente l'essere il Gioberti figlio del popolo, uscito dal popolo, costretto come il popolo a vivere del

(1) E. Solmi, L'Egemonìa italica di V. Gioberti, in liivista d'Italia, gen- naio 1912, pp. 144-171. Id., Gioberti nel 1848, in Nuova Antologia, settem- bre 1912, pp. 214-240.

GIOBEKTI ED IL POPOLO PIEMONTESE 595

proprio lavoro : ma, anche con tutto ciò, prima ed essenziale causa del trionfo del sommo filosofo, fu l'altezza dell'ingegno poderoso.

Lo studio diligente delle carte dell'autore del Primato, sia edite che inedite, conferma maggiormente la nostra opinione: negli ap- punti, nelle note sue particolari, gettate giù in fretta, molte volte non terminate neppure; nelle lettere agli amici sparsi per tutta Italia, sotto governi, differenti nella sostanza e nella forma; nelle opere dal 1843 venute alla luce fino al 1847-1848 il Gioberti, traendo tale virtìi dalla natura sua speculativa, dall'analisi del momento storico, con logica mirabile e divinazione sua propria, prevedeva, precorreva gli avvenimenti deducendone le conseguenze. L'effetto era che, men- tre gli altri statisti e pensatori della penisola, di fronte agli improv- visi cambiamenti, che le numerose e complesse questioni sociali poli- tiche agitantesi in quegli anni determinavano in Italia ed in Europa, si trovavano impressionati ed erano incapaci a fronteggiare la situa- zione; il Gioberti, indicando il modo più efficace di dominare gli eventi, venivasi acquistando una supremazia intellettuale, che nes- suno osava, poteva contrastargli.

Quanta e quale essa fosse dimostrò Edmondo Solmi in due degli ultimi suoi lavori : L'egemonia italica di V. Gioberti e Gioberti nel 1848 (1) e, prima del Solmi, avevano dimostrato gli studiosi, che si erano occupati, non pur del Gioberti, ma dell'epoca del primo no- stro risorgimento. Da ogni parte della penisola i dotti, i politici si ri- volgevano all'autore del Primato per consigli, riconoscendo in lui il naturale capo del movimento dell'indipendenza. Vi fu un momento in Italia nel quale il filosofo fece dimenticare un altro potente in- gegno di quell'epoca, che, nella seconda metà del 1847 e per i primi mesi del 1848, i mazziniani medesimi si volsero al Gioberti atten- dendone le norme direttive per la politica della nuova Italia.

Ma quello che più rende certi della grandezza del Gioberti fu il modo in cui egli fu seguito ed obbedito dalle folle. Le fonti storiche di qualsiasi partito sono in questo concordi : che, dove il grande filosofo compariva, suscitava entusiasmo indescrivibile ed attirava alle proprie dottrine il popolo. V'era nella coscienza degli italiani la certezza che il Gioberti potesse, in ogni momento ed in ogni modo, condurre a porto la nave d'Italia. È pur vero, che in epoche di grande importanza storica, quali quelle che segnano il passaggio da -un'era politica ad un'altra radicalmente diversa, gli animi non posseggono quella padronanza di sé, quella forza interiore per la quale possono serenamente sceverare il buono ed il sostanziale nelle opere e nelle azioni. Nulla quindi vieta l'ammettere che l'entusiasmo e la devo- zione del popolo italiano al Gioberti fossero effetto del momento; e che le stesse folle, che avevano delirato per l'autore del Primato, si raccogliessero pochi giorni dopo ed applaudissero freneticamente oratori politici che presentavano le questioni sotto punti di vista emi- nentemente diversi; ma, ad onta di ciò, v'era fermo ed incrollabile convincimento in tutti che nel Gioberti trovavasi l'uomo che le diffi- coltà dei tempi esigevano.

Che così fosse ci persuadono alcune lettere inedite rivolte al sommo filosofo da persone di diversa condizione e piccoli borghesi,

(1) Solmi, Vincenzo Gioberti nel ISJkH, in Nuova Antuloyia, settembre 1912, pag. 214.

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i quali, lungi dalla vita politica, non conoscevano dell'ambiente gover- nativo se non quanto i pubblici fogli e la voce comune riportavano. Costoro scrivevano al Gioberti, non pur testimoniandogli ingenua- mente la loro ammirazione, non domandandogli aiuto come ad un padre : che ciò è cosa molto comune a tutte le persone poste in alto dal loro ingegno e dalla loro fortuna. Questa gente scriveva all'autore del Primato per aprirgli l'animo proprio, per confidarsi con lui con piena fiducia di essere ascoltata, per ragionare dei mali d'Italia, espo- nendogli quello che le sembrava dannoso alla patria, invitandolo a porvi immediatamente rimedio. A parte l'interesse, che queste lettere offrono allo studioso del risorgimento italiano che voglia conoscere lo stato reale della popolazione, esse ci sono utilissime per convincerci vieppiù della popolarità del Gioberti. Che a lui si rivolgessero le per- sone colte ed i politici era chiaro segno di deferenza e di rispetto; ma era al tempo medesimo consentaneo alla loro natura ed al loro in- gegno; in quanto, comprendendo la grandezza del filosofo, cercavano di trarne prò per il bene loro e quello della patria. Ma che di serie ed alte questioni di Stato, di riforme radicali da compiersi nell'am- ministrazione, al Gioberti scrivessero persone di mediocre levatura intellettuale, se non privi affatto di reale conoscenza di politica, è prova indiscutibile di quello che in Italia rappresentasse nel 1848 l'autore del Primato. Le lettere che presentiamo appartengono ad un'epoca ristretta del 1848, che sono state scritte tutte o quasi tutte nella seconda metà del dicembre di questo anno, quando cioè il filo- sofo era riuscito ad ottenere nuovamente il sommo potere. Esse sve- lano dei lati interessanti e complicati della psicologia del popolo pie- montese in questo momento difficilissimo, nel quale pareva preci- pitare in un baratro senza fondo l'edifìcio della nostra indipendenza. In Piemonte erano tramontate da un pezzo le idee che avevano di- retto il Governo ed ispirato le masse negli inizi del 1848; l'influenza innegabile della seconda repubblica francese, esercitata potente- mente in Liguria ed in molta parte del Piemonte, aveva destato nel popolo degli Stati sardi delle nuove correnti politiche, dal seguire le quali gli uomini del partito moderato rifuggivano vedendovi il prin- cipio della fine della monarchia. Il Gioberti invece che, pur fermo a' sostanziali punti della sua politica, non era contrario ad accogliere quanto di buono vi fosse in quelle dottrine, perchè riconosceva che per ragioni storiche non era possibile impedire l'andare inesorabile del tempo; nell'opposizione al ministero Sostegno aveva mostrato di non ristare dal modificare l'andamento del Governo. Quest'atteggia- mento del grande filosofo, esagerato nel significato radicale dalla stampa antiministeriale, ed era la più numerosa e la più diffusa, aveva fortificato nel popolo la convinzione dell'eccellenza dell'in- gegno e dell'italianità del Gioberti, e la cieca fiducia nell'opera sua. Così nell'ottobre del 1848 un certo Barbera Alessandro e la famiglia Sismondi scrivevano al sommo filosofo:

(rioberti. La patria è in pericolo! l'idea della nazionalità, dell'indipendenza, della libertà forse non si potrà attuare per tutta Europa. Voi colla vostra parola, con una bandiera in mano potete salvar l'Italia e l'Europa. Pensateci. Voi l'avete promesso. Mantenete la parola. Una città popolosa che insorga e voi che la guidiate, qui sta la nostra salvezza.

GIOBERTI ED IL POPOLO PIEMONTESE 5^7

Cristo moriva martire per la veritìi e la giustizia ; voi e noi dobbiamo esser pronti ad imitarlo. Decidetevi. La Patria vi comanda.

Ottobre, 1848.

Barbera Alessandro La famiglia Sismondi(I).

Caduto il ministero Pinelli, che nella coscienza di buona parte della nazione piemontese, la quale giudicava non per retta cognizione di fatto, ma per impressione del momento, rappresentava un peri- colo per la libertà ed il principio di un ritorno all'assolutismo, la po- polazione torinese e piemontese tutta chiesero ad alta voce che il sommo potere fosse affidato al Gioberti. E non si limitarono esse a petizioni od a manifestazioni platoniche; ma quanto piìi il Re av- verso al sommo filosofo indugiava in questa elezione voluta dal po- polo, tanto più cresceva l'irritazione delle folle che in Torino ed in Genova, il 12 ed il 13 dicembre 1848, scesero ad atti incomposti. Il Gioberti voleva dire per esse il rinnovarsi della vita piemontese, non solo interna, ma esteirna; il predominio nell'amministrazione delle nuove idee. Quali queste fossero ed in che consistessero non conosce- vano chiaramente coloro medesimi che ne facevano richiesta ad alta voce; avevano solo un concetto vago di istituzioni democratiche, miste ad alcune socialiste, confusa sintesi della più confusa lotta di sistemi politici che agitava da dieci mesi la seconda repubblica fran- cese (2).

Che cosa volesse il popolo piemontese, che cosa intendesse per governo democratico, quale il Gioberti aveva nominato la propria amministrazione, ci può chiarire la seguente lettera :

Signor Presidente dei Ministri, io saluto in Voi V angelo della nostra liberazione ; al gran cuore italiano, alla grande anima cristiana, Voi unite un genio creatore ; quindi mi avrete per iscusato se io, oscuro cittadino, oso innalzare fino a Voi la baldanza dei miei consigli.

Bando alle mezze misure, fuori da tutti i dicasteri del partito esecrato tutti i primi secretari, i capi di divisione e gli Intendenti che non hanno dato prova di essere caldi propugnatori delle libere istituzioni.

Si sciolgano subito le Camere, impegnando simultaneamente tutti i deputati dell'opposizione a surrogare tutti gli uomini di legazione che non si sono dimostrati veri liberali.

3' Rafforzato così il ministero democratico da subalterni democratici, ponga imme- diatamente opera alla riforma della Camera dei deputati secondo la legge elettorale conte- nuta nella costituzione recentemente data dal Re di Prussia.

Colla stessa norma siano nominati i deputati per la futui-a Costituente Italiana.

5" Siano soppresse le cariche goveniative. ed accumulate le atti-ìbuzioni del loro uffizio alle Intendenze.

6o Si chiamino sotto le armi immediatamente tutti gli inscritti agli anni 1817, 1818, 1819, 1820, 1821, 1822, 1823, 1824, 1825 colle sole ragioni contenute nella legge sulla leva militare; ma però con facoltà a chiunque di venirne dispensato vei-sando nelle

(1) Archivio Gioberti, Biblioteca Municipale di Torino, pacco I.

(2) Lamartinb, Histoire de la Bévolution du 18i8. Bruxelles, Wonters, I. 201.

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mani del Groveiio la somma di L. 2.200 da convertirsi in massa a tutti indistintamente i soldati dell'armata,

7^ Si mettano a capo di questi uomini capaci ed uomini liberali. Tutte le altre riforme amministrative e legislative si opereranno in seguito: oi-a si pensi prima di tutto alla nazionalità, all'indipendenza.

Questi consigli se non hanno il merito di essere i più buoni, si avranno quello di es- sere stati in sul momento improvvisati dal cuore ardente di patria libertà di un ammira- tore dell' E. V.,

del concittadino Notare LuiGi Faldella

Applicato all'Ufficio del causidico Francesco Triceni Torino, li 27 dicembre 1848.

P.S. dimentichiamoci di una cosa: il ministro dei culti faccia formare una dottrina costituzionale democratica evangelica, obbligando tutti i parroci a farne la dome- nica la spiegazione, I vantaggi, i diritti ed i doveri di ogni cittadino siano spiegati ivi al popolo.

Non dico di più per non tediarlo (1).

Tra le molte cose comuni in questa lettera, due erano importanti per conoscere lo stato dell'opinione pubblica piemontese: la epura- zione della nobiltà negli impieghi; il catechismo politico che si vo- leva far insegnare al popolo. Questi due concetti non erano nuovi nella storia delle idee e della politica in Italia : nell'epoca della prima rivoluzione francese, nelle diverse regioni della penisola, non solo eransi manifestati nella stampa, nelle pubbliche concioni, ma addi- rittura attuati. La caduta dell'impero napoleonico e il regno della Santa Alleanza erano riusciti a far cessare quegli entusiasmi repub- blicani; e, se una parte molto ristretta degli italiani aveva continuato ad indirizzare l'opera propria verso il raggiungimento di cose nuove nella penisola, ispirate alle idee di libertà, di indipendenza, di egua- glianza della rivoluzione francese; una grandissima maggioranza aveva dimenticato i principi politici di un tempo, ed era ritornata ad una vita che aveva molta somiglianza con quella dell'antico regime. Le concezioni politiche del partito liberale, che nelle masse avevano destato profondo e sincero entusiasmo, erano lontanissime da tutto ciò che sapesse della prima repubblica francese; anzi, avevano avuto appunto l'ufficio di impedire in Italia ogni possibile moto rivoluzio- nario che tendesse a repubblica e a forme di governo consimili. Il Gioberti aveva combattuto, com'è noto a tutti, le idee democratico-re- pubblicane, come le più perniciose alla patria.

Questo stato di cose era durato in Italia fino a quando era scop- piata in Parigi la rivoluzione del 23 febbraio 1848. Cagionata da un bisogno irresistibile di reazione contro un governo che, costitui- tosi con il nome di libertà, minacciava ricondurre le cose ad un asso- lutismo sotto la forma di monarchia costituzionale, erasi essa voluta rivestire dei paludamenti della prima repubblica, richiamandone le idee fondamentali, ma affettando di temperarne gli eccessi ed atteg- giandosi a regolatrice del tempo e delle cose. Però ciò, che di gigan- tesco v'era nella prima repubblica, diveniva grottesco nella seconda,

(1) Archivio Gioberti, Biblioteca Municipale di Torino, pacco I.

GIC»ERTI ED IL POPOLO PIEMONTESE 599

cui non necessitavano mezzi coercitivi per modificare l'andamento degli eventi. E, mentre quelli che avevano fatto tremare l'Europa nel '93, procedevano rapidi e sicuri nell'opera loro, non fidando che in stessi e nella propria capacità, gli uomini, che avevano com- piuto la seconda rivoluzione, avevano coperto la debolezza loro con il ridestare viete passioni, tentando di riawicinare identità di fenomeni a cause radicalmente diverse (1). La conseguenza fu un'agitazione so- ciale i cui effetti perniciosi dimostrarono le giornate del 15 maggio e del 28 giugno 1848 in Francia. In Europa gli a\'venimenti del 23 feb- braio 1848 ebbero effetti maggiori. Si può asserire che l'avvento della seconda repubblica fu lo scoppio della rivoluzione europea la quale a stento era stata frenata negli ultimi anni del secolo xvm.

L'efficacia della seconda repubblica francese in Italia fu preve- duta e temuta dal Gioberti; le lettere agli amici, al Massari il 25 feb- braio 1848, al Leopardi il 24 febbraio dello stesso anno, al Montanelli ed al Valerio il 26 febbraio 1848, ad un amico il 3 marzo 1848 (2) ave- vano avuto lo scopo di preparare e persuadere le masse, che un mu- tamento negli ordini politici della penisola poteva essere allora per- nicioso.

Il sommo filosofo sapeva, quanto negli animi, in quei momenti di agitazione politica, potesse il trionfo delle idee repubblicane nella vicina terra di Francia, dalla quale era partito non più di sessanta anni avanti il primo moto di libertà. E, se il succedersi rapido degli eventi aveva impedito un'agitazione contro le monarchie nella nostra terra, non erasi d'altra parte riuscito ad ostacolare che in Piemonte, in Toscana e negli Stati Pontifici si diffondessero stampe, opuscoli, libri, giornali che celebravano le istituzioni repubblicane. L'efl5cacia della seconda repubblica nel popolo italiano non consistette già nel sospingere le masse verso un deciso indirizzo repubblicano, ma ri- svegliò il senso democratico che, manifestatosi possente nei primi anni del secolo xix, era stato sopito da una lunga politica trentenne dettata dai principi della Santa Alleanza. Il Gioberti aveva preve- duto questa modificazione delle coscienze italiane : fin dal mag- gio 1848 ne' suoi organi fidi aveva cominciato ad accennare che era pur giunto il tempo, che al popolo fosse concessa la parte dovuta nell'amministrazione dello Stato. Il concetto di monarchia democra- tica svolse il sommo filosofo e nelle orazioni che numerose tenne, il maggio ed il giugno 1848 in Italia, e nell'operetta / due programmi, nonché nei discorsi politici del 16 e 27 settembre 1848, del 3 e 10 ot- tobre dello stesso anno. Pur combattendo il governo repubblicano, cui l'autore del Primato fu sempre avverso (3); pur mostrandolo quale rovina d'Italia, non poteva egli non riconoscere d'altra parte, che una politica schiettamente moderata era contraria a' desideri

(1) DiTNOYER, Taj Revolution du 24 férrier. Bruxelles, 1849, II, pag. 34. Lamarttxe, op. cit. I. pag. 11. Weel. Hisfoire du porti répuhiicoin en France de 18H à 1870. Paris, 1900. Tscherxoff, Le parti républicain sovs la Monarchie de Jvilìet. Paris. 1911. Cfr Helxe, Frauzosische Zustànde, in Gesammeìte TTerJte, ed. del Karpeles. Berlin, 1887, VI, pag. 47.

(2) Mass.\ri, Operette politiche di V. Gioberti, Capolago, 1851, voi. II. pp. 23 e segg.

(3) Cfr. a questo proposito una lettera di V. Gioberti al cav. Vesme del 13 marzo 1849, in Nazione, 16 marzo 1849, pag. 1, col. 1.

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della popolazione, alla natura del popolo italico; donde la lotta contro il ministero Pinelli, che riteneva unico modo di opporsi al dilagare dei principi eccessivamente democratici, il rimaner fermo all'antico programma liberale. Il sommo filosofo quindi, la cui intenzione ve- niva esagerata e molte volte travisata, forse in virtù di questo travi- samento ottenne, per ragioni di cose, l'effetto di confermare nel po- polo la fama di uomo sinceramente democratico, non quale egli in- tendeva essere, ma quale lo si credeva fosse secondo la generale opi- nione; donde il risveglio potentissimo, divenuto egli ministro, di una corrente democratica la quale compendiava in se i sentimenti ed i modi di uno stato più repubblicano che monarchico. Così il 25 di- cembre un tale, che si firmava S. C, scriveva al sommo filosofo:

Amico del ministero democratico, amante della Patria ch'io veggo con dolore in pe- ricolo imminente di guerra civile, e desideroso di portare anch'io il mio piccolo granello al gi'aude edificio di Libertà e d'Indipendenza italiana che Voi volete stabilire, benché estraneo alle cose militari, io voglio sottoporre al sano giudizio del caro maestro gran cit- tadino, un mio pensiero. L'Aristocrazia vuol perdere l'Italia e la libertà piuttostochè darsi per vinta. La parola democrazia la spaventa, ed anche a costo di preparare molti e gravi guai al nostro povero paese, ella vuol abbattere presto il ministero democ:atico.

Chi non risente, in questo dire, il modo atteggiato alla classica fraseologia romana degli scrittorelli che seguivano le peste de' grandi agitatori della prima rivoluzione francese, tanto nel presentare l'ari- stocrazia nemica del bene e della libertà, quanto nel raffigurarla co- spirante a' danni della Repubblica? Continuando sullo stesso tono S.C. scriveva al sommo filosofo di provvedere a che « il merito nella elezione delle cariche dell'esercito fosse reale ».

Stabilisca il ministero democratico che tutte le nomine da Caporale fino a Colonnello siano il risultato della maggioranza dei voti deposti nell'urna dai bassi Ufficiali e dagli Ufficiali superiori, cominciando cioè dal semplice caporale, al generale. A me pare che con questo mezzo sarebbe certamente favorita e promossa la Democrazia nell'armata ed in modo legale ; sarebbe scemata l'oltracotanza degli aristocratici militari, rialzata la dignità del soldato, introdotta maggiore subordinazione, buona armonia e moralità del noi?tro esercito e ridestato in esso l'amor della gloria e della patria; ma sopratutto resa l'armata quasi tutta amica del ministero democratico (1).

Lo spirito riformatore che questo S. C. voleva introdurre nella organizzazione militare, un altro, che non si firmava neanche con le proprie iniziali, nel dicembre i848, desiderava fosse attuato nell'am- ministrazione delle finanze, e scriveva:

Eccellenza, nelle attuali circostanze in cui si trovano le finanze, per cui già si ricorse a due imprestiti, uno volontario e l'altro obbligatorio, e che tuttora l'Erario emerge sempre in eterno bisogno, pare che il governo dovrebbe servirsi anche di un mezzo che sarebbe facile nelle sue mani per procurarsi all'incirca un milione di lire in fine dello spirante di- cembre, sospendendo parte cioè del pagamento del semestre delle rendite perpetue iscritte nel debito pubblico, il quale ascende ad oltre .1.600.000 lire, da cui deduconsi le rendite assegnate a parrocchie povere e ad altre opere il cui provento viene destinato ad uso vera- mente pio: la somma che rimarrebbe deve toccare ailione ed in questa emergenza una

(1) Archivio Gioberti, Biblioteca Municipale di Torino, pacco I.

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tal somma è sempre rispettabile, massime se si rifletta che chi sentirebbe la detta sospen- sione sono le Confraternite, Congregazioni, Conventi, Monasteri, Parrocchie, Prebende, Opere, Seminari, Accademie, Cappellanie, Congregazioni, Università, Società, Mense ve- scovili. Capitoli, Collegiat«, Ospedali, Benefici, Canonici, Cappelle (1).

Il 25 dicembre un certo Gian Giacomo Caoni, dopo avere ribat- tuto sul chiodo del pericolo dei nobili, del bisogno di epurarli dalle carich© militari e civili, esponeva i segnenti desiderat-a:

Rompere la camarilla degli antichi capi di divisione nemici nati dello Statuto, sia per causa di speciale convenienza che per giuoco di abitudine, destinandoli ad alte incombenze fuori dei ministri.

Dichiarare tenuti i godenti pensioni di ritiro o di aspettativa a dover giustificare le loro rinunzie presso i rispettivi ministeri, e nella verificazione dei motivi attenersi alla semplice verità dei fatti e non alle cause scritte nell'artificioso libro nero del personale e dei relativi libretti.

Che in ogni dicastero d'azienda, intendenza o qualunque ufficio civile ed amministra- tivo, venga istituito un libro aperto ai richiami di ogni genere e che sia lecito a' subalterni di fare proposizioni vantaggiose al servizio o tendenti a far cessare abusi ed irregolarità, con obbligo ai capi di fare in detto libro le debite osservazioni e motivare la condotta dei subalterni qualunque sia per essere.

Affidare la polizia ai Sindaci, sott-o però la vigilanza dei rispettivi giudici, per impe- dirne l'arbitrato e la violazione dello Statuto, e tutti sotto la sovraintendenza degli a\Tocati fiscali e degli avvocati fiscali generali rispettivamente (2).

La seconda rivoluzione francese non aveva solo suscitato nel no- stro popolo una vampata di repubblicanismo, ma sentimenti e cor- renti politiche nuove. I movimenti sociali che avevano avuto tanta part« nella repubblica di febbraio e la cui prima conseguenza erano state le disposizioni prese con il decreto del 25 dello stesso mese, le sommosse del 15 maggio e 28 giugno 1848 in Parigi, non erano ri- maste senza efficacia negli Stati sardi, nei quali sia la vicinanza alla Francia, sia il grande affluire in Genova degli elementi più torbidi d'Italia e delle Provincie meridionali francesi offrivano non difficile modo, per le rinnovate libertà costituzionali, alle nuove idee di dif- fondersi e propagarsi. Si aggiunga, che a un pronto accoglimento delle teorie sociali era favorevole il doloroso stato nel quale versa- vano il Piemonte, la Liguria, la Sardegna per la lunga guerra e per la politica di attesa, ministro il Pinelli, per la quale il paese, gravato di forti balzelli, era privato di molte braccia che erano trattenute sotto le bandiere; il commercio ristagnato, le industrie poco fiorenti. Un primo tentativo di moto operaio erasi avuto il 5 aprile 1848 in Ge- nova fra i tipografi, che non eransi limitati a pure dimostrazioni, ma avevano agito tentando di trascinare seco loro i compagni di Torino, costituendo così uno sciopero di classe in tutto lo Stato. Dopo gli av- venimenti del 15 maggio e quelli del 23 giugno, il ceto lavoratore, in Genova sempre, aveva dimostrato di non essere rimasto indifferente alla nuova tendenza sociale. E quello che più sorprende è, che il moto andavasi estendendo nelle campagne, dove il rispetto al principio d'ordine era, per ragioni facili ad intendere, compreso in senso più

(1) Archivio Gioberti, Biblioteca Municipale di Torino, pacco I.

(2) Archivio Gioberti, Biblioteca Municipale di Torino, pacco I.

39 Voi. CtSVII, Serie V 16 ottobre 1913.

602 GIOBERTI ED IL POPOLO PIEMONTESE

alto che nella città e ne' centri operai. In Alessandria e nelle terre circonvicine erasi tentata una specie di rivoluzione agricola nel set- tembre 1848, della quale il Governo aveva taciuta l'importanza, ma di cui la stampa, anche quella moderata, quale il Risorgimento del Cavour, aveva parlato, accennando al pericolo che si fosse estesa, e alle conseguenze che avrebbe portato. È vero che i giornali, quasi tutti concordi, intendendo il pericolo, che nell'opinione pubblica si fosse diffusa la voce di una vera rivoluzione, avevano presentato la cosa come una mossa del partito austriacante e gesuita che tendes- sero a dividere gli animi; ma in un modo o nell'altro avevano fatto intendere al Governo la necessità di provvedere a che non si ripetes- sero in Piemonte, ed in quel momento particolare, gli eccessi di Francia. Se l'esilio volontario di Luigi Blanc, lo scacco della Com- missione del Lussemburgo, dopo le giornate del 23 giugno 1848, la mal riuscita degli opifìci nazionali, avevano avuto in Francia l'effetto di trattenere per qualche tempo almeno il cammino del socialismo (1), in Italia, o meglio in Piemonte, pur non accettando un vero pro- gramma socialista, si erano andate sempre più concretizzando aspi- razioni, idee che miravano ad attuare nel senso economico alcune delle nuove dottrine.

Di un tale stato della popolazione piemontese fa fede una lettera che, intorno a siffatto argomento, indirizzò al Gioberti, presidente dei ministri, la Virginia Raby, una scrittrice nei giornali di carattere più radicale che liberale e innovatore. Con quanta speranza di successo scrivesse ella al Gioberti per attuare idee che erano state, nelle opere e nelle lettere, combattute dal sommo filosofo, è dififìcile intendere. Forse coloro che in questo senso parlavano al Gioberti, stimavano che, essendosi egli dichiarato favorevole ad un nuovo ordine di cose, con l'appellativo di democratico dato al proprio ministero, non rifug- gisse dall'appi icare alcuni principi, tutto il cui intimo e vero signi- ficato non era inteso anche da chi li propugnava.

Essendo Voi, scriveva la Raby, al centro di tutte le idee affini al bene della nostra penisola e per la fiducia che ispirano il vostro sublime carattere e gli inalterabili vostri prìncipi, io mi fo animo a manifestarvi ciò che da assai tempo mi fa palpitare giorno e notte per la rigenerazione dell'afflitta umanità. Se il cuore non m'inganna, havvi un mezzo facile di quotare colla speranza di miglior avvenire quelle classi di persone le quali, o non s'intendono di Riforme, o non cercano la libertà, e che sono pure, per la loro ignoranza, di frequente d' inciampo alla grande azione Italiana, ma che, dovendo vivere alla gior- nata e mancando loro il lavoro, si lagnano della guerra e di chi la fa e scagliano contro i generosi che diedero le prime spinte e formarono i Prodi alla gloriosa risurrezione d'Italia r ingiusta accusa e l'ingiuriosa taccia di essere la cagione delle loro disgrazie. In [questi giorni d' incertezza e di orgasmo generale, la massa di coloro che soffrono ogni sorta di privazioni e di stenti per mancanza di lavoro, è grossa, è ignorante, è disperata, essa non ha nulla da perdere e può lusingarsi di aver molto da guadagnare in una insurrezione, solito episodio nella storia delle rivoluzioni. In quelle circostanze onesti cittadini egual- mente miseri si uniscono ai malvagi pel diritto che hanno di vivere ; così è che la massa cresce, così si fa gigante; per modo che il più delle volte riesce impossibile il contenerla e

(1) IsAMBERT, Les idécs sociales en France de 1815 à 1848. Paris, Alcan, 1905, pag. 401-402.

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non le si può far resistenza fuorché venendo allo spargimento del sangue, orrenda cata- strofe a cui si videro ridotte non ha guari l' incauta Parigi e varie provincie di Francia. La causa del Povero esclamava la Raby non può andar divisa da quella d'Italia. Ci prenda pietà di quegli infelici che d'alti'onde se chieggono pane, ne hanno il diritto, e se si abbandonano ad eccessi, vi sono spinti dalla necessità e dalla imprevidenza dei go- verni che non somministrano loro i mezzi di prov\'edere a ed alle loro famiglie. Pei miseri la vita è quella del giorno che corre, perché non hanno mezzo di aspettarne una migliore dairav\'enire. Che riforme? gridano i poveri; noi non vediamo che miserie, man- canza di lavoro, nostro unico patrimonio: morte ai nostri consorti, ai nostri figli, ai no- stri congiunti. Le campagne sprovvedute di braccia ed i raccolti mancanti per l'anno ven- turo. Noi vogliamo pane ; abbiamo diritto di chiederne al Ricco, perchè abbiamo il dovere di vivere. La migliore delle riforme per noi si è quella che ci sia dato di esistere onesta- mente lavorando... Quando manca il lavoro all'artigiano l'unico suo scampo onde non morir di fame si è il cotanto a giusto titolo temuto Comunismo. Guai se si aspetta ti'oppo tardi a dare gli opportuni proNTedimenti onde prevenire siffatte calamità ; non credete Voi, illustre Gioberti, che dobbiamo trar profitto di così terribile lezione? Per quietare tanti infelici ed evitare il Comunismo perchè siamo ancor in tempo, non ha\'vi altro mezzo fuorché quello di organizzare il Lavoro.

Il Gioberti nel programma del 16 dicembre 1848 aveva preve- duto questo moto della folla, e, temendo che le idee del comunismo e del socialismo prendessero troppo vigore, ne aveva neutralizzato la dannosa efficacia con queste parie : « Saremo democratici occupan- doci specialmente delle classi faticanti ed infelici e facendo opere efficaci per proteggere, instruire e migliorare la povera plebe, innal- zandola a stato e dignità di popolo » (1).

Molto potevano significare queste promesse del Gioberti, ma troppo contenevano per la condizione speciale del Piemonte nel di- cembre del 1848, perchè potessero essere in realtà effettuate; ond'è che il Risorgimento^ l'organo più efficace d'opposizione al gabinetto giobertiano, osservava in proposito con la caustica penna di Camillo Cavour (2) : « Migliorare la sorte delle classi laboriose, è freddura, ingentilire la povera plebe è insulto, serbare la dignità di tutti i cittadini è principio astratto che si trova scritto perfino nel Codice del Re di Napoli». E nulla di più vero e di più crudo delle parole del Cavour, il quale bene intendeva, come del resto lo comprendeva il Gioberti, che con le casse dello Stato vuote, con la minaccia di una nuova guerra con l'Austria, era impossibile venire ad un cambia- mento nel ceto operaio, auspice il Governo, secondo que' principi che non aveva potuto attuare un paese infinitamente più saldo e più ricco. E di una tale verità doveva pur convenirne la stessa Raby:

È vero ella notava che in alcuni individui queste parole lavoro or(janiz:ato fanno inarcar le ciglia; so che le teorie di Louis Blanc e di Le Dru (hìc) Rollin sono state sor- gente di tanti danni all'industriosa e florida Francia. So del pari quanto si fanno alimen- tare le conseguenze di queste teorie; ma so altresì osservare una che concilia i bisogni di tutti, non lede i diritti di nessuno, non intacca la proprietà, ma anzi la rispetta e la di- fende. Solo é mestieri che il mondo si spogli di ogni prevenzione, si arrenda alla forza del

(1) Massari, op. cit., voL II, pag. 311.

(2) Bisorgimento. 301, 18 dicembre 1848.

604 GIOBERTI ED IL POPOLO PIEMONTESE

raziocinio, e non sia sordo alla voce dell' Umanità. Il lavoro si può organizzare in modo che siano, come dissi, rispettate e difese le p 'oprietà, illesa la libertà del commercio, fa- vorita r industria, eccitata la emulazione e la concorrenza, ma nello stesso tempo siano tu- telati gli interessi del povero, ass'curata l'esistenza alle oneste famiglie, la cura dei vecchi e degli invalidi, lavoro incessante e sufficiente retribuzione, istruzione alla gioventù. L'or- ganizzazione del lavoro recherebbe tutti questi vantaggi alla società, e così verrebbe scor- nata la massa dei tristi pronta a cogliere ogni propizia occasione per sollevarsi contro i ricchi (1).

Si sarebbe potuto domandare alla Raby, come poteva conciliare il fatto di organizzare il lavoro con le leggi di Stato e conservare nel medesimo tempo le industrie ed i commerci liberi, quando, non più tardi di pochi mesi prima, il tentato esperimento in Francia aveva condotto, a dire della stessa Raby, alle peggiori conseguenze econo- miche e politiche. Importante per noi è rilevare quanta efficacia avesse ottenuto nelle masse e nel ceto operaio il nuovo verbo sociale. L'idealità d'una patria grande, il principio dell'Italia una e libera, era soltanto di pochi, nel 1848. La moltitudine assisteva, passato il primo momento di entusiasmo, indifferente allo svolgersi dei fatti : di fronte al delinearsi sempre più nitido del problema economico, che derivava dallo stato speciale della guerra, essa ridestavasi cer- cando la via migliore e più rapida per uscire da questo stato di cose nel modo più soddisfacente. Ed è insieme utile per noi il notare come in ogni modo, in qualsiasi manifestazione, al sommo filosofo si rivol- gessero gli sguardi,, si domandasse aiuto, pur non riflettendo se ciò che si chiedeva fosse consentaneo ai principi dell'autore del PriTnato; per quella cieca fiducia, che il popolo gli tributava, egli diveniva il centro di ogni tendenza, di ogni indirizzo del paese. E di questa infi- nita devozione, prova non differente è quanto al cittadino Gioberti, il 14 marzo 1849, un certo Musso Carlo scriveva :

Libéralissimo Cittadino,

Non posso astenermi dal manifestargli il dispiacere che ho avuto nel sentire della sua caduta dal ministero ingiustamente incolpato ; di più mi colpiva il cuore al vedere qual- cheduno a rallegrarsi della vostra disgrazia ; ma ho avuto il contento un giorno mentre era dei vostri avversari che vi criticavano di veder un diplomatico estero difendervi e di rendergli tutti ingannati dicendo che se si lasciavano adempiere i vostri disegni che avreste resa sicura la vittoria contro gli Austriaci, e messo l'Italia in forza al pari di qualunque potente potenza. Ma la mia mente mi disse che vi hanno fatto cominciare la quaresima, ma dopo verrà il tempo Pasquale dove voi risusciterete più glorioso e trionfante. Intanto io vi assicuro che sarei pronto non solo di sacrificare la 'mia mercede, ma di mettere la vita in pericolo per Voi, sommo filosofo e gioirebbe di potervi essere utile in qualche cosa, professandomi di essere un vostro affezionato (2).

Torino, li 14 marzo 1849.

Musso Carlo.

(1) Archivio Gioberti, Biblioteca Municipale di Torino, pacco I.

(2) Archivio Gioberti, Biblioteca Municipale di Torino, pacco I.

GIOBERTI ED IL POPOLO PIEMONTESE 005

Non si apponeva male il Musso nel caratterizzare in quel modo la condizione del Gioberti nel marzo 1849. Una vera quaresima era incominciata per il sommo filosofo che, fermo alle proprie idee dalle quali era sembrato, piij che non lo fosse in realtà, volersi distaccare, era assalito ora dagli amici recenti, tenuto in sospetto dai vecchi che non gli potevano perdonare la condotta da lui tenuta dall'agosto al dicembre 1848. Infiniti dolori attendevano il Gioberti che, nato e vis- suto per la patria, doveva esser costretto per nobilissimo sdegno a morire lungi da essa. Ma venne, come profetava il Musso, la sua risurrezione : venne quando il Cavour, con un lampo di genio, nel 1859, comprese quale fosse la via da seguirsi e con vero ardi- mento, in pochi mesi, compì il grande edificio dell'unità della pa- tria. Il grande statista fu in questo modo il vendicatore dell'autore del Primato, che egli medesimo aveva combattuto ed ostacolato. Il Gioberti fin nel maggio 1848 aveva intraveduto, come in un non lon- tano miraggio, l'Italia una, libera, indipendente; solo piegando alla forza delle circostanze era stato costretto ad attendere a occasione più propizia il momento di attuare il suo grande progetto.

In forza di questa persuasione, egli voleva in tutti i modi il po- tere, donde non guardò a ostacoli pur di raggiungere l'intento : di qui inimicizie tremende che lo impedirono nelle sue azioni. Ma quando nel marzo del 1861 Vittorio Re proclamò il Regno d'Italia, coronando con la volontà potente del popolo e la maestà della sua parola gli sforzi del Prometeo di Santena, calmate le ire di parte, l'opera del Gioberti cominciò ad apparire nel suo vero valore. Allora si comprese che cosa egli avesse fatto, compiuto, preparato: allora egli assurse incontrastato alla grandezza, cui il suo ingegno e l'amor della patria lo avevano innalzato e che gli era pur dal popolo rico- nosciuta; come quando, diradate il sole le nebbie che avvolgono le cime dei monti, noi vediamo, nell'azzurro del cielo, elevarsi più gi- ganteschi quei picchi colossali che paiono sfidare lo spazio ed il tempo.

Eugenio Pass.\monti.

Pineta di Tor San Lorenzo presso Ardea.

NEL LAZIO ANTICO: ARDEA

.... nunc magnum manet Ardea nomen. Vehg. Aen. VII, 4J-2.

La strada che si percorre da Roma ad Ardea prepara la mente alla visione fiera e all'impressione complessa che offre al viaggia- tore un po' colto la vetusta città, che ha riempito della sua forza e della sua fama le origini di Roma, quali son conservate dal canto della leggenda.

La via Ardeatina, che ora vi conduce, di recente riattivata, segue piìi 0 meno il tracciato dell'antica i cui lastroni silicei sono stati rinvenuti, a tratti, nel suolo delle tenute circostanti. La porta Ardeatina, che un tempo si apriva nel recinto delle mura aureliane, fu abbattuta insieme a un tratto delle mura stesse per dar luogo al forte bastione del Sangallo (1) innalzato nel 1538 per ordine di Paolo III il quale, in tema di fortificazioni, non soltanto a Perugia pensava «tra il latin del messale e quel del Rembo». La via che passava sotto la porta abbattuta non si riconosce ora più, ed è merito dell'Hùlsen (2) averne ricostituito il tracciato intramuraneo, che pas- sando innanzi al grande sepolcro rotondo della vigna Cavalieri-Guer- rieri giungeva fin sotto Santa Ralbina. Quivi si apriva un tempo l'an- tichissima porta Nevia del recinto serviano, la prima porta dell'Urbe che guardasse verso Ardea.

è relativamente molto antico il tempo che questa via aveva cessato di essere in uso prima dell'attuale riattivazione. Uno o due secoli prima che il Sangallo ne sopprimesse la porta, la via Ardeatina era battuta da quelli che si recavano nel territorio di Marittima, dagli abitatori dei casali e dei vari centri più o meno importanti situati

(1) Difatti nei disegni del Sangallo studiati in proposito dall' Hiilsen la punta della fortificazione è chiamata bastione ardeatino. La porta che si apriva a questo punto delle mura aureliane era però secondo il medesimo au- tore una semplice posterula. Vedi l'articolo citato alla nota seguente.

(2) HtJLSEN, La porta Ardeatina, in <( Rom. Mitteilungen », IX (1894), pag. 320 seg.

NEL LAZIO ANTICO : ARDEA 607

ai fianchi della via e, più anticamente, dai devoti che si recavano a pregar nei cimiteri cristiani di Balbina e di Domitilla su le cui aree si erigevano maestose le basiliche rispettive. Questa via calcò l'abate Giovanni di Monza « indignus et peccator » nel suo pio pellegri- naggio attraverso i cimiteri suburbani per raccogliere gli oli che ardevano su le tombe dei martiri e portarli come dono devoto alla sua sovrana, la longobarda Teodolinda. Questa via calcarono gl'innu- merevoli pellegrini cui la pietà oculata dei compilatori degl'itine- rari salisburgense, malmesburiense, wirceburgense e dei Mirabilia indicava i luoghi dove i titoli di gloria della nuova Roma si potevano ammirar con rispetto divoto e con fede ricca di entusiasmo cristiano.

Il panorama che offre la via è ampio ma austero. Vi si trova la tenuta di Tor Marancia da cui venne fuori negli anni 1816-17 in se- guito agli scavi ordinati da Marianna di Savoia figlia di Vittorio Amedeo III una ricca mèsse di marmi e musaici che ora formano cospicuo ornamento del Museo Vaticano (Galleria dei Candelabri) Più oltre sta il piccolo santuario dell'Annunziatella, sorto nel luogo sacro dell'antica selva Nevia, a cui accorrono, ad ogni prima dome- nica di maggio, i popolani di Roma che festeggiano su l'erba verde tra canti e suoni e fiori di rose l'iniziata primavera. Seguono Tor Carbone, San Cesario con campo sperimentale, l'elegante Cecchi- gnola, Tor Pagnotta, il Torraccio, Castel di Leva dov'è la chiesa del Divino Amore, celebre per il tripudio floreale e l'allegria sfrenata che, certo in memoria di una tradizione antichissima, vi hanno luogo il lunedì dopo la Pentecoste detta per l'appunto Pasquarosa.

L'altra via, fino ad oggi unicamente frequentata perchè più comoda, per recarsi ad Ardea è la Laurentina che si stacca dalla Ostiense al ponticello di San Paolo, volge a destra all'altezza delle Tre Fontane e attraverso una campagna ugualmente deserta e ondu- lata, correndo ora libera fra campagne dagli orizzonti sconfinati, ora incassata tra ripe tufacee rivestite di verde va a raggiungere la via Ardeatina all'altezza di Montemigliore. Da questo punto il pano- rama è, s'è possibile, anche più selvaggio e suggestivo. Su lo sfondo, a sinistra, si disegnano i colli albani, a destra si stende la campagna che corre tra colline e vallette verso il mare. Neppur l'ombra di case isolate o di capanne: solo il deserio immenso e silenzioso. Qua e mandre di cavalli o di buoi al pascolo e greggi che animano poe- ticamente il verde solitario dei poggi. Stormi di nere cornacchie si levano tutte insieme al rumore di chi passa per la via e si riposano poco lontano, dando per un momento a tutto il paesaggio l'impronta delle cose morie. Ma l'impressione complessiva del paesaggio è grandiosa, come l'eco del nome romano.

Senza dubbio un tempo tutta questa immensa landa, dove ora non s'incontra anima viva, era abbastanza popolata, come ne fanno fede le memorie medievali dal Tomassetti con tanto amore rac- colte (1); senza dubbio la Solforatella che ci avverie di sua pre- senza con le emanazioni caratteristiche dello zolfo (2) fu ' già un

(1) Tomassetti, La campagna romana, voi. II, il cap. su la via Ar- deatina.

(2) Vergili» che così a .fondo conosce e così amorosamente illustra le me- morie del Lazio antico menziona questa sorgente sulfurea che <( saevam exhalat opaca mephitim » (Aen. VII, 84); e manda il re Latino a consultar l'oracolo che dava i suoi responsi nell'attiguo bosco sacro dedicato a Fauno.

608 NEL LAZIO ANTICO : ARDEA

centro abitato di prim'ordine, una di quelle « domus cultae » (1) che due fra i più intelligenti ed attivi papi dell'alto medioevo, Zaccaria e Adriano I, promossero con ogni efficacia a fine di ridonar nuova vita agli antichi centri abbandonati (2) e insieme giovarsene per re- clutarvi la milizia della Chiesa romana : quei « familiares » o « rustici Ecclesiae », quegli « homines Sancti Petri » che di frequente si tro- vano nei documenti dell'epoca, armati in difesa del pontefice ro- mano; senza dubbio, poiché le ragioni della vita sono più forti di quelle dell'estetica e della storia, si deve desiderar che gli sforzi tentati in passato e al presente per restituire alla cultura tante terre producano il loro effetto, che Roma possa satollarsi della propria produzione : ma pure dev'esser lecito in nome della bellezza desi- derar, almeno per un istante, questa zona di deserto piena d'incanti intorno ai fianchi dell'Urbe, questo immenso pomerio silente pieno di memorie, che prepari il viaggiatore alla visione della città più grande e più complessa che agli occhi dei mortali sia mai dato di contemplare.

Intravveduta già a qualche centinaio di metri, Ardea si pre- senta bruscamente al viaggiatore, appena varcato il ponticello che accavalcia il fosso, nel suo caratteristico aspetto di acropoli forti- ficata. Sarebbe impossibile penetrar da questo lato S-0 nella citta- della che siede in alto sopra una rocca di tufo guarnita di folta ve- getazione, da cui il castello baronale già dei Colonna ora dei Cesa- rini, domina facilmente tutto il piano sottoposto fino al mare che bagna il litorale deserto a cinque chilometri di distanza. Soltanto a basso della collina si apre l'angusto arco di accesso del sec. xi-xii, e da questo punto la strada, scavata tutta nel tufo, sale ripida verso l'alto della città avendo a destra il grosso della rocca e lasciando in piedi a sinistra un orlo di tufo dalle pareti a picco che fa da muro di cinta.

La posizione di Ardea fu scelta seguendo quelle norme da cui i suoi fondatori italici non si allontanavano mai, finché era loro pos- sibile. Essa infatti siede sopra una lingua di territorio stretta ai fianchi da due corsi d'acqua : il fosso della Mola e il fosso del- l'Acquabuona, i quali si uniscono a valle della città e sotto il nome d'Incastro si vanno a scaricar nel Tirreno. L'acqua scorrendo pe- renne ha incavato profondamente il terreno tagliando a picco la rocca tufacea e rendendo il territorio intermedio inaccessibile su tre lati. Ma l'Ardea attuale rappresenta soltanto l'arce dell'antica città che ai tempi della sua fortuna si stendeva assai entro la terra. In origine, come l'arce palatina, essa era tutto il villaggio dei Prisci

(1) Quest^ domus eulta vi fu istituita da Adriano I « cum fundis et casa- libus, vineis, olivetis, aquiraolis et omnibus ei pertinentibus ». L. P. (ed. Du- chesne) in Vita Adriani, I, pag. 502.

(2) Quivi nell'epoca romana doveva esservi una villa appartenente alla consolare famiglia dei Calvisi, un territorio Calvisianum, nominato nel L. P. alla vita di Adriano già citata domo cultam qui vocatur Calvisianum, cum fundis, ecc. ») e che nella bolla onoriana dei possessi di S. Alessio diventa « curia de Calvisavis ». Cfr. Tomassetti, II, pag. 439.

NEL LAZIO ANTICO : ARDEA 609

Latini occupatori, che il giorno scendevano al piano per i loro la- vori e la sera si ritiravano sicuri nella rocca. Ma in appresso, grazie alla sua posizione, che le permetteva d'intrattenere il commercio marittimo con i Punici e le relazioni con la media e la bassa Italia attraverso i Volsci, la città si accrebbe estendendosi verso N-E in direzione di Civita Lavinia, per un successivo ingrandimento di cin- quecento e di ottocento metri nei terreni chiamati oggi la Civitavec- chia e Casalazzàra. Dell'una e dell'altra costruzione, della rocca cioè e della città ingrandita, è possibile osservare ancor oggi le impo- nenti costruzioni.

Il giro della rocca si può fare in mezz'ora circa. Si passa sotto il castello Cesarini, che fu già dei Colonna dei quali si distingue l'arma

L'acropoli Ardeatina veduta dal Iato sud-ovest.

SU lo sperone a difesa dell'edificio e, per una viottola, si procede verso E, lasciandosi a destra il terreno delle Vignacc« attraversato dal- l'Acquabuona. Quivi si possono ammirar i tratti di fortificazione più belli di Ardea, rimasti quasi intatti, interamente costruiti a blocchi di tufo senza calce, disposti a scarpa per esser sostegno più valido (1). In questo lato S-E una via scavata a gradini nel tufo immette nella rocca. Quasi ogni traccia dell'antica porta è scomparsa.

Una terza porta si apriva a N-0 in opposizione a cfuella che guarda il mare e permetteva agli abit^inti di inoltrarsi, attraverso leg- gere depressioni, nell'altipiano della campagna (2). Ma quando la

(1) Su le fortificazioni di Ardea, v. il bello studio di O. Ricthter, Le forti- ficazioni di Ardea, in « Annali Ist. Corr. Arch. », 1884, p. 90 seg. Nei « Mo- numenti » dell'Istituto stesso (voi. XII, tav. 2) è riprodotta la pianta dise- gnata dal medesimo autore.

(2) Il bastione pentagonale che si vede ad O di questa porta è opera del sec. xv.

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NEL LAZIO ANTICO : ARDEA

città si fu ingrandita, occupando quel tratto di terreno al di del- l'arce detto la Civitavecchia, rimase naturalmente indifesa da questo lato e fu necessario provvedere a fortificarlo giacché gli agricoltori ardeatini volevano dormir tranquilli i loro sonni. Allora, a cinque- cento metri dalla porta posteriore dell'arce, fu innalzato un possente terrapieno, munito di fosse, uno di quegli argini che gl'Italici co- struttori sapienti delle terremare ben sapevano elevare e che i Ro- mani adoperavano nelle loro opere di castrametazione. Fossa e vallo sbarravano la via verso N-E per tutto lo spazio che intercede tra i due corsi d'acqua già nominati. Ma non dimenticarono per questo gli Ardeatini le necessità dell'agricoltura e degli scambi con l'in- terno, perchè una porta principale fu aperta nel vallo e un ponte fu

Mura di cinta e ingresso all'acropoli dal la+o di sud-est. Nel fondo a sinistra la chiesa di Santa Marina.

gittato su la fossa per farvi passare una via che permettesse agli abi- tanti di inoltrarsi nella campagna. Ancora sussistono, della porta che si apriva in questo primo argine, i filari inferiori delle spallette a grandi blocchi di tufo. Un ulteriore ingrandimento per circa otto- cento metri nell'attuale tenuta di Casalazzàra portò all'elevazione di un secondo argine costruito, con la sua fossa, secondo le medesime norme del primo.

Ma non da questo solo lato di N-E la città si era ingrandita, poiché anche verso S-E nel terreno delle Vignacce e, oltre il fosso dell' Acquabuona, nella tenuta di Campo del Fico arrivava la città, come dimostra l'argine ritrovato anche qui, con la sua interruzione nel mezzo per dar il passaggio alla via (1).

(1) Cfr. Pasqxji, in (( Notizie degli scavi », 1900, pag. 61 seg. Questi scavi del Pasqui confermano ed integrano il bel lavoro del Richter già citato di sopra nella sua parte sostanziale e vi aggiungano i trovamenti della necropoli.

NEL LAZIO ANTICO: AR1)EA 611

La necropoli, a parte gl'i scarsissimi avanzi di tombe a fossa tro- vati sul suolo della Civitavecchia, giace tutta di dal secondo ar- gine in tenuta di Gasalcizzàra ai due lati della via che da Ardea muo- veva verso Civitalavinia. Una folta boscaglia la protegge così bene, che ha anche impedito di proseguire gli scavi oltre il puro neces- sario per non abbattere una vegetazione così propizia al rimboschi- mento dell'Agro. Le tombe trovate, oltre quindici a cameretta o a fossa, contengono il cadavere giacente con il capo rivolto a nord in- sieme a una discreta suppellettile funebre che le fa ascrivere al iii se- colo a. C. La qual cosa Significa che Ardea in quest'epoca non era ancor ridotta ad esser solo un « gran nome » e che la sua fortuna non si poteva ancora dir tramontata. Ma ogni sforzo per ricostituir la storia di questa notevolissima città latina, la cui importanza sin- tuisce dai monumenti dell'archeologia e dalle menzioni della storia, riesce impossibile data la frammentarietà degli uni e delle altre.

Dalla gloria della leggenda che la fa capitale dei Rutuli sotto Turno che invano si oppone alla fatale invasione di Enea, allo stato operoso colonia romana, all'incipiente decadenza dell'era impe- riale, all'abbandono quasi completo dell'epoca medievale e moderna : sono secoli che passano sopra le vecchie mura, arse dal sole, battute dalla pioggia, rivestite qua e da una vegetazione tenace, senza che sia possibile poter ricostruire, almeno a grandi linea, il profilo storico dell'antica città, la quale è ora davvero un semplice nome senza potenza e senza storia.

Tuttavia esaminando con cura i trovamenti avvenuti sul posto e vagliando le notizie che gli antichi autori, specialmente Tito Livio e Strabone, ci forniscono, possiamo se non . ricostruire la storia, al- meno fissare alcuni punii del suo svolgimento, punti che ci aiute- ranno ad apprezzare anche più le roggie mura tenaci della •cittadella priscolatina.

La leggenda fabbricata dagli eruditi e storiografi greci per lu- singar l'amor proprio dei Romani dominatori che cominciavano al- lora ad iniziarsi ai tesori letterari dell'ellenismo aveva dato ad Ardea come ad altre città dell'Italia origini illustri, e molteplici secondo le varie correnti. Secondo una versione la città sarebbe stata fondata da Danae, figlia di Acrisio che l'avrebbe popolata di una colonia di Argivi venuti con lei per le vie del mare. Da Danae e da suo ma- rito Pilumno sarebbe uscita la stirpe da cui provenne Turno, il vio- lento nemico di Enea (l). Un'altra leggenda fa edificare le tre città di Ardea, Anzio e Roma dai tre figli di Ulisse e di Circe chiamati Ar- dea, Anzia e Roma (2).

(1) Verg., Aen., VII, 409; Plinio, E. N.. Ili, 5, 9; Solix, II. 5.

Il mito di Danae e Perseo è uno dei più notevoli di tutto il bagaglio ellenico, anche per il tema folklorico che vi si connette. Esso entra pure a far parte dei miti che si riferiscono a Roma e vi è stato introdotto per spie- gare le cerimonie degli Argei; i quali sarebbero stati due fratelli gemelli, Argo ed Argeo, figli appunto di Danae. Serv. ad Aen., VIII, 345.

(2) Questa leggenda che tende a porre le tre città sopra uno stesso piede <( accenna senza dubbio di sorta a quel tempo in cui il Lazio era tutto sotto la dominazione etrusca ed Ardea ed Anzio per potenza non erano da meno di Roma stessa ». P.us, Storia critica di Boma, 1913, I, pag 257.

612 NEL LAZIO ANTICO : ARDEA

In realtà le origini di Ardea si perdono in un'oscurità più fìtta che non quelle di Roma stessa. Certo esse si debbono ascrivere a una mano di Italici del gruppo latino, i quali avendo trovata ben fertile la pianura circostante e ben difeso da natura il luogo, vi s'in- stallarono. Di questa prima fase della vita della città fanno fede i trovamenti di fìttili di tipo laziale del tutto uguali a quelli rinvenuti nei colli Albani (1). Questi Ardeati, il cui piccolo Stato non era dis- simile dagli alti*i sparsi nel Lazio antichissimo e formatisi, non esclusa Roma, alla stessa maniera, prendono parte alla lega albana che radunava tutte le genti latine della pianura e dei colli in occa- sione di una grande solennità religiosa (le ferie latine) che aveva luogo nel santuario di Giove laziale sul monte Albano : si uccideva un toro bianco e le sue carni venivano distribuite a tutte le città rap- presentate su la sacra vetta. La partecipazione degli Ardeati a que- sta festa è provata oltre che dal passo liviano (XXXII, 1) dove si legge che quei di Ardea ricorrono al Senato di Roma per non aver ricevuto « uti assolet » la carne nella distribuzione rituale delle ferie latine, anche da un'iscrizione su un blocco di peperino a caratteri arcaici dove si legge dioei ardeates: gli Ardeatini a Giove (2), trovata appunto presso le rovine del tempio sul monte Cave.

Dopo le origini leggendarie già accennate la tradizione romana non ricorda Ardea se non in occasione della guerra mossale da Tar- quinio il Superbo perchè, come osserva Livio (I, 56) « Ardeam Ru- tuli habebant, gens ut in ea regione atque in ea aetate divitiis prae- pollens». E durante l'assedio della fortissima cittadella avvenne tra i duci dell'esercito romano la contesa su l'onestà delle proprie mo- gli, la palma riportata dalla bella e buona Lucrezia, l'onta patita per violenza di Sesto fìglio del re, la rivolta popolare seguita dall'aboli- zione della monarchia. La tradizione romana è in questo caso ben poco degna di fede, come tutte le tradizioni che vogliono spiegare a distanza il cambiamento degli ordini interni di uno Stato : ma è no- tevole per il rilievo datovi ad Ardea, rilievo che si ripete in una cir- costanza consimile : quando si tratta cioè di spiegare la caduta del governo decemvirale. Anche in questa occasione mentre l'esercito romano sta all'assedio di Ardea il violento decemviro Appio Claudio concupisce la bella Virginia : anche in questa occasione la donna che è causa di malsani desideri cade immolata su l'ara dell'onore ro- mano, e il suo sangue provoca la sommossa del popolo contro i ti- ranni e l'abolizione del potere costituito. Caduta la monarchia quelle cittadine del Lazio che mal si erano piegate alle prepotenze egemo- niche manifestate da Roma durante l'epoca regia si strinsero verso il 500 a. C. in lega contro Roma. Tra esse è anche Ardea Ardeatis Rutulus») (3). Questa lega latina costituitasi ai danni di Roma non annullò la vecchia federazione delle ferie latine che rimase ridotta alle sue mansioni strettamente religiose del colle Albano, ma volle

(1) Cf r. PiGORiNi, Antichità laziali di Ardea, in a Bull. Paletn. italiana », Vili (1882), pag. 114. Questa grama suppellettile rinvenuta nel terreno della Civitavecchia è ora raccolta nel Museo Preistorico di Roma, sala XXXIX, scansia 9-10.

(2) Così l'HuLSEN nell'Encicl. « Pauli-Wissowa », s. v. Ardea, legge l'anti- chissima epigrafe che nel C.I.L, VI, 2020 è data come restiTUKrunt Ardeates.

(3) Così Catone in Prisc, IV.

NEL LAZIO antico: ardea 613

un altro santuario come simbolo religioso della sua unione e fu quello antichissimo di Diana Nemorense.

Roma vinse la lega nella battaglia famosa del lago Regillo e conchiuse con le città confederate un equo trattato detto Cassiano dal nome del console che lo stipulò. Le buone condizioni furono da Roma intanto agevolmente offerte in quanto le premeva di stringersi ai La- tini per sostenersi contro l'urto degli Equi e dei Volsci contro cui i Latini da soli non riuscivano a resistere, con danno sicuro di tutti gli abitatori della pianura laziale. Anche i montanari Ernici acce- dettero al patto romano-latino e ne sorse così quella che G. De San- ctis chiama la triplice alleanza contro il pericolo volsco-etrusco. I Volsci sopratutto erano di una turbolenza veramente minacciosa, come si ricava dalla leggenda di Goriolano ch'è tutta piena del ter- rore dei Volsci e da quella dell'Ardeatina Virginia. Questa formosa fanciulla era contesa tra un nobile e un plebeo che si rivolsero il primo ai Romani, il secondo ai Volsci per aver ragione della contesa. Roma vinse nella lotta e il capo dei Volsci, l'Equo Cluilio, fu con- dotto in Roma dietro il trionfo del console Geganio. Del resto i Ro- mani nel 442 dovettero dedurre in Ardea una colonia (1) appunto per resistere all'urto dei finitimi Volsci. In Ardea si trovava esiliato Camillo dopo l'impresa gloriosa di Veio condott-a appunto durante la triplice alleanza e da Ardea volò generosamente al soccorso di Roma durante l'invasione dei Galli.

Proprio in occasione della invasione gallica la triplice alleanza che aveva retto alla prova del fuoco durante l'assalto volsco ed etru- sco si trovò naturalmente disciolta e così intorno al 390 le città della lega si divisero in gruppi separati. Ardea però insieme alle altre città di Aricia, Lavinio, Lanuvio che avevano sperimentato piìi efiB- cace l'aiuto di Roma, le rimase fedele. Anzi questo gruppo di città priscolatine insieme con le colonie latine dedotte in paese volsco fu- rono quelle che servirono a fondar insieme con Roma intorno al 358 una nuova lega latina, nella quale però la preponderanza di Roma era naturalmente molto più forte che non a tempo del trattato cas- siano. In cambio però Roma garentiva a queste città la sicurezza marittima contro gli assalti punici, come ci è documentato dal primo trattato stretto tra Roma e Cartagine nel 348 (2). La qual cosa natu- ralmente contribuì ad alimentare le relazioni commerciali che que- sti paesi avevano oltre il mare, come lo prova il fatto che i primi tensori giunti in Italia dalla Sicilia sbarcarono, teste Varrone (3), appunto ad Ardea che ne conservava in pubblico luogo il ricordo.

(1) Tra le scarse iscrizioni che si riferiscono ad Ardea ve n'è una con la menzione di un tal Postumio come curatore della colonia (curatori coloniae Ardeatinorum) trovata a Cirta. Cfr. « Eph. epigr. », I (1872), pag. 128. Altra lapide trovata a Nola parla di un curatar reipubìicae Ardeatinorum C.I.L., X. 1254.

(2) Il testo è in Polibio, III, 22. V. anche Livio, VII, 27.

(3) « Omnino tonsores in Italiam primum venisse ex Sicilia dicuntur post R. e. a CCCCLIII (300 a. C.) ut scriptum in publico Ardeae in litteris exstat, eosque adduxisse Publium Menam ». Varrone, De re rustica, II, 11, 10.

Un'altra prova dell'importanza di Ardea sta nella tradizione menzionata da Livio, XXI, 7 e da Silio Italico, IV, 62 secondo la quale Sagunto sarebbe stata fondata da coloni zacinti uniti ad Ardeati. Straboxe, IV. 159, conferma in parte questa notizia giacche afferma anch'egli l'origine zacinzia di Sagunto.

614 NEL LAZIO ANTICO : ARDEA

Eppure come le altre città latine Ardea trovò un'altra occasione di ribellarsi a tempo della prima guerra sannitica. Ma una volta vinti i nemici lontani e vicini, Roma ammaestrata dall'esperienza non cercò più di ricostituire la lega e lasciò alle città un tempo a lei federate l'autonomia, salvo il ricxDnoscimento della egemonia mili- tare di Roma. Così mentre si assicurava un contingente di cui aveva assoluto bisogno in caso di guerra, evitava il pericolo di tenere un probabile nemico compatto alle sue porte.

Da questo momento Ardea è legata per sempre alla storia di Roma e ne segue le sorti, salvo il rifiuto opposto per impotenza di concorrere con nuove reclute a colmare i vuoti lasciati dalla seconda guerra punica (1). La conquista del primato assicurata stabilmente dai Romani su l'Italia garentisce anche ad Ardea un pacifico svi- luppo e sono in fatti i secoli quarto e terzo a. G. quelli del suo mi- glior fiorire, di cui sono documento le tombe scavate dal Pasqui nel 1900. Ai tempi della fortuna di Ardea appartiene il tempio di Giunone, della cui platea restano avanzi sul piazzale che si apre di fianco alla chiesa. In questo tempio Plinio ammirò pitture di Plauzio Elota, prigioniero della guerra etolica, che ebbe dagli Ar- deatini menzione onorevole nel tempio stesso in una iscrizione che Plinio riporta (2). Come piazza fortificata Ardea ricevette prigioniero il campano Minio Gerrinio accusato di complicità nell'affare dei Bac- canali (3). Ma appena un secolo dopo le sue condizioni cominciano a farsi men prospere a causa dei popoli del Sannio che devastarono il suo territorio, durante la contesa civile tra Mario e Siila nella quale essi parteggiavano per Mario (4). E assai probabilmente al loro insano saccheggio si deve la distruzione del celebre santuario di Venere {VAphrodisium) situato nel territorio tra Ardea e Lavinio verso il mare, detto « Campus Veneris » in una bolla di Gregorio II, ora corrotto in Campo Jemini. Plin'io che lo menziona dice che esi- steva « quondam » (5) e Strabone (6) dopo aver ricordato che i Latini vi si riunivano, sotto la presidenza degli Ardeatini, in occasione di

(1) Livio, XXVII, 9

(2) Plinio, H. N., XXXV, 11, 37. Dignìs digna loca picturis condecoravit -- reginae Junonis supremi coniugis templum Marcus Plautius Helotas Ae- tolia oriundus quem nunc et post scraper oh artem hanc Ardea laudai. Più in alto, 1. XXXV, 3, 6, lo stesso autore parla di pitture più antiche di Roma stessa da lui vedute nei templi d'Ardea e ancor mirabili per il loro stato di conservazione. Anche Servio, Aen., I, 44, parla di antiche e famose pitture ardeatine. Esse ad ogni modo non posson farsi risalire oltre il vi o V secolo.

A proposito delle opere d'arte Ardeatine non va dimenticata la copiosa messe di artistiche terrecotte trovate in Ardea ed incettate dal marchese Cam- pana, ora cospicuo ornamento del museo del Louvre. Su i trovamenti di ter- recotte in Ardea- v. Braun, Scavi di Roma e di Ardea in <( Bull. I. Corr. Arch. », 1852, pag. 81 seg., e 1853, pag. 59, seg. e « Gazette des Beaux Arts », XII, 499, XIII, 11, 1620. Un saggio monco ma pregevole di terracotta Ar- deatina si trova nel Museo di valle Giulia e consiste in un paio di piedi for- niti di sandali, che dovevano appartenere a una statua maschile.

(3) Livio, XXXIX, 19.

(4) Strabone, V, 3, 5 ; 4, 11.

(5) Plinio, II. N., Ili, 5, 9.

(6) Loc. cit.

NEL LAZIO ANTICO : ARDEA 615

cerimonie religiose, accenna alla devastazione sannita che lasciò ru-' ^eri dov'erano città gloriose per la venuta d'Enea e per i riti sacri che vi SI celebravano.

V Aphrodisiiim doveva essere in origine un santuario laziale dedicato a Venere, la dea italica della vegetazione primaverile, e il suo nome greco deve essergli venuto dopo l'assimilazione della dea italica con la greca Afrodite, tanto più che quadrava assai bene con la leggenda di Enea che proprio a Lavinio sarebbe sbarcato e a sua madre Afrodite avrebbe dedicato un tempio (1). Anzi la leg- genda d'Enea qual'è accettata dalla tradizione canonica rifletterebbe secondo il De Sanctis (2) anche la contesa tra Ardeati e Lavinati per la presidenza del santuario : infatti Enea fondatore di Lavinio vi combatte contro Turno re dei Rutuli : ma il racconto delle mitiche lotte tra i due doveva esser già elaborato quando Ardea riuscì a conseguir su Lavinio l'incarico dell'amministrazione del santuario. Il quale doveva essere mirabile per artistica dovizia, come è lecito dedurre dai preziosi trovamenti venuti alla luce nel territorio di Campo Jemini durante gli scavi eseguiti nel 1794 a spese del duca cb Sussex. Il Fea che ne fa un lungo elenco deplorandone l'esporta- zione in Inghilterra, menziona in modo particolare una bellissima statua di Venere del tipo di quella Capitolina : « Quasi tutte le statue sono state trovate in uno stanzone lungo circa 40 in 45 palmi e largo 15 in 18, in fondo del quale in un nicchione stava la Venere forse come figura principale. Altre dovevano stare sopra pilastrini che sono stati trovati a suo luogo» (3).

Oltre alla causa violenta dell'invasione sannita Ardea ne aveva una latente, ma non meno terribile, che minava la prosperità del suo territorio. Già Strabone meno di un secolo dopo la contesa sillana parlando del Lazio dice che è tutto fertile salvo alcuni luoghi ma- rittimi che son palustri e poco sani come il territorio Ardeatino (4). Seneca, scrivendo poco dopo a Lucilio intorno al modo di viver si- curo nell'animo in mezzo alle insidie della vita, gli dice di ascoltare i suoi precetti come se trattassero del modo di conservar la buona salute vivendo nel territorio di Ardea : « Tu tam-?n sic audias censeo ista praecepta quomodo si tibi praeciperem qua ratione bonam vale- tudinem in Ardeatino tuereris » (5). E Marziale in un epigramma su di un certo Curiazio morto in una sua saluberrima villa sopra Tivoli osserva che, quando la morte viene, Tivoli od Ardea fan lo stesso : « nullo fata loco possis excludere » (6).

Ma l'insalubrità del clima estivo non impediva che il territorio di Ardea fosse abitato nei mesi freddi e nella primavera, data so-

(1) Cassio Hemina in Sol., II, 14

(2) De Sanctis, Storia dei Bomant, I, 203.

(3) Fea, Miscellanea, II, pag. 190. La relazione, in forma di lettera al- l'ambasciatore di Portogallo, fu pubblicata la prima volta nel giornale !'(( An- tologia romana», 1794, n. 32. Intorno alla Venere l'A. scrive: ((La statua ern ben consevata, e tanto più bella, perchè ha il naso ben conservato... Io ne volli almeno un buon gesso, che posi nel Museo Capitolino, onde se ne potesse fare il confronto », pag. 193.

(4) Strabone, V, 3, 5. (o) Seneca, Ep., 105.

(6) M.ARZIALE, Epigr., IV, 60.

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NEL LAZIO antico: AIIDEA

pratutto la bellezza grande del paesaggio vario di sfondi e ricco di vegetazione. « L'aria malsana, anche nei tempi antichi, del ter- ritorio Ardeatino e del Lanuvino fino al campo Pontino, mi faceva credere così il Fea nella lettera citata che i Romani tanto squisiti nel cercare aria buona ed elevata con acque purissime non avessero voluto divertirsi in luoghi screditati e nocevoli. Ma ri- flettendo, che essendo molto ricchi e capricciosi tenevano ville per

La chiesetta di Santa Marina com'era qualche anno fa e il piccolo cimitero.

ogni stagione in sili adattati, non mi pareva diffìcile che avessero pur fabbricato in quei luoghi pe" mesi d'inverno e di primavera quando l'aria non vi è cattiva, per respirarvi la più tepida del mare, come facevano veramente gli antichi e lo facciamo noi oggidì » (1). E di fatti oltre alla menzione in Cornelio Nepote (2) del predio Ardeatino posseduto da T. Pomponio Attico, ci confermano in questa

(1) Fea, art. cit., pag. 186.

(2) CoRN. Nep., rifa Pornp. Att.

NEL LAZIO ANTICO : ARDUA 617

opinione i trovamenti di fìstule plumbee (1) rinvenute nel territorio che servivano a condur l'acqua nelle ville che lo abbellivano.

Lo spopolamento delle campagne, caratteristico della decadenza imperiale, contribuì sempre più all'abbandono della città, l'ultima menzione certa della quale si ha nell'epigrafe già citata di L. M. Au- reliano patrono e curatore della colonia Ardeatina, che è del 223. Solo nel Liber Pontiftcalis, nella vita di Silvestro troviamo menzio- nati taluni fondi del territorio Ardeatino requisiti per il manteni- mento degli oli nelle basiliche romane (2). Poi silenzio fino a prin- cipio del sec. x in cui Ardea alla Chiesa un pontefice romano, Leone V « natione Ardeatinus de loco qui appellatur Priapi » che fu papa per circa un mese.

Nel secolo xi la menzione di Ardea comincia a farsi più fre- quente e il « castello » ardeatino assume una certa importanza nella storia della campagna romana. Esso appartiene per metà al mona- stero di San Paolo fuori le mura, come risulta da bolla lapidea di Gregorio VII del 1074, « medietatem castelli Ardeae cum rocca sua et turre malore et omnibus suis pertinentiis »; meno di un secolo dopo gli apparterrà tutto intiero (3), come si ricava da una bolla di Anacleto II che al paese il nome di « civitatem Ardeatinam ». Ardea fu terreno sterile per il ricco cenobio ostiense che la posse- deva, giacché nella prima metà del sec. xiii dette ai monaci quel Giovanni abate (f 1241j che compì la gentile opera cosmatesca del chiostro di San Paolo, iniziata da Pietro di Gapua, poi cardinale di Santa Chiesa. Tutto questo si legge nell'iscrizione in versi leonini che corre intomo al fregio del chiostro in lettere azzurre su fondo d'oro (4) :

Hoc opus arte quarti Rome cardo beavit natus de Capua Petrus olim primitiavit. Ardea quem genuit quibus abbas viacit in anms Cetera disposuit bene provida dextra lohannis.

Nel secolo xiv Ardea figura nel registro del sale e focatico per dieci rubbia di consumo a semestre, il che fa ammontare la sua popolazione a ottocento abitanti, quanti nella medesima epoca ne contava Albano (5). Ma è questa anche l'epoca in cui comincia ad esser palleggiata tra vari proprietari specialmente gli Orsini, i Co- lonna e il Monastero di San Paolo, finché i Colonna ne presero sta- bile possesso come feudatari regnando Martino V nel 1421, nel quale anno i cittadini di Ardea prestavano giuramento di fedeltà nelle

(1) Le iscrizioni delle fistule su due delle quali sono i nomi di un Flavius Claudianus V. C. e di Sallustius Paelinianus V. C. sono registrate nel CIL, X, 6767-69.

(2) Così ttoviamo menzionata una « massa SentUiana, territurio Ardea- tino » (L. P., ed. Duchesne, I, 174) e una « possessio Graecx>rum in territurio Ardeatino » (io., 184).

(3) Altre conferme del medesimo integrale possesso sono di Innocenzo III nel 1203, di Onorio III nel 1218 e di Gregorio IX nel 1236.

(4) Cfr. Ers. Caetani Lovatelli, Nel chiostro di San Paolo, in « Passeg- giate nella Roma antica », 1909. Articolo già pubblicato in « Nuova Antologia », maggio 1896.

(o) Cfr. roMASSETTi, Campagna romana, I, 157, II, 451.

40 Voi. CLXVII. Serie V 16 ottobre 1913.

618 NEL LAZIO ANTICO : ARDEA

mani di Giordano Colonna. Dopo varie vicende (1) i cui particolari, per chi ne è curioso, possono leggersi nel Tomassetti, Ardea passò in potere dei Cesarini che ne posseggono tuttora il castello rinno- vando, con tutti i vasti lenimenti annessi, l'antico reame dei Rutuli.

1 monumenti cristiani di Ardea son di poco valore. Essa non fu mai sede vescovile,, la qual cosa significa che, a tempo della or- ganizzazione gerarchica della regione laziale, essa non costituiva già più un centro tale da giustificar la presenza del capo ufficiale della comunità cristiana. Pure, nell'alto medio evo essa diede i natali all'infelice Leone V, e nel 118 ospitò di notte Gelasio II fug- giasco da Roma verso Gaeta per evitar l'ira di Enrico V contro cui era in lotta per la questione delle investiture. E poiché il pontefice era affaticato « cepit domnus Hugo cardinalis et presbyter papam nostrum in collo et ad castrum sancti Pauli Ardea sic de nocte por- tavit» (2).

Le chiese che conta la borgata son due,^una dedicata a San Pietro l'altra a Santa Marina. La struttura esteriore della prima la fa ascri- vere alla fine del sec. xii. Nell'interno che ha l'aspetto caratteristico di tutte le chiese di campagna nulla v'è che richiami l'attenzione salvo il soffitto a travatura visibile. Sul piazzale che sta innanzi al- l'mgresso laterale si scorge un cippo marmoreo pagano dedicato ai mani di Manto Septico (3) « Mani Septici Patris », ai lati del cippo stanno in rilievo la patera e il prefericolo.

L'altra chiesa, dedicata a Santa Marina, si trova nel basso del piano della Civitavecchia presso il cimitero e risulta dall'unione di due edifici, uno più recente l'altro più antico. Il più recente è no- tevole per gli stipiti della porta a foggia di pilastro sorretti da due leoni, per i tondi dell'architrave rappresentanti l'abate (Abbas), santa Marina in abito monacale (sca Marina) e suo padre (Pax. S. Marine). Sotto l'architrave sta scolpito un distico che, sciolto dai nessi pa- leografici, si legge così :

Cenchis excelsae te (4) Gancellarìus Urbis obtulit hanc portam, Virgo Marina, Ubi. ,

(1) Tra le vicende da cui Ardea fu travagliata non si debbono dimenticare quelle provocate dal prete Giovanni Valenti detto l'Ardeatino che datosi al brigantaggio riuscì ad acquistarsi fama tra i piìi fa,mosi capi banda. Egli operava presso Ardea e si faceva chiamar re della campagna romana. Anzi la sua audacia giunse a tanto da far coniar moneta con il suo nome. Sisto V riuscì a catturarlo e la sua testa incoronata per ludibrio fu confitta in Roma su di un palo. Cfr. Tomassetti, op. cit., 1, pag. 282.

(2) Così Pandolfo Pisano in L. F., II, 314. Ardea è detta «castrum S. Pauli » perchè in questo tempo apparteneva, come abbiamo già accennato, al monastero di San Paolo.

(3) Ma il Tomassetti, II, 457, corregge non giustamente la lettura, già data dal Nibby, Analisi, I, 243, e dal CIL, X, 2571 in M. Ani, forse determi- nato a ciò dalla maggior distanza che intercede tra le lettere M ed A.

(4) 11 Nibby spiega quel te in nesso, come un'abbreviazione di romanae: ma oltre che il T è visibile, il verso ne rimarrebbe distrutto. Cfr. Tomassetti, II, 458.

NEL LAZIO ANTICO : ARDEA

619

Dove è da notare che il Cencio donatore della porta, che si qua- lifica per Cancelliere di Roma, non può essere il celebre Cencio Ca- merario, poi Onorio III, poiché non consta che abbia mai ricoperto simile carica, mentre intomo al 1300 si trova un Gencius cancellarius della famiglia Benedetta di Trastevere, che ha posto una consi- mile iscrizione su la porta di San Bartolomeo all'isola (1). Nell'in- terno son da notare solo le due colonne di granito del tabernacolo, essendo tutto il resto un rifacimento moderno. Il secondo edificio

è più importante perchè ricavato da un sepolcro romano a tre nicchie convertite in altari e ricoperte di pitture ora cadenti. Nella nicchia di mezzo si scorge una riproduzione ^ssai rozza della santa con la scrit- a: fr... de roca de papa fieri fecit. Un altro ricordo di santa Marina -ta nel fonte situato al basso dei- arce su la destra della via Ardea- tina proprio di faccia al paese. Il fonte fu costruito nel 1615, come si legge nella lapide a tergo del fonte stesso. Dalla parte anteriore si scorge un altorilievo acefalo della santa, vestita da monaco benedettino, e sotto è collocata un'iscrizione che magni- fica la virtù dell'acqua per i meriti della santa :

Omnibus aegrotis fons hic mirabUis undu propitiat tneritis, virgo Maritta, firn.

E poiché gli Ardeatini d'oggi mal saprebbero interpretare il senso

Porta della chiesa di Santa Marina, del distico, provvede a dilucidarlo

una parafrasi metrica italiana, nella quale l'ammirazione devota per il potere benefico dell'acqua è più forte dell'estro e del rispetto per la grammatica.

Gl'indumenti maschili che indossa Santa Marina richiamano alla mente la storia di questa santa che é una delle più curiose e commoventi del leggendario cristiano e presenta un motivo non in- frequente del folklore universale (2).

(1) L'iscrizione di S. Bartolomeo all'isola è riportata in Forcella, IV, .531. La discussione su Cencio in Tomassetti, II, 450.

(2) La leggenda di S. Marina, la cui festa si fa presso i Greci il 12 feb- braio e presso i Latini il 18, sta in Ada Sanctorum, Julii, IV, p. 278-288. Venezia il 17 luglio festeggia la traslazione di Santa Marina, che sarebbe stata recata ivi da Bisanzio da un tal Giacomo de Bora nel 1230. Altre menzioni di Santa Marina si hanno a Pavia e nella Badia di Fiastra nel Piceno. L'Usener, Legenden der Felagia, Bonn, 1879, ravvicina Santa Marina a parecchie altre: Margherita, Eugenia, Apollinaria, Eufrosine, Teodora, le riporta tutte al tipo di santa PeJagia (di cui Marina tradurrebbe in latino il nome) e fa di questa il travestimento penitente cristiano dell'Afrodite ellenica {Venus Pelagio, Ve- nus marina). Il ravvicinamento è ingegnoso, ma difetta di base, mentre i docu- menti che provano l'esistenza di santa Pelagia sono fuori di discussione essen-

620 NEL LAZIO ANTICO : ARDEA

Marina sarebbe fiorita in Bitinia nel sec. vii. Suo padre, solle- cito della salute spirituale della fanciulla, l'aveva chiusa in un ce- nobio d'uomini avvertendola : « Vide ut nullus cognoscat myste- rium tuum usque in fìnem tuum ». Ma una perfida femmina ac- cusa frate Marino presso l'abate di averle usato violenza. L'abate l'in- terroga in proposito e la fanciulla che avrebbe potuto così facil- mente distruggere l'assurda accusa preferisce tacere ed ammettere la colpa. Allora è cacciata dal monastero e vive per cinque anni alla porta del medesimo campando con i rifiuti dei monaci che di- vide col fanciullo abbandonatole in braccio dall'accusatrice. Dopo tanto duro soffrire è riammessa nel monastero insieme al fanciullo a patto che si dedichi agli uffici più umili. Ma quasi subito muore e l'abate durante la lavanda rituale del cadavere constata insieme l'assurdità della colpa e l'enormità della pena. Allora chiede in gi- nocchio perdono alla salma della pazientissima fanciulla che fa portar con ogni onore nell'oratorio del monastero. E davanti alle reliquie di santa Marina la mala accusatrice indemoniata, confessa la sua colpa e riacquista la sanità. Come questa santa Marina sia emigrata qui ne la landa solitaria di Ardea non si sa, certo però il luogo su le rive silenti del Tirreno è bene adatto « quia Marina est et Marina marinam salutare cupit » (1).

La via del ritorno s'inizia mal volentieri perchè la poesia delle memorie e la bellezza delle cose tengono imprigionato lo spirito e lo fanno indugiare attorno alle mura dell'acropoli, al santuario di Giunone, lungo la campagna corsa dai due rivi limpidi e veloci. L'acqua scorre, ora come allora, tra le ripe alte dei fossi e riunita in un solo Incastro va tuttora a scaricarsi in quella deserta spiaggia tirrena che Vide passar le navi leggendarie d'Enea ed approdare quelle mercantili dei Punici, sempre pronti al traffico o alla preda.

doci forniti da san Giovanni Crisostomo e da sant'Ambrogio. Un intreccio di leggende può ben essere avvenuto su le basi fornite dalle varie sante in que- stione, in forza di quel ferment légendaire il cui lievito è potentissimo nella X)SÌcologia. popolare: ma da tale concessione alla tesi radicale dell'Usener ci corre un bel tratto. Una sobria confutazione di detta tesi è in Delehaye, Les légendes hagiographiques, Bruxelles, 1905, p. 266 e seg. Invece P. Wendland, De fabellis antiquis earumque ad Christianos propagatione, Gottinga, 1911, fa del tema di Santa Marina una derivazione da analogo tema che si ritrova nella letteratura classica, dove il cambiamento di sesso avviene per evitare un peri- colo: specialmente la perdita della castità (pag. 22).

(1) Così il vescovo Equilino nella vita della Santa Marina veneziana ri- portata negli A. S. citati. Il prof. Leoni di cui cito a titolo di onore il bello studio su Ardea nella storia e nei monumenti, in Boll. Ass. Arch. Bo- mana, II, nn. 7-9, aderendo in qualche modo alla tesi dell'Usener, ritiene che la Santa Marina di Ardea come la Sa,nta Marinella del villaggio presso Civita- vecchia siano venute a sostituire il culto di Venere che aveva luogo, come ab- biamo accennato, nell'Aphrodisium. Il quale culto sarebbe emigrato fino presso l'antica Centumcellae quando gli abitanti di Castrum Invi nell'Agro Ardea- tino emigrarono a causa della malaria per andare a fondare tra Pyrgi e Cen- tumcellae la città di Castrum novum nella cui area sorge appunto l'odierna Santa Marinella. È una buona congettura, a cui manca solo una prova di carattere storico per poterla accettare senza riserve.

NEL LAZIO ANTICO : ARDEA 621

Eppure quante cose sono cambiate! La città che si prolungava per oltre un miglio nella campagna s'è ora chiusa entro la rocca; la pianura circostante ricca di ville e di santuari famosi è divenuta un deserto. Austera, silenziosa, con i suoi trecento abitanti Ardea se ne sta tra l'immensità silenziosa del mare di fronte e del piano alle spalle tagliata fuori dal contatto della vita civile, senza un servizio giornaliero che la colleghi con Roma, da cui dista solo trentaquattro chilometri, senza autonomia municipale giacché di- pende come frazione dal Comune di Genzano, con la minaccia oscura, ad ogni nuova estate, della malaria spopolatrice.

Tuttavia resiste da secoli, tenacemente fìssa alla sua rupe, intemperanza di clima o malgoverno di uomini son valsi a farvela morir sopra. A queste considerazioni la simpatia, direi quasi la ve- nerazione, per la vetusta arce si fa più profonda, il mormorio del- l'acqua che seguita a logorar la rocca di tufo sembra ridire l'arcano dei tempi scomparsi, mentre la suggestione che si sprigiona da tutto l'insieme annulla quasi la nozione del tempo e ci il senso della perennità delle cose.

E quando allo svolto della via l'acropoli ardeatina si occulta a un tratto agli sguardi del visitatore il pensiero di lui resta ancor su la vetta a risuscitare la realtà di quel passato di cui ora se- condo la parola di Vergilio ripetuta da Silio, il suo imitatore troppo devoto non resta altro che un nome :

Mayminimis regnata viris, nunc Ardea nomen.

Nicola Turchi.

IL DIBOSCAMENTO IN CALABRIA

I.

La qualità più notevole che gli antichi scrittori attribuivano alia regione ora detta calabrese era quella di boscosa e selvosa. Questa qualità sembra che essa sia andata gradatamente perdendo coi secoli e che ora le convenga in piccola parte, tanto che i tratti boscosi nel senso genuino e primitivo non sono molti grandi.

Si deve però eccettuare il Gariglione [corylus, xópuÀoc, noc- ciuolo), una estensione di molti chilometri quadrati, nella piccola Sila, in vicinanza di Catanzaro, di Sersale, di Petronà e di Gotronei, tutto montuoso ed inaccessibile, che ancora è quasi allo stato di bosco primitivo; dove l'opera distruttrice dell'uomo sino a questi ul- timi tempi non era ancora arrivata; dove il pino, il faggio e l'abete da millenni sono vissuti indisturbati e si sono succeduti nelle loro lunghe generazioni, raggiungendo uno sviluppo enorme.

Questo bosco non ha forse l'eguale in Europa. L'abete ed il faggio vi si possono elevare a quarantacinque o cinquanta metri; il pino a quaranta o quarantacinque. La base di questi alberi può raggiungere la periferia di quattordici metri. Sembra che questi pini, dai botanici detti calabresi, che si trovano anche in altri siti in Calabria, sieno i soli residui di una specie già scomparsa ovunque; giacché essi dimostrano qualche cosa di particolare nella loro costi- tuzione e diffondono un odore assai aromatico. Poiché la mano del- l'uomo da tempi immemorabili non ha penetrato in questo bosco, per stesso inaccessibile, per distruggerlo, attraverso le migliaia di anni, gli alberi più antichi hanno successivamente dovuto finire per vecchiezza. Quei corpi colossali, cadendo, non potevano stendersi sul loro suolo, ma, essendo circondati da altri alberi giovani e resi- stenti, dovevano a questi loro discendenti rimanere appoggiati. La- sciavano così uno spazio sotto di sé, che, pei rami secchi che co- gli anni lentamente cadono dagli alberi vicini, ai lati del tronco morto, e per quelli che il peso della neve caduta sugli alberi spezza in inverno, si dovea andare formando una specie di caverna il cui tetto diventava gradatamente sempre più spesso, anche per le foglie che lentamente cadono dagli alberi vivi. Si comprende come questo fenomeno verificandosi gradatamente in vari siti del suolo, molte di queste caverne debbano col tempo prodursi, alcune delle quali possono essere comunicanti fra di loro. Già tutto il bosco é stato un covo di animali selvaggi ed ivi l'aquila ha sempre nidificato ed ha fatto udire i suoi acuti stridi, come le loro voci hanno fatto udire molte altre specie di uccelli. E non era diffìcile per quegli animali, colà, il farsi od il trovarsi una tana, all'istesso modo che alcune di quelle caverne sono state ricettacolo di briganti.

IL DIBOSCAMENTO IN CALABRU 623

Sino a circa quindici anni fa il Cariglione è stato proprietà dei signori Imbriani; ma, volendo Matteo Renato riordinare le finanze della sua famiglia, lo vendette per 330 mila lire al Banco di Napoli, il quale alla sua volta lo ha venduto per circa 380 mila ad una so- cietà tedesca la quale da parecchi anni lo sta sfruttando. Ma il Banco di Napoli, che ignorava quale valore questo bosco avesse, come l'ignorava l'Imbriani, avrebbe dovuto offrirlo al governo ita- liano che avea il dovere di acquistarlo per conservarlo intatto e cu- stodirlo come un monumento insigne di natura primitiva.

Ed ora che il bosco, nel suo genuino concetto, come la nozione dei grandi alberi, si va perdendo tra noi, il Cariglione dovea servire come un osservatorio per gli scienziati; e dove gli artisti, i romanzieri e i poeti sarebbero potuti andare ad attingere ispirazioni. Di qui a pochi anni, se il governo italiano non si affretta a salvarlo in gran parte, acquistandolo, che forse ancora ne sarebbe a tempo, il Cari- glione, questo bosco di tanta originale bellezza, pieno di ombre pro- fonde e di misteri, sul quale paurose leggende brigantesche si sono andate formando, che i vecchi narravano e che colpivano la fantasia de giovanetti, rimarrà solamente nella tradizione calabrese.

Ironia delle cose! Mentre i tedeschi oggi mandano dalla Calabria in Germania la parte migliore di un legname di molto valore e che foggiano in tanti modi, i paesi della Calabria, anche quelli vicini al Cariglione, per costruire le porte e le finestre delle case, debbono servirsi del legname che da Trieste si manda colà. Ed è a ricordare come un tempo il legname calabrese, per la sua resistenza e la sua durata, veniva apprezzato e ricercato da per tutto. Esso era preferito per la costruzione delle navi commerciali e da guerra. Anche pei grandi edifìci erano richieste travi di pino calabrese, che per la loro grossezza potevano durare migliaia d'anni. Esse furono adoperate nella costruzione degli edifici del Laterano e del Vaticano. Ma ora quelle travi è molto diffìcile avere. Si è tutto distrutto senza pensare a conserv^are e a coltivare qualche cosa per l'avvenire.

Oggi le grosse travi del Cariglione, di cui alcune raggiungono una lunghezza che va sino ai venti e piìi metri, vengono, per la via più comoda e declive, e per un tratto ferroviario che a ciò è stato costruito, discesi nella stazione di Cropani, del Ionio, per essere spe- dite in Germania.

Se si attraversa quella zona della grande Sila che va da S. Gio- vanni in Fiore a Cosenza ed anche quella che va da Catanzaro a Co- senza, si passano, è vero, alcune estensioni di boschi di pini piut- tosto grandi. In tutto- il resto si vedono solo in lontananza, a destra ed a sinistra, dei tratti di bosco o su qualche monte inaccessibile, sot- tratto a qualunque traffico, o in certi territori assai remoti dai luoghi abitati, che una volta furono proprietà di qualche ordine religioso ed ora di qualche privato che non sa o non può trarne qualche van- taggio; o sono proprietà di qualche comune che non trova da darli in fitto e i cui abitanti, per la lontananza e per le diflBcoltà delle vie, non sanno come sfruttare, facendo legna pel fuoco.

È una inveterata consuetudine per tutte le famiglie calabresi te- nere il fuoco acceso durante l'inverno ed in buona parte dell'autunno e della primavera. Questa consuetudine si è tramandata e conservata di generazione in generazione, senza critica e senza alcuno apprezza- mento di quel che costa alla famiglia, alla natura del luogo dove il

624 IL DIBOSCAMENTO IN CALABRIA

paese è situato ed alla intera regione. Non è perciò dominata da un principio economico, sia riguardo alla conservazione della salute, sia riguardo all'impiego di forze per provvedersi delle legna ed al risparmio di queste.

La neve, d'ordinario, dai primi di novembre, comincia a fare qualche apparizione sui monti della Sila; vi dimora e vi si accumula durante l'inverno e in alcune annate vi si fa vedere sino ai primi di maggio. In tempi in cui quelle regioni erano molto boscose vi dovea cadere in più grande estensione; vi si dovea conservare per più lungo tempo e dei ghiacciai doveano prodursi; onde lo scioglimento delle nevi e dei ghiacci, anche quando d'inverno spirava il mite scirocco, dovea essere difficile e non dovea prodursi abbondantemente se non al sopravvenire della stagione calda.

La Sila era ed è così una specie di refrigerante di tutta la re- gione calabrese; e se nelle ore del mattino e del giorno, quando il tempo è buono e tranquillo, le correnti marine di aria, miti e tepide, vanno dal mare ai monti, elevandovi alquanto la temperatura, al- l'incontro, nelle ore della sera e della notte, quando il tempo è se- reno, una brezza fredda e sferzante scende dai monti al mare, facen- dosi vivamente sentire su tutti i paesi che incontra e che, essendo situati in luoghi alti, sono più esposti alla sua azione; onde il freddo vi è acuto in inverno. Lo stesso avviene per quei paesi che, come Gotrone, essendo situati in riva al mare, non sono garantiti dalle correnti silane con una vicina barriera di montagne.

Per non avvertire lo stimolo acuto e penoso del freddo e per non morire quando questo fosso insistente, dalla più remota antichità, dopo la scoperta del fuoco, ovunque, come in Calabria, oltre al ripararsi in luoghi chiusi e sottratti alle correnti di aria, si è trovato che si poteva schivarlo, accendendo il fuoco per riscaldare il luogo dove si fa dimora o ponendosi accanto a quello. Era questo il me- todo più immediato ed esplicito per risolvere un problema di tanta gravità. Attraverso migliaia di anni si è perpetuato questo metodo di riscaldamento che ha dovuto portar seco un grande sperpero di forze umane ed un grave danno alla natura circostante ai luoghi abitati. Anche ai giorni nostri questo metodo di vita è in grande vigore in Calabria; perchè il riscaldamento vi è considerato come quasi la prima necessità della vita che deve venire soddisfatta (1).

A questa consuetudine si associa il fenomeno della rarefazione e dell'allontanamento del bosco dai paesi abitati; per cui l'osservatore deve riscontrare intorno ad ogni paese una zona nuda di bosco, tanto più vasta per quanto più è grande la popolazione, non calcolando i tratti di terreno coltivati ad alberi fruttiferi in essa compresi, a giar- dini, ad uliveti od a vigne. Così un immenso deserto è ora intomo a Cotrone ed a Cutro, cittadine la prima di novemila abitanti, la seconda di cinque, deserto che in parte viene seminato, in parte serve da pascolo per gli armenti. S. Giovanni in Fiore fu fondata dal- l'abate Gioacchino da Celico nel dodicesimo secolo, nel centro più bo- scoso della Sila, in una valle. Ora quel paese conta una popolazione di più che ventimila abitanti. Ebbene, se si eccentui una regione che è coltivata a vigne, castagni ed altri alberi fruttiferi, in una vallata

(1) V. dello stesso autore: L'economia del caìoriro nelV educazione dell'or- ganismo (caloriferi e tisi). Roma, Società editrice Dante Alighieri.

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che rappresenta una gran parte del bacino del Neto, superiore al paese, tutta a piccoli colli e colline; se si fa eccezione ancora del monte Nero che è a mezzogiorno e d'inverno è coperto di neve ed è tutto scosceso e boscoso, perchè diviso dal paese da una valle pro- fonda in mezzo alla quale scorre il fiume Arvo, affluente del Neto (esso è perciò difficilmente accessibile), tutto il resto del territorio è nudo d'alberi. Coloro che dal paese vanno per la strada carrozzabile verso Cosenza, per circa otto chilometri prima di arrivare a Garga, vedono un bel tratto dell'altipiano della Sila, tutto a colli ondulosi ma privo di alberi, dove si coltiva la patata e si semina la segala, qua e là, sparso di grossi e frammentari o tondeggianti macigni gra- nitici. All'incontro i piccoli villaggi isolati e lontani da altri paesi hanno d'intorno il deserto per un più breve raggio; perchè il danneg- giamento del bosco è più lento.

In ogni casa, tranne in quelle poverissime, il fuoco deve ardere, augurio e indizio di prosperità, alla cui apparenza i calabresi molto tengono; e ciò deve farsi non solo per cuocere le vivande, ciò che per solo produrrebbe uno sciupio di poche legna; ma, sopra tutto, per riscaldare le persone di famiglia. Il focolare è considerato come il luogo della casa più riparato dal freddo e perciò d'inverno è il convegno della famiglia e di qualche amico; e, secondo la potenzia- lità economica di essa, il fuoco è più o meno bene alimentato. Nelle famiglie di agiata condizione esso di buon mattino comincia ad ar- dere, prima che vi convengano i padroni di casa, e si mantiene at- tivo per tutto il giorno e sino a notte avanzata. Le legna che vi si bruciano, quando non sono rami grossi d'ulivo, che la scure ha po- tato, ciò che del resto non è frequente, sono di quercia, di elee, di lentisco, di frassino e di altri alberi boschivi, che mantengono più vivo il fuoco e le cui bracie sono di maggior durata; ma nei paesi situati alle falde delle montagne si brucia il castagno, il pino, il faggio e l'abete.

Le famiglie più agiate hanno molta cura per la provvista delle legna. A ciò per lo più viene addetto un giovane e vigoroso vetturino che guida un mulo di forme vantaggiose od un cavallo robusto. Tale animale rappresenta in media un capitale di otto o novecento lire. Il mantenerlo non costa meno di cinque o seicento lire all'anno; ed un giovane vetturino che è divenuto valente nell'arte sua non vuole guadagnare meno di cinquantacinque o sessanta lire mensili. È vero però che il mantenimento di vetture e vetturini non deve avere so- lamente il fine di provvedere le famiglie di legna.

Come si sa, l'agiatezza in Calabria non è rappresentata se non dal godimento dei frutti della proprietà campestre ed armentizia; e perciò non si sa comprendere una famiglia agiata la quale non pos- segga proprietà rurali ed armenti. Il capitalista di puro danaro, che non possegga case terre, è sconosciuto in Calabria. In tal caso, poiché i proprietari, nella grande maggioranza, sono essi stessi agri- coltori o prendono grande interesse alle cose della campagna, deb- bono frequentemente andarvi, mentre abitano in paese. Essi per questo debbono durante l'anno mantenersi in continuo rapporto con la campagna, così in tempo di semina come di raccolta; é necessaria perciò la vettura la quale deve servire anche, quando é possibile, per far andare a cavallo il proprietario. Ma per questo e pel traffico potrebbero servire gli asini di cui si fa allevamento colà. Gli é che

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le grosse vetture debbono servire soprattutto per le legna e per l'acqua che si ha quasi sempre a qualche distanza dai luoghi abitati e di cui le famiglie debbono quotidianamente provvedersi.

Finita la raccolta dei cereali nel luglio, il vetturino deve dare la sua attività, durante i mesi di agosto, settembre ed ottobre, alla prov- vista delle legna per l'inverno. Questo lavoro è più o meno ditficile secondo la lontananza del luogo dove si vuole andar per legna; onde non si può farne in un giorno più di una o al più due some; ed. i! vetturino si attribuisce ad onore il tornare in paese col mulo ca- rico ad esuberanza di grosse legna. Queste egli deve deporre con un certo ordine, perchè occupino spazio il meno possibile, nella le- gnaia, un grande vano che si trova comunicante con la casa o in uno dei bassi di questa e che nell'autunno deve essere tutta ben riempita.

Non è raro il caso che, pei grandi rigori della stagione invernale, la riserva delle legna si esaurisca prima che termini il gran freddo; perchè le donne calabresi che in ogni piccola cosa risparmiano in modo eccessivo, fanno all'incontro, per lunga consuetudine, un esa- gerato sciupìo di legna pel riscaldamento, senza alcuna considera- zione di quel che costino. Ed allora il vetturino deve rimettersi in attività, se lo permettono le pioggie, spesso assai prolungate nelle stagioni invernali, e le vie non sono pericolose per la vettura; altri- menti il proprietario non ha alcuna difficoltà a fare abbatterò un'an- nosa quercia o, per far più presto, delle querciuole, affinchè il fuoco non languisca in casa.

Ma gli alberi e i boschi sono insidiati ancora da quasi tutti i con- tadini, la classe di persone più numerosa in Calabria, che vive col lavoro campestre, perchè anche in essi è molto viva l'ambizione di non privare del fuoco la famiglinola quando fa freddo; ed i bambini godono tanto di stare intorno ad esso e di vedere qualche bella fiam- mata, ciò che una certa allegria alla casa. Coloro che al princi- piare della notte stanno all'ingresso del paese vedono tornare a casa, ad uno ad uno, con passo lento e stanco, i contadini che sono stati al lavoro giornaliero presso qualche proprietario, portando appeso alla zappa od alla vanga o adagiato sulle spalle un piccolo fascio di legna o di frasche. Questo essi hanno potuto comporre verso sera, prima di lasciare il campo, con qualche legno secco o con le frasche che, durante il lavoro del giorno, sono loro capitate tra mani e che hanno messo da parte; o in qualche piccola macchia che hanno attra- versato lungo la via nel tornare a casa o troncando gli arbusti che crescono in vicinanza di questa.

La più grande ambizione del contadino che non ha nulla è quella di potere acquistare un asino o, ancora meglio, un mulo, che eleve- rebbe alquanto la sua condizione economica. A tal fine egli risparmia sempre qualche piccola cosa sulla scarsa mercede che deve soste- nerlo; e, se è aiutato dalla moglie che lavora e dai figli che comin- ciano a fare qualche piccolo servizio ai vicini di casa o nei campi, per dare un aiuto alla famiglinola, dopo molti stenti ottiene il fine desi- derato. Divenuto padrone di un asino, il contadino ha qualche van- taggio. Già può anche lavorare a giornate presso i piccoli proprietari e può andare a cavallo e tornarsene la sera a casa con una soma di legna; può lavorare meno d'i braccia, portando a cavallo qualche viag- giatore da un paese ad un altro o mettendosi, in tempi di raccolta.

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a servigio dei piccoli proprietari sprovvisti di vetture o che ne haniio bisogno di più d'una, per trasportare le derrate in paese. I contidin' più intelligenti diventano commercianti; comprano le derrate che più abbondano nel loro paese per andarle a vendere nei paesi vicini dove scarseggiano; e viceversa. Alcuni di essi così possono fare molti guadagni. Possono comprare la casa e la stalla od anche un pezzo di terra; cominciano a divenire proprietari. Ma, quando questi la- vori rimunerativi non possono farsi, essi fanno volentieri il mestiere del legnaiuolo.

Durante tutta la stagione dell'anno, sono pronti a fare delle some per le famiglie di semi-agiata condizione, che non possono fare a tempo debito delle grandi provviste e che non possono mantenere una vettura. Gli asini, a causa del loro organismo relativamente pic- colo, hanno più destrezza che non le grosse vetture, a camminar-j per vie più pericolose e sdrucciolevoli, in tempi piovosi. Possono perciò accedere nei luoghi boscosi più difficili; e, se non resistono a lungo a trasportare some molto grevi, possono però portare, senza loro molto disagio, legna di piccolo diametro o grossi mazzi di frasche.

L'industria delle legna viene esercitata in Calabria anche dall-^ donne.

II.

Le mogli dei contadini e le giovanette, che, oltre al provvedersi di acqua ed all'accudire alle altre necessarie faccende, non hanno un lavoro profìcuo in casa, si rendono utili alla famiglia lavo- rando pei campi, ma non sottomettendosi ai lavori più -duri che sono sempr? riservati agli uomini.

Grazie ad una consuetudine molto antica, è permesso alle donne, durtìjnte il tempo della mietitura, di spigolare, seguendo i falciatori. Di buon mattino si recano al campo, sottomettendosi, durante le lunghe giornate di giugno, all'azione cocente del sole e tornano la sera a casa col loro sacchetto pieno di spighe. Alcune, in compagnia dei mariti che falciano e dei parenti o delle amiche, vanno in luoghi lontani al loro paese, nelle marine, per spigolare, andando incontro a gravi disagi e pericoli per la loro salute, con la speranza di realiz- zare un bel mucchio di grano, che possa dare il sostentamento per qualche mese dell'anno.

Alla vendemmia il lavoro delle donne è molto richiesto ed esse vi accorrono assai volentieri, potendo a loro piacere mangiare uva durante il giorno. La mercede del lavoro viene loro quasi sempre data in uva che fanno assecchire e conservano, per fare, impastan- dola con la farina, delle scliiacciate o dei pani, che mangiano con molto gusto, sopra tutto nelle feste di Natale e di Pasqua.

La raccolta delle ghiande e delle ulive, nelle annate di abbon- danza, occupa l'attività delle donne proletarie per un lungo periodo di tempo che va dall'ottobre al febbraio. Dai più antichi tempi la quercia e l'ulivo hanno trovato in Calabria un terreno propizio alla loro coltivazione. La quercia [robur, suber, ilex) cresce spontanea- mente nei boschi; ma se la si lascia sviluppare in terreni coltivati, lasciando intorno a ciascuna pianta un certo spazio libero, cresce con-

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siderevolmente, diviene molto robusta e fruttifica molto. I piccoli proprietari amano di avere querce nelle loro terre. La ghianda, come è noto, costituisce pei maiali un cibo molto sostanzioso. Quando, in qualche stagione, il frutto è stato molto abbondante, si usa di tenerlo in luoghi asciutti; e, dopo di avergli dato un piccolo grado di cottura al forno, da renderlo facilmente triturabile, si può con- servare per più di un anno. Una razione quotidiana di ghiande in tale stato, somministrata agli asini, ai muli, ai cavalli ed anche ai bovi, costituisce per essi un alimento molto nutritivo che li fa star bene ed accresce lo sviluppo della loro forza muscolare. Ridotta in frammenti, la ghianda viene mangiata con avidità dalle galline e dai gallinacci; e li fa molto ingrassare. Il legname di quercia inoltre resiste per migliaia d'anni anche nell'umidità e nell'acqua.

Una volta erano in Calabria molti e grandi querceti che la mano previdente degli antichi padri era andata lentamente preparando; e così ne godevano i più tardi nepoti. Ma in ragione che l'allegnare nei boschi diventava sempre più difficile, i proprietari, per tenere il fuoco acceso in casa, si vedevano, in inverno, costretti ad abbattere a colpi di scure qualche quercia e ridurla in frammenti. Negli ultimi tinipi in cui vi è stata una grande richiesta di legname di quercia per le ^costruzioni delle ferrovie, dove queste si erano avvicinate e dove era possibile un traffico per le nuove vie carrozzabili, i proprietari, allettati dai sùbiti e inaspettati guadagni, vendevano per relativa- mente poco prezzo le loro querce, spopolando di alberi le loro terre.

Maggior culto ha avuto l'ulivo che è stato quasi sempre rispet- tato dalla scure. Non vi è piccolo proprietario che non coltivi questa pianta in una parte del suo terreno. Nei boschi calabresi vegeta spon- taneo l'oleastro o ulivo selvatico. Questa pianta, quando è ancora molto giovane, viene sradicata e, priva dei suoi rami, trapiantata in terreno coltivato, per innestarvi gemme di ulivo comune. Così essa cresce con gli anni vigorosa e robusta, vivendo per secoli e mostrando molta resistenza alle malattie, ciò che meno avviene per l'ulivo comune che ha avuto origine dai piccoli rami piantati nel ter- reno smosso. E si comprende come coloro che sono in possesso di boschi con relativamente poca spesa possano in poco tempo formare un uliveto, diboscando e dissodando il terreno e lasciandovi, in una certa distanza fra di loro, gli oleastri i quali, innestati, vegetano e fruttificano rigogliosamente. Così hanno dovuto formarsi dall'anti- chità una gran parte degli uliveti della Calabria.

Il culto per l'ulivo, la pianta sacra a Minerva, essendosi ampia- mente avuto in Grecia fin dai periodi più antichi della sua storia, ha dovuto ancora diffondersi con la diffusione delle colonie greche nella Sicilia, nella Magna Grecia e nelle Puglie; e forse i Greci fu- rono primi a praticare e a diffondere l'innesto dell'ulivo dalle piante che davano il miglior frutto a quelle che lo davano di qualità infe- riore. Ma non è improbabile che, nelle epoche primitive, i primi abi- tatori della Brezia abbiano saputo apprezzare e coltivare l'ulivo sil- vestre che produce frutti abbondanti però piccoli, quantunque non meno oleosi.

Ora l'ulivo vegeta e fruttifica bene in Calabria, non solo in ter- reni pianeggianti, ma anche sui colli e nel declivio delle montagne. I due versanti ionio e tirreno fanno vedere a non rari tratti estesi e fitti uliveti, tanto da far credere che l'industria dell'olio sia la più

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sviluppata in tali contrade. Non sembra perciò debba porsi in dubbio che le immigrazioni greche abbiano dato un grandissimo impulso alla coltivazione di tale pianta, che si fece da prima intensamente nel lungo ed ampio bacino del Grati e meno in quello del Neto, quan- tunque più nella parte superiore del bacino di questo.

Si comprende come alla raccolta di tanto frutto le donne siano particolarmente adatte; ed in alcune regioni, dove sono grandi uliveti, essendovi grande richiesta di lavoro, i proprietari debbono fare buone condizioni alle raccoglitrici le quali vi accorrono a torme, spopolando quasi i villaggi e i paesi. Esse sperano così, per la mer- cede che debbono ricevere che è quasi sempre in frutto o in olio, farsi le provviste o, come esse dicono, il vitto delle ulive e dell'olio per un anno o due. Si reputano ben fortunate quelle famiglie di poveri contadini i quali, non potendosi durante l'anno alimentare se non di solo pane, hanno in casa una certa quantità di ulive che in alcuni giorni della settimana -possono mangiare insieme col pane che viene così meglio gustato.

Delle ulive da pasto le donne fanno una varia preparazione. Già, mentre raccolgono le ulive dal terreno ne trovano alcune che esse dicono morte e le mettono da parte, essendo dolci e gustose a man- giare; i ragazzi ne mangiano molte. Sembra che, per qualche infe- zione, dei fermenti si producono in quei frutti che ne modificano la costituzione chimica e perciò anche il sapore. Quando il frutto ha raggiunto un considerevole sviluppo, ma è ancora verde ed amaro, nell'ottobre, si usa di bollirne insième con cenere pura; poi lavato e mangiato fa sentire un buon sapore dolce. Ma, quando le ulive sono in avanzata maturità e diventano nere si usa cuocerle al forno per" farne una conserva che si può mantenere bene per molti mesi e, mangiandole, si gustano molto e svegliano l'appetito. Prima però il frutto viene intaccato più volte col coltello e poi, deposto per vari giorni in una madia, viene asperso di sale e di un po' di pepe urente e rimescolato; e così è anche piacevolmente mangiabile.

Ma ciò a cui le famiglie calabresi, di tutti i gradi, più tengono è la conserva delle ulive verdi che si possono mantenere in buono stato per due o tre anni e che le famiglie agiate mangiano di quando in quando come antipasto, mescolate con olio alle sardine ed a fette di peperoni od altre frutta all'aceto, e le famiglie povere mangiano semplicemente con pane. Nel decembre, quando ancora le ulive sono verdi, si scelgono le più grosse, senza macchia o contusione; si mettono, lavate, nelle vettine, di cui le famiglie, anche quelle di più povera condizione, sono più o meno fomite e in cui è acqua leg- germente salata. si fanno dimorare, rinnovando l'acqua ogni sei mesi. Verso la fine del primo semestre si può principiare a man- giare il frutto che, da prima alquanto amaro, col tempo diventa sempre più. gradito al palato.

Però ciò a cui più tendono le donne calabresi, nelle annate di ab- bondanza delle ulive, si è di procurare col loro lavoro una buona quantità di olio che basti almeno a soddisfare i bisogni più urgenti della famiglinola durante un anno e di cui fanno uso con molto ri- sparmio. Oltre a servire per l'illuminazione, e si tratta per lo più d'illuminare con un fioco lume una sola stanza che rappresenta tutta la casa, l'olio è un condimento ed un alimento assai salutare. Esso una nota di comodità alle famigliuole povere che ne sono prov-

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viste e che non altro possono avere per vivere se non il pane o che al più possono permettersi di mangiare una minestra di legumi o di verdura. Queste minestre, ben condite di olio, sono mangiate con gradimento, si digeriscono facilment-e e nutriscono assai bene l'orga- nismo. Si ha poi un mezzo per rendere qualche volta più gradito, per mezzo dell'olio, 'il pane che si mangia, sopra tutto in inverno, mentre il fuoco arde. Ridotto a fette un pezzo di pane, queste si ri- scaldano ed arrossiscono leggiermente; in questo stato vengono co- sparse di olio e mangiate, specialmente dai ragazzi.

Si comprende così quanto pregiata debba essere questa sostanza che, conservata in recipienti puliti, si mantiene inalterata per alcuni anni. Essa non poco deve contribuire alla conservazione della salute di quelle popolazioni che ne fanno molto uso, non solo per la sua azione nutritiva, ma anche perchè riesce leggiermente purgativa de- gli organi della digestione; mentre è noto che le altre popolazioni che non ne fanno uso, come gli americani, ma si servono invece, per condire le vivande, di grassi animali e di burro, che possono facil- mente corrompersi e venire anche adulterati nel commercio, vanno soggetti a malattie croniche dell'apparecchio gastro-intestinale e del fegato, che minacciano precocemente la loro esistenza, come favori- scono lo sviluppo della tisi intestinale.

III.

Finite queste raccolte ed altre, di poca durata, di alcune frutta, che si possono fare in estate, la donna proletaria calabrese dedica le ore del mattino in tutto il resto dell'anno, esclusi i giorni festivi, alla ricerca delle frasche in campagna e nei boschi vicini, per tornare a casa con una sarcina (1) sul capo, che, quando non serve per uso proprio, vende per pochi soldi. Assicura così il suo sostentamento per un giorno o riesce di molta utilità a quelle famiglinole povere e decadute che non possono darsi il lusso di comprare una soma di legna e che non sono state abituate ad andare nel bosco a farne ri- cerca per loro conto. Per queste ultime le giovani calabresi di buon cuore hanno molta considerazione e vendono a minor prezzo la loro sarcina, frutto di parecchie ore di lavoro in un giorno.

Non deve far meraviglia se costa tanta fatica e tanto tempo il mettere insieme delle frasche per farne un fascio. Se si eccettui il caso raro in cui un proprietario faccia rimondare qualche uliveto o qualche altro frutteto e, tenendo per le legna, lasci libertà a chi voglia di asportare le frasche leggiere, e in tal caso le donne ne ap- profittano, del rimanente queste debbono andare nel bosco. E, poiché questo si è andato sempre più allontanando dal paese, il cammino è lungo per andarvi.

D'ordinario le sarcinare non portano con istruménto per ta- gliare; esse utilizzano solamente i rami secchi che i vetturini, nel fare legna, hanno lasciato nel bosco o quelli che i venti hanno di- velto dagli alberi o quegli alberelli che, per non essersi potuti svi- luppare nel bosco, per la lotta che ivi gli alberi si fanno fra di loro

(1) Parola latina che il popolo calabrese adopera per indicare un fascio di sottili legna o di fraschel.

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per conquistarsi il terreno e l'aria, sono assecchiti, e perciò possono essere più facilmente strappati dal suolo, essendo le sarcine di rami secchi più leggiere a portare. Esse vanno a gruppi nel bosco; e cia- scun gruppo è formato di parenti o di amiche del vicinato. Di buon mattino, d'estate, e, d'inverno, quando sono sicure che non vi sia pericolo di pioggia, la più mattiniera chiama le compagne da dietro la porta della loro casa. In poco tempo la comitiva si è formata e si avvia, sapendo in quale sito sia più facile l'insarcinare. Ciascuna porta con un buon pezzo di pane avvolto in un tovagliuolo; perchè il molto moto all'aria libera e fresca del mattino sveglia ben presto l'appetito. All'appressarsi del mezzogiorno in inverno e verso le nove o le dieci del mattino in estate, coloro che dall'alto del paese, dai punti più aperti, ad occhio nudo o col cannocchiale, osservano il pic- colo trafiBco della campagna, vedono in qualche sentiero lontano, qualche gruppo di donne che procedono l'una dopo l'altra, con la sarcina in testa, o pure vede in qualche altro sito, sul margine alto della strada, le sarcine diritte ed allineate. Allora le donne, per ri- posarsi un poco, hanno deposta la loro greve soma che affatica a por- tarla, sopra tutto in salita. Riacquistano così nuova lena per prose- guire sino al paese.

Anche i ragazzi, tra gli otto e i dodici anni, in quel periodo della vita che precede il tempo in cui sogliono venire indirizzati al lavoro campestre, cominciano ad esercitarsi con diletto alla distru- zione delle piante. Non è raro vedere, nei dintorni di ciascun paese, sopra tutto nelle ore vespertine, dei ragazzi che, aggruppati a tre o a quattro, silenziosi, si arrampicano sulle rupi, spesso con grave peri- colo della loro vita, per svellere qualche arbusto che potrebbe essere utile al fuoco; o si aggirano nelle adiacenze delle vie dove possono trovarsi pianticelle che i contadini hanno creduto trascurabili; ma che essi trovano invece buone per farne una piccola e leggiera sar- cina. E, quando altro non trovino, non è raro che danneggino le siepi ed i limiti delle proprietà, dove si lasciano ad arte crescere alcuni arbusti. Le madri si rallegrano quando vedono i ragazzi tor- nare a casa con la loro leggiera soma sulle spalle o sotto il braccio e fanno loro buone accoglienze, perchè vedono in questa piccola loro attività un principio di attaccamento agli interessi della famiglia.

Ognuno può ossei*vare come in ogni paese della Calabria, nelle classi di qualsiasi condizione, dal proprietario agiato alla più povera famiglinola, una delle più gravi preoccupazioni sia il provvedere af- finchè in inverno si tenga a casa il fuoco acceso; a ciò è volta una considerevole attività ed anche una spesa di danaro di non poco ri- lievo. Evidentemente è questa un'erronea consuetudine che molto ha contribuito a turbare l'economia delle famiglie e della natura in quella regione e a dare un'impronta irrazionale all'attività umana. In verità se si eccettui il bisogno che vi è, vario nelle varie famiglie, di tenere in alcune ore del giorno il fuoco acceso per cuocere le vi- vande ed in alcuni giorni per fare alcune tra le molte provviste e, durante le prolungate pioggie, per asciuttare i panni in casa, rare volte si può giustificare la convenienza di tenere il fuoco acceso, sem- plicemente pel fine di riscaldare. Pure, oltre all'ignoranza che si ha delle leggi della natura e della vita, vi deve essere qualche cosa che può in parte giustificare quest'empirica ed irrazionale consuetudine.

N. R. D'Alfonso.

NOTIZIA LETTERARIA

Riccardo Pierantoni e le sue novelle Recenti pubblicazioni sul Risorgimento Un libro sulla Regina Margherita.

Riccardo Pierantoni raccoglieva in tutte le fortune. Unico fi- gliuolo maschio di Augusto Pierantoni e di Grazia Mancini, cumu- lava le qualità dell'animo e del talento dei genitori. Nato in condi- zioni favorevoli di fortuna, non aveva bisogno di esercitar profes- sione, onde potè dar largo pascalo allo spirito, avido di cultura e di ideali d'arte, avido di emergere e di mostrare, che egli a questo mondo era venuto per compiere un dovere, quello di mostrarsi degno dei suoi, e più di suo avo Pasquale Stanislao Mancini. E dell'avo conservò un sentimento di religione, onde si proponeva rivendicarne la memoria e difenderne l'opera di ministro degli Esteri in quel Ga- binetto Depretis, che respinse l'invito dell'Inghilterra di far occu- pare dall'Italia l'Egitto. Le carte concernenti quel periodo le posse- deva lui, che le aveva ereditate dal padre, il quale, alla sua volta, le aveva avute dal Mancini : carte e documenti di singolare importanza, e di cui il Mancini non si era interamente servito a sua difesa, aspettando forse che altri lo facesse in tempi più riposati. In varie occasioni visitando Riccardo, io aveva consultato con lui il prezioso e copioso fascicolo, e tratto da esso la convinzione che le accuse contro il Mancini furono esagerate; che non era lui tutto il Governo; che il Depretis, negazione di ogni audacia, rifuggiva, per istinto di razza e limitata mentalità, da ogni impresa coloniale. Non ci volle poco difatti per indurlo, più tardi, a quella di Massaua, voluta perti- nacemente dal Mancini, dopo le note vicende e i dolorosi eccidi delle spedizioni Gecchi e Giulietti. Il povero Riccardo s'infervorava, ricor- dando i preparativi, che precedettero la spedizione nel Mar Rosso e che si compivano in casa Mancini, più che non al Ministero degli Esteri, mercè informazioni orali di viaggiatori, di esploratori, e di consoli, e di quanti non erano ignari delle condizioni dell'Africa orientale. Affermava che anche l'occupazione di Tripoli era acca- rezzata dal Mancini, il quale la riteneva indispensabile per l'equi- librio del Mediterraneo, dopo che l'Inghilterra aveva fatto suo l'E- gitto e il Canale, e la Francia si era resa padrona di Tunisi. Pen- sava di scrivere un interessante libro documentato, se la morte non fosse stata crudele con lui.

Riccardo era un romantico e un idealista. Lo rivelano i suoi scritti, e singolarmente i romanzi e queste novelle marinare, che rap-

NOTIZIA LETTERARIA * 633

presentano la sua migliore produzione letteraria, ristampate testé per cura della madre e della sorella, superstiti della famiglia, e destinate a vivere della memoria di lui e a piangerlo senza conforto. Hanno veduto la luce di recente per gli eleganti tipi dell'editore Nalato. Riccardo ne curò la stampa dal suo letto di dolore, e ne corresse i primi fogli con « mano tremante », come afferma sua madre nella breve e commovente prefazione.

Ho riletto le novelle, improntate al più puro romanticismo : per- sonaggi ed ambienti; situazioni comiche, drammatiche ed anche tra- giche; libertà geografica ed anche storica, perchè non credo che ab- biano fondamento storico le strane imprese di Salagro di Negro e di Megollo Lorgaro nelle cronache di Genova; imprese a base d'invero- simili eroismi, di episodi non interamente umani, e di passioni addi- rittura folli. Ma si leggono, perchè vi è riprodotta la vita marinara di quei tempi così lontani dai nostri : la vita marinara in quanto ha di più intimo, di più seducente e di più inebriante, con una ricchezza di colori addirittura smaglianti, e un vocabolario marinaresco tale, da far supporre che Riccardo avesse fatto lunghi viaggi di mare, e più lunghe crociere. E ne scrissi a sua madre per chiederle qualche notizia; ed ella, con la consueta cortesia, mi rispose : « Riccardo non fece mai lunghi viaggi di mare, ma fu più volte in Inghilterra, in Oriente e in Olanda, e adorò il mare fin da fanciullo, tanto che il suo primo sogno fu quello di diventare ufficiale di marina, mare e i cavalli furono sue prime passioni, come i libri di viaggio la sua prima lettura. In casa del nonno Mancini conobbe i maggiori esplo- ratori del tempo, e prestò orecchio estatico ai loro racconti. Ogni anno nel golfo di Napoli, sull'Adriatico, sulle coste toscane e liguri fu per più mesi timoniere di un cutter, e compagno di gente di mare. Ufficiali superiori, marinai e pescatori, tutti lo amavano, ammiran- done il sangue freddo, la bontà e la singolare passione per il mare ». E riuscì a scrivere, con la piena conoscenza della lingua marinara, ed etimologia perfetta, dagli attrezzi maggiori di una nave del 500, ai più minuti particoiari di una barca a vela del golfo d'Ischia, con- dotta da « Marinarella ». Tutto è preciso, da ricordare le pagine del padre Guglielmotti; anzi, per parere che egli ne sa e ha tutto stu- diato, abbonda con qualche compiacenza nelle descrizioni, a detri- mento dell'efficacia del racconto.

Le prime due novelle furono pubblicate in questa Nuova Anto- logia, prima che il d'Annunzio scrivesse la Nave; e due nella Illu- strazione Italiana. La terza è un inedito capitolo di romanzo sui fra- telli Bandiera : romanzo al quale seguì la storia, essendosi compiuta in quel tempo una singolare evoluzione nello spirito del Pierantoni, onde, -dato un mezzo addio al romanticismo, si diede a frugare negli archivi e nelle biblioteche, alla ricerca del fatto storico, del quale si ha un primo saggio nella novella « Giallo e Nero », 1 cui personaggi sono storici, e storica l'impresa di San Giovanni d'Acri, compiuta dalle flotte alleate d'Inghilterra, d'Austria e di Turchia nel novembre del i840. Fu un'impresa senza giustificazioni, tutta a vantaggio •1(4- l'odiosa e vacillante tirannia ottomana contro un eroico tentativo di indipendenza, da parte di Mehmet Ali, signore di Egitto e ribelle a

41 Voi. CLXVII, Serie V 16 ottobre 1913.

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quella tirannia. Non seppe mai spiegarsi quale grande interesse agi- tasse l'Inghilterra e l'Austria, paesi cristiani, a salvare la Turchia. Jl Pierantoni ne discorre con sicuro discernimento politico, retto senso storico, ed evidenza grandissima di descrizione. Ma l'evoluzione sto- rica si compì in lui col libro sui fratelli Bandiera, una delle più sim- patiche pubblicazioni storiche venute fuori in questi ultimi anni. Le tre novelle videro dunque la luce, ad intervalli, in quella stessa Illu- strazione, che pubblicò, alla morte di Riccardo, un geniale ricordo e un somigliante ritratto di lui, con le desolate parole d'addio, che egli scrisse, pochi giorni avanti di morire, e che non si rileggono senza una profonda commozione.

Morire a quarant'anni nel pieno della vita, e quando della vita si son provate tutte le dolcezze, è ben triste! Alla vita Riccardo chie- deva ancora di più. Non sazio della gloria delle lettere, agognava quella della politica; e qui s'illudeva, poiché dalla politica non avrebbe tratto che disinganni e amarezze. Una natura sensibile come la sua, ricca d'idealismi, d'illusioni e d'ingenuità, si sarebbe infranta innanzi alle perfìdie e alle volgarità delle plebi elettorali, quali sono e quali saranno dopo l'insensato suffragio universale. Egli aveva fede, ma questa non bastava. Un collegio non sarebbe stato possibile per lui, senza che egli non fosse disceso al livello comune, incanagliandosi più o meno, spendendo moneta, predicando bugie e asservendosi alla tirannia di ministeri senza scrupoli. Ci si provò una volta, riportandone impressioni disgustose, ma non tali da spe- gnere in lui per sempre la fiamma della fede nel trionfo definitivo della cultura, della scienza e del mondo morale. Credeva gli potesse bastare il nome dell'avo, ma i ricordi degli uomini sommi non hanno più presa nel regno dei volgari e fra moltitudini d'ignoranti :

Regnano i sensi e la ragione è morta!

Meglio che il nome di Riccardo viva nella storia delle lettere che non della politica; che riviva nelle novello e nei romanzi, nella storia dei fratelli Bandiera, e in quell'indimenticabile tipo di « Ma- rinarella » così esuberante di passione : tipo tutto meridionale, che ama con ardore selvaggio, e si la morte in quelle acque, da lei tanto amate e dominate, quando si vede tradita da un artista più insulso che odioso. Chiunque abbia letta la novella e vada ad Ischia, ricorderà la povera martire dell'amore, in quell'incantevole e son- tuoso paese, che Riccardo descrive con tavolozza meravigliosa, e dove pareva risoluto di andare a passare i suoi giorni, se fosse guarito!

E dalle lettere alla storia. Ecco un grosso volume di oltre 500 pagine, con ritratti, facsimili e tavole illustrative. Ha per ti- tolo: Lecce nel 1848, e n'è autore Nicola Bernardini, intelligente e solerte frugatore di memorie pugliesi e particolarmente leccesi. È una narrazione scorrevole, con giudizi pochi ma sicuri, e fatti e docu- menti numerosi: storia e cronaca ad un tempo, poiché gli aweni-

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menti avrebbero potuto essere compresi in un volume meno denso di pagine. Che cosa fu Lecce nel 1848? Quello che furono, su per giù, tulle le Provincie dell'antico Regno di Napoli. Solo in Sicilia la ribel- lione si compì con la decadenza della dinastia dei Borboni e la proclamazione solenne di una nuova monarchia, proclamata ma non costituita. Nelle Provincie continent-ali furono sedizioni e turbo- lenze, ma senza spargimento di sangue, tranne in Calabria : tenta- tivi non seri e assai meno eroici di sottrarsi ai Borboni. Chiacchiere, non fatti. Il periodo corso dal 1815 e 1820 al 1848 era stato troppo lungo, perchè gli uomini di quei due rivolgimenti fossero in grado di guidare e disciplinare con senno e fortuna il nuovo moto. Sedizioni e turbolenze, dunque, alimentate da sospetti e da paure, così dei sud- diti, come del Sovrano; onde av^-enne a Napoli la tragedia criminosa del 15 maggio, e nelle Provincie parziali sommosse, che solo in Ca- labria ebbero un po' di consistenza; ma represse appena il Governo apparve più forte, dico, e definitivamente dopo il rovescio delle armi piemontesi a Novara, e la caduta della repubblica a lloma ed in Francia. Che le sedizioni fossero a base di rettorica non si apprende così bene come dal libro del Bernardini sulla pro- vincia di Lecce: provincia fra le più remote da Napoli, e dove per l'indole calda e credula della razza, la fantasia prevale sulla riflessione, onde un pugno di giovani audaci potè riuscire ad impa- dronirsi non del potere, ma dello spirito pubblico, mercè un « Comi- tato Cittadino » che s'impose alle impotenti autorità, ma non dichiarò decaduto il Governo dei Borboni, seppe organizzare ombra di re- sistenza alle armi regie, mandate a rimettere l'ordine. Alle spampa- nate della rettorica erano succedute le paure della realtà.

Di quel « Comitato Cittadino » che governò senza governare, fu presidente Bonaventura Mazzarella, pretore dimissionario; e fu- rono personaggi maggiori Oronzo de Donno e Sigismondo Gastro- mediano, che acquistarono credito e autorità durante il decennale esilio i primi; e la decennale galera, l'altro; deputati poi tutti e tre al primo Parlamento italiano. E deputati furono anche Nicola Schiavoni, Giuseppe Pisanelli e Cesare Braico, che ebbero condanne addirittura inverosimili e confìsca di beni. Braico fu dei Mille, e morì pazzo e dimenticato. I processi furono iniqui, e le condanne esorbitarono dalle colpe, ingrossate dalla viltà dei giudici e da mille nequizie di testimoni falsi, e più dai nemici personali degl'imputati. Tanta ferocia non è spiegata che dalla paura, da cui venne invaso il Governo e invaso il Re, e dal criterio, addirittura falso, che la severità delle pene avrebbe tolto dalla testa dei sudditi ogni velleità di ritentare nuovi saggi rivoluzionari. E fu peggio, perchè quelle con- danne suscitarono fiere proteste nel mondo civile, e cocenti propositi di vendetta nei sudditi. Era tanta gioventù di valore condannata alla galera; e la galera borbonica fu quella descritta in memorabili pa- gine da Settembrini e da Castromediano; erano famiglie intere con- dannate alla miseria: uno stato di cose non so se più disgraziato o abietto, ma che trovò il colmo nella nota petizione al Re perchè abo- lisse lo Statuto: petizione che, sotto il pungolo della paura, raccolse non poche migliaia di firme!

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Rifioritura, dunque, di studi storici su tutta la linea: biografie di personaggi, che sono pagine di storia. Si fruga da ogni parte, sempre con discernimento. La tendenza alla piccola indagine as- sume proporzioni allarmanti : non si distingue più tra fatti e uo- mini meritevoli di essere ricordati; e uomini e fatti, che non do- vrebbero esserlo. Vi concorre anche la vanità. Si è pure esumato un libello politico di cinquanta anni or sono, scritto da un uomo, che ebbe notorietà nel giornalismo, ma non equilibrio morale, libello contro i migliori uomini d'Italia di allora, e che fu un'offesa alla verità storica e al senso comune. Tra le biografie, che hanno veduto la luce, è pregevole quella di Antonio Giccone, ministro di agricoltura e commercio nel ministero Menabrea, scrittore già di medicina, poi di agricoltura e di economia; fondatore della Scuola superiore di agri- coltura di Portici; duttile e geniale talento; già deputato nel 1848 a Napoli e condannato a morte in contumacia, ed esule per dieci anni; senatore del Regno d'Italia e professore di economia nell'Università napoletana : nobile e degno uomo. Un giovane valoroso, Adolfo Musco, suo concittadino, l'ha testé ricordato in uno scritto breve e succoso. Il lavoro, ricco di reminiscenze, si legge con interesse : é preciso e sobrio, senza ombra di rettorica, senza superfluità, giu- dizi storti. Il Giccone fu uno dei più vituperati nel libello, di cui ho fatto cenno, e con lui Carlo Poerio, Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis, Giuseppe Pisanelli, P. S. Mancini, il fior fiore della intelli- genza e del patriottismo meridionale!

Un bizzarro e simpatico volume è quello del dottore Pietro Gamardella col titolo suggestivo : / calabresi della spedizione dei Mille. È una monografìa storica illustrata, ed é'un libro prezioso di riscontro per chiunque voglia ancor penetrare il periodo, che prece- dette e seguì la spedizione garibaldina : studio non ancora esaurito, benché gli scrittori, che ne hanno discorso, e dei quali tien conto il Gamardella, sono piuttosto numerosi. Il Gamardella è calabrese, e mira ad assodare, in onore e orgoglio della sua Galabria, che questa regione dette il maggior contingenlie all'impresa liberatrice fra le Provincie del Mezzogiorno. Furono ventuno i calabresi che sce- sero con Garibaldi a Marsala, tutti esuli; e se alcuni di origine popolana, i più di cospicue famiglie, come Francesco Stocco . e Alberto De Nobili di Catanzaro; Vincenzo e Francesco Sprovieri, Domenico e Raffaele Mauro, Luigi Miceli, Ferdinando Bianchi e Domenico Damis di Cosenza; e Antonino Plutino di Reggio. È da ricordare che Stocco comandava una delle sette compagnie; che nella casa di Plutino a Torino si erano riuniti, un mese avanti, quasi tutti gli esuli del Mezzogiorno, per decidere che nel movimento, ini- ziato a Palermo il 4 aprile, si dovesse seguire l'indirizzo, che Gari- baldi adottò partendo da Quarto: « Italia e Vittorio Emanuele ».

Plutino fu prodittatore a Reggio, prefetto a Cremona e a Cuneo, e poi deputato; Miceli fu deputato e ministro; deputati i fratelli

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Sprovieri, Domenico Mauro e Domenico Damis, che seguì la car- riera militare, e pervenne all'alto grado di tenente generale. Indi- menticabili tipi di patrioti, i quali, dopo aver sofferto la galera o l'esilio, credettero di compiere il proprio dovere, arrotandosi con Garibaldi. Domenico Mauro, albanese come il Damis, era di vasta cultura dantesca; aveva fatto il giornalista e visse nell'esilio in grande povertà e pari dignità.

Perchè la Calabria offerse il maggior contingente alla spedizione dei Mille? Perchè il moto, suscitato da Garibaldi, incontrò così singo- lare favore, onde la regione fu tutta in fiamme all'appressarsi del duce? Lo dice il Camardella, rivelando le condizioni del Reame dopo gl'infelici avvenimenti del '48, e la brutale reazione. Le condanne po- litiche in Calabria erano state numerose, più che in ogni altra re- gione del Regno, onde il numero degli esuli in Piemonte superava forse nell'insieme quello degli esuli delle altre provincie. I calabresi hanno tendenze spiccate alle avventure; e caldo ed erompente è in essi il sentimento della libertà. È pur da ricordare che, quando si organiz- zava la spedizione, molti credettero, ed anzi era voce diffusa, che lo sbarco si sarebbe compiuto fra Pizzo e Reggio. Di questi 21 militi di Garibaldi, dei quali non è piìi vivo nessuno, il Camardella fa la bio- grafìa con dati sicuri e sobri; e fra i tipi il più geniale e curioso, anzi stravagante sino all'inverosimile, fu quello di Raffaele Pic- coli di Cast-agna, figlio di calzolaio e sagrestano da fanciullo; poi cap- puccino e suddiacono; poi diacono e viaggiatore attraverso l'Italia. A Roma assistette all'uccisione di Pellegrino Rossi, e a Roma buttò sot- tana e collare, e inneggiando all'assassinio, per paura di essere cre- duto nemico della libertà! Rindossò la sottana, lasciando Roma; e poiché erano venuti in suo potere alcuni documenti pontifici di mon- signor Armellino, delegato apostolico e raccoglitore di offerte per po- stulcizioni, il Piccoli, in compagnia di alcuni preti campani, si tra- sformò lui in delegato apostolico, imponendosi ai vescovi, celebrando pontificali, ricevendo autorità, raccogliendo offerte, e spacciandosi anche per commissario segreto del Re e del Papa. Percorse Terra di Lavoro e una parte della provincia di Campobasso, finché non fu ar- restato a Capua. Interrogato dalle autorità, rispose chiamarsi « Ba- luardo Onnipotente, figlio di Dio, suddito e ambasciatore occulto di Ferdinando II ». Imprigionato e processato, ebbe condanna a trenta anni di ferri; e ne passò una parte nell'ergastolo di Santo Stefano con Settembrini e Spaventa; e poi deportato in America e sbarcato in Irlanda, corse a Torino e a Genova, professando caldi sentimenti repubblicani. S'imbarcò a Quarto, e durante la campagna pervenne a! grado di maggiore. Irrequieto e indomabile quanto disinteressato, non chiese volle nulla; si ritirò a vivere poveramente, con la pensione dei Mille, a Castagna; e nel 1870 promosse l'insensata in surrezione di Filadelfia in nome della « Repubblica Universale ' , finché, stanco di vivere e di soffrire, si diede la morte in modo rac- capricciante : si conficcò un grosso chiodo nella tempia destra, e battendo il chiodo sulla parete perché penetrasse meglio nella testa, e coprendo il chiodo con uno straccio perché i suoi non sentissero! Vita e morte così poco naturali, da far dubitare se le facoltà men-

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tali di lui fossero tutte a posto. Di certo Raffaele Piccoli fu un uomo tanto diverso dagli altri, e meritava di essere ricordato e il Camar- della ha fatto benissimo, ma nessuna tacendo delle sue stravaganze.

I meridionali di terraferma, che scesero con Garibaldi a Mar- sala, furono 46: non molti veramente. Il maggior numero della spe- dizione era formato da bergamaschi e da liguri. Nessuno, come il Camardella, ha fatto un lavoro sui meridionali, distribuendoli fra le regioni cui appartennero. Se i calabresi furono ventuno, i salerni- tani sommarono a nove, a sette i pugliesi e a sei i napoletani. Uno fu di Basilicata, il Pentasuglia di Matera; uno di Atri, il Baiocco, morto a Calatafìmi, ed uno di Sant'Angelo dei Lombardi, Achille Argen- tino, poi deputato di Melfi nella prima legislatura, uomo da ricor- dare per la cultura e il carattere. Solo i calabresi hanno avuto finora un illustratore prezioso; ed Eduardo de Vincentiis, il coltissimo pre- side del liceo di Taranto, avrebbe dato maggior interesse al suo bel libro sui Patrioti Salentini se, oltre a Nicola Mignagna e a Vincenzo Carbonelli, tarantini ambedue, avesse scritto con eguale diffusione di Cesare Braico, di Francesco Curzio, di Moisè Maldacea, di Filippo Minutilli, e anche di quel Pietro Giuseppe Rosani di Galatina, che più tardi venne escluso dall' onore di fregiarsi della medaglia commemorativa, per ragioni non bene accertate. È da ricordare che il Pentasuglia fu l'audace telegrafista della spedizione; e che, appena sbarcato, andò ad impossessarsi dell'ufficio telegrafico di Marsala. Il Curzio fu deputato di Acquaviva per varie legislature, e il Maldacea, morto pochi anni or sono, pervenne al grado di colon- nello di fanteria. Era nativo di Foggia; il Curzio e il Minutilli appar- tenevano alla provincia di Bari, e gli altri quattro alla provincia di Lecce. Un bel lavoro potrebbe anche farsi sui nove salernitani, tra i quali Filippo Patella, che morì preside di liceo, e Michele Magnoni della patriottica famiglia del Cilento, non mai domata dai Borboni.

Altra pubblicazione, che si connette a quella del Camardella, ma di altro genere, è venuta fuori a Catania, dal titolo : Un decennio di cospirazione in Catania, dal 1850 al 1860, che già vide la luce nel- V Archivio storico per la Sicilia orientale. N'è autore il dottor Vin- cenzo Finocchiaro, il quale desidera e confessa che il suo scritto sia come un modesto contributo alla cronistoria del nostro risor- gimento nazionale, più che un lavoro organico ed esauriente. Il volume, di circa dugento pagine, comincia dalla restaurazione bor- bonica e termina al 3 giugno 1860, nel qual giorno le truppe borbo- niche abbandonarono Catania. I documenti son molti, e parecchia luce illustra quel periodo. Io scrissi di quei fatti nella Fine di un Regno. Il lavoro del Finocchiaro è limitato a Catania; e maggiore importanza avrebbe, se fosse esteso a tutta la Sicilia. Non si studierà mai abbastanza il periodo, che precedette la rivoluzione del 1860 nel Mezzogiorno. Il Finocchiaro ha consultato cronache inedite e singo- larmente quella del Cristadoro, minuta e relativamente obiettiva, ma non pare che abbia tenuto presente quella Cronaca degli avve-

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nimenti di Sicilia che venne fuori nel 1863 e ch'è una raccolta di documenti autentici circa le cose di quei giorni: libro divenuto ra- rissimo. Egli ha inoltre frugato in archivi pubblici e privati; ha raccolto testimonianze sul periodo delle cospirazioni e dei prepara- rativi, e infine sugli ultimi giorni della resistenza, quando il governo borbonico perdette l'esatta visione delle cose in Sicilia; e Garibaldi, padrone di Palermo e vincitore a Milazzo, s'avanzava a grandi gior- nate su Catania e Messina. Catania, dopo l'ultima e quasi inutile difesa fatta dal generale Clary il 31 maggio, richiamato questi con le trupi>e a Messina, acclamava a Vittorio Emanuele il 4 giugno.

Il Finocchiaro fa alcune considerazioni sulla rivoluzione del 1860 in Sicilia,, alle quali non potrei interamente associarmi. Che sia stata un po' il frutto di una lunga e paziente preparazione, dovuta al lavorìo segreto dei Comitati rivoluzionari, l'ammetto; non è fon- data però l'affermazione che la Sicilia sarebbe riuscita, presto o tardi, a riunirsi politicamente al rimanente d'It-alia per sola virtù della co- spirazione mazziniana, la quale seppe diffondere « il suo programma unitario nazionale ». No, no. Fu Garibaldi col grido « Italia e Vittorio Emanuele » che assicurò il successo. Il Finocchiaro, ch'è uno studioso dei fatti storici, riconoscerà che, senza quel complesso di avveni- menti, che precedettero la spedizione dei Mille, e la morte di Ferdi- nando II fu tra i maggiori, l'impresa non sarebbe stata tentata, o sarebi:>e finita in una grande carneficina. La cospirazione mazziniana non aveva prodotto che parziali conati di sommosse soffocate nel sangue.

L'indagine storica va diventando una specie di ossessione, ripeto, e vi concorrono le varie Riviste o Bollettini, che vedono la luce di qua e di dallo Stretto, scritti da uomini di molta cultura, più ri- cercatori che critici. Il documento per il documento può degenerare in un lavoro inutile, se il documento non deve contenere qualche cosa che si connetta a un interesse non strettamente personale o locale; che serva ad un maggiore studio di fatti o di episodi, che abbiano interesse generale, altrimenti la ricerca sarà superflua e l'idea storica non si alimenterà che di piccole cose senza valore, o peggio ancora, di vanità o di passioni minuscole. Adagio nelle ricerche, dun- que. Fra le Riviste storiche, fatte con più largo criterio, ho da ricor- darne una, che vede la luce da pochi mesi, ed è diretta e scritta quasi interamente da due coltissimi calabresi, Ettore Capialbi, direttore del- l'archivio di Catanzaro, e Francesco Pititto. Si pubblica con qualche gusto tipografico a Mileto. La Calabria non aveva una rivista della sua storia, come Napoli e la Puglia; ed ora ce l'ha, ed è degna della nobile regione e di coloro, che la scrivono. Vi abbondano le ricerche di archeologia e di storia civile ed ecclesiastica; le recensioni son fatte con sobrietà e spirito critico; e nell'ultimo fascicolo è assai interes- sante quella del Capialbi sul libro inedito : « Gli Ebrei in Calabria e la loro importanza nella vita calabrese »; e non meno interessante l'altra del Pititto sul libro di Paolo Orsi, sopra Santa Severina : re- censioni, che danno un'idea esatta dei lavori e completano le illu- strazioni regionali. Ettore Capialbi è ben noto per i suoi studi storici; e il Pititto è uomo di larga cultura. Ad essi affidato, Y Archivio sto-

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Tico della Calabria avrà fortuna, pari a quella che si è venuta acqui- stando in tanti anni la Rassegna Pugliese, e che io auguro pure eìVAprutium di Loreto Aprutino, messo insieme con tanto lusso di scrittori e di tipi, se saprà divenire via via una Rivista storica per i tre Abruzzi, non limitandosi ad essere una pura rassegna letteraria. E va pure ricordata la Rivista Storica Salentina, che vive da otto anni, ed è diretta da un uomo benemerito della cultura meri- dionale, Pietro Palumbo. Un gruppo di studiosi e di ricercatori diligenti si raccoglie intorno a lui, e concorre in vario modo ad illustrare la comune terra di origine.

Un sontuoso^ volume, edito dalla tipografia Italo-Olandese di Ro- ma e ricco di belle illustrazioni, porta per titolo Margherita di Savoia, la sua vita e i suoi tempi. Esso è dovuto alla istancabile attività della signora Fanny Zampini Salazar. Non è un'opera storica, mancando ogni ombra di critica, che il soggetto rendeva difficile, ma non è neppure un'opera esclusivamente apologetica, non ostante l'indole della scrittrice, calda e appassionata. l'apologia sarebbe nemmeno da condannare, visto che la Regina Margherita fu, dal giorno delle sue nozze con Umberto di Savoia a quello della tragedia di Monza, la protagonista più geniale, più amata e meno discussa, per il fascino della sua bellezza, la graziosa signorilità delle maniere, la geniale cul- tura e l'ingegno felice. Ma la signora Zampini non si è fermata alla persona della Regina : ella ha voluto raggruppare intorno a Lei cin- quant'anni di storia, e di qual diffìcile storia! Se leggendo quelle pagine, riviviamo in esse, non può affermarsi che le pagine ci lascino interamente soddisfatti. Troppo ottimismo le ispira, onde di un Regno così turbato', conie fu quello di Umberto I, non può dirsi di trovar la riproduzione in esse. Regno sconvolto da troppe passioni malsane, che generarono lo sfacelo del Parlamentarismo; governo in mano di mediocri o di pessimi, tranne poche eccezioni; monarchia cattolica in lotta col papato, lotta che non ebbe tregua nemmeno dopo la morte del Principe; impresa' d'Africa, di cui fu triste epilogo l'eccidio di Adua; sommosse nel paese e tumulti nel Parlamento; scandali di Ranche e di uomini politici, che vi si tro- varono mescolati; processi e fughe, accuse e indegnità. Regno di lotte e di amarezze, e di poche letizie e compiacimenti, e la cui storia non può scriversi ancora, e assai meno congiungere alla persona della Regina, che se di quel Regno fu la stella propiziatrice, come scrisse il Carducci, rappresentò, se non un'antitesi con la vita politica del paese, certo qualche cosa che non era consenso, e che solo potrà essere determinata da un fine e dilicato studio di critica storica, quando' le passioni saranno spente.

Gl'ideali di regno di Margherita di Savoia non furono realiz- zati dalla realtà, in mezzo alla quale Ella si trovò e vi si adattò per sentimento di dovere, e per un senso di nobile devozione e di affetto sincero al Re e alla comune Gasa. L'ideale suo di vedere l'Italia gover- nata dagli uomini migliori s'infranse innanzi alle volgarità e alle tirannie della politica; il suo sogno di pace religiosa con la Ghiesa s'infranse anch'esso; la poesia della stirpe Sabauda, onde nessun

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Duca o Re subì attentati alla vita, e morte per mano di assassino, di- strutta miseramente. Vi fu qualche cosa addirittura di fatale nella vita di Lei come Regina, onde in alcuni momenti apparve quasi estranea al paese, ed in sospetto dei tristi politicanti. E tanto si potreb- be dire su questo punto, se una doverosa discrezione non lo vietasse. Sono argomenti scabrosi, assai difficili a trattare, quasi scottanti; e la signora Zampini vi è passata sopra completamente. Non potava farne a meno, lo riconosco; ma l'assenza appare quasi ad ogni pa- gina, onde il libro non può dirsi una vera storia.

Io vorrei scrivere di questa pubblicazione tutto il bene possibile, per l'amicizia che mi lega all'autrice, e per la viva premura, che ella mi ha fatto, perchè io ne scrivessi; e vorrei potermi associare inte- ramente a tutto quanto ne ha detto così bene il mio amico Riccardo Carata d'Andria nella interessante prefazione. Pur non essendo una vera storia, il libro della Zampini Salazar si legge con diletto; libro apologetico, ma senza senilità : libro che rispecchia, come ha scritto il Carata, lo spirito e il temperamento dell'autrice: la pietà e l'a- more, la bellezza e la grazia, la religione e il coraggio, la genero- sità e la poesia. La narrazione scorre limpida, calda e spesso impron- tata a lirico ottimismo. La figura della Sovrana sovraneggia. Delle sue felici iniziative, in fatto di carità, di arte e di cultura, non ne è dimenticata una; il suo spirito di beneficenza è giudicato acutamente, e ben lumeggiata la sua tendenza di avere presso di gli uomini più colti del suo tempo; e basterebbe ricordare il Bonghi, il Carducci e il Barracco. Amore dell'arte e della cultura, onde si fa promotrice di concerti musicali assai apprezzati, di scuole professionali, di confe- renze, e singolarmente di quelle Dantesche, prendendovi grandissimo diletto. Il suo interesse per l'istituto di Anagni ne assicurò la esi- stenza; e così per la ristampa dei Rerum Ilalicarum Scriptores dei Muratori, che, dopo la morte dell'indimenticabile editore Sci- pione Lapi, pareva compromessa. Di questa gloriosa iniziativa della Regina è appena un cenno nel libro della Zampini, e proprio nel- l'ultima pagina, e quasi di fuga; ed è bene che si risappia come, senza l'intervento di Lei, che accettò la presidenza onoraria del Pa- tronato, e diede largo contributo di danaro, l'edizione muratoriana, dovuta oltre che al Lapi, al Carducci, al Fiorini e un po' anche a me, sarebbe di certo naufragata. Fu il Carducci, che mercè una lettera me- moranda, che scrivemmo a Bologna Vittorio Fiorini ed io, e della quale fui latore, ottenne il consenso di Lei. Si era al gennaio del 1904. Fu quella l'ultima volta che vidi Carducci a Bologna, riportandone una impressione triste, che non nascosi alla Sovrana, la quale me ne chiese con grande e tenera premura. Il poeta morì difatti tre anni dopo, e in questi tre anni non tornò piìi a Roma, la Regina piìi lo rivide.

Il libro della Zampini non avrebbe perso nulla, se fosse stato contenuto in limiti più ristretti. Vi è abbondanza di cose superflue, e ricordi di persone, che non valeva la pena di registrare. Alcuni ritratti non si spiega perchè ci sono; qualche data andrebbe corretta; e se abbondano i giudizi lodevolmente esatti, come quelli sulla Sar- degna, non son tali i giudizi riferentisi alla guerra del 1870, che

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l'Imperatore Napoleone fu ultimo a volere, e che anzi subì. La guerra fu l'effetto di una ubbriacatura nazionale; e se l'Imperatore non fece abbastanza per evitarla, si ricordi che era infermo e intravedeva il tramonto delle sue visioni. Nella guerra, in meno di due mesi, egli perdette libertà e Impero, E se il libro avrà altra edizione, io invito la Zampini a sfrondarlo del superfluo. Alcune pagine, come quelle sull'assassinio di Monza, sono veramente emozionanti, benché nep- pure contro gli autori morali dell'assassinio, che in vario modo lo resero possibile, ella spenda una sola frase. Rifugge insomma da tutto ciò che è critica; e neppure una parola di sdegno scrive contro il Vaticano Regio e l'iroso Pontefice, che condannò la commovente pre- ghiera, dettata dalla infelice Sovrana, fidente nella misericordia di Dio! Io concedo all'autrice le maggiori attenuanti. La storia con- temporanea è tanto diffìcile a scrivere, in quanto che, o son vivi gli autori di essa, o sopravvivono le passioni malsane, che li domi- narono. La storia vissuta è la più diffìcile a fare, ed io lo so piìi di tutti; più diffìcile ancora per una donna, in cui, prevalendo il sen- timentalismo, esula ogni tendenza a sferzare, e prevale quella ad indulgere e assolvere. La storia col documento cavato dagli Ar- chivi è più facile cosa, perchè i fatti si riferiscono a tempi remoti e ad uomini scomparsi dalla scena del mondo. Non vi sono passioni, antipatie, tornaconti, volgarità, paure. Fra cinquant'anni la storia del Regno di Umberto I si saprà tutta; e non vi é dubbio che la figura della Regina Margherita apparirà ancora più alta e più fulgida nelle tempeste, che agitarono i ventidue anni di quel Regno, finito con la tragedia di Monza!

Tristi fatti e tristi ricordi, la cui storia intima, con le sue cause e i suoi responsabili, nessuno escluso, sarà bene affidare ai futuri.

Raffaele de Cesare.

ONORANZE A GIUSEPPE VERDI

Quando si pensa ad onorare un uomo illustre, il primo progetto è quello di erigergli un monumento : progetto che non poteva non formularsi nella occasione del primo centenario verdiano, anche se il carattere, i sentimenti dedl'uomo e dell'artista ripugnassero da ogni forma di pubblicità. I monumenti a Giuseppe Verdi sorgono in folla; e, primi, nei luoghi consacrati dalla vita e dalla attività ar- tistica del Maestro: alle Roncole, a Busseto, a Milano, a Parma.

Veramente il monumento di Parma non è ancora terminato e probabilmente ci vorrà del tempo perchè sia condotto a compi- mento: ma i lavori sono abbastaniza avanzati per poter dare una approssimativa idea di quello che dovrà essere. Un grandioso por- tico semiciroolare, co»n al centro un arco trionfale sonnontato da una quadriga, tirata da quattro leoni, da cui sorge una figura mu- liebre: la gloria o la fama; nel gran portico, tra le colonne, sporgono da certe nicchie le figure dei principali eroi delle opere verdiane, nei loro costumi caratteristici; in mezzo, davanti all'arco, un saldo e basso blocco bronzeo, sulle cui facete, a rilievo, si disegnano sim- bolicamente le passioni, i sentimenti, le espressioni dell'opera ver- diana, che fanno capo alla figura centrale: il Maestro pensoso.

Per intonare la figura dell'artista con le figure simboliche, lo Ximenes ha soppresso le prosaiche vesti moderne, avvolgendo in- vece la persona del Verdi in un manto, da cui si sprigiona la testa vigorosa, una spalla nuda, un braccio pure nudo: il nume, tra i simboli, e con essi, forma il sacro altare dell'arte. Un Verdi in clas- sico ammanto impressiona curiosamente: l'esempio famoso del Beethoven del Klinger basta a convincerci; ma, quando tutto sarà compiuto, può essere che nel complesso dell'immenso monumento si affermi tale armonia da distruggere quella che ora può essere impressione unilaterale : sebbene il contrasto tra i personaggi dalle varie vesti, che sorgono intorno, e le figure dell'ara centrale, possa apparire ancor più accentuato dalla differenza tra il bronzo dei ri- lievi e il cemento di cui son formate le colonne, le arcate, le per- sone dei drammi verdiani. Forse è un pregiudizio che ci fa ritenere diffìcile accettare per un così solenne monumento il cemento, ma- teria che ci può sembrare acquisita a scopi essenzialmente indu- striali, ma che può essere nobilitata dall'opera deirartista: forse anche, più che l'idea del cemento, ci turba quella della finta pietra : ma ogni giudizio è prematuro, sebbene i lavori siano avanzati ab- bastanza; attendiamone il compimento.

644 ONORANZE A GIUSEPPE VERDI

Il monumento soito a Bus&eto, davanti alla rocca dei Pallavi- cini, al teatrO' che da Giuseppe Verdi prende il nome, di fronte alla casa Barezzi, ove il genio di lui fu compreso, divinato, è ap- parso indovinata opera d'arte: il maestro è seduto in posa sem- plice e viva nella sua rigidezza quasi ieratica. Luigi Secchi, l'au- tore dei monumeniti al Parini, al Brioschi, al Negri, al Mac Mahon a Magenta, ha modellato' e avvivato la figura di Giuseppe Verdi, di cui Busseto ha ragione di andar superba.

Il monumento inaugurato a Milano' è opera di Enrico Butti al quale, morto Antonio Carminati vincitore del secondo concorso, il Comitato milanese aveva affidato l'incarico : il Butti ha nelle quattro faccie dell'alto piedistallo modellato quattro quadri che simboleg- giano Le manifestazioni' dell'artei del Verdi: sul lato anteriore, la melodia passa tra gruppi di figure significanti l'estasi umane; a fìanco' è la glorificazione degli eroi caduti per la patria; a tergo le male passioni che travolgono gli umani; dall'altro fianco la tranquil- lità della vita, ìa serenità dell'amore: e questo quadro di pace si trova proprio di fronte alla facciata della Casa di riposo per i mu- sicisti, da Verdi eretta e dotata, ove passano la loro vecchiaia arti- sti che interpretarono un giorno le creazioni del loro benefattore, aggruppati intorno alla tomba ove riposano le membra del grande Maestro e della compagna della sua vita. Sorge sull'alto piedi- stallo la figura di Giuseppe Verdi : è modellata con spirito, ha senso di vita; ma non in tutto risponde al concetto che abbiamo del Maestro, fisicamente e idealmente' considerato : la figura ha qual- che cosa di floscio, di dinoccolato: le gambe par che si pieghino, mentre le mani si nascondono, dietro il dorso, sotto le pieghe della giacchetta: mentre Giuseppe Verdi è nella memoria nostra dritto e saldo, quasi rigido nell'atteggiamento, specchio eloquente del ca- rattere.

QuandO', entrando nella via Michelangelo Buonarroti dalla piazza Piemonte, il monumento appare ai nostri occhi, le linee am- morbidite e fuse nella lontananza, l'impressione dell'insieme non è tanto soddisfacente come quella che ci la visione più diretta, da vicino : una caricatura alquanto irriverente, ma non priva di giustezza, lo mostra non difficilmente trasformato in un enorme campanello da scrivania. Ma, più ci appressiamo, più i particolari si delineano con effetti di gradevole armonia: e se non ci con- vince interamente la figura del Maestro, l'opera d'arte ci si rivela eletta e nobile.

Ma l'occhio e l'animo presto si volgono a quella Casa di riposo, monumento simbolico del gran cuore del Verdi, come le sue opere sono il più bel monumento della mente sua : e nella cripta dalle pareti! rilucenti per l'oro dei ricchi mosaici, che circoindano il bronzeo suggello sovrapposto alle salme venerate, sotto la volta, pende la lampada votiva offerta dal comune di Busseto, e che da pochi giorni diffonde a traverso le lastre trasparenti di sottile ala- bastro una luce tenue, dolce.

ONORANZE A GIUSEPPE VERDI 645

La lampada, esagonale, dai ricchi fregi di bronzo, nelle cui facci© sono disegnate graziose figure di angeli che suonano stru- menti musicali, fu disegnata da Camillo Boito, curata nei partico- lari da Giovanni Beltrami, fusa da G. Lomazzo; in giro, su lamine d'argento, ha scritto: «A Giuseppe Verdi arda perenne I con- cittadini — nel primo centenario di sua nascita X ottobre MGMXIII »; è bello e nobile completamento della cripta sacra; come le nuove vetrate a colori del pittore Beltrami completano la cap- pella sovrastante alla cripta.

Un altro suggestivo monumento al Verdi ho visto davanti al- l'umile casa delle Roncole: è un busto di bronzo, modellato dallo scultore Gantù, di Milano, su piedistallo di granito nero. Non ha gran carattere : ha qualche cosa di lisciato, di molle, che non con- vince. Ma è quella casa rozza, povera; sono quelle due misere stanze, dal tetto a pendio ripido, ove nacque e visse i primi suoi anni il Maestro, che doveva un giorno ergersi dominatore; è quel povero e rozzo nido (nido d'aquila però), che vi attrae, vi accoglie, vi sugge- stiona potentemente ; la imbiancatura recente delle pareti par quasi un lusso; e una targa marmorea, e qualche corona, stridono, per con- trasto, su quelle nude pareti.

E di là, in breve tempo (la rapida corsa dell'automobile sop- prime la distanza), a Sant'Agata : la casa modesta un tempo, tra- sformata in villa tutta comodità e agiatezza: contrasto fortemente e profondamente significativo. Ecco la camera di lui, quella di Giuseppina Strepponi : le sale, così diverse negli addobbi e nel gusto; la biblioteca non numerosa; lo studio: e nello studio, quali documenti! V'è una letterina di Gioacchino Rossini, che racco- manda un Tizio, e firma, come di consueto negli ultimi anni di sua vita, «pianista di quarta classe»: ma nell'indirizzo, al Verdi del «pianista di quinta classe»! V'è un primo abbozzo del brindisi della Traviata, rimasto quasi invariato nello spartito, con la nota: « Gena in casa di Margherita » ; v'è l'abbozzo della cabaletta « Di quella pira », quale è rimasta nel Trovatore: forse non pienamente soddisfatto, il Verdi, scrisse altra cabaletta, con le medesime pa- role, differentissima per ritmo e carattere : ma poi vi rinunziò e tornò alla prima forma; v'è la pagina del Falstaff « Quand'ero paggio», scritta in forma di duo: Alice riprendeva, con imitazioni e con intento parodistico, le parole del panciuto eroe, il quale chiu- deva il suo canto, sulla parola sottile, con un la naturale acuto, in falsetto, pianissimo: una trovata, cui evidentemente il Maestro rinunziò, per assicurare la esecuzione conforme al suo scritto, Aisto che ben pochi baritoni avrebbero potuto rendere esattamente tale effetto: e tolse via le risposte della donna.

Nel muovere con passo riverente per quelle camere, nel per- correre i viali del parco, penetrando nella grotta che richiama alla mente la tomba di Aida e Radamès, non si può non ripensare a quanto scriveva alla contessa Maffei Giuseppina Strepponi, in un gioiello di lettera, che vede ora la luce nella appendice ai copialettere del Verdi: in essa la eletta donna narra come sorse e si sviluppò nel

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maestro l'amore per la vita dei campi, come si formò la villa di Sant'Agata : lettera giustamente riprodotta, tanto è gustosa e rive- latrice di una mente e di un cuore che la dimostrano degna com- pagna del grande artista (1).

Dopo i monumenti, le conferenze : tra le più notevoli, le due del Fradeletto, una a Milano, nel Salone del Conservatorio, intesa a di- mostrare il perchè delle onoranze al Verdi: nobile e perspicua espo- sizione della vita e dell'opera dell'artista, del loro significato nella storia intellettuale e morale del nostro paese; la seconda a Busseto, quando si scoprì il monumento : seppe il fecondo oratore lumeggiare con grande finezza il pessimismo del Verdi, facendo l'elogio di tale tendenza, che fu, si può dire, la base salda del carattere dell'artista ritroso e. diffidente, ma sincero e forte. Piacevole e chiara la confe- renza di Max Nordau, su « Verdi, l'Itali en » : nulla di nuovo in que- sto discorso di un tentone elogiante in francese il grande italiano; ma un gran garbo, molto entusiasmo, dello spirito di buona lega; fuori di posto e non riuscite certe considerazioni sul contenuto e la forma della musica verdiana : frasi di un dilettante che vuol met- tere il naso in questioni tecniche, delle quali non si rende esatto conto. Piacque però, interessò, divertì, e fruttò all'oratore molte approvazioni e applausi calorosi e sinceiri.

Giunto dopo molti altri, il discorso tenuto dall'on. Giorgio Ar- coleo nel teatro della Scala prima della solenne esecuzione della Messa di requiem non è parso molto ricco di novità, e si è protratto un po' a lungo: ma l'eloquenza facile e nutrita dell'oratore ha inte- ressato il magnifico uditorio, che ha salutato la chiusa del bel di- scorso con molti applausi.

Bella e commovente manifestazione, il meraviglioso corteo che il 12 ottobre, traversò Milano, sfilò intorno al monumento del Verdi, dinanzi alla Casa dei musicisti, tomba veneranda e venerata del Maestro: le rappresentanze delle principali città d'Italia, delle più importanti istituzioni nostre, si univano alla gran massa del popolo : una schiera di ventimila persone ha reso omaggio al gran vate italico.

debbonsi dimenticare il concorso delle società corali, i con- gressi di interesse musicale, tra cui quello dei maestri di musica, a Busseto; quelli dei professori d'orchestra a Parma e a Milano; quello per la educazione popolare musicale, pure a Milano: riu- nioni, occasionate dal centenario verdiano: la riuscita esposi- zione del teatro, a Parma, ordinata dal Rasi, dal Foà, dal Ga- sperini.

(1) Questa lettera fu data come primizia nello studio interessantissimo di Michele Scherillo pubblicato dalla Nuova Antologia nel fascicolo 16 luglio 1912: Verdi, Shakespeare e Manzoni - Spigolature nelle lettere di Verdi. (N. d. R.)

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Ma le più efficaci e belle feste sono costituite dalle esecuzioni musicali : le opere di Giuseppe Verdi sono il vero grande monumento che egli stesso si è eretto: monumento compreso e goduto da tutti, eloquente e convincente.

Parma, auspice, eccitatore, organizzatore il maestro Cleofonte Campanini, ha avuto la esumazione deìVOberto di San Bonifacio, la prima opera del Verdi; lavoro interessante come documento di va- lore storico più che estetico: e poi esecuzioni importanti di altre opere verdiane, tra le quali il Don Carlos, il Falstaff; magnifico esito ha avuto la Messa di requàera, eseguita dalla Russ, dalla Fra- scani, dal Bonci e dall'Arimondi, con un coro stupendo, costituito dalle società corali « Euterpe » e « Verdi » di Parma, « Euridice » di Bologna: trecento voci, cui si sono unite duecento voci della so- cietà « Beethoven » venuta appositamente da Parigi : il maestro Campanini ha diretto tale straordinario complesso, festeggiatissimo.

Alla « Scala » di Milano una stagione verdiana si è iniziata con esito felicissimo col yìabucco, lo spartito che costituì la prima grande affermazione del genio del Verdi : rughe profonde (non può negarsi) segnano questo spartito, in cui non mancano però episodi vera- mente belli e che destano ancora viva ammirazione e talvolta com- mozione sincera. Inoltre, è spartito che richiede esecutori dotati di voci eccezionali, e di grande efficacia drammatica : la direzione della « Scala » ha compiuto un vero miracolo, riunendo un com- plesso di artisti che può considerarsi l'unico, atto a far divenire realtà l'idea azzardata di esumare il Xabticco; Cecilia Gagliardi era « Abigaille » : voce solida, squillante, flessibile, di una estensione prodigiosa; temperamento drammatico, efficacissimo; non credo che ai nostri giorni si trovi chi al par di lei riunisca in così alto grado siffatte doti; Luisa Garibaldi consentì ad assumere la piccola parte di « Fenena », cui seppe dare notevole rilievo con la bella voce e la interpretazione intelligente; U Galeffi, il De Angelis, artisti dalla voce ammirabile, esecutori coscienziosi e sicuri, interpretarono magi- stralmente le parti di « Nabucco » e di « Zaccaria ». Animatore del vecchio spartito, istruttore insuperabile delle masse e dei solisti, Leopoldo Mugnone, il quale, vari anni or sono, anche a Roma seppe fare apprezzare e applaudire la vecchia opera verdiana, ed ora nuo- vamente l'ha mantenuta viva a Milano.

Seguì VAida, diretta dal Serafìn, vigoroso e intelligente concer- tatore; la Gagliardi ha magnificamente incarnato la figura di « Aida »; così pure il Galeffi, « Amonasro », il De Angelis, «Ramfis», hanno avuto campo di affermarsi ancora in modo eccellente : meno a posro le Zenatello, « Radamès », che apparve un po' stanco, e la Zenatello- Gay, « Amneris », che una grave recente sventura profondamente tur- bava, cosicché la prima sera fu sostituita dalla Garibaldi, la quale riportò ottimo successo. Con il Nabucco, ebbe VAida splendido alle- stimento scenico ed esecuzione corale e orchestrale ammirevole.

Poi è venuta la volta della Messa di Reqviern, grande trionfo di Arturo Toscanini, salutato da interminabili ovazioni: Cecilia Ga-

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gliardi ha dato nuova bellissima prova del suo ammirevole tempe- ramento artistico, modulando con arte squisita la sua voce preziosa; Virginia Guerrini ha destato entusiasmo; e degni loro compagni sono apparsi il Giorgini e il De Angelis, l'orchestra e la bella massa corale. Ma, pur 'non dimenticando gli entusiasmi destati da due esecu- zioni popolarissime di Aida al «Dal Verme», è doveroso ricordare le esecuzioni stupende della Traviata e del Falstaff che hanno avuto luogo nel minuscolo teatro di Busseto : si è verificato ciò che in altri tempi sembrava al Verdi addirittura una pazzia. Infatti, quando nel 1845 si voleva inaugurare solennemente quel teatro, i bussetani si rivolsero a lui, che aveva u^na volta accennato alla possibilità di ot- tenere il concorso gratuito della Frezzolini e del Poggi : ma se nel- l'anno della inaugurazione « la Frezzolini avesse nelle mani una scrit- tura (che vuol dire 40 o 50 mille franchi) chi sarà quel pazzo che le farebbe la proposizione di venire a cantare gratis a Busseto?... ». E nel 1865, avendo il sindaco di quel comune detto che il Verdi aveva promesso di procurare per l'inaugurazione del teatro i primi tre can- tanti d'Europa, purché fosse avvertito tre anni prima; il Maestro, in- dignato, esclamava : « Per esempio, io dovrei dire all'Adelina Patti, a Fraschini, etc...., badate bene che da qui a tre anni, non importa voi abbiate un'offerta di 200.000 frs. dall'America, di 100 dalla Rus- sia, etc, voi non accetterete perchè verrete a cantare (da qui a tre anni) a Busseto!! Io domando... se è possibile che io possa essere tanto imbecille da promettere l'impossibile».

Ebbene, l'impossibile è diventato una possibilità, una realtà : il nome di Verdi, la devozione appassionata di Arturo Toscanini hanno compiuto il miracolo. All'appello del magnifico direttore, i migliori artisti dei nostri giorni hanno risposto lieti e volenterosi. A loro spese si sono recati a Busseto, e, rinunziando a lucrose scritture, sacrifican- dosi in una vita disagiata, sono rimasti a lungo nella piccola città, per prender parte ad esecuzioni che rimarranno indimenticate nella storia del nostro teatro lirico.

Nel minuscolo teatro. La Traviata e Falstaff sono apparse vere, grandi rivelazioni, pure ai molti che avevano assistito alle piià cele- brate esecuzioni dei due spartiti. Una piccola orchestra, di elementi scelti con straordiniaria cura, uno per uno, tra i migliori possibili : un coro piccolo, di cantori eccellenti : scene e costumi perfetti. Per la Traviata, la Bovi, il Garbin, l'Amato; per il Falstaff, Pasquale Amato, protagonista stupendo, per voce, espressione, truccatura, vi- vacità scenica; Linda Gannetti, « Alice » seducente; Lucrezia Bovi, squisita «Nannetta»; Guerrina Fabbri, « Quickly » unica; la Pon- zano, eccellente «Meg»; il Garbin è ancora il « Fenton » ideale che per primo incarnò il personaggio; il Giardini, ottimo «Ford»; il Paltrinieri e il Bettoni, insuperabili nelle parti di « Bardolfo » e « Pistola » : questi gli esecutori impareggiabili.

Già nel 1911 al « Costanzi » di Roma, Arturo Toscanini sembrò rivelare il Falstaff con una interpretazione prodigiosa : ora a Busseto (non pochi esecutori sono gli stessi di Roma) la rivelazione sembra ancor piìi grande e perfetta: la piccolezza del teatro contribuisce a fare ottenere una maggiore squisitezza di particolari, che si fondono con un equilibrio che ha del miracoloso. La udizione di questo ca- polavoro verdiano a Busseto è stato un godimento così grande, com-

ONORANZE A GIUSEPPE VERDI 649

pleto, assoluto, da produrre una vera commozione : e grande e pro- fonda commozione ha destato la Trairata^ che ha rivelato nella Bovi qualità drammatiche veramente superbe; che è sembrata opera tra- sformata e resa piìi profondamente umana ed esuberante di vita, ric<;a di espressioni addirittura insospettate.

Busseto ha dato al Toscanini e al Boito la cittadinanza onoraria : ed ha fatto bene: omaggio doveroso a chi offrì a Giuseppe Verdi una collaborELzione preziosa, tale da contribuire a far rinnovare inti- mamente, profondamente l'arte del vecchio maestro, elevandola, raf- finandola; a chi ha offerto e procurato alla patria del glorioso mae- stro la pili nobile e perfetta e geniale tra le onoranze ch^' per la ce- lebrazione del centenario verdiano siano state immaginate e at- tuate.

Giorgio Barini.

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Voi. CLXVII. Serie V 16 ottobre 1913.

RASSEGNA DRAMMATICA

" Sovrana ,, di " Donna Paola ,,

Se la forma della manifestazione degli spettatori, per la com- media in tre atti di « Donna Paola », Sovrana, rappresentata al teatro « Argentina » dalla « Drammatica Compagnia di Roma » diretta da Ugo Farulli, apparve in qualche momento eccessiva di violenza, poiché la disapprovazione da parte del pubblico deve essere cor- retta: sempre, ma particolarmente poi per i lavoratori della onesta fatica; pure non si deve dire che quel parere contrario di spettatori non fosse legittimo e giusto nella valutazione. Sovrana è un quadro scenico costituito da tutto un intreccio di errori adatti ciascuno a raggiungere resultato negativo. Anche di più e di peggio: tali da compromettere e rendere perfino grottesche discussioni e finalità so- ciali, le quali sono di diritto patrimonio della scena; ma per renderle valide e riuscire all'efficacia non vanno dimenticate le ragioni del- l'arte che si sceglie per la dimostrazione : arte adatta quanto mai se bene intesa, pericolosa come nessun'altra se male intesa.

Al suo quadro scenico che si riassume nel titolo di Sovrana, « Donna Paola» aveva assegnata una tesi: una tesi dei nostri giorni, riguardante il problema della personalità della donna, sottratta alle tradizionali e secolari miserie, elevata a nobilissimo fine, fattore cosciente e possente di sommi benefici sociali. E sta bene: e infatti per riuscire alla sua dimostrazione « Donna Paola » ha avuta la vi- sione giusta. Forse ella ha rifatto un motivo già troppe volte sfrut- tato alla ribalta, con lo speciale caso trovato : sarebbe stato meglio ai fini della tesi trattare la questione più ampiamente, e anche più so- cialmente; la trama, meno in qualche battuta e in qualche partico- lare, ritesse un logoro canovaccio; ma la generosità dell'intento avrebbe potuto anche far assolvere questo che più che un errore è un tempo perso; e la bontà della predicazione pure portando mo- desto contributo alla causa, ne avrebbe riconfermato qualche ele- mento utile per quanto terra terra parecchio.

Voglio dire che mostrare, per i fini della grande tesi, una donna la quale nel dolore della vita ha rinnovata la sua coscienza, e il rin- novamento serve poi unicamente per mettere alla porta un indegno seduttore antico che ritorna assetato di bestialità, e per salvare una cognata, moglie e mamma, che sta per scivolare, non è interessante dal punto di vista del quadro scenico, e a nulla serve per i fini delle diverse e giuste conquiste alle quali la donna ha ogni diritto: il re- pertorio raccoglie già larga messe di questi fatterelli che onorano

RASSEGNA DRAMMATICA 651

se mai il laboratorio teatrale unicamente. valgono le chiacchiere qua e di quella donna a trarla dal laboratorio, vale quel par- ticolare per il quale ella è mostrata compagna in una delle scienti- fiche fatiche del marito. Così come é il quadro scenico di Sovrana quelle chiacchiere restan chiacchiere e il particolare utile in altro caso in Sovrana é fuor di posto e risulta perfino una stonatura.

La visione giusta « Donna Paola » l'aveva avoita nelle intenzioni. Intenzioni di contenuto e intenzioni di esecuzione. Intenzioni di con- tenuto, perché la questione della donna va portata e trattata alla ri- balta, e appunto le donne che possono debbono specialmente discu- terla in tutta la sua ampiezza e profondità; intenzioni di esecuzione, perché appunto occorreva alla dimostrazione della tesi trovare una creatura, « una » non « quella » mandata alla ribalta, nella quale riassumere con il più largo soflBo di vita le finalità della dimostra- zione, mettendola in contrasto con l'ambiente secolarmente tradi- zionale, e con le creature che sono il prodotto di questo ambiente. Ma non sono sufficenti per le ragioni dell'arte, nelle quali son rac- colte poi le sorti della dimostrazione della tesi, le intenzioni sia per il contenuto sia per l'esecuzione. E i tre atti di Sovrana risultano cosi manchevoli per ogni parte: non esclusa quella che riguarda la tesi, poiché non è con quella donna che si può combattere la bella bat- taglia, la battaglia giusta. Ma se quella é la donna che lotta per affermarsi nella civile comunanza quando che sia, tanto vale la- sciare com'è la disgraziata o la stupida che il maschio ora vuole ed onora.

Dall'errore di origine, di avviamento, per il quale é scombusso- lata la precisa visione prima, é scombussolata la feconda intenzione prima, derivano tutti gli altri errori che sono quelli della tecnica. Io non ammetto quella prepotenza sconsigliata e dissennata di giu- dizio per la quale s'impone allo scrittore per il quadro scenico una specie di regolamento, nel quale sono piìi o meno scioccamente quasi elencate le norme della cosiddetta tecnica teatrale. Ogni scrittore, se è scrittore, crea la sua tecnica: ma in questa libertà non va dimen- ticato che alla ribalta occorre mandare creature, e l'azione deve sca- turire dalla vicenda d'anima di queste creature. Ora nei tre atti di <i Donna Paola » manca completamente il senso anche elementare di questo dovere. Innanzi tutto quella gente, tanto per indicarla in qualche modo, chiacchiera non vive : ed é l'errore gravissimo tra i gravi quello di voler affermare una dimostrazione a teatro con il suono delle chiacchiere e non con il movimento di vita: le chiac- chiere infastidiscono prima poi se ne vanno, e la dimostrazione perde il filo e il risultato. Senza contare che la gente che si muove alla ribalta acquista così un solo aspetto, un solo tono, che non sono certo pili tono e aspetto umano.

Ma anche di più e di peggio. Per quelle chiacchiere, per quel difetto di vita, il quadro scenico, quale si voglia, manca di ogni ne- cessaria progressione. E nella vuotaggine, e nella confusione, si cade, trascinati irresistibilmente, perfino nelle ingenuità. Non é possibile ammettere che « Donna Paola » possa far dire a quella gente le bat- tute che pure fa dire : battute per le quali non è necessario essere nati o no all'arte, che nel caso é quella della scena, ma è suflBcente la consuetudine di esprimere semplice e chiaro quello che si pensa senza frasche letterarie. Eppure in Sovrana questo accade. Ed é forse

662 RASSEGNA DRAMMATICA

nel riassumere la somma degli errori che da ogni parte straripano in Sovrana che si è creduto poter consigliare a « Donna Paola » di non tentare più la scena, accontentandosi del suffragio che accom- pagna la sua operosità meritevole lontana dalla scena; ed è così che si è creduto poter consigliare, più benevolmente, a « Donna Paola » di raddrizzare quelle storte scene con i pannicelli dei cosiddetti op- portuni tagli. Vale a dire si crede da alcuni spettatori che togliendo quattro chiacchiere di qui, spostando una scena, colorendo di al- quanto un volto, il quadro scenico potrà acquistare tutto quello che non ha; e da altri spettatori, per la mala prova d'ora, si ritiene si- curo che « Donna Paola » non debba più affrontare il quadro scenico; accontentarsi di essere una spettatrice d'intelletto, e spegnere nel- l'anima qualsiasi speranza di poter richiamare a teatro la folla per la valutazione di una sua nova fatica.

Ed ecco. Io credo sballato l'uno e l'altro consiglio. Quello dei tagli o anche del rimaneggiamento non l'accetti «Donna Paola». rimaneggiamenti tagli : condurrebbero a nulla. Gli errori sono tali che non si tratta di trovar la misura per il taglio, o il punto di vista per il rimaneggiamento : Sovrana è una commedia errata dal fondo alla superfìcie. La scrittrice la ritiri dalla scena: non si faccia tentare dalla lusinga di chiedere il giudizio a un altro pubblico. A che varrebbe? E ottenere atto di cortesia invece di espressione di giu- dizio è miseria che uno scrittore deve sdegnare. Ma « Donna Paola ^ deve respingere ugualmente il consiglio di non ritentare la scena. Perchè? Se ella sa di dover dire qualcosa alla gente dalla ribalta, e vi ritorni. Solo mediti, senza pietà, sulle risultanze di questo primo suo passo. Vagli le manifestazioni degli spettatori, valuti le discus- sioni della critica: tolga alle une l'eccesso nella espressione, veda anche tra le velature di malintesa cortesia delle altre; e soprattutto, poiché può, con critica esatta e severa, dopo la prova, ritrovi da le ragioni per le quali il quadro scenico Sovrana è tutto un errore. Ah se coloro che tentano la scena, in ispecie alle mosse prime, invece di restar fra le quinte quando si rappresenta il loro quadro scenico, autore in palpito nell'angoscia della chiamata e del relativo balletto alla ribalta, si andassero a rincantucciare in teatro, su in galleria, a seguire il quadro scenico che si svolge e le conseguenti impressioni degli spettatori, che lezione feconda e che somma di beni per la sorte della fatica alla quale si senton trascinati e alla quale ambiscon vo- tarsi, ricaverebbero! Ma quella striscia verde sul manifesto : « L'a?/- tore assisterà alla rappresentazione ^ì,... e ^iVonor del proscenio »... Che seduzione... e quale malanno!

E qui non avrei da aggiungere altro, se non trovassi giustizia ri- levare due osservazioni che ritornavano spesso nelle conversazioni tra un atto e l'altro, negli atrii, alla rappresentazione all' « Argen- tina » di Sovrana di «Donna Paola». L'una e l'altra riguardano il palcoscenico: ma una si rivolge agli attori, l'altra si rivolge alla di- rezione.

Agli attori. Si é ripetuta la consueta frase di casi simili : « La commedia é quella che é, ma gli attori non hanno recitato come do- vevano». Bisogna che gli spettatori perdano l'abitudine di queste senterize. Per interpretare e quindi eseguire, per recitare insomma, occorre che l'attore abbia per lo meno una traccia. Dare vita all'ine- sistente non è possibile. Nessuno più di me vuole che l'attore compia

RASSEGNA DRAMMATICA 653

preciso il suo dovere in quadro scenico : ma non debbono mancare all'attore almeno le elementari linee di questo dovere. Tanto più che in tali casi, penosi, l'attore non solo deve cercare di dar una qual- siasi parvenza a quello che non c'è, ma è costretto alla catena delle parole che l'autore gli suggerisce : se non le dice l'autore natural- mente gli rimprovera l'inesattezza: e quando si scatena dalla platea la tempesta, si pensi un po' allo stato d'animo di un attore che si trova ai lumi della ribalta. Con Sovrana poi, sventuratamente, non era il caso dell'attore che ha coscienza d'interpretare e animare qualche cosa che pur richiamando il contrasto dalla platea è qualche cosa. L'attore con il maggior buon volere doveva essere certo che quell'uscita quella battuta avrebbe provocato, grosso errore qual'era, la spontanea disapprovazione dalla sala. Sono ben altri i casi nei quali l'attore deve lottare; in quello di Sovrana pur troppo si sa di «andare al macello», come si dice in palcoscenico; e si va rasse- gnati. Son fatti che chi è chiamato a giudicare deve prima di tutto saper vedere e poi saper valutare, per la giustizia. Per la giustizia : se si vuole condurre il palcoscenico, saviamente, all'intendimento severo del dovere di interprete degli elementi che costituiscono un quadro scenico.

Alla direzione. « Cx)me si fa ad accettare tre atti così!... » Altra frase di prammatica. Non sono certo avaro di rimproveri io alle di- rezioni, nella fede del maggior bene dell'arte. Ma occorre anche por- tare nella affermazione il più geloso senso della giustizia : altrimenti si dicono delle sciocchezze, e inasprendo gli animi di coloro cui tocca l'errato giudizio si rende poi vano ogni fecondo sano consiglio. La direzione di un teatro come quello dell' «Argentina», ora, si trova costretta, pur dicendo la sua ragione, pur mostrando il pericolo, ad accettare e mettere in iscena anche un quadro scenico di quelli che come Sovrana sarebbe bene non mandare alla ribalta, per tutti. Il pubblico fa bene a disapprovare : con meno violenza sarebbe anche meglio. La protesta della platea è salutare, ma non si può far risa- lire il rimprovero della scelta alla direzione. Tanto più che nelle con- dizioni quali quelle dell' «Argentina », ora, l'accortezza o la saviezza d'una direzione si trova in contrasto, spesso, con desideri e preghiere che derivano da « non pratici » nella guida di un teatro qualsiasi, non pratici e alla lor volta infastiditi da preghiere e desideri ugual- mente. A questo si aggiunga: se a un autore..., no restiamo nel caso, se a « Donna Paola « si fossero dimostrati dalla direzione, con ogni rispetto per la operosità della scrittrice, gli errori di quei tre atti, consigliando di non volere la rappresentazione perchè...; credete che « Donna Paola » avrebbe gradito ed accolto il consiglio? Ma che! E il male è che si sarebbe anche biasimata, e biasimata non in con- versazione ma in « corpo otto » e in « corpo nove », la testardaggine della direzione. So bene : vi sono lavoratori che per le risultanze della loro fatica quotidiana hanno conquistato il diritto di chiedere diretto il giudizio del. pubblico. Ma vi sono anche di quelle volte, e questa era delle serie, nelle quali il lavoratore che ha con la sua fatica eccetera, conquistato eccetera, precipita in un errore le cui conseguenze possono essergli risparmiate. E la mancanza di riguardo risiede appunto nel concorrere a volere che una direzione perda con i suoi attori tempo e fatica, e chini il capo al vuoisi così!

Edoardo Boutet.

TRA LIBRI E RIVISTE

Esperimenti di cotonicoltura in Sicilia Mattia Preti Antiche chiese romane Il secondo centenario di Diderot I proventi del Lotto Una nuova applicazione dell' elettricità J.-P. Proudhon e la rivoluzione del '48 Una ferrovia sul mare Contro le mosche.

Esperimenti di cotonicoltura in Sicilia.

Ci occupammo già in queste stesse colonne (i6 decembre 1912) degli espe- rimenti di cotonicoltura in Sicilia a proposito di una Relazione del dottor Calcedonio Tropea, del R. Orto Bota- nico di Palermo, pubblicata nel Bol- lettino del Ministero d' Agricoltura. Ora nello stesso Bollettino leggiamo alcune importanti considerazioni del professor Borzì degne d'essere conosciute.

Egli comincia col rilevare che se la cotonicoltura potè essere trascurata per molti anni nell'Isola, ora^ per una tri- ste necessità deve essere ripresa, in- tensificata e condotta con metodi ra- zionali. La coltivazione della fava che per tanto tempo ha costituito in Sicilia una delle più importanti piantagioni, giovando immensamente alle condizioni meccaniche e chimiche del terreno, oggi non è più possibile, e sarà de- stinata a sparire se la scienza non la libera da un tristissimo parassita, VO- robanche speciosa che ne distrugge il raccolto.

Il danno è grave, sì, ma può essere evitato sostituendo, ove è possibile, alla coltura della fava, quella del co- tone, che mentre lascia quasi intatte le energie fertilizzanti, coi lavori e con le numerose sarchiature che esige, pre- para il suolo a un più abbondante rac-

colto di frumento. Di più, la cotoni- coltura, se estesa, recherà certo altri vantaggi non meno notevoli. Da essa si potrà ritrarre tra l'altro un sostituto dei foraggi estivi, la cui penuria nel- l'Isola rende difficile l'allevamento del bestiame, fa scarseggiare i prodotti del latte, e priva le campagne di uno stallatico, che è migliore di ogni con- cime artificiale.

«Un confronto fra le campagne della Toscana e quelle della Sicilia mette subito in evidenza una circostanza del maggiore interesse : mentre noi abbia- mo chilometri quadrati^ nei quali mai una vacca ha posto piede, in Toscana la media dei capi di bestiame è di circa due per ogni ettaro di terra, con quale vantaggio dell'agricoltura è facile im- maginare ».

Il R. Giardino botanico e coloniale di Palermo, del quale il Borzì è di- rettore, fa un assiduo lavoro di pro- paganda per incoraggiare il contadino siciliano alla coltivazione del cotone.

Quest'anno si fecero degli esperi- menti per trovare la concimazione più adatta ai cotoni di varie specie.

« Gli studi sugli effetti dei varii con- cimi — scrive il" Borzì furono ese- guiti tutti nei terreni di questo Giardino senza darne conoscenza ai privati. A questo sono stato indotto dal principio di non affidare nelle mani dell'agricol- tore che cose già sapute, onde egli non

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perda nel lungo sperimentare e nella incertezza del risultato quell'entusia- smo, che è necessario di risvegliare in ogni modo, cosa che si ottiene con sicure dimostrazioni. La stessa natura del terreno del Giardino favorisce tali esperimenti e studi, giacché esso rap- presenta per impasto, composizione chimica e meccanica, la media dei ter- reni siciliani adatti alla coltivazione del cotone ».

Nello stesso tempo però venne molto opportunamente proseguita la propa- ganda, già iniziata l'anno avanti. Per studiare l'azione dei concimi, il terreno fu .diviso in vari lotti, contraddistinti ciascuno da ura etichetta. La lavora- zione del terreno si fece in gennaio : le concimazioni in diverse epoche, a secon- da della qualità del concime. Le razze di cotone esperimentate furono tredici.

Quale fu l'influenza dei concimi sulla vegetazione ? Il Borzì si occupa sol- tanto dei concimi fondamentali, che divide in tre gruppi ; concimi azotati, concimi fosfatici, concimi potassici. I primi, i concimi azotati, appaiono a prima vista i migliori ; essi promuo- vono la vegetazione in modo notevole: ma se si considera che la cotonicol- tura ha lo scopo di produrre special- mente bambagia e non fogliame, si resta delusi sugli effetti della concima- zione azotata, giacché la produttività è soltanto apparente. « Ciò é dovuto ad un ritardo nella maturazione delle capsule, per cui buona parte del pro- dotto si viene a trovare ancora sulle piante quando sono cominciate le piog- gie invernali e quindi va soggetto a deterioramenti, che rendono inutile il prodotto, sia perchè danneggiato dalle acque piovane, sia perché non maturo e quindi di difficile raccolta e di nes- sun pregio. Il cotone immaturo di fatto si rompe fra le dita con la maggiore facilità, e quindi non può essere sotto- posto alla sgranatura, se non ci si con- tenta di vedere il prodotto trasformato in una poltiglia, nella quale non si tro- verebbero che tracce di quei fili, che tanto maggior valore hanno quanto più lunghi essi sono ».

In complesso questi concimi aumen- tano la vegetazione e diminuiscono la precocità di maturazione del prodotto.

Molto migliori sono i concimi fosfa- tici e azotati. « Aumentano la preco- cità ed accrescono il peso delle fibre. Trascurabile è l' influenza di questi concimi sulla vegetazione erbacea in confronto a quelli azotati. Le piante mostrano uno sviluppo regolare, senza esquilibri fra l'altezza e la lunghezza dei rami laterali. Le capsule maturano completamente e si aprono con mag- giore facilità, in modo che la raccolta diviene più facile, per una più com- pleta maturazione del prodotto. Tali caratteristiche si notano maggiormente nei tratti di terreno concimato con per- fosfato, i quali hanno dato il maggior peso in fibre...

u La influenza sulle proprietà tecni- che delle fibre si dimostra assai favo- revole, specialmente se si facciano confronti con cotoni ottenuti su conci- mazioni a base di azoto ».

Circa l'azione delle singole concima- zioni sulle proprietà tecniche delle fibre nelle varie razze sperimentate, il Borzì é giunto a conclusioni assai istruttive nei riguardi della concimazione del cotone, giacché pare evidente un in- timo rapporto, fra la precocità, la produttività e la qualità delle fibre, tale però che esse agiscono in fun- zione inversa una dall'altra. Di fatto le piante precoci danno raccolto inferiore per peso e per qualità, mentre quelle tardive eccellono per detti caratteri.

« Su questi tre importantissimi coef- ficienti, dai quali esclusivamente dipen- de la riuscita di una cultura di cotoni, influiscono molti fattori : la natura del terreno e del clima, la distribuzione delle piogge, la intensità luminosa, la scelta delle razze, la concimazione, l'e- poca della cimatura. Ora appunto dal- l'azione di questi fattori, i quali in parte dipendono dall'uomo e quindi sono su- scettibili di modificazioni, dipende la possibilità di modificare cotoni accli- matati o di acclimatare cotoni migliori, accrescendone il prodotto per quantità e pregio.

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TRA LIBRI E RIVISTE

u Tale deve essere l'arte del cotoni- cultore, epperò l'aver dimostrato quale effetto abbia uno di tali fattori, quale la concimazione, è stata opera utile ai fini di una razionale cotonicultura, giac- ché i risultati di tali esperimenti ci mettono in grado di indicare quali siano le norme opportune per la scelta del concime.

u Interessa assai far con oscere che

esso non sia accompagnato da una pra- tica cognizione delle idee acquistate ». Riguardo alle varietà del cotone, sulle quali il Giardino Coloniale sta facendo esperienze, il Borzi vorrebbe esporre : risultati degli studi fatti su- gli ibridi, studi già iniziati da quattro anni, ma crede sia meglio aspettare ancora un poco, perchè gli ibridi del cotone benché si ottengano molto fa-

Colture sperimentali di cotone nel R. Giardino Coloniale di Palermo.

la maggior parte dei lavori agricoli nel campi sperinieatali di cotone sono stati eseguiti dagli allievi del corso pratico trimestrale di culture coloniali, tenutosi presso questo Giardino nello scorso anno. La assistenza di questi allievi, oltre al vantaggio di dar loro una pra- tica idea del modo di sperimentare, è stata giovevole per una immediata pro- paganda dei risultati ottenuti, propa- ganda assai proficua, poiché essa vien fatta da persone, che per coltura e po- sizione sociale non è sospetta di fronte alla massa degli agricoltori, per i quali non sempre giova il sapere, quando

cilmenle, tendono peiò, sembra, a de- generare, se non si sorvegliano accu- ratamente.

u Mi sembra intanto necessario di rivolgere l'attenzione sugli studi fatti da questo Giardino, il quale in pochi anni ha affrontato tutti i problemi di una razionale cotonicultura, non solo, ma è pure riuscito a dare a tali espe- rimenti una estensione, coi campi isti- tuiti presso privati, che non sarebbe stato sufficiente raggiungere coi mezzi di cui dispone questo Istituto.

Il Borzì conclude che sarebbe neces- sario poter diffondere maggiormente i

Sistemazione del terreno per esperimenti di concimazit

Soldati-contadini del Corso di culture coloniali, che attendono al diradamento del cotone.

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TRA LIBRI E RIVISTE

risultati delle esperienze fatte, colla istituzione dei campi dimostrativi per- manenti, da distribuire nei varii centri dell'Isola, dove non si ebbe mai a coltivare cotone, sebbene le condizioni di terreno e di clima rendessero pos- sibilissima tale coltivazione. Ma per simile lavoro di propaganda non sono più sufficienti i mezzi, che il Giardino ha avuto a disposizione dal Ministero dell'Agricoltura. Questi risultati sono tali da indurlo ad aiutare la diffusione di questa coltivazione, dalla quale l'agricoltore siciliano deve attendersi un sollievo per le tristi condizioni, in cui verrà a trovarsi in un domani non molto lontano.

Mattia Preti.

A Catanzaro il 5 ottobre s' è inau- gurata solennemente la Mostra comme- morativa del III centenario del grande pittore calabrese Mattia Preti.

Il Preti nacque a Taverna presso Catanzaro nel 1613. Suo fratello Grego- rio era pittore già noto. Giovane Mattia venne a Roma, ove studiò la maniera del Lanfranco, del Guercino e del Ca- ravaggio : di poi andò in Lombar- dia, nel Veneto e all' estero, in Ger- mania e in Fiandra ove conobbe Ru- bens. Tornato a Roma a 26 anni co- minciò a dipingere per il Pontefice e per le case patrizie. Spirito avventu- roso, abile a trattar la spada come il pennello, insignito del cavalierato di Cappa e Spada e poi dell' Ordine di Malta, fu designato col nomignolo di « Cavaliere Calabrese ».

Eseguì affreschi e tele in molte parti d'Italia, nelle chiese di Modena, di Pi- stoia, di Bologna, a Roma (Sant'Andrea della Valle), a Napoli, a Malta: sue tele sono nelle gallerie di Parigi, di Orléans e di Chantilly, di Vienna, di Bruxelles, di Madrid, di Monaco.

Il progetto di una esposizione, per iniziativa del Circolo di Cultura di Catanzaro, fu accolto con incoraggia- menti ed aiuti dall'Italia e dall'estero, e la mostra contiene infatti un numero considerevole di quadri in gran parte

poco noti e di riproduzioni fotografi- che mandate dalle più famose gallerie pubbliche e private.

Il discorso inaugurale fu tenuto dal- l'on. Bruno Chimirri che parlò dell'ar- tista e delle vicende che subirono le sue opere presso la critica, poi tracciò la figura dell' uomo. Le sem- bianze fisiche egli disse ci sono presenti nell' autoritratto da lui ese- guito nel quadro di S. Giovanni che adorna la cappella gentilizia del suo paese natio. Alto e ben disposto della persona, mostra nell'aspetto fiero e di- gnitoso e nella vivacità dello sguardo la prontezza dell'ingegno e l'energia del carattere.

Una corrispondenza inedita di lui con un altro insigne calabrese D. An- tonio Rufì'o principe della Scaletta, che va dal 1660 al 1671 non solo contiene notizie interessanti sull'opera di Mattia Preti in quel decennio, ma rivela le rare qualità dell'animo suo, onesto fino allo scrupolo^ disinteressato, ricono- scente, alieno dalle invidie e dalle ge- losie che spingevano i pittori contem- poranei a farsi guerra sleale e spie- tata. Fidandosi alla sua probità e al suo giudizio il Ruffo gli dava spesso commissioni per acquisto di quadri, onde arricchire la sua galleria di Mes- sina, la più cospicua che fosse allora in Sicilia. Da una lettera del 17 di- cembre 1661 si apprende che per soli cento scudi acquistò due pregevoli di- pinti del Tiziano, e per venti scudi una Madonna di Paolo Veronese. Ri- sultano pure l'invito fattogli dal Ruffo e le trattative corse per dipingere la Chiesa maggiore di Messina, e curiosi particolari sul modo come si solevano pagare simili dipinti, cioè tanto per figura. 11 Tesoro di Napoli, ad esem- pio, dava al Domenichino 130 ducati per figura, al Lanfranco ne dava 100, e questo prezzo richiedeva per Mattia Preti ai Magistrati messinesi, che lo trovarono eccessivo. Le lettere del settembre 1661 al febbraio 1665 si riferiscono ai lavori fatti da Mattia Preti per la Chiesa di S. Giovanni dei Cavalieri, in Malta, che fu 1' opera di

TRA LIBRI E RIVISTE

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maggior lena da lui eseguita, un vero poema architettonico e pittorico, una stupenda glorificazione dell'Ordine, as- sai lodata e scarsamente retribuita. La lettera del 27 febbraio 1665 ci fornisce la prova più lampante della bontà del Cavaliere Calabrese che eccitava il RuflFo a commettere un quadro al Cairo, mentre Egli stesso aveva bisogno di lavoro e la sua equanimità nel giudi- care il merito dei suoi contemporanei. Apprezzava Ciro Ferri e Carlo Ma- ratta che seguivano la maniera di Pie- tro da Cortona e di Andrea Sacchi, ma senza raggiungere i maestri da loro imitati ; invece giudica valentissimo Salvator Rosa, perchè originale nella sua maniera, e poneva a! di sopra dei tre Giacinto Branti, cui la morte pre- coce tolse di conseguire fama e for- tuna pari al valore.

Il Cavaliere Calabrese non solo fu immune da invidia e poco avido di danaro, ma la'maggior parte della fortu- na accumulata distribuì generosamente ai poveri, come attesta il suo epigra- fista.

Il Chimirri avverte che « la presente esposizione non dev'essere un omaggio passeggiero, ma il nucleo di una gal- leria permanente che perenni in mezzo a noi e di fronte al mondo artistico la fama di questo atleta della pittura secentesca ». L' idea è ottima. Ma ci sembra che la galleria potrebbe far parte del museo locale per arricchirlo sempre più e allo scopo di non di- strarre in diversi luoghi l' attenzione dei visitatori della simpatica città ca- labrese.

Antiche chiese romane.

Angelo Silvagni sta da tempo pre- parando una « Raccolta delle iscrizioni medioevali di Roma » che riuscirà senza dubbio di inestimabile utilità per la conoscenza di quel rnedioevo ro- mano, che ha periodi così suggestivi e cosi misteriosi. Frattanto, per mo- strare praticamente il contributo che tale raccolta epigrafica potrà recare tra l'altro alla storia delle chiese romane,

che è da rifare quasi di nuovo, pub- blica, sotto gli auspici della R. Società Romana di storia patria e dedicandolo a Donna Rosalia Boncompagni Ludo- visi, un pregevole saggio su La basi- lica di san Martino ai Monti, l'oratorio di san Silvestro e il Titolo costantiniano di Equizio. La pubblicazione merita l'attenzione di quanti s'interessano alle memorie sacre di Roma. Essa infatti forma definitiva a quanto storica- mente ed artisticamente esatto era stato scritto intorno al gruppo di edifici sorti lentamente sull' antico « pendio » di Equizio; corregge parecchie opinioni proposte intorno ad essi ; ne raccoglie e riproduce con rigore scientifico gli avanzi epigrafici.il Silvagni illustra con singolare diligenza la cripta e 1 monu- menti superstiti ad essa aderenti: in essi riconosce con argomenti inoppu- gnabili i residui della ricca casa ro- mana del III secolo dopo Cristo, in cui venne formandosi, al tempo ancora delle persecuzioni, una di quelle chiese domestiche, dalle quali sorsero più tardi i titoli ecclesiastici. Il titolo di Equizio però non subì l' evoluzione normale dei titoli romani, i quali sono passati attraverso questi tre periodi : il primo è costituito dal loro stato pri- vato di chiese domestiche e si svolge nel tempo delle persecuzioni; il se- condo è segnato dalla erezione uffi- ciale di esse a titoli, poco prima o dopo la pace della Chiesa del 313; l'ultimo periodo, preceduto talora dal cambiamento di denominazione, si ini- zia tra il V e il IX secolo con la ri- costruzione delle basiliche titolari a livello più alto, ma non fuori del pe- rimetro antico. 11 titolo di Equizio non ha sopra di quella basilica che può chiamarsi del terzo periodo, ma in questo consiste appunto la sua singo- larità,«della quale il Silvagni una spiegazione esauriente. L'antica chiesa domestica, stabilita nella casa di Equi- zio, più presto di altri titoli si trovò in stato di grave deperimento per la sua posizione a piano terreno e sul declivio dell' Oppio. Ma nel piano su- periore, elevata sulle rovine, esisteva

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TRA LIBRI E RIVISTE

Una chiesa dedicata a san Silvestro, le cui tracce si possono seguire fino dal secolo V, ed essa, come impedì la ricostruzione del titolo, così per le sacre memorie del papa Silvestro, che aveva con quello a comune, fu degna di succedergli, e l'antico titolo di Equi- zio, consacrato dai pii ricordi e dalla leggenda, rimase come una cripta o confessione del nuovo titolo di san Silvestro e si conservò venerato anche quando, tre secoli e mezzo dopo, a metà del secolo IX, la dignità titolare passava nella contigua basilica, rico- struita dalla munificenza di Sergio II. Il saggio del Silvagni, che illustra compiutamente la veneranda basilica che si leva come un lembo di medio evo suir ampia via Lanza moderna, merita di essere salutato con vivo com- piacimento, anche come lieta promessa delle ulteriori descrizioni storiche delle chiese romane, che l'A. può darci, at- tingendo dal ricco materiale epigrafico ch'egli va da anni raccogliendo.

I proventi del Lotto.

Diventar ricchi o agiati senza al- cuna fatica, arrischiando soltanto po- chi soldi in una lotteria o alla tom- bola o al giuoco del lotto, è un ideale che solletica molti, ma appunto perchè ideale rarissime volte esce dalla sfera del sogno e si concreta in realtà. Chi arricchisce davvero sono gli ap- paltatori nonché gli inventori di ca- bale, ma essi non si affidano al caso, che è cieco, bensì alla dabbenaggine, che è cosa ben più certa, di chi giuoca.

Qui vogliamo parlare del lotto, questa poco civile eredità di passati governi.

che allo Stato ancora un provento considerevole. Spigoliamo nella Rela- zione dell'anno 1911-1912.

« Nell'esercizio finanziario 1911-912, informa il relatore, le entrate del lotto, per proventi del giuoco, ammontarono a lire 106,924,842.36 ». E' una cifra considerevole; non e vero? Eppure è inferiore a quella dell'esercizio prece- dente che fu di lire 106,963,405.22. E poi « se si considera, seguita la Rela zione, che nell'esercizio in esame le estrazioni furono 53 di fronte alle 52 del precedente, è chiaro come la riscossione, a parità di estrazioni, sia stata effettivamente minore per circa due milioni ».

C'è tuttavia da consolarsi che « il profitto immediato (differenza fra le riscossioni e le vincite), sorpassò di ben 7 milioni e mezzo quello prece- dente, raggiungendo la cospicua cifra di lire 53,097,505.55 mai conseguitasi pel passato ». Da che dipese questa così notevole superiorità di profitto ? Dal numero delle vincite che nell'eser- cizio 1910-911 furono di 61,331,480.85, mentre in quello in esame ascesero soltanto a lire 53,827,336.81.

Riportiamo a pie di pagina una piccola tabella ove sono indicate le riscossioni, le vincite, gli utili.

Lo Stato dunque ha riscosso li- re 106,924,842.36. Aggiungiamo a que- sta cifra la somma dei proventi even tuali e contravvenzionali che fu di lire 138,716.98 e avremo un totale di lire 107,063,559.34. Quale è stato l'in- casso netto? Le vincite, come lo spec- chietto indica, ammontarono a li ^e 53,827.336.81, che insieme alle altre spese (aggi di riscossione, stipendi al

SORTI

Riscossioni

Vincite

Utile imnifdiato effettivo

Estratto semplice

,, determinato .Ambo

303,874.26

1,163,634.86

53,842,043.84

90,457 09

456,188.82

36,226.170.98

16,697,036.68

357,483.24

213,417.17

707,446.04

17,615,872.86

Terno

Quaterna ....

46,686,376.72 4,928,912.68

29,989,340.04 4,571,429.44

Totale

106,924,842,36

53,827,336.81

53,097,505.55

TRA LIBRI E RIVISTE

661

personale, ecc.) danno un totale di li- re 62,067,784.58. Si sottragga questa cifra dall' incasso lordo di 107,063,559 e cent. 34 e si vedrà che l'utile netto fu di lire 44,995,774.76. Questa cifra che il relatore dice ragguardevoliseima, non si era raggiunta mai, e la più cospicua fu quella dell'esercizio 1906- 907 in cui ascese a 39,449, 214.53.

Molto importante è una tabella ove sono registrate le riscossioni e le vin- cite che mensilmente si verificarono in ciascun compartimento. Da essa si desume che lo Stato incassa con il solo compartimento o ruota di Napoli lire 36,886.623,12, " una somma cioè superiore al terzo delle riscossioni del Regno, verso una spesa per vin- cite di lire 22,916.915.42, rappresen- tanti poco più di due quinti delle vin- cite di tutti i compartimenti riuniti n.

Dopo Napoli, vengono in ordine de- crescente di riscossioni i comparti- menti dì:

Rscossione Vincite

Torino, L. 14,885,469.22 L. 6,427,523.03

Palermo 13,361,301.66 5,841,852.13

Roma 9,852,074.06 4,363,852.46

Firenze 8,892,166.30 3,904,430.22

Milano 8,116.634.38 3,689,500.65

Bari 7,520,447.28 3,475,697.99

Venezia ., 7,410,126.34 3,207,564.91

Una semplice occhiata basta a ri- levare l'enorme superiorità delle ri- scossioni sulle vincite.

Quale è stato il contributo delle va- rie Provincie in questo esercizio? Di poco si scosta da quello del 1910-911. Si ebbe diminuzione nel Piemonte, nel- la Liguria, nel Veneto, nelle Marche, nel Lazio, nella Campania e Calabria; aumento nella provincia di Napoli, nella Sicilia, nelle Puglie, in Milano, Toscana, Emilia. Portarono un aumen- . to di contributo con somma superiore alle centomila lire: Napoli con li- re 464,787.66 (sul precedente incasso di Ure 26,916,374.82); Catania con 206,197.56; Palermo con 156,590.12;

Messina con 155,002.26; Bari con 139,184.06; Milano con 124,640.04.

11 contributo medio per abitante in ciascuna provincia appare dal seguente specchietto :

Più di L.

5

Siracusa

1.39

Napoli

20.21

Como

1.28

Livorno

9.21

Modena

1.22

Porto Maurizio

> 7.%

Mantova

1.21

Palermo

7.36

Parma

1.20

Genova

6.24

Treviso

1.20

Salerno

5.88

Ravenna

1.19

Venezia

5.80

Vicenza

1.17

Roma

5.70

Piacenza

1.15

Caserta

5.18

Massa Carrara

1.14

Da L. 4 a Torino

.

Alessandria

1.13

0

4.06

Catanzaro

1.12

Siena

1.10

Da L. 3 a

4

Reggio Emilia

1.08

Lecce

3.41

Reggio Calabr.

1.05

Girgenti

3.02

Aquila

1.01

Da L. 2 a

3

Campobasso

1.01

Firenze

2.98

Novara

1.01

Trapani

2.93

Meno di L.

/

Milano

2.91

Chieti

0.99

Benevento

2.89

Bergamo

0.96

Catania

2.85

Teramo

0.93

Bari

2.80

Udine

0.91

Foggia

2.54

Arezzo

0.85

Avellino

2.33

Cuneo

0.85

Messina

2.20

Brescia

0.82

Ancona

2.17

Cremona

0.80

Bologna

2.13

Perugia

0.76

Pisa

2.02

Cosenza

0.70

Da L.\ a

2

Pavia

0.65

Verona

1.74

Ascoli

0.63

Caltanissetta

1.64

Grosseto

0.59

Padova

1.57

Macerata

0.59

Lucca

1.52

Potenza

0.58

Ferrara

1.49

Pesaro e Urbino 0.56

Rovigo

1.48

Belluno

0.39

Forlì

1.40

Sondrio

0.27

Come si vede, Napoli tiene il primo posto con una media di contributo d lire 20.21 per individuo, e Sondrio l'ul- timo con 27 centesimi. Le riscossioni della provincia di Napoli ascesero in- fatti in quest'esercizio 1911-12 a ben 27,381,162.48 ! E' una cifra enorme che, per quanto si tenga conto del numero degli abitanti, non trova ri- scontro in nessuna altra provincia. Solo la provincia di Roma è quella che le sta meno lontana, con la cifra di 7,397,085. Una differenza di venti mi-

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lioni ! E le vincite a quanto ascesero*? a 17,429,917.24. Facendo la differenza fra queste e le riscossioni, si ricava che lo Stato ha avuto un utile imme- diato effettivo dalla sola provincia di NapoU nell'esercizio 1911-912 di li- re 9,951,245.24.

Il generale Michele Martinelli dichia- rava, conchiudendo un suo articolo su questa rivista [Napoli soffoca! Risa- namento e ampliamento^ i^giugno 1912) che il lotto ha impoverito Napoli, e proponeva che gli immorali proventi non entrassero più nelle casse dello Stato, ma si restituissero indiretta- mente a coloro da cui vennero presi, dedicandoli al risanamento e all'am- pliamento della città.

u In tal modo Napoli potrebbe fare assegnamento su sei milioni ali' in- circa, che capitalizzati con mite inte- resse rappresenterebbero una som- ma di 2Ò0 milioni... Così, come ben si vede, null'altro allo Stato si richiede, che un'opera di perequazione e di ci- viltà; null'altro si chiede ai fratelli ita- liani fuorché di non giovarsi più oltre di un provento tratto all'anemica Na- poh, che per la stessa sua anemia non è ancora capace di vincere la super- stizione e resistere alle false illusioni ».

La proposta del Martinelli cadde ne! vuoto; ma si dovrebbe riprendere in considerazione almeno dai candidati che ora domandano il suffragio dei napoletani !

Il secondo centenario di Diderot.

Denis Diderot è nato il 5 ottobre 17 13. Eccoci dunque all'anno del suo secon- do centenario, che la stampa non ha lasciato passare inosservato. Filosofo tra i precursori della Rivoluzione, gli uni o hanno ricordato per biasimarlo, gli altri per portarlo alle stelle. Non è avvenuto lo stesso recentemente ad uno più illustre di lui, a Gian Giaco- mo Rousseau ? Noi ci contenteremo di riassumere un articolo di Wilhelm Haape, dai Grenzboten : se non ha nulla di nuovo e di importante, è però serio e sereno.

Figlio di un coltellinaio di Langres, Dionigi Diderot mostrò fin da giovinet- to grande amore allo studio e gran de- siderio di libertà. Aveva uno zio ca- nonico, e questi lo fece entrare in un collegio di gesuiti a Parigi. A dodici anni ricevette la tonsura. Curioso : nonostante la gua avidità di sapere, sentiva per la teologia una ripugnanza invincibile. Nemmeno con la scuola di diritto, che frequentò per due anni, prò mai simpatie, e alla domanda che cosa volesse diventare, rispose, un gior- no, chiaro e tondo : nulla.

Sì, nota lo scrittore, egli è stato « nulla n in quanto che non ebbe una vocazione determinata ; ma è stato « tutto n nel senso che non vi fu ramo dello scibile che non avesse esplorato e approfondito. E fu infatti un enci- clopedista.

A Parigi compie gli studi, ma insof- ferente di disciplina, il padre gli nega i mezzi per vivere. Egli non si sco- raggia e lezioni di matematica. Un giorno poco mancò che non morisse d'inanizione. Per guadagnare, scrisse perfino delle prediche. Per un lungo periodo aspirò a divenire attore, e l'arte teatrale fu una delle sue più grandi passioni.

Verso i trent'anni sposò, contro la volontà del padre, una giovane bella e virtuosa, ma povera. 11 dovere di sostentar la famiglia lo fece scrittore. Cominciò con traduzioni dall' inglese. L'Inghilterra esercitava allora con la scienza, la letteratura, la politica, una considerevole influenza sulla coltura francese. In filosofia si cominciavano a seguire, invece di Descartes, i mae- stri inglesi, come Bacone, Locke, Hob- bes. Diderot rielaborò l'opera del conte di Shaftesbury sul Merito e la virtù. Shaftesbury è teista : crede a un es- sere supremo, alla virtù come condi- zione di felicità ; approva inoltre l'e- goismo, che si subordina al benessere generale. Con questo lavoro Diderot iniziò la sua carriera di filosofo.

Il secolo decimo ottavo è stato chia- mato in Francia il secolo della filoso- fia. A dir la verità era, quella, meno

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una filosofia, che si studiasse d' inda- gare « questo enorme mister dell'uni- verso », che un'acuta critica delle do- minanti opinioni religiose e morali e di certe istituzioni nello Stato e nella Chiesa. Per la preferenza e l'abilità con cui trattava le questioni filosofiche, Diderot era chiamato dagli amici « il filosofo ", ed egli stesso compiacevasi di tal titolo. Già nel 1746 le sue Peu- <res philosophtques gli avevano acqui- state grande faina. Quest'opera è volta contro il miracolo, la superstizione e il fanatismo religioso. Negli scritti po- steriori la rompe definitivamente con la rivelazione e proclama la religione della natura.

Coteste idee sollevarono nelle classi privilegiate viva indignazione. Poco dopo Diderot pubblicava la Lettre sur les aveugles che gli fruttò tre mesi di prigione alle carceri di Vincennes. Fu condannato senza processo, ma non c'è da stupire se si pensa alle condi- zioni della Francia di quei tempi. Do- minava una società morente sì, ma prepotente e che per tenersi in piedi ricorreva a qualsiasi mezzo. Erano presi sopratutto di mira i novatori e i filosofi che avevano amici anche tra il popolo. Diderot s'accorge che occorre una grande prudenza; perciò parecchie delle sue opere o non le pubblica o le pubblica all'estero ; buona parte ap- parvero molto tempo dopo la sua morte.

La filosofia di Diderot s' inspirava al materialismo e all'ateismo ; gli ulti- mi scritti, come i Colloqui con D'Alem- bert non lasciano più dubbio su ciò. Ma dal materialismo egli non trae le conseguenze di Helvetius e di La Met- trie che nell'appetito sensuale ripon- gono il fondamento di ogni morale. Diderot in fatto di morale è idealista. Egli proclama il vero, il bello e il buono, che dichiara necessari per la virtù, per la sconfitta dell'egoismo. « La nature nous a faits pour la vertu ». E dice apertamente che il La Mettrie è « apo- logiste du vice et détracteur de la vertu ».

Ma la maggiore gloria del Diderot è VEnciclo/yedia, che ebbe gran parte nella storia del secolo decimo ottavo. Il filosofo aveva cominciato a tradurre per l'editore Briasson V Enciclopedia inglese di Chambers, in due volumi in foglio, quando ebbe l'idea di compilare un'Enciclopedia francese, ma secondo un piano filosofico e con un criterio assai diversi. Essa doveva contenere tutto lo scibile del tempo tanto dal lato teoretico come da quello pratico. Trovò efficaci collaboratori in D'Alembert, Rousseau, Voltaire, Buffon, Jacourt, Montesquieu ed altri uomini di valore. Gli editori Briasson, Lebreton, Voland formarono una specie di consorzio. La prefazione à€iV Enciclopedia fu scritta da D'Alembert, la quale fin dal primo volume (i 751) ebbe un'accoglienza fe- stosissima. Fu salutata con gioia, come un avvenimento nazionale. Eiderot ne era come il redattore capo, e qualche volta il lavoro ricadde tutto su di lui. Vi collaborò per più di vent'anni gua- dagnando complessivamente 76.500 lire. Quanto egli abbia dovuto faticare, lo dimostrano il numero degli articoli scritti da lui. Si occupò di tutto : di storia delle religioni, di filosofia, di di- ritto pubblico, di politica, di economia rurale, di economia nazionale, di gram matica, di poetica, di retorica, di arti applicate. Era un'impresa nuova e ori- ginale. « Non mai forse si son trovate tante difficoltà e così pochi mezzi per vincerle », dice lo stesso Diderot. Il quale visitava le officine, s'intratteneva con gli operai, esaminava i lavori e le macchine per descriverle o farle de- scrivere poi ntW Enciclopedia. Il lavoro manuale doveva assurgere allo stesso Onore delle altre attività umane.

La pubblicazione di quest'opera durò dal 1751 al 1772. Tale fu la simpatia con cui il pubblico l'accolse che trovò quattromila trecento abbonati. Chi gua- dagnò furono i Hbrai, che incassarono più di 4 milioni.

Il punto di vista dell'enciclopedia è teistico, ma apparentemente, poiché sotto sotto vi si propugna libertà as-

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soluta da ogni vincolo di pensiero re- ligioso. Egual battaglia si combatte in essa per la libertà politica. Chi non conosce le idee di Diderot, leggerà, per esempio, con stupore il suo scritto su Gesù Cristo. Egli rappresenta Cri- sto come il fondatore della religione cristiana, che chiama « la philosophie par excellence » ; ma come per cor- reggersi aggiunge : « à parler rigou- reusement, Jesus- Christ ne fut point un philosophe, ce fut un Dieu ». Parimenti arrischiata era una sua espressione neìV Sivtìcoìo Autorite : « A.ucun homne n'a re(;u de la nature le droit de com- mander aux autres ». Ma in genere il Diderot era abilissimo a velare il suo pensiero, ed è per questo che riuscì a tenere in piedi l'Enciclopedia per tant'anni.

Ma il grave lavoro di tale opera non stancò mai le spirito irrequieto di Di- derot. Trova il tempo per attendere alla collaborazione della Correspon- dence di Grimm, aWHistoire philoso- phique des Indes dell'abbate Raynal, e ad altri lavori. Di più fa rappresentare Le fils naturel e Le pére de famille.

Egli ebbe il coraggio di mettersi contro le tradizioni più sacre « e di di- chiarare che il teatro francese, la glo- ria e l'orgoglio della Francia avevan bisogno di riforme ». Le due comme- die sopra citate furono molto stimate dal Lessing, che insieme col Discours de la poesie dramatique, le tradusse in tedesco. « Noi moderni, dice l'Haage, troviamo che Diderot errò ad assegnare alla poesia drammatica il compito di migliorare gli uomini e di innalzar la morale. « La vertu est tout, la vie n'est rien » scrive Diderot in una let- tera dedicatoria nel Pére de famille. ìL. notevole poi ch'egli si attenga rigi- damente alle tre famose unità : di luogo, di tempo, di azione.

Le altre opere del Diderot vennero, come il loro autore, variamente giudi- cate. Prescindiamo dai Bijoux indi- screts, condannati più tardi dallo stesso Diderot. La religieuse, una tetra pittura

di vita claustrale, è più uno studio d psicologia che un racconto. Il romanzo j Jacques le fataliste che trovò un tem- po così caldi ammiratori, come pure la satira Le neveu de Rameau lodata e i tradotta dallo stesso Goethe, sono oggi ! poco apprezzati.

Molto importanti sono i lavori di Di- derot come critico d'arte. I suoi Sa- lons, notizie su esposizioni artistiche dal 1759 al 1781, sono, scrive l'Haape, d'un valore imperituro. Neir£"ssrty sur la peinlure, che Goethe in parte tra- dusse e in parte criticò, ha dimostrato con le varie contraddizioni in cui cadde, che Diderot non era un sistematico.

Diderot è celebre sopratutto come causeur. Incatenava gli ascoltatori, tanto che venne la moda di andargli a far visita; perfino qualche principe tedesco fu veduto ascendere le scale della sua modesta abitazione. Fu membro della Berliner Academie, mentre le accade mie francesi gli chiusero le porte.

Ebbe la protezione dell' imperatrice di Russia, Caterina II, alla cui corte trascorse cinque mesi. Fu da lei aiu- tato generosamente anche con denaro.

Descrivere il carattere di quest'uomo non è facile. Certamente aveva una gran bontà di cuore, ma riuniva in gravi contraddizioni E serio e frivolo, fanatico e cinico ; s'entusiasma per la morale e per la famiglia, ma la co- stanza e la fedeltà di marito non tro- vano luogo nel suo catechismo. M.me de Vandeul, figlia e biografa del Di- derot, scrive con franchezza : « Les moeurs de mon pére out toujours été bonnes ; il n'a de sa vie aimé les fem- mes de spectacles, ni les fiUes publi- ques ».

« Si é detto più volte che Diderot é il più tedesco tra gli scrittori francesi. In parte é vero. Fuori di dubbio è ch'egli sia stato 1' uomo più moderno del secolo decimo ottavo. E fa mera- viglia come molte idee, che ci sembrano nuove, derivino direttamente da lui ».

Quando morì (30 luglio 1784), si udi- va già in lontananza il rombo della Rivoluzione : si avvicinavano i tempi nuovi che lo scrittore aveva presagito,

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Una nuova applicazione dell'elettricità.

11 legno che non abbia ricevuta una adatta preparazione si altera in poco tempo e s'infradicia sotto l' influenza dell'aria e dell'umidità. Per preser- varlo, si è ricorso a varie sostanze, quali il creosoto, i liquidi alcalini, ecc. Si fa uso anche delle alte pressioni che costringono i liquidi antisettici a traversare la massa del legno.

Tuttavia questi procedimenti sono costosi e insufficienti e non possono applicarsi che a legni già alquanto disseccati. Richiedono poi un lavoro considerevole e malgrado ciò non è raro il caso che la putrefazione, al centro sopratutto, avvenga ugualmente. Inoltre, se la quantità di legname nei seccatoi è grande, si ha l'immobiliz- zazione di importanti capitali. Si ag- giungano a tutto ciò le spese di tra- sporto, la mano d'opera, ecc.

Ora la Casette de Lusanne annun- cia che Albert Nodon ha trovato un nuovo metodo che è del più alto in- teresse. Si tratta anche questa volta dell'elettricità che esercita la sua forza magica in un nuovo campo d'azione.

Con questo metodo non s'impiegano baracche, ne disseccatoi. 11 legno è completamente diseccato e reso uti- lizzabile in poche settimane nella fo- resta stessa, sul luogo ove gli alberi sono atterrati.

Esponendo il legno alla corrente elettrica, tanto le materie cellulari come quelle che costituiscono le principali parti del succo, subiscono una trasfor- mazione chimica radicale, che rendè queste materie refrattarie a tutte le insidie dei germi di putrefazione: ba- cilli, acido nitrico, fermentazioni, bat- teri, umidità. Vengono pure eliminate dal succo tutte le proprietà vischiose contenute nell'aria umida e che si op- pongono a una rapida disseccazione. Trattati così, gli alberi si disseccano con la stessa rapidità di una spugna umida esposta all'aria. Inoltre, con questo procedimento, il legno diviene più duro, più resistente, più uguale e 43

più facile a lavorarsi. Non subisce più alcuna modificazione sotto l'influenza dell'umidità, brucia meno facilmente ed acquista una maggiore stabilità.

L'estate è la stagione più adatta a questo lavoro, perchè gli alberi sonp in pieno vigore, le giornate più lunghe e le notti meno fredde. L'aria più calda e più asciutta favorisce anch'essa il dis- seccamento.

Per questo trattamento non occor- rono che una locomotiva, una piccola sega portabile che vien messa in mo- vimento dalla locomotiva e una dina- mo a corrente alternata unita al motore. Il processo è semplicissimo. Si atter- saiio gli alberi, si ammucchiano e si sottomettono alla corrente elettrica. Il lavoro non dura in media più di dieci ore. Dopo ciò, i tronchi sono lasciati in aperta campagna, esposti ai venti dominanti. In capo a qualche settimana sono perfettamente secchi e si possono impiegare immediatamente.

Se si pensa agli usi molteplici del legno, i vantaggi di questo nuovo me- todo appaiono incalcolabili. Non bi- sogna infine dimenticare di quanta utilità sia una maggiore durata del legno per lo sviluppo e per la con- servazione delle foreste, la cui rapida distruzione costituisce oggi una vera calamità.

J.-P. Proudhon e la rivoluzione del '48.

J.-P. Proudhon ha lasciato un dia- rio in cui son notati i principali avve- nimenti che prelusero alla rivoluzione del '48. È ancora inedito, e sulla sua scorta Daniel Halévy ha scritto un importante articolo pel Journal des Débats.

Nel 1846, Proudhon ha più di tren- tacinque anni ed è appena conosciuto. Ha pubblicato da poco due importanti volumi, Les contradictions économiques ; ma chi li ha letti ? Nessuno ne parla. Questo silenzio gli è duro. Lascia Lio- ne, dove da quattro anni, impiegato in un'impresa di trasporti, guadagna fa- ticosamente la vita, e si stabilisce a

VoL CLXVTI. Serie V 16 ottobre 1913,

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Parigi ; è qui che bisogna combattere evincere. Non" ha nulla con sé, all'in- fuori della sua valigia, del suo corag- gio e de' suoi debiti.

Ma dotato di uno spirito che ignora il dubbio, di una volontà che non co- nosce incertezze, egli si propone di salvare la Francia e l'umanità. Qual'è questa Francia ch'egli vede minaccia- ta ? E la libera e vecchia Francia ar- tigiana e rurale, dedita all'industria dei trasporti per terra e per acqua, alla coltivazione dei giardini e delle vigne. La grande industria e l'alta banca, le miniere e le ferrovie stanno per gher- mirla e svisarla ; il monopolio dell'oro minerà questo popolo che ha forza e vigore nelle sue famiglie indipendenti e laboriose. Egli vuole salvarlo, ma con quale mezzo ? Lo sa Proudhon. È felice d'averlo trovato, ma dolentissi- mo che non lo si voglia ascoltare. Se- condo il suo piano, l'oro deve cessar d' essere il monopolio d' una classe ; tutti i lavoratori di buona volontà l'ot- terranno gratuitamente, e saranno li- beri.

« Il s'agit, scrive nel 1847, de faire les travailleurs, tous les travailleurs, rois, d'esclaves qu'ils sont. Or, dans toutes les utopies, présentes, passées et futures, réalisées ou non reali - sées, le travailleur est esclave, toujours esclave ».

Proudhon sogna le famiglie produt- trici libere, sovranamente libere. Ma il suo sogno lascia vedere un piano conservatore. Carlo Marx (giovane set- tario allora del tutto sconosciuto) gli propone un'alleanza. Proudhon diffida di questo fanatico e declina la propo- sta. Il vero è ch'egli aderisce con tutte le forze al vecchio mondo che vuole animare e vivificare. « Le vrai conser- vateur c'est moi, scrive egli : je con- serve la société réelle ».

Chi lo comprenderà? Spera, andando a Parigi, di convertire alle sue idee i socialisti e fondare con essi una lega, un giornale di Réformateurs réalistes. Ma fallisce. « Trouverai-je 3.000 lecteurs ? » si domanda con ansia. Si persuade che no. Vede che gli operai

non l'ascoltano, che influenze profonde neutralizzano la sua influenza. C'è un altro che attira i giovani e conquista le masse : Marx. Ne è addolorato, certo che questo giovane imprimerà alle classi operaie il suo oscuro e basso impulso, e nota nel taccuino : « Marx est la tènia du socialisme ».

Ecco molti avversari ; da una parte l'industrialismo, dall' altra il comuni- smo; l'uno pubblico, padrone della tribuna, delle cattedre ufficiali : l'altro segreto, forte per fanatismo e per fede. I due movimenti, rivali e congiunti, trasformano sordamente, lentamente l'Europa. Proudhon scopre subito un terzo movimento : la rivoluzione gia- cobina e romantica.

1847. Anno di risveglio, di sorpre- se : i popoli sono impazienti, i giovani s'esaltano. Che desiderano? Sono stan- chi di udir parlare delle rivoluzioni e delle guerre fatte da altri ; è ormai tempo che anch'essi diano il loro spet- tacolo. « La France s'ennuie ! » dice Lamartine e lo si acclama. Proudhon si irrita : egli non sa concepire « la noia ». Non ci si annoia, ammonisce, quando si ha qualcosa da fare; e quale uomo, qual nazione non hanno sem- pre qualche cosa da fare? Lamartine non ha nessun diritto di parlare in nome della Francia che, se ha qualche stima di sé, glielo deve proibire. « La- martine dit que la France s'ennuie ; non, la France est devenue làche, voilà tout. La France ne sait que s'admirer elle-méme dans ce qu'elle a fait jadis... Trop de libéralisme, de fantaisie, de gioire accumulée énerve la France ». Ma la Francia ascolta Lamartine ; Proudhon si duole di non avere un giornale per divulgar le sue idee. Ma se scrivesse sugli altri giornali? « llya toujours quelque vérité accessible à tout journal : pourquoi ne servirais-je pas cette vérité en la produisant par- tout on lui fait place ? D'ailleurs, quel journal exprime mon opinion?... » Ma anche questo é un progetto vano come gli altri. Bisogna dunque che Proudhon taccia; ma questo silenzio lo rende più sagace. Continuiamo la let-

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tura del suo diario, e lo vedremo se- guire, con un meraviglioso intuito, i progressi della rivoluzione che viene e che pochi prevedono.

l radicali si agitano in Isvizzera come in Francia ; i Cantoni cattolici si rifiutano di espellere i gesuiti ; i can- toni radicali al contrario li combatto- no. L'Europa, la Francia liberali ap- provano ; ogni guerra mossa ai gesuiti non è una guerra santa ? Proudhon, che vede il pericolo imminente : « Je crains bien plus les deistes à la Ro- bespierre, les néo-chrétiens, la religion de l'Etat, l'eclectisme, dice, que l'ul- tramontanisme ».

In Italia come in Isvizzera, il popolo e i giovani sono in fermento. Questi tre movimenti : italiano, svizzero e fran- cese s' intensificano e prendono forza insieme. Una stessa onda d'entusiasmo e di aspirazioni li gonfia e li unisce. « La Suisse est lancée dans une guerre absurde, scrive Proudhon. La dema- gogie cherche à entraìner l'Europe entière dans cette route absurde ». Metternich resiste in Italia, Guizot in Francia. « Il faut soutenir hautement et résolument que de tous les partis M. Guizot seul a raison •>. Metternich e Guizot vogliono intervenire in Sviz- zera, ma i radicali svizzeri, prevenendo il loro intervento, dichiarano la guerra e la terminano in pochi giorni (novem- bre 1847). I radicali francesi li accla- mano. « Je dois donc, scrive Proudhon, rompre définitivement avec cette cli- que, repousser toute solidarité, tonte filiation de doctrine avec les hommes du National, les singes de la mon- tagne ».

Gli agitatori hanno trovato la for- mola della loro agitazione nella Ri- forma elettorale. Strano rimedio, os- serva Proudhon. L'n maggior numero di elettori, degli oratori più veementi salveranno il paese ? Esso ha bisogno di direttive sicure e gli si ofi"re una rappresentanza. « Si la représentation est sincère, elle représente toutes les opinions : c'est le fhaos ». Che aUro occorre al paese ? Delle garanzie pel

lavoro, delie libertà reali, una orga- nizzazione economica per la difesa dell'artigiano, e gli si off"rono dei tri- buni! « Pourquoi réclamer une nouvelle émission de tyrannie ? Car la réforme électorale n'est pas autre chose ».

Nel decembre del '47, Proudhon corre al capezzale della madre morente a Besangon. Fiducioso nella sua opera, ritorna venti giorni dopo a Parigi. « Je quitte Besangon avec 200 francs pour toute fortune, scrive, et mes idées. Si j'étais trois mois malade, je serais perdu. sans ressource... J'ai trente-neuf ans ; du courage, Pierre Joseph ! ^ Da una rapida occhiata ai giornali, s' ac- corge subito che nei venti giorni della sua assenza, la situazione si è fatta più grave, che il pericolo sovrasta.

31 decembre 1847. La principessa Ade- laide, la più accorta consigliera del vecchio re, è morta. « On craint l'an- née qui vient ». 2 gennaio 1848. Lieta notizia: Abd-el-Kader ha ceduto le armi al duca d'Aumale. figlio del re : « Bonheur pour le sy stèrne », Guizot prende l'offensiva. Michelet, dopo Mi- ckievicz e Quinet, incita i giovani del Collegio di Francia. Guizot sospen- de il suo corso : Proudhon ne gioisce. Michelet, Mickievicz e Quinet sono per lui « trois mystiques véritables empau- meurs de niais ». Gli studenti prote- stano, vogliono il professore. « ...Quand est-ce que l'on rasernera cette jeunesse débauchée et tapageuse ? Courage, Guizot ! » Intanto i capi conservatori s'accorgono del pericolo. Il duca de Broglie parla ; Montalembert parla. Di- scorsi su discorsi. « Si nous suivons les inspirations des partis, scrive Prou- dhon, la France abaissée par eux seuls, cherchera à travers vingt-cinq ans de guerre et de misere, ce qui ne doit lui coùter un centime ». Facciamo il cal- colo : dal febbraio 1848 al maggio 1871 intercedono 23 anni : periodo quasi tutto occupato dalla nuova avventura rivoluzionaria e Bonapartista ; le pre- visioni di Proudhon erano giuste.

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17 gennaio 1848 : corre voce che Luigi Filippo è morto e che se ne cela la notizia. « Quelques homrnes se pré- parent à un coup de main. Ainsi la misere aura été cause que je serai dé- bordé par les événements... Dans une bagarre, il n'y a plus de place pour la Raison. Je suis de plus en plus con- vaincu qu'il n'y a pas de place pour moi au monde ». 9 febbraio : « Il y a conspiration pour renverser le minis- tère par tous les moyens, méme par l'émeute ». io febbraio: « Le trouble et le scandale augmentent... La Tran- ce, si elle ne renvoie pas son opposi- tion, est perdue ».

Il 15 feljbraio Proudhon nota che la campagna dei banchetti si fa minac ciante : che gli affari languiscono. L'op- posizione organizza un banchetto a Parigi ; il governo lo proibisce ; l'op- posizione non cede.

22 février : Tout Paris est sur pied, il est trop clair qu'on s'attend à quelque chose.

23 février : Il y a eu hier, sur divers points, commencements d'émeute...

.Aujourd'hui encore, mercredi 23, à midi, quarante heures après la délibération d'ab- stention du comité, il y a des barricades au Marais, des coups de fusil et une seconde émeute.

24 février : Je viens d'assister à la dévas- tation des Tuileries ; car on ne peut dire la prise. Le peuple y est entré sans coup ferir.

... Le gachis est désormais inextricable.

C'est une cohue d'avocats et d'écrivains tous plus ignorants les uns que les autres, et qui vont se disputer le pouvoir. Je n'ai rien à faire là-dedans...

.. . J'ai vu O. Barrot sur le boulevard Saint- Denis parlementer avec l'émeute : on a crié Vive Barrot! et c'est tout ce qui s'est dit.

Cela va ètre effroyable.

Les Lamartine, les Quinet, Michelet, Con- sidérant, les Montagnards, etc, etc, tout le mysticisme, le robespierrisme et le chauvi- nisme sont au pouvoir : Cn a fait une re- volution sans une idée.

11 26 febbraio, verso la fine della giornata, quattro cittadini armati entra- no nella cameretta di Proudhon. « Cit- tadino Proudhon, gli dicono, voi avete annunziato, or è più d' un anno, che possedete la soluzione del problema sociale. Noi ne abbiamo bisogno e ve la chiediamo. Quando la pubblicherete ? •»

Il comico di questo fatto non potè sfuggire a Proudhon. Egli raccomandò tuttavia la calma, la moderazione, e promise la soluzione.

E così, conchiude l'Halévy, che Prou- dhon divenne un « uomo del 48 ».

Una ferrovia sul mare.

Un'opera colossale è stata compiuta recentemente nella Florida : per allac- ciar New York con Avana, si è co- struito un lungo tronco di ferrovia, di cui pili di centoventi chilometri passano sul mare. D'ora innanzi, dice il Wide World, i passeggeri possono lasciare New York e viaggiare senza cambiar treno sino alla capitale di Cuba. La linea segue la costa orientale della Florida e arriva sino a Miani, traver- sando poi le Everglades giunge a Walter's Edge. E' che comincia il tronco di ferrovia marittima. Tra que- sto punto e Key-West, importante sta- zione navale del governo degli Stati Uniti, si estende la catena di isole delle Keys, le quali servono come punti di appoggio per portare la linea sino a Key-West. Per andare di qui in Avana ci sono dei ferry-hoats speciali.

Sono occorsi sei anni per costruire questa linea. Essa è stata ideata da Henry Flager, soprannominato il Re della Florida, che ha contribuito in modo considerevole allo sviluppo di questo Stato, essendosi egli occupato della costruzione di ben novecento sessanta chilometri di ferrovia.

Prima d'iniziare i lavori di questo suo nuovo progetto, il quale poneva dei problemi che la tecnica non aveva mai affrontati, furono fatti nelle Ever- glades della Florida dei rilievi topo- grafici, che richiesero parecchi mesi. Le Everglades si possono assomigliare a un gran lago di poca profondità, contenente migliaia d' isolotti coperti di una abbondante vegetazione e in- festati da caimani, specie di coc- codrilli aventi sino a cinque metri di lunghezza. In questa regione, gli esplo- ratori andarono incontro a seri pe- ricoli.

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Da Walter's Edge o Land's End, la linea, come si è detto, diviene» marit- tima, o piuttosto anfibia e giunge a destinazione, Key-West, appoggian- dosi a quarantasette isole; di esse la più grande non ha che ventisei chilo- metri di lunghezza, e la maggior parte, di una superficie di qualche ettaro soltanto, sono vere paludi. Gli inter- valli che le separano variano da qual- che centinaio di metri a dodici chilo- metri, e la loro profondità da uno a trenta metri. Questi isolotti furono con- giunti con rialzi, viadotti e lunghi ponti metallici. Far dei rilievi topografici non era facile. Gran parte del lavoro do- vette farsi in barca, e gli ingegneri si smarrirono più volte in questo labi- rinto di isole.

La costruzione della linea traverso le Everglades si compì in una maniera originale. Si scavò, in principio, da ciascuna parte del tracciato, un canale di circa un metro di profondità, perchè le draghe potessero galleggiarvi. 1 ma- teriali d'escavazione servirono a fare dei rialzi, di guisa che ora dai due lati della linea scorre un fiume. Fu un la- voro faticosissimo, e le draghe più di una volta si arenarono. I caimani mi- nacciavano implacabili la vita degli operai. Altre difficoltà impreviste con- tribuirono ad ostacolare l'impresa. Al- lorché la linea ebbe raggiunto la prima isola, Key Largo, vi si trovò un lago, che ai rilievi preliminari era sfuggito; misurava circa due chilometri di lar- ghezza su in. i.bo di profondità; il fondo era fatto interamente di torba. Gli ingegneri tentarono dapprima di gettarvi un ponte, ma poiché il fondo era instabile, non si potè far altro che prosciugarlo e colmarlo : lavoro che durò quindici mesi.

Allora cominciarono i lavori più in- teressanti: la costruzione dei grandi viadotti che portano i binari traverso il mare e per cui si richiese il con- corso di tutta una flotta di vascelli di ogni specie. Questa linea fu invero co- struita u a bordo ». e come ha dichia- rato uno degli ingegneri: « Fu un'im- presa di palmipedi dal principio alla

fine ". Per lavorare lungo le Keys si richiesero, fra l'altro, tre rimorchiatori, otto battelli a ruote di un tipo spe- ciale, trenta canotti automobili, quat- tordici battelli d'alloggio (ciascuno dei quali poteva albergare centoquaranta- quattro uomini), otto libi muniti di gru, un magazzino di utensili galleggiante.

Al momento in cui si toccò la prima isola, un esercito di più di quattromila uomini erano ripartiti lungo il per- corso e non si avevano meno di trenta colonie d'operai disseminate per i numerosi isolotti.

Il primo viadotto ha una lunghezza considerevole, estendendosi da Long Key a Grassy Key. Si compone di cento ottantasei archi ed è lungo circa tre chilometri. Vi si impiegarono 286 mila barili di cemento, 177.000 metri cubi di frantumi di roccia, 106.000 metri cubi di sabbia, 204.000 metri di pila- stri, 5.700 tonnellate di armature, e 900.000 metri di legno lavorato. Oc- corse una vera flotta per trasportare questo materiale sino alle Keys. Sol- tanto i frantumi di roccia occuparono ottanta vapori. Dove l'acqua era poco profonda, si dovettero costruire delle rade di un tipo speciale per il tra- sporto del materiale.

Sui viadotti e i ponti in pieno mare, la linea supera di dieci metri la su- perficie dell'acqua, (-)sservazioni accu- rate hanno dimostrato che l' altezza massima dei flutti in quei paraggi è di poco più di otto metri. L' urto delle onde è perciò eliminato.

Questa linea congiunge, come abbia- mo accennato, New York con i' isola di Cuba avvicinandola così notevol- mente anche al Canale di Panama, alle Indie occidentali e agli Stati dell'A- merica del Sud. Essa ha pure una grande attrattiva per i turisti, perchè è l'unica che si prolunghi sul mare con un percorso così considerevole.

Per tutta la durata del tragitto si possono vedere, dagli sportelli, i pi- roscafi che fanno servizio tra i porti della costa atlantica dell'America del Nord e l'isola di Cuba, le Indie occi- dentali e l'America del Sud.

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TRA LIBRI E RIVISTE

Contro le mosche

La mosca non è soltanto un inset- to fastidioso, ma il veicolo più celere, più attivo e più sicuro della diffu- sione dei germi di molte malattie, quali il colera, il vaiuolo, la febbre ti- foidea, la dissenteria dei bambini, il carbonchio, l'oftalmia, la difterite, e via dicendo. E' per questo che biso- gnerebbe combatterlo con ogni mezzo fino a distruggerlo, se possibile, com- pletamente. Negli Stati Uniti, come già accennamo in questa stessa Ru- brica si sono istituite a tale scopo delle Società e vennero perfino posti dei concorsi a premi.

Su questo stesso argomento pub- blica un interessante articolo il Dott. A. Lunardoni neW Economista dell'Italia Moderna. E' inutile, osserva egli molto giustamente, che le singole persone si affannino a distruggere le mosche, se le autorità cui è affidata la pubblica salute non ne danno il buon esempio. Questa continua e seria minaccia do- vrebbe impensierire tutti e convincerci della necessità di muovere guerra alle mosche con tutti i mezzi che l'espe- rienza e la scienza possono sugge- rire.

Questi mezzi sono varii, ma di varia efficacia.

Nei luoghi aperti si possono distrug- gere a miriadi irrorando le materie su cui si raccolgono con una soluzio- e composta di dieci parti d'acqua, dieci di melassa e due di arseniato di po- tassio o di sodio. « Questa miscela sutrgerita dal prof. A. Berlese, diret- tore della R. Stazione di entomologia agraria di Firenze, avvelena le mo- sche, mentre non può nuocere ai cani, alle galline, che nelle immon- dizie e nei rifiuti domestici possono andare a cercarvi alimento, perchè la irrorazione è superficiale, diffusa e non tanto potente ». Questo servizio dovrebbe essere disimpegnato ogni giorno nelle piazze e nelle vie dove si smerciano frutta e commestibili in ge- nere, dal personale della nettezza ur- bana di tutti i comuni del regno.

Con la stessa miscela si dovrebbero irrorare i carri ed i recipienti che tra- sportano le immondizie, nonché le piante prossime alle abitazioni, quelle dei viali, dei giardini pubblici e degli orti. L'irrorazione alle piante, fatta con le comuni irroratrici da perono- spora, dovrebbe essere rinnovata, se- condo il prof. Berlese, ogni io giorni, ma ai carri dalle immondizie dopo ogni nuovo carico.

Con questo sistema, completato dai fastelli di paglia, dei quali diremo appresso, il Berlese è riuscito ad ottenere quasi la totale ditruzione delle mosche che a nuvole infesta- vano la sua tavola durante i pasti nel paese di S. Vincenzo (Pisa), tanto nell'estate del 1911 (anno di colera), quanto nel 1912.

La lotta contro le mosche fuori del- le abitazioni non solo è la più facile, ma la più proficua, che, senza di essa, quella fatta entro le mura domestiche, non può dare che risultati momen- tanei, giacché le legioni distrutte entro casa vengono subito sostituite dalle nuove generazioni liberamente svoltesi all'aperto. A prima vista parrebbe che la lotta dovrebbe essere specialmente di- retta contro le larve che nascono e vivono nelle immondizie di ogni ge- nere, ma non è così.

« È risaputo che per uccidere le larve delle mosche si possono utilmente ir- rorare ogni 2-3 giorni le immondizie col petrolio greggio misto a soluzioni di « formolo w, oppure cospargerle di cloruro di calcio; é noto anche i me- dici della città di Wilminaton (Arkan- sas) nella primavera del 1912 fecero, per un mese e con risultati eccellenti, bagnare più volte di alcool metilico le piazze, le vie, le stalle, i depositi di immondizie nonché le case, allo scopo di distruggere le larve delle mosche e salvare così la città dal ripetersi della dissenteria che l'anno precedente ave- va fatto strage nei bambini; tuttavia ragioni economiche per quest'ul- timo sistema specialmente consi- gliano a far uso di irrorazioni con la miscela suggerita dal Berlese.

TRA LIBRI E RIVISTE

óTi

Il quale ha fatto altre interessanti esperienze. « Ha esposto nelle strade e nei luoghi pubblici dei recipienti di zinco cilindrici, alti 20 centimetri e del diametro di mezzo metro e collo- cati su pali . alti due metri, entro i quali mise delle buccie di frutta ed altre sostanze simili, nonché il liquido zuccherino avvelenato con arseniato di potassio. Però questo sistema non può essere adottato che nei centri rurali ".

Anche l'uso dei fastelli di paglia, (che sarebbe meglio, secondo il Lu- nardoni, sostituire con fascetti di sa- lici o di vimini) sospesi fuori delle case ed imbevuti di una miscela formata da IO parti in peso di acqua, io di melassa, i di miele e da arseniato di sodio, diedero buoni risultati; però, come è evidente, nelle città non se ne potrebbe far uso che nelle vie secon- darie.

Entro le abitazioni, invece la lotta contro le mosche e molto più diffi- coltà. L'uso dei veleni, e special- mente del decotto di legno quassio, non è scevro da inconvenienti. In pri- mo luogo i veleni nelle abitazioni pre- sentano sempre un pericolo per l'uomo e per gli animali domestici; inoltre, le mosche prima di morire per azione dei veleni emettono abbondanti deie- zioni ed imbrattano muri, mobili, ve- tri, tappezzerie, ecc.

Senza pericolo, ma ripugnante è il sistema di avvelenare le mosche con una soluzione di 15 parti di formolo, 20 di latte, 20 di zucchero e 45 di acqua, versata in piatti nei quali si aggiungeranno uno opiù pezzi di pane.

u Non si può disconoscere che con la polvere di piretro, con la razzia, col tnicidial ed altre "polveri, soffiate sulle mosche, sulle pareti, sugli or- degni di cucina, ecc. non si uccidano molte mosche, ma gli inconvenienti del macabro spettacolo della caduta delle mosche nelle vivande, sono gli stessi ». Altrettanto dicasi della carta moschicida.

Degli ordigni per attrarre e cattu- rare le mosche se ne seno inventati diversi. « Un apparecchio veramente indovinato sotto molti punti di vista ed indiscutibilmente efficace è st to ora costruito da un operaio siciliano, certo Tringali Termini. Esso merita di essere raccomandato sopratutto agli esercenti pasticcerie, cafi"è, latterie, piz- zicherie, negozi di frutta e di generi alimentari, nonché ai direttori degli ospedali.

« Si tratta di un tamburo a sei co- stole di latta, orizzontale messo in moto, per 4 ore ogni carica, da un congegno di orologeria. Le costole vengono spennellate di miele o di una soluzione di latte e zucchero e le mo- sche che sulle costole si posano, at- tratte dall'odore del dolce alimento, vengono col movimento del tamburo, senza che se ne accorgano, portate al di d'una linea metallica, che non possono più ripassare. Giunte nello spazio oscuro, oltre l'anzidetta linea divisionale, formato dalla parete con- cava della costola del tamburo e dal coperchio, le mosche non hanno che una via di uscita data da un foro il- luminato, il quale però immette nella prigione, fatta di rete metallica e che può essere staccata dall'apparecchio quando è piena di mosche.

« L'apparecchio è elegante, lungo una quarantina di centimetri ed alto 25 30, e può essere collocato ovunque lo si creda utile. Le mosche catturate si vedono soltanto avvicinandosi al- l'apparecchio e nella sua parte poste- riore e rimangono vive. Per uccidere le mosche catturate si stacca la pri- gione, la si immerge nell'acqua calda e poi si lava.

« Quest'apparecchio dovrebbe fun- zionare dalla mattina di buon ora fino a tarda ora in tutti i locali dove si preparano e si smerciano generi ali- mentari e noi crediamo che le auto- rità sanitarie dovrebbero, dopo esser- si convinte della sua efficacia, pre- scriverlo in nome dell' igiene e della decenza ».

Nemi.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

ITALIA.

Della « Storia Universale » edita dal dottor Francesco Vallardi sono uscite altre due dispen.se: la 6* del periodo studiato da E. Callegari (( Da Carlo Vili alla pace di Castel Cambresis », e l'8^ del periodo di cui si occupa M. Rosi « Storia politica d'Europa dopo la pace di Vienna ».

Per il centenario della nascita di Giuseppe Verdi è il titolo di un volume pubblicato in questi giorni da Italo Pizzi presso Lattes. Contiene, come il sottotitolo indica: memorie, aneddoti, considerazioni.

L'ottima collezione « Scrittori d'Italia » del Laterza è già arrivata al cinquantaseiesimo volume. In questi giorni sono usciti Trattati del Cinquecento sulla donna a cura di Giuseppe Zonta; Il prìmo libro delle lettere di Pietro Aretino a cura di Fausto Nicolini ; il primo volume di Prose di Giuseppe Parini a cura di Egidio Bellorini : il primo volume di Opere di Lorenzo de' Medici il Magnifico a cura Attilio Simioni.

Nella « Biblioteca di Cultura Moderna » dello stesso editore, Benedetto Croce ha pubblicato un volume: Cultura e Vita Morale, una raccolta di note polemiche edite per la prima volta nella Critica e in altri periodici.

E morto a Caltanissetta lo scultore Michele Tripisciano, distinto artista, notissimo nelle provincie meridionali. È autore di alcune statue del monumento a V. E. a Roma e del monumento a Gioacchino Belli nella stessa città.

- Il 21 dello scorso mese è stata posta a Venezia la prima pietra del padiglione russo che sarà in stile del Settecento.

Ad Aidone è stato inaugurato un busto in onore di Filippo Cordova, opera di Mario Rutelli.

Alla presenza delle autorità e delle rappresentanze, ha avuto luogo in questi giorni a Palmi la solenne inaugurazione della Colonia agricola ameri- cana per gli orfani del terremoto, fondata col generoso concorso di 250 mila dollari degli Stati Uniti e di 500 mila lire del patronato Regina Elena e della Croce Rossa Italiana.

Ulrico Hoepli ha pubblicato il Nuovo testo unico della legge elettorale politica. È un elegante volumetto tascabile. Il testo è stampato chiaramente, in ottimi caratteri e di facilissima lettura. Questo manuale elettorale è dato gratis agli acquirenti dei manuali Hoepli.

Nel salone del Conservatorio di Milano, Max Nordau ha tenuto, di- nanzi a un pubblico numeroso e distinto, una conferenza su Giuseppe Verdi.

Trieste ha celebrato solennemente il centenario verdiano con lo sco- primento di una lapide © con vari concerti.

La Gazzetta Ufficiale pubblica il decreto con il quale è istituito presso l'ufficio di Stato Maggiore della Marina un ufficio storico al quale saranno affidati gli studi di carattere storico che comunque interessino la Marina mi- litare. Tale ufficio sarà posto all'immediata dipendenza del capo di Stato Mag- giore della Marina. Esso sarà diretto da un ufficiale di riconosciute speciali attitudini, sia in servizio attivo permanente, sia nella riserva navale.

Della Biblioteca di scienze politiche ed amministrative, terza serie, edita dall'Unione tipografico-editrice Torinese, sono usciti i fascicoli 16-21 con la continuazione delle opere: Hatschek, Diritto pubblico inglese; Ullmann, Trattato dv diritto internazionale pubblico; e Bryce, La repubblica amencana. E notevole la celerità della pubblicazione.

Tjo Litotipo.^ la benemerita officina grafica Milani di Padova, con una veste litografica eccellente, pubblica i corsi di lezioni dei profiP. Cammeo, Di-

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 673

ritto amministrativo (pubblicati 30 fase.) p Rocco. Diritto Commerciale (pub- blicati 16 fase.).

La Casa editrice Napoletana ha pubblicato il voi. II dei Discorsi vari del Prof. Pessina. Il volume fa pai-te della raccolta degli scritti dello stesso Pessina, che consterà di dieci volumi. Dei discorsi ora pubblicati sono notevoli quelli Sull'ordinamento del Senato; Voltaire; Riforma delia legge elettorale politica; L'aborto procurato.

Cesare Civoli ha dato fuori un nuovo volume (volume terzo: Parte spe- ciale) del suo ottimo Trattato di diritto penale. Concerne i Delitti direttamente lesivi d'interessi sociali. (Milano, Tip. Editr. Libraria Luigi Di Giacomo Pi- rola).

Verdi, biografia critica di Camillo Bellaigtte. F.lli Treves, Milano. Questo saggio, apparso prima nelle pagine della Bevue des deux Mondes, costi- tuisce senza dubbio uno dei miglion studi sul grande Maestro. L'autore, noto per altri ottimi lavori sui nostri classici della musica, disegna lo svolgimento del genio verdiano con evidenza e maestria, incominciando dalle prime opere {dalV Uberto alla Luisa Miller) nelle quali si rivelano a tratti le qualità di forza e di dolcezza, di potenza drammatica, che si armonizzeranno poi in quella che l'A. chiama «la trilogia popolare»: Rigoletto, Trovatore, Traviata. Dal Don Carlos e dall'.4f(7/T si manifesta l'evoluzione della partitura verdiana: la voce non è più qua-si sola, ma l'orchestra prende sempre maggiore impor- tanza, la melodia si fa pivi complessa, si sviluppa la polifonia: siamo all' Otello e al Falstaff. La critica dell'A. non è mai arida, ma è vivificata sempre dal- l'eloquenza e dalla poesia, qualità che si possono gustare pure traverso la molto imperfetta traduzione.

Il Comico, di Giulio A. Levi. A. F. Formiggini, editore, Genova. In- torno al problema del comico uno dei più seri fra quanti ha saputo esco- gitare... se non risolvere la riflessione umana è stato pubblicato recente- mente un nuovo studio. Giulio A. Levi ha dedicato la prima parte del suo buon libro alla storia del problema; ed elencando e discutendo teorie o ipotesi, che vanno dal Kant al Momigliano, dallo Spencer al SuUy e al Bergson, si è rive- lato oltremodo competente in materia per quanto la trattazione necessariamente apparisca intricata e non sempre dilettevole. La seconda parte, che contiene uno schema di teoria originale, è molto più interessante. Non è facile riassu- mere una teoria tanto generale, e tanto meno farla apparire persuasiva sepa- randola dallo sviluppo di argomentazioni e di applicazioni che l'A. vi ha sa- pientemente disteso intorno; quello che ne diremo qui sarà un breve cenno che dovrà avere dalla lettura del libro tutti i necessari chiarimenti. L'A. sostiene che il comico sorge ogni volta che non si riconosce una personalità che agisce per volontà proiiria nell'oggetto della nostra attenzione. Ma allora dovremo ridere anche di una pietra o di un libro semplicemente perchè non sono per- sone? No certo; è necessario un altro presupposto: si devono avere insieme le apparenze della personalità e l'intuizione della non essenza di questa: la consta- tazione di un tale contrasto è il comico. Ciò posto non è difficile comprendere perchè il comico sia piacevole. « ... Riconoscere la realtà etica di una persona scrive l'A. è entrare con essa nei rapporti della vita etica. Ma la vita etica altro non è che un i)orsi di fini, e un tendersi delle nostre attività verso di essi: ossia è lavoro e fatica: è piacevole invece la liberazione della disciplina dei fini, buoni o cattivi ; la quale avviene nel giuoco e nel riso » (pa- gina 76). L'ingegnosa teoria è corredata di numerosi esempi dimostrativi e appare aissai più convincente di molte altre che l'hanno preceduta. (M. B.).

FRANCIA.

Notevole è la produzione d'opere filosofiche in Francia in questi ultimi tempi. Segnaliamo: Les origines humaines di Jean-Pierre Brisset (chez l'auteur. Angers); Essai de philosophie fondamentale di J. Catta (Rouen, P. Leprétre) ; ,Perspective naturelle di William Nicati (Schleicher) : Les ruines de l'Idée de Dieu di Georges Matisse (Mercure de France): La Lai- d'univcrselle relation di E. Ladevèze (Alcan); Le Maté7-^iali.<<me acfuel di Bergson, H. Poincaré, Ch. Gide, Ch. Wagner, Firmin Roz, de Witt^Guizot, Friedel, G. Riou (Flam- marion); Dernières Pensées di H. Poincaré (Flammarion) ; Le Problème biolo- gique di Eugène Lévy (Perrin); Im Science et la Réalité di Pierre Delbet (Flam- marion).

674 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

- Le Correspondant i)ubblioa, a cura di FraTi(,«ois Laurentie, un <( ma- nuscrit inédit des Archives de Frohsdorf » dovuto alla duchessa d'Angouléme e riferentesi alla sua partenza da Bordeaux nel 1815.

Segnaliamo un libro d'attualità: Panarmi: la, créatinn, la destritctvon, la résurrection. Autore ne è Philippe Bunau-Varilla, editore Plon.

Degli ultimi romanzi usciti in Francia notiamo: Séjndcres blanchis di J.-H. Rosny jeune (Calmann-Lévy) ; Les Bonardins di Paul de Ritter (Albin Michel) ; A travers V amour di Adrien Racine et G. Le Cornu (Grasset) ; En Armes di Maurice-Leon Martin (Miguet) ; Le,* Bla-vh di Marcel Rogniat (P'i- guière) ; Les Foudroyés di Louis Lamapet (Ficker); Uédeviption di Juliette Martineau (Sansot) ; Glaudettc di Clémence Souillard-Desmons (Jouve) ; La Main d'or di Henri Falk (làbrairie universelle).

La Heviie del primo settembre reca un articolo di H. Coupin suU'opera di J.-H. Fabre.

L'ultimo numero del Mercure de France. contiene un articolo di Paul Escourbe su Paul Verlaine et l'amour. Nello stesso fascicolo, Jacques Mesnil pubblica delle lettere inedite di Elisée Reclus.

Nella « Bibliothèque de philosophie contemporaine » edita dall'Alcan, sono apparse recentemente tre notevoli opere: Le rythme du Progrès, studio sociologico di Louis Weber; L'Esthétique du Paysuge di Fr. Paulhan ; Les ori- gines de la connaissance di R. Turno. Nella stessa Biblioteca vedrà la luce pros- simamente un volume di G. Palante: Pessimisme et Individualisme.

Felix Goblet d'Alviella ha dato fuori un'opera dal titolo: L'Evolution du dogme catholique. 1. Les origines (l""^ partie). Reca una prefazione di Salo- mone Reinach (Librairie Emile Nourrit).

Journal d'une Femme de cinquante aiis {177S-1815) è il titolo di un diario della marchesa de La Tour du Pin pubblicato recentemente a cura di Aymar de Liedekerke-Beaufort. (Paris, Chapelot).

Presso l'editore Lamens è iiscita un'attraente opera di André Humbert su La sculptiire sous les ducs de Bourgogne {1A61-H8S).

È uscita in questi giorni la seconda edizione di L'Oìseau de France, romanzo di L. de Kerguy.

Le Roman réaliste sous le Second Empire è il titolo di una recentis- sima opera di Pierre Martino, edita da Hachette di Parigi.

- In questi giorni è stato collocato a Parigi nella cupola del teatro della Comédie Purisienne un dipinto di A. Besnard. E una allegoria nella quale il carro di Apollo e la Danza delle Ore formano una maestosa e colorita decora- zione: dicono che sia una delle piìi ardite e riuscite opere del Besnard.

Nei giorni scorsi si inaugurò ad Avignone un monumento al pittore Paul Vayson.

All'Ambigu di Parigi ha avuto buona accoglienza un nuovo' dramma in cinque atti e sette quadri di Lucien Descaves e Nozière intitolato La Saignée.

Al teatro Antoine di Parigi è stata data con buon successo una nuova versione francese di Georges Duval deli' Amleto di Shakespeare.

Il Tenijìs annuncia che in una recente seduta all'Accademia delie Scienze, Lheveran ha comunicato, a nome di Charles Nicol, vice-direttore del- l'Istituto Paiiteur di Tunisi, la scoperta del vaccino dell'infezione della go- norrea. Il trattamento consiste in tre iniezioni. Nicol dice che duecento esijeri- menti fatti a Tunisi furono tutti coronati da successo.

AUSTRIA e GERMANIA.

Mariot in Hot è il titolo di un piccolo ma attraente romanzo che ha per ambiente il mondo dei teatri. Autore ne è Arthur Sakheim, editore G. Miiller di Monaco.

La scrittrice tedesca Clara Hofer ha dato alle stampe una nuova opera dal titolo: Dcr gleifende Purpur. (Berlin. Egon Fleischel).

Nel Maerz del 13 settembre è apparso un curioso studio psicologico di E. Fischer su Lutero. L'articolista ricorda le parole di Harnack: «L'analisi di Liitero non è stata ancor fatta», e stampa tra l'altro: ((Lutero è l'unico, che prima di Nietzsche, abbia osato spezzar la legge morale in nome di una vita superiore )).

A proposito dell'esposizione organizzata a Wiesbaden dalle Società di Belle Arti di qiiella città, N. Grolman pubblica nella Deutsche Kunst und Deko- ration un articolo sulla scuola svizzera moderna.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 675

Hans Bethge scrive in Die Guldenkammer i suoi ricordi su Otto Erich Hartleben. col quale entrò in relazione verso il 1896.

Nei Sihldeufsche Moiiatshefte Cari Spitteler pubblica un brano d'auto- biografia: Meine friihesten Erlehnisse.

Il Literarìsche Echo del ottobre contiene un articolo di Engelbert Pernerstorfer su Bernhard Kellermann.

In Barnien è stato innalzato recentemente un monumento a Theodor Kòrner, opera dello scultore M. Sclireiner.

Nel mese scorso è moiix> a Innsbruck lo scrittore Gerhard Quckama Knoop. Lascia molti romanzi, di cui ricordiamo: Di-e Karburg, Die Dekadenten, Die erìòsende Wahrheit, Oufvcler, Das Element, Sebald Soekers Pilgerfahrt, ELermonn Osleb, Sebald Soekers VoVendung, Der Gelaste Ketten, Aus den Papieren des Frhrn. N. Bachini Verfalltag. (Egon Fleischel).

È morto a Praga l'attore e lettore all'Università Dr. Karl Thumser. È autore di due oj>ere: Schittten und Traume e Tom Dnsein des Schauspielers.

INGHILTERRA e STATI UNITI.

Delle pili recenti e notevoli opere uscite in Inghilterra e negli Stati Uniti segnaliamo: The Trufh About Home Buie, by Pembroke AVicks (Small, May- nard); Mexico, the Land of Unrest. by Henry Baerlein (Lippincott) ; University and Historical Addresses, by James Bryce (Macmillan); The Modem Cali of Missions, by James S. Dennis (Revell) ; The Farmer of To-Morrow, by Frede- rick Irving Anderson (Macmillan); Productive Strine Husbandry, by George E. Day (Lippincott); Milk and Its Produ4:ts, by Henry H. Wing (Macmillan); Bonum Farm Management : Treotises of Calo aii'l Varrò, translated by A. Vir- ginia Farmer (Macmillan); Marxism Versus Socialism, by Vladimir G. Simkho- vitch (Holt) ; The Jeics of To-Day, by Arthur Ruiipin (Holt) ; The Origin and Ideals of the Modem School, by Francisco Ferrer, translated by Joseph McCabe (Putnam) ; The Cali of the Land, by E. Benjamin Andrews (New York: Grange Judd Co.); Sheep-Farming in Xorth Amerrca, by John A. Craig (Macmillan); Safety Methods for Preventing Occupational and Other Accidents and Disea^e, by William H. Tolman and Léonard B. Kendal (Harpers); Health and the School: A Bound Table, by Frances Williston Burks and Jesse D. Burks (Ap- pleton).

È morto in Inghilterra Sir Alfred East, uno dei migliori paesisti della scuola inglese contemporanea. Era nato a Kettering nel 1849, aveva studiato a Glaskow, poi alla scuola di Belle Arti a Parigi. Espose per molti anni a Londra, a Parigi, a Monaco, ott-enendo i più lusinghieri successi.

È uscita una nuova oi>era del noto poeta inglese John Masefield ; s'in- titola The DaffodH Fields ed è edita dal Heinemann di Londra.

È venuto recentemente in luce un importante libro di J. D. Symon dal titolo: The Press and its Story. É la storia dello sviluijpo del giornalismo dalle origini sino ad oggi. (London. Selley).

-- Macmillan di Londra ha pubblicato recentemente le seguenti opere: Theodore Boosevelt. An Autobiography, by Theodore Roosevelt; My Life With the fJskimos, by Vilhjalmur Stef ansson ; The Bnrbary Coasf, by Albert Edwards; The Valley of the Moon, by Jack London; Bobin Hood's Barn, by Alice Brown; When I Wa^ a Little Girl, by Zona Gale; The Gospel Story in Art, by John La Farge; A Mainsail Haul, by John Masefield; Une Hundred Tears of Peace, by the Hon. Henry Cabot Lodge; The Biography of Floren<:e Xightingale, by Sir E. T. Cook; America As I Saie It, by E. Alee Tweedie; The Voyage of the Hop- pergrass, by Edmund Lester Pearson ; The Vili to Live, by M. P. ViUcocks; American Ideals, Character and Life, by Hamilton Wright Mabie; Huntmg the Elephant in Africa, by Captain C. H. Stigand.

ITALIA ALL'ESTERO.

W. Lang esamina nella Deutsche Bund-schau il recente libro di Lavinia Mazzucchetti su Schiller in Italia.

Ermete Novelli ha riportato in questa stagione a Buenos Aires un suc- cesso superiore a tutti i precedenti. Fra breve sarà di ritorno in Italia.

Ij'Espaiia Moderna si occupa del recente romanzo di Lina Ferriani : Mamma benedetta (Rocca S. Casciano, "Cappelli).

676 NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI

- Sotto il titolo Zjednoczenie Wloch (L'unificazione dell'Italia, Varsavia, 1912) W. Kozicki, valoroso giornalista di Varsavia, ha pubblicato una storia popolare del risorgimento italiano. L'autore in forma spigliata e vivace parla con la piti viva simpatia del movimento che diede all'Italia l'unità e l'indipen- denza. Nell'ultimo capitolo uno sguardo alle vicende d'Italia dopo il 1870.

Il Journal de Genève reca un isimpatico articolo su Giuseppe Verdi

Il prof. Ugo Mutini di Firenze lia iniziato un ciclo di conferenze sulle principali città d'Italia nella Svizzera, in Germania e nel Belgio.

V. pittore milanese Giuseppe Amisani, che lo scorso anno ebbe il premio Fumagalli per un ritratto di Lyda Borelli, è andato in America per tenere una mostra di più di cento sue opere a S. Paolo del Brasile, come già l'avev^a tenuta la scorsa jjrimavera a Pavia, La mostra, aperta ai primi di settembre, fu assai bene accolta dalla critica e dal pubblico. Vi fecero acquisti il Governo, due ministri e non pochi privati. Il pittore ebbe pure la commissione di un ritratto del Presidente dello Stato dottor Rodriguez Alvez e del Ministro per gli interni dott. Aitino Arante. E un'altra notevole conquista dell'arte italiana all'estero della quale ci compiacciamo sinceramente.

F. Roger-Cornaz scrive nella Gazette de Lausanne un articolo intito- lato Petites Notes sur Venise.

CONCORSI, CONGRESSI, ESPOSIZIONI.

E bandito un concorso a Cagliari per la decorazione ed arredamento del salone del Consiglio del palazzo comunale Somma disponibile lire 100 mila, scadenza per 31 dicembre 1913. Per schiarimenti rivolgersi all'Ufficio tecnico municipale.

Il giorno 10 dello scorso mese fu inaugurata a Lugano la prima esposi- zione di Belle Arti della Società dei pittori, scultori ed architetti svizzeri, Se- zione Ticinese. La Mostra ha sede nel palazzo civico, già Ciani, e fu or- ganizzata dalla Commissione composta dai pittori Rossi Luigi, presidente; P. Chiesa, Berta, Sartori e dallo scultore Vassalli. Furono presentate 340 opere ed accolte 250 circa. La eliminazione fu imposta per ragioni di spazio, ma tutti gli artisti concorrenti furono ammessi almeno con un'opera. La Mostra rimarrà aperta tutto il corrente mese.

L'Esposizione del Gas apertasi in questi giorni a Londra ha ottenuto uno straordinario successo, sia dal punto di vista tecnico, come da quello dell'in- teresse suscitato nei vi'sitatori. L'esposizione contiene esempi di tutte le ulti- missime applicazioni del gas tanto nel campo industriale, quanto nel campo famigliare. Tutti i sistemi di illuminazione sono presentati in confronto ad altri metodi di produzione, ma l'interesse maggiore del pubblico si rivolge verso gli apparecchi che permettono di utilizzare il gas per il riscaldamento. In questi ultimi tempi si è discusso molto sulla possibilità di sostituire il carbon fossile (che viene usato attualmente come combustibile ordinario nelle famiglie) e che ha il difetto di produrre grande quantità di polvere e di fumo, oltreché una quantità di residui che non è sempre facile, in una città come Londra, elimi- nare. Di tutti i sostituti del carbone, il gas è quello che ha incontrato mag- giore favore del pubblico, specialmente per il fatto che tende a diminuire il lavoro delle persone di servizio, ed è i^er dimostrare la sua reale utilità al riguardo che l'esposizione è stata organizzata. Essa è la piìi vasta e completa del genere che sia mai stata preparata in qualsiasi paese del mondo.

La Lega francese d'ediicazione movale sta organizzando per il 30, il 31 ottobre e il novembre una serie di studi pratici sui mezzi di sviluppare la educazione morale. Le questioni poste all'ordine del giorno sono: 1) La cul- tura della sincerità nel fanciullo ; 2) il sentimento del dovere civico ; come pre- pararvi il fanciullo e svilupparlo nel giovinetto, specialmente per ciò che con- cerne il vservizio militare, la probità in mateiia fiscale, la subordinazione del- l'interesise personale all'interesse generale. A questa discussione possono parte- cipare non solo i membri della Lega, ma quanti si occupano dei ijroblemi mo- rali. Chi desidera prendervi i^arte, può rivolgersi alla sede della Lega, 125, rue du Ranelagh, Parigi.

NOTIZIE, LIBRI E RECENTI PUBBLICAZIONI 677

SPIGOLATURE.

Si è pubblicata in Inghilterra una relazione di oltre quattrocento pa^ gine nella quale si mettono in evidenza i risultati ottenuti coi provvedimenti igienici e coUa propaganda educativa fatta in questi ultimi sette anni col proposito di diminuire la mortalità infantile. Da tale relazione risulta che in questo periodo la vita di 185,722 bambini è stata salvata come conse- guenza diretta della legislazione adottata. La relazione constata che la quota di mortalità è dovuta in primo luogo alle migliorate condizioni sanitarie delle case,, al modo col quale si e cercato di risolvere il problema delle abi- tazioni operaie a buon mercato, alla maggiore sorveglianza municipale, all'au- mentata sobrietà dei genitori, e al fatto che si è compresa la importanza della mortalità infantile dal punto di vista nazionale. I peggiori distretti, dove la mortalità infantile è ancora altissima, sono quelli intensamente industriali, come il Lancashire, il Durham, il Xorthumberland. e AVarwickshire. I distretti dove la mortalità è discesa rapidamente sono quelli di Londra, del Surrey, del Kent, del Wiits, del Somerset, Sussex e Middlesex. Il rapporto esamina anche le cause famigliari che piìi contribuisc-ono alla mortalità infantile, e fra queste pone in primissimo luogo l'abbandono dell'allattamento materno, quando non sia giustificato da ragioni di salute.

In Italia esistono attualmente 21 centri con più di 50,000 abitanti, 98 centri fra i 20,000 e i 50.000 abitanti. La popolazione che vive in città costi- tuisce il 15.2 per cento nell'Italia settentrionale, il 17.5 per cento nella cen- trale, 19.2 nella meridionale ed il 30 nell'insulare. Circa 6,000,000 d'italiani abitano in città. Le più alte densità urbane e fondiarie si verificano nell'Italia meridionale ed insulare in cui la popolazione si agglomera in centri più angusti che non nell'Italia settentrionale. Fra i centri urbani che hanno da 20,000 a 50,000 abitanti, sono notevoli per la densità urbana Chioggia, Faenza, Sam- pierdarena, Perugia, Cerato, Trapani, Caltagirone, Spezia. Quanto all'affol- lamento della popolazione in rapporto alle abitazioni, per quanto concerne i centri di oltre 50,000 abitanti, i centri del Nord si differenziano notevolmente da quelli del Centro o del Sud. Nel Nord, tranne che a Milano e a Torino, un esiguo numero di abitanti \-ive in abitazioni di una stanza ; mentre nell'Italia del Sud, e segnatamente nei centri continentali, una grandissima parte della popolazione si addensa in abitazioni siffatte. A Genova, a Venezia, a Firenze, a Livorno, meno dell'I per cento degli abitanti vive in abitazioni di una stanza; mentre a Bari abbiamo il 42 per cento, a Foggia e a Modica il 70 per cento, e cifre più alte in altri centri secondari.

È stata recentemente fatta un'inchiesta sull'aumento del costo della vita su 88 città inglesi. Nello spazio di 7 anni, i principali articoli di alimen- tazione e i combustibili hanno subito dei rialzi di prezzo considerevoli, come risulta dalle seguenti cifre: per le patate, l'aumento è del 46.1 per cento: lardo, 32.1; carbone, 22.5; formaggio, 18.8; pane, 15.3; farina, 15.1; uova 13.6; porco, 12.6; burro, 9.9; bue, 9.5; latte, 9.4; agnello, 6.1. Per le abitazioni ope- raie, si nota una diminuzione di 0.3 per cento. Ma il costo degli abiti è au- mentato in proporzioni molto serie sia considerando che si paga ora di più, pel medesimo articolo, sia considerando che si paga lo stesso prezzo per un articolo di qualità inferiore. A malgrado del ribasso constatato a Londra nel costo delle case, queste ultime sono ancora più care che non altrove in Inghilterra. In provincia gli affitti sono aumentati segnatamente nelle città da 100,000 a 200,000 abitanti. Ma il rialzo è generale per quanto concerne gli articoli d'ali- mentazione. Del resto, il livello attuale dei prezzi non è più elevato che quello degli anni 1880 e 1881 e non raggiunge quello eccezionale del 1870 e degli anni seguenti. Ma, prendendo come base l'anno 1896, in cui si ebbero i prezzi più bassi, si constata per il periodo degli ultimi sedici anni, un aumento nel costo degli alimenti di circa il 25 per cento.

Un giapponese, Torikato, ha inventato un sistema di telefono senza fili, di una grande semplicità ; qsso fu trovato tanto efficace che il Governo giap- ponese dopo una serie di esperimenti ne ha imposto l'impiego a tutte le navi dipendenti dallo Stato. Non si conosce ancora alcuna descrizione dell'apparec- chio, ma non si tarderà a conoscerla, perchè l'inventore intende di prendere il brevetto in Francia. Tutto ciò che si sa è che, nella forma attuale, questo telefono permette già la comunicazione in un raggio di 100 chilometri circa.

LIBRI

PERVENUTI ALLA DIEEZTONE DELLA « NUOVA ANTOLOGIA >

Poesie varie, di Giovanni Pascoli, raccolte da Maria. 2^ ediz. riordinata ed aumentata. - Zanichelli, Bologna, pag. 214. L. 5.

Trattato di diritto penale, di Cesa- re CivoLi - Voi. III. Parte «peciale: Delitti direttamente lesivi d'interessi sociali. Milano, Tip. Luigi di Gia- como Pirola, pag. 516. L. 12.

Il progresso economico, di Napoleo- ne Colajanni, voli. 3, (( L'Italia d'og- gi ». Roma, Bontempelli, pag. 408. L. 4.50.

Opere di Lorenzo De' Medici, a cu- ra di Attujo Simioni, voi. I. « Scrit- tori d'Italia ». Bari, Laterza, pa- gine 323. L. 5.50.

Pro.se di Giuseppe Parini a cura di Egidio Bellorini, voi. I. « Scrittori d'Italia )). Bari, Laterza, pag. 384. L. 5.50.

Trattati del Cinquecento sulla don- ria, a cura di Giuseppe Zonta. <( Scrit- tori d'Italia ». Bari, Laterza, pa- gine 409. L. 5.50.

Il primo libro delle lettere, di Pie- tro Aretino, a cura di Fausto Ni- coLiNi. « Scrittori d'Italia ». Bari, Laterza, pag. 458. L. 5.50.

Atlante di bandiere, insegne, di- stintivi dei principali Stati del mon- do, di F. Imperato. Milano, Hoe- pli, pag. 218. L. a.50.

Il concetto del diritto, di Giorgio Del Vecchio. Ristampa. Bologna, Zanichelli, pag. 160. L. 4.

Voi d'Aosta - La perla delle Alpi,

di Felice Ferrerò. Con illustrazioni.

F.Ui Treves, Milano, pag. 394. Cultura e vita morale, di Benedet- to Croce. Bari, I^aterza, pag. 224. L. 3.

L'industria dei Fiammiferi in Ita- lia e all'estero, di Giuseppe Barberi.

Torino, Tip. Artale, pagi. 182. L. 6. La drammatica a Parma 1400-1900,

di Egberto Bocchia. Parma, Bat- tei, pag. 214. L. 2.50.

Per il jrrimo centenario della nasci- ta di Giuseppe Verdi, di Italo Pizzi.

Torino, Lattes, pag. 214. L. 2. Attraverso l'Europa e l'Africa set- tentrionale, di Augusto St.xbile. Pescia, Tip. Cipriani, pag. 74. L. 2.

Il riscatto, nuovi tipi e nuove 'Scene di Ugo Valcarenghi. Torino, Casa Ed. Italiana, pag. 179. L. 2.

Per un Grande Amore, pubblicazio- ne degli studenti italiani delle tecni- che dello Stato a vantaggio della « Le- ga Nazionale ». Trieste, Zotter, cor. 1.

La battaglia di Legnano, di Alfre- do SiSTi. Milano, tip. Fabbiani e Maierotti, pag. 143. L. 1.

Prime note a difesa, di Aristide E- miliani. Milano, Stamperia Mon- daini, pag. 126.

I capolavori della poesia italiana - La terra dei morti, di Mario Abbate.

Torino, Paravia, pag. 50. L. 0.60. La Massoneria nell'esercito e nella

marina, prefazione e note di Saverio Feria. Firenze, Ciardelli, pag. 30.

PUBBLICAZIONI STRANIERE.

Jj'oiseau de France, par L. de Ker- GUY. Paris, Grasset, pag. 281. Fr. 3.50.

Le roman réaliste sous le second em- pire, par Pierre M.\rtino. Paris, Hachette, pag. 311. Fr. 3.50.

Origines et Bases de l'alliance Fran- co-Busse, par Valentin De Gorlof. Paris, Grasset, pag. 434. Fr. 5.

Le Vie et le Itéve, poèmes en pro-

se, contes, fantaisies, par Archag TcHOBANiAN, avcc Lettre-Préface de Emile Verhaeren. Paris, <( Mercu- re de France », pag. 213. Fr. 3.50.

Bethsabée, par Je.\n De Foville. Paris, Plon, pag. 308. Fr. 3.50.

Latin self-taught, with phonetic pronunciation and grammar by Johan TopH.AN. London, E. Marlborough, pag. 144, scell. 1.

NDICE DEL VOLUME CLXVII

(SERIE V 1913)

Fascicolo 1001 l" settembre 1913

Rogo d'amore - Romanzo - I Neera Pag. 3

Un vero amico dell'Italia - Riccardo Bagot fcon 5 illustrazioni ) Fanny

Zampini Salazar 29

L'asino nel fiume - Novella Adolfo Albertazzi 41

Versi Emilio Girardini 46

L'Abbazia Cistercense delle Tre Fontane (con 16 illustrazioni) Ari- stide Sartorio . . . ' oO

La poesia dialettale veneziana - Francesco Gritti e i suoi apologhi

Lxjci-A Pagano Briganti 66

La setta Ferdinandèa G. Costetti 81

Difficoltà dell'agricoltura italiana -^ A. Cencelli, senatore 86

Dumas e Garibaldi - Documenti inediti Anna Franchi 100

Chiusura di stagione narrativa Massimo Bontempelli 109

Rassegna drammatica Edoardo Botjtet 118

Il genero di Franz Liszt - Emilio Ollivier e la musica Giorgio Barini 123

Tra libri e riviste (con 2 illustrazioni) Nemi 140

Notizie, libri e recenti pubblicazioni 160

Fascicolo 1002 16 settembre 1913.

Rogo d'amore - Romanzo - II Neera Pag. 169

Gli ultimi telegrammi del governo pontificio Attilio Vigevano . . . 190 Giuseppe Verdi cittadino genovese (con 4 illustrazioni) Ferdinando

Resasco 221

Artisti moderni - Giuseppe Carozzi (con 11 illustrazioni) G. Bistolfi 245 Rizpah - Poemetto di Alfred Tennyson Traduzione di Attilio Rinieri

De Rocchi 253

La ricorrenza del 2 piovoso e Vincenzo Monti - I Alberto Manzi . . 257

Per una novella del Boccaccio Lodovico Frati 275

Il sindacalismo e lo sciopero generale R. Dalla Volta 278

A Superga - Ricorrenze tristi e gloriose dei Reali di Savoia L. Fer- rerò di Cambiano, deputato 287

Notizie letterarie - Lucca e il suo Ducato dal 1814 al 1859, di Cesare Sardi - Il canto XII del « Paradiso » letto da Alfonso Bertoldi nella sala di

Dante in Orsanmichele Raffaello Fornaciari 294

Rassegna drammatica Edoardo Botjtet 299

Tra libri e riviste (con 6 illustrazioni) Nemi . 304

Notizie, libri e recenti pubblicazioni 322

680 INDICE DEL VOLUME

Fascicolo 1003 ottobre 1913.

Per il bonificamento delle terre paludose Luigi Luzzatti, deputato Pag. 329

Rogo d'amore - Romanzo - III Neera 338

André Gide Diego Valeri 355

Quando i lumi sono spenti - Scene Ellen Lxjndberg-Nyblom . . . 370

Motivi scenici a Parigi Romualdo Fantini 388

Il primo cinquantenario del Club Alpino Italiano (con 18 illustrazioni)

Lorenzo Camerano, senatore 396

Verdi in Tribunale Giorgio Barini 421

La ricorrenza del 2 piovoso e Vincenzo Monti (Fine) Alberto Manzi 439 La difesa contro il tifo nell'Esercito e in Libia L. Ferrerò di Caval-

lerleone, generale 4o7

Volumi scritti in versi Emilio Bodrero 462

Rassegna drammatica Edoardo Boutet 473

Tra libri e riviste (con ^ illustrazioni) Nemi 479

Notizie, libri e recenti pubblicazioni 497

Fascicolo 1004 16 ottobre 1913.

Illustrazioni sulle novelle del Boccaccio, di Ugo Foscolo, testo inedito

pubblicato da Eugenia Levi Pag. 505

L'evoluzione della partitura verdiana Domenico Alaleona .... 621 Librettisti e libretti di Giuseppe Verdi Eugenio Checchi . . . . 529 Verdi intimo (con ritratto e due autografi) Caterina Pigorini Beri . 543 Giuseppe Verdi nella musica sacra (con autografo) Giovanni Tebaldini 561

Rogo d'amore - Romanzo - Fine Neera 574

Versi Luigi Siciliani 590

Gioberti ed il popolo piemontese nel dicembre 1848 Eugenio Passa-

MONTI 594

Nel Lazio antico: Ardea (con 5 illustrazioni) Nicola Turchi . . . 606

Il diboscamento in Calabria N. R. D'Alfonso 622

Notizia letteraria Riccardo Pierantoni e le sue novelle - Recenti pub- blicazioni sul Risorgimento - Un libro sulla Regina Margherita

Raffaele de Cesare 632

Onoranze a Giuseppe Verdi Giorgio Barini 643

Rassegna drammatica Edoardo Boutet . . 650

Tra libri e riviste (con 3 illustrazioni) Nemi 654

Notizie, libri e recenti pubblicazioni 672

Direttore-Proprietario: MAGGIORINO FERRARIS

Eafpaello Messini, ResponsaUle

Roma. - Stab. Cromo-Lito-Tipografloo Armali & Stein - Piazzale Villa Umberto 1. - Roma.

AP Nuova antologia

37

N8

V.I51

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