Db . E così, senz'altra difficoltà, si possono introdurre le ulteriori notazioni e formule dei nostri Autori. Matematica. — Alcune formule inedite di I. Weingarten con applicazioni. Nota del Socio Lurer BIANCHI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Bg DL Botanica. — Di alcune osservazioni ed esperienze intorno alla comparsa ed alla persistenza di caratteri nelle forme ve- getali. Nota prima preventiva del Socio R. PrrortAa e del dott. MicHELE PUGLISI. In una lunga serie di colture sperimentali fatte e ripetute per un tempo abbastanza lungo, noi abbiamo potuto raccogliere una larga messe di osser- vazioni. Queste colture, iniziate e continuate col precipuo scopo di portare un contributo alla importantissima questione dell'origine delle forme vege- tali, riguardano un certo numero di piante superiori, distribuite in diversi gruppi o categorie a seconda del carattere o dei caratteri che ci propone- vamo di studiare. Mentre ci riserviamo di esporre particolareggiatamente tutte le nostre ricerche, e di discutere, quindi, i risultati per poter esporre le conclusioni alle quali siamo giunti; crediamo non inutile far conoscere intanto alcuni fatti che ci sembrano non privi di qualche interesse per la questione della quale ci occupiamo. Questa: prima Nota preliminare riguarda alcuni casi noti ed altri nuovi di forme provviste di caratteri teratologici del sistema vegetativo propria- mente detto e del sistema fiorale. A). FASCIAZIONI CAULINARI. 1. Vesicaria reticulata. — Da una seminagione fatta nel marzo 1904 provennero numerosì individui, dei quali, alla ripresa della vegetazione, cioè nel successivo anno 1905, quattro produssero fasciazioni di caule. Soppressi tutti gli individui normali prima della fioritura, si raccolsero i semi soltanto dai rami fiorali portati dai cauli fasciati. Orbene, quantunque le condizioni di terreno, di esposizione e di col- tura siano state sempre simili, nè d discendenti immediati di questi semi, nè le generazioni successive ottenute man mano dagli individui delle ge- nerazioni precedenti, fino al 1910, non hRazrzo mai dati individui con cauli fasciati e nemmeno con accenno 2 fasciazioni. 9. Bunias orientalis. — Da una seminagione fatta nel marzo del 1904 si ebbe un certo numero di individui, tra i quali, nell’anno successivo, alla ripresa della vegetazione, ne comparve uno fasciato. Isolato opportunamente questo individuo prima della fioritura, sì rac- colsero i semi di esso solo. Da questi semi si ottennero la seconda generazione, e le altre succes- sive dal 1905 al 1910. Ora nel 1907, dei ventotto individui costituenti la seconda generazione, erano normali tutti meno uno, il quale presentava la fasciazione di due rami primari. I REI fica Sta ara ent È i îi SA Degli individui normali se ne conservarono sette; cosicchè di questa ge- nerazione persistettero in tutto otto individui. Fra essi, nel 1908, alla ri- presa della vegetazione, altri quattro individui portarono cauli fasciati; però nel 1909, nel nuovo periodo vegetativo, tre soli degli individui che avevano mostrata fasciazione nell'anno precedente, la mantennero, mentre gli altri ri- tornarono normali. Invece l'individuo che presentò la fasciazione nel 1907, la mantenne sempre. Dai semi raccolti da questo indivividuo si ottenne una terza gene- razione, costituita soltanto da dieci individui, dei quali, alla ripresa della vegetazione tre presentarono fasciazione del caule. dt s kx A i È TEA i a 4 ; È SRL Nei s Nel 1910 si avevano in coltura trenta individui, dei quali diciotto delle due generazioni precedenti, dodici provenienti da semi raccolti sui rami fiorali di cauli fasciati; cosicchè mel totale, gli individui fasciati erano quindici. Notevole è il fatto che in tutti questi individui con cauli fasciati, siano quelli già esistenti come quelli nuovamente comparsi, lo sviluppo della fasciazione è molto più considerevole, e in alcuni dei vecchi vera- mente potente. È pure degno di nota, che l’aiola, nella quale vissero sempre indi- vidui con cauli fasciati, ne presentava sei fasciati sopra sette nel totale; quella immediatamente vicina ne conteneva cinque fasciati su otto indi- vidui; mentre le altre due aiole che contenevano gli altri quindici individui e che stavano più lontano, presentavano due individui fasciati ciascuna. Abbiamo soppressi accuratamente, nell’anno 1910, i fiori prima della antesi portati da tutti i cauli non fasciati ; abbiamo isolati i fiori por- tati dai cauli fasciati, in modo da raccogliere soltanto i semi provenienti Aa da f Me da fiori svoltisi sui soli rami, rispettivamente in fiorescenze, fasciati, allo scopo di continuare le nostre colture sperimentali. Intanto però da questa prima serie di colture si può concludere che il carattere della fasciazione comparso in un solo individuo, non soltanto si è conservato nei discendenti, ma è andato mano mano accentuandosi, sia perchè apparve în un numero sempre maggiore di individui, sia perchè le fasciazioni diventarono sempre più ampie, quasi colossali, come lo di- mostra la figura che rappresenta un gruppo di fasciazioni di individui în fiore fotografato nel 1910. B). FASCIAZIONI FIORALI. Zea Mays L. — Nell'aprile del 1905 furono messi nel terreno nu- merosi chicchi tratti da una fruttescenza mostruosa per essere appiattita e ramificata o proliferante. La fioritura, che ebbe luogo da luglio ad agosto, fu apparentemente normale per le infiorescenze staminifere. Delle numerose piante però, sol- tanto una dozzina portarono infiorescenze carpellifere e precisamente uno spadice ciascuno e quasi sempre di sviluppo assai stentato. Di questi dodicì individui uno solo presentò lo spadice coi caratteri teratologici offerti da quello del genitore. Era infatti breve, appiattito, e ramificato alla base in altri piccoli spadici, ciascuno dei quali portava, come il principale, qualche chicco abbonito. Gli spadici delle altre piante, assai ridotti nello sviluppo, non por- tavano alcun frutto maturo. Di quelli raccolti sullo spadice teratologico, soltanto alcuni pochi ger- minarono, ma le piantine o non si svilupparono o non giunsero @ produrre i fiori. C). ALTRE ANOMALIE FIORALI. 1. Papaver somniferum monstruosum. — Alla prima fioritura nel giugno-luglio 1905 delle piante provenienti da semi dell’Orto Botanico di Amsterdam, il 18 °/, circa dei fiori presentaronsi mostruosi, specialmente perchè un numero più o meno grande di stami erano trasformati in altret- tanti piccoli pistilli isolati e distinti. 1 semi abbonirono in poche capsule dei fiori normali; pochissimi abbo- nirono nelle capsule dei fiori anormali, poichè la maggior parte di esse erano vuote, come senza semi erano i piccoli fentti provenienti dalla trasforma- zione degli stami. Raccolti a parte i semi delle capsule dei fiori normali e quelli delle capsule di fiori anormali, nei loro discendenti, cioè nei rappresentanti della seconda generazione, l'anomalia si ripresentò, ma in grado e in proporzioni notevolmente minori, poichè la grande maggioranza era costituita da fiori perfettamente normali. ge Si notò invece una grande variabilità nel colore e nella forma dei petali. Anche in questa generazione i piccoli ovarî provenienti dalla metamor- fosi degli stami, erano senza ovuli, o ne portavano pochi che non abboni- rono ì semi. La proporzione fra le capsule vuote con quelle piene nei fiori di questa generazione, oscillava, per i fiori normali intorno al 65 °/,, per gli anormalî intorno all'80 °/o. Alla terza generazione, costituita da individui provenienti da semi di capsule da fiori normali e di altri provenienti da semi di capsule da fiori anormali della seconda generazione, non s? ebbe più alcun caso di anomalia, nemmeno accenno alla sua comparsa. Le piante nate da semi di individui anormali fruttificarono però scarsamente e non abbonirono alcun seme; quelle nate da semi di individui normali, portarono nuove capsule e nuovi semi nelle proporzioni quasi ugnali a quelle della generazione precedente. 2. Erysimum orientale apetalum. — I semi di questa forma prove- nienti dall’Orto Botanico di Amsterdam, seminati nel marzo del 1905, die- dero numerose piante che fiorirono già nel maggio dello stesso auno. I fiori assolutamente apetali erano rarissimi; generalmente essi presentavano uno, due, tre o anche tutti quattro i petali di color bianco. Qualcuno di essi era ridotto anche quasi soltanto all'unghia e più o meno deformato specialmente nei fiori che portavano più di un petalo. Esempio di tutti questi fiori si riscontra- vano anche nello stesso grappolo fiorale. I semi abbonirono in scarso numero, specialmente nei fiori nei quali sì mostrava più spiccata la tendenza alla soppressione dei petali. Essi germi- narono nella proporzione del 48 °/,, dando luogo a una seconda generazione, nella quale st manifestò una tendenza al ritorno alla forma normale dei petali. Si conservarono soltanto gl'individui nei quali più spiccavano i carat- teri di subapetalia e si soppressero tutti gli altri subito dopo la fioritura. La terza generazione sorta dai pochi semi ottenuti dai primi individui, era costituita da individui, med quali sé manifestava sempre più la tendenza al ritorno alla forma normale. s. Panicum clandestinum. — Seminato ai primi di marzo del 1905, fiorì da settembre a novembre dello stesso anno. In questo primo anno tutte le infiorescenze e più tardi le infruttescenze rimasero sempre clandestine, cioè incluse perfettamente e avvolte completa- mente dalla guaina fogliare accartocciata nel senso longitudinale. I semi abbonirono abbondantemente. Allo stesso modo si comportarono le piante nel successivo anno 1906. Nel terzo anno, 1907, al principio della fioritura tutte le infiore- scenze divennero libere, uscendo dalle guaine fogliari, e distendendosi am- piamente; però tuti i fiori caddero, dopo l’antesi, al suolo, e non ma- turarono alcun seme. RenpIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem, 2 SE Contemporaneamente a questa caduta dei fiori si presentavano in altri rami di sviluppo più tardivo nwove infiorescenze nascenti nelle guaine fo- gliari, cioè clandestine, le quali maturarono i semi nel corso dell'estate fino a novembre, conservando in modo assoluto il carattere clandestino. Si ebbe adunque : nel 1905 una fioritura sola prettamente clandestina, estiva-autunnale; nel 1906 una fioritura sola, prettamente clandestina, autunnale, fertile; nel 1907 una fioritura precoce primaverile e perfettamente libera € aperta, ed una seconda fioritura estivo-autunnale, prettamente clandestina; la prima sterile, la seconda fertile. Nei successivi anni 1908, 1909, 1910 la fioritura annuale di queste I piante è stata sempre aperta, libera, senza alcuna traccia di clandestinità. È Dai semi della fruttificazione unica clandestina del 1906 si ottennero nuove piante che fiorirono per la prima volta nel 1908 cor fioritura estivo- autunnale perfettamente clandestina, fertile. Nell'anno successivo però, 1909, le infiorescenze di queste piante, @ fioritura estivo-autunnale, sono state completamente libere, aperte, ma furono fertili, avendo prodotto frutti, perchè non caddero i fiori. Matematica. — Sull’operatore di Laplace per le omografie vettoriali. Nota di 0. BuraLi-FoRTI, presentata dal Socio T. LEVI- CIVITA. Gli operatori assoluti 4,4" che compariscono nelle note (') formule d grad m ? (a) Am= l - = div grad m È du i | (5) d'u= grad so n grad divu — rotrotu, | per m numero ed u vettore funzioni del punto P, corrispondono, una volta I introdotte le coordinate cartesiane, all'operatore di Laplace > DE Di c d = Ti PEZZA SALO | (0) ui > LE dWY° Tag | Se nella (a) si pone una omografia generale @ al posto dell’omogratia I speciale (numero) m, allora Aa è numero ben determinato, ma l'operatore 4 non ha più la forma (c). L'operatore cartesiano 4, è certo applicabile ad una omog. € produce una omog. Nelle applicazioni si presenta l’omog. che si ottiene applicando | (*) C. Burali-Forti e R. Marcolongo, Omografie vettoriali, pag. 61 (citeremo questo libro con 0. v.). ARTE ]E Va (c) ad una omog. @ qualunque (*). Pare dunque importante introdurre una nuova omog., che è opportuno indicare con 4a (estendendo il significato di 4 nella (a)), che dia la (4) come caso particolare e per la quale l’ope- ratore 4 corrisponda, introdotte le coordinate, al tachigrafo 4.. In questa Nota espongo le proprietà fondamentali dell'omog. 4a, e come applicazione, che pare importante, dò la soluzione generale della equazione oradici_fii essendo é omog. (incognita) e f vettore (dato) funzioni del punto P (?). 1. Se essendo « una omog. funzione del punto P poniamo, per x vet- tore arbitrario funzione di P, | d(cx) dx | d [1] (4a)x= grad Rapa? 2a ap | + @ (graà DD) ; è facile riconoscere, per mezzo delle formule (0. v., n. 26) che collegano gli enti assoluti ai tachigrafi cartesiani, che 4a è appunto ciò che si ottiene applicando il 4, ad «. Risulta così in modo indiretto (*) che 7@ è omog. funzione di @ ed è numero solo quando @ è numero. Segue ancora che 4 è operatore tra omog. e omog., e quindi, come il 4' (che è operatore tra vettori e vettori (*) (1) Al prof. T. Boggio si è appunto presentato in alcune ricerche sulla elasticità, il simbolo 4'(«a), con a vettore costante, simbolo che gli era utile trasformare in (40)a, | essendo Ze l’omog. che si ottiene applicando (c) ad @«. È in seguito alla comunicazione fattami dal prof. Boggio che ho creduto utile studiare l’omog. 4a. (°) Maxwell, Scientific Papers, vol. II, pag. 102. — Morera, Soluzione generale delle equazioni indefinite dell'equilibrio di un corpo continuo, Rend. Acc. Lincei, serie V, vol. I, 1° sem. 1892. (8) Cioè per mezzo delle coordinate. Per dimostrare direttamente, sotto forma asso- Inta, che 4a è omog. basta provare che (4a) (x+y)=(4)x+(4)y e (4@(mx)=m{(4e)x}. La prima risulta subito dalla [1]. La seconda si deduce pure dalla [1] applicando note regole di calcolo omografico (0. v., n. 23, [2], [11]) e tenendo presente che d grad H(u, v) = (div u) v+i u. In modo analogo dalla [1] si deduce la (0). (É) E quindi 4 e 4” operatori distinti, come risulta anche dalle (a) (5), [1], per quanto ridotti alla forma di tachigrafi per le coordinate abbiano la forma (c) a comune. Mor ammette le potenze positive di qualsiasi ordine (non quelle negative non essendo 4 invertibile come risulta subito da [1] ), potenze che però non sappiamo attualmente esprimere in modo semplice mediante l'operatore TP o i suoi derivati grad , rot, div (OL Nelle formule seguenti che esprimono importanti proprietà, non ancora note, degli operatori 4,4", valgono le ipotesi; « è omog.; m è numero; u.,v,x sono vettori (tutti funzioni del punto P); a è vettore indipendente da P (costante). [2] (da) x = d'(ax) + a(d'x) — 2 grad (« 3 , ovvero sotto forma simbolica (e corretta perchè l'aggruppamento (grad @) Di è privo di significato) indipendente da Xx, (26 da= d'a + ad' —2grad ad [3] (da) a= d'(«a) = grad du [4] V(Aa)= A4'(Va) [5] D(4a) = 4(Da), K(4a)= 4(Ka),I(/e) = 4(h0) [o] Ame =m(40) + (Am) a +2 55 grad m [O. v., n. 25, [5] per @ numero] [7] 4 (cu) = (4a) u— a(4'u) + 2 grad (« >) Cla [2] (0. è., n. 25, [7] pere numero ] [8] 4(uA)= (4) A K CO] sn mt 0) +0 +2 (1) [10] grad (da) = 4'(grad a) (°) O. v., n. 25, [11] dim. solo per @ numero |. 2. La soluzione generale della equazione [11] grad é= 0, (*) La prima delle [12] del n. 25 di 0. v. vale soltanto per 44 applicato a numero. (2) Le dimostrazioni non presentano difficoltà, sia che si facciano in modo assoluto; sia mediante il tachigrafo cartesiano 42. Con questo bisogna notare che da du , de du , da du du n STO tif 3g | a grad (« TP )- a(d'u). ME Gare essendo È omog. funzione del punto P, è dgrada E I O ie [12] S da dP 9 ove « è una omog. ARBITRARIA funzione di P (*). La soluzione [12] soddisfa certo alla [11] perchè la [10], in virtù della (5), assume la forma SI _ dgrada) _ : grad 49 ÎOgpi (aprite resta quindi da provare che: ogni soluzione della [11] ha la forma [12]. Se a è vettore costante, arbitrario, si ha (0. v., n. 24, [10]) a X gradz= div(Kta) (?), e quindi la [11] equivale a [11] div(Kfa)=0, per a vettore costante arbitrario. La [11'] esprime anche che Kéa deve essere la rotazione di un vet- tore (*). Inoltre: affinchè la [11'] sia vera per a qualunque basta che sia verificata per i tre vettori i,j,k di una terna ortogonale unitaria costante. Dunque: resterà dimostrato che la [12] è soluzione generale della [11]. quando si potrà provare che: fissati ad arbitrio i vettori wu, V,W, fun- zioni di P, e la terna unitaria ecc. costante i,j,k esiste almeno una (1) Ciò prova l’importanza del gradiente di una omografia e delle derivate rispetto ad un punto, elementi che non possono esser considerati con i sistemi di Hamilton, Gibbs e con i fensori dei tedeschi, mancando il concetto assoluto di omografia generale. Per a numero, é è una dilatazione, e dalla (12) si ottengono, in tale caso particolare, formule già note. (®) È sotto questa forma che, recentemente, il prof. T. Boggio ha data la importante def. assoluta di grad a, def. che era stata data in 0. v. mediante una terna ortogonale (Sul gradiente di una omog. vettoriale, Rend. Acc. Lincei, vol. XIX, ser. 5%, 2° sem. 1910). In generale, per u vettore funzione di P si ha: d(Kew) _ dP 994) dP\° uXgrade=L} (K (3) Cfr. ad es. Elements de Calcul Vectoriel, A. Hermann, Paris, 1910 (Chap. II) di C. Burali-Forti e R. Marcolongo. omog. a tale che ; dgrad a K(4a)i =K=Tp_! rot ul [13] l K(4a)j È MEI Sao i dP K(4a)k — E Agrate prot 0). Alla omog. generale « si può dare la forma [14] a=H(x 1) + H(y,j) + H(2,) coon x= Kai, ecc. Allora dalle formule del n. 1 si ha subito (0. »v., 629, UU) K(4a) HA) SE = 52 —Siradidivo) ==, dalle quali (0. v., n. 24, ultima delle [17]) [15] K(da) — E ÉSO0a = — H(i,rotrotx)—- — In conseguenza la relazione tra i vettori wi, ... © i vettori x ,... che, per la [14], determinano a, è espressa, in virtù delle [13], dalle formule rot(rtx +-u)=0 , rot(roty + v)=0 , rot(rotz + w)=0:; ma da queste risulta (Z/éments..., loc. cit.) che devono esistere i numeri m,n,p, funzioni di P, in guisa che [16] rotx+u=gradm, rtty+v=grad% , rotz + w = grad p. Per un noto teorema di Clebsch (2). dati u,v,w esistono effettiva mente X,... M,... soddisfacenti alle [16]. Dunque è possibile determinare con le condizioni [13] e quindi Za [12] è soluzione generale della [11]. 3. Se la £ della [11] deve essere una dilatazione, VE=0 (il suo determinante è simmetrico), allora la @ della [12] non è più arbitraria, (*) Da queste formule risulta, per € dato dalla [12], I,é= (rotu)Xi+ (rot vw) Xj+4(rot w)X k 2VE= (rotu) \i+ (ot w) Aj+ (vot w) /\ k. (3, Una dimostrazione assoluta, semplice e completa di questo teorema, sì trova nella recente Nota del prof. Burgatti, Risoluzione di alcuni problemi relativi ai campi vettoriali (Acc. Sc. Ist. Bologna, 1910). CET ma, per la [4], deve soddisfare alla condizione [17] cia vende "i È. La determinazione effettiva della @ si fa (n. 2) mediante i vettori u,V,w arbitrarî nel caso generale. Se deve esser vera la [17], cioè È esser dilatazione, allora è vettori u,V,w devono soddisfare alla condizione [18] i/\rotu+4jArotv+4kArotk=0. Infatti. Per formule ben note si ha | A derada 5 È | Va=xNi+ +, AP = H (grad divx ,i) +-+ | e in conseguenza 24'(Va)=(4x)\i+--+- | | 2V CERTE _ (grad divi) AE; la [17] sarà dunque vera solamente quando (0. v., n. 24, [17]) (rot rotx)\i+---4+--=0 che (n. 2) coincide con la [18]. 4. È facile ottenere una soluzione particolare #, della equazione Invero. Si determini (teorema di Clebsch già citato) un numero m e un vettore u tali che | [19] graditi. | | | [20] f= grad m + rotu; basta poi porre | [21] o=m_—-Uu/ | perchè si abbia (0. »., n. 24, [15]) dalla [20] | grad &,= grad m — grad (u/)== grad m + rotu= f. Osservando allora che da risulta grad(£ — &)=0 si ha: | eg — La soluzione generale della equazione [19] è d grad a [22] i-MAPee: ove m,u soddisfano alla [20] ed @ è omog. arbitraria funzione di P. Se si vuole che £ sia dilatazione, Vé=0, allora « deve soddisfare alla condizione d grad a che risulta subito dalla [22]. Meccanica. — Determinazione dell’equazioni di Hamilton- Jacobi integrabili mediante la separazione delle variabili. Nota di Pretro BurgATTI, presentata dal Socio T. LEvI-CIVITA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Matematica. — Remarque relative à ma Note: « Solution générale du problème de développement ete. » (*). Nota di W. STEKLOFF, presentata dal Socio T. LEVI-CIVITA. Dans l’énoneé du Théorème III de ma Note, dont il s'agit, j'ai trouvé une erreur purement typographique, mais très grave, qui a privé de sens méme le théorème que je voulais signaler. J ‘ai l’nonneur de prier l’Académie de me permettre de corriger cette erreur et de rétablir l’énoncé véritable du théorème. La formule fa) < Vila) I f(x) Vi(@) da da)=° - 7 o) q(2) Vx(2) de o) (1) Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. XIX, ser. 5°, 2° sem., fasc. 10°, seduta del 20 novembre 1910. RR] inserée à la page 496 (ligne 3) n'a évidemment aucun sens et doit étre remplacée par la suivante: f(2) = D (M, soa MEDE 14 où > Sie) 0) E i Le Théorème III doit ètre énoncé comme il suit: TuHgoREME III. Toute fonetion continue f(x) se développe, dans V'in- tervalle (a,b), en série uniformément convergente de la forme (M, Tri M,-1) ’ 1 f(@)= ll vs n OÙ C'est précisément le théorème que je voulais signaler. Il est évident qu'il résulte immédiatement de l’inégalité f(a)- S——| 11053 2,942 3,430 — 25 2,819 2,701 — 97 2,910 3,392 2196 2,286 2,662 — 89 2,828 3,297 — 13 2,294 2,602 — 30 2,776 3,230 — 84 2,192 255S — 754 2,722 3,172 — 6,5 9,174 2,532 — 69,7 2,680 3,123 —3 2,150 2,503 — 62 2,608 3,039 0 2,134 2,485 — 57 2,576 3,002 5 2,098 2,443 — 52 2,535 2.954 11 2,062 2,401 — 40 2,435 2,837 16 2,022 2,385 4 — 36 2,399 2,795 18 2,012 2,942 Rappresentando graficamente questi resultati, si ottiene un diagramma rettilineo. I valori osservati per il liquido vischioso a temperature più basse di — 112 sembrano situati su «quella stessa retta. Per questa parte però occorrono ulteriori ricerche, che formeranno argomento di una prossima Nota. 9. Concludendo, possiamo dire che: l'aria, anche se pura, produce una diminuzione nella tensione super- ficiale dell’acqua, almeno dell'1 per cento; le soluzioni equimolecolari dei due steoreoisomeri esaminati presen- tano la stessa tensione superficiale; la tensione superficiale dell'alcool assoluto è una funzione lineare della temperatura fino al suo punto di fusione, e tutte le misure su questo liquido possono farsi all'aria libera purchè si adottino le cautele necessarie per impedire l'azione dell'umidità. Chimica. — Zterifcazione degli isorazoloni con il diazo- metano. Nota dei dott. E. OLIveRI-MANDALÀ e A. CopPoLA, pre- sentata dal Corrispondente A. PERATONER. i Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Chimica. — Sintesi di derivati della 1.8-naftiridina dal- l’a-ammino-piridina. Nota dei dott. F. CARLO PALAZZO e ASTORRE TAMBURINI, presentata dal Corrispondente A. PERATONER. Nella presente Nota riferiremo brevemente alcune reazioni d’indole ge- nerale dell’a-ammino-pividina e di alcuni suoi acil-derivati, le quali da più lati ci sembrano degne di attenzione. Esse pongono in singolare rilievo il carattere sostanzialmente aromatico dell'ammina, carattere messo in dubbio da qualche autore, e costituiscono d'altronde un processo sintetico per giun- gere a composti contenenti due anelli piridici fra loro saldati in «8, deri- vati cioè di quella base, tuttora ipotetica, per la quale Reissert (1) ha pro- posto, come si sa, il nome di 1.8-naftiridina: CH CH HO CH HC NI CH N N Finora i derivati più prossimi di questo nucleo erano costituiti, anzi- tutto, da un prodotto completamente idrogenato, la ottoidro-1.8.naftiridina di Reissert (*?), e, in secondo luogo, da associazioni, anche esse del resto idrogenate, del nucleo suddetto con nuclei benzolici, dalle naftinoline, pari- menti di Reissert (*). Tanto queste che la ottoidro-naftiridina suddetta sono (*) Berichte, 26, 2137 (1893). (?) Loc. cit., e Berichte, 27, 979 (1894). {£) Berichte, 27, 2244 (1894). È i > ottenute per condensazione interna di acidi ammidati, e non è conosciuta finora una sola sintesi, la quale mostri fra i derivati piridici e i derivati, più o meno prossimi, della naftiridina, le stesse relazioni gemetiche che cor- rono, per es., fra i derivati del benzolo e quelli della chinolina. Fra le numerose vie che, teoricamente, condurrebbero a derivati della 1.8 .naftiridina è da menzionarsi, come una delle più dirette, quella seguita da Markwald, l'applicazione cioè, all’e-ammino-piridina, rispettivamente, delle sintesi di Skraup e di Doebner-Miller ('). Questo tentativo (che Markwald ha anche esteso alla y-ammino-piridina) mostrava una certa probabilità di successo, inquantochè con le sintesi ora citate si riesce infatti, in altri casi, a chiudere un nucleo piridico su di un altro. Così, dalla y-ammino-metil- chinolina, Markwald ha ottenuto, con la reazione di Skraup, l’a-metil-y- chino-chinolina, e, con la reazione di Doebner-Miller, l’ae'-dimetil-y-chino- chinolina (?): Li NH: o | ALE 0 ( i ‘i | ) di) Vv CH; di Tuttavia, nel caso dell’a- (e anche della y-) ammino-piridina, le due sintesi in discorso non si compiono affatto (*). Ed a questo proposito è anzi curioso notare che mentre Markwald non vede una ragione teoretica per cui l’e-ammino-piridina non sia atta alla reazione che egli brevemente chiama « Pyridinanlagerung », rileva immediatamente che il gruppo ammidico di questa sostanza (e dell'isomero col gruppo NH» in y) mostra anche sotto altro aspetto un contegno completamente diverso da quello delle basi aro- matiche. Non si comprende difatti a quale altro aspetto intenda riferirsi l’Autore, ed in ogni caso è oscuro perchè questa divergenza da lui rilevata non possa servire allora a spiegare il contegno negativo della stessa base proprio nelle esperienze dirette alla sintesi di una naftiridina coi metodi di Skraup o di Doebner-Miller. Più recentemente, H. Meyer (4) ha riscontrato difatti nell'a- e nella (1) Annalen, 279, 17 (1894). (3) Ibidem, 20-22. (3) Anche l’a-ammino-lepidina non si condensa in derivato chino-chinolinico; sem- bra tuttavia che i due insuccessi non siano paragonabili, ma invece di natura affatto di- versa. Secondo Markwald, l'indifferenza dell’a-ammino-lepidina potrebbe mettersi in rela- zione con la struttura del nucleo chinolinico, mentre nel caso dell'a e della y-ammino- piridina non si vede alcuna ragione teoretica perchè le dette reazioni falliscano. (4) Monatshefte, 26, 1303 (1905). O po y-ammino-piridina, dal punto di vista della loro basicità, una interessante anomalia, dalla quale apparirebbe che il loro gruppo amminico sia in realtà spogliato (« beraubt =) del carattere aromatico. Tanto l’azoto del nucleo pi- ridico, quanto il gruppo amminico, considerati in teoria, appaiono capaci di addizionare, ognuno per conto suo, una molecola di idracido alogenico. Pur- tuttavia l'esperienza dimostra che ciò si verifica soltanto per gli ammino- derivati della serie #, e non vi è invece un solo derivato della serie @ 0 y che sia in grado di addizionare più di una molecola di idracido. Verso gli acidi minerali il gruppo | 0 dell'orto-ammino-piridina, e quello, analogo, della para-ammino-piridina, si comportano dunque, osserva l’Autore, come un sol tutto (« wie eine einzige einheitliche Gruppe »), cosicchè le due sostanze mostrano solo il contegno di altrettante basi mono-acide. E a questo proposito egli svolge delle vedute sulle influenze steriche, chiamando gruppi atomici coniugati quelli in cui, appunto come nelle ammino-piridine in questione, si fanno sentire simili influenze. Queste si manifestano peraltro, secondo H. Meyer, anche nel con- tegno dei detti composti alla diazotazione: i derivati della serie # si lasciano regolarmente diazotare e copulare in azo-composti; e gli ammino-gruppi in @ e y sì comportano, invece, da radicali alifatici estremamente resistenti. Gli @- ed i y-ammino-derivati non sono diazotabili, e se una reazione con acido nitroso viene forzatamente prodotta, essi vengono trasformati senz'altro in piridoni, senza formazione intermedia di diazo-corpi. Ma che queste anomalie, venute in luce posteriormente ai tentativi di sintesi suddetti, possano rendere conto dell’insuccesso di questi tentativi, non si può nemmeno affermare. Malgrado esse, non è tuttavia perduta nel- l'a-ammino-piridina l'attitudine a condensarsi con le aldeidi, per es. con l'aldeide salicilica e con l’aldeide p.nitro-benzoica (8), e ciò ha la sua im- portanza se si considera che nelle sintesi di Skraup e di Doebner-Miller si tratta, innanzi tutto, appunto di una condensazione del gruppo amminico con quello aldeidico. D'altra parte, anche di fronte ai mezzi di acilazione, l'e-ammino-piri- dina mostra un contegno tutt'altro che divergente da quello delle basi aro- matiche: così, l’acetil-derivato si ottiene facendo bollire la base con anidride acetica soltanto per pochi minuti (*), e il benzoil-derivato si ottiene tanto per fusione della base con anidride benzoica (‘), quanto anche in soluzione (*) Berichte, 22, 1001 (1899). (?) Arch. d. Ph. 240, 349 (1902). (*) Ibidem, pas. 350. | | Î \ MA acquosa col metodo Schotten-Baumann ('). L’a-ammino-piridina reagisce pure con la massima facilità con l'etere clorocarbonico (*), ed in tal caso, anzi, il fatto che assieme coll'e-piridil-uretano C.H,N.NH.CO.0C-H; for- masi anche ae'-dipiridil-urea C.H,N.NH.CO.NH.NC;H,, mostra che il gruppo ammidico della base entra in reazione col gruppo carbossietile degli eteri altrettanto facilmente che con le anidridi e con i cloruri degli acidi. Avuto riguardo a tutto ciò, e considerando altresì, che fra le reazioni sintetiche che conducono dalle ammine aromatiche ai derivati della chino- lina, quelle d’indole così generale, di Knorr, delle ossi-chinoline, esordiscono in sostanza da una particolare acilazione delle dette ammine, con gli eteri acilacetici (®), abbiamo pensato che non fosse preclusa ogni via per giungere dall'a-ammino-piridina a derivati dell’1 . 8. naftiridina; ed in questo intento abbiamo cominciato dall’esaminare il contegno di quella base rispetto agli eteri acetacetico e benzoil-acetico. Anticipiamo subito che tale contegno non potrebbe meglio coincidere con quello osservato da L. Knorr per numerose ammine aromatiche (anilina, metil-anilina, o.toluidina, p.toluidina). L'e-ammino-piridina si lascia infatti facilmente acilare anche dagli eteri chetonici suddetti, e i derivati così ot- tenuti mostrano la maggiore analogia con i corrispondenti derivati dell’ani- lina, principalmente per il fatto che, mediante acido solforico, si lasciano anch'essi disidratare, richiudendosi in questo caso la catena laterale, croto- nica, sul nucleo piridico: CsH; (Hola C.CH, Ax ASSE AN/Ncg | 0,H;.C(OH): CH. C000,H; | | Do H,S0, | | pr — __—. NI NASA NAST NH, NH N N N Noi crediamo per ciò interessante estendere queste nostre ricerche ai prodotti biciclici del tipo ora cennato, dai quali — come ne convincono ragioni di analogia — non dovrà essere difficile ottenere delle basi esenti di ossigeno, e in definitiva la 1.8.naftiridina. E tali ricerche ci proponiamo d' intraprendere non appena avremo preparato un’adeguata quantità dell'am- mina di partenza, tuttora, purtroppo, poco accessibile. (*) Berichte, 26, 2139 (18983). (2) Camps, loc. cit. pag. 350. (*) Berichte, 27, 540 (1884); Annalen, 236, 69; 245, 357 (1886-88). SAT PARTE SPERIMENTALE. 1. Preparazione dell’a-ammino-piridina. — Questa interessante ammna della serie piridica è stata ottenuta da diversi sperimentatori, ma sempre con procedimenti speciali che non hanno riscontro nel metodo classico per la maggior parte delle ammine aromatiche. Primo a descriverla, nel 1898, è stato Markwald (') che la ottenne per distillazione dell’acido ammido- nicotico; due anni dopo, essa è stata ottenuta da A. Philips (?) da un de- rivato chinolinico, e da H. Meyer (*) dall’acido picolico; e finalmente, nel 1899, essa è stata ottenuta ancora per una nuova via da 0. Fischer (h partendo cioè da N.alchil-piridoni. Tutti indistintamente questi processi sono lunghi, o richiedono un materiale di partenza alquanto costoso, e questa può essere forse una ragione per cui l’a-ammino-piridina — se si eccettuano i tentativi di Markwald — non è stata adoperata a scopi sintetici. Da parte nostra abbiamo preferito prepararla con la sintesi indicata da Philips, la quale, pure implicando una serie anche più lunga di reazioni (2): offre il vantaggio che il materiale di partenza, l'acido chinolinico, può pro- curarsi (sufficientemente puro per le trasformazioni che deve subire) facil- mente, ossidando con acido nitrico (°) un composto chinolinico di sintesi che si trova in commercio come sostanza colorante, lo « Alizarin-indigblau ». Ci sia permesso a questo proposito ringraziare pubblicamente la Fabbrica Ba- dense di anilina e soda, la quale, per gentile intercessione del sig. prof. Pe- ratoner, ci fornì gratuitamente parecchi chili di un bleu d'’alizarina conte- nente ancora molto meno ceneri del prodotto commerciale, e specialmente adatto alla preparazione di acido chinolinico. 2. Reazione con l'etere acetacetico. — Il modo di operare che nei nostri svariati tentativi ci ha fornito il rendimento meno scarso è stato il seguente. Gr. 2 di a-ammino-piridina pura (p. eb. 210°, p. f. 56°) vengono sciolti in gr. 2,75 (1 mol.) di etere acetacetico puro, e la soluzione viene mantenuta, per un'ora e mezza, in tubo chiuso, a 120-125°. Scacciatone indi l'alcool per breve riscaldamento in capsula piatta su bagnomaria bollente, sì (*) Berichte, 26, 2189 (1893). (*) Annalen, 288, 253 (1895); vedi anche Berichte, 27, 839 (1894). (*) Monatshefte, /5, 164 (1895). (*) Berichte, 32, 1297 (1899). (9) Dall’acido chinolinico si prepara anzitutto l’anidride per ebollizione con ani- dride acetica. Da essa, per azione successiva di ammoniaca gassosa (in soluzione benzo- lica), e di anidride solforosa (in soluzione acquosa), si giunge a l’acido chinolammico. Questo viene sottoposto alla reazione di Hofmann, e l’acido ammido-nicotico così ottenuto viene infine distillato. (°) Annalen, 276, 33 (1893); 288, 254 (1895). ReNDICONTI, 1911, Vol, XX, 1° Sem. 6 egg raffredda bene il liquido di reazione con sale e neve, e, stropicciandolo for- temente con una bacchettina di vetro, se ne fa cristallizzare il prodotto. La densa poltiglia così ottenuta viene distesa (rapidamente, acciocchè il prodotto non si ridisciolga nell'acqua madre) in strati sottili sopra lastre porose, e in tal modo il prodotto di reazione rimane quasi del tutto esente di olio, perfettamente bianco, e di splendore serico. Il rendimento è l'8°% circa del teorico, ottenendosi per lo più gr. 0,3 di prodotto da 2 grammi di base. La depurazione ulteriore del prodotto grezzo si pratica nel miglior modo cristallizzandolo da un miscuglio di 3 vol. di etere petrolico e 2 vol. di benzolo. Si ottengono allora fini aghi bianchi, splendenti, che verso 110° si rammolliscono, per fondere, nettamente, a 113°. Una determinazione di azoto su questo prodotto ci ha mostrato che esso è, di fatti, il derivato N.aceta- cetilico dell’a-ammino-piridina: gr. 0,1486 di sostanza fornirono cme. 21,1 di azoto, misurati a 21°, a 752 mm. N°/: trovato 15,98; calcolato per (C:H,N)NH.CO.CH:C(0H).CHsz 15,75. In armonia con ciò, il prodotto mostra, in fatto di solubilità, un con- tegno amfotero, e mentre è scarsamente solubile in acqua fredda, vi si scio- glie bene, e immediatamente, non solo per aggiunta di un acido minerale, ma ancora per aggiunta di alcali. In soluzione acquosa- -alcoolica, esso dà poi, appunto come derivato dell'etere ossi-crotonico, un precipitato verdastro con acetato ramico leggermente ammoniacale, e un'intensa colorazione rosso- violetta col cloruro ferrico. Infine è notevole che, tanto per le condizioni in cui il prodotto si forma dall’ammino-piridina, quanto pei caratteri menzio- nati, ed ancora per la solubilità nei varî solventi, esso presenta la maggiore analogia con l' N . acetacetil-derivato dell’ anilina. 3. Reazione con l'etere benzoil-acetico. — In modo affatto analogo a quello testè descritto si. verifica anche la reazione dell’a-ammino-piridina col benzoil-acetato di etile. Siamo partiti anche in questo caso da 2 gr. di base alla volta, ed abbiamo riscaldato ugualmente a 120- 125° per la durata di un'ora e mezza, impiegando una sola molecola di etere benzoil-acetico. L’'isolamento del prodotto grezzo di reazione avviene poi nel medesimo modo sopra indicato; il rendimento tuttavia è un po' migliore che nel caso del- l'etere acetacetico, cioè, il 12°/ circa del teorico, ottenendosi in media da 2 gr. di base gr. 0,6 di prodotto. Anche la depurazione di questo benzoil-acetil-derivato si pratica nei miglior modo cristallizzandolo da un miscuglio di etere petrolico (3 vol.) e benzolo (2 vol.). Si ottengono allora fini aghi bianchi, splendenti, che fon- dono a 110° (rammollendosi pochi gradi prima, a 106°), e che sono molto simili nell'aspetto al derivato dell'etere acetacetico. Sì 31:70) PA Gr. 0.1779 di sostanza fornirono cme. 18,5 di azoto, misurati a 20° e a 758 mm. N°: trovato 11,85; calcolato per (C:H,N)NH . CO. CH: C(OH).C,H; 11,66. La benzoilacetil-@-ammino-piridina, per i caratteri di solubilità e per il suo contegno amfotero, di base e di acido, è del tutto simile al derivato acetacetilico, e presenta anche una notevole analogia con la benzoilacetil- anilina. In soluzione alcoolica, dà col cloruro ferrico una colorazione violetta molto intensa. 4. Azione dell'acido solforico concentrato sulla benzoil-acetil-ammino- piridina. — Anche nelle esperienze dirette alla disidratazione di questo acil- derivato ci siamo lasciati guidare dalla sua analogia con il’ corrispondente derivato dell’anilina, e abbiamo adottato per ciò una tecnica molto simile a quella indicata da Knorr. Il nostro modo di operare è stato per lo più il seguente: Abbiamo sciolto gr. 0,3 dell’acil-derivato in 1 cme. di acido solforico, ed abbiamo mantenuto la soluzione in stufa a 100°, per la durata di 20-25 minuti. Dopo 5-10 minuti di riscaldamento, si inizia costantemente, una moderata effervescenza, che cessa però nel termine sopra indicato. Si sospende allora di riscaldare, e, dopo raffredîadamento, il liquido acido (che ha per lo più colorito giallo-bruno e odore di benzaldeide) viene diluito con 10 cme. di acqua e neutralizzato esattamente con idrato sodico. Con ciò la maggior parte del prodotto di reazione si precipita subito sotto forma di fiocchi bianchi leggeri. In generale abbiamo preferito poi aggiungere al liquido ancora altro alcali, onde conseguire il massimo rendimento in prodotto basico ; ma siamo sempre, a bella posta, passati per il punto neutro, onde poter saggiare il liquido col cloruro ferrico e assicurarci se in esso fosse, oppure no, rimasto prodotto di partenza inalterato. Nelle condizioni indicate noi potemmo osser- vare che ciò non si verifica mai, ed anzi il rendimento scarso indica piut- tosto che la reazione dell’acido solforico va al di lì. Non è improbabile che anche in questo caso, come in quello p. es. studiato da Knorr, della benzoil- acetil-anilina, si abbia la formazione di un solfo-acido (solubile). Operando nel modo descritto, abbiamo ricavato così, con 6 preparazioni analoghe, da gr. 0,38 di acil-derivato alla volta (la quantità, cioè, che pra- ticamente si ottiene da 1 gr. di ammino-piridina), gr. 0,36 di prodotto grezzo. Questo, cristallizzato dall’alcool metilico, forma magnifici aghi bianchi di splendore sericeo, che fondono a 150°, rammollendosi solo qualche grado prima. Una determinazione di azoto su questo prodotto ci ha mostrato che esso rappresenta difatti la ossi-naftiridina attesa: Gr. 0,1571 di sostanza fornirono cme. 17,8 di azoto, misurati a 21° e a 756 mm. N°: trovato 19,82; calcolato per C,,H,;N:0, 12,61 In armonia con questo risultato analitico sta il contegno del nuovo pro- dotto. Differentemente dall’acil-derivato di wartenza, esso possiede proprietà soltanto basiche: insolubile a freddo nell'acqua, si scioglie solo per aggiunta di acidi minerali, e viene riprecipitato dagli alcali. Da ciò si vede dunque che l'azione dell’acido solforico ha eliminato dal composto acilico, sotto forma di acqua, appunto l’ossidrile a cui esso doveva le sue proprietà fenoliche. Difatti manca pure completamente la reazione cromatica col cloruro ferrico. La fenil-ossi-naftiridina suddetta dà un cloroplatinato. 5. Azione dell'acido solforico sull'acetil-a-ammino-piridina. — Ana- logamente al derivato benzoil-acetilico si comporta anche quello ottenuto con l'etere acetacetico; soltanto, la scarsa quantità di N.acetacetil-ammino- piridina che era a nostra disposizione non ci ha permesso altro all'infuori di trovare le condizioni in cui la disidratazione certamente si compie. Gr. 0,25 del derivato in parola furono sciolti in 1 cme. di acido solforico concentrato, e la soluzione venne portata in stufa a 100°. Dopo 5-10 minuti di riscal- damento la soluzione mostrava un moderato sviluppo di bollicine gassose, ed aveva assunto un colorito giallo-paglierino. La mantenemmo allora in stufa finchè la lieve effervescenza fu scomparsa (in tutto 30 minuti), e, dopo raffreddamento, la diluimmo anzitutto con 10 cme. d'acqua. Avendo neutra- lizzato allora con idrato sodico una parte della soluzione, potemmo facilmente constatare che essa non conteneva neppure traccia della sostanza azotata pri- mitiva, dappoichè non si colorava menomamente per aggiunta di cloruro ferrico. Allo scopo di isolare il prodotto basico, probabilmente formatosi per disidratazione, dopo aver accertato che per ulteriore aggiunta di alcali al liquido neutro non si produceva precipitato di sorta (a differenza di quanto abbiamo descritto nel caso della benzoilacetil-ammino-piridina), eliminammo dalla soluzione acida l'acido solforico con la quantità necessaria d'acqua di barite, e svaporammo il filtrato a bagno-maria. Si ottenne un lieve residuo, minuti cristalli aghiformi costituiti da una sostanza azotata diversa da quella di partenza. Noi potemmo accertarci di tale diversità cristallizzando il detto residuo da !/, cme. di alcool, e saggiando con cloruro ferrico la soluzione acquosa del prodotto così depurato: non si produsse alcuna colorazione. Ulteriori saggi non potemmo fare, epperò ci proponiamo di riprendere questa ricerca non appen@ potremo disporre di una sufficiente quantità di prodotto N . acetacetilico. Da ultimo facciamo rilevare che anche la f- e la y-ammino-piridina reagiscono molto facilmente (con sviluppo di calore) con l'anidride acetica e con l'etere cloro-carbonico (*), e da ciò è evidente la possibilità di ap- plicare la sintesi sopra descritta egualmente ai detti isomeri. Uno di noi (?) è attualmente occupato con la preparazione di questi, e in una prossima Nota riferirà sui tentativi di sintesi che si propone di fare con essì. (®) Cfr. Camps, loc. cit. pagg. 350, 863, 364. (?) Palazzo. — do — Chimica. — // sistema ternario argento-stagno-piombo. Nota di N. PARRAVANO, presentata dal Socio G. PATERNÒ. Mineralogia. — Appunti mineralogici sulla miniera di Ca- labona (Alghero). Nota del dott. AuRELIO SERRA, presentata dal Socio G. STRUEVER. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Tecnica mineralogica. — .Su//a viscosità dei liquidi per la separazione meccanica dei minerali. Nota dell'ing. ENRICO CLERICI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. La facilità e Ja speditezza con la quale si possono separare i singoli elementi di una miscela sabbiosa o polverulenta di minerali mediante la immersione entro liquidi di densità prestabilita, dipendono da varie circo- stanze. Queste, nel caso di granuli presso a poco isodiametrici, si possono dedurre dalla nota formola di Stokes che esprime la velocità con la quale una sfera si muove in una massa liquida indefinita per la sola azione della gravità. Posto 4 il raggio della sfera, o la sua densità, d la densità del liquido e n la sua viscosità, 9g l'accelerazione della gravità: la velocità v, allor- quando dopo un certo tempo dall'inizio del moto, è divenuta costante, sarà : (e— 9) ” 2 2 v= 309 Da questa relazione si scorge come la separazione debba procedere più lenta e difficile quanto più piccola è la differenza fra la densità del mine- rale e quella del liquido, ed in grado più elevato quanto più piccoli sono i singoli granuli. La natura del liquido impiegato influisce anche per la sua fiuidità (ossia l'inverso della viscosità) che, in questo caso, si risolve in una maggiore o minore attitudine delle particelle liquide a scostarsi per lasciare il passo ai singoli minerali che cadono al fondo e potrà, con opportuna scelta, compen- sare, almeno in parte, gli inconvenienti derivanti o dalla poca differenza di densità fra liquido e minerali o dalla piccolezza di questi. l ——r—» == SME Perciò ho creduto utile istituire alcune esperienze per conoscere il coef- ficiente di viscosità dei liquidi destinati alla separazione di minerali, spe- cialmente poi per porre a confronto i liquidi da me proposti (*) con quelli an- teriormente usati. Mi sono servito di un viscosimetro formato con una comune buretta da 10 cm. graduata a decimi, alla cui estremità inferiore venne saldato verti- calmente un lungo cannello di piccolo diametro. Riempita di liquido la bu- retta, si contò il tempo necessario all'eftlusso della quantità di liquido com- presa fra il tratto 0 ed il tratto 10, oppure un altro intermedio. Detto R il raggio del cannello, L la sua lunghezza, A l’area della se- zione trasversa della buretta, x l'altezza della colonna di liquido, d ed 7 la densità e la viscosità del medesimo, la portata dQ corrispondente al tempo 4T sarà, applicando le leggi di Poiseuille: 4 dQ= Ada = i x dT ossia : 87AL da 1R'9d x da cui: == 2, (log, 00 — l0ge 210) tR'gò T , "TT 8 AL(log, co — 10ge Zio) CO Avevo scelto un cannello con R piuttosto grande, sia per rendere più spedite le determinazioni, sia perchè in esperienze preliminari con tubo molto stretto l’efflusso era spesso irregolare per l'arresto di qualche impurità dovuta specialmente a peluzzi staccatisi dai fltri sui quali alcuni liquidi esercitano forte azione mercerizzante; ma essendo l’efflusso forse troppo rapido nel caso dei liquidi molto fluidi, ho ripetuto alcune determinazioni servendomi di un altro viscosimetro formato con una buretta da 5 cm. ed un cannello con R molto più piccolo. Quasi tutte le determinazioni furono fatte alla temperatura GR ISO, La densità fu presa colla boccetta alla temperatura dell'esperienza, ma ri- ferendola all'acqua a 4°. Il valore di R fu ottenuto dalla sezione media del cannello determinata per pesata; così pure i volumi delle burette furono controllati per pesata (*) Clerici E., Preparazione di liquidi per la separazione dei minerali. Rend. R. Accad. dei Lincei, vol. XVI, 1907. ui e corretti e da questi fu calcolata la sezione media A. Le lunghezze furono lette per una volta tanto al catetometro (1). Nel calcolo di n fu introdotta la correzione per la capillarità e quella per la forza viva (?), la quale agisce come una pressione diminuente quella motrice ed equivale ad una altezza ”% di liquido dedotta dalla formola: 7 WE d ‘= Ri T° in cui V è il volume di liquido erogato. Malgrado queste cure intendo di dare ai risultati carattere qualitativo in causa dell'incertezza sulla vera temperatura la cui misura avrebbe ri- chiesto minuziose precauzioni inadeguate allo scopo della ricerca. Interessava peraltro assicurarsi che la legge delle pressioni fosse sempre soddisfatta ed inoltre verificare che per un liquido di viscosità nota, per esem- pio l’acqua, risultasse dal calcolo coi dati delle esperienze un valore di O) dell'ordine di quello già acquisito: e ciò appare dagli esempî seguenti: valore trovato per TuoAs(log #0 — log #3) SO OS) g LS che dovrebbe essere = 1 (2) AVGOOI RE URI ERRE CITTA I 0,7932 1,00076 Acqua. dd taaffice cade 0,9985 0,99941 Bromomercurato di bario. . . 2,5029 1,00186 Rormiatogdi italo RATTO 3,0770 1,00034 Joduro di metilene. . . . . 3,3207 1,00819 Formiato malonato di tallio. . 4,0184 1,00554 Valore di 7 per l’acqua calcolato col polinomio di Poiseuille trovato 0,01779 0 1 |-0,0336793£ + 0,0002209936#* Viscosimetro grande 0,0107518 0,0104572 Id. piccolo 0,0104711 (*) L’estremità inferiore del cannello deve affiorare esattamente col liquido conte- nuto in un recipiente sufficientemente largo affinchè sia trascurabile l'innalzamento del livello in esso per il liquido erogato. Ciò non è possibile quando si dispone di una quan- tità di liquido limitata. In questo caso è praticamente molto comodo di applicare alla estremità del cannello una strisciolina pendente di carta da filtro la quale impedisce la formazione delle goccie. Quando l’efflusso avviene a goccie il tempo T” per l'erogazione di una stessa quan- tità di liquido è maggiore del T corrispondente al caso dell’affioramento o della striscia. Bsempit(f—= 1493) 159) T d T Acqua NE RR RIOT PESO 0,999 0,977 Bromomercurato di bario... ..., 2,955 0,980 Formiato malonato di tallio . ..... 4,073 0,982 (2) Brillouin M., Zegons sur la viscosité des liquides et des gaz. Paris, 1907. (*) A;, Aso sono le sezioni medie fra i tratti 0 —d e 0— 10 della buretta. Le al- tezze 4 sono già corrette della capillarità e della forza viva. Meg i I liquidi che ho sperimentato sono i seguenti: 1. Liquido di Sonstadt (1), più noto col nome di Thoulet, a base di iodomercurato di potassio. 2. Liquido di Duboin al iodomercurato di sodio (?). 3. Lo stesso diluito con alcool etilico. . Liquido di Rohrbach al iodomercurato di bario. Liquido di Klein al borotungstato di cadmio (È); . Liquido di Brauns 0 joduro di metilene. . Liquido di Muthmann o tetrabromuro di acetilene. Liquido di Retgers o soluzione di tetraioduro di stagno in tribro- muro di arsenico. 9. Bromoformio. 10. Liquido Clerici al bromomercurato di bario (*). 11. Liquido Clerici al formiato di tallio. 12. Liquido al malonato di tallio. 13. Liquido al formiato e glicolato di tallio. 14. Liquido Clerici al formiato e malonato di tallio. 15. Liquido al bromomercurato di sodio (*). 16. Liquido al bromomereurato di ammonio (°). I risultati finali sono stati riuniti in prospetto grafico portando per ascisse le densità e per ordinate, anzichè i singoli valori di 7, i quozienti di questi per il corrispondente valore trovato per l'acqua con lo stesso ap- parecchio e nelle stesse condizioni. Questo prospetto è riprodotto impiccolito nella unita figura, nella quale i numeri di richiamo sono quelli dell'elenco precedente. Di tutti i liquidi esaminati quello di Klein al borotungstato di cadmio ha la più elevata viscosità; segue poi quello di Duboin e quello di Rohrbach. Alla densità 2,88 il minor valore di n è dato dal bromoformio; seguono in ordine crescente il formiato di tallio, il formiato malonato di tallio, il liquido di Thoulet ed il bromomercurato di bario. Il liquido al bromomercurato di bario da me proposto in sostituzione a quello di Thoulet ne ha sempre viscosità maggiore e, a densità uguali, il CI) iI II (®) Sonstadt E., Note on a new method of taking specific. gravities, adapted for special cases. Chemical News and Journ. of phys. science, 1874, XXIX, n. 747. (®) Dosi: 230 gr. ioduro di sodio e 420 gr. ioduro mercurico. (®) Acquistato da Kahlbaum e schiarito con perossido d'idrogeno (perhydrol Merck) perchè divenuto turchino intenso. (4) Dosi: 200 gr. bromuro di bario cristallizzato e 300 gr. bromuro mercurico. (5) Dosi: 206 gr. bromuro di sodio e 360 gr. bromuro mercurico. (6) Dosi: 216 gr. bromuro d'ammonio e 396 gr. bromuro mercurico. Questa soluzione e la precedente furono preparate per la ricerca di un liquido di basso prezzo per il trat- tamento delle sabbie quarzose. > do a rapporto della loro viscosità varia tra 1,60 e 1,76: nondimeno presenta il vantaggio del basso prezzo e della inalterabilità. La soluzione del formiato di tallio, pure da me proposta, è fra tutte le soluzioni la più fluida; alla massima densità la sua viscosità è un terzo, ed anche meno, di quella del liquido di Thoulet e quindi si presta meglio di ogni altra alla separazione di polveri finissime. CcIQORNI DÌ J H+ 7 I I lena | lo) 2.50 300 3.50 4.00 La soluzione del malonato di tallio alla densità 2,78 è circa doppia di quella del formiato di tallio; mentre quella della soluzione formata con parti eguali di formiato e di malonato, ben inteso alla stessa densità, è minore della loro media. Il liquido a base di tribromuro d'arsenico e tetraioduro di stagno, che il Retgers dopo pazienti ricerche propose come quello che era dotato della più elevata densità ('), avrebbe viscosità piuttosto bassa, ma esso è di uso (*) Il Retsers scriveva: « Ja, fast scheint es, als ob wirklich eine physikalische Grenze fùr die Dichte von Flissigkeiten (bei gewohnlicher Temperatur) bestinde, indem es nicht méòglich scheint, tiber 3,7-3,8 hinaus zu kommen und man jede Hoffnung, eine Flissigkeit von iiber 4,0 zu erhalten, fast sicher aufgeten kann (Neues Jarb., 1895, I, pag. 28; vedasi pure Zeitschr. fiir Phys. Chemie, 1893, II, pag. 344). Con formiato e malonato di tallio ho superato l'impossibilità supposta dal Retgers, raggiungendo a temperatura ordinaria la densità 4.125, e non dispero di ottenere qualche cosa di più con ulteriori ricerche. RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 7 assai incomodo per la sua completa opacità; inoltre è assai alterabile ed assai venefico, cosicchè il pregio della fluidità non è sufficiente a consigliarne ancora l'uso dopo che ebbi a dotare la tecnica di un liquido che può raggiungere una densità più elevata di esso. La viscosità del mio liquido al formiato e malonato di tallio cresce colla densità dapprima lentamente fin verso 3,50 e poi più rapidamente; ma @ densità 3,70 la viscosità è ancora inferiore a quella massima del liquido di Thoulet col quale, come è noto, si raggiunge appena la densità 3,19. Alle più elevate densità, che nessun'altra soluzione nota è capace di raggiungere, la viscosità, pur essendo notevole, non è poi tale da menomare i grandi pregî di questo liquido poichè essa è sempre di gran lunga inferiore a quella dei liquidi di Klein, di Duboin e di Rohrbach che non arrivano neppure a densità 3,60, ed in ogni caso possono attenuarsene le conseguenze frazionando opportunamente la separazione. Patologia. — Sulla trasmissione delle Leishmaniosi. Nota preventiva del dott. CARLO Basie (!), presentata dal Socio B. GRASSI. Dopo aver, per primo, (®) segnalata la presenza di Leishmania canis nel Pulex serraticeps, iniziai delle ricerche tendenti a dimostrare, per via sperimentale e per via naturale, che quest'iusetto è il veicolo di trasmis- sione delle Leishmaniosi. Nella presente Nota dò breve cenno dei primi risultati ottenuti se- guendo la via sperimentale. Alcune pulci serraticeps furono tolte ad una cagna tenuta da alcuni mesi in laboratorio, nel midollo della quale, l’esame microscopico ripetuto non aveva mostrato mai l’esistenza di Leishmanie. Le pulci vennero poste in due vasi e tenute ad una temperatura costante di 22° Centgr. Quindi, dopo qualche giorno, in uno dei due vasi fu posto del succo splenico di un cane affètto da Leishmaniosi a decorso cronico, mentre l’altro vaso fu tenuto come controllo. Dopo un certo tempo, da che era stato posto il succo splenico nel vaso, l'intestino di ogni pulce, in questo vaso racchiusa, fu estratto, disse- zionato e diviso in due parti: di una parte, per ogni intestino, fu allestito un preparato per strisciamento; con le altre singole parti di tutti gl’inte- stini, riunite assieme, venne preparata un’'emulsione in soluzione fisiologica sterile, che era stata tenuta per qualche ora alla temperatura di 22° Centgr. Questa emulsione fu iniettata subito, e per via sottocutanea, in un cagnolino neonato da un mese, in cui l’esame del midollo, eseguito precedentemente, (*) Dall'Istituto di Anatomia comparata della R. Università di Roma. (*) Basile Carlo, Rend. Acc. Lincei, vol XIX, fasc. 20, nov. 1910. era stato negativo per le Leishmanie. Un cagnolino dello stesso parto fu tenuto come controllo. Dei preparati allestiti per strisciamento degl’intestini delle pulci, con- tenute nel vaso col succo splenico sopraddetto, alcuni mostrarono al micro- scopio numerosissime Leishmanie (*) in via di divisione ed in altri stadî che saranno da me descritti in altra pubblicazione; l’esame delle pulci tenute nel vaso di controllo, riuscì negativo per questo parassita. Il cagnolino iniettato, dopo 15 giorni dall’iniezione, cominciò a mani- festare i sintomi dell'avvenuta infezione. Divenne infatti inappetente e mesto; al 20° giorno la temperatura rettale si elevò notevolmente e nei preparati per strisciamento di sangue periferico ho potuto riscontrare, per quanto rari, i parassiti. Questi si sono presentati sia liberi, sia contenuti nei leucociti a preferenza mononucleati; ne ho visto qualcuno, che mi è sembrato sovrap- posto al globulo rosso più che endoglobulare. In genere mi si son mostrati più piccoli di quelli che sogliono riscontrarsi nella milza, nel midollo osseo, nel fegato: qualcuno in via di divisione longitudinale; qualche altro dentro una speciale formazione, la ganga. Ciò mi fa pensare che anche nel sangue periferico, possano esistere le così dette rosette. Accoppiando allo studio del sangue periferico lo studio della tempera- tura rettale, ho potuto ancora una volta notare, che è nelle crisi iperter- miche che il parassita si riscontra meno raro nel sangue circolante; da ciò sì può dedurre che, come per la malaria, anche nelle Leishmaniosi, vi deve essere un intimo rapporto fra l'elevazione termica e la moltiplicazione dei parassiti. Il cagnolino iniettato morì (?) dopo 29 giorni dall’iniezione; nella milza, nel fegato, e nel midollo osseo riscontrai le Leishmanie. Il cagnolino tenuto per controllo fu per ciò ucciso; mai aveva presentato elevazioni termiche, ed in nessun organo, per quanto abbia studiato, ho trovato parassiti. Questi miei esperimenti così brevemente, per ora, accennati, confermano i risultati delle mie prime ricerche, ovvero che la pulce serraticeps (del cane) e con ogni verosimiglianza la pulce irrifans (dell’uomo) si debbano ritenere gl’insetti trasmissori della Leishmaniosi da cane a cane, da bam- bino a bambino, dal cane al bambino e viceversa. (*) Le Leishmanie si mostrarono di gran lunga più abbondanti di quel che non fossero nel succo splenico di cui le pulci si erano nutrite. (2) Rendo noto che al 28° giorno dall’iniezione è stata in esso eseguita la trapanazione della tibia destra per studiare se i parassiti avevano già invaso il midollo; la morte probabilmente sarà stata determinata da questa operazione che però, da quanto ho costan- temente finora notato, è ben sopportata dai cagnolini. Biologia. — Ricerche sul Phloeotribus oleae('). Nota del dott. Mario Tori (*), presentata dal Socio B. GRASSI. Il Phlocotribus scarabaeoides (oleac) Fabr. è il coleottero che si trova più frequentemente sull'olivo; ma, nonostante che gli venga ordinariamente attribuita una azione molto nociva, riteniamo che, salvo casi eccezionali, dei quali parleremo in seguito, i danni da esso prodotti non siano molto ingenti. Il fieotribo passa l’inverno allo stato adulto entro covacci o cunicoli che si scava all’ascella dei giovani ramoscelli. Al principio della primavera, abbandonati i covacci, va in cerca di rami o di tronchi di olivo di recente tagliati, per scavarvi le gallerie, ove si moltiplicherà. Trova, in quest'epoca, ammucchiati negli oliveti o in prossimità delle case coloniche o nei depositi di legna da ardere presso forni, fornaci di la- terizi, ecc., i rami provenienti dalla recente potatura invernale; i tronchi ed i rami rotti dai venti o di recente abbattuti. Su questi rami o tronchi avviene l'accoppiamento; ed in essi vengono scavate le gallerie di deposizione delle uova. Per ciò tutte le parti del tronco o ramo sono adatte; a preferenza sono scelti i rami sottili o di media grandezza, con la scorza liscia; ma i fleotribi non rifuggono dai grossì tronchi, colla corteccia crepacciata. Prima ad essere invasa è la parte inferiore, rivolta verso terra, perchè è quella che si mantiene più fresca e che sarà l’ultima ad essiccarsi. Za condizione assolutamente necessaria è che il legno non sia già secco: sarà quindi inutilizzabile il legno tagliato dalla pianta che non provenga dal- l'ultima potatura o che non sia stato altrimenti rotto di recente; e così pure tutte le parti già seccate, per qualsiasi causa, sulla pianta, che siano state tagliate colla potatura 0 che siano rimaste, per incuria od altro, sulla pianta stessa: è completamente inesatto che il fieotribo scavi le sue gal- lerie nel seccume delle piante, che annualmente si produce per cause cli- matiche, fisiologiche o parassitarie. Questo legno non può essere eroso dal fleotribo, 0, in ogni caso, è inadatto alla vita delle larve. (*) In seguito a gravi deperimenti lamentatisi durante il 1909 in alcuni oliveti del territorio di Termini Imerese, il Ministero d'Agricoltura inviava sul posto una Commis- sione, della quale facevano parte i proff. Grassi e Petri; questa Commissione trovò neces sario uno studio preliminare dei principali coleotteri xilofogi dell’olivo; studio il quale, dietro proposta del prof. Grassi, venne a me affidato dal Ministero d’Agricoltura, che rin» grazio con grato animo. (®) Dal Laboratorio di Anatomia comparata dell’Università di Roma. II ea Il fleotribo fora la corteccia escavando la galleria, dapprima un po obliquamente nella direzione longitudinale del ramo, fino ad intaccare \’al- burno, per una lunghezza di alcuni millimetri; poi, alla medesima profon- dità, volge a dritta e a sinistra, quasi ad angolo retto con la direzione pri- mitiva, e forma i due bracci della galleria (ove deporrà le uova) in forma di graffa. I rami sottili sono interamente circondati dalla galleria: ma i due bracci non s'incontrano, venendo a trovarsi ad wna certa distanza, l’uno al di sopra dell'altro. Scoprendo queste gallerie, si trovano ordinariamente i due insetti, maschio e femmina. Uno di essi è quasi sempre nel primo breve tratto lon- gitudinale della galleria, per ostruire forse l’entrata a probabili nemici; ed il lavoro di escavazione e di sorveglianza vien fatto da ambedue gli insetti. Non sempre la galleria ha i due bracci egualmente sviluppati: accade frequentemente che un braccio è brevissimo, ed in esso la madre non ha deposto le uova. In generale però, quando la galleria è così ridotta ad un sol braccio, questo è maggiormente sviluppato. Le uova vengono deposte in ambedue i lati della galleria, in apposite nicchie, come intaccature, capaci di contenere un solo uovo per ciascuna. Deposto l'uovo, la madre chiude la nicchia con una specie di diaframma di rosura, che permette all'animale di muoversi avanti e indietro entro la galleria, senza danneggiare le uova. Il numero delle uova deposte è, in media, da 40 a 60 per ogni galleria. La presenza dei fleotribi entro il legno è indicata dalla rosura che, mista agli escrementi, fuoriesce dall’orificio esterno della galleria, in forma di sottile cilindro attorcigliato su sè stesso. Schiuse le uova, le larve che ne escono scavano la loro galleria per- pendicolarmente alla galleria materna. Però, mentre la galleria materna, per il facile spostarsi avanti e indietro dell'insetto, rimane vuota, le larve invece, procedendo sempre, lasciano le loro gallerie ripiene della rosura e degli escrementi. A misura che la larva ingrossa, la galleria si fa più larga. Per tras- formarsi in preninfa ed in ninfa, la larva si scava una celletta ovale più profondamente nel legno ed ivi compie le sue trasformazioni. Ma il caso più frequente è che le gallerie principali si succedano, su di uno stesso ramo, a breve distanza l’una dall’altra; allora, se le larve possono iniziare le loro gallerie perpendicolarmente alla galleria materna, a breve distanza sono costrette a cambiare direzione, e le gallerie si inter- secano e si confondono; tutta la superficie sottostante alla corteccia ne è erosa in minuti canaletti, che tuttavia mostrano quasi sempre la loro dire- zione principale. LO Raga Molte larve si trovano così ad essere circondate dalla rosura e dagli escrementi delle altre, precedentemente sviluppatesi, e muoiono; le cellette ninfali non si trovano più a distanze pressochè eguali dalla galleria ma- terna, ma sono sparse irregolarmente su tutta la superficie. Dei due adulti che sono nella galleria, uno quasi sempre vi rimane: viene a porsi presso l'orificio, da cui sporgono la parte posteriore delle elitre e quella dell'addome, occludendo così completamente la galleria; ed in questa posizione muore. Raramente ad una estremità della galleria sì trova l’altro adulto. Il periodo che va dall'inizio della galleria fino all'uscita dei primi adulti, può considerarsi di circa 79 giorni: i primi 4-5 giorni sono impie- gati nella escavazione del primo tratto longitudinale della galleria; circa quindici giorni occorrono per la schiusura delle uova; trenta-quaranta giorni dura la vita larvale. Dopo questo periodo la larva che si è scavata più pro- fondamente nell'alburno la celletta ovale, rimane immobile, diritta, senza nutrirsi durante otto-dieci giorni, dopo i quali si trasforma in ninfa. Dopo un'altra diecina di giorni vi sono gli adulti, i quali perforano gli strati corticali sovrastanti, ed escono. La corteccia del tronco o del ramo rimane così tutta bucherellata, ciascun foro costituendo il foro di uscita di un fleo- tribo. I fori hanno, come quello di apertura della galleria, il diametro di 1 mm. circa. I primi fleotribi di questa seconda generazione sono usciti quest'anno, in provincia di Messina, dove è stato fatto il maggior numero delle osservazioni, alla fine di maggio; gli ultimi nei primi di luglio. Dove vanno i fleotribi appena abbandonato il legno, ove si sono svi- luppati? Degli autori che hanno fatto osservazioni originali sulla biologia del fieotribo, solo il Costa afferma che i fleotribi si dirigono sugli alberi vegeti ove scavano un covaccio all’ascella dei ramoscelli ed ivi restano pochi giorni, quasi a rafforzare i loro organi interni, sopratutto sessuali. Tutte le nostre osservazioni e ricerche dalla fine di maggio, cioè da quando i fleotribi cominciano ad abbandonare le loro gallerie, alla fine di giugno, eseguite in oliveti in buone condizioni di vegetazione, ed in altri tra- scurati dal lato culturale, nei quali era stato anche lasciato il legno ricavato dalla potatura invernale e grossi rami e tronchi, tutto invaso dai fleotribi, non ci hanno mai fatto trovare fleotribi alle ascelle dei ramoscelli. Solo ai primi di luglio su piante non coltivate nè concimate, fieramente assalite dall'Hylesinus fraxini e dall'H. oleiperda, vedemmo da prima ‘più rari, poi sempre più numerosi, i fleotribi all'ascella dei ramoscelli. Sulle piante invece normalmente vegetanti, nelle provincie di Messina, Palermo e Bari, non abbiamo riscontrato fieotribi fino ad epoca molto inol- trata, fine agosto e settembre, rarissimi, e nei mesi successivi più frequenti; cioè quando i fleotribi, cessato di riprodursi, si rifugiano nei covacci delle ascelle per passarvi l'inverno. GIR, a Non esitiamo peraltro ad affermare che se il passaggio dei fleotribi dal legno, ove si sono moltiplicati, agli alberi vegeti avesse luogo come dice il Costa, e se gli effetti dell'escavazione del covaccio fossero, come egli dice, dapprima, in maggio, l’essiccarsi dei racemi fiorali, 0, successivamente, del ramoscello fruttifero od anche di un ramoscello non a frutto ma che po- trebbe fruttificare l’anno seguente, non esitiamo ad affermare, diciamo, che il fleotribo sarebbe uno degli insetti più dannosi all’olivo. Invece, in realtà il passaggio dal legno tagliato alla pianta vegeta non ha luogo. Come abbiamo detto, è solo tardivamente — più precocemente soltanto su piante molto deperite — che si trova il fleotribo sui ramoscelli. Riteniamo adunque che i fleotribi, usciti dal legno ove si sono svilup- pati, vadano, senza danno degli olivi normalmente vegetanti, in cerca di nuovo legno tagliato o rotto, in cui si accoppieranno e deporranno le uova. Questa nuova deposizione può iniziarsi infatti fino dagli ultimi di maggio, come notammo presso Palermo. La formazione delle gallerie, nulla ha di diverso da quella già descritta peri fieotribi della prima generazione; gli adulti della seconda generazione abbandoneranno il legno nel mese di agosto. . Nelle regioni meridionali è specialmente all'epoca della schiusa della prima generazione che il fieotribo può scavare le sue gallerie — invece che nel legno tagliato — nei tronchi e nei rami delle piante vive. Sì hanno così quei casi, come quello lamentatosi nel 1909 nel terri- torio di Termini Imerese. Le lunghe siccità, il trovarsi gli olivi impiantati in terreni di debole spessore, le potature eccessive, le concimazioni deficienti o mancanti com- promettono la vegetazione delle piante; le radici capillari disseccano o mar- ciscono, il movimento dei succhi sì fa più lento ed i fleotribi trovano queste piante in condizioni non dissimili da quelle dei tronchi o dei rami di re- cente tagliati. Nè la pianta può in tali casi reagire — come aveva reagito, nell'estate del 1909, a Termini Imerese — con la produzione e l’essudamento abbondante di gomma, impedendo così la penetrazione degli insetti nei suoi tessuti ('). L’escavazione delle gallerie dei fleotribi nelle piante vive non ha luogo che saltuariamente: in certe annate, in certe località, in certi gruppi di piante. Invasioni terribili si sono avute in Francia dopo invernate rigidis- sime; una invasione vi fu nel 1898, che fu un'annata eccezionalmente secca; ed i danni nel territorio di Termini si verificarono in seguito alla lunga siccità del 1908. (1) Questa osservazione è stata fatta dal prof. Grassi, in una sua visita ai deperi- menti degli olivi di Termini Imerese, ed egli ne trasse argomento per affermare che i guasti prodotti dall’insetto dovevano ritenersi arrestati; ciò che si è veramente verificato. "5g — Salvo questi casi eccezionali, il fleotribo nelle piante vive, in buone condizioni di vegetazione — se pur trascurate e con rami secchi, — non si moltiplica; può moltiplicarsi soltanto su quei rami che il vento ha rotti e restano pendenti dall'albero; e qui si trova evidentemente nelle medesime condizioni del legno tagliato. I nostri tentativi di far attaccare i fleotribi a rami grossi di piante vegete hanno avuto sempre esito negativo; i fleotribi iniziarono bensì pron- tamente le loro gallerie, ma in nessuna l'escavazione procedè tanto da com- piere il primo breve tratto longitudinale. I fleotribi tentarono l’escavazione delle gallerie in diversi punti del ramo, sempre coll eguali risultati; e mo- rirono senza arrivare a deporre nessun Uovo. Le generazioni annuali del fieotribo. contrariamente a quanto dice il Mayet, che ne fa salire il numero @ cinque, sono normalmente due: gli adulti della prima escono alla fine di maggio e nel mese di giugno; quelli della seconda nel mese di agosto. Può aversi anche una terza generazione, che s'inizia nell'agosto. Questa generazione, che forse nei climi caldi si svolge normalmente, è molto più rara nei climi temperati. Il numero delle larve che si sviluppano è molto basso. Il Costa afferma che i fleotribi di questa generazione divengono adulti nella primavera successiva: invece in tutte le gallerie iniziatesi nell'agosto, abbiamo trovato gli adulti in novembre; nes- suno era rimasto allo stato larvale. E d'altra parte non abbiamo mai trovato in inverno gallerie di fleotribi con larve. Esaminando un ramo di olivo, in cui si sono moltiplicati i fieotribi, e già ‘da questi abbandonato, si notano alla superficie i fori di entrata delle gallerie materne, spesso ostruite dal cadavere del fieotribo, e quelli numerosi di uscita. in corrispondenza delle cellette ninfali. Oltre di questi, specie se il legno è stato conservato all'aperto, si notano ordinariamente altri nume- rosi forellini, molto più piccoli dei primi, il loro diametro oscillando da !/ a '/, mm. Sono questi i fori di uscita degli imenotteri parassiti delle larve di fleotribo; ognuno di essi indica una larva di tleotribo distrutta, invece della quale si è sviluppata la larva dell’imenottero parassita. Questi imenotteri — di cui sta occupandosi Silvestri, al quale li ho in- viati — attraverso la corteccia del legno invaso dai fleotribi, depongono un novo sulla larva sottostante, che sta escavando la propria galleria. La larva di parassita. che schiude dall’uovo. si attacca con l'apparato boccale a quella del fleotribo. ed a spese di questa si sviluppa. Dopo pochi giorni la larva del coleottero è quasi interamente vuotata e seccata; quella del parassita si è rapidamente ingrossata, si trasforma in ninfa ed in adulto, ed esce all'aperto forando. come il fieotribo, gli strati PEZI7) corticali sovrastanti. Gli adulti degli imenotteri parassiti escono prima degli adulti del fleotribo. Tia distruzione delle larve di fleotribo, compiuta da questi imenotteri, è enorme: ho veduto dei rami invasi dai fleotribi, nei quali tutte le larve che vi si trovavano, erano parassitizzate. In tutto il legno invaso dai fleo- tribi e conservato all'aperto, ho sempre riscontrato più o meno numerosi i fori di uscita degli imenotteri parassiti. È per me indubitato che nella lotta contro gli xilofagi dell'olivo, gli imenotteri parassiti possano avere una parte importantissima. Dai primi di luglio negli alberi deperiti, molto più tardi negli alberi di normale vegetazione, si trova frequente il fleotribo all’ascella dei ramo- scelli. Un piccolo fiocco di rosura nasconde spesso l’orificio della breve gal- leria, ora ampia appena da coprire l’insetto, ora svolgentesi a semicerchio entro la protuberanza dell’ascella, e prolungantesi talvolta in breve tratto longitudinale. Questi covacci costituiscono sempre un debilitamento sia fisiologico che meccanico per il ramoscello, fruttifero o non, e possono produrne l’essieca- mento, a seconda della grossezza del ramoscello e anche della forma del covaccio. Sarebbe però molto affrettato giudicare, come dice il Costa, della presenza dei fieotribi su di una pianta, dal presentarsi questa, in inverno, più o meno sfrondata e secca; troppe cause parassitarie, molti disturbi fisio- logici determinano l’essiccamento delle punte dei rami e dei ramoscelli, mentre i covacci dei fieotribi hanno in ciò ordinariamente una parte mi- nima. In questi covacci il fleotribo passa, allo stato adulto, l'autunno e l’in- verno. I covacci abbandonati vengono occupati da altri insetti dannosi ed innocui. Fra i primi, i più frequenti sono i 7hrips ed alcune Cocciniglie, principalmente la Pollini. Patologia vegetale. — icerche sulle sostanze tanniche delle radici nel gen. Vitis in rapporto alla fillosseronosi. Nota di L. PETRI, presentata dal Socio G. CuBONI. Nelle radichette a struttura primaria della 7. vinifera e delle diverse specie americane la formazione di sostanze tanniche incomincia nel paren- chima corticale e nel cilindro centrale a pochi millimetri dall'apice. Le prime cellule a tannino compaiono prima di quelle a rafidi, sono più nu- merose negli strati cellulari periferici, l’intercute e l’endodermide sono spesso ricche di tannino, soprattutto prima della suberificazione delle Joro membrane. RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 3 meo: Nel parenchima corticale il numero di tali elementi rappresenta circa il 5-10°/, delle cellule contenute nel piano di una sezione trasversa della radichetta. Questa percentuale va aumentando man mano che i tessuti sì approssimano alla struttura secondaria. In corrispondenza del punto dove è immerso il rostro della fillossera avviene una maggiore elaborazione di sostanze tanniche ('). Le radichette della Rupestris, della Riparia e di molti ibridi americo- americani posseggono un quantitativo in tannino assai maggiore di quello della Vinifera, differenza che si mantiene anche nelle radici a struttura secon- daria per ciò che riguarda il parenchima corticale, senza che in relazione a un tal fatto si verifichi un egual comportamento delle radici nel grado di ricettività per la fillossera. Giacchè se in molti casi a un maggior quan- titativo di tannini in confronto alla Vinifera, corrisponde l'immunità o una elevata resistenza delle radici adulte, in quelle a struttura primania questa correlazione non è conservata. Ho già detto in altra Nota quanto sia grande il contenuto in tannino delle foglie giovani anche di viti che facilmente portano galle fillosseriche. È il tessuto a palizzata che contiene in rilevante quantità questa s0- stanza, assai meno ne hanno il tessuto spugnoso @ i tessuti fibrovascolari. Nelle galle fillossesiche il tannino è elaborato di preferenza nella por- zione più ispessità dell'iperplasia. Le setole rostrali della fillossera sì tro- vano spesso a contatto di succhi cellulari ricchi delle comuni sostanze tan- niche, le quali quindi non sembrano esercitare su questo insetto alcuna azione repulsiva. Per la differenza di sviluppo che i tessuti a tannino, relati- vamente a quelli che ne sono privi, presentano nelle radici dei varî vitigni, è preferibile, per stabilire un confronto fra vite e vite, l'esame microchimico, piuttosto che l’analisi volumetrica, eseguita su un egual peso di sostanza secca. A questa avvertenza che ho fatto notare già da tempo, devo aggiungere ora che le radici a struttura secondaria dei diversi vitigni presentano un diffe- renziamento degli elementi tanniferi che non corrisponde sempre con l'età delle radici stesse, aumentando, dopo la caduta della peridermide periciclica, la percentuale di tali elementi nella corteccia. (1) Nel 1907 ho pubblicato che il tannino contenuto nelle cellule attraversate dalle setole rostrali viene a formare intorno @ queste ultime una guaina solida (un tannato insolubile). Le ricerche che più tardi ho ripetuto intorno a un tal fatto mi hanno dimo- strato che è soltanto alcun tempo dopo la formazione di una prima guaina ialina intorno alle setole rostrali che, in corrispondenza delle cavità cellulari, si forma uno strato di rivestimento più esterno di un tannato solido. Il canale d’infissione del rostro, quale si trova dopo 24 e 48 ore da quando la fillossera si è fissata, è costituito da una secrezione dell'insetto, di natura proteica, come Bisgen trovò per altri afidi. La reazione del biureto però difficilmente si ottiene nelle guaine formate da lungo tempo, inerostate di tannati, di pectati e di gomma. So Di ciò sì deve tener conto nell'esame microchimico, quando lo si faccia da un punto di vista generale. Le radici che perdono precocemente la prima peridermide devono esser confrontate con quelle assai più adulte a perider- mide periciclica più lungamente persistente. Per le radici a struttura quasi simile, l'esame microchimico dà un re- sultato che coincide approssimativamente con quello dato dall'analisi volu- metrica. Relativamente allo sviluppo dei tessuti parenchimatici, fra le viti resistenti, la Riparza e la Rupestris sono senza dubbio le più ricche in tan- nino nelle radici. La Rotundifolia e la Cordifolia ne contengono quanto la Berlandieri, la quale può presentare un minimo che eguaglia la percentuale presentata da alcune varietà di Vini/era (*). Nell’Arizzonica (poco resistente, ho trovato, in alcune radici di 2-3 anni, assai più tannino che uella Can- dicans (resistente), in altre radici della stessa vite al contrario ne ho tro- vato in minima quantità. Nella £udra (*) (non attaccata dalla fillossera) la percentuale delle cellule tannifere è eguale a quella presentata dalle radici della Zabrusca o della Vinifera. Il massimo di formazione dei tannini nelle radici coincide col primo risveglio della vegetazione. Nelle viti coltivate nelle sabbie e nei terreni che non soffrono la siccità in estate il tenore in tannino è superiore a quello presentato da viti che crescono in terreni sotto- posti a prolungato asciuttore. In seguito a un indebolimento dell’attività vegetativa, nelle radici di viti in deperimento per cause diverse e anche per fillossera, si verifica spesso una diminuzione delle sostanze tanniche. I dati che ho potuto raccogliere e che in parte ho riferito in questa e in altra Nota, dimostrano che, come per gli acidi, così peri tannini conte- nuti nelle radici dei diversi vitigni, non può essere accettata l'interpreta- zione che si sarebbe tentati di dare della concomitanza, in alcune viti, della resistenza elevata alla fillossera e della ricchezza in tannino; cioè che questa sia causa o anche esponente di quella. Anche quando vediamo coincidere un aumento del grado di ricettività per la fillossera con una diminuizione delle sostanze tanniche, non possiamo interpretare quest'ultimo fatto da solo come una causa del primo; ed egual- mente l'aumento degli zuccheri, che in compenso si verifica, non può da solo fornirci una sufficiente spiegazione dell'aumentata ricettività. Infatti organi ricchissimi di tannino come le foglie possono essere attaccati, mentre pos- (*) Berlandieri Réss. N. 1 (Arizzano) gr. 1,620-1,905 di tannino per cento di ra- dici secche. Vinifera (Fresia) (Arizzano) gr. 1,640-1,963 di tannino per cento di radici secche. Nella Berlandieri le radici di 2-3 anni hanno i raggi midollari leggermente più stretti di quelli della Vizifera, il libro duro è più sviluppato. È per questa ragione che a parità di peso le radici di Fresia presentano una quantità maggiore di tannino. (*) L'esame microchimico venne fatto su radici raccolte in febbraie a Montpellier. ei sono esser rispettate delle radici con una quantità di zuccheri relativamente grande insieme a minor quantità di tannino (Berlandieri). Per ciò che riguarda gli altri fattori della resistenza, è stato detto che il tannino possa funzionare quasi come un antisettico, ostacolando lo sviluppo dei germi del marciume. Le cognizioni attuali sul modo di nutrizione di molti funghi e batteri, i quali possono vivere in soluzioni assai concentrate di acido tannico, che per essi costituisce anziuna facile fonte di carbonio, hanno tolto molto valore a una tale ipotesi. Non essendo mai state fatte delle ricerche sulla natura chimica delle sostanze tanniche elaborate nelle radici dei diversi vitigni mi è sembrato utile eseguire alcuni saggi preliminari, dei quali riporto quì i risultati. Se si trattano con la soluzione acquosa od eterea di cloruro ferrico delle sezioni di radici appartenenti a viti di varia resistenza e se, per rendere più efficace il confronto, si esaminano anche delle radici di C7ssus, Ampe- lopsis, ecc., si trova che le radici dei Cissus e della Ve%is Rotundifolia per es., presentano una colorazione bleu intensa di tutte le cellule a tan- nino, mentre questi elementi si colorano generalmente in verdastro-bruno nella Vinifera, negl'ibridi europeo-americani, e anche in quelle specie poco resistenti, come l’ Aestivalis, Lincecumii, Califormea, Labrusca, Amurensis. La Berlandieri, la Rupestris la Riparia, la Cinerea, la Cordifolia, la Co- riacea, la Candicans presentano cellule a tannino che si colorano iu bleu e in bruno verdastro col cloruro ferrico, alcune mostrano le due colorazioni riunite. La Berlandieri è, fra le Euvites, Vunica che presenti costantemente una maggioranza di cellule a tannino colorantesi in bleu. Nella Azparia e nella Rupestris le due qualità di tannino sono spesso contenute nelle stesse cellule. Nel libro molle, nei raggi midollari del cilindro centrale e fra gli ele- menti stessi del legno, in tutte le specie, ibridi e varietà di viti, sì trovano più o meno numerose cellule a tannino colorantesi in bleu. Questa sostanza presenta tutte le reazioni dell'acido tannico della quercia; infatti dà una colorazione rosso ciliegia con la soluzione di cianuro potassico. L'altro com- posto tannico dà le reazioni dell'enotannino (*). Nelle radici della Rotundi- folia quest'ultimo manca assolutamente. Le differenze fra vitigno e vitigno circa l'elaborazione di una quantità maggiore o minore di un tannino piut- tosto dell'altro concernono soprattutto il parenchima corticale. In generale nelle radici delle viti resistenti prevale il tannino a rea- zione bleu. Esistono però delle eccezioni. La Corzacea e la Candicans, di una resistenza assai elevata, hanno delle radici ricche di enotannino. Fra quelle poco resistenti l’Arizeonica presenta il parenchima corticale delle ra- (*) Fra i primi che sì sono occupati della determinazione di questa sostanza nei succhi della vite è Hebert (Note sur la s20e, Bull. Soc. Chim. Sme Sér., t. 13 e t. 17). A I dici legnose assai ricco di tannino a reazione bleu. Nell’Aramon X Rupestris ho trovato molte radici che avevano cellule contenenti questa sostanza, la quale non cessa di essere formata anche nelle radici fillosserate. Le foglie giovani della Rwpestris N. 25 di Velletri, che presentano una grande ricet- tività per la fillossera, mostrano tutte le cellule del palizzata colorite in bleu se trattate col cloruro ferrico. Nel tessuto iperplastico delle galle è il tannino a reazione bruno-verdastra che abbonda. Le varietà di Vinifera mostrano nelle radici in prevalenza l’enotannino; nella resia, coltivata nel Lago Maggiore. in terreni umidi e profondi, ho trovato molto tannino a reazione bleu. Eguale risultato ho ottenuto dall'esame delle radici di viti nostrali coltivate nelle sabbie vicino al mare. Quale rap- porto la presenza esclusiva o la preponderanza di una delle due qualità di tannino nelle radici possa avere col grado di ricettività e di resistenza alla fillossera, sarà definitivamente stabilito da ulteriori ricerche; da quanto ho esposto però è prevedibile quale sarà il resultato che si potrà ottenere ri- guardo a un tal quesito. Il succo, estratto con la pressa dalle radici legnose di qualsiasi vitigno, presenta con varia intensità alcune reazioni caratteristiche che sono date da sostanze tanniche particolari. Hsponendo ai vapori di iodio, bromo, acido nitrico, formalina, una goccia di succo estratto da radici fresche, si forma un precipitato sranuloso insieme a una pellicola sottilissima, iridescente. Il precipitato si ha pure trattando il succo di radice con la soluzione di ioduro di potassio iodurato, con l’acido fosfomolibdico, col bicromato po- tassico, col cloruro d'oro, nitrato d’argento, acetato basico di piombo, solfato di rame, ed altri sali. Non si ottiene invece adoperando acido picrico, su- blimato corrosivo, reattivo di Mandelin (acido solforico + vanadato d’ammo- nio). Il precipitato si forma tanto se il succo sia stato leggermente acidi- ficato come alcalinizzato. È insolubile nell’alcool, nei solventi dei grassi, negli acidi minerali od organici concentrati a freddo o a caldo meno che nel HNO; concentrato, negli alcali, nel liquido cupro-ammoniacale, nel liquido di Lowe; è al contrario facilmente solubile nell'acqua di Javelle preparata di fresco. L'alcool a 70-80° estrae completamente dalle radici la sostanza che origina il precipitato anzidetto con l’iodio, la formalina, i vapori nitrosi ('). Il cloroformio, l'etere, l'alcool assoluto, il benzolo, la toluidina, l’ace- tone non la estraggono. L'estratto alcoolico, dopo evaporazione dell'alcool, ridisciolto in acqua, presenta tutte le reazioni del succo fresco di fronte ai reagenti già nominati. Questa soluzione, contenendo anche la maggior parte delle sostanze tanniche della radice, da pure tutte le reazioni comuni ai tan- nini, così riduce assai energicamente il liquido di Fehling, e coi sali di ferro (*) Le altre reazioni citate sono date anche dalle sostanze tanniche. ra ec rss EIA e igoini dà una colorazione bleu. Non presenta la reazione del biureto, nè quella rantoproteica, nè si colora in rosso col liquido di Millon. Il trattamento per 15-20 ore con polvere di pelle, sottrae le sostanze tanniche completamente; e così non solo scompaiono tutte le reazioni relative, ma il precipitato ai vapori di iodio o nitrosi o di formalina non avviene più. L'aggiunta di tan- nino, acido gallico, ed altri fenoli facilmente ossidabili, non riconducono nella soluzione, già trattata con polvere di pelle, la proprietà di dare il precipi- tato coi reagenti anzidetti. Con ciò non è affatto escluso che si tratti sem- plicemente di un tannino; ma l'ipotesi che si tratti di un acido tannico unito a vna base debolmente azotata non è neanche da rigettare. Nelle radici della vite cioè potrebbe trovarsi un composto analogo a quello che l'acido chino- tannico origina, combinandosi con gli alcaloidi, nella corteccia della Cinchona. Il tannato di chinina del commercio, per es., ai vapori di iodio da una pel- licola iridescente, simile a quella del succo delle radici di vite, insolubile nell’alcool. Se la soluzione di tannato di chinina si tratta con polvere di pelle, si forma ancora la pellicola ai vapori di iodio, però meno intensamente, ed è solubile nell’alcool, come quella che si ottiene dà una soluzione di chinina pura. La difficoltà di potere estrarre con l'etere dalle radici di vite la sostanza precipitabile, esclude che possa trattarsi di lecitina unita a un tannino o di una combinazione lecitinica, così diffuse nella generalità delle piante. I trattamenti ordinariamente usati per isolare l'acido tannico (con ace- tato basico di piombo, acetato di zinco, etere acetico ed etere solforico), ap- plicati alla soluzione acquosa del residuo dell'estrazione alcoolica, hanno però dimostrato costantemente che le reazioni caratteristiche ottenute coi vapori d'iodio e nitrosi (pellicola iridescente) sono date da una sostanza tannica, la quale, così isolata, non dà più precipitato con la formalina ('). Valendosi delle proprietà di precipitare in presenza di sostanze ossidanti, è possibile stabilire un metodo approssimativo di determinazione volumetrica di questa speciale sostanza, della quale, con la comune analisi qualitativa e quantitativa dei tannini, non è assolutamente possibile determinare nè la presenza, nè la percentuale. Le ricerche ulteriori sulla natura chimica di questo composto tannico particolare saranno pubblicate in seguito. Desidero ora aggiungere alcune notizie che riguardano la ricerca microchimica di detta sostanza. Ese- guendo le reazioni di precipitazione sulle sezioni trasverse delle radici, poste (1) Questo precipitato può essere dovuto a tutt'altra sostanza, forse anche a un sale organico, ma non è neanche improbabile che si tratti di uno di quei prodotti di conden- sazione che gli acidi tannici, ossibenzoici e i fenoli fermano con l’aldeide formica in pre- senza di una piccola quantità di acido cloridrico. (Cfr. gli studii di Bayer, Kleeberg, Stiasny, Drabble e Nierenstein (The Biochemical Journal, vol. II, n. 3, 1907). È da notare però che il liquido non era stato acidulato. Le ricerche sulla natura di questo precipitato continueranno. Seggi in una goccia d'acqua, il precipitato sembra avvenire nell'interno o alla pe- riferia dei corpi mucillaginosi delle cellule a rafidi. Ad avvalorare l'ipotesi che la sostanza precipitabile sia contenuta nelle masse mucillaginose sta la mancanza del precipitato quando quest'ultime abbiano perduta, per un prolungato disseccamento, la proprietà di rigonfiarsi con l'acqua (’). In realtà però la mucillagine non contiene che raramente la sostanza precipitabile, ma se ne imbeve rapidamente non appena i tessuti sezionati vengono a contatto con l’acqua. Il completo disseccamento determina l’insolubilità della sostanza preci- pitabile con l’iodio, la quale non si diffonde quindi nell’acqua del preparato. Questa insolubilità però non è che apparente, perchè il calore non ha una simile azione nelle soluzioni concentrate, o sulla polvere di questa sostanza tannica. È il coagularsi o la perdita in qualunque modo della solubilità di un altro composto, che accompagna nelle cellule questo particolare tannino, che ne impedisce la diffusione nelle sezioni riscaldate o di radici secche. La mucillagine pura, o semplicemente trattata con polvere di pelle, perde la proprietà di dare il precipitato con la maggior parte dei reattivi degli alca- loidi. Questa proprietà non è riacquistata per l'aggiunta di sostanze tanniche o fenoli del commercio. Fra i molti organi vegetali, ricchi di mucillagine, che ho esaminato per trovare un fatto analogo a quello ora riferito per la vite, i tuberi di Dioscorea japonica posseggono una mucillagine che è un glucoproteide (?) e che quando è estratta direttamente, senza alcun trattamento, dà un preci- pitato granulare con gli stessi reagenti che producono il precipitato nel sueco delle radici della vite. Anche nella Dioscorea questa sostanza non è un co- stituente chimico della mucillagine, ma solo vi si scioglie al momento della sezione o della compressione e spappolamento dei tessuti. Nel caso della vite è molto difflcile determinare con sicurezza quando i corpi mucillaginosi con- tengono questa sostanza. Il motodo migliore è forse il seguente: Esporre ai vapori dell’iodio o a quelli nitrosi, la sezione di radici fresche, aderenti a un vetrino coprioggetti senza alcuna aggiunta di acqua. Soltanto nel caso (*) Anche il disseccamento rapido alla stufa produce lo stesso effetto. Nelle foglie il fenomeno è più manifesto che nelle radici. Si tratta, a quanto sembra, di una modifi- cazione chimica. Le masse mucillaginose non solo perdono il potere di rigonfiarsi e dis- solversì nell’acqua, ma sono completamente insolubili negli acidi e negli alcali. Si sciol- gono nell’acqua di Javelle e col trattamento indicato da Mangin per sciogliere il pectato di calcio dalle parti cellulari. Ciò dimostra ancora una volta la natura pectica di questa mucillagine (Cfr. anche il lavoro di Sostegni in Staz. sper. agr. it. 1902). (2) Cfr. Ishii I, Landw. Versuchst., Bd. XLV, pag. 434, 1894. Beihefte Bot. Cen- tralbl. Bd. VI, 1896, p. 20. Bull. Coll. Agr. Tokyo II, 1894. Nei tuberi della-Dioscorea si trova un alcaloide (dioscoreina) al quale si potreb- bero attribuire le reazioni di precipitazione sopracitate. Tm SEN NS del Cissus, della Vitis Rotundifolia, Berlandieri, ho potuto osservare la formazione di un precipitato in seno alle masse mucillaginose, in queste, come in tutte le altre viti la sostanza in questione è localizzata nel libro molle (parenchima liberiano e cellule annesse dei tubi cribrosi); in quelle cellule dove il cloruro ferrico dà una colorazione bleu intensa. Si trova anche in molti elementi del parenchima legnoso e nei raggi midollari. Non si deve credere però che tutte le cellule che reagiscono in bleu col cloruro ferrico contengano questo tannino. Cosicchè radici ricche di sostanze tanniche pos- sono al contrario essere poverissime di un tal composto. Le radici di quercie, di Eucalyptus, di Rhus Coriaria e di moltissime altre piante che ho esa- nate ne sono prive. La sua formazione varia moltissimo nelle radici di una stessa pianta. Manca assolutamente, o vi si trova in quantità inapprezzabile, nelle radici a struttura primaria di tutti i vitigni, specialmente nella regione più vicina all'apice. Nelle radici a struttura secondaria il contenuto massimo coincide con l’inizio del periodo vegetativo, diminuisce notevolmente nell'inverno. Le radici di 3-4 anni ne contengono molto di più di quelle di un anno. Nelle foglie e nei tralci, nelle gemme, manca o è in minima quantità ( Vinzfera e vitigni affini, A/parza, Rupestris) 0 è costantemente abbondante (Berlan- dieri probabilmente Rotundifolia, e ibridi di Berlandieri). Le radici adulte di Vizifera ne sono talvolta sprovviste. Ne conten- gono al massimo quelle di Berlandieri e di Rotundifolia, che sono para- gonabili, a questo riguardo, ai Czssus; viene dopo la Rupestris. In queste viti, oltre che nel floema, la sostanza in questione è pure contenuta in al- cune cellule del parenchima corticale. Nelle tuberosità che si formano sulle radici di piante sufficientemente resistenti, essa si accumula nel tessuto in attività di accrescimento della tu- berosità stessa: manca completamente nella zona in arresto di sviluppo. Questa localizzazione farebbe pensare che una tale sostanza potesse poi essere uti- lizzata nella formazione di uno strato suberoso ('). Ma d'altra parte la sua assenza nell’ordinario strato fellogenico della peridermide in molti vitigni, nei quali resta localizzato costantemente nel libro molle, è in contraddizione con una tale supposizione. Quale possa es- sere il significato biologico dell'elaborazione di questa sostanza tannica, e quale rapporto essa possa avere con le altre proprietà strutturali che carat- terizzano i vitigni resistenti, sarà detto in un’altra Nota, dopo che queste ri- cerche saranno compiute. Desidero pertanto far osservare come questa, che io sappia, è la prima volta che è stata travata una sostanza il cui quanti- tativo nei diversi organi è in un certo rapporto col grado di ricettività per (1) Drabble E. and Nierenstein M., On the ròle of phenols, tannic acids, and 0x1- benzoic acids in cork formation (Biochem. Journ., II, 1907 pp. 95-102, 1 Tav.). Me la fillossera tanto gallicola come radicicola (!). L'elaborazione abbondante di questo tannino nei C7ssus, Ampelopsis e generi affini, come nei vitigni com- pletamente indenni da flllossera (Rotundifolia), giustifica l’importanza che ho creduto di dover dare alle ricerche intorno a questo argomento. MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Evans G. C. Sopra l'algebra delle funzioni permutabili. Pres. dal Socio VOLTERRA. Tacconi E. Note mineralogiche. Pres. dal Socio STRUEVER. BrunETTI G. Za spermatogenesi della Tryxalis. Divisioni matura- tive. Pres. dal Socio Grassi. NoÈ GIOVANNI. Za spermatogenesi. del Gigantorychus hirudi- naceus. Pres. id. RELAZIONI DI COMMISSIONI Il Socio STRUEVER, a nome anche del Corrisp. VioLa, relatore, legge una relazione colla quale si propone l'inserzione nei volumi accademici, della Memoria del dott. M. FeRRARI, intitolata: Ze roccie eruttive raccolte nel supposto giacimento granitico di Groppo del Vescovo (Appennino centrale). Le conclusioni della Commissione esaminatrice, messe ai voti dal Presidente, sono approvate dalla Classe, salvo le consuete riserve. PERSONALE ACCADEMICO Il Socio P. PizzettI legge la seguente Commemorazione del Socio straniero ROBERTO DAUBLEBSKY von STERNECK. La scienza trae continue e necessarie ragioni di concordia e di collabo- razione fra i popoli da studî i quali, almeno per la esecuzione pratica, sono in massima parte affidati agli uomini di guerra. Il nostro compianto socio straniero Roberto Daublebsky von Sterneck incominciava a vent'anni nel 1859, la sua carriera nell'esercito austriaco combattendo la campagna d'Italia. Egli appartenne a quell’esercito dal 1859 al 1905 procedendo nei varî gradi della milizia fino a quello di maggior generale. Ma dall'anno 1863, nel quale entrò a far parte dell'Istituto geografico militare di Vienna fino al (') Qualsiasi ipotesi però sarebbe ora semplicomente infondata. Intanto le foglie di Vinifera, che mostrano così poca ricettività per la gallicola, non contengono il tannino in questione: per quanto non sia detto che la mancanza di ricettività sia determinata in tutti i casi dalla stessa causa, è bene tener presente un tal fatto. RENDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 9 MEO — giorno in cui, non grave d'anni, ma ricco di fama, di onori e di beneme- renze, Egli si ritirò a vita privata, l'arte sue e i suoi studî non furono di guerra. Egli ritornò in Italia e fece l'Italia oggetto dei suoi studî, ma non come soldato. Cogli studiosi italiani ebbe dimestichezza e simpatia nei fre- quenti ritrovi della Associazione Geodetica Internazionale. Amò e studiò la lingua nostra e la nostra letteratura e in particolare il nostro massimo Poeta. I versi coi quali nella Divina Commedia è ricordata la gigantesca frana di S. Marco fra Ala e Trento, tornarono alla mente dello Sterneck e fu- rono da lui citati a suggello della Memoria nella quale egli dà conto delle sue classiche misure gravimetriche da Mantova a Kufstein attraverso il Brennero: .. Qual'è quella ruina che nel fianco di 1a da Trento l'Adige percosse o per tremuoto 0 per sostegno manco, che da cima del monte onde si mosse al piano è sì la roccia discoscesa che alcuna via darebbe a chi su fosse. Lo studioso infaticabile che in quella grandiosa regione alpina indagava col pendolo gli eccessi e i difetti di massa, trovava nei versi di Dante lo specchio migliore delle proprie impressioni. * x x La citazione di questà Memoria mi porta a discorrere subito di quello che fu il campo di massima attività del Nostro, voglio dire del grande con- tributo da lui dato alla conoscenza della gravità terrestre. Le misure pendolari assolute dànno risultati preziosi, in quanto esse tendono a fornire il valore della gravità libero, per quanto è possibile, da errori sistematici. Ma tali operazioni, appunto in grazia del difficile scopo cui mirano, sono molto delicate e faticose, nè, quindi, possono agevolmente moltiplicarsi; mentre che, d'altra parte, dalle misure gravimetriche può ve- nire un essenziale contributo alla conoscenza della superficie di livello ter- restre ed alle indagini geognostiche, soltanto quando tali misure siano ese- guite in un grandissimo numero di punti del globo. A questa instante ne- cessità ha provveduto, intorno al 1882, lo Sterneck colla invenzione di un ben noto strumento pendolare di piccole dimensioni, di facile trasportabilità e di rapido maneggio che serve allo determinazioni relative della gravità. L'istrumento ha avuto dipoi notevoli modificazioni, specialmente per opera dell'Istituto geodetico Prussiano; ma, sia nella sua forma originale, sia coì successivi miglioramenti, esso ha fornito la massima parte delle determina- zioni gravimetriche (circa 2600) delle quali dispone ora la Geodesia. 10 Sterneck impiegò per la prima volta quello strumento nel 1882 e nel 1883 per la ricerca dei valori sotterranei della gravità nelle miniere della Boemia e della Sassonia allo scopo di determinare la densità media Lo (27/0 della Terra ('). Eseguì poi dal 1888 al 1891 le già ricordate misure nelle Alpi e dal 1884 al 1901 coprì con una fitta schiera di determinazioni (544) gravimetriche le varie provincie dell’Austria-Ungheria, in guisa che quel paese può ora dirsi il meglio studiato della Terra dal punto di vista della gravità (°). Non da Lui direttamente eseguite, ma dirette, calcolate e pubbli- cate sono le misure di gravità fatte dal Luogotenente Gratzl nel 1891 in 4 punti di alta latitudine (*), (Jan Mayen, Edinburg, Tròmso e Spitzberg) fino a raggiungere l' 80° parallelo Nord. E sono da citare poi come di pri- maria importanza per l'allacciamento dei lavori gravimetrici dei varî paesi, i paragoni fatti, in varie epoche, dallo Sterneck, fra le stazioni fondamentali di Vienna, di Berlino, di Potsdam, di Budapest, di Grenwich, di Padova. A proposito dei quali paragoni ci è di particolare compiacimento il ricordare come con tre distinte serie di operazioni, dal 1893 al 1900, il prof. Loren- zoni, il luogotenente von Triulzi e il nostro I. G. M. poterono, collo stru- mento Sterneck confrontare i valori della gravità fra Vienna, Padova e Roma, mettendo in piena luce la bontà di quella misura assoluta eseguita dai compianti Pisati e Pucci, che questa Accademia aveva nel 1883 onorata col premio Reale. Alla grande attività, alla illuminata concordia della Associazione Geo- detica internazionale, al valore dell'Uomo illustre che ne presiede l’Ufficio centrale a Potsdam, alla volontaria collaborazione di benemeriti studiosi, dobbiamo una diffusione ammirevole delle ricerche gravimetriche per tutto il mondo; ma è da riconoscere che il ritrovato e l'esempio dello Sterneck fu- rono la spinta ad una tal diffusione. Dalla lettura delle Memorie del Nostro su questi argomenti si rileva poi come il merito di Lui fosse ben superiore a quello della semplice invenzione e del nudo sperimento. Non solo la te- nacia e l'accortezza dell'osservatore, ma la fine discussione dei metodi, le deduzioni condotte con sagacia e rigore scientifico ov'era possibile, con pru- dente riserbo ove la conclusione non appariva sicura, mostrano nello Sterneck un degnissimo cultore degli studî positivi (*). Due fatti di primaria importanza ci sembra specialmente doversi se- gnalare nel contributo dato dallo Sterneck all’argomente in parola: 1° una larga e generale conferma del fenomeno, già limitatamente rivelatosi per (1) Untersuchungen ber die Schwere im Innern der Erde. Mitth. des K. K. M. Geographischen Instituts. Bd. II, III, VI, anni 1882-83-86. (3) Veggansi le ora citate Mittheilungen, vol. IV, V, VII, X, XI, XII, XIII, XIV, XVII, XXI, dal 1884 al 1901. (*) Mittheilungen etc. Bd. XXII. (4) Oltre alle relazioni tecniche pubblicate nei citati volumi dell’ I. G. M. di Vienna, dobbiamo ricordare una comunicazione di carattere quasi popolare fatta dal Nostro al 5° Congresso geografico tedesco del 1891, nella quale egli fornisce le principali notizie sulle deviazioni della verticale e sulle anomalie della gravità, fermandosi specialmente su quelle di carattere regionale e sui risultati da lui ottenuti, a questo riguardo, in Boemia. mg — altra via ai Geodeti, della parziale, talvolta totale, compensazione dell'effetto perturbatore dovuto alle irregolarità apparenti della crosta terrestre; 2° la legge di variazione della gravità coll’altezza (?), dedotta da misure che vanno dall’altezza di 3470" sul mare fino a 564 al di sotto. % XX Utili applicazioni delle ricerche pendolari non isfuggirono allo Sterneck, e in primo luogo l'in/luensa della gravità sulle livellazioni di precisione, alla quale sono dedicate duo Memorie nei volumi 8° e 9° delle Mittheslungen dell'I. G. M. di Vienna. Com'è noto, le varie superficie di livello terrestri non sono fra loro parallele, ciò che complica di molto il problema pratico della livellazione geometrica; la conoscenza dei valori della gravità lungo la linea livellata dà modo di tener conto del difetto di parallelismo, in base ad un ben noto teorema meccanico. Por aderire ad un voto del prof. Helmert, lo Sterneck aveva eseguito, negli anni 1888-89, 42 misure di gravità nel circuito Bolzano, Franzenfeste, Innsbruck, Landeck, Mals, Merano, Bolzano lungo le valli dell’Eisack, del- l’Inn e dell'Alto Adige. Nelle Memorie ora citate, egli dà i risultati di queste misure e calcola i valori numerici dei termini di correzione che 0c- corre introdurre nei risultati delle livellazioni, sia nella ipotesi di una va- riazione normale della gravità, sia nel caso della effettiva variazione osser- vata. Le differenze fra le due serie di valori, vale a dire gli effetti delle anomalie della gravità sulla livellazione, risultano qui assai piccole, ma ciò non scema l'importanza dei lavori del Nostro che servirono poi di fonda- mento ad una classica Memoria di Helmert sulla gravità in alta montagna. * x * Coll’argomento delle livellazioni si connette la questione del livello medio marino e delle maree, alla quale portano contributo gli ultimi lavori dello Sterneck, pubblicati nei volumi 92, 23, 24 delle già citate Mitthei- lungen e nel 117° volume dei Sttzungsberichte dell’Accademia di Vienna. La teoria statica della Marea, per quanto imperfetta dal lato meccanico, rende conto abbastanza bene del fenomeno con tutte le sue oscillazioni di vario periodo, finchè si tratta degli Oceani. Invece i mari limitati. o quasi chiusi, quali il Mediterraneo e l'Adriatico, pure offerendo le due onde prin- cipali di marea, la semidiurna e la semimensile, presentano tuttavia dei ca- ratteri lor proprî che li distinguono dai mari aperti, e che son dovuti prin- cipalmente a due cause: e cioè, in primo luogo, alla impossibilità che at- (!) Quest'ultima in particolare viene discussa in una Memoria pubblicata nel 1899 nei Sitzungsberichte dell’Accademia di Vienna. Nella quale Memoria è pure discussa, ma con risultato pressochè negativo, la questione della dipendenza della gravità dalla temperatura. O traverso vie anguste o poco profonde, quali lo stretto di Gibilterra e il canale d'Otranto, avvengano prontamente quelle enormi dislocazioni di acqua che sarebbero necessarie per l'adattamento a superficie d'equilibrio della super- ficie marina, e, secondariamente al fatto che, per masse marine relativamente piccole, riesce molto grande l’effetto perturbatore della forma delle coste e dei bassifondi, nonchè quello del vento e degli altri elementi meteorici. I mari, come son questi che circondano la nostra patria, possono considerarsi, rispetto al fenomeno della marea, quasi isolati dal resto delle acque ocea- niche, in quanto gli innalzamenti del livello marino in un punto di essi avvengono a spese di abbassamenti in altri punti; in quanto, cioè, ogni causa perturbatrice, sia astronomica sia meteorica, dà luogo a movimenti ondosi il cui periodo è legato alla profondità media del bacino, e il cui ef- fetto altera in modo molto notevole il fenomeno, relativamente semplice, previsto dalla teoria statica della marea. Lo Sterneck nei suoi lavori sopra citati dà un buon incremento allo studio della marea nell'Adriatico; Egli presenta anzitutto un nuovo semplice e facilmente trasportabile mareografo e lo applica quindi alla ricerca del livello medio e delle variazioni di livello nei porti di Trieste, di Pola, di Ragusa e nelle isole di Pelagosa e di S. Andrea in guisa da determinare con grande precisione i livelli medî nelle tre prime località e da correggere il così detto zero della altimetria austriaca; studia in base alle osservazioni prolungate per più di due anni l’azione del vento e della pressione atmo- sferica sul livello marino nonchè il sincronismo delle varie perturbazioni di questo nelle cinque stazioni nominate. Si occupa finalmente di quello che, con espressione barbara, noi chiamiamo stabilimento del porto, ossia il ritardo della marea rispetto all'ora della culminazione della Luna in Sizigia. Le osservazioni di questo 77/ardo per varie località dànno modo al Nostro di iniziare, se non concludere, l'importante studio della legge colla quale si propaga la marea nel mare Adriatico, il quale sembra, dal punto di vista del fenomeno in discorso, potersi dividere in due regioni separate da una linea congiungente Monte Gargano con Ragusa. La parte al Sud di questa linea partecipa alla marea generale del Mediterraneo; la parte Nord ha un carattere a sè; il flusso di marea appare trasmettersi successivamente con moto circolatorio dalla costa Dalmata alla Italiana. Gli studî mareografici in Italia sono valorosamente coltivati, per tacer d'altri, dal Grablowitz, dal Magrini, dal De Marchi; è da desiderare che le competenti autorità favoriscano l’accrescersi dei dati d'osservazione sulle nostre coste, in guisa che l'Adriatico diventi almeno dal punto di vista scien- tifico, un po’ più di quello che ora non è, mare Italiano. * x x I lavori fin qui enumerati si aggirano su quegli argomenti che più occuparono l'attività scientifica dello Sterneck. Meno strettamente connessi Sie con quelli sono tre lavori giovanili di Lui, uno sull'infiuenza della Luna sulla gravità terrestre (*), uno sulle proprietà di alcuni strumenti astro- nomici (*), il terzo sopra la costante di rifrazione astronomica (*). Ta- cendo dei due primi di minore importanza, dirò come, nell'ultimo, alcune serie di osservazioni di distanze zenitali in stazioni (ad altezza variabile da 350 a 2500 m. sul mare) della Stiria e dell'Alta Austria e della Boemia forniscano all'Autore varie determinazioni del coefficiente di refrazione, il cui valore sembra, contro la opinione corrente, in stretta dipendenza colla umidità atmosferica. i Della influenza delle attrazioni locali sulle determinazioni di astro- nomia geodetica si occupò lo Sterneck nel 1888 in una breve Nota (5) della quale merito principale è l'aver messo in evidenza il principio che, nei luoghi ove hanno a supporsi forti anomalie della verticale, anzichè con- centrare un grande lavoro d'osservazione sopra una sola stazione astronomico- geodetica, conviene eseguire parecchie stazioni a poca distanza fra loro; da una opportuna combinazione delle varie misure risultano, se non eliminati, per lo meno di molto attenuati gli effetti delle perturbazioni locali. * * x Lo Sterneck entrato, come già si è detto, al servizio dell'I. G. M. di Vienna nel 1863 fu nel 1881 nominato ivi Direttore dell’Osservatorio Astro- nomico e poi nel 1894 capo della Sezione geodetica. Come astronomo, egli ebbe innanzi tutto a compiere, dal 1871 al 1874, nella penisola Balcanica quelle determinazioni di posizioni geografiche che furono fondamentali per la cartografia moderna di quella regione; altre osservazioni dello stesso genere eseguì più tardi nella valle del Limm (Novibazar) e in ben 59 stazioni di 9° ordine dell’Austria-Ungheria, e prese pure parte a 6 misure di differenze di longitudine. Merita speciale menzione lo studio che egli fece delle varza- zioni della latitudine, nell’Osservatorio dell'Istituto a Vienna, per mezzo di una serie di osservazioni durate 14 mesi (1892-93); una variazione regolare nelle medie mensili è abbastanza evidente; una piccola va:iazione diurna sembra pure accennata, ma il Nostro, con prudente riserbu, non ne assegna la legge, nè l'eventuale modo di spiegazione. Come geodeta, lo Sterneck coadiuvò o diresse i lavori delle triangolazioni di 1° ordine nell’Austria-Ungheria e nell'Albania, e delle misure di base di Egra (1873), Radautz (1874) e Tarnopol (1899), e delle definitive compen- sazioni numeriche delle reti. Per più di 40 anni Egli partecipò ai lavori (1) Sitaungsberichte der Akad. d. Wissens in Wien. Phys-math. CI. Jahrg. 1876. (3) Ibidem, 1878. (®) Ibidem, 1870. €) Mittheilungen des K. K. M. Geograph. Instituts. Vol. VIII, pag. 57, Wien, 1888. i della Associazione Geodetica Internazionale, alla quale presentò i periodici rapporti sull'attività geodetica del proprio paese. * Xx x Alle poche notizie biografiche che risultano dal fin qui detto, aggiungo che lo Sterneck nato nel 1839 in Praga dall'avv. Giacomo e dalla signora Maria Kalina von Jachtenstein, compiè gli studî nel Politecnico di Praga, e condusse in moglie nel 1868 la Signora Giuseppina Chimani dalla quale ebbe due figli, uno di questi, Roberto, il cui nome, come quello di prezioso ausi- liario, è spesso citato nei lavori del Nostro, è ora professore di matematiche alla R. I. Università di Graz (!). i Fu lo Sterneck insignito di molte onorificenze austriache ed estere ; ed oltrechè della nostra Accademia (alla quale apparteneva dal settembre 1908) Egli fu Socio o Corrispondente di quelle di Vienna, di Praga, di Cristania, della Leopoldina, nonchè delle Società geografiche di Berline, di Pietroburgo e di quella dei Naturalisti di Mosca. L'Università di Gottinga lo nominò suo dottore honoris causa. Nella corrispondenza epistolare, ed io ebbi con Lui questa sola rela- zione, egli si rivelava oltremodo cortese e pieno di simpatia per gli studiosi anche modesti. Chi lo conobbe personalmente lo descrive come uomo schietto senza ostentazione, cortese senza mellifluità, che riuniva in una armonica fusione le doti del gentiluomo vero, del soldato colto, dello scienziato mo- desto, non timido, conscio del proprio valore senza iattanza. In uno degli ultimi suoi lavori lo Sterneck, augurando che altri si occupi con amore delle maree adriatiche, termina colle parole: Vivat sequens; ev- viva a chi verrà dopo di noi. Parole che, da una parte possono far pensare ad un senso di stanchezza nell'uomo prossimo al termine della propria carriera, ma, più che tutto, rivelano la salda fede nella continuità dell’opera scien- tifica, la modestia colla quale il vero scienziato vede l’opera propria quale una piccola frazione della attività umana, nè ha la stolta illusione di mo- dellare il mondo col proprio cervello e di aver segnato fondo col proprio lavoro ai problemi naturali. Lo Sterneck, oltrechè la traccia profonda del Suo ingegno e della Sua grande operosità, ci lascia il ricordo prezioso di un elevato carattere e di una nobile vita. Il PRESIDENTE comunica che l'Accademia venne rappresentata dal sen. E. D'Ovipio e da altri Colleghi, alla traslazione della salma del compianto Socio sen. ANcELO Mosso in un posto d'onore nell’Arcata degli Uomini Il- lustri, nel Cimitero di Torino. (1) Al sig. prof. V. Sterneck che si è compiaciuto procurarmi notizie biografiche e tecniche sul compianto suo padre, e al sig. capitano Andres dell’I. G. M. di Vienna, che mi ha pure fornito un elenco delle pubblicazioni dell’estinto, esprimo la più viva riconoscenza. SE GSS Lo stesso PRESIDENTE presenta un invito dell’Università di s. Andrea in Scozia, per le feste che avranno luogo nel venturo settembre per la ri- correnza del 5° centenario della fondazione dell’ Università stessa. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvicH presenta lo pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Corrispondenti professori ARCANGELI @ SILVESTRI; richiama inoltre l’attenzione dei Colleghi sull’opuscolo Celestial Ejectamenta del dott. H. W:LpE: su di una pubblicazione fatta nella ricorrenza del 2° an- niversario della morte di OLE RoEMER, dono dell'Accademia di Copenaghen; e sul vol. 5°, parte prima, delle Memorie del R. Osservatorio astronomico al Collegio Romano. Il Corrispondente Rurrini fa omaggio di una sua pubblicazione sullo sviluppo della pars periotico-mastoidea del temporale e sul significato del- l’apofisi mastoide, dandone notizia. CORRISPONDENZA Il Presidente BLASERNA annuncia d'aver inviato, ricorrendo il gene- tliaco di S. M. la Reeina, un telegramma all’Augusta Sovrana cogli augurî dell’ Accademia. A questo telegramma S. M. faceva rispondere nel seguente modo: Senatore BLasERNA, Presidente Reale Accademia dei Lincei. — Roma. I voti gentili di codesta insigne Accademia hanno trovato, come sempre, la mi- gliore accoglienza presso l’Augusta Sovrana, che manda a Lei, che ne era gradito inter- prete, vivi e cordiali ringraziamenti. Dama di Corte di servizio Contessa DI TRINITÀ. CONCORSI A_PREMI Il Segretario MILLOSEVICH comunica gli elenchi dei concorrenti ai seguenti premi scaduti col 31 dicembre 1910: Elenco dei lavori presentati al concorso al Premio Reale per la Mineralogia e Geologia. (Scadenza 31 dicembre 1910. — Premio L. 10.000). Manasse ErnESTO. 1). Contribuzioni allo studio petrografico della Co- lonia Eritrea » (st... — 2). « Le rocce della Gorgona » (st.). — 3). « Rocce SSM79): della Colonia Eritrea raccolte a sud di Ardfali ». Parte 12 (st.). — 4). « Solfo del marmo di Carrara » (st... — 5). « Rocce della Colonia Eritrea rac- colte a sud di Aràfali ». Parte 22 (st.). — 6). « Di alcune leucotefriti di s. Maria del Pianto nei Campi Flegrei » (st... — 7). « Cenni sul macigno di Calafuria e suoi minerali » (st.). — 8). « Sopra alcune rocce eruttive della Tripolitania » (st.). — 9). « Contribuzioni alla mineralogia della To- scana » (st.). — 10). « Tetraedrite del Frigido (varietà Frigidite) e mine- rali che l’accompagnano » (st.). — 11). « Sopra le zeoliti di alcune rocce basaltiche della Colonia Eritrea » (st.). — 12). « I minerali della cava di zolfo di Poggio Orlando presso Lornano in provincia di Siena » (st.). — 13). « Melanteria e fibroferrite delle Cetine (Siena) » (st.). — 14). « Rocce eritree e di Aden della collezione Issel » (st... — 15). « Oxalite di Capo d’Areo (Isola d'Elba) » (st.). — 16). « Cloritoide (ottrelite) delle Alpi Apuane » (st.). — 17). « Mizzonite di Capo d’Areo (isola d'Elba)» (st.). Elenco dei concorrenti al Premio Carpi per il biennio 1909-1910. (Scadenza 81 dicembre 1910. — Premio 1. 900). 1. BRUNETTI GAETANO. « La spermatogenesi della Tryxalis. Divisioni maturative » (ms.). 2. Noe Giovanni. « La spermatogenesi del Gigantorychus hirudi- naceus» (ms.). Elenco dei lavori inviati per il premio di Fondazione Santoro. CanovETTI C. « Memorie varie sulla resistenza dell’aria, sull’areosta- zione e sull'aviazione ». E. M. RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 10 OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ACCADEMIA presentate nella seduta dell’8 gennaio 1911. AntonIazzi A. — Posizioni del nucleo e direzione della coda della cometa di Halley, nell'attuale sua apparizione, osservate alla Specola di Padova. (Estr. dagli « Atti del R. Istituto Ve- neto di Sc. lett. ed arti », tomo 69°). Venezia, 1910. 8°. ArcanceLi G. — Sopra varie piante di Pino premice coltivate nel R. Orto bo- tanico di Pisa. (Estr. dai « Processi verbali della Soc. Toscana di Scienze Natur. », vol. XIX). Pisa, 1910. 8°. ArcanceLI G. — Gli effetti dell'inverno 1900-1901, sulle piante dell'Orto bo- tanico di Pisa. (Estr. dal « Bullettino della Società botanica italiana », 1901). Siena, 1901. 8°. ArcangeLI G. — Sulla cultura d’un esem- plare di Victoria Cruziana d’Orb. (Estr. dai « Processi verbali della Soc. Toscana di Scienze Natur. », vol. XVIII). Pisa, 1909. 8°. ArcanceLI G. — Sulla scoperta delle mac- chie solari e delle facole. (Estr. dagli « Annali delle Università Toscane », vol. XXIX). Pisa, 1909. 4°. ArcancreLi G. — Sul mal bianco della querce. (Estr. dai « Processi verbali della Società Toscana di Scienze Na- turali », 1909). Pisa, 1909. 8°. Arcrowsri H. — Studies on climate and crops 2. The Yield of Wheat in the Uni- ted States and in Russia during the Years 1891 to 1900. (Repr. from the « Bulletin of the American Geograph. Society », Vol. XLII). New York, 1910 Si Atlas photographique des formes du rélief terrestre. Choix de documents mor- phologiques caractéristiques accompa- gnés de notices scientifiques. Lyon, 1910. 8°. Auric M. — Démonstration du théorème de Fermat. Constantinople, 1910. fol. v. Barserte E. — Les sommes de p.ièmes puissances distinctes égales à une p.ième puissance. Liège, 1910. 4°. BentABoL y UrETA Hor. — Hipétesis y teorias relativas a los cometas y colas cometarias. (Estr. de la Conferencia publica en la R. Sociedad geogr. de Madrid). Madrid, 1910. 16°. BorcHini N. — Conferenza sul paraful- mine Frankliniano e scaricatore con- tinuo dell’elettricità atmosferica. Arez- zo, 1910. 16°. Cannizzaro St. — La Scienza e la Scuola (Discorso). (Estr. dalla « Rassegna Contemporanea», an. III). Roma, 1910. 8°. CHarx E. — Projekto pri internacia Atlaso de « Erozio ». (Repr. de « Internacia Scienca Revuo », 1907). Genève. 1907. So Cnarx E. — Contribution a l’étude geo- physique de la région de Genève: la Capture de Theiry. (Extr. des « Archi- ves des Sciences phys. et nat. », tome XXX). Genève, 1910. 8°. Cnarx-Du Bors E. — Contribution a l’étude des lapiés en Carniole et au Steinernes Meer. (Extr. du « Globe », tome XLVI. Mémoires). Genève, 1907. 8°. Cuarx-Du Bors E. — Contribution a l’étude des lapiés. Le Silbern (Canton de Schwytz). (Extr. du « Globe », tome XLIV). Genève, 1905. 8°. CoLoma L. — Sopra alcuni minerali del- l’alta valle di Aosta. (Estr. dagli « Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino », vol. XLV). Torino, 1910. 807 Crepas E. — Risoluzione di un sistema di due equazioni lineari e discussione SI — delle formole di risoluzione. Roma, 1910. 8°, D’AcHiarDI G. — Luigi Celleri; ricordi e aneddoti. (Estr. dal « Bullettino della Soc. Geol. Ital. », vol. XXIX). Roma, 1910. 8. D'AcHiarDI G. — Pickeringite (pieroallu- mogene) dell’isola dell'Elba. (Estr. da- gli « Atti della Soc. Tosc. di Scienze natur. ». Proc. verbali, vol. XIX). Pisa, 1910. fol. FantoLI G. — Alcune note d’idrografia sulla estensione dei ghiacciai nel do- minio dei nostri fiumi alpini, sul tri- buto e sul regime delle acque glacidi, con tavola. (Estr. dal giorn. « Il Po- litecnico », 1902). Milano, 1902. 8°. FantoLi G. — Alcuni ricordi riguardanti l’opera della Società d’incoraggiamento d’Arti e Mestieri. (Estr. dagli « Atti della Società d’incoragg. d’Arti e Me- stieri in Milano », 1908). Milano, 1908. 8°. FantoLI G. — Questioni termiche relative alle tubazioni metalliche e di cemento dell'acquedotto pugliese. Genova, 1910. 4°. FantoLI G. — Relazione di giudizio intorno ai calcoli delle condotte forzate me- talliche e di cemento per la rete del- l'acquedotto Pugliese. Genova, 1910. 4°. FantoLI G. — Relazione sui lavori della sotto-Commissione per la progettata via navigabile da Milano per Lodi al Po, con allegata relazione dell’ing. Giu- lio Villa sulle perdite d’acqua del Na- viglio Grande. (Estr. dal period. «Il Politecnico », 1909). Milano, 1909. 8°. FantoLI G. — Studio della proposta Pe- stalozza relativa all’abbassamento delle piene del Verbano. (Estr. dagli « Atti del Collegio degli Ingegneri ed Archit. in Milano », XXIX). Milano, 1896. 8°. Forti A. — Contribuzioni diatomologiche. Venezia, 1910. 8°. GouPILLIÈRE (DE LA) H. — Étude géomé- trique et dynamique des roulettes pla- nes ou sphériques. Paris, 1910. 4°, GOUPILLIÈRE (DE LA) H. — Sommation de suites terminées. (Extr. des « Mémoires de la Société Roy. des Seienees de Liège », tome IX). Bruxelles, 1909. 89. GouPILLIÈRE (DE LA) H. — Théorie algé- brique d’un jeu de Société. (Extr. des « Nouvelles Annales de Matbémati- ques n, tome X). Paris, 1910. 8°. HartMmEYER R. — Die Ascidien der Dan- mark Expedition. (Danmark-Ekspedi- tionen til Gronlands Nordostkyst 1906- 1908. Bind V). Copenhaghen, 1910. 8°, Jonansen F. — Observations on Seals (Pinnipedia) and Whales (Cetaceae) made on the « Danmark Expedition » 1906-1908. Copenhaghen, 1910. 8°. Lacroix A. — Les roches alcalines de Ta- hiti. (Extr. du « Bulletin de la Société Geéolog. de France », tome X). Macon, 1910. 8°. Loria G. — Giovanni Schiaparelli quale storico dell’antica astronomia. (Sonde- rabdr. aus « Bibliotheca Mathema- tica », Band X). Leipzig, 1910. 8°. MannicHE L. V. — The terrestrial Mam- mals and Birds of North-East Green- land; biological observations. Copen- haghen, 1910. 8°. Manzini G. — Uccelletti ed insetti. (Estr. dall’ « Amico del Contadino », 1910). Udine, 1910. fol. MartELLI G. — Notizie sui costumi del Cerapterocerus corniger (Walk). (Estr. dal « Bollettino del Laborat. di Zoo- logia generale e agraria in Portici », vol. IV). Portici, 1910. 40, MARTELLI G. — Notizie sull’Aphis Bras- sicae L., e su alcuni suoi parassiti ed iperparassiti. (Estr. dal « Bollettino del Labor. di Zoolog. gener. e agr. in Portici », vol. V). Portici, 1810. 8% MartELLI G. — Per la conoscenza delle convittime del DyOrachys boucheanus (Ratz.). (Estr. dal « Bollettino del La- bor. di Zool. gener. e agr. in Portici », vol. IV). Portici, 1910. 49. MrLLosevica E. — Memorie del R. Osser- vatorio Astronomico al Collegio Ro- mano, pubblicate per cura di M. E,, vol. V, parte I. Roma, 1910. 4°. NoLan E. J. — A Short History of the — 76 Academy of Natural Sciences of Phi- ladelphia. Philadelphia, 1909. 8°. Orcasner DE Coninca W. — Action de corps solubles sur des corps insolubles. (Extr. des « Bulletins de l’Academie Roy. de Belgique », 1909). Bruxelles, 1909. 8°. Orcasner DE Coninca W.— Sur les réa- ctions de quelques sels. (Extr. des « Bulletins de l’Academie Roy. de Bel- gique », 1909). Bruxelles, 1909. fol. PauLow A. — Algebraiceskoe rescenie uravnenij. Moskva, 1910. fol. Romer 0. — Ole Romers adversaria med anderstottelse af carlsbergfondet ud- givne af det kgl. Danske Videnskaber- nes Selskab ved Tavra Eise og Kir- stine Mever. Cobenahavu, 1910. 4°. SiLvastri F. — Beschreibung der von K. Escherich auf Ceylon gesammelten ter- mitophilen Thysanuren, Myriapoden, sowie einer unbekannten mimetischen, termitophilen Coleopterenlarve. (Son- derabd. aus « Termitenleben auf Cey- lon von K. Escherich »). Jena, 1911, 8°. siuvestri F. — Della 7rigona cupira (Smith) e di due ospiti del suo nido nel Messico. (Estr. dal « Bollettino del Labor. di Zoologia gen. e agr. in Portici », vol. V). Portici, 1910. 8°. SiLvestrI F. — Due nuovi ospiti del 7’er- mes malayanus (Hav.) di Giava. (Estr. dal « Bollettino del Labor. di Zoolog. gen. e agr. in Portici », vol. V). Por- tici, 1910. 8°. siuvestri F. — Materiali per lo studio dei Tisanuvi, XII-XV. (Estr. dal « Bol- lettino del Labor. di Zoologia gener. e agr. in Portici », vol. V). Portici, 1910. 8°. siLvestri F. — Un nuovo genere di Acaro mirmecofilo dell’ Australia. (Estr. dal « Bollettino del Labor. di Zoologia generale e agrar. in Portici », vol. V). Portici, 1910. fol. Srrattesi R. — Il preavvisatore sismico Stiattesi. Torino, 1910. 89. Weser K. — Die Logarithmus Numerus- Rechenscheibe. Weiz, 1910. fol. WiLpe H. — Celestial ejectamenta. The first Halley lecture delibered before the University. Oxford, 1910. 8°. RELAZIONI DI COMMISSIONI Viola (relatore) e Strwver. Relazione sulla Memoria del dott. M. Ferrari intitolata: «Le roccie eruttive raccolte nel supposto giacimento granitico di Groppo del Vescovo (Ap- pennusstenma PR n; "Pag; PERSONALE ACCADEMICO Pizzetti. Commemorazione del Socio straniero Roberto Daublebsky von Sterneck . . . n Blaserna (Presidente). Comunica che alla traslazione della salma del Socio sen. Angelo Mosso nel Cimitero di Torino, l’Accademia venne rappresentata dal sen. D'Ovidio e da-altri o A Id. Dà comunicazione di una lettera d’invito dell’Università di S. Andrea in Scozia per le feste del 5° centenario dell’Università stessa...) SRI PRESENTAZIONE DI LIBRI Millosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle inviate dai Corrisp. Arcangeli e Silvestri, dal dott. A. Wilde, dell’Accademia di Kopenaghen, » e dall’Osservatorio astronomico al Collegio Romano . ./././.. 0. RSI Ruffini. Fa omaggio di una sua pubblicazione e ne VENIERA SEE o CORRISPONDENZA Blaserna (Presidente). Comunica la risposta a un telegramma di felicitazione inviato dal l'Accademia a S. M. la Regina in occasione del suo Genetliaco . . ..... 0.» CONCORSI A PREMI Haillosevich (Segretario). Comunica gli elenchi dei lavori presentati per concorrere al premio Reale per la Mineralogia e Geologia, al premio Carpi.e a quello della Fondazione OE n PR e DERFRIUNOFAIBLIOGRAFICO N ST RI 65 71 72 )) 74 RENDICONTI — Gennaio 1911. i INDTCE Ulasse di scienzé Hsiche, matematiche e naturali. Seduta dell'8 gennaio 1911. MEMORIE E NOTH DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Peano. Sulla definizione di funzione MIRA ET 3 Bianchi. Alcune formule inedite di I. Weingarten con Applicazioni: = 3.0 a) 5 Pirotta e Puglisi. Di alcune osservazioni ed esperienze intorno alla. comparsa ed alla persi- stenza di caratteri nelle forme veSMiBi co REID 6 Burali-Forti. Sull'operatore di Iaplace per le omografie vettoriali (pres. dal Socio Levi- o, fi Burgatti. Determinazione delle equazioni di Hamilton-Jacobi integrabili mediante la separa zione delle variabili (pres. dal Socio RCD) O e 16 Stekloff. Remarque relative è ma Note: « Solution générale du problème de développement sica re) e n Rolla. Su la dissociazione dei sali idrati (pres. dal Corrisp. CALISTA 17 Barbieri. Sui molibdati complessi delle tette rare (pres. dal Socio Ciamician). +. +. 18 Barbieri e Calzolari. Nuovi composti di sali metallici idrati con l’esametilentetrammina. (Forme labili di idratazione fissate mediante una base organica) (pres. I) Ra Bellucci e Manzetti. Sintesi diretta dei gliceridi (pres. dal Socio. Paterno) (*) . <.<... n Bargellini. Sopra alcuni derivati dell’ossiidrochinone (pres. Jd.). . - RIACIRRI N cito Collodi. Misura della carica portata dai raggi magnetici (pres. dal Corrisp. Battelli). . » 27 Magini. Sulle misure di tensione superficiale (pres. TAN RIA A] 30 Oliveri-Mandalà e Coppola. Bterificazione degli isoxazoloni con il diazometano (pres. dal Corrisp. Peratopern) (e > CR NRE oi Palazzo e Tamburini. Sintesi di derivati della 1.8 naftiridina dall’a-ammino-piridina (pres. Parravano. Il sistema ternario ‘argento-stagno-piombo (pres. dal Socio Paterno) @). . . n 45 Serra. Appunti mineralogici sulla miniera di Calabona (Alghero) (pres. dal Socio Struver) (È) n» Clerici. Sulla viscosità dei liquidi per la separazione meccanica dei minerali (pres. dal Socio è ” ” Patertma\ cx DAS Re SAM RI ”» ” Basile. Sulla trasmissione delle Leishmapiosi (pres. dal Socio Grassi) LIRA 50. Topi. Ricerche sul Pihlosetribus olvggpres. 14). Rie n 52 Petri. Ricerche sulle sostanze tanniche delle radici nel gen. Vitis in rapporto alla fillos- seronosi (pres. dal Socio Cibo RA n 57 MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Evans. Sopra l’algebra delle funzioni permutabili (pres. dal Socio Volterra) . . +. +... 65 Tacconi. Note mineralogiche (pres. dal Socio StrUver). . - SN On? Brunetti. La spermatogenesi della Tryxalis. Divisioni maturative (pres. dal Socio Grassi) n » Noè. La spermatogenesi del Gigantoryehus hirudinaceus (pres. 149) eo I (Segue în terza pagine) MO e e TE inni (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. —oma Sgennaio 1911. N. 2. it ATTI } DELLA | REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCCNII. 1911 Classe di scienze fisiche, matemache e naturali. Seduta del 22 gennaio1911. Volume XX — Fasicolo eo 1° SEMESTRE. cu pressgrton last ED i MARI Le 4 7 tr RS pi (IT Ai ot ROMA . TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA |DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI. CAV. Vv. SALVIUCÀ 1911 ESTRATTO lL REGOLAMENTO INTERNO PER LE P3BLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie geta delle pubblicazioni della R. Accademia d Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova seriformano una pubblicazione distinta per ciascunlelle due Classi. Per i Rendiconti della Classei scienze fisiche, matematiche e naturali valgone norme seguenti : 1.1 Rendiconti della Classe di ienze fi- siche matematiche e naturali si publcano re- golarmente due volte al mese; essi atengono le Note ed i titoli delle Memorie prentate da Soci e estranei, nelle due sedute msili del- l'Accademia, nonchè il bollettino hikografico. Dodici fascicoli compongono u volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o orrispon- denti non possono oltrepassare le 2 pagine di stampa. Le Note di estranei premtate da Soci, che ne assumono la responsabità, sono portate a 6 pagine. 3.L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci < corrisponanti, e 50 agli estranei: qualora l'autore ne dsideri un numero maggiore, il sovrappiù del. spesa è ‘ posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducondle discus sioni verbali che si fanno nel senodell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, cha vi hnno preso parte, desiderano ne sia fatta menione, essi sono tenuti a conseguare al Segretrio, seduta stante. una Nota per iscritto. II |. Le Note che oltrepassiuo i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro» priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com: missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o în sunto o în esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: ‘ziamento all'autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall' art. pre: cedente, la relazione è letta in seduta pubblica nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. - 5.L’Accademia dà gratis 75 estratti agli au tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è mersa a carico degli antori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Nan Seduta del 22 gennaio 1911. F. D' Ovipio Vicepresidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Matematica. — Alcune formule inedite di J. Weingarten con applicazioni. Nota del Socio Luici BIANCHI. Nella lunga corrispondenza epistolare che ebbi, a partire dal 1884, col compianto professore Weingarten, egli mi comunicò varie formole interes- santi per la geometria infinitesimale delle superficie, delle quali alcune sol- tanto furono poi rese note dall'autore stesso nelle sue pubblicazioni. Penso di far cosa grata ai cultori della geometria infinitesimale pub- blicando qui, col consenso della famiglia dell’insigne geometra, alcune sue formole inedite (1) colle quali si esprimono, sotto forma invariantiva, le va- riazioni subìte dai coefficienti delle due forme fondamentali di una superficie quando ciascun punto di questa subisca uno spostamento infinitesimo secondo la normale, e variabile da punto a punto (?). Facendo seguire le dimostrazioni di queste formole, ho stimato oppor- tuno di darne anche l'estensione alle ipersuperficie dello spazio euclideo, e più in generale allo spazio di curvatura costante, con un numero qualunque di dimensioni. In pari tempo, togliendo loro il carattere infinitesimale, le (*) La lettera in cui mi vennero dall'autore comunicate porta la data del 27 di- ‘cembre 1884. (?) Formole di questo genere, per spostamenti arbitrarii dei punti di una superficie, furono date da Ribaucour, Sur la théorie générale des surfaces courbes (Journal de ma- thématiques 4ème série, t. VII, 1891, n. 109 a 116). V. anche E. Daniele, Sulle defor- mazioni infinitesime delle superficie flessibili ed estendibili (Memorie dell'Accademia di Torino, ser. 2°, t. I, 1900). RenDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 11 ci CHIA ho considerate come esprimenti, per una serie qualunque co’ di ipersuper- ficie, le derivate secondo la normale dei coefficienti delle sue due forme quadratiche fondamentali. Esse appaiono allora sotto nuova luce esprimendo, congiunte alle equazioni di Gauss e di Codazzi, le condizioni necessarie € sufficienti perchè un ds? della forma 1... M ds= nda + I andx; dex i,k appartenga allo spazio Sm+r ad +1 dimensioni e di curvatura costante e. Per mostrare subito l'utilità di queste formole di Weingarten, mi volgo prima a proprietà ben note, deducendone nuovamente il teorema di Dupin- Darboux, nonchè l'equazione caratteristica del Cayley per le famiglie di Lame. Indi tratto e risolvo un nuovo problema che riguarda le reti di linee rigide articolate, supponendo una tale rete deformabile in guisa che ciascun suo punto si muova normalmente alla superficie sostegno; © dimostro che in tal caso la rete è necessariamente costituita dalle generatrici dei due sistemi di una quadrica variabile in un sistema omofocale. E lasciando il soggetto delle formole di Weingarten, tratto ancora un caso di reti deformabili che si può riguardare in certo modo come l'opposto di quello ora indicato : il caso in cui la rete sia piana e la deformazione av- venga nel piano stesso della rete. Dimostro che le uniche reti piane defor- mabili di curve rigide sono le ret? di Tchebychef, cioè quelle generate da due curve arbitrarie segantisi che si muovono di moto traslatorio l'una lungo l’altra. Da ultimo risolvo il problema delle reti deformabili di curve rigide nel caso che gli spostamenti dei punti avvengano parallelamente ad un piano fisso e dimostro che queste reti sono tutte e sole quelle che si projettano ortogonalmente sul piano fisso in una rete di Tchebychef. 1. Ze formole infinitesimali di Weingarten. Sia S una superficie riferita ad un sistema curvilineo (w,v) e definita intrinsecamente dalle sue due forme quadratiche fondamentali (1) E du? + 2F du dv + G do? (2) D du? + 2D'du do + D''de?. In ogni punto (w, v) di S stacchiamo sulla normale un segmento infi- nitesimo = sn, dove e è una costante infinitesima, le cui potenze superiori alla prima sì trascurano, ed n=n(v,v) una funzione arbitraria di %,%, finita e continua colle derivate fino almeno al 3° ordine. Il luogo dei ter- E to) e mini di questi segmenti sarà una superficie S' infinitamente vicina ad S. Le formole di Weingarten esprimono le variazioni 0E,d6F,0G ; dD,JD', dD" dei coefficienti delle due forme fondamentali nel passaggio da S ad S'; esse sono le seguenti: BE O an DIC 2 DI n =[25 Enti] (11) IEEE DL (KP+HD)n n] s0=e| DE an 4 (K6+- HD") a]. Qui i simboli di Christoffel di si intendono costruiti per la forma fonda- mentale (1), mentre H e K hanno il solito significato di curvatura media e curvatura totale di S: 2FD' — ED" — GD (3) H= mR pi DD" SERI D' ©) = Meg: : Si osserverà che, adoperando le notazioni delle derivate seconde cova- rianti, le formole (II) si scrivono OD =e[2 + (KE+ HD) 7] (II*) òD' = [n + (KF +4 HD’) x] 0D"= [n° + (KG+ HD") x]. Per dimostrare queste formole di Weingarten, si cominci dall’osservare che le variazioni dx, dy,dz delle coordinate cartesiane ortogonali di un punto (v,v) di S sono date da (5) dr=enX , dy=enY , de=ent, denotando al solito X,Y,Z i coseni di direzione della normale.- Ed ora, variando le formole (a) SX Se (9 SX2105 dU dv Md (8) LE ini SAS dV dU risultano subito le (1). Variando le (a), otteniamo poi (6) SX = — eV(a, n), ST=— V(y o), dL=— eV 12); ed in fine, variando le (6) coll'osservare le identità: dx IV(d, n) de dIV(x, n) dx IV(£, n) QRL PM n Si O i) dU dU du dV dV dU x E, gie IVA) _ n, dv dv ne risultano le formole (II) o (II*). 2. Le formole di Weingarten in termini finiti per le ipersuperficie. Nello spazio Sm+. ad m 1 dimensioni a curvatura nulla (euclideo), o più in generale a curvatura Riemanniana costante c, si consideri una qualunque serie co! di ipersuperficie V,, e le curve C loro trajettorie orto- gonali. Riferiamo lo spazio ad un sistema di coordinate curvilinee Lo, L1,L23003dm > per le quali le ipersuperficie x = COSÌ siano le V, date, e le curve (xo), lungo le quali varia il solo parametro x, siano le curve C trajettorie orto- gonali delle Vm. L'elemento lineare ds dello spazio prenderà la forma cos k 1 (7) dst=n° do + ) dinda; dax, dove i coefficienti n, a sono funzioni di tutte le variabili 0, %13423 -:3Yme Indichiamo inoltre con E 1. di Qik da; dx ik la seconda forma quadratica fondamentale delle ipersuperficie Vm (v. le mie Lesioni di geometria differenziale, vol. I, $ 164). IRR] Colle usuali notazioni per la forma quadratica differenziale (7), abbiamo doo = N°, Goa = Oo = = dom=" 0 1 Ao; ’ Ao = Ao= = Aom=0, mentre le altre Ax, per #0 ,%+0, hanno i medesimi valori come per la forma ad m variabili lam (7*) Da Qik dx; da 5 d,k che dà il ds° della ipersuperficie V,,. Ne segue che, se î,%,/,... indicano qui, come in seguito, indici presi nella serie 1,2,...,m (con esclusione dell'indice zero), i simboli di Christoffel di prima e di seconda specie i k (V202) l (2) hanno i medesimi valori per la forma differenziale (7) come per la (7*). Ora sì osservi che le costanti di direzione della normale alla ipersu- perficie V,, hanno i valori (Zezioni ecc., vol. I, pag. 332) x=i , Kr=X.=-=Xn=0, onde abbiamo per le Q;, ul cioè i (A) ana 2 dx | Con queste formole calcolianio subito quei valori dei simboli ie | di Christoffel nei quali figura almeno un indice nullo e troviamo (8) (4 = + 6 =— N12, (8) OF OO) de VU AA 0 de; Og nin; Cee Dopo ciò calcoliamo le condizioni necessarie e sufficienti affinchè l’ele- mento lineare (7) appartenga allo spazio S,m+: di curvatura Riemanniana costante c, espresse dalle formole (Zezioni, vol. I, pag. 344) (9) (af, 79) = c(4ay pd — dad 48) CATA OO 01012; ei SRO Distinguiamo tre specie di questi simboli di Riemann a quattro indici (aB, 79), secondo che a) nessuno degli indici è zero; b) un solo indice è nullo; c) due indici sono nulli. Il calcolo stesso eseguito al $ 165, vol. I delle Zezioni dimostra che nel caso a) le equazioni (9) danno le equazioni di Gauss (H*), vol. I, pag. 362, e nel caso b) invece le equazioni di Codazzi (J*) (ibid.). Resta | solo che calcoliamo le (9) nel caso c), cioè le condizioni della forma (10) (0£ 9 10) = — C4ik n°. Secondo la definizione del simbolo di Riemann (Lezioni, vol. I, pag 73)(1), abbiamo rs 2 [1-2 (14400) +20 ed osservando le (8), (8*) dn (04,10) = 3 (12) +T( | TE i dXK È (METRO dm DI O a n r Esci sM dI; dLUK 1..M sì dm Îlo —_ A — — n° S Au 2,2 o 2 sa [6 dXI vci Di Se si fanno le riduzioni € si introducono i simboli di Christoffel di 2° specie, si ha i din 1.aM ik ) dn 1a..M i 0 , =" 7 = = nica A 9; Qu, — o (0%, 60) a DI i 2)20 n DI a Lo Lie Tani Dopo ciò le equazioni (10), colle notazioni delle derivate seconde cova- rianti, sì scrivono 3% 1. ) (B) Lit _ ig +) DA La La + cam. dX0 I, ll i Le formole (A) e (B) danno le cercate generalizzazioni delle formole di Weingarten. Si osserva di più che esse hanno ora perduto il carattere 0 wsn2 [1-20 E iCIDI-CIL ERRO infinitesimale ed esprimono, associate alle equazioni di Codazzi e di Gauss, le condizioni necessarie e sufficienti perchè il ds? dato dalla (8) appartenga allo spazio ad 72--- 1 dimensioni di curvatura Riemanniana costante e. Osserviamo che se si pone dii d2 ce dim pas Az, 422 sì Um Amr Uma «0 Umm e si deriva logaritmicamente rapporto ad x, si deduce per le (A) lo A pie DA; 1... d log Y = dle E = n D Andar. dX0 i,k dX0 ik Ma indicando con ata! sedia bla le curvature principali della ipersu- R, Rs Ji perficie V,,, prese con segno conveniente, si ha (Zezioni, vol. I, $ 168) 1 1 il 1. prede: +3-=— MAx 9%), R, sn SR mia ia x) indi la formola (11) ae (i+ tota). dX0 Ora l'elemento d’ipervolume della V,, è dato da Ea Chia UA AA e dalla formola (11) segue: Condizione necessaria e sufficiente perchè le trajettorie ortogonali delle ipersuperficie V,, segnino sopra di queste una corrispondenza che conservi gli ipervolumi è che le ipersuperficie V,, abbiano nulla la curvatura media (ipersuperficie minime). Il caso m=2 delle ordi- narie superficie minime è ben noto (1). 3. Applicazioni alle famiglie di Lame. Ritorniamo al caso dell'ordinario spazio Ss euclideo, facendo m= 2, c=0, e scrivendo v,v,w al posto di Xi, 2,0, poniamo nelle consuete notazioni e Ma = Q,,=D s. Quo È 3 (DE (*) Cfr. Schwarz, Veber ein die Flichen hleinsten Flicheninhaltes betreffendes Problem der Variationsrechnung; v. anche Lezioni, vol. II, pag. 578. IMQ” L'elemento lineare dello spazio prenderà la forma (12) ds° = E du? +2Fdudv+ Gdv + n° dwò, e le formole (A) ,(B) diventeranno (III) di o) 3 RE op ; E go, dw dw dWw 2D 3D' o = n + (KE+4+ HD) n ’ —=m+(KF+HD'), (IV) dWw dw db" n 3; = n, + (KG+- HD"), dove H e K hanno il solito significato di curvatura media e totale, secondo le formole (3), (4). Le (III) e (IV) ci dànno le derivate dei coefficienti E,F,G; D,D',D" nel senso della normale, ed associate alla equazione di Gauss e alle due di Codazzi, dànno le condizioni necessarie e sufficienti perchè l'elemento lineare (12) appartenga allo spazio ordinario. Dalle (III) e (IV) deduciamo ancora le tre seguenti nd MENOS (13) o log (EG — F°) = 2xH dH _ i (14) "x È (2K — H°)n— As 2K MS DY55 + D'un E 2D'Rio RE) do EG —F° vi. l’ultima delle quali si può anche scrivere sotto la forma DR __ pr d dn __ prè% 2dK 1 n n dU Ù dv D DO, or ( So ee pri de —_L N-_--;i (HE. (1). dWw . VEG— F° dU V/EG— F° dv EG — F° Osserviamo subito alcune conseguenze delle formole (III), (IV) che confermano risultati ben noti. 1°) Suppongasi che il sistema (w, ©, w) sia triplo ortogonale. Essendo F--0, la media delle (III), dimostra che anche D' è costantemente nullo, cioè sulle w= cost le linee w,v sono quelle di curvatura; dunque: in ogni sistema triplo ortogonale le superficie dei tre sistemi si intersecano lungo le loro linee di curvatura (teorema di Dupin). 2°) Suppongasi che sulle superficie w = cost le linee v= cost siano linee di curvatura, si supponga cioè che i due sistemi di superficie v = cost, (*) È interessante qui l’osservazione, già fatta dal Weingarten, che nel caso di K costante l'equazione che segue per n dalla (15) coincide con quella per la funzione ca- ratteristica g delle deformazioni infinitesime (Lezioni, vol. II, pag. 7). SL HIS w = cost si taglino ortogonalmente lungo linee di curvatura. Poichè sulle w= cost l'equazione differenziale delle linee di curvatura è (16) (ED'— FD) du? + (ED" — GD) du dv + (FD" — GD') do =0, la nostra ipotesi equivale a supporre ED'—FD=0, onde per le due prime (III) si ha indi 5 indipendente da w. L'equazione differenziale delle linee di curvatura del secondo sistema Edu+ Fdo=0 essendo dunque indipendente da w, anche queste linee si corrispondono sulle w=cost nella corrispondenza segnata dalle curve C loro trajettorie ortogo- nali. Ne risulta il teorema inverso di Dupin (Darboux): Se due sistemi di superficie si tagliano ortogonalmente lungo linee di curvatura, esiste un terzo sistema ortogonale ad ambedue. 3°) Cerchiamo ora di esprimere la condizione perchè le superficie w= cost costituiscano una famiglia di Lamé (appartengano ad un sistema triplo ortogonale). Occorre e basta per ciò che nella equazione differenziale (16) delle linee di curvatura i rapporti dei tre coefficienti ED'—FD , ED"_-GD , FD"T— GD' siano indipendenti da w, ossia che questi tre binomî siano proporzionali alle loro tre derivate rapporto a w. Ma dalle formole (III), (IV) di Wein- garten abbiamo pi dI0 - (ED" — GD) = En», — Ga + Hx(ED" — GD) (ED' — FD) = En: — Fa + Hn(ED' — FD) - (ED — GD)= Fn — Gus + Hr (ED"— GP), onde il sussistere di quelle proporzioni equivale all’annullarsi del determi- nante Ni Na Na2 ERRE AG DAREI: RenpiIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 12 Re Ne concludiamo: Affinchè una serie co! di superficie formi una famiglia di Lamé è necessario e sufficiente che la distanza normale infinitesima «7 fra due superficie della serie soddisfi all’equazione del Cayley (Lezioni, vol. 1I, pag. 480) Mi Na Na EF. G.|=0. D D' D' 4. Reti deformabili di curve rigide. Sopra una qualunque superficie S immaginiamo distesa una rete di curve, cioè un doppio sistema di curve (v, v) tale che da ogni punto di $, o di una sua regione convenientemente limitata, esca una curva di ciascuno dei due sistemi. Supponiamo di più che le curve (v v) siano individual mente rigide ed articolate ai loro punti d'inerociamento. Può darsi, ciò non ostante, che la rete sia deformabile e possiamo proporci il problema di #r0- vare tutte le reti deformabili di curve rigide. Qui risolveremo dapprima, come applicazione delle formole di Weingarten, il problema nel caso parti- colare che la deformazione continua della rete avvenga per modo che ciascun punto del reticolo si muova normalmente alla superficie sostegno. Si vedrà che allora la rete consta necessariamente del doppio sistema di generatrici di una quadrica variabile in un sistema omofocale. A sistema triplo coordinato (u,v,w) prendiamo le 00° configurazioni w= cost della superficie S sostegno, e prendiamo poi a superficie v = così, v= cost quelle descritte dalle singole linee della rete. Le trajettorie (w) descritte dai punti di S essendo per ipotesi normali alla S, l'elemento li- neare avrà la forma (12). Ma le curve (v),(v) della rete rimangono per ipotesi rigide e in particolare inestendibili, quindi si ha e per le (III) di Weingarten D e, 0 i D' = 0 3 dunque intanto: sopra ogni superficie S 0 w= cost la rete (u,v) sarà quella delle asintotiche (°). Si osservi che questo primo risultato vale più in generale per le reti di curve flessibili ed inestendibili, supposte deformabili in guisa che ogni (*) Lo stesso si deduce dalla semplice considerazione geometrica seguente. Sulla superficie descritta da una linea (u) o (v) della rete le trajettorie ortogonali (w) di queste linee staccano archi eguali, e perciò le linee stesse sono geodetiche della superficie ge- nerata, indi asintotiche delle w = cost, che tagliano le prime superficie ortogonalmente. ERI punto si muova normalmente alla superficie sostegno. La ricerca generale di queste ultime reti equivale dunque al problema di: frovare la serie 00! di superficie sulle quali la corrispondenza segnata dalle curve trajettorie ortogonali conserva le linee asintotiche. Si sa che una tale serie 00! di superficie è necessariamente una famiglia di Lamé (Zezioni, vol. II, pag. 508); si sa ancora che tutte le famiglie di Lamé costituite da superficie pseudosferiche, di raggio costante o varia- bile, dànno altrettante soluzioni del problema. Un'altra soluzione isolata si ha nei sistemi omofocali di quadriche rigate; ma il problema generale sopra enunciato rimane ancora da risolversi. 5. Reti delle generatrici di quadriche omofocali. Ritorniamo al nostro speciale problema, nel quale le linee (vu, v) della rete sono supposte non soltanto inestendibili ma assolutamente rigide, e di- mostriamo che esse sono necessariamente linee rette. Si è già visto che queste linee (v,v) sono le asintotiche della super- ficie S sostegno della rete, onde indicando con - la loro torsione sarà, pel teorema di Enneper, Per dimostrare l’asserzione superiore faremo vedere che dall'ipotesi contraria nascerebbe un assurdo. Supponiamo dunque che uno almeno dei due sistemi (v,v) non sia rettilineo, per es. le (u) siano effettive curve. Poichè ciascuna di esse si muove rigidamente, sarà T indipendente da 2, e perciò anche (17) — = Essendo D=0,D"=0, le formole (IV) di Weingarten dànno ni + KEan=0 , no + KGn = 0. Inoltre la (17), osservando la (15) e la (8), ci dà anche Mo + KFa=0; dunque la funzione x deve soddisfare il sistema simultaneo (18) n + KEn=0 , mr + KFn=0 , no. + KGn=0. () A questo punto noi intendiamo escluso il caso che le superficie S siano piane. In tal caso infatti le trajettorie ortogonali dei piani segnerebbero sopra di essi figure eguali e Za rete non subirebbe deformazione. LIV SICH È facile dedurne che K deve essere assolutamente costante. Per le pro- prietà delle derivate seconde covarianti si hanno invero, per qualunque %, le identità dit dito _ gp _ gp (12 I lis REST 4 Im t 12 11 11 ” (II |a {a{r (19) an _ dle gp gg ii È Di du dv dv du IR 12 22 12 +[(9) Bat ed avendo riguardo alle altre identità de feel asta deduciamo subito dalle condizioni d'integrabilità dalle (18) I ROTTI dK _pdÉE_o dw SUINI peli dv d e quindi dE ii o U Vv Ma, essendo zero per la (17) anche i segue appunto che K è as- solutamente costante, e la famiglia di Lamé u= cost è adunque composta di superficie pseudosferiche del medesimo raggio (sistema di Weingarten). Senza alterare la generalità, possiamo fare K=—-1 E=G=1 , F=cosw D=D"=0 , D"'=sen0, onde risulta dalla media delle (III) do dv i vo IN ga Dopo ciò le (18) diventano di w Do, dwo diw 1 do d°Ww dw ——__——_ rr me ———— ——_— _——_____— —____— — du? IWw du 2UIwW seno du Iv Iw | dv 3 (20) RO ART) dUIVIW dWw d°w 1 do dw do d°w dw RA CEI I I e FAI Sese 20° dw ea Mo queste, associate alla equazione di Gauss diw dU VU (20*) = se, dànno le note equazioni fondamentali pei sistemi di Weingarten, espresse qui in coordinate asintotiche (u, v). Ma nel nostro speciale problema, rimanendo per ipotesi rigide le linee asintotiche (,v) nel passaggio dell’una all’altra superficie pseudosferica, er: ; 1 cl rimane ancora da tener conto che, oltre la torsione miri 1, anche le loro prime curvature E ; i debbono essere indipendenti da w. Coincidendo u 0 queste curvature assolute colle geodetiche, abbiamo a dw Hi. DO Qi ae 0 indi i DOLL di __ PODI Una qualunque delle (20) darebbe quindi 2 — 0,0 x=0, onde il sistema delle superficie w= cost si ridurrebbe ad una sola superficie, ciò che contraddice le nostre ipotesi. Da tutto ciò si raccoglie che: la rete de- formabile di linee rigide è necessariamente costituita da due sistemi di rette, onde la superficie Sostegno, non potendo esser piana, per quanto ab- biamo già osservato sopra, sarà una quadrica. Ciò posto, riferiamo due quadriche qualunque della serie alle loro ge- neratrici (coordinate asintotiche) ed osserviamo che esse sono poste in tale corrispondenza di punto a punto che le loro generatrici si corrispondono per tratti eguali. MS Risulta subito da considerazioni elementari (') che le due quadriche sono necessariamente congruenti con due quadriche omofocali, e per ciò nella corrispondente forma (12) dell'elemento lineare dello spazio dst = E du? + 2F du dv + G dv° 4 n° du? i valori dei coefficienti E, F, G, espressi per «,v,w, coincidono con quelli che convengono ad un sistema di quadriche omofocali. Ma allora la media delle (IIT) dimostra che anche il valore di è il medesimo. Possiamo dunque enunciare il risultato finale: Le uniche reti di linee rigide, deformabili in guisa che î singoli punti delle reti si muovano normalmente alla superficie sostegno, sono date dal doppio sistema di generatrici di una quadrica variabile în un sistema omofocale. 6. Reti piane deformabili di curve rigide. Lasciando da parte le applicazioni delle formole di Weingarten, sulle quali mi propongo di ritornare in seguito, trattiamo ora e risolviamo un altro problema particolare di reti deformabili di curve rigide, quello di reti piane che si deformano nel loro piano. Sia (v,v) una tale rete piana, le cui linee «,v prendiamo a linee coordinate, e sia (21) ds* = E du? + 2 coso J/EG du do + Gdw? (*) Si tratti per es. di due iperboloidi rigati Uri 2 23 MA i a? UP ca x I antica che riferiamo alle loro generatrici (u, 0) , (U, V) colle formole dine Mi an Die gs e Ugo, O OO MO CUv DEULv UN Ren ; By 3 ACE 3 Dovendosi corrispondere le loro generatrici projettivamente, sarà per es. U una funzione lineare di u, e V una funzione lineare di 0. Ma la condizione che i tratti corrispondenti di generatrici siano eguali porta subito che si ha semplicemente U= , V=v e inoltre A? —qg=B"—b=—(0°— 09), onde le due quadriche sono rispettivamente congruenti con due iperboloidi omofocali. Beggi l'elemento lineare del piano. Supponiamo che la rete sia deformabile con continuità, rimanendo rigide le linee %,v, articolate ai loro punti d'in- contro. Nella (21) i coefficienti E, G rimarranno fissi, in funzione di %, 0, I, Dee : \ insieme alle curvature — 253 delle linee coordinate, mentre l'angolo w U v varierà dipendendo, oltre che da w,v, da una costante arbitraria. Si noti in primo luogo che, essendo nulla la curvatura della forma differenziale (21), avremo, per la formola di Liouville (Lezioni, vol. I, pag. 185): ili e) Prendendo ora le espressioni delle curvature i 3 (ibid. pag. 184) b) U du at PA NI (cos PE SLA) Cu senoj/EG (dv du DI Da: È (cosa ya) - SIE) @ senwj/EG ld w | ne deduciamo du VG 3 VG dv senw’ (23) si dA n de VG 1 3Vk vo eo 6 1 PONI VE >» VE du senw Sì derivi per es. la prima di queste rapporto a v, ed avendo riguardo alla seconda (23) ed alla (22), si avrà dU UV dv 2 (LE) IO ta de) 1 2 \ 0, Dr VE dv Jsenow Tale ile IoVE e Gi i i va du sen’ml o, VE dv VE > senw SA ARTO 1 VE csi — 346 Tra dv sen E E Moltiplicando questa per sen? ed ordinando, abbiamo /G ? Gc - (18) sen*w + algto cos w sen? @ + 2A za De (? (o ) cos*d — sa più Dei sen?m — VEG dU dw\yNG dv n) Re), da — pi Li HAR DI DIE ue OMO VEG dv dU ai Ge di Di A) =0. Ou dU VEG QU tità in è, altrimenti ne trarremmo ®© Ora questa deve essere un’ iden arbitraria; debbono quindi sussistere in funzione di u,v senza costante le equazioni 2 (fe) _o a'logyfG _, 12VE_0 wu \ 04 Arai eee do 2 (E) () w\/G 20 ) VEG\ dv ypeG\ de / le ultime delle quali bastano già a concludere che si ha necessariamente ava, IG, dv du Cangiando i parametri w ,V, possiamo dunque fare E=1 , G=1, e conseguentemente = U+V (24) 1. de e Ra Qu dU Ou dU dove U è funzione (arbitaria) della sola %, V di v. La rete (w, v) corri- sponde alla forma ds: = du? + 2cos(U + V) du dv + dv? dell'elemento lineare del piano, ed è dunque una rete di Tehebychef, che si ottiene in termini finiti dalle formole x= |cosU du+ |cosV dv (25) Y — fsenU du+ |senV du; mici a essa è generata da due curve arbitrarie nel piano, che si muovono di moto traslatorio l'una lungo l’altra. Siccome poi, aumentando è (U o V) di una costante, le curve della rete, a causa delle (24) o (25), restano rigide, ve- diamo che le reti piane di Tchebychef sono effettivamente deformabili nel modo voluto. Abbiamo così stabilito il teorema: Ze reti piane deformabili di curve rigide sono tutte e sole le reti di Tchebychef. In particolare, fra i reticolati piani di rette solo quelli parallelogrammici sono deformabili nel piano. Qui è ancora opportuno osservare che se la curvatura dell'elemento li- neare (21), anzichè nulla, si suppone solo costante = £ (*), si vede subito che la rete (v,v) non può essere deformabile quando %= 0. Nel piano della geometria ellittica od iperbolica non esistono dunque reti deformabili di curve rigide; nel caso parabolico (euclideo) è all'esistenza del gruppo delle traslazioni che si collega l’esistenza delle reti deformabili di Tcheby- chef. Coll’osservazione precedente è anche risoluta negativamente la questione se possano esistere sulla sfera reti di curve rigide deformabili, restando sulla sfera. 7. Nuovo caso di reti deformabili. Le formole (26) s=a(u,v,w,y=yu,v,w), a=scu,v,v) definiscono nello spazio, per ogni valore dato al parametro w, una superficie, e su questa una rete (v, 0) di curve. Supponiamo che, al variare di w, le curve della rete si muovano, ciascuna per sè, rigidamente. Occorre e basta perciò che gli incrementi RE ME,,. PA) dwWw dwW dwW delle coordinate, ove si tenga w costante, oppure v costante, sì es rimano to] per 2,y. colle formole di un movimento rigido infinitesimo. Dovranno (*) Ma vi ha di più. Se si suppone soltanto che sia k funzione fissa di u,v e me- , 1 ETRE È SA desimamente — , =, il calcolo stesso dimostra che deve essere 4= 0, e si ricade nelle (27) 0) reti piane di Tchebychef. In particolare si deduce di qui; Ze ret? deformabili di curve rigide, che rimangano sempre asintotiche della superficie sostegno, sono ‘unicamente le reti piane di Tehebychef e il doppio sistema di generatrici di una quadrica. Se si confronta questo risultato coll’osservazione della nota al n. 4, si ha una nuova e più semplice dimostrazione (indipendente dalle formole di Weingarten) del teorema finale del n. 5. RenpiconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 13 dunque sussistere sei equazioni del tipo seguente DE (u,w).e--ru,w.yt+alu,w = =q(0,wz-r(v,wgy+t av, w) (27) I plus 0).0 — pu ee). + 61,10) = =7(0,w).x—p(v,w).z+ div, wv) Si plus so).y— qw) + cu) = =pP(0,w)y-K0,wWrt+ ev, w), dove p,9,7;a,b,c sono funzioni soltanto di v, w e similmente PIANE da 0,6, di (v,w). E viceversa se x,y, soddisfano ad equazioni di questo tipo, le (26) dànno una rete deformabile di curve rigide. La ricerca di tutte queste possibili reti equivale adunque analiticamente a cercare le soluzioni più generali di equazioni del tipo (27). Qui limitiamoci a considerare un nuovo caso particolare, quello in cui gli spostamenti dei punti della rete avvengono parallelamente ad un piano fisso ('). Prendendo questo per piano «7, sarà e indipendente da w e perciò avremo p=q_=-e=0 ; p=%=c,=0. Le (27) si riducono allora alle seguenti > on Micia © 0: DI cr | COTE PRAIA RA: le quali determinano evidentemente le reti piane deformabili di curve rigide. Dopo la determinazione di queste reti, effettuata nel n. precedente, possiamo dunque enunciare il teorema: Le reti deformabili di curve rigide, quando gli spostamenti deî punti avvengano parallelamente ad un piano fisso, sono tutte e sole quelie che si projettano ortogonalmente su questo piano in una rete di Tche- bychef. Le formole che dànno una tale rete sono evidentemente (28) 4 xa=U+V , y=U + Vi, , a=4(U,v), (*) La considerazione di questo caso interessante di reti deformabili mi venne sug- gerita da un’osservazione fattami dal collega prof. Pizzetti, che cioè: se una rete di curve sì projetta ortogonalmente sopra un piano in una rete, deformabile nel piano, di curve rigide, è essa pure deformabile. ALL ver dove U, U, sono funzioni arbitrarie di u,V,V, di v e z(v,0v) una fun- zione arbitraria di (4,0). Così per. es. su qualunque superficie due serie di piani paralleli intersecano una rete deformabile di curve rigide. Il ben noto esempio della rete delle sezioni circolari di una quadrica rientra in questo caso colla ulteriore particolarità che, deformando la rete, la superficie sostegno resta sempre una quadrica. Ed ancora: nell'esempio più generale dianzi addotto della rete intersecata sopra una superficie qualunque da due serie di piani paralleli, al deformarsi della rete, la superficie sostegno passa per una serie di configurazioni a/finz. In fine osserviamo che nelle (28) prendiamo a«=U, 4 V,, cioè € somma di due funzioni, una di v, l'altra di v, abbiamo la più ge- nerale superficie di traslazione sulla quale la rete delle curve generatrici è una rete deformabile di curve rigide. In questo caso gli spostamenti dei punti della rete possono avvenire parallelamente a qualunque piano. Matematica.— Equazioni integro-differenziali con limiti co- stanti. Nota del Socio Vito VOLTERRA. 1. Nella mia prima Nota sulle equazioni integro-differenziali ('), in cui ho considerato la equazione integro-differenziale du(t) Sue pe + gt du(t) de m a+ f ) Ult, de=0, ho accennato alla possibilità di estendere l’analisi ad equazioni integro-diffe- renziali con limiti costanti. Mi permetto qui di trattare questo argomento, valendomi dei principii esposti in alcune Note nelle quali ho introdotto la considerazione delle funzioni permutabili e delle operazioni di composizione (*). Già in una di queste Note avevo avuto occasione di studiare equazioni in- tegro-differenziali con limiti costanti, le quali conducono ad una classe di trascendenti uniformi che comprendono le funzioni ellittiche, ma in tali equa- zioni compariva una sola variabile di derivazione, e quindi esse dal lato dif- ferenziale potevano compararsi alle equazioni differenziali ordinarie. In questa Nota considererò invece delle equazioni integro-differenziali con limiti costanti, le quali dal lato differenziale possono, al pari della (I), compararsi alle equa- zioni a derivate parziali. (1) Rend. Acc. dei Lincei, 21 febbraio 1909, SUE (2) Rend. Acc. dei Lincei, 20 febbraio 1910. Questioni generali sulle equazioni in- tegrali ed integro-differenziali. — Ibid., Sopra le funzioni permutabili, 17 aprile 1910. Roi 2. Consideriamo la equazione integro-differenziale ig ne i, ia) n) 1 ORNNSI dei DÈ Come equazione aggiunta assumeremo Dd'v(d1, €... Lp|t) Di .10) (IT) pi na Ae +SS > i | fi(® 1 t) de=0, dI ed avremo il teorema di reciprocità espresso dalla formula di), =) JI a f (00 pal ud) OI de n Lì I af > (= dolé) dI ove o è il contorno di un iperspazio S, nel campo ,,%2,.. x, e # ne è la normale esterna. 8. Si tratta ora di trovare la soluzione fondamentale dell'equazione ag- giunta, e a tal fine sostituiamo 2/;(t,) a fi(4, ©), onde le (II) e (IT) diverranno dI ut) ) fit, t) cos nx; do 2 du(X1,%2.. xp|é) 3 & due, ts. pl), SO (IIa) DI da? pio DI da? filt,e) de=0 p 2 cn) Form) fi dee nano. Ripetendo dei calcoli analoghi a quelli eseguiti per ottenere la funzione fondamentaie nella prima delle Note precedentemente citate (!) noi avremo come funzione fondamentale della (II), nella ipotesi p > 2, (1) V(e1,%2.. xp|t) = F() r°-2 + DIC (— 1)? F(€) a" dé @@@m@————_r@@ll—rT@t———@———@—@—@—@—@r—t@—@r@—lPri X +f Dic 2m.(4—p)(6—p)... (2(m+1)— p) den pa m+Y=p X DI Br e (GROE VALE, 2h 2h, Ritere+hp=Mm dXII - dp si ove F(#) è una funzione arbitraria, e re /Zo CE, Adi Boi sl; t), Vis(o T) = he voli, tu) sl ao) Fh,ha.hp(l ’ t) a > Fassqa.egpll 9 È) En-ahu=asiplgrio ù 1) dé È O di+gate+9p3p (') Rend, Acc. Lincei, 21 febbraio 1909, $ 5. or I La somma di si intende estesa a tutti i valori interi di 91,92,---4p di+date+993? la cui somma è costante ed eguali a 0 mentre si suppone che una F con indici negativi sia nulla. La serie (1) sarà convergente finchè |2| sarà inferiore ad un dato limite. Ciò premesso supponiamo che /,,/s... /, siano funzioni fra loro per- mutabili di 23 specie (*). Allora, facendo uso della notazione, usata nella Nota ora citata, per denotare la operazione di composizione di seconda specie, potremo scrivere Lx. 7 bene Naavi. (6 fn ( Su); in cui Ny,,1,..:n è un numero facilmente calcolabile mediante 1, Ro, lp. Avremo quindi che la (1) potrà scriversi (1°) Vs oe) = (0) #72 5 (— 1)" F(8) e" dé + rr sbsteto* 2 pM+1)-p o .. È, A i si hp »2h 2h 1 Ri+oeFhyg=m QLI ARE dp 2 4. Prendiamo ora l'equazione differenziale Pp 3° W P_ di W ; BY Wi Dc DI di Li di pat Purchè |z| sia inferiore ad un certo limite, la soluzione fondamentale potrà scriversi II AA O O VA G: ta4..2m.é-=p6-p-@m+)-=p) O VANO # o data so. dI? di i My Y ove C denota una costante arbitraria. Ma questa stessa soluzione può mettersi anche sotto la forma DO /_p (x: — Dn (3. JÌ + Mi , (*) Rend. Acc. dei Lincei, 20 febbraio 1910, Questioni generali sulle equazioni integrali ed integro-differenziali, $ 8. Wa SIL 0 CARE e, se supponiamo p = 29 con q >l e intero, avremo e: C Taggia (2; — di)? qul (D. 1 + SMi ) ossia W sarà razionale in z, e potrà ancora scriversi W= 0 [(14- 201) (14 2010)... (1+ 2029) Faa=e | di dr x. eat (7A Re er0)(0677) 1 si o. Da quanto è ora stato ottenuto si deduce il modo seguente per cal- colare la richiesta funzione fondamentale della equazione aggiunta (II). Sia /9..gg(t, ©) la somma algebrica delle funzioni AO fag(t,©). Denotiamo con /$..25(#, 7) la somma algebrica delle funzioni ot- tenute componendo due a due le funzioni stesse, con /($._.27(#, 7) la somma algebrica delle funzioni ottenute componendole tre a tre e così di seguito. Formiamo é ol DA t) + Fa ACACIA (AP T) +. - + [9 SLI (; ’ t) = x(t i) t) quindi alt) + EDIZ 6,04 +0 BZI ji) 4 MI = 409) 6 PO) + f PE) 46,0) de=20). Si calcoli poi 2/15) 21; i+1,2g(6 at) =L FAO È it sg(£ , T) —+ - PIF mia +1, .2g(£ 9 1) = D;(t n) 9 SY xi — di > Ta L Dit, v)= (6,7), Lai @Q— 1) 8,9) + ICDUTIL dis) + + ULI dit) ++) = (1,9), e si risolva l'equazione integrale @ VA+[T@eE,HE=90. V(#) così ottenuto sarà evidentemente funzione anche di x,,%2,...C29 e di 2, 9 e coinciderà colla (1°). Inoltre essa sarà una /umzione meromorfa di s la cui espressione verrà ottenuta come rapporto di due funzioni olomorfe di «. 6. Dalla (Il) segue: Sf i al A a io Tr dX: = ur, supponendo che il polo (41, 42, ... 429) Sia interno all’ iperspazio limitato dal contorno o. Questa formula vale prendendo per V l'espressione meromorfa che si ricava dalla equazione integrale (2), comunque grande sia |2|, esclusi i valori di 2 che annullano il determinante della equazione integrale. Prendendo nella (III) v= V ed escludendo il polo mediante uno spazio sferico che si fa tendere a zero, si trova al limite Ko([u, V}))}=24(22—2); 2rincog dI ic ove uo(t) denota il valore di (x, ,.. <29|t) al polo. Da questa formula si ricava subito wo(4), essendo F(:) una funzione arbitraria. Matematica. — Sulla funzione potenziale di spazio corri- spondente ad una assegnata azione esterna. Nota del Corrispondente G. LAURICELLA. È noto che, data l’azione esterna di un corpo (in particolare della terra), si possono far corrispondere ad essa infiniti modi differenti di variazioni della densità del corpo, ed è noto ancora che sono però pienamente determipati alcuni elementi meccanici relativi al corpo stesso dipendenti dalla densità. Un notevole contributo allo studio della anzidetta indeterminazione di den- sità e della determinazione degli accennati elementi meccanici del corpo è stato apportato recentemente dal chrmo professore Pizzetti in una Memoria pubblicata nel vol. XVII degli Annali di Matematica ('). Qui mi propongo di far vedere quale è il grado di indeterminazione della densità del corpo, corrispondente ad una assegnata azione esterna del corpo stesso, e come, servendosi della 2 funzione di Green, possa determi- narsi la più generale funzione potenziale di esso corpo; e di trovare ancora il più generale integrale definito, contenente la densità incognita, che risulta pienamente determinato dalla data azione esterna. Le medesime quistioni (‘) Zatorno alle possibili distribuzioni della massa nell'interno della terra. ge risolvo nell'ipotesi (ammissibile nel caso della terra) che, oltre all’azione esterna del corpo, siano dati alla sua superficie i valori della densità e della sua derivata normale. Questi risultati e l’uso della 2* funzione di Green, e in generale della funzione di Green di ordine x, per la sfera, per l'ellissoide di rotazione, ecc., potranno forse essere utili in uno studio dettagliato della funzione potenziale della terra. CASO IN CUI È NOTA LA SOLA AZIONE ESTERNA. 1. Sia S una superficie chiusa, avente in ogni suo punto un piano tan- gente determinato. Si indichi con 7 lo spazio finito limitato da S, con © quello infinito pure limitato da S; e si indichi con 7 la normale nei punti di S, e sì prenda per direzione positiva su questa normale quella che entra nel campo finito 7. Riferiamo i punti dello spazio a tre assi cartesiani orto- gonali x ,y,4; e indichiamo con g(z,y,4) una funzione dei punti di 7, per la quale l'espressione A?°o sia finita ed atta all'integrazione nel campo x. Indichiamo con (£,7,%) un punto generico di 7, con (z,y,4) un punto qualsiasi dello spazio; e poniamo: r=Va 4 (y—-n +60, o o (een) (1) V(e,y,3)= 47T © 7 da . È noto che la funzione V(x,y,) è finita e continua in tutto lo spazio insieme alle sue derivate prime, e che si ha: (nei punti di %) AGNE= (0( y002)E ( ” T') A°V = 0. Supponendo poi che la superficie S sia di quelle per le quali è risoluto il problema dell’integrazione dell'equazione doppia di Laplace (*), ed indi- cando con G:(2,y,2 ; È,7,) la seconda funzione di Green corrispondente, sì avrà (2): dA°G dV (2) Ve,y,sj=— fGA% di +/.( % -V- 5 A'0:) dS . T . AV 2. Dati ad arbitrio nei punti di S i valori di V e di vw) arbitrio nei punti di a i valori di A*V, esiste, come è noto, una funzione V(e,y,8) dei punti di 7 ed una solamente, la quale nei punti di S prende , e pure ad (*) Lauricella, Sull’ integrazione dell'equazione A*V= 0. Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, vol. XVI, 2° semestre. (3) Boggio, Sulle funzioni di Green d'ordine m. Rendiconti del Circolo matematico di Palermo, tom. XX, anno 1905, — 101 — i valori dati, e di cui la derivata normale nei punti di S coincide con i valori di di il A* nei punti di 7 coincide con i valori dati di A‘V. Essa funzione può esprimersi mediante la formola: È Rea i 4 dA° Gg OX, 0) di (2) V(a,y,3)= SG atvae+ f ( a Vi A°G)dS; ed ancora mediante l’altra: pi VAGONI 1 f cp dV 1 7 Lori" )as dn r (3) vVe.sg=-7f 3 DI SCAN DR . c : : Se i valori di V e di Ta Sei punti di S sono rispettivamente i valori nei punti di S di una funzione armonica nel campo ' e quelli della sua derivata normale, si ha, come è noto, nei punti (2, y,<) di ©: 1 d = PACO (4) ie: per cui risulterà: 1 AV (5) Ve 530) Pi dr. Questa formola ci dice che, se 7% valori di V e di Di nei punti di S sono rispettivamente è valori nei punti di S di una funzione armonica nel campo è e quelli della sua derivata normale, la V, data dalla for- mola (2), st può sempre esprimere mediante una funzione potenziale di massa distribuita nel campo t, qualunque siano î valori assegnati di A* V nei punti di t. Ed allora, poichè, in virtù della (2), la funzione potenziale di una qual- siasi distribuzione fatta nel campo 7 può sempre mettersi sotto la forma (2), se segue, tenendo conto dell’ uguaglianza (6) AÎV= A°0, che la funzione potenziale della più generale distribuzione che può imma- ginarsi fatta nel campo ©, corrispondentemente ad una assegnata azione esterna, è data dalla formola (2) con A°0 funzione arbitraria; e così si può dire che, prestabilita l’azione esterna di una massa distribuita nel campo ©, ciò che rimane di arbitrario circa alla densità o(c,y,) è èl suo A°. RenpIcontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 14 — 102 — Osserviamo ancora che se si suppone nulla l’azione esterna, dovrà aversi nei punti di S: V=0, dI = 0; e quindi in virtù delle (2), (6) si ha che la funzione VU@9 Y, 8 a=— fa. A°o dr, con Ao funzione arbitraria, rappresenta la funzione potenziale della più generale distribuzione fatta nel campo t ad azione esterna nulla. 8. I valori di di sono determinati dai valori della funzione armonica V nei punti di S; sicchè deve essere possibile eliminare dalla formola (2) il termine contenente di A tal fine si tenga fisso il punto (2,y,) di 7 e si consideri una funzione T(2,y,e ; #,7,%) armonica nei punti (£,7,0) del campo e’ e tale che si abbia: (nei punti di S) II VACGI In forza del lemma di Green, risulterà dalla (2): f. d(A°G—T Vie: 9,9)=— fGs.A'e.de + f CATZ vo. 4. Sia U(2,y,2z) una funzione armonica qualsiasi del campo 7, e V(x,y,) la solita funzione paniziale d di una distribuzione fatta in 7. Il lemma di Green ci dà: o= fvavar+ f (00 vl) gs; e quindi: (7) fer. = [(V7 rt). Questa formola ci dice che l'integrale al primo membro, nei quale U(x,y,2) è funzione armonica qualsiasi del campo , dipende solo dal- l'azione esterna della massa distribuita in x. Di qui risultano subito come casi particolari i seguenti risultati ben noti: data l’azione esterna di un corpo x, a) è determinata la massa totale del corpo stesso: infatti basta fare U=1 nella (7); 8) è determinato il centro di massa di esso corpo: infatti basta fare successivamente U=x,=y,=2 nella (7); y) sono determinati gli assi principali di inerzia: infatti basta porre successivamente U = xy, =y2, =2<% nella (7); — 103 — d) sono determinate le differenze fra i momenti principali d'inerzia: infatti basta fare successivamente U=ax° — ygg,=y°— e ,=%e— x? nella (7). È quasi superfluo osservare che, analogamente a quanto si è fatto al $ 3, si può eliminare dalla formola (7) il termine contenente di. 5. Vogliamo dimostrare che la proprietà generale, contenuta nella for- mola (7), è caratteristica per le funzioni potenziali di spazio; ossia che, data ad arbitrio l'azione esterna di un corpo €, cioè, in termini più espli- citi, dati ad arbitrio nei punti di S i valori di una funzione V armonica nel campo 7’ (e quindi ancora quelli della sua derivata normale ni se e(x,y,%) è una funzione dei punti del campo t, la quale verifica l'equa- sione integrale (1) qualunque si sia la funzione armonica U(x,y,2), la funzione potenziale della massa distribuita nel ‘campo t con densità @(2,y,) prende nei punti di S i valori arbitrariamente dati di V, ossia ha un'azione esterna identica alla data. Infatti sì ponga: TI (Cole Veyg=- feta Dal lemma di Green e dal teorema di Poisson risulta, qualunque si sia la funzione armonica U(x, 7,4), du db feva= = I (i ira] Te) 8: Vi(2,9,9)=V@,9,4)—Vila,y:%), e quindi, posto: sì avrà in virtù della (7): dU dVo (8) o=f(v:7-0v di Se) @8, qualunque si sia la funzione armonica U. Indicando con 7, il vettore che parte da un punto p, qualsiasi dell'interno di 7 e va ai punti variabili di ©, si può fare nella (8): u=-, e così si avrà, qualunque sia il 1 punto p1, — 104 — Ora la funzione Vs è, come le funzioni V, V,, armonica nel campo 7; sicchè potremo scrivere: 1 d— ca 8 Si 100 va = f(v: da © n n) 8: e quingi si avrà nei punti di 2°: V,=0, ossia: V= V,, c. d. d. 6.‘ Finora si è studiato l’integrale al primo membro della formola (7), supponendo che la funzione U fosse armonica nel campo 7. Supponiamo ora soltanto che la funzione U sia tale che esista l’espressione A*°U e che questa sia finita ed atta all'integrazione. Posto: a Ww,9, = [da si avrà: fev.w= fava T T; = (w. Pe feva= fw. Ao. w+ f(w°5 " — NV) dS; ed allora, determinata una funzione W, tale che ossia: dW,__dW o dp (nei punti di ©) A4W,=0 (nei punti di S) W,=W risulterà : 0= ({W.A'Var+ 2 + S.(w 5 CSR avi Law, dylan) d8; e quindi: (9) feva= ((w- W,). A". a+ f(v°É coll — p'W, È 2) de. Questa formola ci dice che, data l’azione esterna della massa occupante lo spazio ©, l'integrale al primo membro è determinato a meno dell’in- tegrale (10) fo W.). A?o. dr. — 105 — Affinchè l'integrale (10) abbia un valore indipendente da A*o, è necessario e sufficiente che sia nei punti di 7: W = W,; e quindi che si abbia: (nei punti di ©) OA AUS Questo risultato e quello generale del $ 4 ci dànno: TAAIIONE neces- saria e sufficiente affinché l'integrale (7)° feva sta invariante rispetto a A*o, è che la funzione U sta armonica. CASO IN CUI, OLTRE ALL'AZIONE ESTERNA, SONO DATI IN SUPERFICIE I VALORI DELLA DENSITÀ E QUELLI DELLA SUA DERIVATA NORMALE. 7. Indicando con Gy(x,y,8 ; #,7,%) (') la funzione di Green del 4° ordine, si può scrivere, come è noto, per una qualsiasi funzione V(x,7,) finita e continua nel campo insieme alle sue derivate dei primi otto ordini (?): Ve.y,:)=— f@AtV.de+ dA° Gi s0, E 4 610: roy pu, £8!9) +5 dn et ni dn de) Questa nel caso in cui V(x,y,) sia la funzione potenziale (1) ci dà: (11) e, dA° dA° Gi vy A° dA‘ dA‘G, , Drago de) gs. Di qui risulta che, dala ad arbitrio l’azione esterna di una distri- buzione fatta in 1 e dati pure ad arbitrio i valori della densità o e della sua derivata normale ce nei punti della superficie S, la funzione V(x,y,), determinata dalla formola (11), è la funzione potenziale di una distribu- zione in 1, della quale l’azione esterna, la densità nei punti di S e la (1) Essendo stato dimostrato il teorema di esistenza per le funzioni poliarmoniche in condizioni molto generali, sia riguardo alla superficie contorno, sia ancora riguardo ai valori al contorno [v. Lauricella, Sull’equazione A®"V=0 e su alcune estensioni delle equazioni dell'equilibrio, ecc. (Atti del IV Congresso internazionale dei Matematici, vol. III, pag. 33)], ne risulta dimostrata l’esistenza in generale della funzione di Green di ordine qualsiasi. (*) Boggio, loc. cit. — 106 — derivata normale di questa densità coincidono rispettivamente con quelle date, qualunque siano i valori che si assegnano per l’espressione ASo Infatti basterà osservare, come al S 2, che i valori di V e Di devono sempre soddisfare alla equazione (4), e che perciò, in virtù della (3), si ha la (5). Adunque nel caso preso in considerazione tutto ciò che rimane di ar- bitrario circa alla densità o(x,y,) è l’espressione IN do 8. Passiamo ora ad esprimere l'integrale studiato al $ 6 mediante i nuovi elementi noti. Supposto che la funzione U(x , y,<) sia tale che esista l'espressione A?U, si ponga: W(2,y,3)=— mofeve. Si avrà: (nei punti di 7) AVEC e quindi: (12) fev dr = [aev. A° W de = (w. A°Vdi — 4 2 — fav dA MAE i di S dn dn dA°W dAa'V dW dA°SV 4 da: ?WL AV = W\gSs. FAV dn dn A A°V dn dn )as Ora si determini una funzione W,(2,7,4) dei punti del campo © tale che sia: (nei punti di 7) A*W,=0, (nei punti di S) W,=W, se = rw pw, CAM IAT Risulterà: 0 = {w -A8V dî -/ (v e Law, + parvili_ dep, — 107 — e quindi, sottraendo questa equazione membro a membro dalla (12), avremo: 6 fende= ow— wo arvar+ fiv ME e Ti ST DS) dn dn dA*‘(W,—- W) dA°V ») 2 4 + A Vie panini — AM MO ossia: n E ; | daSW, dV (13) fevae = [(w Wi) A°odr +Sv pr Ta dA'(W— W)_ de Ro dn dn A'(Wi— W) (ds. Adunque éuito ciò che rimane di indeterminato sul valore dell inte- grale al primo membro, allorquando è data l’azione esterna del corpo t de e sono dati ancora i valori di 0 e di ci nei punti di S, è l'integrale contenente l'espressione A°So . 9. Affinchè l'integrale contenente l’espressione A°0, che apparisce nella formola (13), sia indipendente da A°0, è necessario e sufficiente che nei punti di 7 sia: W,= W; e quindi che si abbia: OPE AUS ossia, come al $ 6, che la funzione U sia armonica. In questo caso la formola (18) si ridurrà alla (7). Adunque sì ha, come al $ 6, che condizione necessaria e sufficiente af- finchè l'integrale (7) sia invariante rispetto a ASo è che la U sia fun- sione armonica. È utile osservare che, nota l’azione esterna di un corpo 7, l'introduzione di certi nuovi elementi noti in superficie, come ad es. i valori di OZIAAI 5 CONTA A RCS . Dr Le e di og, DI punti di S, non allarga il campo degli invarianti della forma (7)' rispetto a ciò che rimane di arbitrario (rispetto a A°o nel caso in considerazione) relativamente alla densità. — 106 = Meccanica. — Determinazione dell’equazioni di Hamilton- Jacobi integrabili mediante la separazione delle variabili. Nota di Pierro BurgATTI, presentata dal Socio T. Levi-CIVITA. 1. Liouville fu il primo (nel 1846) a cercare l’equazioni di Hamilton- Jacobi, corrispondenti ai problemi della meccanica con due gradi di libertà, integrabili mediante semplici quadrature. Egli ne trovò una di una forma molto importante, che sì trova ora studiata nei migliori trattati di mecca- nica e di geometria differenziale. Quarantacingue anni dopo il prof. Stàckel (*) pose il problema nei ter- mini precisi e generali scritti nel titolo di questa Nota, e trovò, per le x variabili, un caso d’integrabilità, che è l’ immediata generalizzazione di quello del Liouville. Qualche hanno prima, studiando l’equazioni con due sole va- riabili indipendenti, egli aveva risoluto interamente il problema, determi nando due nuovi casi d'integrabilità, oltre a quello del Liouville, e mostrando che non ne esistono altri. Più tardi, nel 1904, il prof. Levi-Civita (?) determinò tutte le condi- zioni necessarie e sufficienti, affinchè un'equazione di Hamilton-Jacobi sia integrabile per separazione delle variabili; lo studio delle quali condurrebbe senza dubbio alla soluzione completa del problema, vinta che fosse la ripu- gnanza alla fatica di calcoli assai lunghi e laboriosi. Applicando il metodo in certe ipotesi restrittive, egli pervenne con una elegante analisi a un nuovo caso d’integrabilità, che è la generalizzazione alle n variabili di uno dei casi trovati dallo Stàckel per due variabili. Poco dopo, nel 1906, il prof. Dall’Acqua (*) riuscì con opportuni artifizî a fare uno studio esauriente dell’equazioni del Levi-Civita, ora ricordate, per il caso delle tre variabili, e trovò quattro espressioni per l'energia cine- tica; le sole che dian luogo a equazioni di Hamilton-Jacobi integrabili me- diante la separazione delle variabili. In questo scritto io ho ripreso il problema in tutta la sua generalità; e, abbandonati i metodi finora usati, guidato più dall’intuizione che da una logica rigorosa, son pervenuto alla determinazione di 2-1 equazioni di Hamilton-Jacobi integrabili mediante la separazione delle variabili. Resterebbe da dimostrare che quell’equazioni sono le sole rispondenti al problema: sulla qual cosa io non ho dubbio aleuno; ma non ne ho trovato finora una dimostrazione soddisfacente. (1) Habilitationsschrift, Halle 1891, Math. Ann., Bd. XLII, pag. SIIT (®) Sulla integrazione dell'equazione di Hamilton-Jacobi ecc. Math. Ann, Bd. 59. (3) Sulla integrazione dell'equazione di Hamilton-Jacobi ecc. Math. Ann., Bd. 66. — 109 — 2. Sia un'equazione di Hamilton-Jacobi, ove il primo membro rappresenta una forma quadratica omogenea nelle con coefficienti dipendenti dalla 9, e h» una costante. Ammettiamo che abbia un integrale completo della forma n (2) = Si Pi(di 1412 0. Ani h) 3 i=l il che si esprime dicendo che è integrabile mediante la separazione delle variabili. In tale ipotesi è manifesto che la (1) deve essere il risultato dell’eli- minazione delle @ tra l’equazioni (3) DI = Pi (di, @2 nr h) (0=18p0095 dIi che si deducono dalla (2) mediante derivazioni. D'altra parte, scritto un sistema qualunque della forma (3), è chiaro che si dedurrà la V con qua- drature; la quale sarà l'integrale completo di un’equazione del primo or- dine, risultante dall’eliminazione delle a. Ma cotesta equazione non sarà in massima del tipo (1), quadritica omogenea nelle derivate di V. Bisognerà dunque cercare quei particolari sistemi (3), che, mediante l'eliminazione delle @, portano a un'equazione della forma (1). La prima idea che viene in mente, per poco che si pensi alla questione posta in quei termini, è di prendere i secondi membri delle (3) uguali alla radice quadrata d'una espressione lineare rispetto alle costanti; ossia, di porre ®) (I) ult gala + plat + + Pin-1(4i) An+1 + Pin(4%) .2h (è —u 9 2 jo%0 n) ò L'eliminazione delle @ porta subito all'equazione IV a — 2YW:(11) — 2g1n(11) d Pri(41) Pi(11) RINCARO Pin1(91) (3) — 27.49) — 20003 ho a(92) Pad) - | - Pan (42) dI da DIA 3) 3 2Wn(dn) (o 29nn(4n) h Pn (In) i TOA Pnn1(dn) RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 15 — 110 — che è del tipo (1). Infatti, indicando con ® il determinante formato con le ,s, si ottiene con lo sviluppo tl 29 (o ft = D Pin \di (= È l'equazione trovata dallo Stickel. Per 21=2, essa si riduce alla forma di Liouville. 3. Un altro sistema (3), che si presenta alla mente come atto a for- nire equazioni del tipo (1), è il seguente: dV ) Sp FAT Proteo E + dina (1) nr + Pil) 2A — E 19 D dPir vi (91) ze h Pensi ANZIO ove ® è una forma quadratica omogenea nelle @ a coefficienti costanti. Per eliminare le « risolviamo il sistema rispetto a @,,@2,... @n-1 @ V/24—®; avremo, usando le notazioni precedenti, pe e = 10200, 1 dYPsi ds ®/2n-8 =) i s=l dIPsr ds 3 Da quest’ultima si trae S+| 33 dg_dV E s=l dPsn dI Pad onde sostituendo in ® alle @ le loro espressioni, si ottiene evidentemente una equazione del tipo (1). Tale equazione, benchè abbia una forma più generale in apparenza, corrisponde in sostanza a quel caso di integrabilità trovato dal prof. Levi- Civita, del quale ho parlato in principio. 4. Il sistema (3”) del paragrafo precedente suggerisce tosto l’idea di prendere alcune equazioni lineari nella @ e le rimanenti analoghe alla forma (8"), nel modo che segue: O VI 3 =— = Pu) a + ‘+ @1r(41) &r Di dV ii) Ve 0 dV (97) 3g = Pre (9ra) tr + + Pr re (47+1) er + DP,,1 (941) X r+1 XxX V2h mio Prt1, r+1(474+1) &r41 ++ Pr, o: n 2@r41, n(dr+1) dV dn = @n (a) a + + Par(da) & + Pda) X X V/2h—SGn+ Pa, r+1 (41) Cp+1 + "LE + Pnsn-1(4In) An-) + 2pnn(d1n) s — lll — dove 3, è una forma quadratica omogenea nelle @, @3... a, con coefficienti dipendenti dalla sola gs. Risolvendo le prime 7 equazioni rispetto alle @, e sostituendo le loro espressioni nelle rimanenti equazioni; poi elevando al quadrato, si trovano x —7 equazioni della forma E; + Ss =D + 2Psn(45) + Ps,r+1(0) Cr+1 + SO + Ps, n-1(45) An-1 (i. dove E,, come del pari G;, è una espressione quadratica omogenea nelle derivate della V. Da queste si possono eliminare le #1 —7 — 1 costanti «; dopo di che si ottiene evidentemente una equazione del tipo (1) (per bre- vità, non la scrivo per disteso). Attribuendo ad 7 successivamente i valori 1,2,..z—1 (ritenendo &n== 0), si ottengono 2 — 1 equazioni di Hamilton-Jacobi integrabili me- diante la separazione delle variabili. Colle due trovate precedentemente, diventano in totale in numero di 7-41. Si noti che per 7 = 0, ritenendo per convenzione @ = 0, il sistema (3”) si riduce al (3’). Le 241 equazioni ora trovate e i corrispondenti sistemi (3) potranno bensì ridursi sostanzialmente a un numero minore di tipi, specializzando le funzioni g e w, o trasformando in modo opportuno le variabili (e anzi ciò avviene effettivamente); ma lasciando interamente arbitrarie le g e w, e considerando le sole trasformazioni del tipo Q.= Q;(9:), quei sistemi (3) sono irreducibili l'uno all'altro; talchè, sotto questo punto di vista, si pos- sono considerare distinti. Ora è importante il fatto che, nel caso delle due e tre variabili (2=2,3) l'equazioni di Hamilton-Jacobi, che si deducono nel. modo spie- gato di sopra, coincidono con quelle determinate dagli autori citati (1); i quali dimostrarono che sono le sole integrabili mediante la separazione delle variabili. Dunque il fatto, che non esistono altre equazioni di Hamilton- Jacobi integrabili per separazione delle variabili, oltre le 2 + 1 determinate di sopra (n essendo il numero delle variabili), è vero per n= 2 e 3. Ciò lascia pensare che sia vero per x qualunque. Per dimostrare questo teorema, che esaurirebbe interamente la questione, ho tentato il metodo dell’ indu- zione completa; ma si urta contro difficoltà, che non mi sembrano facili a superare. In attesa d'un momento di migliore ispirazione, ho creduto utile intanto di far conoscere i risultati raccolti in questa Nota. (*) Coincidono anche rispetto alla U, come facilmente si deduce (per esempio) dalle equazioni di condizione del prof. Levi-Civita. O Matematica. — Sulla formola di Stokes che serve a deter- minare la forma del (Geoide. Nota di A. SIGNORINI, presentata dal Socio P. PIZZETTI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisico-Chimica. — (Su la dissociazione dei sali idrati (*). Nota di Lurer RoLLa, presentata dal Corrispondente A. GARBASSO. 1. La determinazione di certi equilibrî che si formano fia coppie di sali idrati quando le loro curve di tensione di dissociazione hanno un punto di incontro ha un notevole interesse non solo per la teoria generale dell’affinità ma anche per lo studio della dissociazione dei sali misti. Da vecchie esperienze di Wiedemann (°) si deduceva che al disotto di una certa temperatura 9 la tensione di dissociazione del solfato di magnesio eptaidrato è minore di quella del solfato ferroso eptoidrato, mentre che, a temperature superiori, i rapporti s'invertono. Esiste dunque un equilibrio: (1) Mg S0,,7H,0+FeS0,,6H,0 ?& FeSO,,7H,0 + MgS0,,6H:0 alla temperatura @, mentre che a temperature inferiori si ha l'idratazione del MgS0,,6H,0 e a quelle superiori l’idratazione del solfato ferroso esa- idrato. Le misure di Frowein (3) e Cohen (*) permettono di determinare, per interpolazione, la 0, e di prevedere che un equilibrio simile a (1) si ve- rifica anche per il solfato di zinco eptaidrato a una temperatura 7. Io mi sono proposto dapprima di determinare colla massima precisione queste temperature di trasformazione e di ricercare con quanta approssima- zione esse possano venir calcolate colle formole fondamentali della termo- dinamica. Indi ho studiato le curve di tensione di dissociazione dei salì misti MgS0, , « FeSO, , 7(14x) H20 Zn SO, , x FeSO,, 7(14-x) H20 (*) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale della R. Università di Genova diretto dal prof. Guido Pellizzari. (*) Cfr. Cohen e Van't Hoff, Studien zur Chemischen Dynamik, pag. 244. (8) Zeitschrift f. phys. Ch. I (1887), 1. (4) Landolt-Biùrnstein, pag. 149 (1905). — 1153 — alle temperature 0 e 7, affine di poter ricavare qualche proposizione che interessi la teoria generale. i 2. Quando il Mg SO, ,7H:0 è in presenza del FeSO,, 7 H20, nel vuoto, alla temperatura T, avviene un trasporto di vapor d'acqua dal sale di ferro a quello di magnesio (T < 0), o dal sale di magnesio a quello di ferro (T>6). Quando una molecola-grammo di acqua viene trasportata dal sol- fato di ferro a quello di magnesio, si fa un lavoro (2) A=RTnE Di Se pz, p. sono le tensioni rispettive del solfato ferroso e del solfato di ma- gnesio. Alla temperatura 0, è A=0. Ma l'applicazione del principio dell'equilibrio mobile porta senz'altro all'espressione (1): (8) sedi dove Q indica la differenza dei calori d'idratazione (per l’ultima molecola di acqua) dei due sali. L'integrazione viene eseguita ammettendo che (calore d'idratazione di ciascun sale) si mantenga costante entro limiti suf- ficentemente ristretti di temperatura. La (3) contiene le tre condizioni fon- damentali che caratterizzano il realizzarsi della (1) e cioè PELA 0RFRA 10 pereli—0RMRRA — 0 e infine di (4) Tapi. Le determinazioni sperimentali possono dirci quale espressione di @ si deve assumere per integrare la (4). Consideriamo uno dei due sali, per es. il solfato di magnesio e sosti- tuiamo nella (4) il calore g sviluppato quando 18 grammi di acqua si uni- scono a MgS0O,,6H:0 senza produzione di lavoro esterno. Ammettendo che i volumi specifici del Mg SO, ,7H:0 e MgSO, , 6H,0 siano trascurabili per rapporto al volume specifico del vapore; che ì calori specifici a pressione costante degli stessi sali siano indipendenti dalla temperatura, e che infine (*) Studien zur Chemischen Dynamik, pag. 247. IA — il vapor d’acqua possa trattarsi come un gas perfetto, si giunge mediante l'applicazione delle formule generali (*) all'espressione (5) n= +NnT+Z dove p, è la tensione di dissociazione del MgSO,,7H,0 e M,N,Z sono delle costanti. Che se poi si ammette che il volume specifico dell’acqua liquida sia trascurabile per rapporto a quello del vapore; che il calore specifico (a pres- sione costante) dell'acqua sia indipendente dalla temperatura e che il poten- ziale termodinamico totale (*) del vapore possa calcolarsi colla formola che serve per i gas perfetti, si esprime la tensione di vapore dell’acqua colla formula: (6) Inp=j+0InT+c essendo 4, d,c delle costanti. Se ora si sostituisce nell'equazione fondamentale d nl GLi Di 24ò (7) de In] per In p, e Inp i loro valori dati dalle (5) e (6) si ha (8) qg=—R[N-dT-M+a]. Le ipotesi restrittive che hanno servito per dedurre le (5) e (6) fanno ritenere che queste non siano rigorose, ma l'esperienza dimostra che, almeno per intervalli non troppo grandi di temperatura, esse sono sufficentemente ap- prossimate. E infatti i calcoli di Nernst e Levy (*), portano a concludere che il grado di dissociazione y delle molecole doppie dell’acqua liquida in mole- cole semplici varia assai poco colla temperatura e si può ritenere, in via di approssimazione, che, per limiti sufficentemente ristretti, si mantenga costante. La formola calcolata da Nernst (‘) per esprimere la tensione di vapore delle molecole semplici assume la forma: [a] logp =log p — log E II — 4,94 log T + 23,44837 (1) Duhem, Traité de Mécanique Chimique, vol. II, pag. 81. (3) Duhem, loc. cit., vol. II, pag. 14. (8) Verh. d. deutschen phys. Gesell. 15, 313 e segg. (4) Ibid., pag. 819. — 115 — e, ammessa la costanza di y nell'intervallo tra 20° e 50°, [a bis) log p= SII — 4,94 log T + 23,44946. ui In questa formula si è posto log = 0,00109 (per T compreso tra 293,09 e 323,09). Colla [a bis] si ei la seguente tabella: T p calcolato p trovato TT _ —=——__m ssszv____6 formula [4] formula [a bis] (Holborn e Henning) 293,09 17,506 17,517 17,91 393,09 31,775 31,78 31,71 313,09 90,251 99,19 00,13 323,09 92,39 92,47 92,90 L'esperienza insegna che nella (5) deve essere N tanto piccolo da po- tersi trascurare il prodotto N In T in confronto agli altri due termini. Si arriva così all'espressione ricavata da Van't Hoff (1) e verificata da Frowein: x (9) log po =X — RT con X e Y costanti. La formula approssimata di Nernst (*) avendo due costanti indipendenti dalla natura del sale non si presta evidentemente al calcolo dell'equilibrio definito dalla (1). Infatti essa si scrive ST maga x log pi, = 5 E log T +4 3,65 dove gi db il calore di dissociazione del sale a temperatura ordinaria e 3,65 la «costante chimica» dell’acqua. Per il solfato ferroso si avrebbe log pa = — T3tin + 1.75 log T + 3,65 e la condizione perchè alla temperatura assoluta 0 si abbia p, = p: sarebbe Qi=" 98 € le curve dovrebbero senz'altro coincidere. La (8) si trasforma dunque nella (10) q= 4,571 (Y — 2936,39 + 4,94 X 0,4343 T) = 4,571Y —-4 essendo 4 il calore di vaporizzazione dell’acqua. (*) Vorlesungen (1901), pag. 53. (°) Applications of thermodynamies to chemistry, pag. 101. 6 — d Ma n è allora una costante e quindi, sostituendo nella (4) scritta sotto la forma —o—0T A=-1f=*F=d-o1 (con 0,0, costanti) e integrando si ha (!) (11) A:=— 4,571[Y, — 2936,39] + 4,94X 4571 Tlog TOT. (12) ANIRT In p e da un valore di A si può calcolare la costante d'integrazione ©, quando si conosca Y per mezzo della (9). Per una coppia di sali per cui si abbia A\= — 4,571[Y, — 2936,39] + 4,94 X 4,571 T log T + C,T As =— 4,571[Y,— 2936,39] + 4,94 X 4,571 T log T +- CT sarà Q_ q 0 eV 0 (18) i ponendo Q = — 4,571[Y, — 2936,39] "= — 4,571(Y, — 2936,39]. Dunque la temperatura alla quale si verifica la (1) è proporzionale alla differenza dei calori d’idratazione dei due sali allo zero assoluto. Infatti per T=0 sì ha = — 4,571[Y — 2936,39) = Q, - " 6 sarà positiva e quindi avrà un senso fisico, solo se Q— Q e Ci Ca saranno diversi da zero e dello stesso segno. La (10) poi permette di calcolare i calori d' idratazione. 3. Se si ammette che il calore specifico dei sali diversamente idratati e quello della forma di condensazione del vapor d'acqua (supponiamo che si tratti di ghiaccio) siano una funzione lineare della temperatura assoluta, ferme restando le ipotesi che hanno condotto alle (5) e (6), si ha per g una espressione della forma: dildo 1 NT 59 con 90,76 costanti. (*) Cfr. Van't Hoff, Boltzmann's Festschrift (1904), pag. 234. — 117 — L'ipotesi che costituisce il « Wirmetheorem» di Nernst permette al- lora di far scomparire il termine in T, e si ha = T° 11 bi \d= dot È o (Ag St e dunque 13 bi get e ( is) j/ È Set E dove i simboli hanno significati ovvii. Dal punto di vista dell'equilibrio che cì occupa, gli idrati possono dunque essere classificati fondandosi sul valore relativo di $ e di 9 per ciascuna coppia che si considera. Nernst (*) distinse, in base alla sua teoria, tre specie di idrati a seconda che è tZ0. Nel primo caso, g>A; (per es. CuS0,H:0= CuS0,+4- H:0); nel secondo 7= A;[(COOH),,2H:0= (COOH),+2H,0]; nell'ultimo 7 ZA; [K.FeCy;,3H.0=K;FeCy, +3H,0]. La (13 bis) dice che l'equilibrio (1) si verifica per quelle coppie di sali che perdono lo stesso numero di molecole d’acqua dissociandosi, e per cui (go — 90) 0 (6 — &") sono dello stesso segno. Bisogna naturalmente restringersi ai valori di 9 compresi nel campo di esistenza degli idrati che si considerano. E, in particolare, un sale della terza serie darà luogo alla (1) con ciascuno di quelli della seconda e della prima, purchè il suo calore d’ idra- tazione allo zero assoluto sia inferiore a quello che compete agli altri. Questa condizione sì verifiea per il solfato ferroso esaidrato in confronto a molti idrati, giacchè secondo una tabella calcolata da Schottky (£) esso si com- bina totalmente col ghiaccio con reazione endotermica (A > g). Ma i dati sperimentali per verificare queste conseguenze della teoria mancano quasi totalmente. I valori calcolati da Schottky, dalle misure di Frowein, Cohen e Lescoeur portano ad errori enormi nel calcolo di 6 per mezzo della (13 bis). 4. Ho verificato la (13) facendo delle misure col tensimetro differen- ziale del Van't Hof (*). In una boccia mettevo del solfato ferroso eptaidrato purissimo e nell'altra del solfato di magnesio pure a sette molecole di acqua, e, fatto il vuoto con una buona pompa a mercurio, e dopo essere stato la- sciato in riposo in posizione orizzontale, per parecchie ore, l'apparecchio ve- (*) Journal de Chimie Physique, VIII, 246; Sitzungsberichte der preuss. Akad. 12, 247-282 (1910). (*) Zeitschrift f. phys. Ch. (1908) 64, 619. (*) Vorlesungen iber Spaltung u. Bildung von Doppelsalzen, pag. 95. RenpIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 16 — 118 — niva immerso in un termostato colle pareti frontali di cristallo. La tempe- ratura 9, alla quale il livello della paraffina delle due branche del mano- metro è eguale, veniva misurata con un termometro a mercurio, controllato, capace di dare il decimo di grado, ed era raggiunta per tentativi, lasciando trascorrere però di volta in volta il tempo necessario per il raggiungimento della fersione massima (una giornata). La riprova della giustezza dell’osservazione si aveva innalzando o abbas- sando, di una frazione di grado, la temperatura. Si osservava allora un dis- livello nella paraffina, o in un senso o nell'altro, apprezzabile assai bene col catetometro. La discordanza, benchè lieve, delle diverse misure può spiegarsi secondo Le Chatelier (!) coll'ammettere che i fenomeni capillari non siano del tutto trascurabili. Per la coppia FeS0,,7H,0 ; MgSO,,7H:0 si raggiunse la stessa altezza nelle branche del manometro in sette esperienze successive alle se- guenti temperature: AO ZAN AAT ORA 05 0 00 One In imedia:t44%010. 0/=BIYAL0E Dalle misure di Frowein e di Cohen si deduce, per mezzo della (11): do (G; A FeSO,,7 H,0 1108 — 60,544 255,07 (T=303,77) Mg SO,,7H:0 — 1129 — 58,527 488,38 (T=293,15), e da questi valori, si calcola colla (13) 6= 318°,80. 5. Ponendo in una boccia del tensimetro una miscela di Mg SO,,7H,0 e FeS0,,7H:;0 e nell'altra uno di essi, per es. il solfato ferroso, si nota che la differenza di tensione, considerevole a temperatura ordinaria, va di mano in mano diminuendo fino alla temperatura 9. Allora si ha l’uguaglianza di livello della paraffina nelle due branche del manometro, e si può con- trollare di volta in volta il resultato dell'esperienza diretta descritta nel paragrafo precedente. La differenza nei valori di 0 trovati per questa via è sempre compresa nei limiti degli errori sperimentali inerenti a questo genere di misure. In- tanto si può escludere che a quella temperatura possano i due sali reagire in un modo qualunque fra di loro, e ciò legittima la ricerca della tensione di dissociazione dei sali misti Mg SO, ,x Fe $0,7 (14 x)H:0 al variare di x, per la temperatura alla quale pi = Pes. (1) Zeitschrift fiir phys. Ch. LXIX, 90 (1909). — 119 — Le misure ebbero per risultato di stabilire con certezza che nel caso dei cristalli rombici (nei quali si può concepire il Mg S0,,7H:0 come sol- vente) il sale misto ha una tensione maggiore dei suoi componenti; per i cristalli monoclini invece i rapporti s' invertono. Le esperienze furono condotte in modo da eliminare per quanto era pos- sibile le numerose cause d'errore: non è possibile però attribuire ad esse, come a tutte quelle dello stesso genere, un valore rigorosamente quantitativo. I resultati di esse insieme con quelli di alcune misure di solubilità e di calore di soluzione che possono avere un interesse per la teoria verranno esposti in una prossima Nota. Chimica. — Nuovi composti di sali metallici idrati con l’esa- metilentetrammina. (Forme labili di idratazione fissate mediante una base organica) ('). Nota II di G. A. BARBIERI e F. CALZOLARI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Abbiamo descritto nella Nota I(*) una serie di composti formati da sali metallici con l’esametilentetrammina e corrispondenti alla formula ge- nerale M"X,.10H,0.20,N,H,,, in cui M” significa Magnesio, Manganese, Cobalto, Nickel e X = Cloro, Bromo, Jodio. Se si confrontano questi composti con i corrispondenti sali metallici idrati che si possono ottenere cristallizzati allo stato libero, si constata che ad eccezione del cloruro di Magnesio che può dare un idrato con 12 mole- cole di acqua (*) (stabile però soltanto sotto — 16°) tutti gli altri sali alo- genati dei metalli suddetti presentano negli idrati liberi un grado d’idrata- zione ch'è generalmente inferiore, di rado eguale a quello che raggiungono nei composti con l’esametilentetrammina. Infatti per i cloruri di Manganese, Cobalto e Nickel, per i bromuri di Manganese e Cobalto e per il joduro di Nickel l’idratazione massima è rappresentata da sei molecole di acqua: per il bromuro di Nickel e per i joduri di Manganese e Cobalto si conoscono idrati con nove molecole di acqua e soltanto per il bromuro e il joduro di Magnesio sono stati descritti idrati con dieci molecole di acqua. Nella previsione che l’azione fissatrice dell’esametilentetrammina sullo forme d'idratazione avrebbe potuto esplicarsi oltre che nei sali alogenati, in altre sorta di sali, abbiamo fatto reagire l’esametilentetrammina sui solfo- cianuri, nitrati, perclorati di Magnesio, Manganese, Cobalto, Nickel e sul (') Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della L. Università di Ferrara. (?) Questi Rendiconti, 1910, II, 584. (3) Van°t Hoff, Meyerhoffer Ch. C.BI., 1898, II, 915; Bogodoroski, Ch. C. BI., 1899, I, 246. — 120 — solfocianuro ferroso e abbiamo ottenuto molti nuovi composti cristallizzati verosimilmente analoghi, quanto alla costituzione, a quelli descritti nella Nota precedente. Il confronto fra il grado d’idratazione di questi nuovi composti e quello dei corrispondenti sali idrati liberi conduce alla stessa conclusione alla quale si è giunti più sopra per i composti alogenati. Infatti mentre nella lettera- tura si trovano descritti il solfocianuro di Magnesio con quattro molecole di acqua, i solfocianuri di Manganese, Ferro e Cobalto con tre, e quello di Nickel con una molecola e mezza di acqua, noi abbiamo ottenuto con l'esa- metilentetrammina dal solfocianuro di Magnesio il composto Mg(SCN)». 10H,0.2C,N,H,, e dai solfocianuri degli altri metalli, dei composti aventi la formula generale M”"(SCN),.4H,0.2C NH» M”"= Mn,Fe, Co, Ni. Il composto di Magnesio e quello di Manganese possono venir rieri- stallizzati dall'acqua senza alterarsi: invece i composti di Ferro, Cobalto e Nickel quando vengono ricristallizzati pèrdono una molecola di esametilen- tetrammina trasformandosi in composti che corrispondono alla formula ge- nerale M”(SCN)..4H,0.CsN4Hi» M”=Fe,Co, Ni e che sono fra loro isomorfi. I nitrati di Magnesio, Cobalto, Nickel e probabilmente anche quello di Manganese (*), oltre agli esaidrati, possono dare degli idrati con nove mo- lecole di acqua. I composti di detti nitrati con l’esametilentetrammina cor- rispondono alla formula generale M"(N0;): . 10H,0 .2C;Ny Ho M"= Mg, Mn, Co, Ni. Anche questi composti sono fra loro isomorfi. I perclorati dei metalli pesanti vennero preparati da Serullas (*) che però non ne determinò l’acqua di cristallizzazione. Recentemente R. Salva- dori (*) ha descritto il perclorato di Cobalto con sei molecole di acqua. Dalle soluzioni dei perclorati di Magnesio, Manganese, Cobalto, Nickel l'esametilentetrammina separa dei composti cristallizzati corrispondenti alla formula generale M"(C10,)».8H,20.2C$N4Hi: M"— Mg, Mn, Co, Ni. Tutti i composti dei perclorati possono venir ricristallizzati dall'acqua e sono fra loro isomorfi. (1) R. Funk, Z. f. anorg. Ch. 20, 393, (1899). () A. ch. phys.,, 46, 305. (*) Gazz. Chim., 40, II, 15, (1910). — Rl - PARTE SPERIMENTALE. Nella preparazione dei composti che vengono qui descritti si procedette come per i composti alogenati della Nota precedente. L'esametilentetrammina venne aggiunta in soluzione acquosa e concen- trata alle soluzioni acquose e concentrate dei sali metallici. Le soluzioni dei solfocianuri e dei perclorati vennero talvolta preparate dai carbonati metal- lici coi rispettivi acidi ma spesso s'impiegarono le soluzioni dei solfati o degli acetati addizionate di solfocianuro di potassio o di perclorato di sodio. Nelle analisi l’anione solfocianico venne determinato volumetricamente col metodo Volhard. L'azoto nitrico nei nitrati si dosò col metodo Schultze e Tiemann: l azoto dell’esametilentetrammina come ammoniaca previa elimi- nazione dell'azoto nitrico con solfato ferroso nei nitrati e dell’acido solfocia- nico con solfato di argento nei solfocianuri. I dati cristallografici che si trovano in questa Nota, sono dovuti al prof. dott. E. Billows dell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Padova, che ebbe la cortesia di misurare alcuni dei nostri composti. Solfocianuro di magnesio idrato ed esametilentetrammina. Mg(SCN)..10H,0.20,N,H,; Cristalli incolori jalini tabulari molto sottili, lunghi da 3 a 7 mm. Classe di simmetria: ©, (olosimmetrica del sistema triclino). Costanti a:d:e = 0,9342:1:0,9223 a=134°.12'; #= 470.4 ;y= 120°.56" Calcolato Trovato SCN 19,33 19,70-19,44-19,34 N(ammon) 18,65 18,64 Solfocianuro di manganese idrato ed esametilentetrammina. Mn(SCN), oil H,0 n Cs N, IBlo Cristalli incolori jalini appiattiti secondo }001}. Classe di simmetria: ©; (olosimmetrica del sistema dimetrico). Costanti a:c=1:1,0366 Calcolato Trovato SON 22,19 22,20 N(ammon) 21,41 21,32 Solfocianuro ferroso idrato ed esametilentetrammina. Fe(SCN),.4H,0 .2C; NH» Squamette cristalline, bianche appena preparate: all'aria e alla luce ingialliscono lievemente. La soluzione acquosa del composto è verdastra e si altera rapidamente all'aria: imbrunisce e lascia depositare una miscela di idrato ferroso e idrato ferrico. Calcolato Trovato SCN 22,15 21,93 N 21,97 21,12 Fe(SCN):.4H,0 . CN,Hs Se si prepara a caldo una soluzione concentrata del composto prece- dente e dopo filtrata si protegge dall'azione dell’aria con uno strato di pe- trolio e si lascia raffreddare, si ottengono dei bei cristalli di color giallo canarino tendenti al verdastro. Alla luce e all'aria si alterano diventando rossastri ed opachi. Classe di simmetria ©, (olosimmetrica del sistema triclino). Costanti a:d:ce=1,4012:1:1,5723 oe = 1249.57 ; 8 = 290.54 ;y = 121°.36 Calcolato Trovato SCN 30,24 29,79 N(ammon) 14,58 13,98 I risultati analitici non sono molto soddisfacenti. Ciò dipende dalla difficoltà di ottenere e conservare il composto allo stato di purezza. Però l’isomorfismo di questo composto col composto Co(SCN), .4H,0 .CsN4Hi: che sarà più sotto descritto, conferma la formula che gli abbiamo attribuito. Solfocianuro cobaltoso idrato ed esametilentetrammina. Co(SCN). .4H,0.2CN4Ho Squamette rosee, lucenti. Calcolato Trovato SCN 22,02 21,96 N(ammon) 21,24 21,44 Co(SCN): 2 4H,0 È (07 N, H,s Quando si prepara una soluzione concentrata a caldo del composto pre- cedente si separa dell’idrato cobaltoso e un sale basico verdastro insolubile in acqua. Dalla soluzione filtrata si formano per raffreddamento dei cristalli tabulari di color rosso-granatino scuro. — 123 — ‘Classe di simmetria: @, (olosimmetrica del sistema triclino). Costanti 4:d:c=1,4232:1:1,6034 a = 128°.23'; 8 = 31°.6';y= 128°.38/ Dalle misure cristallografiche risulta che questo composto è isomorfo col composto ferroso Fe(SC),.4H,0.CyN,H,,. Calcolato Trovato SCN 29,99 29,91 Co 15,22 15,41 N(ammon) 14,47 14,52 Solfocianuro di nickel idrato ed esametilentetrammina. Ni(SCN)..4H:0.2C,N,H Polvere cristallina verde. Calcolato Trovato SON 22,08 22,11 Ni(SCN)..4H,0.C,N,Hs EDIGIO Fis. 3. Si ottiene ricristallizzando il composto precedente dall'acqua. Cristalli tabulari di color verde smeraldo. Classe di simmetria: ; (olosimmetrica del sistema triclino). Forma cristalli misti col composto Co(SCN),.4H,0.C,N,H,, in tutti i rapporti. Calcolato Trovato SON 30,01 30,04 Mtrato di magnesio idrato ed esametilentetrammina. Mg(NO;),.10H,0.2CN,H,; Cristalli incolori, jalini, tabulari. odi Classe di simmetria: «©; (olosimmetrica del sistema trimetrico). Costanti a:d:c=0,8261:1:0,4313 Calcolato Trovato Mg 3,99 4,10 N(ammon) 18,41 18,40 Nitrato di manganese idrato ed esametilentetrammina. Ma(N0;)» . 10 H,0 » 2 Ce N, H,» Cristalli somigliantissimi ai precedenti. Classe di simmetria: ds (olosimmetrica del sistema trimetrico). Costanti a:d:c=0,8388 :1:0,4894 Calcolato Trovato Mn 8,59 8,50 N(nitrico) 4,38 3,97 N(ammon) 17,53 17,78 Nitrato cobaltoso idrato ed esametilentetrammina. Co(NO:), . 10H,0 . 26; N,jHis Si ottiene cristallizzato in squamette rosee: dà soluzioni solide in tutti i rapporti coi composti precedenti di Magnesio e di Manganese. Calcolato Trovato Co 9,17 9,13 N(ammon) 17,42 17,56 Nitrato di nickel idrato ed esametilentetrammina. Ni(N0;): . 10 H,0 . 2C6N4 His Cristallizza in squamette verde-smeraldo. Forma soluzioni solide in tutti i rapporti coi composti precedenti analoghi di Magnesio, Manganese e Cobalto. Calcolato Trovato Ni 9,18 9,931 Perclorato di magnesio idrato ed esametilentetrammina. Mg(C10,):.8H0 .2C;N4Hi: Aghetti incolori, lucenti. Calcolato Trovato Mg 3,79 3,71 N 17,22 16,96 — Perclorato di manganese idrato ed esametilentetrammina. Mn(C10,),.8H,0.2C;N,Hi: Cristalli simili ai precedenti. Calcolato Trovato Mn 8,10 9,02 N 16,52 16,32 Perclorato di cobalto idrato ed esametilentetrammina. Co(C10,), .8H.0.2CN4Hio Oristallizza in aghi rosei. Forma soluzioni solide col composto Mg(CI0,), . 8H,0.2CN,H,s e col composto Mn(C10,),.8H,0.2C0,N,H,.. Calcolato Trovato Co 8,64 9,02 N 16,42 16,32 Perclorato di nickel idrato ed esametilentetrammina. Ni(C10,)..8H.0.2C0;N4His Cristallizza in aghi verdi. } isomorfo coi composti corrispondenti di Magnesio, Manganese e Cobalto. Calcolato Trovato Ni 8,60 8,51 (031 10.40 10,28 N 16,43 16,03 Chimica. — Sulla sintesi diretta dei gliceridi (4). Nota di I. BeLLuccI e R. MANZETTI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Berthelot è stato il primo a provare che dalla unione della glicerina con i corrispondenti acidi grassi si possono direttamente ricostruire i co- muni gliceridi ad elevato numero di atomi di carbonio. Dalle sue ricerche, svoltesi circa sessanta anni fà, appare ben evidente come egli si fosse so- prattutto prefisso di dimostrare l'identità dei prodotti sintetici da lui otte- nuti coni grassi naturali, senza troppo preoccuparsi delle modalità speri- mentali in cui si svolgevano le relative reazioni. Ricordiamo infatti che Berthelot riscaldava ad elevata temperatura (200°-260°), in tubi chiusi alla lampada e per un tempo generalmente molto lungo, miscele di acido grasso e glicerina (o anche di acido grasso e mono- e digliceride), nelle quali prevaleva, a seconda dei casi, un forte eccesso di parte acida o di glicerina. (') Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale della R. Università di Roma. ReNnDpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 147 — 126 — Il processo di eterificazione era in tal modo sempre molto incompleto, la qual cosa fece quasi ritenere a Berthelot che esso non potesse in realtà svolgersi totalmente, così da indurlo ad esprimersi nel modo seguente ('): « Quel que soit le procédé employé pour unir la glycérine à un acide, la combinaison n’est jamais complète. Toujours et simultanément, une grande partie de l’acide ou une partie de la glycérine demeurent sans s'unir. Ce fait résulte des conditions dans lesquelles les corps gras neutres se dédou- blent, spécialement de l'action décomposante de l’eau, produit nécessaire de la reaction ». È ben naturale infatti come col metodo Berthelot non si possa ottenere che un rendimento molto debole in gliceride, data l'azione saponificante che l’acqua generatasi esercita, entro il tubo chiuso, sul gliceride stesso, all’ele- vata temperatura della reazione. Basta a tal uopo ricordare il noto processo, che ha avuto anche applicazione industriale, della saponificazione dei grassi appunto per mezzo del vapor d'acqua sotto grandi pressioni. Dopo Berthelot, pochi ancora hanno tentato la sintesi diretta dei gli- ceridi (?) in condizioni più o meno felici di reazione, ottenendo risultati ben poco diversi. Fra le altre, degne di nota sono le ricerche compiute da Schej (*) il quale ha effettuato l’eteriticazione diretta della glicerina con i soli acidi grassi saturi. Lo Schej ha ripreso da Berthelot ed ha applicato il concetto di impiegare in tali eterificazioni un eccesso di acido: ma, invece di tenere la miscela acido-glicerina in tubo chiuso, durante il riscaldamento (200°), egli vi ha fatto gorgogliare attraverso una corrente di aria secca che aspirava diminuendo parzialmente la pressione nell'interno dell'apparecchio. Non ostante questa modificazione, veramente poco felice (lo Schej fa gorgo- gliare nella miscela grassa l'ossigeno atmosferico ad elevata temperatura), l’eterificazione di una certa quantità di glicerina non si effettuava che in un tempo molto lungo (anche di tre giorni !). Se adunque, dal punto di vista puramente scientifico, può asserirsi che la sintesi dei principali gliceridi è stata realizzata da Berthelot e rappresenta perciò un fatto compiuto, ben restano da precisare le modalità, finora tanto imperfette, secondo cui essa può nel miglior modo effettuarsi. E la questione, oltrechè interessante per diversi lati teorici, risulta connessa, per taluni dei gliceridi (es.: trioleina), ad una notevole importanza dal punto di vista in- dustriale, tutte le volte che la sintesi di questi potesse realmente svolgersi in condizioni rapide ed economiche. (®) Annal. de chim. et phys. [3] 4/4, 308 (1854). (2) Vedi in proposito i più recenti e principali trattati sulle materie grasse (Lew- kowitsch 1906, Benedikt-Ulzer 1908, Ulzer e Klimont 1906, Hefter 1906-1910). (3) Recueil des travaux chimiques des Pays-Bas [2] /8, 169 (1899). Sgoz — Noi abbiamo perciò creduto interessante di occuparci della sintesi di- retta dei gliceridi rivolgendo i nostri tentativi ad ottenere in breve tempo una eferificazione completa, partendo da quantità stechiometriche di acido grasso e di glicerina, come ancora non era stato realizzato dai precedenti sperimentatori. Prendendo in esame l'influenza che le variazioni di pressione possono ad una temperatura favorevole esercitare su tale eterificazione, abbiamo 0s- servato che la pressione stessa ha sull'andamento della reazione un'influenza veramente fondamentale. Noi abbiamo riscaldato nel vuoto (mantenuto costantemente a mezzo di una pompa per tutta la durata della reazione) quantità stechiometriche di acido oleico e di glicerina a temperature variabili e gradualmente ele- vantisi (160°-260°). In queste condizioni, spingendo il vuoto in taluni casi anche soltanto a 2 cm. di mercurio, si ha una eliminazione graduale, ben visibile e rapida di vapor d’acqua, che va abbondantemente a condensarsi in torrette di essicamento intercalate fra la pompa e l'apparecchio di reazione. In capo a breve tempo, un paio d'ore, si ha una eterificazione praticamente completa (rendimento 95-98 °/, in trioleina), data la favorevole circostanza che durante la. reazione, in merito anche ad una conveniente e semplicissima disposizione dell'apparecchio, non sfuggono menome quantità nè di glicerina nè di acido grasso. Seguendo questo processo, sempre con l'impiego di opportune quantità stechiometriche, uno di noi, insieme al laureando sig. Bachilli, ha già otte- nuto con lo stesso rendimento numerosi altri gliceridi, semplici e misti, tutti ben identificati con l'esame delle relative costanti fisiche e chimiche. Con questo nostro metodo si ha non solo il vantaggio di mantenere sopra la massa reagente un ambiente inerte, ma principalmente quello di abbassare la temperatura necessaria a realizzare una notevole velocità di reazione ed a conservare nello stesso tempo inalterata la miscela reagente. Non si ha in tal modo formazione di sottoprodotti (acroleina, ecc.), e volendo ottenere il gliceride in stato di completa purezza, non resta che lavarlo ini- zialmente con acqua (per asportare eventuali tracce di glicerina), seccarlo di nuovo e poi, in soluzione eterea ed a debole calore, trattarlo con piccole quan- tità di calce spenta, secca (allo scopo di asportare le piccole quantità di acido). Dal filtrato, dopo evaporazione dell’etere, si ha il gliceride puro. i Se noi osserviamo il processo: glicerina + acido grasso == gliceride + acqua, appare evidente come l’azione del vuoto continuato si esplichi durante la nostra reazione col ridurre e mantenere costantemente piccolissimo il valore del termine acqua, a mano a mano che questa si produce disturbando l’equi- librio della reazione, spostandolo verso destra, con velocità di reazione gran- — 128 — dissima, specialmente in raffronto con quella ottenuta dagli sperimentatori citati. Il nostro metodo di eterificazione si presenta con straordinaria sempli- cità, tantochè assume veramente l’aspetto di una esperienza di lezione, potendosi in un breve tempo osservare il graduale sviluppo, dalla massa rea- gente, di copiose nubi d’acqua condensantesi allo stato liquido in oppor- tuni collettori. Certamente questa eterificazione diretta eseguita nel vuoto, potrà esten- dersi a molti altri gliceridi, dei quali alcuni ancora non ottenuti per sintesi, e potrà servire anche, a parer nostro, per risolvere, in alcuni casi speciali, delle questioni di costituzione. Ma l’interesse di questo nostro processo succintamente descritto, non si presenta solo dal punto di vista puramente scientifico quanto anche dal lato industriale, per quello che riguarda la sintesi della trioleina cui è connesso l'importante problema della deacidificazione degli olii. Con questa Nota, di carattere preliminare, noi abbiamo inteso soltanto di stabilire il concetto fondamentale del nostro lavoro e di affermare per la prima volta la possibilità di ottenere una sintesi diretta dei gliceridi, rapida, con rendimento pressochè teorico, mercè l'impiego delle sole quantità stechio- metriche di acido grasso e glicerina. Ci ripromettiamo di comunicare tra breve dettagliatamente i numerosi lavori compiuti e quelli che tuttora si stanno eseguendo intorno a questo argomento. Chimica. — Sali doppi fra il fluoruro di piombo e gli altri sali alogenati dello stesso metallo. Nota di CARLO SANDONNINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Agronomia. — Ze rocce e le acque dell'Agro Romano ri- spetto alla calce. Nota di G. De AnGELIS D’Ossar, presentata dal Socio R. PIROTTA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. CSO Mineralogia. — Appunti mineralogici sulla miniera di Ca- labona (Alghero). Nota del dott. AurELIO SERRA ('), presentata dal Socio G. STRUEVER. A S-SE di Alghero si trova la regione denominata Calabona, nella quale i sedimenti miocenici ricoprono le rocce trachitiche, che si rendono evi- dentissime al nord della Punta Argentera (108 m.). In questa regione, fin da tempi assai antichi furono praticate ricerche minerarie, ed anche negli ultimi tempi vi sono stati eseguiti dei lavori, poco fortunati per altro, perchè i minerali di zinco e di manganese furono rinvenuti così intimamente asso- ciati, da rendere infruttuoso ogni tentativo di separazione meccanica. I mi- nerali di Calabona non sono stati finora, per quanto mi è noto, oggetto spe- ciale di indagini scientifiche; reputo, perciò, opportuno, di riferire brevemente alcune osservazioni che io, dietro consiglio del prof. Zambonini, ho avuto agio di eseguire su un materiale abbastanza abbondante da lui raccolto in- sieme con me, e conservato nell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Sassari. A Calabona la mineralizzazione si sviluppa principalmente nella parte media del calcare che costituisce il Monte Argentera: al tetto si può rico- noscere una formazione piuttosto marnosa; al riposo, argilla e sottili strati steatitosi. I minerali dei quali si constatò l’esistenza sono: smithsonite, pi- rolusite, calcite, quarzo, pirite, calcedonio, diaspro, selce piromaca e argilla. Nelle righe che seguono esporrò brevemente le caratteristiche più importanti dei principali. Smithsonite. — Questo minerale si presenta raramente in cristalli a facce curve confusamente intrecciati: il più spesso, invece, in incrostazioni botrioidali, ehe di solito tappezzano le pareti delle cavità che si aprono qua e là nei minerali di manganese. Il colore della smithsonite di Calabona è, generalmente, bianco, talvolta volgente un po’ al ceruleo: alcune varietà, in- vece, sono gialle, ed altre verdi, e riescono, sotto questo aspetto, particolar- mente interessanti. Come è noto, H. N. Stokes (*) ha osservato che la smithso- nite di Marion Co., Arkansas, di colore giallo, deve la sua colorazione alla greenockite commista, e presenta, inoltre, una piccola parte dello zinco sostituita dal cadmio. Ho voluto, perciò, indagare se anche la smithsonite di Calabona contenesse cadmio o greenockite commista: ma le ricerche analitiche eseguite non mi hanno permesso di ottenere indizî sicuri della esistenza del cadmio; (4) Lavoro eseguito nell’Istituto di Mineralogia della R. Università di Sassari. (?) Cfr. E. Dana, System of Mineralogy, 6% Ed., pag. 279. — 130 — invece, ho potuto accertare la presenza del ferro e del manganese, con pre- valenza del primo. A questi elementi, e partieolarmente al ferro, mi sembra doversi ascrivere il colore giallastro della smithsonite studiata. La varietà verde di Calabona deve il suo colore al rame, del quale è facile riconoscere la presenza nel minerale. Ho creduto non inutile eseguire un'analisi completa della varietà bianca, ed ho ottenuto i risultati seguenti: Za eee 00 Cao e. |. 2,22 COLTURE RIE 105 100,00 Si ha a che fare, perciò, con una smithsonite contenente una quantità abbastanza considerevole (3,96 °/,) di carbonato di calcio in miscela isomorfa; fatto, questo, non molto comune, perchè di solito nella smithsonite il calcio si rinviene soltanto in quantità molte piccole. Pirolusite. — Questo minerale è abbondante a Calabona, e sì presenta sia in masse terrose, evidentemente amorfe, che non presentano alcun inte- resse mineralogico, sia, invece, in masserelle nere, con splendore semimetal- lico assai vivace, a netta struttura cristallina. Questa pirolusite cristallina si compone di tante laminette riunite, come Kéochlin ha osservato avve- nire in certe varietà di Pitten, di Lòlling, di Horhausen, di Siegen e di Hanne. Come è noto, la pirolusite è ritenuta generalmente come un prodotto amorfo di trasformazione di varî minerali di manganese, e questo modo di con siderare la pirosulite trova un valido appoggio nel fatto che questo miuerale si rinviene appunto, spesso, pseudomorfo di manganite, polianite, ecc. Non è, però, da tacersi che il Kochlin nei suoi importanti studii, oltre a cri- stalli. la forma dei quali è riferibile a quella della manganite, della polia- nite, della calcite e della dolomite, ne ha anche osservati altri non riferi- bili a minerali noti, e che potrebbero, quindi, rappresentare veri cristalli di pirolusite. A ciò deve aggiungersi che il Dana (1) ritiene che non possa esclu- dersi la possibilità che la pirolusite rappresenti un minerale indipendente, con forma cristallina propria. Certo che la varietà cristallina di Calabona sembra proprio parlare in favore dell'esistenza di pirolusite cristallizzata; ma i risultati ottenuti nell'analisi del minerale di Calabona complicano la questione. Io, infatti, ho trovato la seguente composizione: Mn 0 O, 20) Eee AR pat 5,99 O. (pera) |... ca t919 Hole... 2,23 100,00 (1) System of Mineralogy, 6* Ed., pag 244. — Bl — Il materiale per l'analisi fu scelto con ogni cura, e particolare atten- zione fu posta alla separazione della pirolusite dalla limonite che l’accom- pagna. Tutti i frammenti del materiale analizzato davano scalfittura nerastra, e non potevano, perciò, contenere limonite: anche nella polverizzazione non si ebbe alcun indizio che accennasse all'esistenza di limonite nelle lamelle di pirolusite. Riesce, perciò, particolarmente interessante la presenza di no- tevole quantità di ferro nel minerale di Calabona, se si pensa che il terro, di solito, è, nelle pirolusiti pure, assai scarso, mentre si rinviene, invece, assai sovente, in quantità non molto diverse da quella su indicata, in non pochi psilomelani, dai quali il minerale studiato nettamente si distingue per la mancanza sia del bario, sia degli alcali, come pure per l'elevato tenore in ossigeno attivo. Non del tutto inverosimile appare l'ipotesi che il ferro costi- tuisca il manganese, ipotesi confortata dal fatto che il rapporto MnO + Fe0:0 attivo è uguale a 1,14; non sono, però, con questo fatto eliminate le diffi- coltà che si oppongono all'ipotesi di una miscela isomorfa di MnO, e di FeO, in base alle nostre attuali cognizioni sul ferro tetravalente. Non privo di interesse è anche il tenore in acqua riscontrato nel mine- rale di Calabona, e che fu determinato con ogni cura. Le pirolusiti più pure finora analizzate, contengono sempre acqua in quantità oscillante più special- mente intorno al 2 °/,. È questo, sopra tutto, il caso per le analisi eseguite da Penfield (') delle pirolusiti di Salisbury e di Negaunee nel Connecticut, analisi che, vuoi per la purezza del materiale impiegato, vuoi per il valore dell’analista, meritano particolare attenzione. Nelle sue tre analisi, Penfield ottenne 1,94, 2,33 e 2,68 °/: dei valori, cioè, vicinissimi a quello da me trovato nella pirolusite di Calabona. L'acqua rinvenuta in quest'ultima, cristallina, non sembra possa considerarsi dovuta ad una pura e semplice alterazione: è molto più verosimile che si tratti di acqua disciolta. Non è probabile, — come po- trebbe, a prima giunta, pensarsi, per la relativa costanza delle percentuali in molte delle migliori analisi, — che si abbia a che fare con acqua di costitu- zione, poichè il rapporto (Mn, Fe) 0,:H:0 sarebbe 9:1, del tutto inverosi- mile per un composto definito. Calcite. — I cristalli di questo minerale. per lo più piccoli e raggrup- pati insieme, presentano la combinazione dello scalenoedro }201{ e del prisma 3211: spesso si osservano anche piccole faccette romboedriche. Non rari sono i cristalli con habitus scalenoedrico, geminati secondo la base. Quarzo. — I cristalli di quarzo, isolati o riuniti in associazione paral- lela, si rinvengono nelle geodi del calcare reso brumastro dal biossido di Manganese. La combinazione è la solita : }211{ }100} }22I}. Il calcedonio e il diaspro non presentano nulla di notevole. (*) In Dana, loc. cit. — 19 = Pirite. — Si presenta in piccoli cristalli cubici e pentagonododecaedrici, accompagnati da lamelle di ematite. Argilla. — Sì rinvenne generalmente impura per la presenza di so- stanze eterogenee, come sabbia, carbonati terrosi, ossido di ferro, ecc.: ed in relazione con queste impurezze varia, naturalmente, anche il colore. Ho 08- servato anche una specie di argilla di colore cinereo, 2 struttura fogliacea, che si potrebbe chiamare un argilloscisto. Circa la genesi della pirolusite, io ritengo che essa si sia formata per rimaneggiamenti dei materiali profondi, provenienti dalla trachite : questa, infatti, è fortemente mineralizzata nelle adiacenze della miniera, come pure molto distante da essa, a est e a nord della Punta Argentera. Per quel che riguarda gli altri minerali, io credo che la roccia trachitica, per influenza dell’acqua, dell'anidride carbonica e della temperatura, sia stata decomposta, con trasformazione dei silicati alcalini in carbonati, con separazione di si- lice, che diede luogo al quarzo, al calcedonio, al diaspro. Il silicato di allu- minio rimase a costituire l'argilla, mentre i carbonati alcalini, solubili, fu- rono facilmente asportati, ma determinarono, però, anche la formazione della smithsonite, che sarebbe da considerarsi, nel giacimento, come uno dei mine- rali più frequenti. Fisiologia. — Contributo alla fisiologia del Labirinto. L'er- gogramma della rana slabirintata. Nota del dott. M. Cams, presentata dal Corrispondente V. Apucco. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Patologia. — Un caso di Kala-Azar a Roma (*). Nota dei dott. Francesco Futci (*) e CarLo BASILE (*), presentata dal Socio BATTISTA GRASSI. I recenti studî sulla diffusione delle Leishmaniosi suggerirono ad uno di noi, il Fulci, l'idea di studiare, a tal riguardo, quei casì di anemie che egli, in Roma, ha spesso occasione di osservare al tavolo anatomico, indotto a tale idea anche dal fatto che l'altro di noi, il Basile, aveva precedente- mente (4) dimostrato l'esistenza, in questa città, della Leishmaniosi del cane. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Anatomia comparata della R. Università di Roma, diretto dal prof. B. Grassi. (*) Assistente nell’ Istituto Anatomo-patologico della R. Università di Roma, diretto dal prof. Ettore Marchiafava. (3) Dell'Istituto di Anatomia comparata della R. Università di Roma. (4) Basile Carlo, Rendic. Accad. Lincei. Vol. XIX, serie 58, fasc. 3°, 1910. — 133 — Speciale attenzione ritenne il Fulci dovesse rivolgersi al caso di cui diamo breve nota, in quanto che dai sintomi clinici poteva sospettarsi il Kala-Azar. Comunicò la sua idea al Basile, il quale si unì a lui nello studio del caso: N. Luigi, di anni 19, da Castelnuovo di Porto (Roma), carrettiere, celibe. Nulla di notevole negli ascendenti e collaterali. Non bevitore, non fu- matore, ron venereo. L'infermo è stato bene sino agli ultimi dell’agosto 1909, quando, tro- vandosi, per ragioni di lavoro, ad abitare fuori le porte di Roma, ricoverò in uno degli ospedali di questa città, avendo da alcuni giorni notato debo- lezza generale, pallore e progressivo dimagramento. Qui i sanitarî, avendo riscontrato anche elevazioni termiche, ritennero trattarsi di malaria e consi- gliarono una cura adatta. L'infermo uscì dall'ospedale poco tempo dopo, e ritornò al lavoro: ma non più con le forze di prima, tanto che nell'inverno successivo ritornò al paese natio e riparò in quel civico ospedale. Quivi i sanitarî gli riscontra- rono una notevole anemia e, ancora una volta leggera febbre periodica, che, a dire dell’infermo, fu anche questa volta diagnosticata come malarica. Dopo 32 giorni di degenza l'infermo lasciò quello ospedale, sensibilmente migliorato; ma continuò a curarsi con iniezioni ricostituenti e riprese il lavoro. Nei primi del settembre 1910 fu còlto da forte dolore alla gola e da febbre, che pare siano cessati dopo pochi giorni; però verso la fine di no- vembre ricomparve febbre alta, accompagnata da dolore all’emitorace destro, tosse ed escreato piuttosto scarso, poco aereato. I sintomi anemici di prima sì sono rimanifestati, con grande debolezza generale. Continuando la febbre, ed avvertendo l'infermo, con la crescente astenia, una oppressione di respiro, sempre più accentuata, entrò al Policlinico Umberto I il 16 dicembre 1910. Esame obbiettivo. — Costituzione scheletrica regolare; cute e mucose visibili di colorito pallido-giallastro; viso cereo; connettivo adiposo sotto- cutaneo quasi del tutto scomparso; muscolatura ipotonica ed ipotrofica; de- cubito obbligato supino; i laterali provocano molestia e difficoltà di respiro. Nelle regioni cervico-laterali, ascellari ed inguinali, glandule linfatiche di vario volume, da un chicco di grano ad un fagiuolo, indolenti, di consi- stenza duro-elastica. Gengive notevolmente pallide e facilmente sanguinanti in corrispondenza delle arcate dentarie; lingua un po’ tremula, mobile in tutte le direzioni e ricoperta da crosticine ematiche. Notevole pulsazione delle carotidi e delle giugulari, che all'ascoltazione facevano sentire il suono accompagnato da un rumore di soffio, mentre il tono era normale. Torace. — Nella metà destra, dalla spina della scapola in giù, suono ottuso con spostamento del limite superiore nei cambiamenti di posizione del paziente; silenzio respiratorio e fenomeno del Baccelli. Nulla di note- RenpICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. 18 — 134 — vole nell'emitorace sinistro ed a carico del cuore. Polso ritmico frequente, discretamente ampio. Addome. — Nulla di speciale nel sistema gastro-enterico. Milza debordante un dito trasverso dall’arcata costale lungo la linea ascellare anteriore; dura, indolente. Fegato debordante un dito trasverso dall'arcata costale, con margine tagliente, superficie liscia e consistenza non aumentata. Le urine, all'ingresso al Policlinico, contenevano tracce di albumina ('/, per mille), che poi scomparvero. Minzione e defecazione normali. Durante la degenza, l'esame dell'espettorato è stato sempre negativo per la tubercolosi. L'esame del sangue, fatto il 24 dicembre, dava: emoglobina 15 °/0; eritrociti 1,000,000; leucociti 6500; rapporto globulare 1,154; valore globulare 0,75. Nei preparati colorati: micro- e macrociti, poichilociti; e rarissimi me- galoblasti; dei leucociti, in prevalenza i polinucleati neutrofili. Il 18 dicembre, una puntura esplorativa della pleura destra dava liquido siero-emorragico torbido. Prova di Rivalta positiva. Albumina 40°. Allo esame citodiagnostico: copiosi eritrociti, moltissimi linfociti, qualche poli- nucleato neutrofilo, assenza di microrganismi. Una seconda puntura esplorativa, praticata il 22 dicembre, diede esito negativo. L'infermo andò sempre più deperendo; la temperatura presentava notevoli e costanti elevazioni, con frequenti remittenze e qualche rara intermittenza. Nel pomeriggio del 16 gennaio 1911, il malato si aggravò, con sin- tomi di dispnea, collasso, mentre la temperatura si elevava a 39°. Nella notte successiva morì. Diagnosi clinica. — Pleurite destra. Anemia perniciosa. Autopsia. — Venne eseguita (Fulci) ('), dopo circa 24 ore dalla. morte, nella sala Incisoria del Policlinico Umberto I: Individuo di costituzione scheletrica regolare; cute di colorito giallo- terreo; tessuto adiposo quasi del tutto scomparso; masse muscolari ipotrofiche e flaccide; rigidità cadaverica persistente. Nulla di notevole negli organi della cavità cranica e rachidea, all'in- fuori di un leggiero edema sottoaracnoidale. (1) Il Fulci si riserva in una speciale pubblicazione lo studio minuto anatomico ed istologico dei varî organi e tessuti, che egli ha opportunamente fissati. — 135 — Timo permanente e leggermente ipertrofico. Cuore leygermente aumen- tato di volume e dilatato, con lieve degenerazione grassa del tessuto sot- toendocardico. Il polmone sinistro è uniformemente soffice ed aereato. Il polmone destro presenta sulla superficie pleurica, aderenze connettivali non molto antiche; nell'interno non mostra alterazioni rimarchevoli. Lievissima endoaortite degenerativa diffusa. La milza è aumentata di volume e specialmente di consistenza, con capsula poco ispessita, priva di aderenze, attraverso la quale traspare il colorito rosso-scuro della polpa splenica, interrotto da chiazze biancastre da infarti anemici. L'organo misura cm. 17 X 8 e pesa gr. 420. Sulla sezione, la milza è ricca di tessuto connettivale e i corpuscoli malpighiani non si distinguono bene; non si riconosce emosiderosi. Il fegato ha forma conservata; la capsula si presenta perfettamente liscia, senza aderenze, di colorito piuttosto ocraceo. Peso gr. 1430. In se- zione, sì riconoscono in corrispondenza degli spazî triangolari e attorno alle venule centrali scarsi depositi emosiderinici. La cistifèllea è ripiena di bile tenue, colorata in giallo-verdastro. I reni sono anemici e duri e non presentano alterazioni rimarchevoli. Nello stomaco: pallore della mucosa, che non appare atrofica. Nell'intestino tenue, mucosa pallida; nell’ultimo tratto del colon, gravi e diffuse ulcerazioni della mucosa. Midollo delle ossa brevi e lunghe, di colorito rosso-scuro. Nel femore, il midollo è scarsissimo per neoformazione ossea nel canale midollare. Negli altri organi non si riscontrano macroscopicamente alterazioni degne di speciale menzione. In conclusione il reperto anatomico ricorda quello di un’anemia per- niciosa criptogenetica, con lieve degenerazione grassa del miocardio; lievis- sima endoaortite degenerativa diffusa; pleurite fibrosa adesiva totale a destra; lieve emosiderosi del fegato; tumore duro di milza con infarti anemici; colite acuta ulcerosa; midollo osseo rosso, megaloblastico. Per precisare, dopo tale reperto, la diagnosi etiologica sono stati alle- stiti (Basile) dei preparati per strisciamento della milza e del midollo delle ossa brevi e lunghe, i quali, fissati parte in alcool assoluto, parte in alcool ed etere, sono stati colorati col liquido di Giemsa. Sono stati così messi in evidenza (Basile) i corpi di Leishman-Donovan, sia liberi, sia inclusi in leucociti prevalentemente mononucleati. Il caso assume speciale importanza per questo reperto microscopico, che ne dimostra la vera natura. — 136 — Viene così pienamente avvalorato il sospetto avuto dal Fulci sull'etio- logia del caso e realizzata l'ipotesi che il Basile aveva precedentemente (?) espressa che, cioè, casì di Kala-Azar dovessero esistere a Roma o nelle vici nanze. Questa osservazione, importante dal punto di vista clinico ed anatomo- patologico, conferma le osservazioni del Prof. Gabbi, il quale (*) ha trovato, in Sicilia e in Calabria, il Kala-Azar nell’adolescente e nell'adulto. L'esistenza del Kala-Azar a Roma, da noi, per primi, segnalata, possa essere di interesse umanitario e scientifico. Patologia. — Contribusioni alla patologia dei paesi meridio- nali. Febbre dei tre giorni 0 da pappataci in Sicilia e Calabria. Nota del prof. U. Gagpi ('), presentata dal Socio B. GRASSI. Nella decorsa estate si osservò tanto a Messina, come sulla opposta riva del mare, in Calabria, una diffusa epidemia di una malattia che decorse con grande benignità e breve durata, caratterizzata da febbre insorgente d'improvviso, quasi senza, o con breve periodo prodromico, di solito molto elevata ed accompagnata da due gruppi di sintomi: l'uno, costante, rappre- sentato da intensa cefalea, da acuti dolori agli arti ed ai lombi, da spezza- mento delle membra, da insonnia; l’altro, non costante, e costituito da ano- ressia acuta, da avversione ai cibi, da lingua impaniata con alito fetido, da irritazione di gola, da pena epigastrica con ventre chiuso, 0, solo eccezional- mente, con diarrea. Il quadro clinico apparve, salvo qualche eccezione, nella seguente ma- niera. In una famiglia si presentava prima colpito un membro, e successi- vamente, parecchi altri. Si constatarono anche 80 casi al giorno, all'incirca, nel mese di luglio. I sintomi che dopo la febbre, che durava tre giorni, dominarono nella sindrome, furono la cefalea, e la profonda astenia durante e dopo la febbre stessa. Di fenomeni che apparvero come eccezionali notammo una intensissima patofobia in una isterica, crampi dolorosi agli arti, nevralgie acutissime alle articolazioni dei ginocchi e dei piedi, ed in un caso, l'unico, una glomerulo- nefrite. I primi casi osservati ebbero dai medici nomi diversi: influenza estiva, febbre gastro-reumatica, febbre da imbarazzo gastrico. A qualcuno fra essì, (') Basile Carlo, Rendic. Acc. Lincei, serie 5%, sem. 2°, fasc. 10, 1910. (3) U. Gabbi, Stud: intorno ad alcune malattie tropicali della Calabria e della Sicilia. R. Istituto di Clinica Medica, fasc. 2°, Roma 1910. Calle) — 157 — al quale il quadro apparve insolito e forse nuovo, non bastò alcuno di quegli appellativi e pensò ad una /ebbre delle macerie! Ma quando ai primi di luglio potei vedere il primo caso in un signore che volle essere da me 0s- servato e curato, e poi ne vidi in consulto a Messina altri esempî, riconobbi trattarsi della /ebbre dei pappataci, 0 dei tre giorni e ne detti avviso all'ufficiale sanitario. I medici di Messina e della Calabria ne osservarono e mi denunziarono moltissimi altri esempî. L'epidemia cominciò alla fine di giugno e terminò nell'ottobre od ai primi di novembre. Un calcolo, ad occhio e croce, mi porterebbe a ritenere che più di 3000 casi si osservarono nella sola Messina. La malattia colpì in eguale misura borghesi e militari. Essa si svi- luppò in un anno nel quale le pioggie furono eccezionalmente frequenti a Messina ed in Calabria, e coincise con una strepitosa moltiplicazione di culex e di pappataci. Il lamento era generale. Dei pappataci io potei cattu- rare non pochi esemplari. CHE Si è evidentemente trattato di quella febbre che alcuni medici militari italiani hanno qualificato di /edbre estiva, e che, già veduta nell'India più di 18 anni or sono, ebbe, dopo le mirabili ricerche etiologiche di Franz, Dwer e Taussig, e quelle recentissime di Dirt il nome di /ebbre da poppa- taci, 0 dei tre giorni. Questi osservatori dimostrarono : 1°) che infettando i pappataci con sangue di individui colpiti dalla febbre dei tre giorni, era possibile poi, facendo pungere individui sani dai medesimi, riprodurre in pieno il quadro della malattia; 2°) che l'infezione dei pappataci certamente avveniva solo quando questi succhiavano il sangue nel primo giorno di malattia; 3°) che i pappataci non erano infettanti subito dopo aver succhiato il sangue; 4°) che la infezione sperimentale avveniva dopo 4-7 giorni dalla avvenuta puntura; 5°) che il virus era filtrabile attraverso ad un filtro Chamberland- Pasteur; 6°) che il siero di sangue di individuo affetto da febbre dei tre giorni, inoculato in sano, provocava la malattia. Queste ricerche vennero ampiamente confermate da Birt e, fra noi, da Napolitani e Tedeschi. Io tentai di riprodurre la malattia nelle scimmie, ma invano. sl La malattia è quindi prodotta da un virus filtrabile (invisibile virus) che è inoculato dal phledotomus papataci. Questo insetto, come hanno inse- — 138 — gnato le classiche ricerche del nostro Grassi, vive e si riproduce specie nei luoghi oscuri, reconditi, e nelle macerie. Messina e la vicina Reggio offrivano, con le loro rovine, comodo rifugio ai pappataci; e questo spiega il numero enorme di essi osservato nella decorsa estate. Quanto al modo come si sia sviluppata la epidemia, io non ho che una ipotesi da emettere. La malattia, come è noto, è endemica nella Dalmazia. Da questa è giunta nei luoghi del terremoto, coi navigli mercantili, una grande quantità di legname. È probabile che uno della ciurma, al quale, dopo i 4-7 giorni di incubazione, esplose la malattia all'arrivo a Messina, abbia infettato i primi pappataci, e da questi abbia avuto principio la epi- demia, che prima colpì i borghesi e poi i militari. Biolozia. — £icerehe sugli Iesini dell'olivo ('). Nota del dott. Mario Topi, presentata dal Socio B. Grassi. Hylesinus oleiperda Fabr. Il ciclo biologico dell’ Hylesinus oleiperda è molto più semplice di quello del fleotribo; ma, ciò nonostante, si avevano sui suoi costumi e sui danni che produce, notizie incerte ed inesatte. Le figure pubblicate delle gallerie dell'oleiperda sono molto lontane dal vero. L'H. oleiperda è molto più dannoso del fleotribo ; devesi alla scarsa prolificità, ai parassiti e ad altre cause nemiche che ne frenano la diffusione, se i danni da esso prodotti non sono ordinariamente ingentissimi. L’H. oleiperda infatti svolge il suo ciclo biologico intieramente sulle piante vive: e se attacca di preferenza piante trascurate per la coltura, 0 già invase da altri parassiti, non risparmia affatto le piante di normale vegetazione. Gli adulti dell'Z7. o/eiperda cominciano ad apparire in fine di maggio; alla fine di giugno, ben pochi sono gl’insetti non ancora usciti dalle gallerie, dove si sono sviluppati. I danni che l’oleiperda produce sulle piante, sono di due sorta: in primo luogo, delle erosioni, simili a quelle che il fleotribo compie alla ascella dei ramoscelli; poi, le gallerie di deposizione delle uova. Le erosioni si trovano a preferenza su piante mal curate, deperite od invase da altri parassiti. L'insetto inizia quasi sempre la sua erosione in corrispondenza di una protuberanza foliare, o inferiormente all'ascella dei ramoscelli: mentre il fieotribo scava di solito il suo covaccio al vertice, di- (*) Dal laboratorio di Anatomia comparata della R. Università di Roma. — 139 — remo così, dell'angolo acuto formato dalla inserzione di un ramoscello, l'olez- perda erode al vertice dell'angolo ottuso, che si forma inferiormente. La forma di questa erosione è ovale, penetrante nell'alburno, lunga, in generale, 4-5 mm. L’insetto, che penetra nel legno per un foro circolare poco più grande del suo corpo, erode poi immediatamente al disotto della cor- teccia; l'erosione ne resta quindi in parte coperta da uno strato sottile, che in breve si essicca, e con facilità si rompe, lasciando scoperta interamente l'erosione. Le ascelle dei ramoscelli vengono spesso gravemente danneggiate, con detrimento del ramoscello, che intristisce o si spezza. Le erosioni dell’o/eiperda si distinguono con facilità dai covacci del fleotribo, oltre che per la loro posizione, anche per la larghezza, che è sempre maggiore. Dopo aver passati diversi giorni sulle piante per potersi accoppiare, e per ricercare il luogo più adatto per deporre le uova, la femmina inizia la galleria, anche questa preferibilmente in una protuberanza foliare. Se le ero- sioni sopra descritte si trovano ordinariamente su piante trascurate e depe- rite, le gallerie di deposizione delle uova — pur trovandosi di preferenza su rami già per qualche causa indeboliti (fumaggine, cieloconium, ecc.) — non risparmiano rami di vegetazione normale. Le gallerie di deposizione delle uova sono per lo più escavate in ra- moscelli non oltrepassanti 1-1,5 cm. di diametro, ma si trovano anche in rami più grossi, o nel tronco di piante in deperimento. La galleria s'inizia con un foro circolare, procedendo secondo la direzione longitudinale del ramoscello; dopo pochi millimetri piega obliquamente a destra o a sinistra. Questo secondo tratto, che costituisce la vera galleria, si prolunga non più di un centimetro, più spesso meno: dalla parte opposta vi è spesso l’accenno brevissimo come ad un altro braccio della galleria: ma non è mai prolungato, nè vi abbiamo trovato uova deposte. Complessivamente, dal foro esterno alla estremità, la galleria dell’o/ei- perda non supera la lunghezza di un centimetro 0 un centimetro e mezzo. Come nelle erosioni, la galleria rimane coperta da un sottile strato di corteccia, che ben presto però si essicca e si lacera. Le uova sono deposte in nicchie scavate su ambedue i lati della galleria, come il fleotribo; entro la galleria, all’epoca della deposizione delle uova, non sì trova che la madre; appena deposte le uova, la madre abbandona la galleria. Effettuandosi le escavazioni su piante vive, la pianta essuda ordinaria. mente, dai tessuti lacerati, della gomma che riempie spesso buona parte della galleria. Il numero delle uova deposte è molto basso: il caso più frequente è che ne vengano deposte 10, cinque per lato; spesso un numero minore, di rado maggiore. — 140 — Le uova schiudono dopo una quindicina di giorni; ma raramente schiu- dono tutte quelle deposte: alcune sono distrutte dalla gomma, altre sono predate da insetti, che hanno facile accesso nella galleria, rimasta, per l’ab- bandono della madre, incustodita. Fin dalla deposizione delle uova, si ha dunque una prima riduzione del numero degli insetti che potrebbero nascere. Le larve, appena nate, cominciano a scavare le loro gallerie. Queste sono irregolarissimo fino dall'inizio; le larve, in principio, sembrano indugiarsi in vicinanza della galleria materna, donde a poco a poco si allontanano con frequentissimi cambiamenti di direzione, a brevissima distanza l'uno dall'altro; poi la galleria prende un andamento più deciso, con più lunghi tratti retti- linei; ma il percorso sì mantiene irregolare sino alla fine, volgendo ora la larva ad angolo retto, ora tornando indietro di fianco e contiguamente al cammino già fatto, ora proseguendo in curve continue. La causa di una tale irregolarità nel cammino delle larve deve evi- dentemente ricercarsi nel fatto che l’Hylesenus oleiperda, a differenza del fleotribo e, come vedremo, dell’Hylesinus fraxini, scava le sue gallerie nel legno vivo. Quindi in principio la larva si tiene in vicinanza della galleria ma- terna, dove l’escavazione di questa ha mortificato i tessuti circostanti; mano mano che la mortificazione si estende, le larve procedono nel loro cammino; ma l'affluenza dei succhi e la reazione della pianta, con l’essudamento della gomma, le obbligano spesso @ cambiare direzione. All'esterno, l’opera dell'oleiperda è tradita, oltrechè dal foro di aper- tura della galleria materna, da una macchia fosco-rossiccia, che si forma sulla corteccia. Nelle gallerie stesse delle larve, la gomma essudata può essere causa della loro morte, se la produzione della gomma è copiosa e rapida; spesso invece la gomma invade alcuni tratti della galleria, mentre la larva, che ha già cambiato direzione, procede nel suo cammino. Come il fleotribo, anche le larve dell’o/ezperda, costantemente avan- zando, lasciano dietro di sè la galleria interamente ostruita dalla rosura del legno e dagli escrementi. Le larve vivono nel legno dal luglio al maggio-giugno successivo, con- tinuando l’escavazione della galleria. Via via che procede l'escavazione della galleria, il ramo intristisce; l'essiccamento, iniziatosi presso la galleria materna, sì estende, se il ramo- scello è sottile, fino a comprendere una porzione circolare intorno al ramo- scello. che essicca così dalla parte lesionata fino alla cima. Verso la metà della primavera la larva si scava una celletta ovale più profondamente nell'alburno; questa celletta è sempre più profonda di quella del fleotribo, e in direzione normale all'asse del ramoscello. In essa la larva si trasforma in preninfa ed in ninfa. Alla fine di maggio cominciano ad uscire gli adulti, forando la corteccia in corrispondenza della celletta ninfale. — 141 — Abbiamo già accennato che un certo numero di uova ordinariamente non arriva a schiudere e che un certo numero di larve è ucciso per la for- mazione della gomma. Una causa ancora più ingente di distruzione è l’azione degli imenotteri parassiti. Questi agiscono contro le larve dell’o/eiperda nel modo già descritto parlando del fleotribo: perforano cioè la corteccia e de- pongono un uovo sulla larva sottostante; la larva che ne schiude, si sviluppa a spese di quella dell'o/eperda. Alcune specie di questi parassiti sono co- muni con quelle parassite del fleotribo. L'azione parassitaria di questi imenotteri si inizia già in agosto, quando le larve sono ancora nei primi stadî; altre larve vengono invece parassitiz- zate in primavera. Anche questi imenotteri escono perforando la corteccia, la quale può così presentare i fori del diametro di 1-1.5 mm. di uscita dell’oleiperda, e quelli di !/-!/, mm. di uscita dell’imenottero parassita. In generale, esaminando delle gallerie dell’o/e/perda in maggio-giugno, si trova che il numero delle larve che arrivano alla ninfosi non supera quasi mai la cifra di tre-quattro: non sono rare invece le gallerie da cui non esce nessun adulto, essendo tutte le larve perite per qualcuna delle cause suddette. Sono appunto queste cause, di origine parassitaria o non, che mantengono ordinariamente i danni dell’o/eiperda in proporzioni relativamente limitate. Hylesinus fraxini Fabr. L'Hylesinus fraxini ha costumi di vita molto simili a quelli del fleo- tribo. Attacca il Frassino, l’Olivo e, sembra, anche l’Olmo, il Melo e l’Acacia. Gli adulti, in primavera, abbandonano le rose corticali, che più avanti descriveremo, e vanno in cerca di tronchi o di grossi rami di olivo, abbat- tuti o tagliati. Mentre il fleotribo scava le sue gallerie nei rami di ogni grossezza, l’Mylesinus fraxini si trova soltanto sui grossi legnami. Le gal- lerie hanno la stessa forma di quelle del fleotribo, e da queste riconoscibili soltanto per il loro diametro. Un altro carattere che, dall'esterno, permette di distinguere le gallerie durante l'escavazione, è il seguente: dall’orificio della galleria del fleotribo — più piccolo — la rosura fuoriesce agglutinata, come un sottile cilindro attortigliantesi su sè stesso, ed è bianca, lieve- mente giallognola; dall’orificio della galleria dell’X. fraxini — più grande — la rosura esce a granuli più grossi, rossastra e non agglutinata: rimane presso l'apertura soltanto per la posizione del legno o le scabrosità della ‘corteccia. Come il fleotribo, l’H. /raxini depone le uova in nicchiette scavate sui lati della galleria; il numero delle uova deposte è ordinariamente superiore a quello del fleotribo: in media 60. La deposizione delle uova continua per un tempo più lungo: in fine di maggio si possono ancora trovare delle uova. Le larve scavano le loro gal- RenpIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 19 — 142 — lerie possibilmente perpendicolari alla galleria materna. In questa si tro- vano i due insetti durante la deposizione delle uova; ma poi l’abbandonano, e nessuno dei due vi resta, contrariamente al costume del fleotribo. I primi adulti si hanno in fine giugno; gli ultimi escono in fine agosto: i fori di uscita sono più grandi di quelli del fleotribo. Abbandonato il legno, ove si sono sviluppati, vanno sulle piante vive. Le piante che attaccano sono quelle sofferenti per qualsiasi cagione (difetto di coltura, di concimazione, cause parassitarie); le piante isolate, quelle pros- sime alle strade e, in genere, specialmente le più esterne, ai lati di un oliveto. Erodono sul tronco e sui grossi rami: su questi ultimi l'erosione s'inizia in corrispondenza di una protuberanza foliare. L'insetto erode immediatamente al disotto della corteccia, che ben presto si essicca e si lacera; se l'ero- sione è ampia, prende quasi l'aspetto di un rozzo merletto. Benchè l'insetto vi rimanga dal luglio-agosto alla primavera seguente, la parte erosa è piccola; ma negli anni successivi, altri Ilesini vi soprav- vengono, e le rose corticali — così sono chiamate dal Ratzeburg questi cu- nicoli che gli insetti si scavano per passarvi l'inverno — vanno a poco @ poco ingrandendosi. Per ciascuna rosa possono trovarsi diversi insetti. Queste lesioni — prodotte di preferenza su piante già sofferenti — sono di per sè causa di grave deperimento. Anche le larve dell’. fraxini sono in parte distrutte da larve di ime- notteri parassiti. Alcune specie di questi sono parassite tanto del fleotribo, quanto dell’H. fraxzni. Non indugiamo più oltre su ciò, riferendoci semplicemente a quanto abbiamo detto per il fleotribo e che dovremmo qui ripetere a proposito del- l'H. frazxini. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Presidente dell'Accademia senatore BLaseRNA presenta alla Classe il vol. I dell'Opera « Corpus Nummorum Italicorum » riguardante « Casa Sa- voia », offerto in dono da S. M. il Re. Mette in luce la straordinaria im- portanza dell’immane Opera, che occuperà circa venti volumi, e alla quale S. M. il Re consacra da lunghi anni tutta la sua energia di insigne numis- matico. Soggiunge che presentò sensi di grazie al Sovrano, il quale già con questo Volume si è reso altamente benemerito degli studî storici. Il Vicepresidente D'Ovipio, che presiede la seduta di Classe, aggiunge alcune parole di grato e riverente animo e di alto compiacimento, special- mente a nome della Categoria delle Scienze storiche. E. M. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. . 38 MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologsche. Vol. IV. V. VI. VII. VIII Serie 3* — TRANSUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturale. Vol. I. (1, 2). — IL (1, 2). — II-XIX. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIcoNTI Vol. I-VII. (1884-91). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XX. (1892-1911). 1° Sem. Fase. 2°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVIIT. (1892-1910). Fasc. 7°-10°. MemoRIE della Classe di sciense fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VIII. Fasc. 7° . MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1 Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. 10; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni :si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno Loescagr & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULgrIco HoepLi. — Milano, Pisa e Napoli. _—_—_———————__—_—___—_________—_——__—r—r- ct. a i ina i ì I RENDICONTI — Gennaio 1911. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 22 gennaio 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Bianchi. Alcune formole inedite di J. Weingarten n Applicazione A Po Volterra. Equazioni integro-differenziali con limiti costanti . . . . + SARE 0) Lauricella. Sulla funzione potenziale di spazio corrispondente ad una Ro azione esterna » Burgatti. Determinazione dell’equazioni di Hamilton-J acobi integrabili mediante la separa- zione delle variabili (pres. dal Socio Lew-Civita) . . . . RR Signorini. Sulla formola di Stokes che serve a determinare la fune da Godide (pres. dal Socio Pizzetti) (*) . - 2 a BO 0) Rolla. Su la dissociazione si ti idrati dai dal da CO SCE È ” Barbieri e Calzolari. Nuovi composti di sali ‘metallici idrati con i (Forme labili di idratazione fissate mediante una base organica) (pres. dal Socio Cia MUCVON) LEI RITO RASOI SE A SO VII Gai OLII Bellucci e Manzetti. Sulla sintesi droni dei ina (pres. dal SUR Pasca) sii) Sandonnini. Sali doppi fra il luoruro di piombo e gli altri sali alogenati dello stesso metallo (pres. dal Socio Ciamician)(*). . . y GIRO . i i Mato) De Angelis d’Ossat. Le rocce e le acque dell’ igr0 Rinano "lu ne chile pe dal Socio Pinotta) (A) a SR RA N RI n) Serra. Appunti mineralogici sulla miniera ‘di Ghlabora dio (pres. dal Socio Striver) go Camis. Contributo alla fisiologia del Labirinto. L'ergogramma della rana slabirintata (pres. dal Corrisp. Aducco) (È) +. . + - aan: foi Fulci e Basile. Un caso di Kala-Azar a To i dal toi 4 O o) Gabbi. Contribuzioni alla patologia dei paesi meridionali. Febbre dei tre giorni o da pap- pataci in Sicilia e Calabria (pres. UCRAINA Topi. Ricerche sugli ento dell’ol ivo (PBESSAA e ERA ATER Ae PRESENTAZIONE DI LIBRI Blaserna (Presidente). Presenta l’opera:di S. M. il Re « Corpus Nummorum Italicorum » inviata in dono all'Accademia; ne discorre rilevandone l’importanza e informando fi di aver già presentato sensi di grazie all’Augusto RONATONCCONTA E È) D'Ovidio (Vicepresidente). Aggiunge alcune parole di grato e riverente animo a nome du categoria: di scienze storiche! |. + 00 ie ei ir (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. 142 ” E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. | Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 5 febbraio 1911. N. è, Ac DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CECI. 1911 scri QI AA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 5 febbraio 191. Volume X X. — Fascicolo 3° SE SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI CAV. V. SALVIUCCI 1911 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quenta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze tisiche, matematiche enaturali valgono le norme seguenti : 1.1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, | due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. lie Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Socl © Gorrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, cha vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti iudi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro» priamente dette, sono senz'altro inserite neì Volumi accademici se provengono da Soci o < da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- . guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- - mia o in-sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. — 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivj dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall art. pre cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, ‘nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5.L’ Accademia dà gratis 75 estratti agli au- | tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messa s carico degli autori. ae Pdci fi iesitio S EI piantine Mie DI RITI DERE Lan: ADUNANZA DELLE DUE CLASSI, DEL 5 FEBBRAIO 1911 P. BLASERNA, Presidente » Nel dichiarare aperta la seduta plenaria, alla quale assistono in gran- dissimo numero gli accademici, il Presidente BLASERNA ricorda che quando, nell'adunanza passata, venne presentata l'opera « Corpus nummorum. itali- corum » inviata in dono da S. M. il Re, si pensò ad una manifestazione di ammirazione dell'Accademia verso l’Augusto Autore, per questo grandioso lavoro d'alto valore scientifico. L'Ufficio di Presidenza si fece allora inizia- tore della proposta di nominare S. M. il Re, Presidente d'onore dell’Acca- demia; e la proposta raccolse il plauso dei Soci, tra i quali inviarono la loro piena adesione, non potendo intervenire alla seduta, gli accademici: D'Ovipio F., D'Ancona, GaBBA, PincHERLE, BRIosIi, LORENZONI, Pizzetti, NaccarIi, CHiaPPELLI, FeRGOLA, SPEZIA, BERTINI, TIZzoNI, BiancHI, Borzì, RaJNA. D'Ovipio E., KorrNER, CeLORIA, Masci, MaTTI- RoLo. TaraMELLI, MageiI, Tocco, LovareLLI, CraMmIcIAN, DeL LunGo, VITELLI, LORIA. Il Presidente sottopone perciò la proposta all’adunanza; e il Socio Fr- NALI osserva subito che la nomina di S. M. a Presidente d'onore, dovrebbe esser fatta per acclamazione. Alle parole del sen. FinaLt, tutti i Soci si levano in pieni, plaudendo. La deliberazione dell’Accademia veniva immediatamente comunicata dal Presidente BrasERNA a S. E. il Ministro della Real Casa, col seguente telegramma: « Sua Eccellenza Nobile MATTIOLI PasqUALINI Ministro della Real Casa, Roma » « Reale Accademia Lincei, su proposta dell'Ufficio Presidenza, nella seduta odierna ha acclamato Sua Maestà il Re suo Presidente d'Onore. Questo voto non concerne soltanto l’Augusto Sovrano, il quale rendendo per- petui i premi fondati dal compianto suo Genitore, ha tanto contribuito allo RenpIcontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 20 — 144 — sviluppo scientifico del nostro paese: esso esprime l'ammirazione dell'Acca- demia per l'illustre numismatico, che con lunga lena ha preparato una opera classica, destinata a colmare una grande lacuna in una scienza con- templata dagli Statuti accademici ». « Prego V. E. di voler comunicare all’amato Sovrano il voto che pro- ruppe dai nostri petti, e confido che S. M. vorrà gradire la leale manife- stazione ». Presidente BLASERNA. RENDICONTI DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. NNT Seduta del 5 febbraio 1911. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOC! O PRESENTATE DA SOCI Matematica. — Sulle trasformazioni di Guichard delle su- perficie applicabili sulle quadriche. Nota del Socio Lurei BIANCHI. 1. Nella Memoria premiata: Sur la déeformation des quadriques (*) il sig. Guichard, riunendo le sue precedenti ricerche sull'argomento, assegna due diversi gruppi di trasformazioni per le deformate delle quadriche generali. Le trasformazioni del primo gruppo richiedono l'integrazione di una equazione differenziale di Riccati e successive quadrature. Per quelle del secondo gruppo occorre un'operazione analitica più complicata (ricerca di un determinante ortogonale del 4° ordine note le rotazioni) accompagnata ancora da successive quadrature. In quali relazioni stanno queste trasformazioni di Guichard con quelle By per congruenze W da me costruite? A questa domanda, posta giustamente dal sig. Darboux nel suo rapporto (*), siamo ora in grado, per quanto almeno concerne le trasformazioni di Guichard del primo gruppo, di rispondere com- pletamente. Dal confronto di miei risultati anteriori con quelli ottenuti dal sig. Ser- vant in due Note recenti (*) si ottiene infatti il teorema seguente: A) Ogni trasformazione di Guichard del primo gruppo si risolve in due successive trasformazioni elementari Bx, Bi col medesimo valore della (1) Mémoires des Savants étrangers, t. 34 (1909). (3) Comptes Rendus de l’Académie des Sciences, t. 147 (7 déc. 1908), pp. 1104-1109. (3) Sur les transformations des surfaces applicables sur les surfaces du second degré (Comptes Rendus, 12 et 27 décembre 1910). — 146 — costante k e di classe opposta; viceversa la composizione di due tali tras- formazioni Bx, Bi dà sempre luogo ad una trasformazione di Guichard. Nelle pubblicazioni sopra citate il sig. Servant dimostra come le tras- formazioni di Guichard del primo gruppo equivalgano alle trasformazioni Dy, da me introdotte nel 1905 (') come casi particolari delle trasformazioni di Darboux delle superficie isoterme. Ma, nelle mie ricerche sulla deformazione delle quadriche, lo studio di queste D, non fu che un primo passo per arrivare alle trasformazioni Bx per congruenze W, che io riguardo come le vere trasformazioni elementari della teoria. E già nella prefazione alla mia Memoria: 7Méorse des trans- formations des surfaces applicables sur les quadriques générales (?) avevo indicato che ogni trasformazione D, si sdoppia nel prodotto di due B, (cfr. ivi, n. XII dell'Apergu). Precisando ora il modo di composizione e confron- tando coi risultati del sig. Servant, si ottiene appunto il teorema A), che qui stabiliremo per via alquanto diversa. 2. Sia S, una qualunque deformata della quadrica fondamentale Q, e sia S. un’altra tale deformata ottenuta da S, con una trasformazione G di Guichard del primo gruppo. Le proprietà caratteristiche della trasforma- zione G, quali si rilevano dalla Memoria del Guichard (cfr. anche Servant, loc. cit.), sono le seguenti : a) Fra i punti delle due superficie S,,S. è stabilita una corrispon- denza che conserva i sistemi coniugati. 3) Al sistema coniugato permanente (uv) di S, corrisponde sopra Ss il sistema (v,v) coniugato permanente (5). c) Le tangenti in punti corrispondenti di S,,S alle linee () o alle linee (v) si incontrano. Cerchiamo dapprima se, componendo due convenienti trasformazioni ele- mentari B,, si può ottenere una trasformazione colle proprietà 4) 2) c), che sarà allora una trasformazione di Guichard. In questo dobbiamo tener pre- sente che ogni deformata S di Q dà luogo, per trasformazioni Bx, ad una doppia infinità di superficie trasformate. La prima costante X è quella che fissa la quadrica Q' omofocale a Q, la seconda dipende dalla direzione (ar- bitraria) assegnata ad un raggio iniziale della corrispondente congruenza W. Si ricordi inoltre che le trasformazioni By si distinguono in due classi op- poste, appartenendo le prime ad uno dei sistemi di generatrici di Q, le se- conde al secondo. (1) Vedi Ricerche sulle superficie isoterme e sulla deformazione delle quadriche (Annali di matematica, serie 3%, t. XI). (2) Savants étrangers, t. 34 (1909). (*) Per sistema coniugato permanente (u,v) di una deformata S della quadrica @ intendiamo quel sistema che resta coniugato quando S si applica sopra Q. A — Ciò posto, ad una deformata iniziale S di Q applichiamo due trasfor- mazioni B,, B, corrispondenti alla medesima costante # (alla medesima quadrica omofocale Q') ma di classe opposta, e dimostriamo: Le due super- ficie S,, So così derivate da S sono trasformate di Guichard l'una del- l’altra. Intanto poichè le trasformazioni Bx conservano i sistemi coniugati, e fra questi quelli permanenti, è manifesto che nella corrispondenza fra i punti di S,, Ss le condizioni 4) e è) sono verificate. Se ammettiamo per un mo- mento che anche la c) sia soddisfatta (v. n. 3), vediamo che nel passaggio da S, ad S, abbiamo una trasformazione G di Guichard. Ora questo pas- saggio si può scindere nei due successivi da S, ad S per mezzo di una Bx, poi da S ad S; con una B;, onde la nostra G risulta dal comporre le due elementari B,,B/, ciò che esprimiamo colla relazione simbolica (1) C= 1 Osserviamo poi che, entrando nella prima B, una costante arbitraria (oltre 4), ed una nuova nell'altra B,, la G composta secondo la (I) viene a dipendere da due costanti arbitrarie, e pel modo come queste vi entrano può identificarsi con una di qualunque trasformazione di Guichard, come viene asserito nella proposizione A). Un'altra via per arrivare alla medesima conclusione consiste nel con- siderare due delle superficie isoterme (speciali) X,, 2», che la costruzione di Darboux associa alle deformate S,,Ss della quadrica, e nel dimostrare che X,, 3. sono le due falde di un inviluppo conforme di sfere. Così la trasformazione D, che conduce da X, a X,, ed alla quale equivale secondo Servant la trasformazione G di Guichard, resta decomposta in due By ele- mentari. 3. Ritornando alla prima dimostrazione del teorema A), resta ancora da provare che per le due superficie S,,S», dedotte rispettivamente da S con una B, e.con una B;, ha luogo la proprietà c). Riserbando la tratta- zione del caso delle quadriche a centro ad altra pubblicazione, ove si da- ranno altresì ulteriori sviluppi relativi al teorema di permutabilità, mi limito qui ad indicare la dimostrazione pel caso dei paraboloidi ('). - Ricorriamo per ciò alle formole delle trasformazioni per le deformate ad esempio del paraboloide iperbolico stabilito negli Annali di matematica (1) Una dimostrazione affatto analoga a quella che segue nel testo per le deformate dei paraboloidi si può trarre per le superficie pseudosferiche (deformate della sfera im- maginaria) dalle formole per la composizione delle trasformazioni di Bàcklund date al $ 383, vol. II delle mie Zezioni. Così si dimostra: Se le superficie pseudosferiche Si, Sa derivano da una medesima S per trasformazioni opposte di Bicklund Ba, Bo, le tan- genti alle linee di curvatura corrispondenti di Si,Sa si incontrano. E si osservi che qui le linee di curvatura dànno appunto il sistema coniugato permanente. — 148 — 1906 ('), particolarmente ai paragrafi 9 e 20 di questa Memoria. Sia $ una deformata del paraboloide, S, una sua trasformata per la trasforma- zione Bs, ed S, un'altra trasformata di S per la B_;, che corrisponde ap- punto alla medesima quadrica omofocale come la Bs, ma al sistema opposto di generatrici. Colle notazioni del $ 20, Mem. cit., avremo per la super- ficie S, Mi dI (1) ci=44++ > 3a i dai _ 1ypaq ©) \ dU Gt tim fidi de _ 11p9, = te dove L,M,P,Q hanno i valori dati dalle (67) $S 20, Mem. cit. E formole come le precedenti avremo per la S,, per la quale indicheremo le quantità corrispondenti con Fi: A Ora il sistema (w,v) è appunto, tanto sulla S, che sulla S,, il sistema coniugato permanente, e per verificare che ha luogo la proprietà c) n. 2 basta provare che si annullano i due determinanti IAT NZ ei ONT ha dU du du , dv dU dV az 0 I ZI dU du dU | dv dU dv Colle formole citate l'annullarsi di questi due determinanti equivale alle due relazioni VA tu t | | 0) Ac oi A, — di nari SI B-B D—-D e queste, ricorrendo alle formole (35) S$ 9, Mem. cit., equivalgono all'unica INC Board (3) È: cile !IC—-C D— D| (1) Teoria delle trasformazioni delle superficie applicabili sui paraboloidi. — 149 — Se si prendono gli effettivi valori di A,B,C,D dati dalle (33) $ 9, Mem. cit., dai quali si deducono quelli di A,B,C,D cangiando o in —c e 6, in @,, si verifica subito che il determinante (3) prietà c) risulta stabilita. 4. Riprendiamo in generale la considerazione di una deformata S della quadrica Q e di due sue trasformate S,,Ss per mezzo delle Bx, Bi. Sap- piamo dal teorema di permutabilità che esiste una quarta deformata S' le- gata alla S, da una B, di seconda specie, ed alla Ss da una Bx di prima specie (!). Ora la coppia (S,S') si trova nelle medesime condizioni della (Sì, S:); vediamo quindi che: Ogni coppia (S,,S2) di deformate della quadrica legate da una trasformazione G di Guichard individua una tale seconda coppia (S,S'); le quattro deformate S,8,,S,,9' formano una quaderna del teorema di permutabilità, corrispondente al caso par- ticolare di due trasformazioni Bx colla stessa costante k e di classe opposta. Si può dire insomma che, nel metodo di Guichard, fra le quattro de- formate luogo dei vertici del quadrilatero del teorema di permutabilità viene diretta l’attenzione soltanto sopra due superficie luogo di due vertici opposti. Invece la considerazione di tutte quattro le superficie e del passaggio da una qualunque di esse ad un'altra contigua conduce alle trasformazioni ele- mentari B,. 5. Fra le trasformazioni G di Guichard del primo gruppo ve ne ha una che l’autore ottiene per mezzo delle così dette congruenze K, 20 e sulle cui proprietà geometriche egli richiama particolarmente l’attenzione (Mémoire, p. 2, et Rapport de M. Darboux, p. 1107). È facile riconoscere che queste particolari trasformazioni G corrispondono, nella formola di de- composizione (I}, al caso in cui la quadrica omofocale Q' appartenente alle due trasformazioni componenti, si riduce ad una delle coniche focali, cioè al caso in cui le B,,B, sono trasformazioni singolari. Si consideri infatti una deformata S della quadrica Q e le sue col trasformate S, per mezzo di una trasformazione singolare Bx, appartenente ad una conica focale C. Il luogo dei punti M, della S,, corrispondenti ad un medesimo punto M di S, è una retta 7 nel piano tangente in M alla S, precisamente quella in cui, quando @ rotola sopra S e viene a toccare S in M, il piano della conica C viene ad intersecare il detto piano tangente. Di più i piani tangenti nei punti M, della retta 7 alle S, inviluppano il cono che da M projetta la conica focale C, trascinata nel rotolamento. In fine risulta da un teorema generale di Darboux (Zecons, t. IV, pag. 135) che le sviluppabili delle congruenze delle rette 7 corrispondono al sistema coniugato permanente di S, quindi anche a quello di una qualunque S,; si annulla, e la pro- (') Soltanto nel caso del n. seguente di trasformazioni Bx singolari la S' coincide con S. — 150 — le dette sviluppabili segano adunque ciascuna superficie S, nel suo sistema coniugato permanente. Queste sono in sostanza le proprietà caratteristiche di queste speciali trasformazioni di Guiehard, che fanno passare da una di queste deformate S, ad un’altra. Possiamo dunque dire: Le trasformazioni di Guichard per congruenze K,20 risultano dal comporre due trasformazioni Bx singolari corrispondenti alla medesima conica focale. 6. Le considerazioni sopra esposte pongono, mi sembra, sufficientemente in luce le relazioni delle trasformazioni G di Guichard del primo gruppo, colle mie By per congruenze W, e confermano che queste ultime compiono l'ufficio di trasformazioni elementari. Se si confrontano i due metodi di trasformazione, quello per trasforma- zioni G coll’altro per le Bx, applicati ad una deformata iniziale qualunque S di una quadrica, è ben chiaro che il primo dà solo una piccola parte delle superficie trasformate ottenute col secondo, ed invero quelle soltanto che risultano dal comporre coppie di trasformazioni B,, le due di ciascuna coppia appartenendo inoltre alla medesima quadrica omofocale ed a sistemi opposti di generatrici. In particolare, confrontando i due metodi nel caso che la quadrica Q sia una sfera (immaginaria) e le trasformazioni elementari con- siderate siano le complementari, vediamo che il primo metodo porta ad eseguire solo potenze della trasformazione complementare con esponente pari. Restano per altro ancora da considerare le trasformazioni di Guichard del secondo gruppo, delle cui eventuali relazioni colle Bx nulla è noto finora. Ritengo probabile che anche queste debbano risolversi in prodotti di tras- formazioni Bx; ma alla loro natura analitica più complicata deve corrispon- dere un modo più complesso di decomposizione in trasformazioni elementari. Fisica-matematica. — Sulla distribuzione dell'elettricità in equilibrio nei conduttori. Nota del Corrisp. E. ALMANSI. 1. Aggiungo ad una Nota di ugual titolo pubblicata in questi Rendi- conti (a. 1910, 2° sem., fasc. 11°) alcune osservazioni le quali permettono di dare al problema ivi considerato una risoluzione ancora più semplice. Si avevano due superficie chiuse, o e 0,, questa contenuta nell'interno di quella, e si trattava di distribuire sulla superficie esterna o una massa M in modo che in tutto lo spazio So; limitato da 00, la grandezza della forza risultasse inferiore od uguale ad un numero assegnato £. Abbiamo perciò considerata una terza superficie 7, compresa fra 0 e 00, non avente. nè con o nè con 0, punti a comune; ed abbiamo detto il potenziale di una massa uguale ad M situata sulla superficie 7. Questa massa M poteva essere distribuita in modo arbitrario; ma noi stabiliremo — 151 — ora che essa sia concentrata in un punto Q, di 7; e introdotta, come nella Nota precedente, la quantità a= [49 dS, S supporremo di determinare la posizione di Q, in maniera che A assume il valore minimo. Dal potenziale siamo passati al potenziale 4, ponendo g, = 9 — ap, ove 4 denota una costante, p il potenziale di due masse +le_-]1, situata in due punti Q e Q' di 7. Dunque @; sarà il potenziale di fre masse, M, —a4e +a, situate in tre punti, Q,Q e Q, di 7. Il potenziale succes- sivo 9» sarà dovuto a cinque masse situate in altrettanti punti di Gi; \el'così di seguito. In generale, il potenziale ; sarà dovuto a 27 + 1 masse situate in 2241 punti di 7. E la somma algebrica di queste masse sarà sempre uguale ad M. Determinate convenientemente la costante 4, la coppia di punti Q e Q', e le successive costanti e coppie di punti analoghe, si è veduto che per un valore di 2 abbastanza grande, la massa M, distribuita sulla superficie 0 con densità h=—- = (n= norm. est.), dà luogo ad una forza la cui grandezza in nessun punto di S, è superiore ad «. Ora mostrerò che, dato e, si può determinare 4 priori un numero in- tero I per il quale è soddisfatta questa condizione, che esiste un numero intero ‘= 1 a cui corrisponde un potenziale g;, e quindi una distribuzione della massa M sulla superficie © (con densità 7;) che nello spazio So dà luogo ad una forza non superiore, in alcun punto, ad «. Si presenta allora naturalmente un procedimento più semplice per la risoluzione del problema. Invece di calcolare tutti i potenziali 4,12, ecc., consideriamo senz'altro un potenziale, che diremo ®, dovuto a K=21+1 masse, la cui somma sia uguale ad M, situate in K punti di 7; e posto determiniamo i valori e le posizioni di queste K masse in maniera che la forza F, dovuta alla massa M distribuita sulla superficie © con densità H, risulti, in tutto lo spazio So, uguale ad «, o minore. Ciò è possibile. Infatti, essendo :=I, e quindi 2;4+-1=2I+1, si potrà, per esempio, supporre che soltanto 2; -- 1, delle 21-|-- 1 masse da cui ha origine la densità H, siano diverse da zero, e che esse abbiano precisamente quei valori e quelle posizioni a cui corrisponde la densità %;. RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 21 — 152 — Non conoscendosi il numero % (di cui si sa soltanto che è ="1), per esser certi che la condizione F = « risulti verificata, stabiliremo di dare alle K masse da cui ha origine la densità H, valori e posizioni tali che nello spazio Si él massimo valore della forza F sia il più piccolo pos- sibile. Il problema si riduce così a determinare il numero intero I, e con esso l’altro numero intero K. 2. Consideriamo la formula (4) della Nota precedente, e le successive I analoghe, I rappresentando per ora un numero intero qualunque: A, =A —-@, Ai Ai AL;=AI[—al. Sommando membro a membro avremo: AL=A—-(o+a +-+), aba + +al=A-ALa; OVVero : d'onde si deduce, poichè AI., è una quantità (come A, A;, ecc.) essenzial- mente positiva: ata + + 1l — ove i P, sono i soliti coefficienti di Laplace, e /(0', 0) è una funzione di 6',v' indipendente da 7 e finita, continua, e, se occorre, soddisfacente anche ad altre condizioni di regolarità — considerata come funzione di 60' VT integrabile termine a termine sulla sfera di raggio 1. 1. La serie (1), quando al sistema di coordinate (0, 0) si sostituisca un nuovo sistema di coordinate polari sferiche (y,) col polo nel punto (6, v), posto /(0",0)= F(y,), prende la forma YI 2 P,.(cos y) F(7, ©). D'altra parte la serie Il SS] P,.(cos y) è convergente, ed anzi (v. Pizzetti, Nota cit., $ 5) facilmente se ne trova la forma che è data da D(cos y) = cosec 5 +1 —5 cosy—6sin 2 +3 cosylog (sin —sin:2). Posto I, ipo. avremo dunque certamente, indicando, secondo il solito, con X,(x) i coeffi- cienti di Legendre, 2r (o) 9 1 | cm 0 9 1 Ji do} S n P,(00 ; 0v') f(0v') “2 — X(c) W(2), 2 ove la w(x) potrà supporsi, oltre che finita e continua, anche dotata di un numero finito di oscillazioni in tutto l'intervallo (—1, 1) in cui può va- riare %. eo = Ora si dimostra senza difficoltà (1) che sì ha 2 Tee ( nl O) Xe) de=} 3,41 se o #6 2 Mo La possibilità di integrare termine a termine la serie (1) resterà dunque provata una volta dimostrato il teorema seguente: (!) Poniamo de,s=V1+8— 262: avremo allora, come è ben noto, (a) IL) dé ,g e quindi anche, almeno se |f|<1 6/1 NA () sf ada gn (c°) Ma, essendo la serie > dat per x +1 sempre convergente, sarà pure 9 = gi NIE (2) aa Lio ea. e quindi (Co) 9 1 (°°) (ce) XE ( s(2)= nil x, ()=? >X(+327 na) _ 1 n VIAVaeE li (ur) D'altra parte dalle («) (8) segue immediatamente, per |É|<1, Si de __ {0 se n<2 (fc x.(0)( put) senz? val in 1 dé' il sen <2 cos (i ce I Di US 5 5 Te n=2 e di più facilmente si vede che lim 'x,(2)( 1 —1-82)de= x)(7--1-2)de —1l A Il dise s=1 1 DI 1 fi CLIRENI 1 (+—- ge )E Lim f Xx(e)de [ (e) SÒ = f xstade [ de, x Lara Alta E=1 Sarà dunque infine vata A te =@41) fslo(7-1-9) do + 1 de (0) sen<2 2n » fx 0)d2 ("( —1_-é ) = tà si USE ohi ny sen=2 FO c. d. d. — 157 — Sta /(x) una funzione di x nell'intervallo (—1,1), la quale: 1°) è sempre finita e continua insieme alla sua derivata prima f'(2), fatta eccezione al più pel punto «=1 ove, m essendo un numero determi- nato <1, f(x) diviene infinita di ordine non superiore a Agra (O 2°) presenta nell'intervallo totale (—1,1) wu numero finito di oscillazioni. Sta poi w(x) una funzione di x che nell'intervallo (—1,1) soddisfa alle condizioni di Dirichlet. Avremo allora, per —1 FeCy°K' — «ferricianuro. Questa trasformazione si svolge quantitativamente, risultando con ciò che i sei gruppi (CN) del S sale vanno integralmente ed unicamente 2 for- mare i sei gruppi (CN) dell’asale, e servendo nello stesso tempo a dare una conferma analitica sicura della formula FeCy°K?, H°O che compete al È sale. 6. Dal complesso dei fatti osservati, specialmente dalle facili e mutue trasformazioni ora accennate, è evidente che il f ferricianuro è un isomero del comune prussiato rosso, o, per esprimersi più esattamente, il f ferricia- nuro è il rappresentante di una serie di prussiati isomeri con i comuni fer- ricianuri. = =_ _rc—— detto Grce Pa — 178 — Ecco in breve riassunti i risultati cui sono giunti Locke ed Edwards con le loro accurate ricerche. Malgrado i numerosi fatti constatati questi autori non hanno però emesso alcuna conclusione circa le cause che possono determinare l’isomeria di questi due prussiati, mancando loro in realtà la necessaria base sperimentale. A tale proposito essi si esprimono anzi nel modo seguente ('): « In regard to the constitution of the f-ferricianic group we have little to state. Any attempt to assign a definite structural formula to it would, for the present, be pure speculation. The suggestion offers itself that one of the two isomers contains isonitril groups, the other nitril groups. But this view, at least, is absolutely refuted by the identical behavior of the two on reduction. So far as we can find, there are no cases hnown where isomers containing respectively the — CN and — NC groups yeld the same product with nascent hydrogen ». Vedremo, più oltre, come sia priva di fon- damento questa asserzione dei due chimici americani, in base alla quale si verrebbe ad escludere un’isomeria di struttura per il solo fatto che i due ferricianuri isomeri trattati in soluzione acquosa con idrogeno nascente dànno lo stesso ferrocianuro. Dimodochè questo caso di isomeria ha esistito fino ad oggi non chiarito nella letteratura chimica, tantochè il Werner nell'ultima parte del suo trat- tato (?), nella quale riassume tutti i mirabili studî compiuti nel campo delle isomerie inorganiche, pone l'isomeria dei due ferricianuri fra i pochi casi non ancora spiegabili di fronte ai moltissimi che egli è riuscito a chiarire e disciplinare, così esprimendosi in proposito: « Dieser Isomeriefall ist seither nicht mehr untersucht worden. Eine erneute Untersuchung wàre sehr win- schenswert, da die bis jetzt vorliegenden Beobachtungen keinerlei Aufschluss iber die Natur der Isomerie geben >, A quale causa può pertanto essere dovuta una simile isomeria, date le conoscenze che oggi si hanno? Non può trattarsi di fenomeno stereochimico, perchè nei complessi MA, per tutte le cognizioni che finora si hanno, è a tale uopo necessario per lo meno la presenza di due radicali coordinati diversi (MA,B») (*). Non si tratta (1) Loc. cit., pag. 205. (2) Neuere Anschauung. auf dem Gebiete der Anorgan. chemie, 2* ed., pag. 291. (3) Briggs (Journ. of the Chemic Soc., 9.3, 1564, 1908), prendendo in esame alcuni punti della teoria della coordinazione, ha tuttavia creduto di potere teoricamente spiegare la causa dell’isomeria dei due prussiati in questione, legando in vario modo i tre atomi di potassio ai sei gruppi cianogeno che, nel caso del radicale Fe(CN)° vengono posti ai sei vertici dell’ottaedro Werneriano. Il Briggs in tal modo svisa i concetti che per opera del Werner hanno ormai trovato sì larga e feconda estenzione e, mentre per il resto l’applica integralmente, non fa che modificare, senza alcun nuovo fondamento, una delle basi della teoria Werneriana, che cioè i radicali ionizzabili di un sale com- plesso devono immaginarsi collegati a tutto l’insieme del radicale complesso e non ora all'uno ora all’altro dei gruppi coordinati. — 179 — di un caso di polimeria, perchè, come più oltre vedremo, le esperienze crio- scopiche che noi abbiamo eseguite sulla soluzione acquosa del g-ferricianuro (soluzione che sì mantiene inalterata durante l’esperienza) dimostrano che questo sale subisce in soluzione acquosa lo stesso grado di dissociazione elettrolitica dell’a-sale. Non rimane perciò, a spiegare il caso in questione, altro che l’isomeria di struttura, vale a dire ammettere che uno dei radicali ferricianici abbia costituzione nitrilica [Fe(CN)°]"", l'altro quella isonitrilica [ Fe(NC)°]"". Era necessario pertanto di provare sperimentalmente che trattasi in realtà di tale isomeria, la qual cosa urtava contro la difficoltà che non si posseg- gono finora reazioni generiche, sicure, per differenziare nettamente la costi- tuzione nitrilica od isonitrilica dei cianuri metallici, sovrattutto per la grande trasformabilità del gruppo — NC in quello — CN. Dando infatti uno sguardo generale ai numerosi tipi di reazione che può offrire un solo cianuro metal- lico si ha che alcuni di essi parlano per la forma nitrilica, altri per la forma isonitrilica, alcuni altri invece concordano bene con entrambe le forme. Non è qui certo nostra intenzione di addentrarci in un esame puranco molto superficiale della letteratura che si ha in proposito, letteratura tanto estesa quanto piena di dati controversi. Prima di procedere oltre non pos- siamo però trascurare di dar cenno di alcune ricerche le quali presentano | un carattere più generico delle altre e sembrerebbero quindi a prima vista | potersi adattare anche all’esame del caso da noi preso in considerazione. Sono queste sovrattutto le esperienze di alchilizzazione eseguite dal Guil- lemard (1), il quale sottoponendo molti cianuri metallici a varî agenti di | | alcolizzazione (ioduro, solfato, solfovinato alchilico), ha osservato che in ge- 1 nerale dai cianuri metallici si ha formazione di carbilamine se la reazione ha luogo a bassa temperatura; si hanno invece nitrili se la temperatura | | oltrepassa un certo limite. Il Guillemard discutendo questo risultato per | risalire alla struttura dei cianuri metallici, ammette che nelle condizioni ' accennate i nitrili non prendono origine direttamente da questi cianuri, ma Il devono interpretarsi come prodotti di isomerizzazione delle carbilamine for- matesi inizialmente a bassa temperatura. Perciò il Guillemard, per il fatto | che i cianuri metallici semplici dànno origine a bassa temperatura a carbi- | lamine, in accordo con le vedute che Nef ha esposto in una sua ben nota Memoria (*), ritiene che tali cianuri corrispondano per lo meno a questa temperatura alla formula isonitrilica Me—N=C. Oltre a numerosi cianuri semplici il Guillemard ha sottoposto a varî agenti di alcoolizzazione anche dei cianuri complessi, tra cui per l'appunto i ferro e ferricianuri. I ferrocianuri di potassio, di piombo e di argento, trattati (*) Bull. Soc. Chim., 37,1, 269, 530 (1907); Compt. Rendu, 143, 1158; 144 141, 326. (2) Liebig*s Annalen. 287, 265 (1895). — Je con ioduro d'etile danno origine al ferrocianuro d’etile, il quale si dissocia a 80° in un miscuglio di nitrile e di carbilamina, in cui la proporzione di car- bilamina passa per un massimo, poi tende verso zero a misura che la tempera- tura si eleva. I ferricianuri di potassio e di argento si comportano come i prece- denti, con la differenza che il nitrile non prende origine che a partire da 140°. Sebbene il Guillemard in linea generale sia propenso a considerare i cianuri metallici come isocianuri, la costituzione di questi sali non resta decisamente chiarita con le sue indagini, giacchè egli ha ottenuto da essi miscugli di nitrili e di carbilamine, variabili con le condizioni sperimentali (tempera- tura), con la natura del metallo ‘e financo con quella dell'agente aleooliz- zante. Vanno parimenti ricordate le ricerche compiute da K. A. Hofmann e Bugg (*), sempre allo scopo di portar luce sulla costituzione dei cianuri me- tallici. Questi autori, affrontando il problema da un altro punto di vista, hanno posto a confronto i nitrili e le carbilamine nel comportamento verso i sali metallici. Tenendo presente che i cianuri metallici sono fra i sali quelli che banno una massima tendenza a dare composti di addizione, essi hanno sperimentato i nitrili e gli isonitrili in rapporto alla loro facoltà di legarsi con i sali metallici. Con ciò sono giunti alla conclusione che i sali metal- lici hanno tendenza notevole a combinarsi con le carbilamine, dando com- posti doppî molto stabili e del tipo dei cianuri complessi, mentre non hanno alcuna o pochissima tendenza a combinarsi con i mitrili. Può perciò dirsi, in linea generale, che le carbilamine solo e non i nitrili imitano i cianuri metallici nella grande facoltà di formare composti di addizione, il che logi- camente porterebbe ad ammettere i cianuri metallici costituiti secondo il tipo delle carbilamine e non dei nitrili. Evidentemente questo metodo di indagine non porta parimenti a risultati sicuri, sia perchè da esso non sì traggono che deduzioni molto indirette, sia perchè esistono anche composti ben cristallizzati, derivati dai nitrili, ad es.: Cl? Pt(C°H° —C=N)? e Cl? Pt(CH° — C=N)?, i quali, per quanto sieno molto meno stabili di quelli corrispondenti alle relative carbilamine, escludono la possibilità di dare con- clusioni decisive e nette. Tuttavia anche Hofmann e Bugg, come il Guil- lemard, sono portati, come si è visto, a ritenere la costituzione dei cianuri metallici secondo il tipo isonitrilico. Adottando questi metodi di indagine ognun vede adunque come non po- teva da parte nostra trarsi alcun criterio sicuro da applicare allo studio dei due prussiati isomeri, ed è solo percorrendo una nuova via che crediamo di essere riusciti nel caso speciale a dare una dimostrazione palese della isomeria nitrilica ed isonitrilica che a questi compete. (*) Berichte, 40, 1772, 3759 (1907). — 181 — È ben nota la reazione scoperta da Pinner (‘), consistente nella trasfor- mazione dei nitrili in imidoeteri. Facendo agire HCl gassoso ben secco sopra un nitrile in presenza di un alcool anidro si forma l’imidoetere corrispon- dente sotto forma di cloridrato. Così ad es.: nel caso dell'acido cianidrico e di alcool etilico si ha il cloridrato del formimidoetere : H HON-+HC1-+ CH;0H = CENE X\00,H;. HO1 Più tardi Freund ha applicato questa reazione di Pinner ai gruppi CN contenuti nel ferro e ferricianuro di potassio, ottenendo un risultato tanto importante per quanto singolare (*). Egli trovò cioè che tanto il ferro come il ferricianuro di potassio sono capaci di dare la reazione di Pinner, esten- sibile a tutti i sei gruppi CN contenuti in ognuno di essi. Così ad es. per il prussiato giallo si ha: NH K,Fe(CN); — HyFeC; < Mo roI (0C2Hs)e L'edificio molecolare dei due prussiati resiste come vedesi nel suo tipo, giacchè sono soltanto i sei gruppi CN che entrano in reazione, manifestando con ciò una certa indipendenza, contro l'ipotesi antiche di forme cicliche ammesse nella struttura dei prussiati stessi. Prende in tal modo origine questo singolare imido etere del ferro che cristallizza splendidamente dalla soluzione alcoolica. Noi abbiamo voluto sperimentare se il prussiato verde isomero ottenuto da Loke ed Edwards, posto in condizioni perfettamente identiche fosse ìn grado come il prussiato rosso di formare il ferro-imidoetere; tanto più che la reazione stessa di Pinner si compie blandamente, senza elevazione di tem- peratura, in ambiente anidro, vale a dire in condizioni favorevoli ad evitare trasformazioni isomeriche. È perciò che abbiamo intrapreso le ricerche che verranno esposte nella Nota sotto indicata. Chimica. — Sopra un caso di isomeria di struttura nei cia- nuri metallici. Nota di I. BeLLucci e G. SABATINI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (*) Berichte, /0, 1889, (1877). (2) Berichte, 2/, 931, (1888). — 182 — Chimica. — Azione delle amidine sulla cianquanidina (*). Nota preliminare di A. OstROGOVICH, presentata dal Socio E. PATERNÒ. È noto che la cianguanidina addiziona facilmente l’ammoniaca e le amine, dando origine alla biguanide o alle biguanidi sostituite; d'altra parte con- densando la cianguanidina coll'urea (°) o la guanidina (*), si ha nello stesso tempo eliminazione di una molecola d'ammoniaca, producendosi così la chiu- sura di un nucleo triazinico, con formazione, rispettivamente, di ammelina o di melamina. Partendo da questi dati, ho fatto reagire la cianguanidina coll’acetami- dina e la benzamidina, sperando appunto, di avere in primo luogo l’addi- zione e quindi l'eliminazione d'ammoniaca, con produzione di acetoguana- mina e di benzoguanamina (metil-, e fenil-diamino-triazina). L'esperienza mi ha pienamente confermato queste previsioni e la rea- zione si può rappresentare, in modo generale. coi seguenti schemi: R | C= NH HN NH, Ùi Ù . NH EN | E N R R | | cem, NE CEN YA | (— NH) A » HN OCO—- NH — —°) HN C=NH SH, VA | H || SC NH NH (Prodotto intermediario non isolato) oppure la sua forma tautomera diaminica. (1) Questo lavoro e l’altro che segue erano pronti fino dall'aprile dello scorso anno, ma per diverse disgraziate circostanze, mi è stato impossibile di redigerli. (*) Smolka e Friedreich, Monatsh. f. Ch. IX, 701 (1888). (3) Id. ibid., X, 93 (1889). — 183 — Spero, invero, che questo nuovo metodo di sintesi potrà divenire gene- rale, non solo per le alchil-diamino-triazine, ma anche per quelle ariliche e soprattutto per queste ultime esso ha una grande importanza. È noto infatti che le alchil-guanamine (alchil-diamino-triazine), scoperte e studiate soprat- tutto dal Nencki (1), si possono preparare anche in altri modi (*) e che, più o meno, esse si ottengono con un rendimento abbastanza rilevante. Per contro le aril-diamino-triazine rimasero sconosciute fino a che l’Elzanowski, appli- cando, dietro consiglio del prof. Ernst von Meyer, il metodo Nencki a qualche sale della guanidina con acidi monobasici arilici, riuscì ad ottenere la ben- roguanamina (fenil-diamino-triazina), la saliciloguanamina (p. ossifenil-dia- mino-triazina) e la fenilacetoguanamina (benzil-diamino-triazina). Lo studio di queste basi e di alcuni loro derivati formò una parte della sua tesi di laurea, sostenuta nel 1898 all'Università di Friburgo in Svizzera (5). Dal lavoro dell’Elzanowsky risulta che questo metodo, applicato ai sali della gua- nidina cogli acidi arilici, dà un rendimento assai scarso in guanamine, tanto- chè, partendo sempre da circa 90 gr. di benzoato di guanidina, non ha po- tuto ottenere che 6 a 9 gr. di benzoguanamina, vale a dire il 18-20 °/ del teorico; ancora peggiori risultati ha ottenuto dal fenilacetato di guani- dina e cioè appena 1°8 °/ del teorico. Per contro il metodo, che descrivo in questa Nota, dà, almeno nei due .casi esperimentati, dei rendimenti molto superiori e che giungono fino al 60- 70 °/o del teorico. METIL-DIAMINO-TRIAZINA. Condensazione della cianguanidina coll'acetamidina. Un miscuglio ben secco di 2 grammi di cianguanidina e di grammi 2,5 di cloridrato di acetamidina (calcolato gr. 2,16) si scalda a bagno di acido solforico. Verso 100° la massa comincia a rammollire, e a 180° tutto è fuso in un liquido incoloro e trasparente. Si innalza allora la temperatura, agitando sempre col termometro, ma non si osserva alcun cambiamento nel liquido fino a che, verso i 210°, cominciano a svolgersi delle bollicine di (‘) M. Nencki, Ber. VII, 776 e 1584 (1874); Idem, IX, 228 (1876); vedi anche i suoi allievi E. Bandrowski, Ber. IX, 240 e soprattutto C. Haaf, J. f. pr. Ch. [2] 43, pag. 75 (1891). (3) E. Bamberger e W. Dieckmann, Ber. XXV, 534 (1892); vedi anche Otto Diels, Ber. XXXII, 694 e 1219 (1899). (2) Debbo alla squisita gentilezza del prof. A. Bistrzycki, dell’Università di Friburgo, un esemplare della tesi dell’Elzanowski, che non si trova in commercio; colgo quindi cou piacere quest'occasione per rinnovargli i miei più sentiti ringraziamenti. È da notare che le aril-diamino-triazine, ottenute dall’Elzanowski, non sono passate nella letteratura chi- mica perchè, come mi ha gentilmente comunicato il prof. Ernst von Meyer, questo la- voro dell’Elzanowski non è stato pubblieato ulteriormente. RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 25 — 184 — ammoniaca. A 220° lo sviluppo è assai forte, e dopo poco sì precipita un composto in cristallini bianchi (probabilmente il cloridrato di metil-diami- no-triazina). Si aumenta ancora, gradatamente, la temperatura fino a circa 230°, e si mantiene così 8 o 10 minuti; l'ammoniaca continua a svolgersi, e una parte del precipitato si discioglie. A questo punto sì sospende il riscalda- mento, si toglie la provetta dal bagno e sì lascia freddare. L'operazione dura al massimo una mezz'ora. Il prodotto freddato si scioglie facilmente e completamente in acqua calda, e per raffreddamento si rapprende in una massa gelatinosa bianca, caratteristica per i sali basici dalla metil-diamino-triazina. Siccome questi sali basici non cristallizzano che dopo un lungo riposo in seno al liquido e sono di più difficile purificazione, è preferibile di trasformare tutto il pro- dotto della reazione in sale neutro, sciogliendolo in acqua acidulata con acido cloridrico. Concentrando, se è necessario, questa soluzione cloridrica, dopo averla decolorata in caso di bisogno con un po' di carbone animale, cristallizza il cloridrato neutro di metil-diamino-triazina (2 grammi) sotto forma di aghi appiattiti, perfettamente incolori e riuniti in parte concentrica- mente. Dalle acque madri si può separare ancora una parte di questo clo- ridrato (circa gr. 0,6), peraltro in aghetti più piccoli e leggermente impuro per cloruro d’ammonio. Il rendimento totale è del 65 al 70 °/, del teorico. La metil-diamino-triazina è stata identificata con sicurezza non solo per la proprietà che ha di cristallizzare dall'acqua in laminette rombiche (!), incolore, contenenti una molecola d'acqua di cristallizzazione, la quale si eli- mina spontaneamente all'aria; ma anche per mezzo del suo picrato, fusibile con decomposizione a 275° (*) e infine per mezzo della reazione colorata caratteristica che essa dà coll’iodio (*), reazione che ho scoperto sei anni or sono in seguito ad altre mie ricerche su questa base. Non ho quindi cre- duto necessario di farne l’analisi e mi sono limitato soltanto a dosare l'acido cloridrico nel suo cloridrato, col metodo del Volhardt, ottenendo resultati perfettamente concordanti col calcolato. FENIL-DIAMINO-TRIAZINA. Condensazione della cianguanidina colla benzamidina. Per questa condensazione si può adoperare tanto il cloridrato di ben- zamidina con 2 molecole d’acqua di cristallizzazione, quanto il sale anidro, (®) Vedi Haaf, loc. cit. pag. 84. (2) A. Ostrogovich, Contributiune la studiul Metil-diamino-triazinei. Bul. Soc. Sc. Bucarest, vol. XIV, pag. 54 (1905); Ref. in Chem. Centralbl. 1905, II, pag. 1358. (3) A. Ostrogovich, Sur une réaction colorée caractéristique pour la Meéthyl-diamino- triazine. Bull. Soc. Sc. Bucarest, XIV, pag. 317; Ref. in Chem. Centralbl. 1905, II, pag. 1360. lio —- che si ottiene da quello idrato, mantenendolo, per un certo tempo, nel vuoto sopra acido solforico, come ha indicato il Pinner ('). Se si adopera il sale idrato, è molto conveniente di asciugare, di tanto in tanto, con un rotolino di carta da filtro, le pareti della provetta in cui si fa la reazione, e ciò per impedire che l’acqua condensata ricada sulla massa fusa. In questo modo si impedisce quasi totalmente la formazione di benzonitrile che altrimenti si produce in quantità abbastanza rilevante, come si può riconoscere dall'odore pronunziato di mandorle amare, che si svolge durante il riscaldamento. Grammi 2 di cianguanidina, mescolati intimamente con grammi 3,8 (cale. gr. 3,7) di cloridrato di benzamidina +2 H,0, si scaldano a bagno d'acido solforico. A 50° la massa comincia a fondere; a 110° tutto è fuso e per innalzamento graduato della temperatura si elimina dapprima l'acqua di cristallizzazione contenuta nel cloridrato di benzamidina. Perciò si deve avere la precauzione anzidetta di asciugare di tanto in tanto le pareti della provetta, finchè l’acqua si sia completamente eliminata. A 180° la massa ingiallisce leggermente e comincia a svolgersi l’ammoniaca, che va aumen- tando col crescere della temperatura. Si continna ad innalzare la tempera- tura finchè il termometro, che serve anche da agitatore, arriva a 220°-280°, mantenendola così circa cinque minuti, vale a dire finchè il liquido prin- cipia a intorbidarsi leggermente. Allora si toglie la provetta dal bagno e si continua ad agitare finchè tutto si sia rappreso in una massa cristallina. L'operazione dura al massimo una mezz'ora. Il prodotto così ottenuto si scioglie in acido cloridrico diluito caldo, evitando di aggiungerne un eccesso troppo grande; quindi si filtra e si al- calinizza leggermente con una soluzione concentrata di carbonato sodico o potassico, perlochè si precipita la base sotto forma di fiocchi cristallini bianchi. Nel caso che il liquido si sia riscaldato alquanto durante la neutralizzazione, si lascia anzitutto raffreddare completamente e poi si filtra alla pompa, la- vando la sostanza con acqua fredda. Si ottengono così circa 8 grammi di base, vale a dire un rendimento di circa il 70 °/, del teorico. La base così ottenuta si dimostra identica, per molte ;proprietà, alla benzoguanamina descritta dall'Elzanowski (?). È infatti solubile in etere ed in alcool; dà un cloroplatinato in lunghi aghi poco solubili, di color giallo pallido, come pure un bicromato in aghi rosso arancione e, una volta ricristallizzata, fonde a 225° come ha trovato l'Elzanowski. La sola differenza che ho trovato in confronto con la descri- zione che ne dà l’Elzanowski si è che la base da me ottenuta è alquanto solubile in acqua bollente, da cui per raffreddamento si depone sotto forma di aghettini sottili, mentre l’Elzanowski la descrive come sostanza amorfa. (1) Die Imidofither und ihre Derivate. Berlin 1892. (*) Vedi tesi di laurea pagg. 15-16. i so — Una determinazione di solubilità in acqua, tanto all’ebullizione quanto a freddo, mi ha dato i seguenti risultati : Solubilità a caldo OI. 7 a freddo (22°) 0,06 °/, Per maggiore sicurezza ho voluto preparare una certa quantità di questa sostanza seguendo il metodo dell'Elzanowski e cioè per distillazione del ben- zoato di guanidina ('), ed ho potuto constatare infatti che anche in questo caso la base è solubile in acqua bollente e cristallizza in aghettini bianchi, perfettamente identici a quelli ottenuti precedentemente. L'identità delle due sostanze mi è stata infine confermata dal fatto che miscugli a proporzione diversa delle basi, ottenute coi due metodi, hanno sempre il punto di fu- sione di 225°. Sciogliendo a caldo la fenildiaminotriazina in acido cloridrico diluito e lasciando freddare lentamente questa soluzione, si ottiene il cloridrato cor- rispondente, cristallizzato in aghi prismatici lucenti e perfettamente incolori. Esso è parecchio solubile in acqua calda, ma lo è molto meno a freddo e corrisponde alla formola Co Ho N; . H CD14+H.0. D'altra parte sciogliendo la base in soluzione acquosa calda di acido picrico, si ottiene il picrato in aghetti sottili, di color giallo, fusibili a 259°- 256° e corrispondenti alla formola C, Ho N; . Ce Ha N3 0, . Anche questo sale è discretamente solubile in acqua bollente; ma lo è assai poco in acqua fredda. Questi due sali non sono stati ottenuti dall’Elzanowski. Le analisi di questi composti, come pure la descrizione di alcuni nuovi derivati di questa base saranno pubblicate, in una Memoria più estesa, nel bollettino della Società di Scienze di Bucarest. Petrografia. — use hawaiana dell'attività dell'Etna. Nota del dott. G. PonTE, presentata dal Socio STRUEVER. Batteriologia agraria. — Sopra i metodi di misura delle attività microbiche del terreno agrario. Nota di R. PEROTTI, presentata dal Socio G. CuBONI. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. (') Non posso che confermare ciò che dice l’Elzanowski riguardo al benzoato di guanidina (Tesi di laurea pag. 15). Solo aggiungerò che questo sale è anche solubilissimo nell’alcool, ma è pochissimo solubile nell’etere acetico e nell’etilico. — 187 — Patologia. — Il Ponos è Kala-azar. Nota del prof. UMBERTO GaBBI, presentata dal Socio B. GRassI. In talune isole dell'Arcipelago Greco, al sud del Pireo ed opposte al nucleo delle Cicladi — Hydra, Spetza, Erioni, Poros — una ventina di anni fa un medico di Atene richiamava l’attenzione sopra una malattia che colpiva i bambini e che era caratterizzata da questi sintomi: febbre ad andamento irregolare, non preceduta da netto periodo prodromico, non iniziante con bri- vidi nè terminante in sudore; tumore di milza, di consueto assai notevole e solo dolente nei casi della malattia ad andamento molto rapido; tu- mefazione lieve dell'epate; anemia grave progressiva accompagnata, nelle ultime fasi della malattia, da epistassi, petecchie ed edemi; emaciazione assai rilevante, con astenia profonda. La malattia è seguìta in ogni caso da morte, che il più spesso si ve- rifica per complicazioni delle vie digerenti (noma, dissenteria) e respiratorie (broncopolmoniti). Alla illustrazione del quadro clinico non seguirono ricerche dirette ad investigarne le cause. Ma rivolsero l'attenzione alla malattia alcuni medici in- glesi e francesi per vedere di stabilire se la malattia che era espressa da quella sindrome, identica in tutto e per tutto al Kala-azar, fosse identica anche nel germe generatore. Il dott. Williamson, nel « Journal of tropical Medicine and Hygiene » delj1909, afferma l'identità clinica delle due malattie, ma dichiara necessaria una puntura splenica. Il dott. Marchand, al Congresso internazio- nale di Budapest (1909) si dichiarò dell'identico avviso del medico inglese : essere cioè necessaria la puntura in discorso per stabilire se nel succo sple- nico è presente la Zeishmania Donovani, il germe generatore del Kala-azar. Dall’'Istituto Pasteur era rivolto al sindaco ed ai medici di una di quelle isole viva preghiera perchè si facesse in un infermo la puntura splenica e si inviassero preparati a secco del succo ottenuto con la medesima. Ma le madri dei piccoli infermi si rifiutarono costantemente. In una serie di ri- cerche che sulla « Patologia tropicale dei paesi del bacino mediterraneo » vado svolgendo, mi proposi io pure di risolvere il problema se il « ponos » era, oppur no, Kala-azar. Mi sono perciò recato in una di quelle isole, a Spetza, insieme cou un mio assistente e con un interprete (segretario del Con- solato Italiano di Patrasso), ed ho potuto, grazie al vivo interessamento di un colto medico dell’isola, il dott. Diamantopoulo, pungere la milza di una bambina, certa Condojanni Teodosia, di anni 2, malata dal giugno 1910. Col succo splenico cavato dalla puntura ho fatto strisci su vetrini copri-oggetti : li ho lasciati, dopo disseccati, per 20 minuti in alcool metilico, e li ho quindi — 188 — colorati col. Giemsa; nei preparati ho trovato tipici esemplari di Leishmania Donovani. Il « ponos » è quindi Kala-azar. Nella famiglia dell’inferma era morta della stessa malattia, alcuni anni prima, una sorellina. Il dott. Diamantopoulo, da 12 anni medico a Spetza, affermò che ogni anno muoiono bambini di questa malattia; che essì amma- lano in primavera e che anche nelle vicine isole se ne trovano casi, e non pochi! Si verifica, in queste, quel che noi già constatammo nelle nostre isole Eolie ed in Sicilia e Calabria, e che esponemmo in precedenti nostre pubbli- cazioni. Agronomia. — Le rocce e le acque dell'Agro Romano rispetto alla calce. Nota di G. pe ANGELIS D’OssAT, presentata dal Socio R. PIROTTA. Fisiologia. — Contributo alla Fisiologia del Labirinto. II. Un metodo operativo per la distruzione dei canali semicirco- lari del cane. Nota del dott. M. Cams, presentata dal Corrispon- dente V. Apucco. Queste due Note saranno pubblicate nei prossimi fascicoli. MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI 1. A. OccHiainI. / fenomeni luminosi all'inizio dell'arco. Pres. dal Corrisp. BATTELLI. 2. M. ParRAvano e G. SirovicH. / fenomeni di cristallizzazione nei sistemi ternari. I. Miscele ternarie isomorfe con una lacuna de miscibi- lità. Pres. dal Socio PATERNÒ. RELAZIONI DI COMMISSIONI La Classe approva la inserzione nei volumi delle Memorie, dei seguenti lavori (salvo le consuete riserve), su proposta delle sottonotate Commissioni esaminatrici : 1. STRUEVER, rel., e VioLa. Sulla Memoria del dott. E. TACcCcONI: Note mineralogiche. — 189 — 2. STRUEVER e VioLa rel. Sulla Memoria del prof. F. MiLLOSEVICH: Studi sulle rocce vulcaniche di Sardegna. II. Le rocce di Uri, Olmedo, Ittiri, Putifigari e delle regioni adiacenti. 8. Grassi, rel., e TopaRo. Sulla Memoria del dott. G. BRUNELLI: Za spermatogenesi della Tryxralis. Divisioni maturative. 4. Ip. In. Sulla Memoria del dott. G. Nok: Za spermatogenesi del Gi- gantorychus hirudinaceus. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvicH presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci: TARAMELLI, BERLESE, SILVESTRI, BoussINESQ, GREENHILL, LocKYER; e dei signori ALESSIO, DE ToNI, GIioRDANO, GREGORY. Il Socio VoLTERRA presenta un volume contenente gli Scritti di G. Vatlati (1863-1909) e ne dà notizia, mettendo in rilievo il valore del compianto prof. Vailati, e la varietà e la importanza delle questioni da lui trattate con profonda dottrina. Il Socio FiLomusi-GUELFI si associa alle parole di lode e di rimpianto del Collega VoLTERRA, e si riserba di parlare, in una prossima seduta, degli scritti filosofici del Vailati. CONCORSI A_PREMI Il Segretario MiLLosevicH comunica il seguente elenco dei lavori pre- sentati ai concorsi a premî del Ministero della P.I. per le Scienze na- turali. (Scadenza 31 dicembre 1910. — Due premi di L. 2000 ciascuno) 1 ARcANGELI ALCESTE. 1). « Contributo alle conoscenze della struttura minuta dello stomaco del Box Salpa L. secondo lo stato funzionale » (st.). — 2) « Per una migliore conoscenza della struttura e della distribuzione delle glandole nello stomaco di Zacerta muralis » (st.). — 3) « Einige histologische Beobachtungen iber das Deckepithel des Oesophagus beim Meerschweinchen » (st... — 5) « Osservazioni sulla cherotoialina » (st.). — 5) Armadillidium Gestroi B. L. Contributo alla migliore conoscenza di questo Isopode italiano » (st.). — 6) « La dentatura del Carassius Auratus L. » (st... — 7) Armadillidium Peraccai Tua» (st.). 2. BaLpucci EnRIco. 1) « Morfologia dello sterno degli Uccelli » (st.). — 2) « L'Hylochoerus Gigliolii » (st). — 190 — 3. Baroni EuceNIo. 1) « Supplemento generale al Prodromo della Flora toscana di T. Caruel», fasc. VI (st.). 2) « Sunti di zoologia e bo- tanica per la 5* classe ginnasiale » (st.). — 3) « Sunti di zoologia e bota- nica per la 2 classe tecnica » (st.). 4. BeLLINI RarrAELLO. 1) « Osservazioni geomorfologiche sull'isola di Capri » (st... — 2) « L'uomo preistorico nell’isola di Capri » (st.). — 3) « A proposito di alcune discussioni sull'origine dei conglomerati oligo-miocenici delle colline di Torino » (st.). — 4) « Sul Pecten medius Lam. citato da Philippi e Scacchi tra i fossili della regione Flegrea» (st.). — 5) è Études de Malacologie Napolitaine » (st.).. — 6) « Revisione delle Dentalzidae dei terreni terziarî e quaternarî d’Italia » (st.). 5. Bezzi Mario. 1) « Eine neue Aphoebantus-Art aus dem palaeark- tischen Faunengebiete » (st.). — 2) « Simuliidae, Bombylidae, Empididae, Syphidae, Tachinidae, Muscidae, Phycodromidae etc. » (st.). — 3) « Nomen- klatorisches iber Dipteren » (st.). — 4) « Sin die Dasyllis-Arten ausschliess- lich in Amerika zu Heimat? » (st.). — 5) « Noterelle cecidologiche » (st.). — 6) « Eine neue brasilianische Art der Dipterengattung Allognorta O. S. » (st.). 7) « Die Chionea der Alpen » (st.) — 8) « Rbagionidae et Empididae palaearcticae novae ex Museo Nationali Hungarico » (st.). — 9) « Secondo contributo alla conoscenza del genere Asarcina n (st.). — 10) « Ditteri Eritrei raccolti dal dott. Andreini e dal prof. Tellini » (st... — 1!) « In memoria di Camillo Rondani » (st.). — 12) « Camillo Rondani. Zu seinem 100 jàhringen Geburtstage » (st... — 13) « Diagnoses d'espèces nouvelles de Diptères d'Afrique » (st.), — 14) « Einige neuve palarktische Erupis-Arten » (st.) — 15) « Diptera syriaca et aegypta a cl. P. Beraud S. I. collecta » (st.) — 16) « La specie dei generi Ceratilis, Anastrepha e Dacus > (Si) = 17) « Gili seritti cecidologici del prof. A. Costa » (st.) — 18) « Eine neue Empidide aus Paraguay » (st.) — 19) « De specie altera dipterorum generis Townsenda Willist » (st.). — 20) « Beitràge zur Kenntnis der sùdamerika- nischen Dipterenfauna » (st.). — 21) « Brasilianische Lonchaeiden gesammelt von A. A. Barbiellini » (st.). — 22) « Un nuovo genere di Asilidi dell'Ame- rica Centrale » (st.). — 23) « Revisio systematica generis diptornm sticho-' pogon » (st... — 24) « Restaurazione del genere Carpomyia (Rond.) A. Costa » (st.). — 25) « Recensione dell’opera: G. H. Verrall. British Flies vol. V » (st.). 6. Cacciamati G. B. 1) « Studio geologico delle valli di Lodrino e Lumezzane » (st.). — 2) « Una falda di ricoprimento tra il lago d'Iseo e la Val Trompia » (st.). — 3) « Una frattura con sovrascorrimento in Val Ca- monica » (st.).. — 4) « Studio geologico-viticolo dei terreni delle plaghe della provincia di Brescia dove più estesamente è coltivata la vite » .(st.). 7. CÙeLussi IraLo. 1) « Appunti petrografici sopra alcune roccie del- l’Italia Centrale » (st.). — 2) « Sulla composizione mineralogica di alcune arenarie dell'Ascolano » (st.). — 3) « Sulla presenza di minerali caratteristici in molte roccie mioceniche dell’Italia Centrale » (st.). — 4) « Osservazioni petrografiche sopra alcune sabbie della costa Toscana e della pianura Gros- setana » (st.). 8. CoLozza ANTONIO. « Studio anatomico sulle Goodenzaceae » (st.). 9. D’OnorRIo ANGELO. « Colonie vegetali » (ms.). 10. GRIFFINI AcHILLE. 1). « Ortotteri raccolti da L. Fea nell'Africa oc- cidentale. II. Fasmidi e Mantidi » (st.). — 2). « Studî sui Lucanidi. IV. Sulle forme priodonti dell’Odortolabis brookeanus e sulle forme càpito di alcuni Eurytrachelus » (st.). — 3). « Descrizione di un nuovo Grillacride della Africa occidentale » (st.). — 4). « Phyllophorinae del Museo Civico di Storia Naturale di Genova » (st.). — 5). « Phasgonouridae africane del R. Museo di Storia Naturale di Bruxelles. Parti I a V » (st.). — 6). « Sopra alcune Gr2/- lacris malesi ed austro-malesi » (st.). — 7). « Sopra alcuni Stenopelmatidi e sopra alcune Mecopodidi malesi ed austro-malesi » (st.). — 8). « Desecri- zione di un nuovo Grillacride di Timor » (st.). — 9). « Intorno a quattro Grillacridi dell'America meridionale » (st.). — 10). « Intorno a due Grz- lacris di Birmania » (st.). — 11). « Sulle Agroecinae malesi ed austro-ma- lesi del Museo Civico di Storia Naturale di Genova » (st.). — 12). « Note sopra alcuni Grillacridi » (st.). — 13). « Sopra alcuni Grillacridi del genere 4remus- Brunner » (st.). — 14). Le specie africane del genere Gryllacris Serv. Studio monografico ». — 15). « Sulla Gryllacris genualis Walker e sopra una nuova specie affine » (st.). — 16). « Phasgonouridae africane del R. Museo di Storia Naturale in Bruxellès. Parte VI» (st.). — 17). « Intorno ad al- cune Gryllacris di Sumatra e di isole vicine » (st.). — 18). « Le Gryl/aeriîs papuane ad ali bicolori » (st.). — 19). « Intorno ad alcune Gry/laeris del Musée Roy. d'Histoire Naturelle e del Musée du Congo, di Bruxelles » (st.). — 20). « Di una varietà della Gryl/acrîs laeta Walker e sopra un esem- plare anomalo di questa» ‘(st.). — 21). Note sopra alcune Phasgonouridae del Congo » (st.). — 22). « Intorno ad una nuova Gryllacris di Madagascar » (st.). — 23). « Studî sui -Grillacridi del Museo di (Oxford. Parte I» (st.). — 24). « Two new species of Gry//acriîs in the University Museum, Oxford » (st... — 25). Le Gry/lacris descritte da C. Stàl. Revisione ed osservazioni critiche » (st.). — 26). « Descrizione di tre nuove @ry//acris della Nuova Guinea » i(st.). — 27). « Intorno a due Ortotteri saltatori raccolti a Su- matra dal dott. W. Morton » (st.). — 28). « Revisione dei tipi di alcune Gry/- lacris di Pictet et Saussure » (st.) — 29). « Studî sopra alcuni Grillacridi del Museo Nazionale di Budapest» (st.). — 30). «Revisione dei tipi di al- cune Gry/lacris descritte da Brunner, appartenenti al Museo di Storia Na- turale di Ginevra » (st.). — 31). « Sulla Gryllacris rubrinervosa Serv., con appunti sul genere Dibelona Brunner e sulle Gryllacris americane » (st.). — 32). « Sopra alcune Grillacridi di varie collezioni » (st.). — 33). « Il RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 26 — 192 — sottogenere Papuogryllacris » (st.).. — 34). « Studî sopra alcune Gryllacris del Museum d'Histoire Naturelle de Genève » (st.). — 35). « Révision des types de certaines Gryllacris déerites par F. Walker, existant au Musée de Oxford » (st.). — 36). « Prospetto delle Gry/lacris di Madagascar e delle isole vicine » (st.). — 37). « Prospetto delle Gryllacrés hyalino-fasciatae > (st.). — 38, 39, 40). « Recensioni pubblicate nei fascicoli 4, 5 e 8 del gior- nale « Natura » (st.). 11. LorENZI ARRIGO. 1). Geonomastica Polesana » (st.). — 2). « Intorno alla caratteristica idrografica della pianura pedemorenica del Friuli » (st.). — 3). « Osservazioni sul cosiddetto ghiaccio di fondo dell'Adige » (st.). — 4). « La fauna; schizzo zoogeografico. (Estratto dalla « Guida delle Prealpi Giulie ») » (st.). — 5). « La provenienza e l'azione morfologica delle sorgenti nella pianura orientale del Friuli » (st). — 6). « La provenienza delle acque e la regione sorgentifera del fiume Stella nel Friuli » (st.). 12. MartEL Epoarpo. 1) « Su alcuni fenomeni osservati nelle Ombrel- lifero e nelle Papaveracee » (st.). — 2) « Contribuzione alla lichenologia del Piemonte » (st.), — 3) « Nuova contribuzione all'anatomia delle .So- lanee » (ms.). 18. NoELLI ALBERTO. 1). « Corso di scienze fisiche e naturali e d’igiene: vol. 1°, 2°, 3° e 6° » (st.). — 2). « Fisica, chimica, mineralogia e nozioni sulle principali sostanze alimentari ed industriali più comuni » (st.). — « 3). « Nuove osservazioni sulla peronospera effusa (Grev.) Rabeuh » (st.). — 4). « Alcuni micromiceti dell’Ossola » (st.). — 5). « Il marciume del Capsicum annuum L.» (st... — 6). « Articoli varî pubblicati nel « Dizz0- nario di cognizioni utili » (st.). 14. RoveLLi CostAnTINO. 1) « La propagazione del calore solare nel lago di Como » (st.). — 2) « L'uragano del 23 luglio 1910 sulle finitime terre del Comasco e del Milanese » (st.). 15. Sivvestri ALFREDO. 1) « Miliolidi trematoforate nell’Eocene della terra d'Otranto » (st... — 2) « Fossili cretacei della contrada Calcasacco presso Termini-Imerese (Palermo) » (st.). — 3) « Nummuliti Oligoceniche della Madonna della Catena presso Termini-Imerese (Palermo) » (st.). — 4) « Lepidocicline Sannoisiane di Antonimina in Calabria » (st.). 16. VENEZIANI ArNoLDO. 1) « Una nuova teoria sulle cause della se- nescenza » (st... — 2) « Sull'insegnamento della storia naturale nei licei e nei ginnasi » (st.). 17. VoeLino Pietro. « I nemici del pioppo canadese di Santena » (st.). 18. ZancLa AURELIO. « Ricerche anatomo-patologiche in un caso di sor- domutismo e contributo sperimentale allo studio del decorso della branca cocleare dell'VIII paio » (st.). 19. Zoppa Giuseppe. 1) « Sulle epatiche dell’Italia meridionale e della Sicilia conservate negli erbarî del R. Orto botanico di Napoli » (st.). — — 193 — 2) « Briofite sicule » (st.). — 3) « Sulla marchantia circumscissa di Bivona » (st... — 4) « Primo contributo alla Briologia della provincia di Belluno » (st... — 5) Ophrys Lutea Cav. forma Pallens mihi » (st.). — 6) « Entità nuove o importanti della Flora sicula » (st). — 7) « Le laminarie indi- gene del Mediterraneo con speciale riguardo alla Z. Bu/bosa (Huds.) La- mour » (st... — 8) « Effetti del terremoto del 28 dicembre 1908 sulla ve- getazione nei dintorni di Messina » (st.). — 9) « Notizie briologiche sulla Italia meridionale » (st.). — 10) « Le briofite del messinese » (st.). CORRISPONDENZA Il Presidente BLAsERNA comunica un invito della Università di Chri- stiania, la quale nel prossimo settembre festeggerà il centenario della sua fondazione. — 194 — OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ACCADEMIA presentate nella seduta del 5 febbraio 1911. AcamenNonE G. — Sui mezzi più acconciì per la determinazione dello stato as- soluto negli orologi delle Stazioni sismiche di 2° ordine (Estr. dal « Bol. lettino della Soc. Sismologica Ital. », vol. XIV). Modena, 1910. 8°. ALessio A. — Come si determina l’accele- razione della gravità (Estr. da « Ri- vista di Astronomia e Scienze affini », anno IV). Torino, 1910. 8°. — Esperienze comparate sopra alcuni ap- parati gravimetrici e nuova determi- nazione della gravità relativa fra Ge- nova e Padova, eseguite da A. Alessio e dal dott. G. Silva (giugno-agosto 1909). Osservazioni gravimetriche ese- guite a Genova nel 1910 (marzo aprile). Relazione. (Estr. da « Annali Idrografici », vol. VII). Genova, 1910. 8°. — Istruzioni e tavole nautiche. Genova, 1909. 4°. — L'evoluzione dell’ Astronomia nautica (Estr. da « Rivista di Astronomia e Scienze affini », anno IV). Torino, 1911. 8°. BrrLEsE A. — Esperienze del 1910 contro la Mosca delle olive, eseguite sotto la direzione della R. Stazione di Ento- mologia agraria (Estr. dal « Redia ». vol. VII). Firenze, 1911. 8°. Boussineso J. — Sur les principes de la Mécanique et sur leur applicabilité è des phénomènes qui semblent mettre en défaut certains d’entre eux (Extr. des « Annales scientif. de l'École Nor- male supér., tome XXVII). Paris, 1910. 8°. CoLrarp A. — La vie et l’ouvre d'un astronome illustre, Jean-Virginius Schiaparelli (Extr. du « Ciel et Terre», 1910). Bruxelles, 1910. 8°. Corréa M. P. — Plantas fibrosas da re- stinga do estado do Rio de Janeiro. Rio de Janciro, 1910. 8°. De AnceLis D’Ossat G. — Applicazioni della Geologia. I. Parere sulle condi- zioni naturali della tenuta Fonte, ter- ritorio di Viterbo, agli effetti del vin- colo forestale. Roma, 1911. 8°. De Toni G. B. — Il R. Comitato Talas- sografico e gli studî della flora dei nostri mari. Padova, 1911. 8°. Duparc L. — Les minéraux des Pegma- tites des environs d’Antsirabé è Ma- dagascar. Genève, 1910. 4°. — Note préliminaire sur quelques gise- ments curieux de platine de l’Oural (Extr. des « Archives des Sciences phys. et natur. », tome XXX). Genève, 1910. 8°. Grorpano F. — La vite perpetua (Estr. dal period. « Il Politecnico », 1899- 1900). Milano, 1900. 8°. Grorpano F. — Su alcune modalità di prova dei tubi e delle bombe per gas compressi. Un nuovo apparecchio per la misura delle deformazioni periferiche (Estr. dal giornale « L’Industria », vol. XXIV). Milano, 1910. 8°. Gregory C. — Relation sur des procédés spéciaux pour la conservation à sec des végétaux et des animaux dans leurs formes, couleurs ed flessibilité. Rome, 1909. 8°. Locxyer N. — On the Sequence of Che- mical Forms in Stellar Spectra (Repr. from the « Proceedings of the Royal Society », vol. 84). 1910. 8°. Lovisaro D. — Una parola sul Clypeaster Lovisatoi Cotteau e specie nuove di Clypeaster ed Echinolampas (Estr. da «Palaeontographia Italica», vol. XVI). Pisa, 1910. 4°. 1 Luciani L. — Per la riforma ortografica (Estr. dagli « Atti della Soc. Ital. per il — 195 — progresso delle Scienze », 1910). Roma, TOO; 62 MartELLI G. — Descrizione e prime no- tizie di un nuovo zoocide, Ceratitis Savastani (mosca del cappero). Estr. da « Memorie della R. Accad. degli Zelanti, ser. 3%, vol. VII). Acireale, 1910. 8°, — Le Pieris brassicae L. e rapae L. pa- rassite del Capparis rupestris Sm. (Estr. dalle « Memorie della R. Accad, degli Zelanti », 32 ser., vol. VII). Aci- reale, 1910. 89. Rurrini A. — Ricerche anatomiche ed anatomo-comparate sullo sviluppo della pars periotico-mastoidea del temporale e sul significato dell’apofisi mastoide (Estr. da «Internationalen Monats- schrift f. Anatomie u. Physiologie », Bd. XXVII). Leipzig, 1910. 8°. Saperra Masé M. — Preliminary Notes on subterranean or seismic Noises. s. l. nec d. 4°. SivestRrI G. — Contributo alla conoscenza dei Mirmecofili del Messico (Estr. dal « Bollettino del Labor. di Zool. gener. e agr. in Portici », vol. V). Portici, 1910 8°. TARAMELLI T. — Le condizioni geologiche delle fonti termali di S. Pellegrino (Estr. da « Giornale di Geologia pra- tica », anno VIII). Perugia, 1910. 8°, Variati G. — Scritti di G. V. (1863-1908). Firenze, 1911. 4°. a» d a+ d fiir alle zweistelligen Werte von @ und è zur Berechnung der Gewichte von Summen, Differenzem, Mittelwer- ten usw. Potsdam, 1910. 8°. Wanaca B. — Tafel der Werte MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Occhialini. I fenomeni luminosi all’inizio dell’arco (pres. dal Corrisp. Battelli). . . Pag. Parravano e Sirovich. I fenomeni di cristallizzazione nei sistemi ternari. I. Miscele ternarie isomorfe con una lacuna di miscibilità (pres. dal Socio Paternò). . . /. . . .. ” RELAZIONI DI COMMISSIONI Struever (relatore) e’ Viola. Relazione sulla Memoria del dott. Zacconi: « Note mineralo- Gichempro sa. SES 3 : n Viola (relatore) e Ser Belice sulla Memoridi del Def dieser “ «Studî sulle rocce vulcaniche di Sardegna. II. Le rocce di Uri, Olmedo, Ittiri, Putifigari e delle regioni adiacenti ». S GET RARO ET ASI NFA] Grassi (relatore) e Todaro. Religione db fi del i Brunelli: « La spermatoge- nesi della Tryxalis. Divisioni maturative ». . . og? SPE) Id. id. Relazione sulla Memoria del dott. /oè: «Ln i di Gisuiloriches hirudinaceus» » i PRESENTAZIONE DI LIBRI Maillosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci: Zaramelli, Berlese, Silvestri, Boussinesq, Greenhill, Lockyer e dei E Alessio, De Toni, Giordano e Gregory. . . . ” Volterra. Presenta un volume contenente gli rit del nano i Wo e ne 0 » Frlomusi-Guelfi. Si riserba di parlare degli scritti filosofici del defunto prof. Vazlati, in una prossima seduta . D) CONCORSI A PREMI Mallosevich (Segretario). Comunica l’elenco dei lavori presentati ai concorsi ai premî del Mi- pisteroRdella RalosperdlienScrenzesnatunalio. . Sn CORRISPONDENZA — Blaserna (Presidente). Comunica un invito della Università di Christiania per il centenario VAS ia RINOMINATO ORA RN AE I BUERERRISORBIBLIOGRARICO: MI ART RR I LO E OST O 188 194 RENDICONTI — Febbraio 1911. INDICE Adunanza delle due Qlassi del 5 febbraio 1911. Nomina di S. M. il Re a Presidente onora RaRilAccademia,t 1. e SR A Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta dél 5 febbraio 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Bianchi. Sulle trasformazioni di Guichard delle superficie applicabili sulle quadriche Pag. Almansi. Sulla distribuzione dell’elettricità în equilibrio nei conduttori. . . . . ++ Garbasso. Sopra un particolare fenomeno diggiffiusione (E), . 0. ij Sa Briosi e Farneti. La Morìa dei castagni (Mal alinchiostro), 0. ‘critiche alla Nota . dei signori Griffon e Maublane (*) . >. ; c ita Signorini. Sulla formola di Stokes che sele a determinare Ma (om ci Cha fieri dal Socio Pizzetti) . . - È ABETONE, SARRI ” Picone. Un teorema sulle i (CI equazioni lineari ellittiche antoaggiunte "i Jola parziali del second'ordine (pres. dal Sotio Panche) (ELE AR O, Tonelli. Sugli integrali curvilinei (pres. dal Socio Pincherle) (*). . MAE, Crudeli. Contributo allo studio delle tensioni elastiche (pres. dal de, Lauren (ai Zondadari. Sul moto traslatorio d’un solide di rivoluzione in un liquido viscoso (pres. dal Socio Volterra) (*) i IR RS) Barbieri e Lanzoni. Prodotti di Mii idrati di Loi So. (dai d’idratazione labili fissate mediante una base organica) (pres. dal Socio Ciamictan). . Preto Barbieri e Calzolari. Composti di sali delle terre rare con l’esametilentetrammina (niet Id.) Parravano. Il sistema ternario argento-stagno-piombo (pres. dal Socio RAtenno) NAZ Sandonnini. Sali doppi fra il fluoruro di piàmbo e gli altri sali alogenati dello stesso metallo (pres. dal Socio Ciamician). . i A IN AZ SCE NA Bellucci e Sabbatini. Sopra un isomero del ii rosso i i 3. Paternò). . » Id. id. Sopra un caso di isomeria di struttura nei cianuri metallici (pres. 14.) ®) . . +. » Ostrogovich. Azione delle amidine sulla ciphguanidina (PIESRI0) IO MI Ponte. Fase hawaiana dell’attività dell'Etua (pres. dal Socio Struever) (£ PRIOAE ” Perotti. Sopra i metodi di misura delle attività microbiche del terreno 0. (pres. dal Socio Cubom) (È) Me Ce) Gabb . Il Ponos è Wi azar SI dal Sapii Fides). RA RSNIESO De Angelis d'Ossat. Le rocce e le acquùe dell'Agro o sii sil ‘Pale o; dal Socio Pirotta)(*). .. +. LE CGG È, Camis. Contributo alla Fisiologia del Labirinto IL. Un Sa oe. ‘per Li disne dei canali semicircolari del cane (pres. dal Corrisp. dano) (A) O RR) 143 (Segue in terza pagina) (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 19 febbraio 1911. N. 4, ru REALE ACCADEMIA DEI LINCRI ANNO CCCVIII. LOT È SiR UN TA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 19 febbraio AD. Volume XX. — Eascicolo 4° 1° SEMESTRE. N ROMA ANA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI inci Ud à x t) PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SAIVIUCCI ; VELITAA | JENS ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Coi 1892 si è iniziata la Serse quenta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltra i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : S 1.1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci o Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell'Acca- demia; tuttavia se i Soci, cha vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II I. Le Note che oltrepassino i limiti indi» cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc» priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci € da Corrispondenti. Per le Memorie presentat» da estranei, la Presidenza nomina nna Com missione la quale esamina il lavoro e ne rife risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - @) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto 0 in esteso, senza pregiudizio deli’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro: posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 5 8. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre cedente, la relazione è letta in seduta pubblios nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date ricevuta con lettera, nella quale si avverie che i manoscritti no» vengono restituiti agl autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 2+ dello Statuto. o. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli av tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50. s- estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è messe a carico degli autori RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. DS Seduta del 19 febbraio 1911. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Fisica-Matematica. — Sopra un particolare fenomeno di dif- fusione. Nota del Corrispondente Anronio GaRBasso. 1. La concentrazione c della sostanza che diffonde è nulla da principio in tutto lo spazio; al tempo £= — 0/2 essa prende sopra un piano (xr=0) il valore K, e lo conserva fino all'istante {= 0/2, per ridursi poi di nuovo e rimanere durevolmente allo zero. Per ogni valore di x e di { la c sarà data, come è facile verificare, da x i x enVizhja (1) a edu + Va ce SUD 2% Vi+0/2 essendo 4 il coefficiente di diffusione, nella equazione di Fourier DELTA (2) Mage ri Se # è grande, così grande che (9/t) sia trascurabile davanti all'unità, la (1) fornisce (0 0) fe du, 2h 2K60 Coi = Va 9 | RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 27 — 198 — o, che fa lo stesso, , K0 Ts (1 ) E = e 4k20 È day i? 2. Per acquistare un'idea del modo in cui il fenomeno procede, ci do- mandiamo anzitutto come sia distribuita la concentrazione, ad un dato istante, nel semispazio positivo. Si riconosce subito che a) per ogni {(> 60/2) è de (Sì, i Di 3) per ogni #(> 0/2) e per x abbastanza grande è fo c) per ogni valore 7 (>0/2) del tempo vi è un piano, x =&, nel quale la c è massima. È determinato dalla 8) 101 ni gela) SE 9/2) dol 0/02)E dd Se © è grande la (3) fornisce (3) t= — la quale equazione si potrebbe ottenere anche direttamente dalla (10° La figura 1, dove si sono prese come ascisse le x, e come coordinate le c, rappresenta graficamente la curva t= costante, per valori opportuni delle costanti, e per quattro istanti successivi. 3. La discussione fatta nel paragrafo precedente si può riprendere da un altro punto di vista, notando che il massimo, la cui posizione è deter- minata dalla (3) si sposta al erescere di 7 nel verso positivo. Un piano parallelo ad x=0 viene forato così per qualche tempo dal ramo discendente della { = costante, e da ultimo invece dal ramo ascendente. In altri termini, sopra ogni piano della famiglia la sostanza che dif- fonde va da principio nel verso positivo, e alla fine del processo nel negativo. L'istante 7 definito dalle (3) e (3') è quello in cui il movimento si inverte. A scanso di equivoci indicheremo nel seguito 7 appunto come il tempo dell'inversione per il piano x = È, e la concentrazione y=c(È,t) come la concentrazione d’inversione per il piano medesimo. — 199 — Dalle (1’) e (3') risulta (4) Kei te è? e cioè /a concentraziona d’inversione è, nei piani lontani, proporzionale direttamente all'intervallo 0, e inversamente al quadrato della distanza. 4. Cerchiamo adesso come in un piano della famiglia x = costante varii la ec al variare del tempo. È facile vedere che a) per ogni 2(> 0) la c cresce da principio e da ultimo diminuisce; 5) per ogni valore X (> 0) della x vi è un istante (T), in cui la concentrazione è massima. È determinato dalla 0X? (5) see — e7a, ed+ 972) — log(T — 0/2). Se T è grande la (5) fornisce (5') die equazione che risulta anche immediatamente dalla (10): La figura 2, nella quale si sono prese come ascisse i tempi e come ordinate le c, rappresenta graficamente la curva «= costante, per valori opportuni delle costanti, e per un piano determinato. — 200 — L’istante T definito dalle (5) e (5') si chiamerà il tempo del massimo per il piano <= X, e la concentrazione C=c(X,T) la concentrazione massima per il detto piano. Dalle (1’) e (5’) si ricava (6) = j/ 2810 6 TECNO CONAI anche la concentrazione massima è, nei piani lontani, proporzionale di- rettamente all'intervallo 0 e inversamente al quadrato della x. { Fis. 2. 5. Facendo nelle (3') e (5°) TEN viene di conseguenza X 7 =. (7) Va Mentre un dato piano raggiunge la concentrazione massima, il moto della materia diffondente si inverte sopra un altro piano, la cui distanza dall'origine sta a quella del primo come 1 a V/3 . Ponendo invece, sempre nelle (3’) e (5), risulta (8) t=3T. Il tempo dell'inversione e il tempo del massimo stanno fra loro, in un medesimo piano, come 3 ad 1. DO Finalmente, dalle (4) e (6), posto si ricava (9) La concentrazione massima e la concentrazione di inversione stanno, per un dato piano, nel rapporto di 1,91 ad 1. Le (7), (8) e (9) hanno questo di notevole, che in esse non compare il coefficiente di diffusione . $ 6. Un sistema di valori (X, T) che soddisfa alla de =0 di ; soddisfa anche, per la (2), alla da Ogni curva della figura 1 possiede dunque un punto di flesso, che ha la x di quel piano, il quale, nell'istante cui la curva si riferisce, raggiunge la concentrazione massima. Il luogo di tali flessi è l’inviluppo delle linee 4 = costante. Patologia vegetale. — Za Mora dei castagni (mal dell'in- chiostro). Osservazioni critiche alla Nota dei signori Griffon e Maublane. Nota del Socio G. Briosi e di R. FARNETI. I signori Griffon e Maublanc pubblicano nei « Comptes rendus de l'Aca- demie des Sciences» (') una Nota dal titolo: Sur une maladie des perches de Chataignier. In essa gli Autori dichiarano che la malattia dei castagni, da noi descritta in due Note pubblicate negli Atti dell'Istituto botanico di Pavia (?), è identica a quella che essi hanno osservato in Francia nelle pol- lonete del Limousin. I signori Griffon e Maublanc limitano i loro studî ai cedui e non fanno menzione dei castagni d'alto fusto, i quali pure, come noi abbiamo dimo- strato, sono attaccati dalla stessa malattia che li uccide. (1) Paris, Dicembre 1910, pagg. 1149-1151. (2) Briosi e Farneti, Sulla moria dei castagni (mal dell'inchiostro). Prima Nota. Atti dell’Ist. Bot. dell’Università di Pavia, ser. II, vol. XIII. Milano, 1907. Id. id., Intorno alla causa della morìa dei castagni (mal dell'inchiostro) ed ai mezzi per combatterla. Seconda Nota. Atti dell’Istit. Bot. dell’Università di Pavia, ser. II, vol. XIV. Milano 1909. — O I signori Griffon e Maublane accertano sui rami delle piante malate quanto noi avevamo osservato, cioè la presenza di cancri caratteristici e, nella corteccia di questi, la costante presenza di un micelio che fruttifica alla superficie della medesima, sotto le forme di un Coryrneum e di una Melanconis; forme che riconoscono identiche a quelle che noi avevamo de- scritte e che essi stessi hanno potuto osservare sopra il materiale che, dietro loro richiesta, noi avevamo loro inviato. Gli scienziati francesi, per verità, non si addentrano di molto nell’esame della malattia, e sorvolano sopra le molte cose illustrate nelle nostre pub- blicazioni, limitandosi ad affermare che il nostro Coryneum perniciosum non è altro che il Corineum Kunzei var. Castaneae Sacc., e che la nostra Me- lanconis perniciosa è identica alla Melanconis modonia del Tulasne. Intorno a questa pubblicazione noi abbiamo le seguenti osservazioni a fare. Prima di tutto, i signori Griffon e Maublane non hanno avvertito una delle parti più importanti, l'essenziale forse del nostro lavoro, la quale con- siste non tanto nell'avere indicato un nuovo parassita del castagno, quanto nell'avere dimostrato come questa malattia non si inizi nelle estremità delle radici (ove sonvi le micorize) e da qui proceda verso il tronco, ma invece segua la via inversa; e ciò in opposizione a quanto sino ad ora si era ritenuto. Questo fatto di capitale importanza, fa cadere tutte le teorie che si sono sin qui escogitate, tanto in Italia che fuori; inoltre, indica quale via si debba seguire nella cura profilattica e terapeutica del male. Il modo di procedere della infezione è di tale importanza, specie per le possibili cure, che la questione del parassitismo passa in seconda linea. In quanto all'affermazione dei signori Griffon e Maublanc, che il nostro Coryneum perniciosum e la nostra Melanconis perniciosa altro non siano che il 0orineum Kunzei var. Castaneae del Saccardo e la Melanconis mo- donta del Tulasne, noi, avanti tutto, osserviamo che nella nostra prima pubblicazione, parlando del fungo trovato nella corteccia cancrenosa, dice- vamo: « esso è un Coryneum molto affine, se non identico, al Coryneum Kunzet var. Castaneae Sace. »; e dopo avere parlato dei caratteri differen- ziali concludevamo: « Per tali ragioni, alle qnali va aggiunto il fatto che il micete della Toscana si presenta come un vero parassita, riteniamo doversi esso tenere distinto da quello della Libert, almeno provvisoriamente ». Quindi a noi non erano sfuggite le affinità dalle quali i signori Griffon e Maublane credono di poter dedurre l'identità delle due specie. Inoltre, sino d'allora dimostravamo di non dare soverchia importanza alla designazione e distinzione sistematica del nostro micete, essendo essa, a parer nostro, una cosa secondaria rispetto alla patogenesi della malattia. Questo premesso, veniamo alla questione fatta dai signori Griffon e Mau- blanc sulla identità del nostro fungo con altra specie, già nota. Ebbene, noi, — 203 — anche dopo la pubblicazione dei due patologi francesi riteniamo ancora che si debba tenere distinto, almeno provvisoriamente, il Coryneum perniciosum dal Coryneum Kunzei var. Castaneae Sace., e la Melanconis perniciosa dalla Melanconis modonia Tul., sia per le ragioni esposte nella nostra prima Nota, sia per quelle che qui sotto ci facciamo ad esporre. Tulasne, dopo aver descritto la forma conidica della Melanconis modonia e d’averne constatato le affinità coi generi Melanconium Link., Stilbospora Pers., Coryneum Nees, Steganosporium Corda, resta indeciso a quale di questi generi riferirla. Saccardo, che ha fissato con precisione i caratteri distintivi di questi generi, riferisce la forma conidica della Melanconis modonia Tul. al genere Stilbospora Pers., denominandola Sti/bospora modonia Sace. (Sylt. IM, pag. 772); Fuck. Symb. myc., (pag. 189); Allescher (loc. cit., pag. 636). Ora, perchè il Coryneum Kunzer var. Castaneae Sacc. fosse da ritenersi quale forma conidica della Melanconis modonia Tul., bisognerebbe che esso fosse identico alla Sti/Zospora modonia Sace.; ma è possibile che un mi- cologo quale è il Saccardo abbia fatto di una sol cosa due specie diverse, riferendole per di più a due generi differenti ? Il riferimento fatto dal Saccardo della forma conidica della Me/anconis modonia Tul., secondo le descrizioni del Tulasne e del Fuckel è d'altra parte perfettamente giustificato. Tulasne dice infatti: « Simul atque maturescunt, haec conidia in pulverem fusco-atrum solvuntur, matricenque, jove pluvioso foedant »; e Fuckel aggiunge : «acervulis majusculis, subcorticis epidermide nidulantibus, demum erum- pentibus ». DO, Tra i funghi dell’erbario della signora Libert studiati da C. Roume- guère con la collaborazione del nostro Spegazzini, furono trovati esemplari portanti il nome di Steganosporium Castaneae Lib. (inedito), che il Rou- meguère identificò e pubblicò sotto il nome di Corynewm Kunzei Corda (sin. Steganosporium castaneae Lib.) nella Revisio Reliquiae Libertianae, Pars I Revue mycologique, 1880, pag. 17), e nei. Yung? selecti gallici exsiccati, n. 634. Il Saccardo parimenti riferisce il fungo delle el/ig. myc. Lib. IV, n. 180, al Coryneum Kunzei Corda, distinguendolo unicamente come varietà sotto il nome di Coryneum Kunzei var. Castaneae Sace. (sin. Steganospo- rium Castaneae Lib.). Ora i signori Griffon e Maublanc asseriscono che il Coryneum Kunzet var. Castaneae Sace. ed implicitamente anche il Coryneum Kunzei del Roumeguère (« Revisio reliquiae Libertianae » e « Fungi selecti gallici exsiccati », n. 634) non hanno nulla a che vedere col Coryneum Aunsei Corda, contrariamente al- l'opinione di Saccardo, di Roumeguère, di Spegazzini, e di Oudemans, ed affer- — AV mano che sono invece identici al nostro Coryneum perniciosum ed alla forma co- nidica della Melanconis modonia Tul. 1 signori Griffone Maublane non ne dicono invero le ragioni, ma questa loro affermazione era necessaria per identificare il nostro Coryreum, che ha indubbiamente per forma ascofora una Melan- conis (della sezione Hyalodidymae) col Coryneum Kunsei var. Castaneae Sace. giacchè il Coryneum Kunzeî Corda ha invece per forma ascofora la Pseudo- valsa longipes Tul. (della sezione delle Phaeophragmiae). Forse i signori Griffon e Maublanc sono stati indotti a fare tale esplicita distinzione, sugge- stionati dalla esteriore apparente somiglianza del nostro Coryneum pernicio- sum e della nostra Melanconis perniciosa con la forma conidica ed ascofora della Melanconis modonia Tul., descritte e figurate dal Tulasne; tanto più che il Saccardo, a la diagnosi della Melanconis modonia Tul., aggiunge: « Status conidicus (Steganosporium Castaneae Lib.) et spermogonicus adsunt. Cfr. Fuck. Symb. myc., pag. 190 ».. Ma prima di tutto, domandiamo, lo Steganosporum Castaneae Lib., è un Coryneum? Gli esemplari dell'erbario della Libert distribuiti dal Roumeguère, è quelli delle Relig. myc. Lib. IV, n. 180 descritti dal Saccardo apparten- gono indubbiamente ad un Coryneum. Ma è possibile che la signora Libert, osservatrice attenta e scrupolosa, abbia confuso il genere Coryzeum del Nees (della sezione delle Phragmo- sporae) col genere Steganosporium del Corda (della sezione delle Dictyo- sporae)? Se ciò fosse, in tale errore sarebbe caduto anche Paolo Brunaud, che nelle sue Contributions à la fiore mycologique de l'ouest (Bull. de la Soc. Linn. de Normandie, 3°"° sér., VI, pagg. 134-155. Caén, 1882), ne dà la de- scrizione sotto il nome di Steganosporium Castaneae Lib., indicandolo pel primo come forma conidica della Melanconis modonia Tul. Nello stesso errore sarebbe incorso pure il Saccardo che ne riporta la diagnosi sotto il nome di Steganosporium Castaneae Lib. nel volume X della Sy/loge, pag. 508, aggiungendovi: « Est st. conidicus Melanconidis modoniae. Cfr. Tul., Carp., II, pag. 141, c. icon. ». Nello stesso errore sarebbe altresì caduto l’Allescher, che ne riporta la descrizione aggiungendovi: « Conidienform zu Melanconis modonia Tul. Cfr. Tul., Carp., II, pag. 141, c. icon.; Winter, Pilze ecc., II, pag. 778». Noi non sappiamo se si tratta d'inesattezza od errore di riferimento del fungo della signora Libert, o se invece sia avvenuta confusione nel mate- riale di erbario. Quest'ultima ipotesi non sarebbe improbabile, tanto più che il Roumeguère nella sua « Revisio Reliquiae Libertianae» indica quale matrice del fungo in questione tanto il castagno che la quercia, e che nella copia del Roumeguère che noi possediamo dei /ungi gallici exsiccati esso è dato appunto al n. 634 sopra quest'ultima matrice e non sul castagno. Se la forma conidica della Me/anconis modonia Tul. è un vero Stega- nosporium, la Melanconis perniciosa non può avere con esso alcun rapporto come non può averne con il Coryneum Kunzei var. Castaneae Sacc. e con la Melanconis modonia Tul. E quand'anche si riuscisse a dimostrare che il Coryneum Xunzei var. Castaneae Sace. non ha alcun rapporto col Corineum Kunzei Corda, e che invece è identico allo Stfeganosporium Castaneae Lib., anche in tale caso non sarebbe dimostrata la sua identità col nostro Coryneum perniciosum, nè la identità della Melanconis modonia Tul. con la nostra Melanconis perniciosa. Dicemmo già nella nostra prima pubblicazione per quali ragioni rite- nevamo doversi tener distinto il Coryneum perniciosum dal Coryneum Kunzei var. Castaneae Sacc.; ora aggiungiamo un altro carattere distintivo impor- tantissimo, riferentesi alla forma e alle dimensioni dei basidi. Il Corynewm perniciosum ha ì basidi ramosi, relativamente grossi, ripetutamente settati e nodoso articolati; mentre il Coryneum Kunzei var. Castaneae Sacc. avrebbe basidi semplici, filiformi e relativamente esili come vedesi nella figura data dall'Oudemans, Confrontandolo ora il Coryneum perniciosum con la forma conidica della Melanconis modonia Tul., quale venne descritta e figurata dal Tulasne (e che, a parer nostro, ricorda più un Coryneum che uno Stegonosporium) rileviamo che vi sono caratteri distintivi, sui quali in modo speciale riteniamo dovere richiamare l’attenzione. Per la forma e le dimensioni dei conidi considerati nel rapporto delle due dimensioni, osserviamo che quelli del Coryneum perniciosum sono, in complesso, evidentemente di forma meno allungata di quelli descritti e figu- rati dal Tulasne, essendo questi ultimi proporzionalmente più sottili; ma entro gli estremi limiti da lui indicati (20-60 X 10-13 u), non solo potreb- bero entrare quelli del Coryneum perniciosum, ma anche quelli della mag- gior parte dei Coryreum corticoli che crescono sopra le cupolifere: e ciò, senza soverchiamente stiracchiare. Citiamo ad esempio il Coryneum Kunzei Corda, il C. disciforme Kunze et Schum., il C. MNotarisianum Sace., il C. oligosporum Corda, il C. pustu- latum Peck., il C. Sydowtanum Al. ecc., alcuni dei quali avrebbero altresì in comune altri caratteri. Del resto il carattere più importante per distinguere il Coryneum per- niciosum dalla forma descritta e figurata dal Tulasne, è anche in questo caso fornito dalle dimensioni e dalla forma dei basidii. Il Tulasne, infatti, nella descrizione del suo fungo dice dei conidi: « in sterigma breve, simplex et crassiusculum solvuntur ». Ora, i basidii del Coryneum perniciosum sono invece relativamente lunghi (qualche volta fino ReNDICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. i 28 — 206 — ad oltre 100 w), sottili (4-4 %/, w) e ramificati, cosa di cui i signori Griffon e Maublanc possono accertarsi esaminando attentamente il nostro materiale. Riteniamo quindi che il Coryneum perniciosum sia da tenersi distinto dalla forma conidica figurata dal Tulasne, anche per gli stessi caratteri che questi ha messo in evidenza nella sua descrizione e nelle sue figure. * x X Ora consideriamo i picnidi. Confrontando la forma picnidica della nostra Melanconis perniciosa (Fusicoccum perniciosum Briosi e Farneti) con la forma picnidica della Melanconis modonia Tul. descritta dal Fuckel, troviamo che quest'ultima si presenta con: « spermatiis peritheciorum juvenilium oblongo-ovatis, con- tinuis, hyalinis, 8 # long., 4 w cerass., peritheciorum adultorum (macrosper- matia) cylindraceis, curvatis, continuis, hyalinis, 10 wlong., 2'/» 4 crass. 7, mentre la forma picnidica della Melanconis perniciosa descritta nella seconda nostra Nota presentasi con: « sporulis oblongo-fusoideis, intus granuloso-mul- tiguttulatis, 56-66 X 11-13 w; basidiis acicularibus, dimidio brevioribus ». Perchè i signori Griffon e Maublanc, nell’identificare la Melancomis per- niciosa con la Melanconis modonia Tul., non hanno preso in considerazione anche la forma picnidica ? Le differenze sono tali che non hanno bisogno di essere messe in evidenza, e basterebbero da sole per non confondere la Me- lanconis perniciosa con la Melanconis modonia Tul. * Xx * Passiamo ora alla forma ascofora. Se in questa le differenze non sono molte, non pertanto esse pure ci sembrano sufficienti per distinguere le due specie. Le spore della Melanconis perniciosa sono generalmente più grosse in rapporto alla lunghezza, di quanto non lo siano quelle della Melanconis modonia Tul.; ma, a parte questo, lo stesso Tulasne ci indica un carattere molto im- portante, che basterebbe per non confondere le due specie, poichè egli scrive che le spore della Melanconis modonza, approssimandosi alla germi- nazione, si dividono in quattro cellule cosa che non avviene mai in quelle della Melanconis perniciosa, le quali rimangono sempre bicellulari. Le differenze morfologiche che noi abbiamo sopra indicate, sono più che sufficienti per far tenere separate le due specie; ma a legittimare tale separa- zione si aggiunge altresì un carattere biologico, e di primo ordine, quello cioè del parassitismo del nostro fungo, che manca nella Melanconis modonia Tul. Quand'anche si trattasse di un semplice parassitismo facoltativo, questo fatto, a mente nostra, basterebbe per ritenere distinta la Melanconis pernictosa come forma specializzata, comportandosi essa per rispetto all'ospite, quale un vero ctenofita, come verrà dimostrato nel lavoro in extenso che quanto prima pubblicheremo negli Atti dell’ Istituto Botanico di Pavia. — 207 — In conclusione, per quanto riguarda l’identicità o meno della nostra specie con altra di già nota, noi continuiamo a ritenere, anche dopo la pub- blicazione dei signori Griffon e Maublanc, che le nostre tre forme, cioè il Coryneum perniciosum, il Fusicoccum perniciosum e la Melanconis perni- ciosa, si debbono tenere distinte dalla Melanconis modonia Tul. e dalle sue forme conidica e picnidica ('). Meccanica. — Sulla biforcazione di una vena liquida. Nota I di U. CisoTtTI, presentata dal Socio LevI-CIVITA. Meccanica. — Sopra un caso di emisimmetria che si pre- senta în certe questioni di Idrodinamica. Nota di G. COLONNETTI, presentata dal Socio LevI-CIVITA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Meccanica. — Contributo allo studio delle tensioni elastiche. Nota I di UmBERTO CRUDELI, presentata dal Corrisp. G. LAURI- CELLA. 1. Sono noti i resultati ottenuti, nel 1906 (?), dal prof. Lauricella sull’integrazione delle equazioni dell'equilibrio dei corpi elastici isotropi. Il metodo del prof. Lauricella. per la risoluzione diretta del problema dell'equilibrio elastico, dati gli spostamenti in superficie, s'ispira al proce- dimento svolto dal sig. Fredholm per risolvere, con nuovo indirizzo, il pro- blema interno del Dirichlet. Si prendono, cioè, le mosse da un sistema di soluzioni fondamentali (singolari) delle equazioni indefinite dell'equilibrio (*) Le nostre pubblicazioni prese in esame dai sigg. Griffon e Maublanc, sono delle Note preliminari, alle quali deve seguire il lavoro definitivo. La prima parte di questo, ora in corso di stampa, è corredata di nove tavole di già stampate, nelle quali sono figu- rate: le diverse forme del parassita; le pustole iniziali ed i cancri che esso produce; il percorso che segue l’infezione dai rami al fusto, sino alla radice; le alterazioni ana- tomo-patologiche dei tessuti attaccati, e sonvi riprodotte le fotografie dello piante nelle quali si vesgono i risultati di già ottenuti con la cura da noi consiglidta, ecc. Di queste tavole, noi ci permettiamo mandare in omaggio una copia a codesta ec- celsa Accademia. Un'altra copia abbiamo spedito ai signori Griffon e Maublanec, onde essi possano formarsi uu’idea delle ricerche alle quali noi da tempo attendiamo. (?) Rend, R. Acc. dei Lincei, vol. XV, serie 5%, 1° sem.; Nuovo Cimento, serie V, tomo 13. — 208 — : È n elastico e, analogamente a quanto sì fa con 1 7 (dove r=la—-B+(y— n +(@—-0?) nel caso della 4° = 0, si perviene a trovare sul contorno o (assoggettato alle note restrizioni) dello spazio finito S, semplicemente connesso, occupato dal corpo, un sistema di equazioni integrali di 2° specie (tipo Fredholm) dalla cui risoluzione dipende direttamente quella del suddetto problema degli spostamenti. Equazioni integrali, come abbiamo detto, del tipo Fredholm, nelle quali i nuclei divengono, nel punto «=&,y=#n,4=% del con- torno o, infiniti del primo ordine rispetto alla 1. Un procedimento perfet- tamente analogo viene però a mancare (') qualora si voglia risolvere il pro- blema dell'equilibrio elastico quando siano date sulla superficie o le ten- sioni, invece degli spostamenti, problema che dovrebbe fare, in certo modo, riscontro, secondo l’idea citata, con quello di costruire una funzione armo- nica, avente data derivata normale sul contorno. Resulta, quindi, manifesta l’importanza di vedere se possa costruirsi un sistema di tensioni caratteri- stiche, il quale permetta sulla o un qualche confronto, diciamo così, sug- gestivo, fra la componente della tensione secondo una data direzione e la ì 1 c SE . derivata della x secondo la direzione stessa. Nel presente lavoro costruisco appunto, nel corpo che occupa il supposto spazio S, un sistema di tensioni caratteristiche, il quale, sulla superficie o, crea una tensione la cui compo- nente secondo la normale a o nel punto (2 ,y,4) [come pure secondo la normale a o in (£,N,)] diventa, sulla o stessa, per <=3,y=7n,6=6, infinita del primo ordine rispetto alla ; indipendentemente dal sistema di assi costruttivo (*). E, perciò, in tal caso, la singolarità desiderata si ha per quanto riguarda la componente normale della tensione, analogamente, E 1 ; È Ji 7 diciamo così, a quanto avviene per la derivata della 2.) derivata che, presa secondo una direzione generica, non avrebbe la singolarità in discorso, bensì una singolarità del secondo ordine. Cioè, qualora mi prendessi la libertà di abbreviare l'espressione « componente della tensione secondo una data dire- zione » col dire « tensione secondo una data direzione », all’espressione (!) Circostanze analoghe sono state poste in luce chiaramente in una Memoria del prof. E. E. Levi, / problemi dei valori al contorno per le equazioni lineari totalmente ellittiche alle derivate parziali, comparsa fra le Memorie della Società dei XL (1909). (3) Occorre por mente alla distinzione fra sistema d’assi costruttivo e sistema d’assi rappresentativo. Essi, generalmente, coincidono (come noi pure qui supporremo), ma l’uno serve per la costruzione a priori di tensioni, mentre l’altro serve per rappresentarle. — 209 — « derivata secondo una data direzione » verrebbe, nel caso che quì tratterò, a corrispondere, col significato suddetto, l'altra di « tensione secondo una data direzione ». 2. Come già ebbe a notare il Beltrami (*) [e come si deduce subito dalle equazioni indefinite dell'equilibrio elastico 209 PI) 20 4° — = o 4 k—= , 4A°ss+k—==0 Se dk 3 0 Sy > 8 + si (1) dI dS d 0= —£ + Z + n , dopo avere ricordato il postulato di Hooke, che lega le tensioni caratteristiche alle caratteristiche della deformazione (*)] supposte eliminate le forze di massa (come noi quì sempre supporremo) fra le tensioni caratteristiche sus- sistono di conseguenza le seguenti relazioni 2 2 2 Di as'X,=0 7 so ? Ti + adt,=0 (2) { _2?T A°X,=0 , c4°9Y\,=0, È pl ef 1 gt 4a = T=X+tY,tZ, dove a=1-+ essendo 09= De) — )) (rapporto di Poisson) ovvero dia 944283541 24+u) 2% (*) Rend. R. Acc. dei Lincei, 1892 (1° sem. pag. 142). (*) Chiameremo « caratteristiche della deformazione » le sei quantità che gli inglesi chiamano « strains » e «tensioni caratteristiche » le sei tensioni dette « stress » dagli inglesi. Le prime verranno indicate con a@,d,c,f,9,% intendendo __ So __ dSy __ dsx dSz dSy _ dsx dz cu 3 Se ge x ail SU e le seconde con Xx, Xy,Xz,Yx,Yy,Yz.Zx,4y,Zz dove X,=Yx,X:=Zy,Zx=X. Talchè, in virtù del postulato di Hooke, sarà Xo=(44 24)a +45+42c, Y,= 244 (A-+ 24) 0 +40, Z:= 2a +-25+ (A+ 2w)c Zy=Vx=wf , Ia =X:=pug , Xy=Ya=wh, avendo indicato con Z e wu le due costanti d’isotropia (Tali costanti sono legate alla £ o dalla relazione 4 = . Si ricava Xx 4+-Yyt4+Z:=T=(84-+24)0. — 210 — E, dati i limiti entro cui trovasi compresa, nella ordinaria teoria della elasticità, la costante X, le relazioni (2) [già considerate come conseguenza dell'equilibrio elastico (')] e le seguenti (3) PRG. 1 DIGI dx po dY Li al DA dA (3) dI puo dY TE d8 A n VIBO dx pa WY Lo de ni Y:=X,,X,=Z,4=Y z possono concepirsi nel loro insieme simultaneo (2) (3) come un sistema di equazioni atte ad individuare le pure deformazioni elastiche (infinitesime) (?). Supposto trovato un sistema di tensioni caratteristiche, regolari nello spazio S, il postulato di Hooke Xr=(4+2u) a+ 26 +e y = 4a +-(4 + 2u) 6 4-4e Z. = ha + Ab+ (A+ 2u)c Y:= pf ,Iy= ug, Xy= uh ci fornirà le corrispondenti caratteristiche della deformazione, essendo il de- terminante i À + Qu À À À 4424 À = 4u?(34 + 2p) | À À 44 2u nella ordinaria teoria della elasticità diverso da zero, giacchè, in virtù dei | limiti entro cui si pone, nella teoria medesima, il rapporto di Poisson, si i ha, come è noto, u>0,k>5, ovvero u>0,34-+2u>0. E gli spo- (') Rend. R. Acc. dei Lincei, 1905 (1° sem., pag. 129). (3) E implicitamente inteso che noi quì consideriamo i corpi elastici isotropi ed omogenei. — 211 — stamenti potranno, poi, calcolarsi, a meno naturalmente di uno spostamento rigido arbitrario, mediante le note formule del Volterra ('). Ritengo opportuno porre in luce, incidentalmente (anche per l'interesse che ciò può avere dal punto di vista fisico) come nel sistema di equazioni (2) e (3) si possono mettere in evidenza tre parti @ ciascuna delle quali, presa separatamente, può darsi la forma che ha, nel caso di forze di massa derivanti da un potenziale, il sistema delle equazioni del moto lento stazionario dei fiuidi viscosi incompressibili. Infatti, il suddetto sistema (2) (3) può scriversi così: Hi 7) +es,=0, delle sca (+= De 1? 45 © (db ST SE Lante aa mi, mei Ha Voi Ve dI n eni Lana dZy dY, DI mt; e Da cui l’asserto resulta manifesto. Ciò posto, vengo a costruire un sistema di integrali (cui più sopra ho alluso) delle equazioni simultanee (2) e (3), integrali che sono regolari nel- l'interno dello spazio S, mentre sul contorno o la relativa componente della tensione secondo la normale 7 (come pure quella secondo la normale v) di- verrà sulla o stessà, nel punto x =, y=nN,&=\, infinita del primo ordine rispetto alla ° (*). Con »v ho indicato la normale nel punto (#,7,%) fisso (arbitrario) del contorno 0, mentre x rappresenterà la normale nel punto generico del contorno stesso. (*) Vedasi una Nota del prof. Almansi (Rend. R. Acc. dei Lincei, 1907, 1° semestre, pag. 23). (*) Supposto il contorno o assoggettato a note restizioni. — 212 — Il sistema di integrali in questione è il seguente | di ta so n= (-Lg +1 pel AN ; (en) r SS 92? cos 7v 3 dY RR dI dY pe ZN r x, d° c0S7v ta — (EH 8a "; 5 d as ti =—(kK+1)r Ùy — 0087» vii seo wa il LE Tenri costo (4) lo = C-Dbyg + 1)r 0 d°- ZN e sl er O ai, PE is cos 7V tai (E+1)7 em cos 7°v E Dal x ZS D GOS 7V tb =—(kK+1)7 ny cos Pv 007 ds dg; i d° cos rv ao | t33=" (o Tieni ò La r=V( (e E° +(y— n° + —- (GESop s'intende relativa alla di- stanza fra il punto generico (x,y ,4) dello spazio S, ed il punto (£,N,%) della superficie 0 (1). Meccanica. — Contributo allo studio delle tensioni elastiche. Nota II di UMBERTO CRUDELI, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (*) Il seguito ad una prossima Nota. — 213 — Matematica. — Un teorema sulle soluzioni delle equazioni lineari ellittiche autoaggiunte alle derivate parziali del secondo- ordine. Nota di MAURO PicoNE, presentata dal Socio L. BIANCHI. 1. Nella presente Nota do un teorema per le soluzioni delle equazioni lineari ellittiche, autoaggiunte, alle derivate parziali del second’ordine che è perfettamente l'analogo del classico /eorema di confronto di Sturm nella teoria delle equazioni differenziali lineari ordinarie del second'ordine. E la dimostrazione consiste appunto in una immediata estensione di quella che io detti del teoremo indicato di Sturm nelle mia Tesi di abilitazione (6) Il teorema, che qui dimostro, conduce poi ad una notevole proposizione sugli zeri delle soluzioni delle equazioni lineari ellittiche autoaggiunte del second'ordine, i cui coefficienti dipendono in un certo modo da un para- metro À, proposizione che, in particolare, stabilisce molto semplicemente una nota proprietà delle linee nodali nelle oscillazioni semplici di una mem- brana vibrante. Lo stesso teorema permette altresì, come farò vedere in una Nota che seguirà la presente, di assegnare in modo preciso, per la più generale equa- zione ellittica autoaggiunta del second'ordine, il limite superiore di lunghezze lineari da cui dipende l'estensione di una regione piana di contorno presta- bilito (per esempio, il limite superiore della larghezza di una striscia, della larghezza di una corona circolare, del raggio di un cerchio, ecc.) per ia quale sussiste la proprietà che i valori dell’integrale assegnati su un con- torno chiuso limitante un campo tutto contenuto in essa valgono a determi- nare l'integrale. 2. Si abbiano le equazioni ellittiche autoaggiunte del second'ordine: DE dU QU) 1 3 dU dU ) gl) IRE, De (1) da Ì (2,9) O) ore I) Rn (2,9) 3g) Iria@,2)\2= 0 d du dU | d | U dU | To E L ros 2 CA ea ian 2 = 2 STIMI( (2) a 2(% 4) > Tiles te) > + c2(a 39) gin + As(c,9)u=0; . 0 0: dI dÎ UO Lo d DI per le quali On OA I N ea =, Ren 2. dI dd dY dd dY' dy dY (*) Picone, Sui valori eecezionali di un parametro da cui dipende una equa- zione differenziale lineare ordinaria del second’ordine (Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, vol. XI). Le molte altre dimostrazioni che si conoscono del teorema di Sturm non mi pare siano suscettibili di una simile estensione. RENDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 29 old — A,, A, sono funzioni finite e continue in un campo connesso e finito C di contorno chiuso €. Avendo supposto le equazioni (1) e (2) ellittiche, risulterà in C 0A 07 205 supporremo sempre, per fissare le idee, che in C sia COAT 005 Vale allora il seguente /eorema di confronto: Se è in C 0,=> 0, , (0—0)( — rv) —(—t)°>0. As=> A ed esiste una soluzione u della (1) identicamente nulla sul contorno c di C (1), non potrà esistere una soluzione v della (2) per la quale @l rapporto U DD) non sia costante in C e tivi si conservi finito. Ammettendo infatti l’esistenza in C dell’indicata soluzione v della (2) s per la quale il rapporto Li conserva finito, si perverrà ad un assurdo nel modo che segue. Poichè x è nulla su e, si ha la relazione {| Di du dU Zi. dora (ACCO (3) Jie 242% Pato \aedy= ffAn de dy , / nella quale, ora come sempre in seguito, intenderemo gli integrali doppî estesi al campo C (?). Poniamo nella (8), in luogo di A,u®, la sua eguale Ud dv +22) DIA Die ai 5 DA ala +leateg (Ax (1) Sottintendiamo naturalmente una soluzione non identicamente nulla in C. Av- vertiamo che parlando di una soluzione di un’equazione del 2° ordine, supporremo la soluzione finita e continua nel campo € (il contorno incluso) insieme alle sue derivate prime. (®) Cfr. Picard, 7raité d’ Analyse, t. II (1905), pag. 23 e seg. Dalla (8) del testo si deduce, com'è noto, poichè la forma quadratica 0,X°+ 24, XY + z,Y? è definita po- sitiva, che se in C è A(2,y) = 0, una soluzione della (1) nulla su c è identicamente nulla in C, si deduce cioè, nell'ipotesi A(x,y) = 0, il teorema d’unicità per gl’ inte- srali della (1) che prendono su c valori assegnati. Notiamo che questa conclusione non rientra in quella analoga del Picard a pag. 24 del luogo citato, rientra invece, supposta una più elevata derivabilità nei coefficienti dell’equazione, in un teorema del Paraf (cfr. Picard, loc. cit., pag. 34). Peo DI ciò che possiamo fare poichè spesi manterrà, per l'ipotesi fatta, finita e continua in C, il secondo membro della (3) si trasformerà allora nella somma seguente -{ (a+ s)dew— [) Sil be So) de dy— io Ora, tenendo presente l’ipotesi fatta su £ ed osservando che su c_ sarà v =0, integrando per parti si avrà La] (4a SIEPE TA - ME (4 SEI Ta s)ew=2 ff (3 20 ST ° dx dy — 4 YARD dY v dy si La 3 Do ge mentre il primo membro della (3) potrà anche scriversi ($ DA] du WU i (aaa. 2) da Ji i )( 2a DE (nta) x) ( si 4 letto Ne segue quindi dalla (3) di \o-o(È DIEZIO —MTZiLa Litas 1) (34) faedy dI dY alli Le "le 2a dalla quale ultima relazione, per le ipotesi O==d0 208 (0 — 0.) (1-2) —(—-t)=>0, 0-0 0,1, -t%>0, ASE=D9A 0, — 216 — si deduce necessariamente, du Udo du — UDO | Dani > DEMO) cioè che il rapporto sal costante in C. Questa conclusione, poichè in © non è identicamente u= 0, è contraria ad una delle ipotesi ('). Osservando che l'equazione (2) può anche coincidere colla (1), possiamo dunque dire: Se esiste in C una soluzione « della (1) nulla su c, non può esistere una soluzione v della stessa (1) o della (2) che non si annulli mai in C (il contorno incluso), 0 che si annulli in modo che il rapporto el conservi finito in tutto C (il contorno incluso), a meno che « e v non di- pendano linearmente. Rileviamo che si ha in particolare: In un campo C in cui esiste una soluzione della (1) nulla sul con- torno, ogni soluziona della stessa (1) o della (2) non può sempre conser- varsi diversa da sero. Questa conseguenza, per quanto concerue la sola equazione (1), è ben nota. 3. Si abbia ora l'equazione CATTRILE CEST RICE CO: (4) d. di du DIGI Dr: +I fel) RE tele g Z| T AGIO. i cui coefficienti dipendono dal parametro Z in modo che essa sia ellittica per qualunque valore di Z. Si può facilmente dimostrare il teorema: Se le funzioni 0(x,y 3%), (2,432). t(2,y;4), A(0,4;4), — de di dI dy' Ia disfano alle limitazioni Ina n n , P(A)=(7,9:2)=p()>0, (5) di | P(A) — 0(2,y54)}.} (o yi —t(e,y;4)=0, M(4) = A(c,y;2)=> m()> sono în C, per ogni valore di 4, finite e continue e s0d- 9 (1) Osservando la dimostrazione del teorema può sembrare a prima vista che sì possa fare a meno della condizione per la (1) d'essere ellittica, ma si vede facilmente che dalle diseguaglianze 0,1 = 0,,0,>0, (01—0,) (11 ta) — (t1- t=0, 0, #>0, segue 061> 0, 0,11 —t>0. — 217 — mentre si ha (6) lim P(4)= quantità finita 0 nulla , lim m(A)= 00, A=® A=® assegnato un segmento di lunghezza o arbitrariamente piccola, esiste sempre un valore Às di 4 tale che per RENE , ogni soluzione della (4) sî annulla în una qualunque porzione di C limi- tata da un cerchio di raggio o. Confrontiamo infatti l'equazione (4) con l'equazione d d | (71) NE RC) Fari PAS +@u=0, che può anche scriversi DIVIRIZ 1(4); SI at ag tt pae od anche, ponendo m(A) P(4) PRCAMND = pre I A? À u= 0. ec DI 2A O — 24°(A), (72) La funzione v= sen A4(4) x sen A4(4) y è una soluzione della (7), questa soluzione è nulla sul contorno di ogni quadrato Q}, formato dalle parallele agli assi coordinati «= ; sail i IT IT h e k significando due arbitrarii numeri intieri. Ne segue intanto, dalle diseguaglianze (5), in forza del teorema del n. 2, che per ogni valore di 7, ogni soluzione della (4) si annulla in un qualunque quadrato Q}, che sia contenuto nel campo C. Ma per la (6) si ha lim 4(2)= 00, A=% — 218 — esisterà pertanto, comunque piccolo sia o, un tal valore Az di 4 che per A= As; sì abbia TT o ——___—zt = mm (4) V2 i Ora per gli indicati valori di %Z non inferiori a 25, in un qualunque cerchio di raggio o è contenuto almeno un quadrato Qì},, per cui in una qualunque porzione di C limitata da un cerchio di raggio o, pei detti valori di Z non inferiori a 45, vi si annulla ogni soluzione della (4), c. v. d. 5. Ne concludiamo che se we, ;4) è una qualunque soluzione della (4), i punti le cui coordinate 2 e y soddisfano l'equazione Meg; 4)=0, invadono in modo uniforme, per 4 crescente all’ infinito, una qualunque porzione di C, comunque piccola e dovunque situata. Alle ipotesi del teorema, testè dimostrato, soddisfa l'equazione DI DATO (e — {0 uil — ZA+B)u=0, Zi dp ile) + De per la quale 6 e 7 non dipendono da 4 e con A(x,y) si conservano in © maggiori di una quantità positiva. Consideriamo la (4) nel caso ancora più particolare 0x,9:3)=%0,9;2)=1, t(7,y;3)=0, Ae,932)=%, consideriamo cioè l'equazione delle membrane vibranti 0 0 DI 3 (8) I i all È noto che per classi particolari di contorni e di C è stata dimostrata l’esistenza di infiniti valori positivi di 2° (7 valori eccezionali di 4°) RIZZA aventi il punto infinito per unico punto limite, per ciascuno dei quali esi- stono soluzioni della (8) nulle su e e non identicamente nulle in C (?). Considerando contorni c della specie indicata, designamo con u(2,%; Àx) una soluzione della (8), corrispondente al valore eccezionale Zi, nulla su c, i punti di C (interni) in cui si annulla (0 ,y;4x) si distribuiscono in (1) Cfr., per esempio, Poincaré, Sur les équations de la Physique Mathématique [Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo (1894)]; Hilbert, Grundeige einer allge- meinen Theorie der linearen Integralgleichungen (Zweite Mitteilung) [Gottinger Nach- richten (1904)]. — 219 — linee (*) costituenti le linee nodali in una oscillazione semplice di una membrana vibrante avente e per contorno fisso. Per cui il teorema del nu- mero precedente, riflettendo che lim 4, — co, dà in particolare: k= c0 Le linee nodali in una oscillazione semplice di una membrana vi- brante avente un qualunque contorno piano, fisso della specie indicata, invadono in modo uniforme, nell’elevarsi indefinito del tono, una qua- lunque porzione (comunque piccola e dovunque situata) della regione del piano limitata dal contorno (3). Matematica. — Sul problema di Dirichlet per la più ge- nerale equazione lineare ellittica autoaggiunta alle derivate par- ciali del second’ordine. Nota di MAURO PICONE, presentata dal Socio L. BIANCHI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Matematica. — Su/la formola di Stokes che serve & deter- minare la forma del Geoide. Nota II di A. SIGNORINI, presentata dal Socio P. PIZZETTI. In questa Nota completiamo i risultati della Nota dello stesso titolo già pubblicata in questi Rendiconti nel senso indicato in fine della Nota stessa. Supposto il Geoide poco differente da nna sfera Sì di raggio 4, indi- chiamo con S una superficie pure poco differente da S, tale che siano noti 1 valori g che la gravità assumerebbe nei singoli suoi punti se il Geoide coincidesse con essa, la massa totale terrestre M e Ja velocità angolare ter- restre w restando inalterate. Dette inoltre Po (*) Cfr. per esempio, Riemann-Weber, Die partiellen Differentialgleichungen der mathematischen Physik, weiter Band (1901), pag. 282 (teorema IV del $ 114) (2) Alla stessa proprietà, certamente con mezzi assai meno semplici, si perviene, come sarà stato osservato, valendosi del teorema della media per l’equazione (8), espresso dalla formola - 27 Uo JaM= ur, 3) da, 0 dove J(x) designa la funzione di Bessel d'ordine zero e o il valore di una soluzione « della (8) nel centro di un cerchio di raggio r tutto interno a C. Cfr. Riemann-Weber, loc. cit. (teorema VI del $ 114). — 220 — le coordinate polari geocentriche di un punto qualunque dello spazio, di- ciamo A90, l'anomalia che la gravità osservata in un punto (0,0) del Geoide presenta rispetto al valore teorico g corrispondente al punto (9,0) di S. Sia poi, conformemente alle ipotesi fatte, Deli) iP (0) _— ove « è una costante così piccola che nei nostri calcoli potremo sempre trascurare i termini che contengano a fattore il suo quadrato 0 il suo pro- dotto per w?, e # è una conveniente funzione di 0,v — l'equazione di G in coordinate polari geocentriche. Avremo allora (1) f AGgry Pi(0,0; 60", 0)d2" =0; 4T e l'equazione del Geoide sarà data da Tonga ra (1—ct— At), ove Af è una funzione di 9,v legata alle funzione AG dalla equazione integrale 19) 00 (0.0 =" »a n(0 : 00 rr dO' — n; Ata, Io) 2 (00 ; 00) AGgnrd 3 i) 1. 2 — 8 afM rr de Ne DE n 3 / ryd92', 87 af M RIALL d + Art cda Zi (0v 2 0 v') Ato d f essendo la costante dell'attrazione, e avendo posto, secondo il solito, de'= sen 0' d6' dy' (*). Il nucleo di questa equazione diviene evidentemente infinito per 0=9', v=v'. Volendo dunque risolverla, seguendo un procedimento dovuto a Fredholm, sarà in primo luogo da esaminare se qualcuno dei successivi nuclei iterati risulta finito e continuo per tutti i valori di 0,0',v,v'. In base ai risultati della Nota I, si trova subito Ki(0:0:0 0) DTA P,(0,0;9,0)) ed anche — poichè il teorema ivi dimostrato, applicato, come è lecito, alla (®) Cfr. Pizzetti, Intorno alla determinazione teorica della gravità alla superficie terrestre. Atti d. R. Acc. delle Scienze di Torino, vol. XXXI. funzione K:(00; 00) = 3; < E Di P(0,01;9,v) Il 3° nucleo iterato è dunque sempre finito e continuo; e quindi, posto E(0,v; dl. v;0',v)—-K,(0,0;0,v)= di => n ERI ta) 4n452n+1 a: D Pu(90 560) AGved@ — 2 Spiga MT se l'equazione integrale Afgy= g(0,0) — ; g(0',0) E(0,0;0",0) d2 + 65) jp + J K(00; 60) Aly d£' AT (4) 9(00) = avrà una ed una sola soluzione, anche l'equazione integrale (2) avrà una ed una sola soluzione che coinciderà con essa. Ora, la serie dei nuclei iterati dell'equazione integrale (5) (CO 3 00 (co) g8301 N oo Si ; n, ; 06 )= 4 Zon (an 4 pei Pal ui 3° e 2n+1 1 = Pn 0100) 8r4- n—-1 4n°+10n+13 al ) converge uniformemente per ogni valore di 0, 6",v,v°. Quindi l'equazione integrale (4) avrà un nucleo risolvente $ ®< 2n+1 1 = CORINTO. IDE P,(0v,0v), e quindi anche l'equazione integrale (2) avrà una ed una sola soluzione, data da At = g(00)— | E(0,0:9,0)g(0",0) de + AT (7) +| Fu NVERGRNDO) LO 0) — | sO, dC) 19 | dQ', RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 530) N99, — Poniamo, cosy= cos6 cos0' + sin 0 sin 0' cos(v — 2) nti p n(c0s 7) = ®(cos y) = cosce 7 +1 — 5 cosy — 6 sin 3 + DI ? = i A SI) + 8 c0sylog (sin? sin 2) Se, dopo ciò, nella (7), a g(00) , E(0,0;0",0), T(6v ; 0'v') sosti- tuiamo i loro valori effettivi (4) (3) (6) ed integriamo termine a termine le serie che vengono allora a comparire sotto il segno integrale nel secondo membro della formola stessa — ciò che, per i risultati della Nota I, è per- fettamente giustificato — tenendo presente la ‘3 si trova facilmente 42 At, == — U AGgry do + (e AGgni D( (Y) do. 8afMa ta 4ni A Questa è appunto la formola di Stokes che serve a determinare la forma del Geoide. Matematica. — Sul criterio di Stephanos. Nota di A. Sicno- RINI, presentata dal Socio L. BIANCHI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisica. — Variazioni periodiche di resistenza dei filamenti metallici sottili resi incandescenti con correnti alternate e de- duzione delle loro proprietà termiche a temperatura elevata. Nota di 0. M. CorBINO, presentata dal Socio P. BLASERNA. In un circuito percorso da correnti alternate, la presenza di un condut- tore avente una resistenza variabile con la intensità della corrente si tra- duce in una variazione della legge con cui questa si svolge nel tempo. La corrente non avrà più, in conseguenza, la forma sinusoidale, anche quando sia questa la legge di variazione della forza elettromotrice: e questo cambiamento di forma si tradurrà, in generale, nella sovrapposizione di al- quanti armonici all'onda fondamentale, che resterà fortemente predominante se le oscillazioni di resistenza son lievi. Il metodo oscillografico si presta poco in questo ultimo caso; poichè lievi modificazioni della forma della corrente possono restare dissimulate, ed essere difficilmente separabili gli armonici introdotti. Mi è stato invece MIN — molto utile l’impiego del tubo di Braun, adoperato con una specie di bobina differenziale, nel modo che passo a descrivere. Sul tubo agiscono, normalmente tra loro, una piccola bobina À e una molto grande bobina B, costituita da due avvolgimenti distinti assoluta- mente identici; a tal fine l’avvolgimento è eseguito con due fili paralleli an- zichè con uno solo. Per uno dei due avvolgimenti passa una corrente sinusoi- dale derivata sulla linea attraverso a una resistenza ohmica; per l’altro la corrente che ha circolato nella resistenza variabile. La prima corrente tra- versa anche la bobinetta A, di cui sopra, mentre con una self ausiliaria inserita nell’altro circuito si rendono eguali le costanti di tempo dei due circuiti. La grande bobina B è così percorsa contemporaneamente dalla corrente normale e dalla corrente da studiare: gli attacchi son fatti in modo che gli spostamenti subìti dal cerchietto luminoso per effetto delle due correnti siano di senso opposto: cosicchè quando queste sono comunque variabili, ma assolu- tamente identiche tra loro, il puntino resta in quiete nella sua posizione normale. In tali condizioni, l’azione di una sola delle due correnti è for- tissima sul tubo: tale che il puntino sfugge totalmente, nel massimo di corrente, dal disco fluorescente e cade sulla parete di vetro. Chiamiamo {= Asenwt la corrente normale nel 1° circuito; sia la corrente nel 2° circuito —A,senowt+B,coso/+A:senwt4+B,cos20f+... nella quale, se la corrente è poco perturbata, tutti i coefficienti da B, in poi sono piccoli rispetto ad A). Lo spostamento verticale del puntino sarà dato, per la contemporanea esistenza delle due, da y=(A,— A)senwt+B, cosw+A;sen20#+-B; cos20t+... mentre lo spostamento orizzontale sarà dato da x= K sen vl ove K è una costante. Si disegneranno quindi sul disco delle curve più o meno complicate, che potranno facilmente essere fotografate e in alcuni casì sì presteranno a una semplice interpretazione. Il successo pratico del metodo si deve a ciò che facendo A,j=A, compensando cioè la componente più forte di 2’, lo spostamento y rivela tutte le perturbazioni più lievi nella forma della cor- rente che traversa la resistenza variabile. — 224 — 2. Per dimostrare il partito che può trarsi dalla semplice disposizione descritta, riferirò, per adesso, i risultati ottenuti quando la resistenza varia- bile è costituita da alquante lampade a filamento metallico. Essi mi han consentito di verificare alcune delle conclusioni cui ero pervenuto in un mio lavoro anteriore sulle oscillazioni termiche dei filamenti sottili percorsi da correnti alternate (). Ebbi allora a dimostrare che detta W la potenza media spesa nel filo, emessa secondo una funzione /(T) indeterminata della temperatura assoluta T; c la sua capacità colorifica nei limiti tra cui oscilla la temperatura, misurata in unità moccaniche; e a il coefficiente di variazione termica della resistenza nei medesimi limiti; + la temperatura del filo contata dalla sua tempera- tura media T,,; e ponendo Q=4/ (Tm) +/ (Im) =aW+ (07) | Wtra | le oscillazioni della temperatura si compiono sinusoidalmente e in modo tale che essendo la f. e. m. e, senz, si ha (1) I= 0 cos(2wt — g) con coso, —. 8e1g (2) dan © Q PAGO) e 260 5) tan = (3) g9=ng Il ritardo % delle oscillazioni di 9 è così computato sulle variazioni periodiche della potenza istantanea w, data da w=W(1— cos2wt) La resistenza istantanea 7 sarà legata alla resistenza media 7, dalla relazione (4) T=Tm(1-+a9) Le formole ci permettono perciò di prevedere l'alterazione prodotta dal filamento nella forma della corrente. Infatti, l'intensità sarà data da C0 Sen wi Cm(14- 09) (!) Corbino, Rend. Lincei, XIX, 1° sem., pag. 193 (1910). —r_—_———"-——_—_—__—_—_—______—_—___eoeo rec— 225 — ‘ovvero per la piccolezza di a+ rispetto a 1, da f je DEE | 4® cos (2ot — 9) | Tm da questa si deduce i=2| (1 + o COS 9) sen wi de sen gp coswi — s sen(3wi — 9 | o: 2 Abbiamo così una componente in sen w/, e due componenti in coswi e in sen (30 —g) d'ampiezza molto più piccola. Questa corrente traversa, come si è detto, uno degli avvolgimenti della grande bobina differenziale, mentre per l’altro si manda una corrente indi. pendente in senw/, di intensità regolabile. Si può far in modo da annullare l’azione sul cerchietto della componente in sen wf; resteranno così attive solo le altre due componenti, oltre allo spostamento orizzontale in sen wf prodotto dalla piccola bobina. Occorre perciò che la corrente compensatrice sì possa regolare con squisita graduabilità. Nelle mie esperienze la f. e. m. di città, di circa 105 Volt e 42 pe- riodi, alimentava 12 lampade Osram da 16 o da 32 candele; la grande bobina differenziale era di tali dimensioni da produrre con un solo dei circuiti con- trapposti (resistenza ?/3 di ohm, autoinduzione circa 4 millihenry) lo sposta- mento di 12 mm. nel disco di Braun per una corrente continua di 150 mil- liampere, cosicchè alla corrente massima, che percorre un solo dei circuiti, corrisponderebbe una deviazione grandissima, superiore a 400 mm. Malgrado ciò, se in luogo delle lampade a filo metallico si ricorre ad una resistenza invariabile, il compenso-è assoluto, e la figura tracciata dal cerchietto si riduce ad una retta orizzontale, come se agisse sul tubo solo la bobinetta A. Con le lampade si ebbero invece dei risultati corrispondenti perfettamente alla teoria. Aumentando progressivamente la corrente compensatrice, fino ad annul- lare nello spostamento verticale y la componente in sen wt, il che sì rico- nosce dal fatto che i massimi di y si portano a eguale altezza nelle due metà destra e sinistra della curva, questa presenta la forma della fig. (1). L'origine degli assi deve sempre essere un punto doppio della curva, se le costanti di tempo dei due circuiti sono eguali: poichè qualunque sia la legge di variazione di 7 col tempo, la corrente deve annullarsi contemporaneamente nei due circuiti, due volte a ogni periodo; si ha in ciò un criterio squisito per eguagliare le costanti di tempo medesime. Aggiungendo adesso la com- pensazione progressiva del termine in cos wf (con una terza bobinetta oppor- tunamente alimentata), l'escursione nel senso y, che era già minima rispetto alle condizioni precedenti, diminuiva ancora; e poichè restavano in tal caso (quando il compenso era sufficiente) solo la componente in sen (3wt — g) nel senso verticale, e lo spostamento orizzontale in sen wf, doveva ottenersi la nota curva di Lissajous per la composizione ortogonale di una oscillazione col suo terzo armonico. Il segno dell'esatto compenso è dato da ciò che i sei massimi di y si portano, tre a tre, su due rette parallele all'asse x. La fir. 2, corrispondente a questo caso, conferma la previsione; e dalla forma avuta si deduce ancora che 4 è molto prossimo a 90°. Questo fa sì che l'ampiezza della componente di y in cos wf, la quale per la (5) è data da 20 son (1) Sg è molto vicina, praticamente eguale, a m Bet Jesi quella in sen (3 @/— g), e ciò spiega perchè senza compensare quella com- ponente si abbia la curva a 8 della fig. 1, che somiglia alla curva di com- posizione ortogonale d'una oscillazione con la ottava, mentre è in realtà la composizione del fondamentale in sen wf con due oscillazioni, d'ampiezza quasi eguale, in cos @/ e sen (30f — g), essendo g prossimo a 90°. Figure analoghe alle precedenti furono ottenute con lampadine da 32 candele Ottenuto, con le due correnti compensatrici, l'isolamento del 3° armo- nico nello spostamento y, come all'incirca nella fig. 2, si può avere la mi- sura di 40. Basta a tal fine computare sullo schermo l'ampiezza di questo terzo armonico (*), traducendola in milliampere per confronto con lo spostamento prodotto da una corrente continua di intensità nota traversante uno degli av- volgimenti della bobina differenziale, e valutare la intensità efficace della cor- rente, e quindi la corrente massima che fornisce il valore di a. m (1) Le fotografie riprodotte sono prese attraverso alla parete cilindrica del tubo, dalla parte anteriore del disco fluorescente. Con l’artifizio di far agire sul ‘tubo, longitu- dinalmente, un solenoide percorso da corrente continua, la macchietta circolare si riduce ENO — Si ebbe in tal modo (tensione ai poli 103 Volt): a®@ = 0,0143 = 0,0006 per le lampade da 32 candele. a©'=0,0207 = 0,0005 » » ’ O MO Questi numeri rappresentano, per la (4), la misura della variazione mas- sima di resistenza elettrica del filamento nelle varie fasi della corrente ali- mentatrice: quella variazione si compie con un ritardo prossimo a 90° sulle oscillazioni della potenza assorbita dal filo. Cosicchè accettando il valore di « determinato dall'Ebeling coi filamenti metallici delle lampade di questo tipo (*), cioè , Si dovrebbe concludere 1 1500 che le oscillaziuni di temperatura hanno l'ampiezza di circa 10° per quelle da 32 candele, e di circa 15° per quelle da 16. Si tratta cioè di oscillazioni molto lievi di temperatura, e non di 250° come per le medesime lampade l’Ebeling credè di trovare col metodo oscillografico. Molto più difficile riesce una valutazione esatta di cos, per la vici- nanza di g a 90°; in questa regione un piccolo errore nella valutazione di apporta invero un grande errore relativo nella misura di cos g, e perciò la utilizzazione della prima delle (2) è poco consigliabile (?). L'errore ha invece poca influenza sul valore di sen g, che può porsi eguale a 1 entro i limiti di approssimazione raggiunti in queste ricerche. Possiamo perciò utilizzare la seconda delle (2), ponendo in essa seng= 1; sì ottiene allora a un punto brillantissimo circondato da un’aureola nettamente staccata dal punto; e perciò la curva presenta un filetto interno sottilissimo che permette puntate molto esatte sulla parete posteriore del disco millimetrato. (1) Ebeling, Ann. d. Physik; 27, pag. 891 (1908). (È) Si aggiunga che mentre per il primo armonico l’induttanza notevole (4 milli henry) di ciascuno degli avvolgimenti della grande bobina è come non esistente, poichè i due circuiti sono perfettamente allacciati e percorsi da correnti eguali, cosicchè la mutua induzione distrugge l’autoinduzione di ciascuno; lo stesso non può dirsi del 3° ar- monico che circola nell’uno, e che induce nel secondo una corrente la quale ne è solo una frazione e si compone vettorialmente con essa. Di questa corrente indotta che circola nel circuito compensatore occorrerebbe tener conto per correggere il valore dello sposta- mento sopra calcolato, poichè anche essa agisce, componendosi con la corrente inducente, sul cerchietto del tubo Braun; la correzione è di circa il */s per cento ed è perciò trascu- rabile. Ma l’errore apportato da questa causa sul valore misurato di cos p può essere sensibile. = Bo i E perciò, per le lampade da 32 candele, essendo w= 27 X42 e 9 W = 103 Volt X do Ampère, sarà Le esperienze descritte (') permettono adunque di dedurre il rapporto > tra la capacità calorifica e il coefficiente di temperatura del filamento alla temperatura di regime; entrambi gli elementi sono inaccessibili alla espe- rienza diretta. Per passare dalle capacità calorifiche c ai calori specifici £ espressi in piccole calorie, basta conoscere la massa M dei filamenti, che si determinò pesandoli dopo una delicata rottura del bulbo. Si ottenne così per quello da 32 candele M= gr. 0,0097, e per quello da 16 candele M=0,0044; perciò ld ne E 108 (07 a La conoscenza del valore di 4 permetterebbe perciò di dedurre il valore del calore specifico X alla elevata temperatura di regime; così adottando 1 TI deducibile dalle misure di Ebeling, si trova » per 4 il valore lo=050727 Ma è certo più prudente prendere come variabile indipendente la resistenza specifica anzichè la temperatura; quel rapporto misura invero la quantità di calore assorbita da 1 grammo del filo nel riscaldarsi, divisa per la conse- guente variazione unitaria della resistenza. E perciò, il risultato ottenuto ci dice che per riscaldare il filamento, alla temperatura di regime, di tanto che la sua resistenza si alteri di un millesimo, occorre un decimo di piccola caloria per ogni grammo della sua massa. Oltre alla conferma della teoria sopra ricordata, i risultati ottenuti ci forniscono adunque dei dati notevoli sulle costanti termiche del filamento, che non potevano essere dedotti per altra via allo stato attuale dei nostri mezzi sperimentali. (1) Ricerche analoghe eseguite con lampade Z da 105 volt e 30 candele, alimentate a 102 volt, diedero Ho = 006 a | Lo \\@) | Matematica. — Sugli integrali curvilinei. Nota di LeonIDA TONELLI, presentata dal Socio S. PINCHERLE. Nel calcolo delle variazioni si considera l'integrale di una funzione F(2,y,2',y') (positivamente omogenea, del grado 1, rispetto allegzigine soddisfacente a certe condizioni di continuità e derivabilità) calcolato lungo curve C:ec = x(4),y=y(0), tali che esistano finite e continue, eccettuati al più un numero finito di punti, le derivate 2'(6),y(0); e ci sì accontenta di dire che l'integrale non cambia per una trasformazione parametrica delle curve, ottenuta mediante la ‘= (7), quando si supponga la funzione (7) continua, a derivata maggiore di zero. Questa ipotesi è di troppo restrittiva; e poichè è interessante sapere fin dove è possibile spingere la trasformazione detta. senza alterare il valore dell’integrale della F, — specie oggidì che cominciano a considerarsi anche curve semplicemente rettificabili, — noi ci proponiamo di studiare appunto tale questione nella presente Nota. 1. Supporremo le nostre curve C. continue, rettificabili e giacenti in un campo A, in ognì punto (x,y) del quale e per qualunque coppia (2°,y) di numeri finiti n0n nulli insieme, si immagina data una funzione continua (!) F(x,y,2',y), la quale sia positivamente omogenea (°), del grado 1, ri- spetto alle variabili 2’, y': vale a dire, soddisfi alla relazione Ela, yo, ky) = EF ,y 24,4); per qualsiasi £X > 0. 2. Prima di procedere, occorre fare un'osservazione. Sia in un intervallo (70; 71) la funzione continua, non decrescente, {=£(7); con £,= t(to), t1=t(c;). La sua funzione inversa 7 = (2), considerata in (4; da), sarebbe ad un valore se la /(7) non fosse costante in nessun tratto; ma poichè tale ipotesi non è stata da noi fatta, potrà la #(/) essere a determinazione mul- tipla. Notiamo, però, che, se ad un valore £ di (air) nona corrispondere un sol valore © di (0, 71), a È devono corrispondere tutti i punti di un intervallo (7°, 7”), e solamente essi. Ne viene che, per la t=t(t), ad ogni insieme E, di punti di (4, 41) corrisponde un insieme E ben determinato di (0,7); e ad un intervallo ((, 2"), un intervallo (2,7). Dopo ciò, osserviamo che la (7), per essere non decrescente, è a variazione limitata ed ammette quindi derivata finita, (7), in ogni punto di (70, 71), ad eccezione, al più, di un insieme di misura nulla. Se in questo poniamo, per definizione, (©) =0, abbiamo, in tutto (70, 71), (A) =0, ed anche (*) Qui non poniamo alcuna condizione sulla derivabilità della F. (?) Denominazione di Bolza (Zectures on the Calculus of Variations. Chicago, 1904). RenpIcoONTI. 1911. Vol. XX, 1° Sem. Sl — 230 — f (de =t(7")— t(7°) (1). Da ciò segue che, se (2°, £"), (2°, x") sono /q/ due intervalli corrispondentisi nel modo sopra detto. è, indicando con II m[(l,t")] la misura di (f/, 0), ROSIE = =| t(t) dr. Si prenda, ora, una successione infinita di gruppi J, di intervalli senza punti comuni di (%, 41), racchiudenti l'insieme E., in modo che ogni J, sia contennto nel precedente e che la misura m(J.) tenda a m(E,). Siano J:,E:, gli aggregati corrispondenti a J.,E. È #J)= l'(t) dt, e c/o poichè J contiene E, m(J) = TO de = | l'(@) dr. Essendo poi /I7 Er lim m(J.) = (E), se ne conclude m(E) > L l(©) dt. Da ciò risulta che, - Et se E, è di misura nulla, in E; è l(©)=0, ad eccezione al più di un in- sieme di misura nulla ez (?). 8. Sia ora una delle curve C (RD essa y=y(8), (sìs@=s= 8) la sua rappresentazione parametrica in funzione dell'arco. Come sì sa (*) in tutti i punti di (so, $1), eccettuati al più quelli di un insieme di misura nulla 6,, le derivate X'(5), y'(8), esistono determinate e finite, e soddisfano all’ uguaglianza T(8)4+7°(s)=1. E poichè il campo dei punti (r,y,x',y) tali che (2 ,y) sia su C e x',y' soddisfino alla relazione x" -|y°=1 è finito e chiuso, la F(2,y,x',y') supposta con- tinua, è in esso limitata. Ne viene che, ad eccezione dell'insieme di misura nulla detto, la F(x(8), y(5) , 2/6) ,y/(5) — che poniamo uguale allo zero nei punti ove le x'(s), y'(s) non esistano o sono ambedue nulle — è pure limitata. Perciò tale funzione, che nell’ insieme complementare di 6, C(6,), è, per un noto teorema (4), della classe 1 (classificazione di Baire) e quindi misurabile, è anche integrabile. Esiste dunque determinato e finito 1’ inte- grale J F(e(8), y(8) , 28), /(8)) ds, per ogni s di (So 3 51). Ciò posto, (Î) Per vederlo, basta riprendere i ragionamenti fatti da G. Vitali nella sua Nota: Sui gruppi di punti e sulle funzioni di variabili reali (Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino, 1907-08), al Cap. II, $ 2, per dimostrare l’integrabilità di un numero derivato di una funzione a variazione limitata. (*) Il ragionamento qui usato mi è stato suggerito da quello di cui si è servito il Lebesgue (Sur les intégrales singuliers, Ann. de la Fac. de Toulouse, 3° S., I) per di- mostrare la medesima posizione nel caso di una funzione integrale, non decrescente, E(T). (*) Vedi Lebesgue, Lecons sur l’intégration et la recherche des functions primi- tives (Paris, Gauthier-Villars, 1904), pag. 126. (4) Vedi Lebesgue, Sur les fonctions représentables analytiquement (Journal de Mathématiques pures et appliquées, 1905). — 251 — prendiamo a considerare la rappresentazione generale della curva C in fun- zione di un parametro arbitrario {: = x;(f);y=%() (30540). Se indichiamo con S(#) la lunghezza della curva, questa funzione ri- sulta positiva, continua e non decrescente, e come tale — essendo a varia- zione limitata — ammette, per tutti i valori di dell'intervallo (49,4), ad eccezione al più di quelli di un insieme di misura nulla e;, derivata deter- minata e finita. Posto = | F@0 1 U(8) , 2'(5) , y(s)) ds — dove so ed s sono i valori di s(/) che corrispondono a #,,é — questa I(s) risulta funzione continua, a traverso la s, di 7; vogliamo mostrare che ammette in tutti i punti di (/,, f1), eccettuati quelli di un insieme di misura nulla, derivata uguale a F(x(s(2)) , y(s(4), cs(s(0), y<(s(0))) s(6). L' integrale I(s), come funzione del suo estremo superiore s, ammette in tutti i punti di (So S1), meno quelli di un insieme E; di misura nulla, per derivata la fun- zione sotto il segno F(x(s),y(s) , (8) , y(s)). Indichiamo con E; l’aggregato dei punti dell'intervallo (40,4) che la s(t) fa corrispondere ad E;; per quanto si è detto al n. precedente, è in E,, esclusi al più i punti di un gruppo e; di misura nulla, (9) = 0. Si ha, allora, in ogni punto di C(E,) che non appartiene ad e;, (1) KsO)= Is). (1) = (260) (50), (50), Y(50)) (A); e la stessa uguaglianza vale anche per quei punti di E, che non apparten- gono all’insieme e; + e,, perchè in essi è s’(4)=0. Dunque, eccettuati i punti dell’insieme di misura nulla e, + e, I(s(7)) ammette derivata rispetto a #, e vale la (1). E poichè s'(t), come derivata di una funzione a varia- zione limitata, è certamente integrabile, tale è anche la I(s(/)), perchè la funzione F(x(s(4), y(s(1)) , c(s(4), ys(s(6)) è in (fo, 61) limitata. Consideriamo, ora, l’espressione Pla(0) sy) 2i(0) yi(0)). Essendo 21(4), y1(4) , s(é), a va- riazione limitata, le derivate «1(%) , yi() , s(/), esistono finite in tutti i punti di (#&n i), ad eccezione al più di un insieme di misura nulla E. La F non è definita in quei punti di E nei quali non esistono entrambi le x'(#) , y'(4), ed in quelli di C(E) ove esse esistono, ma sono ambedue nulle. Negli uni e negli altri porremo, per definizione, F(x1(4), y1(4); 214), gi) = 0. Vo- gliamo mostrare che in C(E) è sempre (2) Fi) v(0), zi) vi(0)) = F(2(5(0) (SO), 2A), (50) (0). Indichiamo con C,(E) il gruppo dei punti di C(E) in cui è s(0)= 0; con C,(E) quello dei rimanenti. È, se s((4-d0)— s()>0, (3) ol +0) — alî) ml Li — al) st+d)—s(0) d s(C+d)— s() d ? da cui, essendo i 1 sELd) = so | SMS d b) xi(t) bi Li(6 4-0) d se poi fosse s(t 4 d) — s(4)= 0, sarebbe a più forte ragione ct + d) — — x,(t)=0. Se ne deduce che nei punti di C;(E) è x/(9)= 0; ed analo- gamente y;(4) = 0. È dunque, nei punti detti, F(2.()Y1(5),21(6) (6) =0; ed essendo s'(4)= 0, vale in C;(E) la (2). Sia ( un punto di C.(E); poichè in esso vale la (3), per d abbastanza piccolo, esiste «‘(s), ed è «{(()= = x<(s(%)) s'(4). Analogamente esisterà nei punti di C(E) la ys(s), e si avrà yi(1) = ys(s(£)) $‘(4). Ne viene che in C,(E) vale la (2), la quale risulta così dimostrata in tutto C(E). Essendo E di misura nulla ed esistendo l’integrale del secondo membro di tale uguaglianza, esiste anche quello del prino ed è = SEO) s y(s(t) 9 L(8(t) ? Y(s(1)) s'(1) da (e Concludiamo con la seguente proposizione: gualungue siano le funzioni continue a = &1(t),y=y1(t), che rappresentano in (tr,t,) la curva ret- tificabile C, esiste sempre l'integrale VCO ORTO ACE dove F rappresenta lo zero nei punti nei quali una delle derivate xi(0) ,Y1(1) non esiste, ed in quelli ove è w1(4) = yi()) = 0. 4. Supponiamo le x1(4), yi(6), assolutamente continue ('); allora è tale t anche s(7) (?) ed è s(4) = | s'(4) dt. Essendo poi s(t) funzione non mai lo decrescente di /, segue da un teorema sull’ integrazione per sostituzione, dovuto ad H Lebesgue (*), e dalla (4) s(e) t SEO (N — So) AA) Dunque, se sono assolutamente continue le funzioni x(t) Ya(t) — oppure se lo è s(t) — vale la (5). (*) Diremo, con G. Vitali [Sulle funzioni integrali (Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino, 1904-05)] assolutamente continua una funzione f(@) in (a,0), se preso un numero positivo 6, piccolo a piacere, esiste poi sempre un corrispondente w, maggiore di zero, tale che sia |X{f(8) — f(a)}|<0, dove la sommatoria è estesa ad un qualsiasi gruppo d’intervalli (e; 8;), senza punti comuni, di (4, d), avente una misura minore di u. (°) L. Tonelli, Sulla rettificazione delle curve (Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino, 1907-08). (°) Sur les integrales singuliers (loc. cit.). 29 VIOLE Si ha anche che se c=;(),y=v1();e0=22(0);9= ys(1), sono due rappresentazioni della stessa curva C, e se tutte le funzioni scritte sono assolutamente continue, allora è fo N06), vi(0) yi(6)) di SRO ,Y2(t) , x(t), ye(t)) de. In queste proposizioni si può sostituire l'assoluta continuità con l'esistenza di un numero derivato finito in tutti i punti dell’ intervallo in cui si con- sidera, eccettuati al più quelli di un insieme riducibile. 5. Le condizioni dianzi trovate sono solo sufficienti: per giungere a quelle che sono anche necessarie, faremo l'ipotesi che la F sia sempre di- versa da zero. Dimostriamo, allora, che affinché valga, per ogni t di (tot) l'uguaglianza 0 (701060 70) = f FAO 0 0 0. Osserviamo qui che, eccettuati i valori 0) di s di un insieme di misura nulla, è #"(s) +7°(s)= 1; e poichè la F nei punti ((8) ; y(s) , 2(8), y/(9)) corrispondenti è continua e diversa da zero, e perciò anche maggiore di un minimo m©>0, fisso, se per es. è F>0, possiamo scrivere spo Î F(4(8) 3 y(8) , (8) ,4/(8)) ds >m}s(Bi) — s()f S(%i) s(Ba > [*FC9 40, 20/0) > 0, i < S(Ci) e ciò vale comunque si prenda piccolo il w, numero maggiore della somma degli intervalli (@;, #}). Questo prova che la funzione di / che figura al primo membro della (6) non è assolutamente continua; e poichè, invece, lo è quella del secondo, giungiamo ad un assurdo. La proposizione propostaci è così dimostrata; e possiamo dire, riunendo il risultato qui ottenuto e quello del n. precedente, che la continuità assoluta della s(t) (o delle a1(t), yi(é)) è condizione ne- cessaria e sufficiente affinchè valga la (6), quando la F sia sempre diversa da zero. Abbiamo anche: se la F è sempre diversa da zero e se le ci(), Yy(Î) sono assolutamente continue, la cond Isione necessaria e sufficiente affinchè valga, per ogni t di (fot) la l T {TEO ’%(0), 2i(0), yi(6)) di =| F(es(7), Ya(t) Lo(t), ys(t) de, 1010, To è che siano tali anche le LT), ys(1). 6. Nel caso della F+0 e, per eS., t vare che: l'integrale fed lo maggiore di zero, possiamo pro- » al variare della rappresentazione parame- rica della curva, assume tutti i valori possibili compresi tra un minimo, s uguale allo zero, ed un massimo, dato da | F(ds). Riprendiamo l'inte- So grale I(s) del n. 3. Per ]’ ipotesi qui fatta su F, I(s) è, come la s(t), fun- zione non decrescente; tale è, perciò, anche I(s(4)). Si ha così, per un’os- servazione già fatta a proposito dell'integrale di (7) (n. 2), St) dt = I(s(t)) — I(s(£) = I(s(d). Ma è (n. 3) SI 4= (EE ZA) | 226 fre Nt) LI) gi) de, e quindi f Fo 1Y(0), 214), yi(0)) de =(F(0) »Y(8) ; &(8),y/(8)) ds. Per mostrare, ora, che il valore dell’integrale di F può ridursi a zero, consideriamo nell’i intervallo (0,1) l'insieme J di Cantor, costituito dai punti 2 5 Ai Aa 43 ; % SO : Ù di ascissa {= DI + ze + 38 +, dove i numeratori 4 sono uguali a zero, oppure a 2; e definiamo su (0,1) la seguente funzione: su J Di sia g(t) = oi + st “{, per {= # + Si + .., negli intervalli contigui ad J la g(t) sia costante. È dunque g(0)=0, g(1)=1, vale a dire la (7) non è costante in tutto (0, 1); si vede poi facilmente che essa è continua, non decrescente e non assolutamente continua ('). Ciò posto, si consideri il tratto (0=s= 1) della curva C:x =x(5),y=y(s), e si ponga s= g(t): si avrà += (6) ,y=y1(0. (*) Di questo esempio si è servito il Lebesgue (Zecons sur li per mostrare che il cal ntégration ete., pag. 55) colo della variazione totale di una funzione non può essere fatto servendosi di gruppi di infiniti intervalli contigui ad insiemi non riducibili. = 1095 — La g(#) è costante — ed è perciò g(/)=0 — in tutti i tratti con- tigui ad J, le cui lunghezze hanno una somma uguale ad 1; da ciò segue che, essendo '(7#) +0 solo nei punti di J, insieme di misura nulla, è (per la (4)) Î Ple) 10), LI(6) , ni(6)) dt = 0 pr SECO) U(P(1)) , CP) y(P()) PM) de = 0. Dall'arco (0,1) si passa facilmente a quello (so, 5) che corrisponde a (0,4). Pure facilmente si vede ora che con una appropriata rappresenta- zione parametrica della curva C, si può fare assumere all’ integrale di F qua- s lunque valore compreso tra 0 e (Pas. Osserviamo che, mentre la s = @;(t) So che rende nullo l'integrale di F è solo non decrescente, è possibile trovare delle trasformazioni s= gi;(4), con g;(t) sempre crescente e tale che sia, Pil +1) — pa(0) h a zero con o: basta, infatti, considerare la g,(4)= g(4) 4 ot. Da quanto precede risulta che l'integrale di F si può rendere uguale a zero anche se la condizione F+0 non è verificata. ovunque, = o >0, per le quali l'integrale vada tendendo Chimica. — Sulla sintesi diretta dei qliceridi (‘). Nota II di I. BeLLUCCI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In continuazione di una mia Nota: Sulla sintesi diretta dei gliceridi, recentemente pubblicata in questi Rendiconti (*), comunico altri risultati otte- nuti proseguendo le indagini sperimentali sopra tale processo sintetico, il cui interesse, sia dal lato teorico che industriale, mal giustifica le poche e fallaci conoscenze che finora si avevano sul suo andamento. A maggiore comprensione dei risultati da me ottenuti rammento che gli indirizzi chimici sinora seguiti per effettuare la sintesi diretta dei gli- ceridi si riducono ai due seguenti: 1°. Stntesi tipo Berthelot (8) (1854). — La miscela acido grasso-glice- rina (o anche acido grasso e mono- o digliceride), nella quale prevale a seconda dei casi un forte eccesso di parte acida o di glicerina, viene scal- data a 200°-260° entro tubo chiuso alla lampada, per un tempo general- mente molto lungo. Il rendimento in gliceride è in tal modo molto debole, (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale della R. Università di Roma. (2) Vol. XX, Serie 5%, 1° semestre, pag. 125. (3) Annales de chim. et phys. [8] 41, 216 — 236 — data evidentemente l'azione saponificante che su di esso esercita l'acqua ge- neratasi nella reazione, all'elevata temperatura a cui si produce. 2°. Sintesi tipo Scheij (*) (1899). — La miscela acido grasso-glicerina, nella quale prevale un eccesso di acido, viene scaldata mentre vi sì fa gor- gogliare una corrente di aria secca, aspirata dall'esterno, attraverso un tubo capillare, col diminuire parzialmente la pressione nell’ interno dell’apparecchio. In tal modo l’aria secca, mentre trascina il vapor d’acqua, mantiene agitato il miscuglio producendo un più intimo contatto fra l'acido grasso e la glice- rina. L'eliminazione dell’acqua è in tal modo molto lenta; nel caso, ad esempio, della tripalmitina non cessa che dopo tre giorni di continuato riscal- damento a 200°. Tanto con l'un metodo che con l’altro, trattasi adunque di riscaldare la miscela acido grasso-glicerina per un tempo molto lungo, a pressione supe- riore alla normale (Berthelot), o debolmente inferiore (Scheij), impiegando un forte eccesso di uno dei reagenti, eccesso che va tolto al termine della reazione e che esclude quindi si possa parlare di rendimenti. Tutti gli altri autori che si sono occupati della sintesi diretta dei gliceridi hanno seguito l'uno o l'altro dei due tipi di reazione, apportandovi talora modificazioni insignificanti e preferendo, come era logico, il metodo Schei]. Eravamo perciò ben lungi dall’ottenere una sintesi diretta, rapida, eco- nomica e con rendimento vicino al teorico. Nella Nota da me recentemente pubblicata in questi Rendiconti (loc. cit.) ho comunicato che può invece realizzarsi la sintesi diretta dei comuni gli- ceridi (trioleina, tripalmitina, tristearina), con rendimento pressochè teorico, riscaldando nel vuoto molto spinto e continuato la miscela acido grasso-gli- cerina, effettuata nei soli rapporti stechiometrici, vale a dire senza alcun eccesso di uno dei reagenti. L'azione continuata del vuoto, permettendo di ottenere un simile risultato, mai raggiunto da alcuno dei precedenti speri- mentatori, appariva perciò con carattere fondamentale nello svolgimento della reazione in esame. Sempre allo scopo di meglio precisare le condizioni secondo cui può nel miglior modo e col massimo rendimento effettuarsi la sintesi diretta dei gliceridi, ho continuato in proposito le mie indagini. Osservando il sistema: glicerina + ac. grasso SL gliceride + acqua, appare subito come l'eliminazione continua e completa dell’ acqua sia la prima ed essenziale condizione per giungere ad un massimo ricavato in gliceride. È necessario pertanto riflettere che la reazione fra glicerina ed acido grasso, effettuata nel vuoto molto spinto, si inizia a circa 180°, vale a dire ad (1) Recueil des travaux ehimiques des Pays-Bas, [2] 18, 169. — 2397 — una temperatura ben superiore a quella in cui l’acqua può all’ordinaria pressione spontaneamente eliminarsi allo stato di vapore. Si affacciava adunque il problema di sperimentare se tale reazione sintetica, oltrechè nel vuoto, potesse con egual risultato effettuarsi a pressione ordinaria, permettendo sempre, in un ambiente inerte, il libero e continuo svolgersi del vapor d'acqua dalla miscela reagente. Con tale intento ho riscaldato una miscela stechiometrica di ac. oleico (3 molec.) e di glicerina (1 molec.) in ambiente di anidride carbonica secca. senza che questa gorgogliasse attraverso la miscela liquida. La reazione si svolge a 200°-250°; dopo circa tre ore di riscaldamento si ha il favorevole risultato che l'eliminazione dell'acqua cessa e la massa reagente non pre- senta più che un'acidità debolissima (dall'1 al 2 °/, in acido oleico). La trio- leina ottenuta in tal modo si presenta con il suo bel colorito giallo chiaro; lavata ripetutamente con un po' d'acqua e quindi con alcool a freddo, venne seccata e identificata con la determinazione del punto di fusione e dei nu- meri di iodio e di saponificazione. Risultati del tutto simili si ottengono riscaldando in egual modo quan- tità stechiometriche di glicerina con l'acido palmitico o stearico. L'eliminazione dell'acqua prodottasi nella reazione avviene indipendente- mente dalla corrente del gas inerte, senza escludere che questa la faciliti; tuttavia il gas va condotto in maniera limitata, non troppo vivace, e nell’in- tento precipuo di mantenere l'ambiente inerte (1). Come era da aspettarsi, ho inoltre osservato che la durata della reazione è molto abbreviata se con un opportuno e rapidissimo agitatore, sì tiene durante il riscaldamento for- temente emnulsionata la miscela glicerina-ac. grasso, aumentando così gran- demente la superficie di contatto fra i due reagenti, ed impedendo che altri- menti la glicerina rimanga stratificata al fondo del recipiente ad offrire solo una superficie limitatissima di reazione all'acido sovrastante. Con quanto ho ora esposto la sintesi diretta dei gliceridi (limitandosi per ora alla trioleina, tripalmitina e tristearina) viene portata a condizioni ideali di rendimento con una esecuzione rapidissima e di estrema facilità. L'azione del vuoto continuato da me applicata alla sintesi dei gliceridi e descritta nella Nota precedente (loc. cit.), appare perciò essenzialmente RO (1) Ho provato anche a riscaldare quantità stechiometriche di ac. oleico (3 mol.) e di glicerina (1 molec.), mantenendo il miscuglio reagente esposto all’aria per tutta la du- rata dell'esperienza. Perchè si abbia una notevole velocità di reazione, bisogna spingersi in tal caso intorno a 250°. Naturalmente la massa reagente si imbrunisce con parziale alterazione della glicerina per opera dell’ossigeno atmosferico. Si giunge in ogni modo, dopo qualche tempo, a neutralizzare il 90 °/, dell'acido impiegato! Riesce poi laborioso il decolorare e purificare il gliceride in tal modo ottenuto, ed a parte anche il minor ren- dimento, è naturalmente sempre molto più opportuno di mantenere inerte l'atmosfera sovrastante. VI DD RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. — 238 — efficace solo in quanto mantiene anche essa un ambiente inerte e garantisce egualmente la continua eliminazione dell’acqua prodottasi nella reazione. Come mostrerò in seguito, in alcuni casi speciali (sintesi diretta di mono e di gliceridi e di gliceridi misti), è pertanto preferibile eseguire l’eterifica- zione nel vuoto continuato piuttostochè a pressione ordinaria. Data la notevole importanza, anche industriale, che può assumere questo processo di sintesi nel caso di alcuni gliceridi (es.: trioleina) mi è sembrato interessante di comunicare con carattere preliminare i risultati ottenuti. Ri- mane così affermato che la sintesi diretta dei comuni gliceridi può effettuarsi, con rendimento pressochè teorico, riscaldando a 200°-250°, a pressione ordi- naria, le quantità stechiometriche di acido grasso e glicerina, avendo cura di permettere la continua eliminazione dell'acqua generatasi nella reazione e di allontanare l'ossigeno atmosferico per mezzo di una corrente di gas inerte. Al contrario di quanto trovasi esposto in tutte le moderne opere di chi- mica organica la sintesi diretta dei gliceridi rappresenta adunque una fra le più semplici eterificazioni, le cui speciali condizioni rendono anche del tutto inutile l'impiego dei disidratanti, richiesti in tante altre eterificazioni che a prima vista sembrano invece più semplici. ; Ed è veramente strano come ogni sperimentatore che si sia occupato della sintesi diretta dei gliceridi, abbia subìto la suggestione delle classiche esperienze di Berthelot, il quale, ponendosi nelle condizioni più laboriose e sfavorevoli, ha voluto includervi delle difficoltà che non esistono menomamente nella pratica dell'esperienza. Scheij, l'unico che in seguito ha radicalmente modificato il metodo di Berthelot, non ha saputo spogliarsi che in parte del- l'influenza che sempre ha irraggiato dalle esperienze del grande chimico francese, ed anche esso ha adoperato inutilmente forti eccessi di uno dei reagenti, e si è messo in condizioni tali da far durare l'eterificazione di una certa quantità di glicerina financo tre giorni. Quanto ho esposto non riguarda del resto che il perfezionamento della sintesi diretta dei gliceridi, della quale spetterà comunque e sempre a Ber- thelot il merito altissimo di averla per primo realizzata. Chimica. — Sopra un caso di isomeria di struttura nei cia- nuri metallici (1). Nota di I. BeLLuccI e G. SABATINI, presentata dal Socio E. PATERNO. In prosecuzione della Nota precedentemente pubblicata: Sopra un 250- mero del prussiato rosso (*), esponiamo le ricerche da noi eseguite sui due ferricianuri di potassio isomeri. Il 8-ferricianuro è stato da noi preparato secondo le indicazioni di Loke ed Edwards (*). La polvere microcristallina verde-oliva, ottenuta pura per ripetute e parziali precipitazioni con alcool, venne per più giorni mante- nuta nel vuoto su acido solforico, fino a costanza di peso. Alle determina- zioni analitiche a cui l'abbiamo sottoposta fornì risultati concordanti con la formula Fe Cy; K3.H30, attribuitagli dagli autori succitati, ed anche il sale d’argento, ottenuto per doppio scambio, risultò possedere la formula anidra Fe Cys Ags. Tuttavia, prima di procedere oltre, per meglio caratterizzare il #-ferricia- nuro, abbiamo compiuto su di esso, sempre in parallelo con l’a-ferricianuro, delle prove iodometriche circa il grado di ossidazione, nonchè delle determi- nazioni crioscopiche in acqua, esperienze che non erano state eseguite dai due autori americani. Determinazioni iodometriche: Todio °/o Trovato Calcolato a-ferricianuro. . . . . 38,60 38,46 BEferri cianuro USM NRA (e 360,41 36,55 La quantità di iodio posta in libertà dal B-ferricianuro corrisponde net- tamente a quella che si calcola per il sale Fe Cys K;.H:0 nel passaggio dell’anione Fe(CN);” a quello Fe(ON);"". Determinazioni crioscopiche in acqua. — La soluzione acquosa del 8-prussiato si conserva, come abbiamo già detto, inalterata a temperatura ordinaria, per un tempo più che sufficiente per le determinazioni crioscopiche. Cone. °/o Abb. osserv. P.m. trovato a-ferricianuro 0,540 0,11 85 0,395 0,19 87 1,676 0,34 90 B-ferricianuro 0,952 0,20 86 1,227 0,25 89 1,580 0,30 97 (*) Lavoro eseguito nell’Istituto di chimica generale della R. Università di Roma. (2) Vedi questi Rendiconti, fascicolo precedente. (*) Americ. Chem. Jourual, 2/, 193, 413. — 240 — Da questi dati si desume che i due prussiati subiscono a forte dilui- zione acquosa la stessa dissociazione ionica; vale a dire sono quasi comple- tamente dissociati in quattro ioni (calcolato 82). Formazione del ferroimidoetere. — Come sopra si è detto, entrambi i prussiati isomeri sono stati da noi sottoposti in parallelo alla reazione di Pinner, nelle medesime condizioni di temperatura, di concentrazione e di durata di esperienza. a-ferricianuro. — L'operazione veniva da noi compiuta con le ne- cessarie precauzioni per evitare l’umidità atmosferica. Il sale ben polveriz- zato, previamente seccato nel vuoto su acido solforico, veniva sospeso nella quantità di alcool etilico assoluto necessaria per la formazione del ferroimi- doetere. All'inizio del passaggio del gas cloridrico ben secco, l'alcool sovra- stante assumeva un colore debolmente giallo, nel mentre veniva forman- dosi una sostanza polverosa bianca (KC1). Per evitare elevazioni di tempe- ratura, il palloncino in cui si compiva l'esperienza era tenuto in acqua corrente. Trascorsa un'ora, durante la quale la corrente di gas cloridrico non fu mai sospesa, e il colore giallo rossastro del prussiato era completamente scomparso, si filtrò rapidamente alla pompa. (Introducendo poi acqua nel palloncino che aveva servito per l'esperienza, si è avuta un’intensa colo- razione bleu, dovuta alla decomposizione dell’imidoetere). Sul filtro si rac- colse il cloruro potassico, che presentava una leggera colorazione bluastra, dovuta ad un po' diimidoetere rimastovi frammisto, e decomposto dall’umi- dità atmosferica. Dal filtrato alcoolico si separò ben presto abbondantemente il ferroimidoetere in cristalli aghiformi, i quali rapidamente raccolti e la- vati con alcool assoluto, vennero posti subito in essiccatore su calce sodata. Quando la massa cristallina apparve ben secca, fu sottoposta a determina- zioni analitiche. Il ferro fu dosato allo stato di Fes0,, come residuo di cauto riscaldamento della sostanza: il cloro venne determinato sia col me- todo Carius, sia debolmente riscaldando un dato peso di sostanza in tubo ad U in corrente d'aria secca, e raccogliendo opportunamente i vapori d'acido cloridrico: l'azoto col metodo Kjeldahl. Trovato —_—_—P———_t-y5zte—____ Calcolato per I I III IV CieHa NeOs Fe Cl, Fe 9,41 _ = —_ 9,90 CI = 13,70 13,36 — 12,57 N — — = 14,52 14,94 I risultati analitici da noi ottenuti concordano con le percentuali che si calcolano per il ferroimidoetere già descritto e analizzato da Freund (loc. cit), (NH)c H, Fe OC (OC:H;);.2H01 SO — È interessante notare subito come le condizioni anidre in cui si effettua la reazione di Pinner permettano che il prussiato rosso sopporti l’azione del- l'acido cloridrico gassoso senza trasformarsi nell’isomero verde: per cui il ferroimidoetere che ne risulta, rifette realmente la struttura dei sei gruppi cianogeno in quello contenuti. B-ferricianuro. — Il f-ferricianuro, ben secco e polverizzato, fu sot- toposto in identiche condizioni alla reazione di Pinner. Sotto l'azione del gas cloridrico, il f-prussiato rimase in gran parte indecomposto, ed în parte se- parò cloruro di potassio, come deposito biancastro. Dal filtrato alcoolico non si ebbe, nemmeno dopo lungo tempo, alcuna separazione di cristalli di ferro- imidoetere. (Il palloncino in cui si era fatta l’esperienza, a differenza del caso precedente, lavato all'ultimo con acqua, non dette la caratteristica co- lorazione bleu intensa, denotante la decomposizione del ferroimidoetere). Pa- recchie prove ripetute con differenti preparazioni di -sale, dettero sempre eguale risultato negativo. Il f-ferricianuro non dà adunque la reazione di Pinner, a differenza dell'a-ferricianuro. Interpretando questo fatto nel modo più semplice e più logico, si è portati a ritenere che l’a-ferricianuro, il quale dà così nettamente la reazione di Pinner (trasformazione di un nitrile in imidoetere), abbia in tutti i suoi gruppi cianogeno una costituzione nitrilica, e che, al contrario, isei gruppi cianogeno del f-ferricianuro posseggano la costituzione isonitrilica. Questa nostra semplice interpretazione è a parer nostro validamente corroborata dall'interessante comportamento differenziale che noi abbiamo potuto constatare nei due isomeri trattati con agenti ossidanti. I due prus- siati rispettivamente scaldati in soluzione acquosa con eccesso di persolfato potassico, si decompongono entrambi: l’a-sale dà abbondante sviluppo di acido cianidrico ; il 8-sale svolge invece copiosamente vapori di acido isocianico. Questa differenza di comportamento, nettamente rivelabile prima che la de. molizione del sale si sia spinta troppo oltre con una prolungata ebollizione, è appunto in stretta relazione con la maggiore facilità ad ossidarsi dei gruppi isonitrilici — N=C, da noi attribuiti al 8-ferricianuro, in confronto a quella dei gruppi nitrilici — C= N dell'a-ferricianuro. Abbiamo perciò che: l’a-ferricianuro: 1°, dà la reazione di Pinner estensibile a tutti i sei gruppi CN; 2°,i suoi gruppi cianogeno non hanno tendenza marcata ad ossì- darsi al tipo cianico per ebollizione con persolfato potassico: il B-ferricianuro: 1°, non dà la reazione di Pinner; 2°,i suoi gruppi cianogeno hanno marcata tendenza ad ossidarsi ad acido cianico. Questo insieme di fatti, a parer nostro, si concilia soltanto ammettendo, come già si è indicato, la costituzione nitrilica Fe(C=N), K; per l’a-ferricia- nuro, e quella isonitrilica Fe(N= CC), K: per il #-ferricianuro. Ed invero, tutto — Val il quadro delle conoscenze che si hanno per questi due ferricianuri parla a fa- vore di tale isomerìa di struttura. Come abbiamo annunciato in principio, ricordiamo che Loke ed Edwards sono riusciti a ritrasformare quantitativamente il 8-ferricianuro nell’a-ferricia- nuro, riducendo il primo con amalgama di sodio a ferrocianuro, e quindi riossidando questo con permanganato potassico. Noi abbiamo osservato che la trasformazione del -ferricianuro nell’a-ferricianuro può avvenire anche direttamente: basta infatti trattare la soluzione acquosa del primo con idrato potassico, o meglio con ammoniaca, perchè il colore cambi subito dal verde al giallo caratteristico dell’a-ferricianuro, e tale trasformazione avviene in modo integrale. Sembra dunque che, mentre gli ioni idrogeno favoriscono il passaggio dalla forma «(nitrilica) alla forma f(isonitrilica), gli ioni ossidrili effettuano al contrario il passaggio inverso (1): H: ei al a-ferricianuro H' B-ferricianuro Questo esempio di isomeria di struttura, a quanto noi conosciamo, è il primo che si riscontra nel campo dei cianuri metallici semplici o com- plessi. Erano bensì noti isomeri di struttura di altro tipo, e specialmente fra ì composti metallo-ammoniacali del cobalto (*). Questi ultimi hanno stretta relazione col tipo di isomeria strutturale da noi posto in evidenza, giacchè si riferiscono, invece che a cianuri metallici, a dei solfocianuri, i quali pos- sono, a somiglianza dei primi, egualmente comparire nelle due forme isomere: Me.CN CN. Me Me.SCN SON. Me È interessante notare, però, che, mentre generalmente per questi ultimi è possibile di effettuare la trasformazione di un isomero nell'altro soltanto in un senso (talora per semplice ricristallizzazione), nel caso dei due prussiati isomeri, come si è visto, il passaggio si effettua facilmente dall’uno all’altro (') Vedesi da ciò come sia priva di fondamento l’asserzione di Loke ed Edwards (vedi sopra) i quali hanno escluso a priori che nel caso in questione potesse trattarsi di un’iso- meria strutturale, per il fatto che i due ferricianuri, ridotti con idrogeno nascente, dànno origine allo stesso ferrocianuro. Basta riflettere che i due chimici citati hanno agito sul B-ferricianuro con amalgama di sodio, vale a dire in mezzo alcalino, nel quale caso si ha la sua trasformazione nell’isomero @, e non si può perciò avere come prodotto finale se non lo stesso ferrocianuro. Indipendentemente da ciò appare a noi problematico che i due ferricianuri isomeri possano per riduzione formare, come asseriscono Loke ed Edwards, un prodotto diverso dal comune ferrocianuro, giacchè non è qui il caso evidentemente di applicare i rigidi criterî che valgono per la riduzione dei nitrili e delle carbilamine organiche. (°) Vedi Werner, Neuere Anschauungen, loc. cit. in entrambi i sensi. Questo mutuo passaggio racchiude iu sè la trasforma- zione di un tipo nitrilico (@-prussiato) in isonitrilico (8-prussiato), la qual cosa riesce singolare pensando che generalmente si ammette sieno soltanto le carbilamine a trasformarsi in nitrili. Il &-ferricianuro rappresenta la forma labile dei due prussiati, ed in corrispondenza con ciò offre una maggiore solubilità a confronto dell'a-ferri- cianuro. Sarebbe interessante indagare se l'alterazione che subiscono i cri- stalli di prussiato rosso da lungo tempo esposti alla luce in recipienti di vetro incoloro sia in relazione col fenomeno di isomeria di cui ci siamo oc- cupati nella Nota presente. Ognuno ha veduto che tali cristalli, specialmente appartenenti a vecchi campioni di sale, si ricoprono di un leggero strato fine- mente polveroso, di color verde, strato che l'acqua scioglie facilmente pure con colorazione verde, ripristinando il sottostante aspetto rosso del comune prussiato. Non potrebbe la luce effettuare lentamente quella stessa trasfor- mazione isomerica dal prussiato rosso al prussiato verde che abbiamo visto compiersi così facilmente per via chimica? Terminiamo da ultimo facendo osservare come la blanda reazione di Pinner, la quale ha portato così notevole contributo nelle nostre ricerche, potrà pro- babilmente estendersi, e con vantaggio, all'indagine della costituzione di altri cianuri metallici. Freund l’ha soltanto applicata al ferro e ferricianuro po- tassico, ed al platocianuro potassico, ottenendo per quest'ultimo sale un risultato anche più interessante. Egli ha difatti notato che, dei quattro gruppi cianogeno contenuti nel platocianuro Pt(CN)'K?, due soltanto dànno la rea- zione di Pinner: È 09 (CN), .2 HCN »_ Pt Cx< X(0C,H;).2 HON NH ATTEROS Pi(CN);,2 Hc 0C,H, la qual cosa ben può spiegarsi ammettendo che in uno stesso cianuro doppio possano intervenire gruppi cianogeno di tipo nitrilico (reazione di Pinner) ed altri di tipo isonitrilico, ed ognuno vede da ciò quale fecondo campo di studio potrebbe essere riservato a questo ordine di ricerche. Speriamo tra breve di poter comunicare altri dati sperimentali intorno a questa singolare isomeria dei due prussiati. — Qu Chimica. — £Eterificazione degli iso-orazoloni con il diazo- metano (*). Nota dei dottori E. OLIvERI-MANDALÀ e A. COPPOLA, presentata dal Corrispondente A. PERATONER. Gli iso-oxazoloni, per il loro comportamento chimico, mostrano una grande analogia coì pirazoloni HO I(O==N | | H.C NH HCl O Neon NA pirazolone iso-oxazolone e per tanto si è pensato che, come quelli. potessero gli isoxazoloni reagire nelle tre forme tautomere possibili: cioè, nella forma enolica, nella forma immidica, ed in quella cheto-metilenica: HC — CH HC== CH H,0— CH | | | | | j BLOCRANAN OC NH OCEAN NOA S 04 NOLA Nell'intento di portare a questa questione un contributo, abbiamo ete- rificato il metil- ed il fenil-isoxazolone con il diazometano, come il migliore fra i reattivi per lo studio delle sostanze tautomere, e per la velocità con la quale eterifica, e per le basse temperature alle quali si può operare, e per il solvente stesso (etere anidro), che, per quanto conosciamo, non è capace, di provocare mutamenti intramolecolari. Unhlenhuth (?) trovò che queste sostanze reagiscono nella sola forma im- midica, poichè dai sali di argento, per azione degli ioduri alchilici, l’autore ottenne solamente eteri col radicale legato all'azoto. Quasi contemporanea- mente, Raube (*), dall'azione del cloruro di benzoile sul fenil-isoxazolone, otteneva due benzoil- derivati isomeri: uno fondente a 161°, e l’altro a 115°. (®*) Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico della R. Università di Palermo. (£) Liebio®’s Ann. 296, 33; 1897. (3) Berichte 30, 1614; 1897. — 245 — Nell'eterificazione col diazometano noi abbiamo avuto i seguenti ri- sultati: Dal metil-isorazolone abbiamo ottenuto due sostanze: un etere con ra- dicale all’azoto, che fonde a 74°, identico a quello preparato da Uhlenhuth dal sale di argento e ioduro di metile; ed un C-etere, col radicale legato al carbonio, che fonde a 163-164°. Dal fenil-isoxazolone: un N-etere dal punto di fusione 77-78°, uguale a quello preparato da Uhlenhuth dal sale di argento corrispondente e ioduro di metile, ed un ossi-etere, contenente cioè ossimetile, che fonde a 70°. È degno di nota che fra quante sostanze contengono l'aggruppamento — CH, — CO— non ve n'è alcuna, che, eterificata col diazometano, fornisca, come il metil-isorazolone, eteri col metile unito al carbonio. La floroglucina (*), l'etere acetacetico (*) ed il fenil-pirazolone (*) reagiscono solamente nella forma enolica. Gli eteri ottenuti dal metil-isoxazolone provengono dalla condensazione di una molecola di prodotto eterificato con una molecola di metil-isoxa- zolone. Anche Uhlenhuth ha osservato che, mentre il metil-isoxazolone ha la formula semplice, i suoi sali e gli eteri (dal sale di argento e ioduri alchi- lici) provengono dalla condensazione di due molecole, 20, H;0,NT--H.0= CsHz0;N.; prodotto quest’ultimo che contiene un solo atomo di idrogeno acido, dappoi- chè fornisce sali con un solo equivalente di metallo ed eteri con un solo metile. Per quanto noi sappiamo, una tale condensazione, sia nella formazione di eteri, sia in quella di sali, non trova riscontro nella letteratura chimica. Per ciò che riguarda il modo di formazione di questi sali ed eteri, era ovvio pensare che tali condensazioni potessero interessare il metile dell’ iso- e. Varo Sn xazolone considerando che invece il derivato fenilico, il fenil-isoxazolone, contenente un aggruppamento analogo, entra a formare i sali e gli eteri con la formula semplice. È noto, infatti, che l’a-metil-piridone, il quale ha un aggruppamento atomico uguale al metil-isorazolone, si condensa a mezzo del metile laterale con svariate sostanze: aldeidi, chetoni ecc. (1) Nierenstein, Centralblatt 1906, I, 553. 1 (®) Pechmann, Berichte 28, 1626; (1395) (3) tbidem. RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. Oo . (de) — 246 — Ma, d'altro canto, un tale andamento della condensazione sarebbe da escludersi, perchè condurrebbe a un composto contenente nella molecola an- cora un aggruppamento metilenico, O0TEACH OCA | | | (0) C. CH H-/0€ CH (0) CACHE N |A EROE NZ Kinet dal (0) C.CH; 0 C.CH, Var 7 il quale dovrebbe a sua volta essere salificabile ed eteritficabile, laddove, come fu detto, non si ricavano che sali monometallici e, secondo le nostre esperienze, eteri monoalchilici. E non si saprebbe inoltre come giustificare il facilissimo ritorno dai sali alla sostanza di partenza con formula semplice, giacchè il nuovo legame doppio fra i due atomi di carbonio (vera sintesi) dovrebbe conferire ai sali una stabilità tale da fornire, per sola acidificazione, non l' ISORAZIIone sem- plice, ma il suo prodotto di condensazione libero. Contro simile difficoltà urterebbe un’altra interpretazione della conden- sazione, ammettendo cioè che questa avvenga fra il gruppo chetonico della sostanza eterificata ed il metilene della sostanza di partenza, e che quindi ai due eteri ottenuti spettino le formule seguenti: oe == SH 00—C="C— CH.CH; | | | I | | Î | O CC 0) OLE Oil ensio C. CH, Xgq7Z av X\Xy7Z \y7 CH, Pif IO p.f. 168° Noi per il momento lasciamo in sospeso tale questione, potendo si cer- care anche interpretazioni differenti da quelle dianzi esaminate, nelle quali però farebbe giuoco l'atomo di ossigeno del nucleo ed una conseguente aper- tura di questo; e ci proponiamo di istituire altre esperienze per la risolu- zione di questo problema. y. Metil-N.metil-isocazolone. Gr. 1,5 di metil-isoxazolone si introducono a piccole quantità in una so- luzione eterea concentrata di diazo-metano, ottenuto da 10 cc. di nitroso- metiluretano. Dapprima conviene raffreddare con ghiaccio, perchè lo sviluppo age di azoto è abbastanza vivo; ma in seguito esso va gradatamente diminuendo, e verso la fine diventa lentissimo. Quando si è aggiunta tutta la quantità dell’isorazolone, si svapora la soluzione eterea, la quale è colorata ancora in giallo per l'eccesso di diazo-metano contenuto. Rimane così un olio denso, leggermente colorato, il quale solidifica stando lungo tempo in essiccatore su acido solforico o quasi subito fregando contro le pareti del cristallizzatore con una bacchetta di vetro. Un piccolo saggio della sostanza con percloruro di ferro non diede la colorazione caratteristica bleu-inchiostro, caratteristica degli isoxazoloni; una prova, quindi, che tutta la sostanza si era eterificata. Per separare i due eteri isomeri formatisi nell’eterificazione, si estrae a caldo ripetutamente con etere di petrolio il prodotto della reazione. Gli estratti eterei, per concentrazione, abbandonano dei piccoli prismi quadrati, i quali, cristallizzati dall’etere di petrolio, fondono a 74°. Essì sono solubili in alcool ed etere. Bolliti con potassa, svolgono metilammina, la quale, raccolta in soluzione acquosa di acido cloridrico, è stata caratterizzata dal suo cloro- platinato. Ciò prova che l'alchile è attaccato all'azoto. All'analisi la sostanza ha dato numeri concordanti con la formula CoH1003 Na: gr. 0,1803 di sostanza diedero cc. 21,7 di Nifagili2ote 090. Calcolato Trovato N°/ 14,48 14,22 Una determinazione di peso molecolare in benzolo ha dato: gr. 0,1541 di sostanza, sciolti in gr. 15,985 di benzolo, ne abbassarono il punto di congelamento di 0°,26: K del benzolo = 50 Peso mol. cale. per CoHi00;N, Trovato 194 185 Questo etere è perciò, sotto tutti gli aspetti, identico a quello preparato da Unlenhuth dal sale di argento del metil-isoxazolone e joduro di metile. y. Metil-C. metil-isorazolone. La parte insolubile in etere di petrolio, e dalla quale fu separato l'etere all’azoto, cristallizza dall'acqua in piccolissimi aghi i quali fondono a 163- 164°. La sostanza, trattata con gli alcali concentrati ed a caldo, non svi- luppa metil-ammina. Con acido iodidrico, nell’apparecchio di Zeisel, non for- nisce CH;I, e perciò deve considerarsi come un etere al carbonio. È insolubile in etere di petrolio e nell’etere ordinario (a freddo); poco solubile in alcool e benzolo. — 2435 — All’analisi: 1) gr. 0,1617 di sostanza fornirono cc. 20 di N a 14° e 7620, 2) gr. 0.1696 di sostanza diedero gr. 0,3403 di CO: e gr. 0.0796 di H,0. Su 100 parti: Calcolato per CsHi00;N; Trovato 1 2 C 59,66 — 54,88 H 5,15 — 9,20 N 14,43 14,52 y. Fenil-N . metil-isorazolone. HOi==C CH ou dante \I, Il prodotto da eterificare, il fenil-isorazolone, è stato preparato per azione dell'idrossitammina in soluzione alcalina sull’etere fenil-propiolico, seguendo le indicazioni di Ruhemann e Cunnington ('). L'eterificazione è stata condotta come per il metil-isorazolone. La massa cristallina rimasta, dopo l'eterificazione, per evaporazione del solvente, fu estratta con etere di petrolio, il quale, a caldo, asporta l'etere col metile all'azoto. Infatti questa sostanza, cristallizzata dall'etere di petrolio, fonde a 77- 78° e si mostra identica all'etere preparato da Uhlenhuth, eterificando con alcool ed acido solforico il fenil-isoxazolone. È facilmente solubile in alcool, benzolo, etere, e cloroformio. Con po- tassa, sviluppa metil-ammina. Una determinazione di azoto ha dato: gr. 0,2201 di sostanza fornirono cc. 14,5 di N a 15° e 759", Calcolato per C,0 H9 0, N Trovato N°/ 8,00 7,05 y. Fenil-0 . metil-isorazolone. La parte insolubile nell'etere di petrolio, e da cui si è separato l'etere precedente, si cristallizza dall'alcool acquoso. Si ottengono così degli aghetti setacei i quali fondono a 70°. La sostanza contiene l’ossimetile. Essa è in- solubile in acqua e nell’etere solforico, poco solubile in benzolo, solubile nell’alcool. (') Chem. Soc, 75, 954. — 2419 — All’analisi: r. 0,2115 di sostanza svilupparono ce. 14,8 di N a 14° e 754M". r. 0,1901 di sostanza fornirono nell’apparecchio di Zeisel gr. 0,2661 di AgI, corrispondenti a gr. 0,0351 di OCH;. Su 100 parti: 1) g 2) g Calcolato per C.0Hs0,N Trovato I II N 8,00 7,80 = — 0CHz IIZSTAI — 18,47 Chimica. — Azione dei nitrili sulla cianquanidina. Nota pre- liminare di A. OsrrogovicA, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Nel precedente lavoro ho dimostrato che l'acetamidina e la benzami- dina si condensano colla cianguanidina dando origine rispettivamente alla metil- e alla fenil-diamino-triazina. Spero che questa reazione potrà appli- carsi anche ad altre amidine, sia acicliche che ariliche, costituendo così un nuovo metodo generale di sintesi per le diamino-triazine. Colla presente Nota desidero far noto che si può comodamente sostituire alle amidine suddette, i nitrili corrispondenti. È noto infatti che anche i veri nitrili hanno la proprietà di addizionare sostanze contenenti il gruppo (—NH».), dando origine alle amidine, amidossime, ecc.; e poichè la cian- guanidina, oltre al gruppo nitrilico, possiede anche un gruppo aminico, sì poteva prevedere che, facendo reagire la cianguanidina coi nitrili, si sarebbe avuta una doppia addizione, con formazione diretta della diamino-triazina. Infatti, adoperando l’acetonitrile ed il benzonitrile (corrispondenti alle amidine impiegate nella sintesi precedente), la reazione procede nel modo previsto e si può rappresentare cogli schemi seguenti: k CO=) H HN + C=N «N A CEI | LDSi NH R R G-NH id = L NI Fra Y\ HN emi a HN C=NH SEN NSA | H |__H NH NH (Prodotto intermediario non isolato) oppure la sua forma tautomera. = 20 Ho fondate speranze, come esporrò in seguito, che anche questa rea- zione potrà generalizzarsi e costituire perciò un altro nuovo metodo di sin- tesi per la diamino-triazine. Con questo secondo metodo si avrebbe il vantaggio, in confronto del- l'altro, di non aver bisogno di preparare precedentemente le amidine che, come sì sa, richiedono un tempo abbastanza lungo, anche impiegando l'eccellente metodo del Pinner ('). Accennerò inoltre che questi due metodi di sintesi per la diamino tria- zine, mi sembrano costituire una prova di più per la formola cianguanidi- nica della diciandiamide, proposta e discussa, per la prima volta, dal Bam- berger (*). Metil-diamino-triazina. Condensazione della cianguanidina coll’acetonitrile. — Grammi 3 di cianguanidina e 3 c.c. di acetonitrile (calcolati 1,5) si scaldano per tre ore circa in tubo chiuso, alla temperatura di 225°-230°, facendo in modo che la sostanza raggiunga questa temperatura nel più breve tempo possibile. Aprendo il tubo, dopo raffreddamento, non si osserva che un leggero odore di ammoniaca. Per aggiunta di un po’ d'’etere etilico, si può togliere completamente la sostanza dal tubo e filtraria alla pompa (circa gr. 3,7 di prodotto greggio). Dopo ciò, si polverizza il più possibile e la si fà hol- lire, un po’ di tempo, con circa 300 c.c. d'acqua, per la qual cosa si estrae una parte solubile e ne rimane indietro un'altra assai poco solubile, anche a caldo. Lasciato raffreddare il tutto, si mantiene così ancora un paio di giorni, agitando di tanto in tanto il pallone, per facilitare la separazione di una piccola quantità di quel prodotto poco solubile, che si era disciolta durante l'ebullizione. Questa sostanza così poco solubile, separata per filtrazione, ha molti dei caratteri dell'ammelina; è solubile tanto negli acidi minerali di- luiti, quanto negli idrati alcalini; dalla soluzione acida si precipita neutra- lizzando con ammoniaca, e dalla soluzione alcalina acidificando con acido acetico. Si scioglie a caldo nel carbonato di sodio e si riprecipita per raf- freddamento. Riscaldata sulla lamina di platino, dà fumi bianchi e brucia senza dare accenno di fusione. Ho creduto però inutile di purificare e ana- lizzare questo prodotto secondario, non avendo esso per me alcun interesse. La soluzione acquosa, separata da questo prodotto, si fa evaporare a bagno-maria fino a piccolo volume, e quindi si lascia freddare. Si ottiene, così, una massa cristallina, che si spappola bene con un pistillo, dopo avervi aggiunto un paio di centimetri cubi di una soluzione concentrata di idrato (') Die Imidoùther und ihre Derivate, Berlin, 1892. (*) E. Bamberger, 7'esi di laurea, Berlino, 1880; e Ber., 16, pag. 1074 e 1462 (1883). O — sodico, a fine di sciogliere quel po' di ammelina che potesse esservi mescolata ; indi si filtra alla pompa, comprimendo bene la sostanza per liberarla com- pletamente dal liquido. Non è consigliabile di lavare la sostanza, sia pure | con poche goccie d'acqua, perchè in questo modo si hanno perdite molto più considerevoli. Perciò si fa sciogliere, nella minor quantità possibile d’acqua bollente, la sostanza così semplicemente pressata, e si lascia cristallizzare lentamente. In questo modo sì ottiene la metil-diamino-triazina cristal- lizzata in laminette incolore lucenti, che, una volta asciugate, pèrdono dopo i poco tempo l’acqua di cristallizzazione, e si trasformano in una polvere bianca (gr. 2). Dalle acque madri, per concentrazione, sì può avere ancora un mezzo grammo di base, pesata anidra, per cui il rendimento totale am- monta a circa il 56 per cento del teorico. Però, tenendo conto delle perdite inevitabili che si hanno, soprattutto lavorando con poca quantità di una sostanza molto solubile com'è la metil-diamino-triazina, io credo di poter affermare che questa cifra potrebbe essere aumentata di qualche unità lavo- rando con una quantità maggiore di prodotto. L'identificazione della base è stata fatta in questo caso cogli stessi mezzi adoperati nel caso precedente. NEI E EI - A L= ='r''i [I PE 5 Fenil-diamino-triazina. Condensazione della cianguanidina col benzonitrile. — Grammi 3 di cianguanidina, ben secca e ben polverizzata, e gr. 5 di benzonitrile (cale. er. 3,66) si scaldano in tubo chiuso a 190° -200°, durante quattro o cinque ore. All'apertura del tubo non si avverte pressione alcuna, ma si sente un leggero odore d’ammoniaca, mescolato a quello di mandorle amare che è dovuto all’eccesso di benzonitrile adoperato. Versando nel tubo un miscuglio (all'incirca in parti uguali) di etere etilico e di etere di petrolio si può togliere completamente la sostanza e filtrarla alla pompa, liberandola in questo modo dall'eccesso di benzonitrile. Il prodotto così ottenuto si scioglie quindi in acido cloridrico diluito, caldo, e, senza bisogno di filtrare per se- parare un po di polvere bruna insolubile, si decolora con carbone animale | e si filtra. Aggiungendo a questa soluzione, dopo averla lasciata raffreddare completamente, un piccolo eccesso di idrato sodico, si precipita la fenil-dia- mino-triazina sotto forma di fiocchi cristallini, che si raccolgono alla pompa e si lavano con acqua fredda. È preferibile, in questo caso, di adoperare l'idrato sodico, piuttosto che il carbonato, perchè si elimina così, fin da principio, la maggior parte dell'’ammelina, che si forma in questa reazione a differenza di quella descritta nella Nota precedente. Per essere sicuri che tutta l’ammelina si sia completamente eliminata, è bene di spappolare, in un piccolo mortaio, con un po’ di soluzione di idrato sodico, la base prece- dentemente filtrata alla pompa. Dopo aver raccolto di nuovo, alla pompa, la — 252 — base così trattata, e averla lavata con acqua fredda, la si fà cristallizzare dall'acqua bollente. Si ottengono così aghettini sottili, perfettamente identici a quelli descritti precedentemente. Essi fondono infatti, tanto soli che me- scolati con la base ottenuta seguendo le indicazioni dell’ Elzanowski, a 225°. Il rendimento in base pura è di circa il 60 per cento del teorico. vali Ho detto in principio di avere fondate speranze che questa reazione possa essere generale; difatti, in questo ultimo tempo, il sig. Craifaleanu, occupandosi, dietro mio invito, della continuazione di queste ricerche (1), è riu- scito ad ottenere, dal p. tolunitrile e cianguanidina, una sostanza che so- miglia moltissimo, per l'aspetto e le sue proprietà, alla fenil-diamino-tria- zina e che deve essere la p. to/il-diamino-triazina, prodotto sconosciuto finora. D'altra parte, condensando il fenilacetonitrile con la cianguanidina, ha otte- nuto, con fortissimo rendimento, la /enilacetoguanamina (benzil-diamino- triazina) descritta dall'Elzanowski, ma che egli ottenne con un rendimento di appena 1’8 per cento del teorico. Prima di terminare mi preme di render noto fin d'ora che, in seguito ad alcune esperienze preliminari, parrebbe che nelle sintesi sopraddette (de- scritte in questa Nota e nella precedente) si possa sostituire la biguanide alla cianguanidina, come la teoria farebbe prevedere. Difatti, scaldando uu miscuglio equimolecolare di cloridrato di benzamidina e di acetato di bigua- nide, sono riuscito ad ottenere la feril-diamino-triazina, identica a quella preparata coi metodi precedenti. Però in questo caso il rendimento è molto scarso, probabilmente a causa della facilità con cui la biguanide si decom- pone, riscaldandola a temperature alquanto elevate. È probabile perciò, che questa modificazione delle sintesi precedenti non avrà importanza pratica, anche perchè la biguanide si prepara sempre con una certa difficoltà, per quanto 10 sia riuscito, come ho recentemente pubblicato (*), ad ottenere un rendimento doppio di quello che si ha col metodo di Bamberger e Dieck- mann (*). Per altro questa nuova modificazione ha una certa importanza teo- rica, poichè spero di poterla generalizzare adoperando, invece della bigua- nide, la guanilurea, il biureto e gli altri composti analoghi. Infatti, scaldando quantità equimolecolari di cloridrato di benzamidina e acetato di guanilurea, ho potuto ottenere, con discreto rendimento, la /eni/- amino-0xi-triazina (benzoguanide dell'Elzanowski) che questi ha preparato pel primo (4), per azione dell'acido nitroso sulla benzoguanamina. Mi riservo perciò di continuare lo studio di queste reazioni e prego quindi i colleghi di lasciarmi per un certo tempo questo campo di ricerche. (*) Questo studio servirà al sig. Craifaleanu come tesi per la laurea in chimica. (*?) A. Ostrogovich, Quelques données nouvelles sur la préparatior de la biguanide, Bull. Soc. d. Sc. de Bucarest, XIX, 641 (1910). (*) Monatsh. f. Ch. X, 87 (1899): (*) Vedi la sua tesi di laurea, pag. 22. — 259 — Chimica. — Sali doppi fra il fuoruro di piombo e gli altri sali alogenati dello stesso metallo ('). Nota di CARLO SANDONNINI, | presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Il sistema Pb Br, — PbFL. Questo sistema è analogo al precedente. La miscela eutettica nella parte del diagramma Pb Br, — Pb Br, - Ph FI, giace a 7,5 mol. °/ e alla tempe- ratura di 349°; ancor più che nel sistema precedente eutettico va abbas- sandosi verso la concentrazione del sale doppio PbBr,: PbFI, (fig. 2, tabella 1I). TABELLA JI. Molecole °/o det Durate Durate Durate 1 di cristalliz. | 1° arresto 2° arresto 3° arresto Pb El, primaria in secondi in secondi in secondi 0 366 _ 2710 — — — — 2,5 358 349 50 _ — _ — Ò ? 349 81 — — _ — 1145 eut. 349 63 — — — 10 422 350 45 — — 15 469 349 26 — — _ — 20 499 348 26 — _ _ 30 588 846 17 = — _ 40 551 329 8 — = _ — 45 555 305 — = — 50 561 — — — = —_ _ 05 598 — — —_ — — _ 60 554 _ _ 539 16 — — 70 543 — 5883 32 _ 75 eut _ —_ 538 61 _ 77,5 570 _ — 940 44 — _ 80 5895 = — — — 585 120 85 633 — — —_ — 984 70 90% 690 = = — — 585 60 95% 756 _ = = — 5984 60 100* 824 si ss su SI e pri Le miscele a 2,5 e a 45 mol.°/ di fluoruro hanno durate eutettiche normali e pare assai probabile che queste si riducano a zero ai componenti e che cioè tanto il bromuro quanto il sale doppio Pb Br. - Pb Fl, cristalliz- zino puri dalle miscele fuse. Nella parte del diagramma Pb Brs : Pb Fl, — Pb Br, - 4 Ph FI, la miscela fusa a 75 mol.°/ di fluoruro deposita eutettico puro, che a 60 ha brevis- sima durata e scompare a 55 °/,, per estrapolazione dalla curva delle durate (*) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova, diretto dal prof. G. Bruni. RenpicontTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 94 — 254 — eutettiche, queste si riducono a zero a 56°/ di fluoruro analogamente al sistema precedente. Così pure Pb Br,: 4Pb Fl, è un composto decomponibile per fusione la cui temperatura di formazione coincide col massimo che ad esso composto spetterebbe a 585°. La curva di raffreddamento della miscela loduro di piombo + fluoruro di piombo 800 / 800 700 a li 3 fh I S s © E 600 iS | Molecole 2- di fluoruro 300 rl I 100 PbJa PbFla della concentrazione di questo composto ha un solo punto di arresto, e con- trariamente al caso precedente non si ha più traccia di eutettico. Nella fig. 2 i segmenti perpendicolari alla orizzontale è d' sono propor- zionali alle durate di cristallizzazione a 585°. Il sistema PbI, — PbFl. Dalle curve di raffreddamento delle miscele dei due componenti risulta un diagramma ben diverso dai due precedenti (tabella IAiisato) — 259 — TABELLA III. =_= =s=e=-=-=>=>*<«=<«<«<<«o«o«»=+>+>+>+>+>+>+=z%"%z%7%Mm”VZV 27 Peso Ca0 in acido cloridrico: (Trottarelli in Verri) ‘fo Totale Specriieo Solubile Insolubile OOo | ce n —_e _ ———_—_t1; Pozzolanelle, Via Ardeatina. . . 2.30 1.15°/ 3.889/o 5.03 9/0 Pozzolane grigie, T. Caffarella . 2.16 2.87 » 6.18 » 8.04 » | | Pozzolane rosse, S. Paolo . è. . 2.93 1.89 » 6.63 » | 8.52 » — 261 — CO? Ca 0 Durezza in gradi francesi Acque ; a .. ._.| Residuo 100° in centomillesimi]in centomillesimi Temporanea | Permanente Totale Unni ae Vr‘ n o_o == 1T—w Pola o 8.16 3.91 27.80 8.94 2.86 11.80 Malaga 18.760 13.72 43.84 26.89 2.47 29.36 Acetosa . . |inlit.gr.1.32300|Ca.= 0,25110 20.42 (m.) = = = I saggi di roccia furono posti in piccoli vasi di terra ben cotta, dopo averli tenuti in bagno di acido cloridrico allungato sino a termine di effer- vescenza. Dopo un'accurata levigazione, quattro dei vasi furono collocati all'aperto, perchè ricevessero le piovane e subissero le vicissitudini meteo- riche. Gli altri si adacquarono regolarmente, sino a completa tenuta, con le acque menzionate, per un periodo di un anno, nei giorni di mercoldì e sabato. Passati sei mesi, i campioni furono sottoposti, presso la R. Stazione Agraria sperimentale di Roma, al calcimetro (a volume). L'operazione fu eseguita a 14° C. e con gr. 10 di roccia. Tutti i saggi rivelarono traccie di carbonato di calcio; in quantità relativamente notevole si trovò nelle rocce adacquate con la Felice e con l’Acetosa e cioè : A. Felice A. Acetosa I e/o gr. 0.161 °/, IRR 051 > II IRR eee sO L51» » 0.892 » INSERT 0252 » » 1.060 » Gl'inaspettati risultati m’ invogliarono a proseguire l'esperimento per un intero anno, dopo il quale, col noto metodo Rose (a peso) ho trovato i va- lori che riferisco nella Tabella I. Il metodo usato, adoperando l'acido clori- drico diluito, opportunamente pone in evidenza la calce tenuta in potenza e ricchezza prossima. È preferibile di molto il sistema Rose all'uso del cal- cimetro di Scheibler, indicando questo troppo incertamente il quantitativo dei carbonati. I valori ottenuti debbonsi ritenere, nel nostro caso, come esatti; dacchè la magnesia è contenuta nelle rocce sperimentate in minime quan- tità e poi essa sostituisce agrariamente, per piccole quantità, la calce. I dati sono riferiti a carbonato di Calcio, ottenendosi dall'esperienza il peso, per differenza, dell'anidride carbonica. La temperatura sì tenne fra 14°- 16° C: il materiale adoperato si trovò fra 2-4 grammi. RenpIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 99 — 262 — TABELLA I. Campioni |Stato naturale Piovana A. distillata A. Paola A. Felice A. Acetosa dei dle EARLE I AI | IL 0.540 0.804 0.786 0.776 0.925 | 1495 1 E RES UO 0.744 0.909 2.290 1.227 0.800 1.638 Tae 0.615 0.827 1.620 0.571 0.638 2.481 IN 0.602 0.366 0.879 1.000 1.236 2.584 Ì Costruite le grafiche seguenti (v. fig. 1) s’inferisce, con maggiore evi- denza, l'importante conclusione: Tutte le acque adoperate aumentano il quantitativo solubile della calce, contenuta nelle rocce sperimentate, aumentandone considerevolmente la potenza. si pc) d [S fe v n (n) Ha o] Ò > E = 32 Acetosa à o L È Ta Qi MR RI CR e n 20, RAI Ul V Ù ni LU ‘ V Ù i i i : nai AR oto Dalle Lig : HITS O i i Mi i Sela PERA ici e nea OO Dept \ ‘ o WI LZ II IRI LEO Ù ONG i Sio i ! » $i; Ù sro crsasinnconi io RA N eee 4‘ vo L Io D ; P A muoio ! ì PA ' ! PERS esa Scassa PARO E E RO ----- de SU Fic. 1 — I numeri romani rappresentano i campioni. Equidistanza: orizzontali mm. 5; verticali mm. 10. Rispetto alla quantità di calce elaborata così (Tabella II) debbonsi classificare le acque in ordine decrescente. Nella stessa tabella figurano le somme e le medie di aumento di carbonato di Calcio delle quattro rocce e delle stesse nelle cinque condizioni diverse. — 263 — TABELLA II. Mean Sos de ra Me rr Aumento di Ca CO? nell’acqua: Per campione Campioni 1 2 4 5 i Acetosa | Distillata Felice | Paola Piovana Gora | Mede TI ae 0.955 0.246 0.385 0.236 0.264 2.086 0.417 IR 0.894 1.546 0.056 0.483 0.165 2.144 0.429 IE. 1.866 1.005 0.023 |— 0.044 0.212 3.248 0.648 TIVE E 1.982 0.277 0.634 0.398 |—{0.236 3.055 0.611 Motale. ll 19.097 3.074 1.098 1.073 0.405 Media... | 1.424 0.768 0.274 0.268 0.101 Vedansi i due seguenti diagrammi dove si trovano rappresentati gli au- menti totali, in rapporto di valore assoluto, nelle singole condizioni dei quattro campioni (v. fig. 2) e degli stessi quattro campioni (v. fig. 3). -Acetosa:-- Fis. 2. Fic. 3. Con un facile calcolo si possono apprezzare le quantità di carbonato di Calcio che le singole acque mettono in disponibilità, nel corso di un anno, in un ha., considerando la profondità di m. 0.50 ed ammettendo per le rocce il peso specifico medio di 2,3. — 264 — TABELLA III. Aumento di CaC0? per ha. in Q. per le acque: Per campione Campiomi IP a neo, 2 3 4 5 ' ii Acetosa | Distillata Felice | Paola | Rivara Totale Media Terios 1098.25 282.90 442.75 271.40 803.60 | 2398.90 | 479.78 IRE 1028.10 | 1777.90 64.40 555.45 189.75 | 3615.60 | 723.12 TIRO RANE 2145.90 | 1155.75 26.45 | — 50.60 243.80 | 3521.30 | 704.26 IVirLuleono 2279.30 318 55 729.10 457.70 |— 241.40 | 3543.25 | 708.35 Totale. ...| 6551.55 | 353510 | 1262.70 | 1284.55 465.75 Media ....| 1637.88 883.77 315.67 321.18 116.43 I seguenti diagrammi mostrano graficamente le quantità totali del car- bonato di Calcio messo a disposizione, nel corso di un anno, per le singole acque (v. fig. 4) e per i diversi campioni (v. fig. 5), secondo i dati speri- mentali, in un ha. I. HIS coeso -- 2-30 700er-ee-Y 4 L'aumento è per sè considerevole e tale da giustificare la feracità di parecchî terreni autoctoni dell'Agro: disgraziatamente però tanto tesoro, a causa della sua estrema mobilità, fu spesso asportato dalle acque, quasi nella to- talità. Ancora è degno di nota il confronto fra le due serie di medie (v. Ta- bella III): mentre fra i campioni v'ha quasi una identità, meno il più su- perficiale; per le diverse acque si ebbero valori disparatissimi, fra 116.43 e 1637.88. I. Le complesse composizioni chimiche delle rocce e delle acque in studio e specialmente lo stato di profonda alterazione, anche congenita, degli ele- menti litologici e mineralogici non permettono un'indagine esattissima sul- “iii — 265 — l'origine dei fenomeni verificatisi nell'esperienza; tuttavia è dato risalire lungo la concatenazione ininterrotta delle cause e degli effetti sino a scoprire i principali agenti operatori. Non v'ha dubbio alcuno che il quantitativo di carbonato di Calcio mi- nore del primitivo, trovato nel IV campione esposto all’aria (v. Tabelle II e III), dimostra che le piovane esportarono una notevole quantità (più della metà) del sale fuori del vaso per mezzo dello sgocciolamento durante le in- cessanti ed abbondanti pioggie autunno-invernali. D'altra parte il quantitativo salino maggiore dell’ iniziale rinvenuto negli altri campioni I, II e III, per quanto non elevatissimo, sta a constatare che un aumento fu sicuramente prodotto. Dai due fatti precedenti si deduce che le pluviali elaborano una quantità di calce e che sono pur capaci di aspor- tarne. Il medesimo ragionamento calza all'acqua Paola ed a tutte le altre con cui sì sperimentò. Che l'agente elaborante non sia semplice può congetturarsi dalle sva- riate attività ben note delle pluviali, tra le quali debbonsi ricordare l'afti- nità chimica dell’acqua quando è scevra di residuo solido, quando ha di- sciolto CO? ed altri elementi con Az ecc. A provare direttamente l’azione dell'acqua e dell'anidride carbonica, mi soccorre opportunamente il ricordo di una esperienza, che presenta analogia con la mia, del Giorgis e del Gallo sopra tre sabbie vulcaniche vesuviane, tenute per due mesi in acqua, facendovi gorgogliare una corrente di CO?. Ecco i risultati centesimali rispetto alla calce: I. Eruzione 1878 II. Eruz. maggio 1900 III Eruz. nov. 1900 Prima dell'esperienza. 12.09 8.89 9/11 Dopo l’esperienza . . 15.09 9.95 9.92 Differenza in più . . 3.00 1.06 0.21 Riguardo al potere solutivo dell’acqua si ricordano specialmente le ri- cerche del Cossa, dell’Engel, del Ville, del Bischof, del Neminar, del Se- stini, ecc. Anche la natura opera in modo da dimostrarci chiaramente la verità di quanto si asserisce. L'acqua Paola, con poco residuo tisso e con scarsissima calce, ha dato per le stesse rocce, quasi uguali effetti della Felice, ricca di residuo fisso e con abbondantissima calce. Tutte e due le nominate acque elaborando e concedendo inaspettatamente meno calce della distillata e dell’Acetosa, dimo- strano che la presenza di CO? e la purezza dell'acqua sono due energici distruttori delle rocce. Nè maraviglia il comportamento della distillata del commercio, portando essa sempre disciolta l'anidride carbonica in consi- derevoli quantità, rispetto ad altri elementi che pur non vi mancano. og Senza dubbio, se le altre acque fossero state soverchiamente abbondanti, avrebbero anch'esse rimosso, come la piovana, una parte della calce elabo- rata, impoverendone la roccia. Per le nostre rocce adunque, rispetto al quantitativo della calce, s0n0 più energiche produttrici fra le acque sperimentate, quelle che ne con- tengono meno în composizione. L'importanza della constatazione emerge dal solo enunciato. In ogni modo chiaramente risulta la giustezza della legge da me già formulata intorno all'irrigazione: il principio sopra cui essa è fondata ri- mane ora saldamente confermato dall’especienza. Ecco la legge: «Il terreno « agrario deve potere assorbire tutta l'acqua pluviale, ad esso poi ne va « somministrata per irrigazione, quanta ne può mantenere; nell’uno e nel- «l’altro caso non debbonsi avvivare correnti che allontanino l’acqua, insieme «alle materie fertilizzanti elaborate ». Patologia vegetale. — Sulla Datteriosi del pomodoro (ba- cterium Briosii n. sp.). Nota preliminare del dott. G. L. PA- VARINO, presentata dal Socio G. BRIost. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Batteriologia agraria. — Sopra i metodi di misura delle attività microbiche del terreno agrario(*). Nota di R. PEROTTI, presentata dal Socio G. CUBONI. Deve ascriversi a singolare merito di Th. Remy la proposta di esami- nare batteriologicamente il terreno coltivabile con la misura delle sue prin- cipali funzioni microbiche anzi che con la semplice e primitiva numerazione dei germi contenutivi. Il metodo della numerazione dei germi presenta un grande numero di inconvenienti per i quali fu oggetto di critiche più o meno gravi che contri- buirono ciononpertanto a migliorarlo; ricordo, anzi, come io stesso proponessi già altra volta di modificarlo coll’impiego dell'estratto di torba glucosato all'1°/ (2), ottenendo con ciò resultati che per le possibili deduzioni batte- riologico-agrarie presentavano un valore superiore a tutti quelli precedente- mente ottenuti. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Batteriologia agraria della R. Stazione di Patologia vegetale di Roma. (3) R. Perotti, Per l'esame bacteriologico-agrario del terreno. Rend. Acc. Lincei, vol. XVI, fasc. 1, genn. 1907. — 267 — Ma il principio di mettere in evidenza le proprietà batteriche a mezzo delle soluzioni sopra il quale il Remy ha inteso di basare il suo nuovo me- todo di esame del terreno, si presenta sotto una veste di maggiore attendi- bilità e trova riscontro in procedimenti che sono antichi quanto la stessa batteriologia, e forse più, poichè è nello stesso ordine di idee che in ultima analisi il Leeuwenhoek svolgeva i suoi studî sopra gli énfusorz7 delle acque putrescenti. Il Winogradsky, molto più tardi, per il suo celebre isolamento dei nitroso- e dei nitrobatterii, si valeva di materiale proveniente da culture in liquidi selezionanti ('); il Beyerinck, seguendo una via parallela, perve- niva all’isolamento di parecchie specie di batterii oligonitrofili e segnatamente alla descrizione del suo eroococco (*). Il tentativo dello Jensen, eseguito nell’anno 1899, per misurare le pro- prietà nitrificanti di alcune terre della Danimarca (5), trovò sviluppo ed illu- strazione nelle ricerche sistematiche estese poco dopo dal Remy al potere di denitrificazione ed a quello di ammonizzazione del terreno, dalle quali venne più propriamente tratta la tecnica del metodo (*). Il Remy determinava il potere di ammonizzazione inoculando con gr. 10 di terreno da esaminarsi cme. 100 di soluzione di peptone all’ 1°/, e distil- lando l’ammoniaca prodotta dopo 4 od 8 giorni di coltivazione a 20 C.; il potere di nitrificazione dosando per via colorimetrica l’acido nitrico prodottosi nella soluzione di Omeliansky, parimenti inoculata; il potere di denitrifica- zione innestando con il 10 °/, di terra la soluzione di Giltay e calcolando il tempo occorso per la scomparsa della reazione del nitrato; il potere di fissazione dell'azoto elementare valendosi della soluzione del Beyerinek alla mannite con aggiunta del 15 °/, di terra. Erano istituite prove di controllo con campioni di terreno di determinata provenienza ed attitudine produttiva. Ma tale sistema di procedimento dette motivo ben presto ad osserva- zioni per parte di non pochi autorevoli sperimentatori che ne proposero mo- difiche. Alle prime ricerche del Lòhnis (*) seguì un lungo ed elaborato studio dell’Ehrenberg) il quale, in confronto dei resultati ottenuti con prove di ve- getazione, osservava che nel metodo non si tiene sufficiente conto della forma dei recipienti come della umidità della aereazione e della reazione del ter- (*) Arch. des sciences biolog. de Saint-Petersbourg, VII, 1899, pag. 191. (2) M. W. Beyerinck, Veber oligonitrophyle Mikroben. Centr. f. Bakt., II, VIII (1902), pag. 567. (8) Tidsskrift for Landbrugets Planteavl., Bd. 5: Salpeterbakteriernes Utbredelse è Danmark, pag. 173. (4) Th. Remy, Bodenbakteriologische Studien, Centr. f. Bakt. II, VIII (1902), pag. 660. (9) F. Lohnis, Fin Beitrag zur Methodik der bakteriologischen Bodenuntersuchung. Cent. f. Bakt. 1I, XII (1904), pp. 262, 448; XIV, pag. 1. Soa — reno (!). Alcune critiche di questo autore si riferiscono ai metodi delle analisi chimiche occorrenti. Con una Nota posteriore egli richiama inoltre in particolare l'attenzione sopra il fatto delle perdite di azoto nelle soluzioni di peptone in putrefazione (*). Buhlert e Fickenday trovarono il difetto del metodo nella differente quantità di azoto che si introduce con la inoculazione delle prove a mezzo del terreno e nel fatto che con la piccola quantità del materiale di innesto non può esattamente misurarsi la composizione e la virulenza della flora bat- terica contenutavi (*). Eglino introducono nel metodo una modificazione no- tevole impiegando per l'innesto, in luogo del terreno, un estratto di esso ottenuto agitando per cinque minuti parti uguali di terra e di acqua di condottura. Ciò permette a loro di ottenere risultati molto concordanti. Tale variante alla primitiva tecnica venne accettata da altri autori i quali ne ammisero gli indiscutibili vantaggi e fra questi anche dallo stesso Remy in una sua recentissima Nota, nella quale ha particolarmente studiato le questioni sollevatesi intorno alla misura del potere di ammonizzazione (*): dal Loòhnis che nega un generale potere di putrefazione del terreno ed espe- rimenta l'impiego per i singoli casi di varie sostanze putrescibili, quali peptone Witte, Schering, Merck, farina d'ossa, di corno e di sangue (?); al Lippmann che ottiene concordanze completamente soddisfacenti fra i dati del metodo e quei delle prove di campo ed esperimenta anche l'albumina e la caseina invece del peptone (9); al Vogel ed al Zeller che si dichiarano assolutamente contrarii all'impiego del peptone, per gli inconvenienti che esso presenta della troppo facile scomponibilità, della troppa dipendenza di questa dalle oscillazioni termiche, dagli errori analitici causati dal peso del corpo batterico ("). Avversario ancora più dichiarato del metodo è O. Rahn che pone in rilievo i facili errori derivanti dalle perdite dei liquidi culturali per volati- lizzazione, dall'influenza della soluzione nutritiva che supera quella del ma- (1) P. Ehrenberg, Die dakterielle Bodenuntersuchung in ihrer Bedeutung fur die Peststellung der Bodenfruchtbarkeit. Ladw. Jahrb., vol. XXXII (®) P. Ehrenberg, Stickstoffverluste in faulenden Peptonlòsungen: ein Beitrag zur Methodik der bakteriellen Bodenuntersuchung. Centr. f. Bak. II, XV (1905), pag. 154. () Buhlert u. Fickendey, Zur Methodik der bakteriologischen Bodenuntersuchung. Centr. f. Bakt., II, XVI (1906), pag. 399. (4) Th. Remy u. G. Rosing, Beitrag zur Methodik der bakteriellen Bodenunter su- chung. Centr. f. Bakt. II, XXIX (1911), pag. 36. (5) F. Lohnis u. A. E. Parr, Zur Methodik der bakteriologischen Bodenuntersu- chung, III. Cent. f. Bakt. II, XVII (1907), pag. 518. (©) Report of the Soil Chemist and Bacteriologist (XXVI Annual report of the New Jersey State Agric. Exp. Stut.), Cent. f. Bekt. II, XVIII, 22/23. (1) Vogel u. Zeller, Beitràge sur Methodik der bakteriologischen Bodenuntersuchung. Mitt. a. d. Kaiser-Wilhelms-Institut fiùr Landw. in Bromberg. Bd. I (1908), h. 2, pag. 167. SENO o — teriale di innesto, il quale, del resto, può modificare sensibilmente la soluzione stessa con le sostanze minerali che vi aggiunge; infine, perchè nessun cri- terio può trarsi dal procedimento sul numero dei germi del terreno e sopra | la loro caratterizzazione ('). Il Rahn conclude che il giudizio della fertilità di una terra possa ottenersi molto più rapidamente e completamente a mezzo | dell'analisi chimica. Il Remy, nella sua ultima pubblicazione risponde alle varie obbiezioni di sopra esposte e sperimentalmente dimostra, nei riguardi del potere di putrefazione, l'influenza esercitata sopra la misura di questo dalla composi- zione chimica del terreno che serve da innesto, nonchè l'influenza che sopra la medesima esplica il clima-terreno (reazione, aereazione, umidità, calore, sostanze acceleranti o ritardanti, ecc.); e tenendo conto dei progressi che le numerose ricerche dei collaboratori e dei critici avevano indotto nella tecnica | del metodo, avanza ulteriori proposte di migliorìe di esso (impiego di gela- tina purissima per le prove di ammonizzazione) il cui razionale fondamento non può ritenersi in alcun modo scosso. La persuasione di ciò, acquistata dai migliori studiosi, ha spinto taluni di questi a tentare una via parallela ed affine, stabilendo le migliori condizioni per seguire il circolo dell'azoto, non o più nelle soluzioni, ma nel terreno stesso aggiungendo ad esso la materia prima per attivarlo. In tale ordine di idee rientrano gli studî del Lemmer- | mann e collaboratori (3), del Koch e del Pettit(*) e recentemente del Vogel (4). La discussione è quindi ancora aperta e per la sua importanza alimenta studî e ricerche dirette ad affrettare migliori conclusioni. E poichè io stesso negli studî che ho in corso sopra la biologia dei terreni dell'agro romano, ho avuto occasione di eseguire parecchie centinaia di esami batteriologici seguendo appunto il metodo del Remy, deve ritenersi non inutile l’esposi- zione di quei risultati che formano oggetto della presente Nota e che possono | maggiormente illustrarlo, contribuendo a risolvere i problemi che si presen- | tano allorchè si voglia fissarne definitivamente la tecnica. Durante il mio studio mi attenni alle modalità fissate dalle recenti ricerche del Barthel (?): per il procedimento seguìto, allo scopo di evitare (1) O. Rahn, Bakteriologische Untersuchungen tiber das Trocknen des Bodens. Centr. | f. Bakt. II, XX (1908), pas. 38. | (®) O. Lemmermann, H. Fischer, H. Kappen u. E. Blank, Bakteriologisch-chemische | Untersuchungen. Landw. Jahrb., 38 (1909), pag. 319. | () A. Koch u. Pettit, Weber die verschiedenen Verlauf der Denitrification im | Boden und in Fhissigheiten. Centr. Rakt., II, XXVI (1910), pag. 335. (4) Vogel, Beitràge zur Methodik der bakteriologischen Bodenuntersuchung. Cent. f. Bakt. II, XXVII (1910), pag. 593. (5) Chr. Barthel, Bodenbakteriologische Untersuchungen. Cent. f. Bakt, II, XXV | (1909), pag. 108. ReNDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 36 — 270 — ripetizioni, rimando alla precedente Comunicazione fatta nella seduta del 18 dicembre u. s. (!). Riunirò i resultati a seconda delle principali funzioni microbiche del terreno agrario, avvertendo che per quanto riguarda il pro- cesso di fissazione dell'azoto elementare non ho potuto fare alcuna nuova constatazione. I. Potere di ammonizzazione. — Nell’esame dei numerosi dati ricavati dalle misure del potere di putrefazione del terreno, in funzione dell’epoca dell’anno e della diversità dei terreni, mi fu permesso di rilevare una cir- costanza di particolare interesse. Eseguendo la misura in due periodi equi- distanti dell’anno ottenni questi risultati : NH; mmgr. per litro —T__—_——_—_—_—_—_€___ss5="=__r___ gennaio luglio IIS) 1.00 1.27 0.98 Tolto 0.95 1.82 0.92 Miediag. 0 123 e e 005 Eseguendo la misura sopra terreni di natura differente, nel mese di gennaio, i resultati furono i seguenti: NH; mmgr. per litro: T. calcare-argilloso T. argilloso-calcare T. argilloso-umoso T. argilloso profondo profondo di media profondità poco profondo 1.27 1.34 1.36 1.03 1.27 1.36 1.29 1.10 Media. . 1.27 1.99 1.92 1.06 Tali esempî, che ho scelto fra i molti che avrei potuto addurre, indi- cano due fatti principalmente: 1°) che i dati forniti dalla misura del potere di ammonizzazione del terreno, sperimentata provocando la putrefazione del poptone, possono presentare oscillazioni non molto sensibili per circostanze di fatto ben differenti, quali negli esempî riportati, sono quelle che si ve- rificano per uno stesso terreno nel colmo dell’estate e nel colmo dell'inverno o in terreni differenti nella stessa epoca dell'anno. Una tale circostanza acquista maggior valore qualora si tengano presenti le differenze molto più sensibili che si ottengono determinando i poteri di nitrificazione e di deni- trificazione. 2°) Che risultati di misure di uguale valore, o quasi, possono ottenersi da terreni di natura affatto differenti, come ad es. sono quelli da me sopra riportati e che si riferiscono in un caso a terre ricche di calcare (Sac- copastore); nell’altro a terre ben provviste di sostanze umose, ma quasi prive (1) R. Perotti, /l movimento del capitale-azoto nei terreni della campagna romana. Rend. Acc. Lincei, vol. XIX, 2° sem., fasc. 12. _t@9@r/9]iit@@@i — 271 — di calce (Romavecchia, presso ii Casale). La misura del potere di ammo- nizzazione, adunque, ottenuta nelle circostanze del metodo, di cui sopra, con i suoi reperti poco oscillanti, non può essere indice della composizione chi- mica dei terreni. II. Potere di nitrificazione. — Altre notevoli osservazioni mi permet- tono di fare i dati raccolti sopra il potere di nitrificazione dei terreni della campagna romana. Esaminando il valore del potere di nitrificazione ottenuto da uno stesso terreno in epoche opposte dell'anno, troviamo differenze più sensibili di quelle del potere di ammonizzazione. Così ì reperti seguenti: HNO, mmgr. per litro. gennaio luglio 0.025 0 0.014 0 0.030 0 0.015 0 Media... 0021 0 dimostrano come nel mese di luglio si ottenesse una nitrificazione nulla e nel mese di gennaio di mmgr. 0.021 per litro. Le medie dei valori tanto per la nitrificazione, quanto per l’ammonizzazione, furono massime nel gennaio ('); prendendole perciò = 100, avremo in un caso differenza del 100 per 100 nell'altro dì circa il 20 °/,. Molti altri resultati, però, ottenuti per uguali terreni, ed anzi per identici campioni, hanno posto in evidenza circostanze che debbono attribuirsi alle modalità di esecuzione del metodo. Ad es., per la tenuta di Boccone, nel terreno di valle appartenente al fosso della Cec- china, ottenni: HNO, mmgr. per litro ——FT_T—z_ — _tydo_y_yÒ_m1_mumennnnr— Tr __—_—__ nella parte soda nella parte lavorata massimo : . . 0.020 SATO: TRO O OO 09 00.09 Si tratta perciò di differenze molto rilevanti, in base alle quali può affer- marsi che le condizioni realizzate nella esecuzione del metodo di misura non sono le migliori. I resultati del potere di nitrificazione di due terreni della tenuta di Romavecchia, molto vicini, di ugual natura ma con differente contenuto in sostanza organica furono i seguenti: HNO,; mmer. per litro —__—_—————___—r—_____—_—_—_—se+=T— TT Tr _ (sost. org. 10,5 °/o) (sost. org. 8.8 9/0) 0.035 0.015 0.035 0.025 MIE di OO 1 R0020, — 272 — Essi indicherebbero come in presenza di maggiori quantità di sostanza organica, che è ritenuta condizione sfavorevole per la nitrificazione, questo processo sarebbe più attivo che non in presenza di quantità minori di humus. Un tale fatto ha punti di contatto con un altro accertato nella misura del potere di denitrificazione e che appresso esaminerò. III. Potere di denitrificazione. — La misura del potere di denitrifi- cazione viene espressa con quella del tempo occorso per la totale scomparsa del nitrato dal liquido di Giltay e perciò in modo meno rigoroso di quello con il quale vengono espresse le misure delle altre funzioni microbiche del ter- reno agrario. Tuttavia, i numerosi dati da me raccolti, permettono di con- fermare i resultati dei precedenti esperimentatori: secondo i quali, il metodo permette di rilevare differenze notevoli nelle proprietà denitrificanti dei di- versi terreni. Mi trovo però in grado di mettere in evidenza i tre casi molto diffe- renti che possono verificarsi anche nelle culture allestite con uno stesso cam- pione di terra, secondo i migliori precetti del Barthel. Nell'esame della parte della tenuta di Romavecchia, situata a nord della via Casilina, fra il su- burbio e la tenuta del Quarticciolo, ottenni i tre casi che tipicamente sono rappresentati dalle seguenti figure: Nella prima Erlenmeyer si ebbe una vera denitrificazione con la totale scomparsa del nitrato; nella seconda si ebbe denitrificazione parziale (indi- retta), incompleta ancora dopo 308 ore di cultura, senza alcuno sviluppo di azoto ; nella terza non si ebbe affatto denitrificazione, ma solo un principio di sviluppo quasi subito cessato. Con il metodo di misura, quindi, non si apprezza la denitrificazione indiretta e si confonde questa con l'assenza di sviluppo (che indico parimenti con il segno co) nel calcolo della media delle numerose prove che in speciale considerazione di tale fatto si rende neces- sario istituire. Più interessante ancora mi sembra ciò che risulta dai seguenti reperti analitici : (1) Cfr. loco citato nella nota precedente. Ore occorse per la totale denitrificazione della soluzione Nei terreni di Giltay 96 Prati tiscali, sost. org. = 12.55 °/ 120 Boccone ” "i — 056” 192 Romavecchia » di ESTTR00N Essi furono scelti fra i molti che dimostrerebbero come, di regola, in terreni ricchi di sostanza organica, che è causa favorevole del fenomeno, si \l avrebbe una capacità di denitrificazione maggiore che non in quelli che ne sono più scarsamente forniti. Però, tali resultati ottenni appunto in terreni (come, ad es., quello dei Prati Fiscali) per i quali la lunga pratica agricola ha di- | mostrato una fertilità ben superiore a quella posseduta dagli altri, nei quali, invece, il metodo in discussione avrebbe svelato una minore capacità deni- trificante. Una tale circostanza, che trova riscontro nell'altra poco sopra ri- levata per la nitrificazione, mi sembra di non poco momento nell’apprezzare il giusto valore dei risultati ottenuti con il metodo del Remy: entrambi poi sembrano un poco prestarsi alla discussione dei concetti acquisiti sopra le condizioni dei fenomeni di nitrificazione e di denitrificazione che hanno luogo nel terreno agrario. In un terreno moderatamente provvisto di sostanza organica, che è tra ì fattori principali della fertilità del suolo, è mia ipotesi, che la maggior | parte delle forme microrganiche — comprese le nitrosanti nell’areola mine- ralizzata come immaginò il Winogradsky — si trovino in uno stato di atti- vità maggiore che non nei terreni meno forniti della sostanza organica me- î desima. Ciò avverrebbe perchè in genere le condizioni di esistenza dei mi- crorganismi, anche in forza della loro grande capacità adattativa, sono com- prese entro limiti relativamente ampî, sicchè essi possono benissimo prospe- rare in mezzi diversi, più o meno ricchi, senza peraltro indurre quei fenomeni (in genere fermentativi) che il metodo di misura in discussione mira a porre in evidenza realizzando le condizioni più favorevoli a tali fenomeni e che non sono quelle possedute dal terreno da cui le forme provengono. Così, ad esempio, può avvenire che i denitrificanti, come nei casi da me riportati, posti nella soluzione di Giltay, denitrificano attivamente, mentre la speri- mentata fertilità starebbe a dimostrare che ivi una tale denitrificazione non avviene. Mi sembra perciò che il giudizio sulla attendibilità dei resultati del metodo vada soprattutto subordinato alla realizzazione nelle culture di quel complesso di condizioni (clima-terreno del Remy) che il terreno offre ai i microrganismi e non a quelle che sono offerte dalle soluzioni; che, in seconda il linea — in relazione alle altre cause di errore dalle presenti mie ricerche poste in luce — mi sembra anche che si debba convenientemente aumentare SOTA — il numero delle prove parallele dalle quali trarsi la media, insieme con la adozione di processi analitici sicuri e spediti, e, per quanto riguarda il po- tere di putrefazione del terreno, ricorrere ad una sostanza che si presti meno rapidamente all'attacco deì germi. Il Rahm, che è tra i più dichiarati avversari del metodo, è di opi- nione che l’analisi chimica possa bastare di per sè sola a dare quelle indi- cazioni a cui tenderebbe il metodo del Remy per la misura delle attività microbiche del terreno. Credo, invece, che i miglioramenti che questo metodo è capace di subire, specie sulla base di quelli proposti dal Lemmermann, dal Kock, dal Pettit e dal Vogel, permettano di affermare con sicurezza che esso rappresenta una buona conquista della moderna tecnica degli studî di bacte- riologia agraria. Fisiologia. — Contributi alla fisiologia del Labirinto. 1. L'er- gogramma della rana slabirintata (*). Nota del dott. M. CAMS, presentata dal Corrispondente V. Apucco. La dottrina del tono labirintico fondata dall’Ewald (*), si basa principal- mente sopra considerazioni intuitive, ossia sopra la semplice osservazione di animali slabirintati. L'analisi dei rapporti, che corrono fra il labirinto ed i muscoli, e lo studio sperimentale di questo tono labirintico mancano quasi del tutto. I soli tentativi in questo senso appartengono pure all'Ewald ed alla sua scuola, e sì possono riassumere brevemente. Riferendo esperienze compiute in parte da lui ed in parte dal Willgerodt per suo suggerimento, l'Ewald (3) descrive una posizione asimmetrica assunta dal cadavere di piccioni slabirintati mo- nolateralmente, la quale deriverebbe dalla maggiore rapidità con cui la mu- sculatura del lato operato entra in rigidità cadaverica. Più tardi l’Emanuel (4), partendo da una esperienza dell'Ewald comu- nicata nel 1893 alla Società di scienze e medicina di Strasburgo, eseguì (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Fisiologia della R. Università di Pisa. (3) R. I. Ewald, Physiologische Untersuchungen dber das Endorgan des Nervus octavus. Wiesbaden 1892. (3) J. R. Ewald, Zur Physiologie des Labyrinths; V. Mitth., Die Beziehungen des Tonuslabyrinths zur Todtenstarre und Uber die Nysten’she Reihe (PAiger’s Arch., 13896, LXIII, pagg. 521-541). (4) G. Emanuel, Veder die Wirkung der Labyrinthe und des « Thalamus opticus » auf die Zugcurve des Frosches (Pfliùger's Arch., 1908, Bd. 99, pagg. 363-384). Delon — alcune esperienze prendendo il tracciato dell'allungamento e del successivo accorciamento presentati da una zampa di rana, quando era sottoposta ad una temporanea trazione. La curva che in questo modo si ottiene, ha una forma caratteristica per la rana normale (Zugeurve), ed ha una forma di- versa per la rana morta. Facendo la medesima esperienza sopra una rana slabirintata bilateralmente, si ottiene una curva simile a quella offerta dal cadavere, e non a quella data dalla rana normale vivente. Se la rana era stata operata da un solo lato, non si ottengono dalle due zampe due curve diverse fra loro e rispettivamente uguali alla curva normale e alla curva cadaverica; ma si ottengono due curve intermedie fra l'uno e l’altro tipo. Secondo l’Emanuel, queste osservazioni si spiegano con la scomparsa del tono muscolare consecutiva alla lesione dei labirinti. Le presenti ricerche furono da me eseguite con lo scopo di vedere quale influsso l'asportazione del labirinto eserciti sull'ergogramma della rana. La rana veniva fissata mediante lacci, in modo da essere tenuta immobile, sopra una tavoletta adattabile al miografo di Gad. Il muscolo gastrocnemio veniva isolato ed il suo tendine reciso e connesso con la leva isotonica del mio- grafo, mentre il nervo sciatico, isolato, veniva a riposare sopra un elettrodo. Lo stimolo era dato da un eccitatore elettro-magnetico di Magnus-Blix, con un ritmo di 2 m". Un certo numero di esperienze furono eseguite invece mettendo il gastrocnemio in rapporto con un collettore del lavoro di Fick (costruito dalla Cambridge Sc. Instr. C?Y.) in modo da prendere in considera- zione la quantità di lavoro compiuta dal muscolo. La rana veniva operata secondo il metodo di Schrader (*), dalla bocca, dopo essere stata fissata sull’apparecchio indicato dal Trendelenburg (*); la distruzione del labirinto era mono- o bilaterale. Le rane operate erano tenute in vasche di vetro, con acqua sempre pùu- lita e cambiata frequentemente, e sopravvivevano assai a lungo, tanto che nessuna differenza ho potuto notare, sotto questo aspetto, con le rane normali. Gli ergogrammi di una rana operata bilateralmente venivano confron- tati con quello di una rana normale tenuta per un tempo uguale in uguali condizioni di ambiente. Per ciò che riguarda la esauribilità del muscolo, la sua affaticabilità, la sua attitudine al lavoro, l'esame dell’ergogramma può offrirci un criterio di giudizio nei caratteri seguenti: 4) l'altezza della contrazione; 6) la lun- ghezza dell’ergogramma, ossia il numero di contrazioni che il muscolo può eseguire prima di esaurirsi; c) il grado di convergenza del profilo superiore (*) Il metodo comunemente noto col nome dello Schrader (1887) dovrebbe piuttosto essere ascritto a M. Schiff, come egli stesso fa notare in una Nota: Sur le réle des ra- meaux non auditifs du nerf acoustique (Rec. de Mém. Physiol., III, pagg. 121-141). (9) W. Trendelenburg, Zin Froschhalter fur die Schradersche Labyrintheatirpa- tion (Zeitschr. f. biol. Technik x. Metod., 1908-09, I, pagg. 363-365). Oro — dell'ersogramma verso l'ascissa; d) il grado medesimo di convergenza fino al punto in cui il muscolo entra in regime costante. Poco peso ho dato al primo di questi caratteri, in quanto l'altezza della contrazione può variare anche per circostanze estranee che non si possono regolare con assoluta esattezza, come la tensione del filo che connette la leva al muscolo, ecc. Invece, l'esame comparativo degli altri caratteri mi è sembrato assai attendibile, particolarmente quello del grado di convergenza, ossia della velocità con cui diminuisce l'altezza in funzione del numero delle contrazioni. Gli ergogrammi di rane diverse non si possono confrontare fra loro senza tener conto che il soggiorno in cattività può alterare, soprattutto per effetto del digiuno, lo stato di nutrizione e di funzionalità dei muscoli in questi animali. Le condizioni migliori si hanno confrontando un gruppo di rane normali ed un gruppo di rane operate, le quali siano state pescate e portato in laboratorio lo stesso giorno, e quivi tenute nelle stesse condizioni di ambiente. Dato il risultato negativo di questa parte di osservazioni, credo inutile occupare troppo spazio nel riferire un grande numero di misure, e dirò bre- vemente che dal confronto degli ergogrammi di 30 rane operate di labirinto- ectomia bilaterale, con quelli di rane normali, non ho potuto rilevare che la distruzione del labirinto eserciti alcun influsso, sulla forza, sulla esauri- bilità e sulla affaticabilità del muscolo. L'esperienza sulle rane slabirintate fu eseguita a varia distanza di tempo — da uno a trenta giorni — dalla data dell'operazione. Quando poi la distruzione del labirinto è stata monolaterale, confron- tando gli ergogrammi dei due gastrocnemii è ancora più agevole riconoscere che non vi è differenza fra loro rispetto all’attitudine al lavoro. Come unico esempio riferisco il seguente: 28 luglio. Rana + operata, due giorni prima, di distruzione del labi- rinto a destra. L'ergogramma del gastrocnemio destro ha un'altezza iniziale di 15 mm., e misurandone l'altezza ad ogni 100 contrazioni, si hanno le se- guenti altezze: 14, 13, 12, 10.5, 9.5, 8. Quello del gastrocnemio sinistro ha un'altezza iniziale di 15 mm. e altezze successive, ad ogni 100 contrazioni, di 15, 14, 6 Ol 0, Do, Dopo circa 600 contrazioni ambedue entrano in un regime costante, avendo 2 I È) . 43,7 .4 presentato un decremento di 100 dal lato sano e di 100 dal lato operato, ossia del 7,28°/, e del 7,76 °/, rispettivamente, per ogni 100 contrazioni. Un particolare interessante offerto dall'ergogramma di rane slabirintate è invece quello di certe sinuosità del suo profilo inferiore che ricordano lon- tanamente, senza averne la regolarità, le oscillazioni del tono presentate dagli — 275 — atrii del cuore di anfibii. La figura 1 rappresenta un tratto dell'ergogramma del gastrocnemio destro di una rana, alla quale era stato, tre giorni prima, distrutto il labirinto destro. Talvolta le oscillazioni del tono sono più irregolari, come si vede dalla fig. 2, che riproduce un tratto di ergogramma sinistro, di una rana operata di slabirintazione bilaterale da sei giorni. Allo scopo di determinare meglio le condizioni in cui si verifica questo fenomeno, ho distrutto il labirinto in un certo numero di rane, ed ho raccolto l’ergogramma a diversa distanza di tempo, e cioè, di giorno in giorno, fino a 75 giorni dopo l'operazione. Fre. 1. — Rana operata a destra il 30 marzo. Ergogramma del gastrocnemio destro raccolto il 3 aprile. Sull’ascissa è marcato il tempo in secondi (ridotto a 3). La stessa ricerca fu eseguita parallelamente in rane operate da un solo lato e in rane operate bilateralmente. Riassunto brevemente, il risultato di queste esperienze è che le oscillazioni del tono non si presentano costante- mente, ma solo in un periodo che va dal 3° al 7° giorno dopo l'operazione; Fig. 2. — Rana slabirintata il 23 marzo. Ergogramma raccolto il 29 marzo. Sull’ascissa è marcato il tempo in secondi (ridotto a 3). che nelle rane operate da un lato si presentano nel muscolo dello stesso lato; che nelle rane operate bilateralmente si presentano in ambedue i lati. Le figure 3 e 4 mostrano gli ergogrammi destro e sinistro di una rana ope- rata bilateralmente quattro giorni prima. L'ergogramma di sinistra, invece che presentare quella specie di /estonatura che si vede negli altri tracciati, presenta nel profilo inferiore una curva a largo raggio (ondulazione), che di- mostra, secondo me, un lento aumento, seguìto da una lenta diminuzione del tono. Il primo quesito che si presenta davanti a questi fatti, è di sapere se essi rappresentino un fenomeno di deficienza ovvero uno di irritazione. La brevità imposta a questa Nota mi impedisce di fare una discussione dottrinale di questo punto, intorno al quale del resto molto si è già detto e scritto. Il fatto però che queste oscillazioni del tono si presentano solo durante un pe- RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 37 ‘(£ è oppop II) 0UO] ]Op Quorzerioso tunssal : CATZIPO ensdeo el[op euorzezziumeo0o e] odop ‘ur gg 03[o009t1 curweIdOSIO TP _07peI) un apoa Is ogaed Wpuodes EI]AN :0U09 [Ip IUOIZET[TOso 0] vuopoa Is epred ewtid eTtoNn ‘6g IT 0HoootI CUWEISOSIH ‘0190770 9g IT V1gsop è eqeiodo tutg — ‘G ‘91 CAABRIRI DIGASSIH ‘(E ® 09JOpII) Q10119JUT QUIPIO IP IMOIZE][IOSO 9qguIosI BUISIPawL [op ‘OIJSTIUIS 01U9U90IISES |op cuweISoSIH — ‘E ‘913 iii ion *(£ è oggopra) Ipuooas ur odwa], ‘000) [9p IUOrZer[roso eijsowi eye turweISoSIg ‘01)s0p otUIPUdOT)SEY) *Vwrtid [UI0IS 5 0]e19}e TA BIOZO9ZUITTQUI Ip eqeIodo tutif — ‘E ‘914 — 277 — riodo di tempo limitato e ristretto, ed in questo periodo non sempre, mi rese fin dalle prime osservazioni proclive ad interpretarle come un fenomeno irritativo. Un criterio di giudizio positivo mi è stato offerto dalla cocainizzazione della capsula. È noto dalle esperienze del Gaglio (') sui piccioni che la cocainizzazione dei canali semicircolari determina effetti uguali al loro taglio od alla loro distruzione, ossia impetuosi e disordinati movimenti di oscillazione del capo e nistagno oculare; ciò che ha indotto giustamente il Gaglio a considerare i detti fenomeni come fenomeni di deficienza. Io feci alcune esperienze pre- liminari sulla rana, allo scopo di accertarmi che le osservazioni citate si applichino anche a questo animale. Eccone un esempio: 1° luglio. Ad una rana pratico per mezzo di un piccolo trapano a mano portante una piccolissima punta sferica da dentista, un'apertura nella parete della bolla acustica destra. L'animale, sciolto dai lacci, si dimostra perfetta- mente normale. Introduco nella bolla acustica per mezzo di una sottile pipetta di vetro un paio di goccie di una soluzione di cloridrato di cocaina all’ 1 °/. Dopo 10 m'. la rana mostra la posizione caratteristica delle rane slabirintate a destra: estensione e abduzione degli arti di sinistra; facilità quando spicca un salto di cadere sul dorso, ecc. ecc. Dopo un'ora questi fenomeni sono atte- nuati. L'indomani (2 luglio) la rana non si distingue più in nulla da una normale. Ciò posto, se le oscillazioni del tono rappresentano un fenomeno di defi- cienza, la cocainizzazione della bolla acustica vuota non deve modificarle. Se invece esse rappresentano un fenomeno di irritazione, saranno probabilmente abolite dalla cocaina, introdotta nella bolla acustica; ammettendo che quivi essa vada ad anestetizzare il moncone nervoso, che noi supponiamo essere in Istato irritativo. Ecco il protocollo di due esperienze di questo tipo: 29 ottobre 1910. Rana % slabirintatata a destra il 26 ottobre. Ore 10. Si comincia a prendere l’ergogramma del gastrocnemio destro. Notevoli oscil- lazioni del tono. Ore 10.5’. Introduzione di qualche goccia di cocaina nella bolla acustica. Ore 10.20'-10.30'. Si raccoglie nuovamente l’ergogramma che non pre- senta alcuna oscillazione del tono. Ore 17. Si raccoglie un altro tratto di ergogramma, per vedere se l'azione della cocaina è cessata: qualche lieve oscillazione di tono. 17 dicembre. Rana % operata a destra, dal 13 dicembre. Ergogramma del gastrocnemio destro. Evidenti oscillazioni del tono. Interrompo l’ergogramma ed applico cocaina. (') G. Gaglio, Asperienze sulla anestesia dei canali semicircolari dell'orecchio (Ar- chivio per le Sc. Med., 1899, XXIII, pp. 41-64). Dopo cinque minuti raccolgo l’ergogramma, che presenta ancora oscilla- zioni del tono (la cocaina non ha ancora agito). Dopo 15 minuti, nuovo ergogramma: le oscillazioni del tono sono scomparse. Dopo 30 m'., nuovo ergogramma. Nessuna oscillazione del tono. La fig. 5 « e £ illustra un’altra di queste esperienze. CONCLUSIONI. 1) La distruzione del labirinto nella rana determina, oltre i noti feno- meni di deficienza, fatti transitori di natura irritativa. 2) Questi fatti consistono in oscillazioni del tono di muscoli scheletrici (gastrocnemio), e sono omolazerali quando il labirinto è distrutto da un sol lato, bilaterali se è distrutto da ambidue. 3) La cocaina, applicata localmente, abolisce le oscillazioni del tono di origine labirintica. Patologia. — Sulla leishmaniosi e sul suo modo di trasmis- sione (0). Nota IV preliminare del dott. CARLO BASILE, presentata dal Socio B. Grassi. Nelle mie precedenti Note (*) sull'argomento, ho potuto dimostrare l’esistenza di due forme della leishmaniosi del cane: la grave (a de- corso acuto), la attenuata (a decorso cronico). La prima forma è stata già da me segnalata nei giovani cani di Bordonaro (Messina): oggi riferisco, che essa esiste anche nei giovani cani di Roma, nella qual città, mì era due anni fa sfuggita, perchè avevo eseguito le ricerche al canile municipale, dove vengono portati, in massima parte, cani di età media o avanzata, vaganti per le vie. Riferisco, come esempio, il seguente caso: un cane di qualche mese di età, magro e tremante, fu comprato alle porte di Roma, ove era nato e cre- sciuto. Un primo esame del midollo riuscì negativo per le leishmanie; il dimagramento, il tremore si accentuavano però sempre più, mentre la tem- peratura era affatto irregolare. Ripetuto l'esame del midollo fu notata la presenza dei corpi di Leishman, i quali però si presentarono molto più numerosi nel sangue aspirato dal fegato, mediante puntura. Dopo circa due (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Anatomia comparata della R. Università di Roma, diretto dal prof, B. Grassi. (2) Basile Carlo, Rend. Acc. Lincei, vol. XIX, serie 5%, Sem. I, fasc. 3, Sem. II, fasc, 10, anno 1910. — 279 — mesi (primi di febbraio) il cane venne a morte e nella milza, nel fegato, nel midollo osseo, ho notato la presenza dei parassiti. Sia dal punto di vista etiologico, adunque, sia dal punto di vista cli- nico, la leishmaniosi dei cani di Roma è perfettamente identica a quella dei cani di Bordonaro; da notizie recentemente raccolte, credo di non errare nel supporre, per ora, che essa esista in molti paesi del circondario di Roma. D'altro canto l’esistenza del Kala-Azar a Roma da me e Fulci (') per primi, segnalata, realizzando la mia ipotesi precedentemente espressa (*), mi offre occasione a qualche nuova considerazione. I recenti studî sulle leishmaniosi hanno accertato che, almeno nelle re- gioni mediterranee, la leishmaniosi umana e la canina, sono identiche non solo per i caratteri morfologici e biologici del parassita, ma anche per il loro decorso clinico, e per la loro distribuzione geografica; sì aggiunga a ciò che il cane, a preferenza di tanti altri animali, è suscettibile (almeno nei nostri paesi) dell'infezione sperimentale da parte del virus umano (?). Anche dal punto di vista terapeutico, poi, per quanto a me pare, non risulta differenza alcuna. In fatti, ripetendo qui succintamente quanto ho comunicato al XX Congresso di Medicina Interna (‘), in data del 22 dicembre 1910, la leishmania che determina l'infezione nel cane, resiste all’azione della comune dose mas- sima terapeutica (per l’uomo) di 606 (1 cgr. per kgr. di animale), così come sembra che resista il parassita del Kala-Azar (*). Il modo di trasmissione della leishmaniosi, almeno per quanto riguarda le nostre regioni, è stato oggetto di miei lunghi studi. Sin dal maggio 1910 ho potuto notare, a Bordonaro, in alcune pulci serraticeps, tolte a giovani cani agonizzanti per leishmaniosi a decorso acuto, (1) Fulci e Basile, Rend. Acc. Lincei, vol. XX, seduta del 22 gennaio 1911. Questo caso di Kala-Azar è stato osservato in un giovane diciannovenne di Castelnuovo di Porto (Roma). Nella seduta del 29 gennaio 1911 della Reale Accademia Medica di Roma il prof. Concetti ha riferito su un nuovo caso di Kala-Azar, il primo osservato nei bambini a Roma. (?) Dopo aver segnalato l’esistenza della leishmaniosi nei cani di Roma, ho avan- zato l’ipotesi che casi di Kala-Azar dovessero esistere in questa città. (8) È ovvio che l’esperimento inverso, dal cane all'uomo, non deve farsi. (4) Nel novembre 1910 ho eseguito nell’Istituto di Patologia Medica, della R. Uni- versità di Catania, diretto dal prof. M. Ascoli, alcuni esperimenti sull'azione terapeutica del 606 nelle Leishmaniosi, che ho dettagliatamente riferito al XX Congr. di Med. Int. (5) Il Nicolle ha ottenuto, in un cane affetto da leishmaniosi sperimentale, scom- parsa dei parassiti dal fegato, dopo quattro giorni dall’iniezione di 606, nella dose di 2 cgr. per kgr. di animale: questa dose però, ripeto, ai sensi della terapia umana, è tos- sica. Del resto, come io ho comunicato al XX Congr. di Medic. Int., nessun fatto, per ora, si oppone a ritenere, che la leishmaniosi (spontanea o naturale) del cane, possa guarire con una dose di 606 superiore ad 1 cgr. per kgr. di animale, — 280 — la presenza di leishmanie. Nel dicembre 1910 (*), seguendo la via sperimen- tale, ho potuto riprodurre, mediante pulci serra/iceps, la leishmaniosi in un giovane cane, ed ho potuto anche dimostrare che le leishmanie si molti- plicano attivamente nella pulce serraticeps. Io ho potuto ottenere dei preparati in cui i detti parassiti sono nume- rosissimi, alcuni nello stadio preflagellato, in via di divisione longitudinale, altri nello stadio flagellato. Le disposizioni a rosetta sono piuttosto frequenti. Leishmanie nella Pulce Serraticeps. (Ingrandim. microfotografico 2.000 diametri) Il parassita a è perfettamente identico a quelli che riscontransi nell'uomo e nel cane; i parassiti è, disposti a rosette, sono in via di evoluzione; fra essi il parassita c è in divisione longitudinale. Oggi, a nuova conferma, che la pulce serraticeps è il veicolo di tra- smissione della leishmania (almeno nelle regioni Mediterranee), stanno miei nuovi esperimenti eseguiti seguendo la via naturale, qui riassunti. Due cani neonati da circa 30 giorni ed una cagna di 2 anni, nei quali tutti, l'esame del midollo era stato negativo per le leishmanie, furono tenuti, per qualche tempo, in un canile ripetutamente lavato con soluzioni di creolina e quindi posti in altro canile ben protetto da fitte reti metalliche, ove si ebbe cura che la temperatura fosse attorno ai 20° C. Dopo qualche giorno assieme ad essi fu posto un cane, di età avanzata, affetto da leishma- niosi. Le pulci di questo cane, che erano numerose, non tardarono a passare in parte sui cani in esperimento. Dopo 30 giorni eseguita, in questi, la pun- (') Basile Carlo, Rend. Acc. Lincei, vol. XX, seduta 8 gennaio TODI — 281 — tura del fegato, ho potuto mettere in evidenza, nel sangue epatico, le forme di Leishman. I due cani giovani andarono dimagrendo, ed uno di essi al 45° giorno, dall'inizio dell'esperimento, morì in uno stato comatoso: i preparati per strisciamento di fegato, milza, midollo, presentarono leishmanie, in varia quantità, nei varî organi, ed in varî stadî di evoluzione. Gli altri cani vi- vono tuttora. Debbo far noto, che ho tenuto dei cani di controllo, in cui ripetute punture di fegato sono riuscite negative. Ho in corso altri esperimenti, sui quali mi tratterrò in altra pubbli- cazione. Per ora accenno che, nelle mie recenti ricerche a Bordonaro, ho potuto notare la presenza di pulci serraziceps nelle coltri e nelle materassa di al- cune di quelle famiglie che hanno l'abitudine di tenere cani in casa; del- l'esame di gran parte di queste pulci mi occuperò in seguito. La trasmissione del Kala-Azar mediante la pulce serraziceps e verosi- milmente mediante la pulce irri/ans è stata, dal mio maestro prof. Grassi, annunciata, a mio nome, all'Accademia dei Lincei sin dal 6 novembre 1910 (Dì Circa due mesi dopo, il 13 gennaio 1911 (?), Sangiorgi, assistente del Pagliani, ha riferito all'Accademia di Medicina in Torino alcune sue ri- cerche sullo stesso argomento, che egli ha pubblicate in Pathologica, in data del 15 gennaio 1911, dopo che io aveva già presentato all'Accademia dei Lincei, in data dell’8 gennaio, una seconda Nota sulla trasmissione delle leishmanie mediante le pulci serraziceps. Tolgo intanto, dalla pubblicazione del Sangiorgi, che le sue ricerche sulle cimici, a conferma delle mie, sono state negative per le leishmanie; onde l’autore vorrebbe piuttosto accarez- zare l'ipotesi, di cui spetta a me la priorità, « ehe la pulce serraticeps sta il probabile ospite intermedio della Leishmania dal cane al bambino » dal fatto che « da un discreto numero di pulci raccolte, (dopo l’ottobre 1910), su alcuni cani randagi accalappiati a Catania e subito speditegli a Torino, ne ha prelevato una dozzina fra quelle che non mostravano alcun segno di vita, ed in un solo preparato (*) allestito con i loro corpi disfatti insieme în un po’ di soluzione fisiologica, ha potuto mettere în evidenza un numero grande, davvero impressionante di protozoi, rassomigliantis- semi alle forme di Leishmania ». (1) Quella mia Nota (Sulla leishmaniosi del cane e sull’ospite intermedio del Kala- Azar infantile) è stata pubblicata nel fascicolo del 20 novembre 1910 della R. Acc. dei Lincei, essendomi io dovuto trattenere a Catania, nei primi di novembre, per alcuni espe- rimenti sul 606 iniziati in quella città nell'Istituto di Patologia Medica. (°) Vedi Policlinico, Sezione Pratica, fasc. 7, anno 1911. (*) Nel testo queste parole sono scritte in carattere comune. — 282 — Chi conosce le ricerche del Patton, del Porter, del Mackinnon, dello Chatton, del Leger, e di tanti altri ilMustri studiosi dei protozoi parassiti degli insetti, chi confronta la mia microfotografia, ottenuta da uno dei miei preparati di Leishmanie nel pulex serraticeps, colla microfotografla data dal Sangiorgi, e tien conto delle condizioni, nelle quali questi (!) s'è posto, deve ritenere, per molte ragioni, almeno prematura, per ora, l'identità dei pro- tozoi descritti dal Sangiorgi, alle forme di Leishman. CORRISPONDENZA N Presidente BLAsERNA presenta un piego suggellato inviato dal prof. NOZARI, del R. Ist. Tecnico di Ravenna, perchè sia conservato negli archivi accademici. E. M. (1) Il Sangiorgi, fra l’altro, rende noto che non ha « potuto sapere notizie delle condizioni degli animali ospiti degli insetti raccolti ». Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo 1-XXIII. «Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. IN. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fistche, matematiche e natural. 3% Memorik della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI. VII. VIII Serie 3* — TransuntI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali Vol. I. (1, 2). — II (1, 2). — III-XIX. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. XII. Serie 4* — RenpIcONTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoriIE della Classe di sciense fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della (Classe di sciense morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Idorie 5 — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XX. (1892-1911). 1° Sem. Fase. 4°. RENDICONTI della Classe di sciense morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVISI. (1892-1910). Fase. 7°-10°. MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VIM. Fase. 7° MEMORIE della Classe di secenze morali, CE @ filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICON'I{ DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. | Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l'Italia di L. 819; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoescHeEr & C.° — Roma, Torino e Firenze. trico Horpri. — Milano, Pisa e Napoli. vi 4 N04 NIRO RENDICONTI — Febbraio 1911. INDICE ava cia Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 19 febbraio 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Garbasso. Sopra un particolare fenomeno di diffusione . . . SPINEA, VIAN EI Briosi e Farneti. La Morìa dei castagni (Mal dell'inchiostro). Oi critiche alla Nota dei signori Griffon e Maublane . i pira rana Ri Cisotti. Sulla biforcazione di una vena gd (hi: dal Sasio Levi Civita) ©. ARI ZILE Colonnetti. Sopra un caso di emisimmetria che si presenta in certe questioni di Idrodinamica EE NEEDE CRETA BARE Crudeli. Contributo allo studio delle temi laiche o ci Corrisp. divi HRR) Picone. Un teorema sulle soluzioni delle equazioni lineari ellittiche autoaggiunte alle derivate parziali del second’ordine (pres. dal Sogio IRIanchi) eno So Id. Sul problema di Dirichlet per la più generale equazione ione ellittica antraggiona alle derivate parziali del second’ordine (pres. Id.) (#). . .. . ” Signorini. Sulla formola di Stokes che serve a determinare la forma del Copie (pres, ia Socio Pizzetti) « .° . RE A Id. Sul criterio di Stebbino (pres. dal Sogio Bianchi) € . SRI DRERRTOR, Corbino. Variazioni p‘riodiche di resistenza dei filamenti metallici cotta resi incasso con correnti alternate e deduzione delle loro proprietà termiche a temperatura elevata (pres. dal Socio serna) SUS TRE MOTI AO SNICIAAINA RI Tonelli. Sughi integrali curvilinei n dal Bacio Pichi) FISSO RI EIA MES E Bellucci. Sulla sintesi diretta dei gliceridi (pres. dal Socio Paternò). . . . #1 Id. e Sabatini. Sopra un caso di isomeria di struttura nei cianuri metallici e Iii ” Oliveri-Mandalà e Coppola. Eterificazione degli iso-oxazoloni con il diazometano (pres. dal Corrisp. Peratoner). <<. . î AE) Ostrogovich. Azione dei nitriti ST cli Da dal Socio Paterno). TRAE ” Sandonnini. Sali doppi fra il fluoruro di piombo e H altri sali alogenati dello stesso Mei (pres. dal Socio Ciamician). . . + SI IA PANINI Ponte. Fase hawaiana dell'attività dell'Etna di; dal Sin Sua) i È n De Angelis d'Ossat. Le rocce e le acque dell'Agro Romano rispetto alla cafe a ni SOCIO MOON I 1) OE È ; » Pavarino. Sulla batteriosi del Pesa (i iium Briosii n. dp) (re dal Lui BIOS È PEA Perotti. Sopra i metodi dii misura delle aitività Lione del ha agrario Cas io Socio CuDONIISNIA OA, RETE RE) Camis. Contributo alla fisiologia (DÌ Labiitti JÉ a dub: rana ‘slabitimiali (pres. dal Corrisp. Aducco) . . . + ea $ et) Basile. Sulla leishmaniosi e sul suo mei di apmitione di dal Suniti Giai MORA) CORRISPONDENZA Blaserna (Presidente). Presenta un piego suggellato inviato dal prof. Mozari, perchè sia con- Servato megli archivi. aCC3d6MIGCI: eee REN EROI SAI DEA IA 282 197 (*) Questa, Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo E. Mancini Seoretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. o Pubblicazione bimensile. Roma 5 marzo 1911. N. 5, CARO DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO GCGVIII. TO SBIESTHR QUINTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 5 marzo 19. Volume X X.° — Fascicolo 5° 1° SEMESTRE. ci aio tt EI 4 xnsonian Instityg, / A “1% | APR171911 Xu 4 Va y a (Vi i =lonal: Muse Membre ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI CAV. V. SALVIUGCI 1911 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Coi 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze tisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. 1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Socì e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 8.L’Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Socì o Gorrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l'autore ne desideri nn numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. : 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- -demia; tuttavia se i Soci, cha vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta. menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II I. Le Note che oltrepassino i limiti indi= cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com: missione la quale esamina il lavoro e ne rife risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta dì stampa della \ negli Atti dell'Accade- mia o in s” ‘eso, senza pregiudizio dell’ art . = 5) Col desiderio di fr n. fatti o ragionamentì L, “moria. - c) Con un ringra: «tore. - d) Colla semplice pro- .avio della Memoria agli Archivi ;ademia. « Nei primi tre casi, previsti dall art. pre: cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è meraa a carie degli autori. RENDICONTI DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. ANN Seduta del 5 marzo 1011. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Matematica. — 7rasformazione di una relazione funzionale dovuta al Dini. Nota I del Socio T. Levi-CIviTA. Il prof. Dini ha stabilito una notevole relazione funzionale fra i valori che una funzione @, armonica è regolare entro un cerchio, assume sul con- torno e quelli che vi assume la sua derivata normale. Immaginando di passare, per trasformazione conforme, dal cerchio ad un generico campo S, la « (espressa nelle nuove variabili) si conserva ar- monica e regolare entro S, e la formula del Dini (per materiale sostituzione) diviene una relazione funzionale, fra @ e la sua nuova derivata normale, valida sul contorno trasformato. Se il modulo della trasformazione conforme rimane finito e diverso da zero, non solo entro il cerchio, ma anche sulla circonferenza limite, si può senz'altro asserire che la nuova relazione funzionale sussiste sotto le stesse ipotesi qualitative, che furono ben precisate dal Dini. Ma se — come per esempio accade quando il campo S si estende all'infinito — le formule di trasformazione sono affette da qualche singolarità sulla circonferenza li- mite, possono introdursi (circa il comportamento della funzione sul contorno trasformato) restrizioni affatto artificiali e tali da infirmare l’applicabilità del risultato a casi che (rispetto al contorno trasformato) sono da riguardarsi come normali. Si richiede allora un po’ di discussione per assicurare (a posteriori) alla relazione funzionale trasformata i suoi limiti, dirò così, naturali di validità. RenpIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 38 — 286 — Un esempio elementare, particolarmente interessante, si ha nel passaggio dal cerchio ad una striscia (porzione di piano compresa fra due rette paral- lele). La relazione funzionale corrispondente (0, più esattamente, certo suo corollario) consente di attribuire tutto il desiderabile rigore ad un bril- lante artificio analitico escogitato da Lord Rayleigh per cogliere i caratteri salienti dell'onda solitaria. Più generalmente essa consente di lumeggiare l’intera teoria delle onde di canale. In vista di ciò, chiedo all'Accademia il permesso di intrattenermi al- quanto diffusamente sopra l'anzidetta trasformazione, che pur non presenta alcuna novità concettuale. La deduzione e discussione delle formule occuperà questa e una suc- cessiva Nota. In una terza Nota potrò finalmente passare alle applicazioni. 1. — RICHIAMO DELLA FORMULA DEL DINI. Sia « una funzione armonica, regolare in un certo campo, finita e con- ì : : : de tinua sul contorno di tale campo assieme alla sua derivata normale > n (x designando la normale al contorno, volta verso l'interno del campo). La conoscenza dei valori di da ; : To sul contorno determina notoriamente @, a meno di una costante additiva. L'espressione esplicita, nel caso di un campo circolare, fu assegnata dal prof. Dini già parecchi anni or sono (?) e può scriversi come segue: % lena R?° da (1) = lr) + cost, dove c rappresenta la circonferenza che limita il campo; R il suo raggio; al log va attribuita la determinazione reale; @» sta a rappresentare il va- lore della @ nel punto generico P (interno, o anche appartenente alla cir- conferenza c); P' è il coniugato armonico di P, rispetto a e; Pi è un punto di c, rispetto al quale va eseguita l'integrazione, e si contrassegnano col- VIRA AMIDO Bn b da l'indice 1 le determinazioni, che si riferiscono a P,, della funzione n e dell'elemento d'arco de. Assumiamo, per semplità, eguale ad 1 il raggio di €, e introduciamo un sistema cartesiano È, coll’origine nel centro, nonchè le corrispondenti coordinate polari 0 , 0. Considerando, accanto alla funzione armonica @(£,») (dei punti del nostro campo circolare), la sua associata f#($,7), definita (anch'essa a meno (1) Sull’equazione 4°u= 0, Annali di Matematica, ser. II, tomo V, 1871, pp. 305-345. di una costante additiva) da da da 2 =— 7 E (2) di=— 3 de+ 4, risulterà (3) y=@a +38 funzione della variabile complessa é = &+- 7y, regolare per |î|<1, finita e continua assieme alla sua prima derivata sulla circonferenza c (|î]= 1). Se si tien conto che un elemento di c (nel senso delle o crescenti) e un elemento dn di normale (o, ciò che è lo stesso, di raggio) vòlto verso il centro costituiscono una coppia congruente a quella degli assi coordinati £,7, le relazioni di monogeneità [compendiate nella (3)] dànno, in un punto ge- nerico di c: dé da (4) CA df _ da dn do È Ciò posto, concentriamo l’attenzione sui valori di @ , # al contorno, pen- sandoli come funzioni di quell’ unica variabile — l'anomalia — che fissa la posizione sul contorno stesso. Riprendiamo la (1), supponendovi P sul contorno, con che P' viene a coincidere con P. Attribuendo la designazione generica o all'anomalia di P e rappresentando con o, quella di P,, si ba, per ovvie considerazioni di geometria elementare (dacchè R= 1): l'apice designando derivazione rispetto all'argomento indicato. Si può quindi scrivere (5) a(c)=3_ \ log È 4 sen? 5 B'(0,) do, + così. La (1) vale naturalmente anche per la funzione associata £. Avuto riguardo alla seconda delle (4), se ne trae 277 l (6) B(0) no log i; ql e'(0,) do, + cost. — 288 — 2. — (COROLLARI. Supponiamo in particolare che si tratti di una funzione y(6), reale per © reale. La parte reale @ assume allora valori eguali in punti simme- trici rispetto all'asse reale 7=0; la # assume invece valori opposti. Ciò si traduce, per i punti di e, nelle formule seguenti: (a(2x—6c)= a(0), (Bn—0)—— (0), donde, per derivazione, (a(1—-0c)=—«(0), (#@n—-0)= #(0). In virtù dell'ultima di queste relazioni, ove si scinda nella (5) l’in- tervallo di integrazione in due parti (da 0a 7, e da x a 2a), si cambi, nel secondo integrale, la variabile corrente di integrazione o, in 2r — Gi, e sì ponga 1 (7) H(9, , 0) = log a Go\—- 0 +0 16 sen? 3 sen? won sì può attribuire alla (5) la forma Tea (8) a(0) = Dr | H(0,,0) (01) do, + cost. 0 Dacchè si ha identicamente H(0,,2x—0)= H(0,,0) 9 rimane inclusa, nella espressione (8) di @, la condizione di simmetria al contorno @(277 — 0) = a(0). In modo analogo, si ha dalla (6), ove si tenga conto di a'(2x — 0) = =— e'(0) e si ponga ina Sassa, 9 K o ,0 =] D) (0) (ra la 1 f° i die 139)A(0, 1 . B(0) da) K(0,,0)@'(0,) do, + cost Essendo identicamente K(0,,2x—0c)= — K(0,,0) t la proprietà emisimmetrica di 8 [B(2x—0)= — B(0)] esige che la costante 9 — additiva sia nulla. Era’ ben prevedibile che la indeterminazione dovesse scomparire [a differenza di quel che accade nella (8)], considerando che l'assunta ipotesi (y reale, e quindi #=0 sull’asse reale) può lasciar sussi- stere la indeterminazione di una costante additiva in @, ma non in fì. Risulta pertanto 1 TT (10) B(0) = — ig, K(0,,0)@(0,) do. 8. — PASSAGGIO ALLA STRISCIA. Ove si ponga (11) f=9+ iw= È log ti (p e vw reali), e si fissi quella determinazione del logaritmo che si annulla con è, rimane definita una funzione /(6) della variabile complessa © uniforme e regolare entro il cerchio |[Î|<1, e reale sul diametro reale. Per riconoscere comodamente la regione del piano complesso 7, che viene a corrispondere, per la (11), al campo circolare |Î| = 1, introduciamo per un momento anche i due raggi vettori, che congiungono un punto ge- nerico $ (del cerchio o della circonferenza) colle estremità £î = —1,Îî=1 del diametro reale. Diciamo ordinatamente o_,,0 le lunghezze di questi raggi vettori e v_,, d, gli angoli acuti che essi formano coll’asse reale, contati positivamente pel semicerchio di ordinate positive, negativamente per l’altro. 0-1, 9_, possono evidentemente interpretarsi quali coordinate polari (del punto è) rispetto al polo &= —1 e alla direzione positiva (quella delle ascisse crescenti) del diametro reale come asse polare. Del pari 01,9, rispetto al polo é=1 e alla direzione negativa del diametro suddetto: vo- lendo cambiare direzione all'asse, in modo che l’anomalia riesca contata sempre nello stesso verso, le coordinate polari saranno 0, , x —d,. Ora, é4-1eé—1 essendo le affisse di un punto generico È relative alle origini —1,1 (e ad assi paralleli ai primitivi é, n), sussistono le identità SI CP1=o_10 i(T-I1) Cd—-1= Q1é ’ la seconda delle quali può essere scritta ni, 1—-é=o0;e Prendendo i logaritmi dei due membri colla determinazione che si annulla — 290 — nell'origine (e che rimane univocamente fissata per continuità entro o anche sopra la circonferenza |î]= 1, fatta solo eccezione per i punti + 1), si ha log(14+)=logo_1 +4 #9_,, log(1—€)=loge, — 29,, dove a log o_,, logo, vanno naturalmente attribuiti i loro valori reali. Ne consegue (12) f=gtiv= log 412044). Atteso il significato geometrico di 4_,,4,, questa formula mostra netta- mente che, al variare di © nel semicerchio di ordinate positive, w rimane compreso fra 0 e 1, assumendo il valore zero sul diametro e il valore 1 sulla semicirconferenza 1,z,—1. Variando invece é nel sottostante semi- cerchio, w varia fra 0 e —1, assumendo (come poteva asserirsi a priori, data la realità di / sull'asse reale) valori opposti in punti simmetrici. Le varie circonferenze passanti per i punti —1,1, o meglio gli archi di tali circonferenze interni a c (inclusovi il segmento rettilineo —1,1, che ne è caso limite) sono luoghi di punti, per cui y= (9.491) conserva valore costante. Mentre È percorre uno di questi archi, passando da —1 a 1, g_; cresce costantemente, a partire dal valore zero, e 0, de- cresce costantemente, convergendo verso zero. Il rapporto 21 varia dunque, sempre crescendo, da 0 a 2%, sicchè Qi 9 dl 0-3 = — log — p IT 5 01 varia, crescendo sempre anch'esso, da —c0 a + co. Ciò val quanto dire che l'affissa / descrive (nel suo piano rappresentativo) una parallela all’asse delle ascisse, percorrendola tutta, in senso positivo. Se ne conclude che la (11) fa corrispondere al campo circolare |{| = 1 del piano È la striscia S del piano f compresa fra le due rette W= = 1, la corrispondenza risultando biunivoca anche fra i contorni. Val la pena di rilevare che a valori puramente immaginari di & cor- rispondono analoghi valori di f. Ciò risulta per es. dall’osservare che, per È puramente immaginario, 1 + é e 1—£ riescono coniugati, sicchè il modulo del rapporto è 1, e la (11) dà @==0. Si può egualmente desumerlo dalla (12), notando che, sul diametro immaginario —?,é, si ha e_1=01- — 291 — Consideriamo in particolare i punti della semicirconferenza — Mono e riprendiamo la coordinata polare o relativa al centro, facendola variare (in senso sempre decrescente) da 77 a 0. Il punto & = e'° descrive così la detta semicirconferenza da —1 a 1, e il corrispondente punto / la retta y=1 da — oa +0. Essendo poi Diani. IE 4 el o IG 1—- e9 s Ad Se DO e 2 _e? la (11) ci dà 18 e ( ) Lire SECO (si intende colla determinazione reale del logaritmo), e di conseguenza TI 3Y (13) 300 = COM le quali esplicitano la relazione biunivoca fra 0 e 9, cioè fra i parametri definienti la posizione sul semicerchio —1,,1 e sulla retta w= 1 rispet- tivamente. 4. — TRASFORMAZIONE SUBORDINATA NELLE PRECEDENTI EQUAZIONI FUNZIONALI. Mercè la (11), ogni funzione y(/) della variabile complessa /, uniforme e regolare entro S, si può pure considerare come funzione uniforme e rego- lare di £ per i valori corrispondenti, cioè entro il cerchio GIL Se y(7) è reale sull'asse reale w= 0 (bisettrice della striscia), lo sarà di conseguenza y() sul diametro reale —1,1 del cerchio. Un po' di discussione esige però il comportamento al contorno. Se (come è tassativo fare per certe applicazioni), circa il comportamento dy df finite sulle rette limiti w= 1 di S. non ne segue che y(î) rimanga con- all'infinito di y(/) e di si ammette soltanto che si conservino entrambe tinua, e sopra tutto che ca rimanga finita per i punti = 1 della circonfe- dé renza c. Infatti, per quanto abbiamo visto nel n.° precedente, ove si fissi per esempio la retta w= 1 e la corrispondente semicirconferenza —1,%,1, riportandovi i valori di y(g + è), bisogna badare alla circostanza che gli estremi = 1 della semicirconferenza corrispondono a p= = co. — 292 — Se la y(p + ?), pur restando finita, non converge verso limiti determi- nati al crescere indefinito di @, lo stesso avviene per y(é) al tendere di % (sopra la semicirconferenza) verso uno dei due estremi: sì ha dunque in generale una discontinuità di seconda specie. E le cose vanno ancora peggio per A Essendo, in virtù della (L1), CO CO! div gd dfn VEE (14) dy ARAN Racine 1 la de’ e con essa @', 8", diverranno in generale infinite nei punti f{== 1. Perciò una y(î), proveniente nel modo testè indicato, da una y(/) re- Ab È 3 È d golare nella striscia, reale sull'asse reale, continua, assieme a i anche f sulle rette limiti, ma semplicemente finita all’ infinito, non ottempera sen- z’altro alle condizioni qualitative (del Dini), sotto cui furono dedotte le re- lazioni funzionali del n.° 2. Introduciamo, in via provvisoria, le ipotesi eomplementari seguenti: 1° la funzione y(g + %) converge verso valori limiti reali ben deter- minati per p= ©=co (con che limf=0); 2° ne’ ) converge verso zero in tal guisa che d resti finita e continua anche per é = = 1, 0, ciò che è lo stesso, resti finita e continua n pero =0 e o=7r. Essendo, per la (13), ui TI CA N° _LR (594, 3") 7 seno TT quest’ultima condizione esige che w si annulli esponenzialmente all’ infi- TT TT 9 P moi ; nito, per modo che il prodotto (& +e 2 ) cre converga Verso limiti determinati e finiti per p= = 00. Con ciò i valori di @, f verificano, sulla circonferenza c, le condizioni di Dini, e sono di conseguenza legati dalle (8) e (10). Trasformiamole, so- stituendovi alle anomalie o e 0, dei punti del semicerchio —1,%,1 le corrispondenti ascisse g e g, dei punti della retta w= 1. Le formule di passaggio, cioè la (13) ì | | e l’analoga conferiscono ai nuclei H(0,,0). K(0,,0), definiti da (7) e (9), le espres- sioni seguenti Topi 1P\ )2 0 REA sa (e Pi (9) K(p.,g=log{l 77 ul n \2 : oY 79% In H(,,g) conviene staccare l’addendo rg (# Le 2 ) , che non dipende da g;,, e scrivere in conformità Il nl 2 i oe (7) dn e I 29) Con (dei | gf oo (15) pene de ae? an) Se si nota che 2'(0,) do, —_ da = 2 (1) dpi , e che, come abbiamo rilevato alla fine del n.° 3, al verso —1,2,1 del semicerchio, cioè al verso decrescente di o da 7 a zero, fa riscontro il verso crescente — 00, +0 di 4, la (10) assume l'aspetto 1 n , 1 = f Ko). In modo analogo la (8) diviene , Legge i ®) «= | Hg: 9E+ cost. RenpiIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 39 — 294 — Per la prima delle ipotesi complementari, poc'anzi enunciate, la fun- zione #(g) deve tendere verso zero per g = = 00; ciò implica, esistendo ed essendo anzi continua la derivata, JE@in=o. Ne segue, avuto riguardo alla espressione (7) di H, che si può, nella (8'), ridurre H al primo addendo 4, e ritenere accanto alla (I), l’equazione €) (9) = f 491,9) #(91) dg: +oost. La (I), immaginandovi per un momento sostituita ad @' la derivata normale di 8, concerne, sì può dire, le funzioni armoniche f dispari rispetto all'asse reale (tali cioè che assumono valori opposti in punti simmetrici rispetto a tale asse); la (II) (immaginandovi introdotta per #' la derivata normale di @) concerne invece le funzioni pari (simmetriche rispetto allo stesso asse). Appare così giustificato, e potrà talora essere comodo, di desi- gnare la (I) e la (II) colle qualifiche rispettive di relazione dispari e re- lazione pari. 5. — CoMPORTAMENTO DEI NUCLEI K(g;,4), 4($1 ; 9). Occupiamoci dapprima di K. Designando per brevità con s la differenza (91 — g), la (9°) ci dà 1 —S\ 2 1 Ss \2 (16) K(g, , ) = log Le =log(4 i ì donde apparisce che K dipende soltanto dall'argomento s e ne è funzione pari. Esso ha manifestamente un infinito logaritmico per s= 0 (9@,= 9), mentre si mantiene regolare per ogni altro valore reale di s; è ovunque positivo, e decresce al decrescere di s in valore assoluto, annullandosi espo- nenzialmente per s= = co. Ciò risulta dall’osservare che, per |s|>Q0, si ha dalla nota serie logaritmica —ISI\2 (17) ia = 2 }log(1+- e!) — log(1-— e!51){ = —3]s —5]8 SIE +4 + Come si vede, i singoli termini sono positivi e sempre decrescenti al cre- scere di |s|; la funzione tende poi asintoticamente ad annullarsi come e. — Ve Essa rimane quindi integrabile fra — co 6 + co, anche moltiplicata per una potenza qualunque di s. Lo stesso può dirsi, riponendo per s il suo valore 3 (9i—-9); nei ri- guardi della variabile 1. Ne consegue in particolare che, se 4(g,) designa una qualsiasi funzione di g;, finita e continua al finito, e finita (o anche dotata di singolarità polare comunque elevata) per gp, = = co, l'integrale 1 00 sf _E(61:9) 49) dg rappresenta una funzione di g, finita e continua anche all’ co. Prendiamo in particolare 4(g,) =1. Avremo anzi tutto, adottando s=t (gi — g) come variabile di integrazione al posto di g,, e tenendo presente la parità della K, considerata come funzione di s, deri ca (US) 2 fr ’ P) dpi gi tti. A log (; > Gi ds. =S\ 2 AI log(; La; si può applicare lo sviluppo (17) e integrare termine a termine da un # positivo, comunque piccolo, a 0; dopo di che, attesa l'in- tegrabilità della funzione e l'uniforme convergenza della serie degli inte- grali anche per “= 0, si ha al limite ol, basi < Dm 3 SE natgtgt (n° designando s; la somma delle inverse dei quadrati dei numeri dispari. Ora la somma ss delle inverse dei quadrati di tutti i numeri naturali vale E (5) D'altra parte ss consta di sj e dell'analoga somma relativa ai numeri pari, che vale rs Se ne ricava 2 s=°/45,= $ , e di conseguenza (18) Lili 2) K(gi ’ g) dpi FS 1, per qualsiasi valore (reale) di . (*) Cfr. per es. Cesàro, Corso di analisi algebrica. Torino, Bocca, 1894, pag. 481. — 296 — Val la pena di rilevare che quest'ultima formula può essere conside- rata come quel caso particolare della relazione dispari (I), che si riferisce alla funzione y(/)=/=@+éw: si ha infatti, per tale funzione, a'=$#=1 sulla retta w = 1. Si noti tuttavia che y(7)=="/ non è una di quelle fun- zioni, per cui la formula (I) può ritenersi senz'altro trasportabile dal cer- chio, in base a quanto precede. In realtà lo è, come vedremo più innanzi. Intanto ho voluto, a titolo d'esempio, fare il calcolo diretto dell’ integrale. Passiamo alla funzione 4(g,,%), e consideriamone il modo di variare con , in corrispondenza ad un valore (finito) generico di g. Dalla (15) apparisce che 4 ha una singolarità logaritmica per g,= , si mantiene regolare per ogni altro valore reale di ,, convergendo, per g, = = co, verso ì limiti = 7rg rispettivamente. Questo infirma la integrabilità della 4 (rispetto a @,) da — 0 a + oo. Mostrerò in una prossima Nota come si possa allargare il campo di validità delle equazioni integrali (I), (II). Matematica. — Contributo allo studio delle funzioni permu- tabili. Nota del Socio Viro VOLTERRA. S 1. — OSSERVAZIONI SULLA COMPOSIZIONE. 1. La operazione di composizione (composizione di prima specie) delle due funzioni finite e continue f e g, Si 9) si può evidentemente considerare indipendentemente dalla permutabilità delle due funzioni ('). Rappresentandone il resultato col simbolo f @ (2,7) o più semplicemente col simbolo fg, avremo che se 7 e g non saranno permutabili fg sarà diverso da g f. La operazione stessa gode in generale della proprietà associativa. Infatti Fre afseninga luana fesa. Potremo dunque enunciare il teorema: Siano 0 no permutabili le fun- sioni f,p,wW, avremo sempre (fov=f(PY). 2. Da questa proposizione discende immediatamente l’altra che enun- ciammo in una precedente Nota (*). cioè che iuzte le funzioni ottenute per (*) Cfr. Questioni generali sulle equazioni integrali ed integro-differenziali. Rend. Ace. dei Lincei, Seduta del 20 febbraio 1910, $ 1. (*) Ibid. II — 297 — composizione da più funzioni permutabili sono permutabili fra loro e colle funzioni date. Infatti, se f,g,y sono permutabili, avremo Ffwv=f(4gv)=f(9= (VM p=(V/7)p=Y/9). $ 2. — RISOLUZIONE DI EQUAZIONI INTEGRALI. 1. Se f e sono funzioni derivabili, ed inoltre sono rispettivamente fun- zioni di ordini m ed # (‘) con m>%, l'equazione integrale di prima specie @ ros) = fa. 8) gd ammette un'unica soluzione che è la soluzione dell'equazione integrale di seconda specie Vai O (= PE] 47, ove si è scritto in generale __3Pf(e,9) i I g(x , 4) EDS AD i Ciò si riconosce immediatamente derivando n volte l'equazione (1) e tenendo conto che 9p(4,4)=0 ’ © PZ ’ Pn (Y,9) = 0 fp@,0)=0% gi NEAR ed osservando inoltre che, ogni funzione che soddisfa la (1) deve verificare la (2) e reciprocamente. 2. Dimostriamo ora che se / e 4 sono permutabili, w è permutabile con ambedue queste funzioni. Infatti la (1) si potrà scrivere ri f= Wy quindi (3) pf=9 (Wg)=(9Y)p (4) fg = (49) 9 Ma per ipotesi g/= /, onde, se risolviamo la equazione (3) considerando gw come incognita, troveremo, in virtù di quanto è detto precedentemente, la stessa soluzione che risolvendo la (4) in cui si consideri wy come inco- (1) Nella presente Nota supporremo sempre, senza ripeterlo esplicitamente ogni volta, che le funzioni che si considerano siano finite e continue e così le derivate loro di cui si deve tener conto. Per la definizione di ordine di una funzione, vedi: Sulle funzioni permutabili. Rend. Acc. dei Lincei, Seduta del 17 aprile 1910, $ 3. — 298 — gnita. Ne segue che DIITUZA onde % e w sono permutabili ed in conseguenza sono pure permutabili f e w. 8. È facile riconoscere che, risolvendo la (1), la soluzione W sarà di ordine m—n. Quindi, se i numeri m ed » saranno primi fra loro, colla risoluzione di successive equazioni integrali potremo sempre trovare funzioni di primo ordine permutabili con f e con g. 4. In modo perfettamente analogo a quanto si è fatto precedentemente si dimostra che, sc f e 4 sono funzioni permutabili di ordini respettiva- mente m ed n con m> np, e se f=%Wp?, w è permutabile con f e gp. $ 3. — RICERCA DI TUTTE LE FUNZIONI PERMUTABILI CON UNA FUNZIONE DI 2° ORDINE. 1. Supponendo /(x,y) di 2° ordine e nota per tutti i valori di x,y, tali che proponiamoci di trovare tutte le funzioni g(x,y) con essa permutabili. Con un procedimento analogo a quello che abbiamo tenuto in una Nota precedente (*) potremo ricondurre il problema al caso in cui si abbia f(@io) 0a e fu(@,2)=0, fis@,2)=0 , fa(@,0)=0, avendo posto pop LEL, re, = Td da WY fue, = LED ) fa = LEI . TI 2. Scriviamo O) eep=fredrene= fed ene Avremo 25 = g(2, y) + fe 55) (E i Y) dé -F = g(2 7) +f eee ,E) foo(£,7) dé (') Sopra le funzioni permutabili. Rend. Acc. dei Lincei, Seduta 17 aprile 1910, $ 1. TEND9G e ponendo TBCA CAIO) n(e,gt+fàle,gy— = Fu(2,9), fa(e 9) — file, y)+ fa(e,y) — <= Fas(0,9). ove le potenze denotano operazioni di composizione, sarà \ g(£, nati - fm, i IRE 9) ji (6) < | gle.) = Pf Pale, pei de Ora F(X, x)=0 ’ Es:(x 0) =08 quindi, posto io.) i di (2,2) = (2) dY INTO, ini III) une, 2)= (2) Fool: ’ e = dy:(0,9) dzn (0,0) = 4:(0) 2 Trorei = U29(2,y) mos(®, &)= pe(2) e, osservando che D(x ,y) è di ordine superiore al secondo e perciò i -_.(na Te 9 dY Va=1Y; le (6) si trasformeranno facilmente, mediante integrazioni per parti, nelle equazioni seguenti g(x,y) = Po L)%, y) Sf tni(2,$) DE, y) dé DIE ge, y) = ” Du A;(4) D(4 , 9) -S Pa2(8,9) Da, 3) di. Sottraendo si avrà ) TETTE LUM+A))A7,M)+ dyY +fl 19) 0€,)- ant Mo 9e=o. Dunque (x,y) deve soddisfare l'equazione integro-differenziale (A). 3. Poniamo Uz,)=— (9) + 40) 7,9) — — (Tm, OE.) — pat 19) 02, — 300 — la (A) si scriverà LO Dont, ve SR d'onde O(,9) = yy — 2) ++) +1f, dd di ove w e 0 denotano due funzioni arbitrarie, e con Jl si intende l’ inte- xy 1 grale esteso allo spazio 4x,, compreso fra la bisettrice degli assi 2,7, le due rette inclinate di 45° sugli assi coordinati condotte per il punto x,y e la retta parallela all'asse y che ne dista di a. Lo spazio 4,,y è lo spazio tratteggiato indicato nella figura. Ma, se facciamo x = y, abbiamo Que, =0 e f_o6.Mdd=o, quindi O) +6822)=0, ossia 6 deve essere una costante eguale a — w(0). Se dunque prendiamo w in modo che si annulli per «=y, avremo (A') Dr.) = -)+1f, 06, dd, e per conseguenza si potrà sostituire all'equazione integro-differenziale (A) l'equazione integrale (A'). 4. Si riconosce facilmente che, nota w(y — x), la funzione ® è deter- minata dalla (A'), ossia se w(y — #) è nulla, anche ® è nulla. Ciò si ot- — 301 — tiene impiegando metodi analoghi a quelli che abbiamo adoperato in circo- stanze simili in precedenti Memorie ('). La risoluzione della equazione integrale (A') non presenta difficoltà. La funzione ®(x, y) è di terzo ordine o di ordine superiore al terzo, quindi do- vremo prendere anche w(y — x) di terzo ordine o di ordine superiore al terzo. Si dimostra che, assumendo in tal maniera w(y — x), la funzione ®, ottenuta risolvendo l’equazione integrale (A'), soddisfa le (5) ed è dello stesso ordine di W(y — x). Risolvendo una delle (5) si otterranno tutte le funzioni permutabili con /(x,y). In particolare prendendo w(y — ) del terzo ordine, f(x, g) ri- sulterà del primo ordine. i Il problema di ottenere tutte le funzioni permutabili con una funzione del secondo ordine è quindi risoluto. 5. Se f(x ,y) è della forma f(y — x), allora dui(£ ;,y)=—- Aoo(€ ’ y) Fa A(y 5, 2) 9 per conseguenza A.(e) = — 4s(4) = 40). Inoltre Hu(2,9) = to(0,y)=uly— 2). Ne segue che sC,)= | uy-90,9- uE—2 06 e, onde l'equazione integrale (A') è soddisfatta prendendo Da, y)=YYy— 2). Se ne deduce che tutte le funzioni permutabili con /(y — x), appartengono al gruppo delle funzioni permutabili coll'unità. $ 4. — RISOLUZIONE DELL'EQUAZIONE INTEGRALE y MD fo9 gene OVE W È UNA FUNZIONE DATA DEL 2° ORDINE E 4 È INCOGNITA. 1. Poniamo s=f(0) . y=f(v) , E=f(8) con /'(51) sempre positivo, in modo che le precedenti equazioni possano in- vertirsi univocamente ed avere ci=f() , y=fi(4) . f&a=f(8)- (1) Sulle funzioni permutabili. Rend. Acc. dei Lincei, Seduta 17 aprile 1910, $ 2. RenpIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. . 40 = SU a Colla precedente sostituzione si otterrà DN (7) (gta bi 81) g(È, 3%) f'(£1) dé, = UICA ; Ya) S Sia i Vf (ci) f(%1) (21, Vf (IU YAN). La equazione (7) si scriverà fia Pi 13) pi(E1 4) di = Yi(£1 3%) Supponiamo ora che lime e y=x YTX Potremo assumere 4(x) diverso da zero e positivo. Ma ve Il 1 a == , 6) pae) quindi lim wi(c, 00 (22) È wir IT fi(2) i onde, preso fi(x) = 4(x), avremo lim Wien) _ ya Y\T7X Potremo dunque, con una conveniente trasformazione di variabili e di funzioni, ricondurre la equazione (I) al caso in cui sia lim Ye ,4) — 1. y=a YTZX Noi ammetteremo quindi soddisfatta senz'altro questa condizione. 2. Ciò premesso calcoliamo, col procedimento indicato nel paragrafo pre- cedente, una funzione 0(x , y) di primo ordine permutabile con w(@ , y). È facile riconoscere, da quanto si è trovato nel detto paragrafo, che 6(2,) dovrà essere una costante diversa da zero. Moltiplicando quindi @(x ,y) per un fattore costante, potremo ricondurci al caso in cui 0(2,z)= 1. Supponiamo che w(x,y) e 0(7,7) ammettano le derivate seconde e poniamo 30€ , 4) 7) d'0(2 9) dy(, 9) Faro ara Magra 2(2 9) ’ —--7 = 032(2,9) Ù 2 = Wso(0,9) dY dY dY d°6* ,% È (PESI _ orto.) + 00,9) 00,9) + [067,9 00,0) de = 40,9) | Se tes) = Wos(e,49) — Me ,4y) = 2,9) - — 303 — Risolviamo ora l'equazione integrale y ® uo) =20)+f 1791) e, considerando x(x ,y) come funzione incognita, e formiamo la serie (la quale per principii noti (') sappiamo esser convergente) (11) g(e,9)=0,9) +30) + id 0] Il ME-1 RE nL1 un a) CA?) PESA Cn y, partendo dalla direzione positiva dell'asse x, negativamente nel verso opposto. Dopo ciò, per le precedenti tenuto conto della (2), si ha senz'altro a=0, soprat, 4", A, a; (11) è lim9=d+ a, avvicinandosi a O sopra ©), | lim 9 =d — a, avvicinandosi a O sopra w., la 9 dovendo naturalmente seguire anche negli altri punti di w, e @, l'an- damento del profilo rigido. Lasciando per ora indeterminata la forma del profilo ci basterà ritenere che la funzione @(2)=9(x,y) + ée(e,y) dev'essere regolare entro A; sul contorno la sua parte reale ed il coefficiente dell'immaginario devono soddisfare alle (11); di più che sta w=0 per 8=. 4. — CAMBIAMENTI DI VARIABILE. È opportuno eseguire dei cambiamenti di variabile che permettano di sostituire al campo A un semicerchio. Considerando il piano complesso rap- presentativo della variabile f= + w, si constata, in modo analogo a quello che ho esposto in una recente Nota (*), che la /= /(<) permette di rappresentare in modo conforme il campo A del piano < sopra una striscia (1) Cfr. Cisotti, Sopra la derivazione dei canali. Zeitschr. fiir Math. und Physik, 1911, B. 59, Hett 2, pp. 187-151. — 319 — tagliata S del piano / (fig. 2), in modo che alle linee 4' e 4” corrispondono rispettivamente le rette limiti w= 71 e Ww= — %» della striscia; al ramo di contorno 4, + ww, + wx + 4: fa riscontro il semiasse reale positivo, e pre- cisamente, immaginando di praticare nel piano / un taglio lungo il detto semiasse reale, il bordo superiore (quello cioè rivolto verso la retta w=%) corrisponde al tratto w, +4,, e il bordo inferiore al tratto rimanente w +-d:. Ai punti P, e P; del piano #, in cui w, e w3 si raccordano con À, @ 4z, Piano f=@+iy =D W=0 hdi; lt, do Lo lineatb. di Lirica Albera DI Fre. 2. fanno riscontro due punti /, e /» dell'asse reale; il primo appartiene al bordo superiore, l'altro al bordo inferiore. Pongo = ha — hi, i h (12) et° = (1 => p)F(1 + F,)®, hi hs go (1_E)7(1+B)F, dove F designa una nuova variabile. L'ultima di queste relazioni riferisce biunivocamente la striscia tagliata S al semipiano F di ordinate positive: al contorno di S corrisponde l’asse reale del piano F, in modo che alla retta w = — > fa riscontro il tratto (— 0, — 1), mentre alla retta w = hi corrisponde il tratto (1,-+ 00); ai bordi del taglio fa riscontro il tratto (—1,--1) e, in modo preciso, al bordo superiore il tratto (F,, 1), all'in- feriore il tratto (—1,Fo) (*). (1) Cfr. Cisotti, loc. cit., pp. 144-147. Le nostre (12) si deducono dalle (12), (13), (14) della Nota citata, mediante il cambiamento di },31,91,9», ed f rispettivamente in o RopWaplon ed f+ tha. — 320 — Ai punti /, ed /» (rappresentativi dei punti P, e Ps del piano 2) cor- rispondono, a norma dell'ultima delle (12), due punti F, ed F, definiti dalle relazioni hi Ca ha (13) pato (1 — F.) (1 + F,)T (= 1 2) Posto i 1 1 i (14) a=5 (E 5 b=3(F+F%), i successivi cambiamenti di variabili definiti dalle relazioni (') (15) E aZt+ò, (6) 2=-3(5+%). consentono di rappresentare in definitiva il campo A sopra il semicerchio \t| = 1, di ordinate positive, nel piano della variabile complessa = Piano &T=&+ Gi 3° (fig. 3), in modo che, le linee libere del piano del moto vengano rappresen- tate sul diametro (1, — 1), mentre le pareti rigide w, e w» Sopra la semi- circonferenza (1,î, — 1). (®) Cfr. Levi-Civita, loc. cit., pp. 12-13; od anche Cisotti, Vene fluenti. Rend. Circ. Mat. di Palermo (1908), tomo XXV, pp. 154-156. — 321 — » È ; b—- Fi E precisamente, posto {si noti che 7 ZA sa — ] coso = © di ’ j= e ’ Le i+). (17) S 2 6 i O I a soi 9 (£ 5 al 9 i due tratti (—1,/) e (1,7) della semicirconferenza corrispondono ai due pezzi di parete rigida w, e vw»; mentre che i tratti (—1,0) e (1:05) dell'asse reale rappresentano rispettivamente le linee libere 4, e 4»; infine i tratti (0,2) e (0,27) fanno riscontro alle linee libere 4° e 4”. In tal modo j rappresenta il punto O, e i punti 0, {", è" corrispondono ai punti all'infinito delle vene, rispettivamente a monte e a valle. Considerando pertanto la w = 9 + ir del n. precedente come funzione dell'argomento & nel semicerchio, essa deve essere regolare nei punti interni, e per le (11) reale sull'asse reale, mentre sulla semicirconferenza d+ a, quando È si avvicina a j lungo l’arco (—1,)), lim 3= ì sn È ; d—a, quando & si avvicina a j lungo l'arco (1,7); di più dev'essere m=0 per C=0. Poichè la w assume valori reali sull'asse reale, pel principio di Schwarz essa è continuabile per riflessione analitica nel sottostante semicerchio; essa è quindi regolare in tutto il cerchio |{|<1 e sulla semicirconferenza (1,—i,—1) ha il comportamento che risulta per riflessione. 5. — INTEGRALE GENERALE. Pongo (') Qai .—J+% 18 SE SR atm ©) (18) (0) =9+ — logi e 196 La funzione wy(é) è reale sul diametro (1, —1), regolare per |Î|<1 e sulla circonferenza |î|=1 si comporta nel modo voluto. Ciò posto, designi (t) una funzione di &, reale sull'asse reale, regolare per |î| < 1, e tale che (19) a)=2(=)-0, e inoltre (20) 2(0)= (0) = d — =: (ci = 2 (') Cfr. Levi-Civita, loc. cit.. pp. 23-24. Si può concludere che la funzione (21) = — L soddisfa nel modo più generale alle condizioni specificate alla fine del nu- mero precedente; essa costituisce pertanto l'integrale generale dei moti in questione. In una prossima Nota mi occuperò dell’azione meccanica esercitata dalla vena sul profilo y, illustrando queste generalità con un esempio concreto. Meccanica. — Sopra un caso di emisimmetria che si pre- senta în certe questioni di Idrodinamica. Nota di G. COLONNETTI, presentata dal Socio Levi-CIvITA. Nello studio del moto dei fluidi guidati in tutto od in parte da pareti rigide simmetriche rispetto ad un dato piano 77, accade non di rado di im- battersi in casi nei quali gli elementi determinanti il fenomeno soddisfano ad una specie di emisimmetria, cioè sono tali che in punti simmetrici ri- spetto a ZZ i parametri scalari sono gli stessi, ed î vettori hanno determi- nazioni simmetriche, eccezion fatta per le velocità per le quali la simmetria risulta accompagnata da una inversione nel senso. Ora in consimili casi si ammette da molti idraulici che il sistema delle linee di flusso dipenda, oltrechè da tutti gli altri elementi determinanti, anche dal senso delle velocità, epperò non debba necessariamente presentarsi simmetrico rispetto al piano ZZ; si ammette cioè che quell'emisimmetria degli elementi determinanti il fenomeno non sia causa sufficiente a determi- nare un’analoga emisimmetria di tutto il fenomeno ('). Le brevi ed elementarissime osservazioni che seguono ci permetteranno di asserire il contrario. A Un fluido perfetto a temperatura costante, si muova con moto continuo e permanente in una certa regione dello spazio che supporremo, per fissar le idee, semplicemente connessa ed estendentesi fino all'infinito sia 2 monte che a valle del moto. Detta regione sarà, nel caso più generale, limitata in parte da pareti rigide fisse, ed in parte da superficie di discontinuità 0 superficie libere, separanti il fluido in moto da un fluido che noi riterremo occupante tutto il resto dello spazio, in quiete, a pressione costante po - (1) È in sostanza a questo concetto fondamentale che fanno capo le note teorie di Herrmann e di Bach sugli effetti dei cambiamenti di direzione delle vene liquide. La Me- moria originale di Herrmann: Die graphische Theorie der Turbinen und Kreiselpumpen (Verhandlungen des Vereines zur Befòrderung des Gewerbfleisses in Preussen, 1884) venne pubblicata in volume separato nel 1887 e ripubblicata invariata nel 1904 (cfr. pag. 7 — 323 — Indicato con F il vettore che rappresenta la forza agente in un punto generico P del campo del moto (riferita all’ unità di massa) e con v il vet- tore velocità nel punto generico stesso, l'equazione di continuità del moto (permanente) può scriversi (!): (1) div (ov) =0 o essendo la densità del fiuido nel punto generico P legata alla corrispon- dente pressiore p dell'equazione caratteristica (2) e=f(p). Le equazioni generali del moto, scritte sotto la forma di Eulero, si compendiano per altra parte nell'unica relazione (?) (3) ve grado da integrarsi tenendo presenti le condizioni ai limiti. Ora, detta W(P)=0 l'equazione di una qualsiasi superficie limitante il campo del moto, dovrà aversi identicamente (4) vX grad P—=0) per tutti gli elementi fluidi pei quali & si annulla. Se la superficie in que- stione è una parete rigida, la 4 è data: se è una superficie libera, la sua equazione altro non è che p—p,=0: per essa la (4) diviene adunque (5) vXgradp=0. dell’ultima edizione) Le più note conseguenze di quelle teorie vennero recentemente ri- conosciute in opposizione coll’esperienza da Banki: Ueder unrichtige Anwendung hydrau- lischer Sttze (Zeitschrift des Vereines deutscher Ingenieure, Band 583, 1909, pp. 1490-1496). Dei risultati delle esperienze di Banki non mi occuperò qui, avendo già avuto occasione di dimostrare che essi sono suscettibili di una completa ed esauriente conferma teorica nelle mie recenti ricerche: Sul moto di un liquido in un canale (in corso di stampa nei Rendiconti del Circolo. Matematico di Palermo). Mi basta qui far notare che le princi- pali conclusioni a cui il Banki è stato, in via sperimentale, condotto, concordano perfet- tamente colle considerazioni esposte in questa Nota: considerazioni le quali peraltro sem- brano suscettibili di una assai maggiore generalità. Così, per esempio, esse potrebbero con vantaggio esser tenute presenti nello studio della distribuzione dei vortici che carat- terizzano il moto dei fluidi nei tubi in vicinanza di ogni gomito come di ogni variazione brusca di sezione: vortici a cui, nei trattati di idraulica, vengono attribuite, in base a pochi ed incompleti dati sperimentali, forme e posizioni le più svariate e, non di rado, le più irrazionali. (*) Uso qui le notazioni proposte dai professori C. Burali-Forti e R. Marcolongo nei loro Elementi di Calcolo Vettoriale (Bologna 1909 e Parigi 1910). (*) Cfr. T. Boggio, Dimostrazione assoluta delle equazioni classiche dell'idrodina- mica. Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, 80 gennaio 1910. — 324 — Con ciò il moto resta completamente determinato quando siano date (in modo opportuno € compatibile) le condizioni all’ infinito, cioè le velocità assintotiche v, e vs rispettivamente a monte ed a valle del movimento. In particolare risulta determinato l’intiero sistema delle linee di corrente carat- terizzate, come si sa, dall'equazione generale (6) Wi\dP=0. Ciò premesso si osservi che il vettore — V, definito come il vettore V in tutto il campo del moto, e come esso soddisfacente alle (1), (4) e (5), può assumersi come velocità di un nuovo moto dello stesso fluido, svolgentesi in quel medesimo campo, fra le stesse pareti rigide, colle identiche super- ficie libere. Se F si mantiene in ogni punto invariato, se cioè il fluido è soggetto ancora all’azione delle medesime forze (*), restano invariate, in virtù delle (2) e (3), così la pressione come la densità in ciascun punto. Le linee di corrente del nuovo moto sono, come appare dalia (6), quelle stesse del moto dato, ma percorse in senso contrario; in particolare le velocità assintotiche V) e Vy si sono cambiate rispettivamente in — Vi € — Va. Dimostrata così, in generale, l’ invertibilità del moto, introduciamo la ipotesi che le condizioni determinanti il fenomeno primitivo soddisfino alla supposta emisimmetria rispetto al piano Z7. Debbono allora in particolare risultare simmetrici rispetto a JZ i vettori Vi 6 — Va 0, ciò che fa lo stesso, — Vi e Va. Ora in questa condizione di cose tutte le grandezze (scalari, geometriche e vettoriali) le quali caratterizzano, determinandolo, l’ipotetico moto inverso, si possono ottenere dalle condizioni determinanti il fenomeno diretto dato, per riflessione rispetto a /7. Lo stesso perciò deve potersi dire dell’ intiero sistema delle linee di corrente le quali dovranno, per simmetria rispetto a 7, trasformarsi in se stesse; dovranno per conseguenza ammettere tutte quel piano per piano di simmetria. Ciò che si è detto delle linee di corrente vale in particolare natural- mente anche così per le superficie vorticose come per le superficie libere che limitano, insieme alle pareti rigide date, il campo del moto. (1) Restano così escluse dalle nostre considerazioni le sole forze che dipendono dal senso della velocità: in particolare le resistenze d'attrito, come del resto avevamo pre- supposto fin dal principio. Matematica. — Sul criterio di Stephanos. Nota di A. Srono- RINI, presentata dal Socio L. BIANCHI. Come è noto, Stéphanos (*) ha dato come condizione necessaria e suffi- ciente affinchè una funzione di due variabili K(xy) sia rappresentabile nella forma m (1) K(xy)= DI a;(2) Bi(4) — ove le a;(x) ((=1,2,,...m) @ le 8;(y) (i=1,2,..m) sono rispetti- vamente m funzioni linearmente indipendenti della sola x ed m funzioni linearmente indipendenti della sola y — la seguente: che il determinante K Mm ee dI ma dK d°K Qua vi Rn > 93" K 37+1K de" K dgr ay day sia identicamente nullo. Questo risultato è una semplice conseguenza del ben noto teorema re- lativo al Wronskiano di m funzioni di una sola variabile, e come tale è suscettibile di critiche dello stesso genere di quelle che possono muoversi contro tal teorema (°). Noi mostreremo in questa Nota come, procedendo per altra via, sì possa con tutta sicurezza stabilire una proprietà caratteristica delle funzioni della forma (I). Potremo limitarei al caso che la funzione K(xy) sia simmetrica in x ed in y, perchè è ben noto (*) che, data una funzione di due variabili K(xy) qualunque, purchè finita e continua per azar =b azy=bò, (1) Ved. Stéphanos, Rend. del Circolo Mat. di Palermo, tom. XVIII, 1904. (®) Ved. ad es. Peano, Rend, Acc. Lincei (5), tom. VI, 1897, 1° sem., pag. 413. (®) Ved. Schmidt, Zur Theorie der linearen und nichtlinearen Integralgleichungen. 1 Teil, $ 14 (Math. Ann., Bd. 63). Renpiconti. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 43 — 320 — ciascuna delle due funzioni simmetriche J *K(wt) K(y8) de i) " K(&2) K(&y) de per gli stessi valori di x ed y risulta della forma (I) allora ed allora sol- tanto che lo sia la funzione assegnata. Sia dunque K(xy) una funzione simmetrica di x ed y finita e continua nel campo S a due dimensioni, definito dalle relazioni È MAZZI aszqy=b. Poniamo, secondo il solito, b b Ko il K(cé) K(ty) di Ks(cg) = dl K.(0%) K(ty) de .. "b K,(2y) = f Ki-.(28) K@y) d8 ed anche e= | K,(E8) dé. (= 100000 a Con queste denominazioni avremo che: Condizione necessaria e sufficiente affinchè la fuzione simmetrica K(xy) în tutto il campo S risulti della forma (1), è che si possa trovare un numero n= m tale che risultino contemporaneamente soddisfatte le tre relazioni: a 031 (OSSIA (@) i "oa Crimea e. Con CONICO, 01h mtc pia Rao (3) CC + ne 0 %) Ci Ca LETCHRE E. Cn+z'Cn+3 è. Con+? Cn Cn+r «n Can (') Si noti che nessuna delle tre condizioni (@) (8) (y) è una conseguenza delle altre due. Ad es., ponendo 1 K(xy)= È senz seny + + cos x cos y + 75 2x sen 2y ed a=0,5=27n,m= 2, per n =1 risultano verificate le condizioni (@) (y) senza che lo sia la (f). oo, — Per dimostrare che le condizioni enunciate sono necessarie, cominciamo dall'osservare che se la funzione simmetrica K(xy) in tutto il quadrato $ sarà della forma (I), il nucleo dell'equazione integrale 0 =? | Lod) 9) sarà simmetrico ed elementare: e se indichiamo con ur(0) Vr,o(0) im (0) 35 i (0) Uio(0) Uimi(2) je; Unai(£) Uno(£) ... Unmn(®) un suo sistema perfetto ortogonale normalizzato — intendendo che le funzioni Min (©) dio(2) im (0) (i=1,2,-.2) appartengano ad uno stesso valore eccezionale 4; (£=1,2,...z) — avremo in tutto il campo $ mi K(xy) ea (2) (9 bl) I Uir (0) vin(g) + + Unyr(0) Unr(9) - da 1 a Di qui segue immediatamente che sarà pure in tutto il campo S 1 ma 1 Mi - A mn x Dr Unye (0) Unyr(9) 1 d®» "o mi K,(xy) = FI Dott (2) unr(9) 4 + A P r Wiyr(2) wire (4) + A +: Da ny (0) (0) Ea (C9) = pra Deett(@) olo) + Epto) nl + ceo SP gra do Uny(&) Unyr(Y) . Ora, il determinante IU À 75 dn I did Ah Bi PA A è certamente differente da zero, e d'altra parte le funzioni Wi IRR MERE) sono linearmente indipendenti. Ne segue che le funzioni Ki(cy) = K(xg) , K(29) ,..., Kx(29) non potranno esser legate in tutto il campo S da alcuna relazione lineare. Invece per gli stessi valori di x ed y sarà 3 Il 1 K,(xy) ù 7 Il 1 1 Kn+1(%9) FIaSi DICO qui e se poniamo Kay) = Mintar (e) (MESE DI tr (2) (E l hi Di tiny (2) tinge (9) sarà pure K.(xg) 1 SE 1 1 K,(%y) mei iui (7a, 1 n 2) 1 Kay) Per il ben noto criterio di Gramme relativo alla dipendenza lineare di più funzioni di un numero qualunque di variabili, non potendo nessuna delle Seeio gi funzioni K;, K; ecc., come nucleo iterato di un nucleo simmetrico, essere identicamente nulla, potremo allora concludere che sarà b (Cb (A) 1. ii K;(xy) Kx(2y) de dy | ==) (È E = 1 est) bb : (B) f | K;(xy) Kx(cy) dae dy | =0 (EI 6) > (Cd (T) f (Riley) Kx(7) de dy |—0. (Ci 02) D'altra parte si vede subito che si ha SEG Kx(xy) da dy = fKix(00) da (CEE IREOT cioè, posto per un momento e =, (Ein Kx(xy) da dy = ciHm- (€ E=09095) Servendosi della formola ora scritta, si vede immediatamente che le condizioni (4), (B), (I°) coincidono rispettivamente colle (@), (#), (7). Resta così dimostrato che le condizioni enunciate sono necessarie. Per dimostrare che tali condizioni sono anche sufficienti, cominceremo dall’osservare che se è Co C3 eo Cn+2 C3 C4 000 Cn+3 i 0 9 Cn+2 Cn+3 «ee C2n4+2 necessariamente le funzioni Ki(0y) , Ks(cy), - Kn(cy) Knv(09) ; nessuna delle quali, come abbiamo già osservato, può essere identicamente nulla, risulteranno legate in tutto il campo S da una relazione lineare An Ki + Ani Ks + Ho + A Kn + Go Knsi = 0 Di qui segue subito che qualunque sia il numero intero e positivo 7 avremo in tutto il campo S Un K, + An=1r Kiri + sii | Ai Ku+ri + do Kntr 0 9 ed anche, indicando con Z un parametro arbitrario, SSA: 1 1 And Ky Zio 7 Cral + 000 + gr A + Fra Ue A+ Kai =0. — 330 — Avremo dunque, per gli stessi valori di 4 ed y, r r+l an LAKE 70 DAI + 1 1 1 r4n—1 îla quei (0A i DI, AK; 4AK1— STR A) sn 1 "a 7% S era mr —_ 0. ( I ) Ne segue che se indichiamo, secondo il solito, con T°(wyZ) il nucleo risolvente dell'equazione integrale (1), sarà, per una ben nota formola di Hilbert, an T(x44) + i an-x }T (242) — AK:{+- + 1 + gar 0 | D(642) AK: — Eat DP 3% ) T(cyA) — AK,.—--—4*K,\=0: cioè ring) = fliettat: Lia)+ +4G ( a dia + + 4"0, Resta così posto in evidenza che i valori di Z (valori eccezionali) pei quali T°(xy4) diviene infinito, non possono essere più di x. D'altra parte, se è soddisfatta la condizione («), il loro numero non può essere inferiore ad x, perchè, in tal caso, le funzioni K(%y), K:(29),..., Kn(29) nel campo S risulterebbero legate linearmente, e non potrebbe essere soddis- fatta la condizione in questione. Tal numero sarà dunque precisamente = n. D'altra parte, da quanto precedentemente abbiamo visto, risulta che se il numero dei valori eccezio- nali del nucleo simmetrico elementare K(xy) dell'equazione integrale (1) è = n, il numero X delle sue funzioni eccezionali linearmente indipendenti risulterà determinato dall’equazione di 1° grado: Xfce... C), Ci Ca eee Cntl CONCETR(Ca, Se dunque la funzione K(xy), oltre che alle condizioni (@) (8), soddis- farà anche alla condizione (y), certamente sarà X=wm ed essa sarà rap- presentabile in tutto il campo S nella forma (I). Resta così dimostrato che le condizioni enunciate sono anche sufficienti. — 8381 — Fisica matematica. — Sulle vibrazioni luminose di un mezzo cristallino uniassico dovute alla presenza di un unico centro lu- minoso. Nota di A. SicNoRINI, pres. dal Socio MaGGI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Matematica. — Sul problema di Dirichlet per la più ge- nerale equazione lineare ellittica autoaggiunta alle derivate par- ziali del second’'ordine. Nota di MauRO PICONE, presentata dal Socio L. BIANCHI. 1. Nella mia Nota recante il titolo: Un teorema sulle soluzioni delle equazioni lineari ellittiche autoaggiunte alle derivate parziali del secondo ordine, apparsa nell'ultimo fascicolo di questi Rendiconti, ho dato un teo- rema di confronto per le equazioni lineari ellittiche autoaggiunte alle deri- vate parziali del second’ordine, che è perfettamente l'analogo del classico teorema di confronto di Sturm per le equazioni lineari differenziali ordinarie del second'ordine. Mi permetto ora di osservare, secondo quanto ho annun- ziato al n. 1 della Nota indicata, alcune notevoli immediate conseguenze del detto teorema di confronto, concernenti la determinabilità dell’integrale di una equazione lineare ellittica autoaggiunta alle derivate parziali del se- cond’ordine, mediante i valori dell’integrale assegnati lungo un contorno chiuso limitante un campo connesso. Citerò colla notazione (N) la menzionata mia Nota. 2. Consideriamo la più generale equazione ellittica autoaggiunta del second'ordine: dw) yi f + A(a,g)u=0, © Seo du D PLAL D E PM 39) BE + i le, + rl0,9) PL) dt dI di perglagguale 0a, — bo, _—, delay i campo C nel quale supponiamo (come sempre possiamo) 0 (e quindi 7) maggiore di una quantità positiva. Diciamo M il massimo di A(x,y) in C. Seè M=0, assegnato in C un qualunque contorno chiuso y (della specie ordinariamente considerata nei problemi dei valori al contorno per le equazioni ellittiche) si sa che esiste sono funzioni finite e continue in un — 332 — ed è unico l'integrale della (1) assoggettato a prendere su y valori pre- scritti (’). Domandiamo ora, se è M>0, per quali contorni y in C si può, con- siderando soltanto la determinabilità dell’integrale, asserire la medesima cosa? o, il che fa lo stesso, per qvali contorni y in C non esiste che la soluzione u=="0 nulla su di esso? La questione, che ci proponiamo, ammette infinite soluzioni. Una solu- zione che subito si presenta si ha affermando: Se p designa quel numero posîtivo (certamente esistente e ben deter- minato) per il quale è in C 0(€,y)=P ’ 30(x, 4) — pj nei) =0, per ogni contorno y intieramente contenuto in una striscia di C di lar- ghezza minore di rt VE , una soluzione della (1) nulla su y è identica- mente nulla (?). Difatti, ammessa l’esistenza di una soluzione della (1) nulla su un contorno y di tal fatta e non identicamente nulla, dal confronto della (1) coll’equazione si deduce, secondo il teorema al n. 2 di (N), che una qualunque soluzione della (2) si annulla nell'interno di una striscia di larghezza eguale a 7 VE } (1) Nella nota 3 di (N) ho infatti osservato come, nel caso M= 0, non possa esi- stere che un solo integrale della (1) assoggettato a prendere su un contorno y in C va- lori assegnati, ora l'equazione (1), supposta una certa derivabilità nei coefficienti, appar- tiene a quella classe di equazioni nella quale, sotto certe ipotesi pel contorno su cui sono dati i valori dell’integrale, i teoremi di esistenza e di unicità valgono sempre insieme. Cfr. E. E. Levi, / problemi dei valori al contorno per le equazioni lineari totalmente ellittiche alle derivate parziali. Memorie della Società italiana delle Scienze, serie 3%, tomo XVI. (*) Cfr. Picard, 7raité dAnalyse, t. II pag. 25 e seg. Ivi è stabilito, per via affatto diversa, un risultato analogo a quello ora enunciato nel testo, ma di diverso significato. Si potrà paragonare il nostro risultato con quello di Picard nel solo caso che sia 0=7, d°0 DEI) va agi” Fatte queste ipotesi il numero da noi indicato e t=0, ed esistano le derivate con — coinciderà con quello dal Picard indicato con m?, nel solo caso che le funzioni A A 2 (Poni d° log 0 6° MO dy° abbiano in C lo stesso massimo. Cfr. anche Lichtenstein, Zur Theorie der gewbhnlichen und der partiellen Differentialgleichungen 2weiter Ordnung. Rendiconti del Circolo Ma- tematico di Palermo, t. XXVIII, pag. 802 e seg. Quivi trovansi altre utili note bibliografiche. — 3339 — Questa conclusione è assurda, poichè, se xcosa--ysena + a=0 è l'equazione di una delle rette limitanti la striscia, l'equazione dell'altra sarà ccosa+ysena +44 p Va=® e la soluzione della (2): e=sen $ {/3 (rcose + y sone +0), ; nulla sulle due rette, non è mai nulla nell'interno della striscia ('). 3. Ma, sempre mediante il confronto dell'equazione (1) coll’equazione (2), si può rispondere in infiniti altri modi alla questione proposta. Basterà determinare dei campi T° di C pei quali si possa assicurare l’esistenza di un integrale della (2) che ivi non sì annulli mai; si potrà allora dire che una soluzione della (1) nulla su un contorno y tutto contenuto in un campo £° è identicamente nulla. Un altro campo 7, non sempre contenuto in una striscia di larghezza minore di 77 V a che subito si presenta è un qualunque quadrato di C di lato minore di 7J/2 VE: Infatti la soluzione della (2): use (f/Miea cve—(y—b)snaf) xsn(|/Iie—a) sena + (y — d) ts el): dove a, a, significano costanti arbitrarie, è nulla sul contorno, e non mai nulla nell'interno, del quadrato limitato dalle rette (c—- a) cosa —(y—d)sena=0, (x — a) cosa — (y— d) snme=n 2 j/t (r—a)sena+(y—d)cosa=0, (— a)sena + (y— 5) cosa =7]/2 VE (1) La proprietà osservata nella nota 3 di (N) risulta anche dal confronto delle due equazioni (1) e (2) del testo, poichè se è M =0, esiste una soluzione della (2) che non è mai nulla, essa è - - RenpICcONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 44 — 334 — che è appunto (per l'arbitrarietà delle «,a,2) un qualunque quadrato di lato 7 J/2 VE Possiamo dunque dire: Una soluzione delle (1) nulla su un contorno y tutto interno ad un quadrato di lato mr V/2 VE è identicamente nulla. 4. Per determinare nuovi campi Y° nei quali si possa assicurare l’esi- stenza di una soluzione della (2) non mai nulla, operiamo il cambiamento di variabili espresso da (3) a=&(8,n) , y=y(.»), supponendo che i punti singolari della trasformazione, cioè i punti in cui si annulla dd, 4) PIA) siano fuori del campo C. Col cambiamento di variabili (3) si abbia da° + dy° = edì* + 2fdé dp 4- gdif, sarà 1 INVE: Uva) e quindi in C e 040,09 —f_101 Nelle variabili È e » l’equazione (2) sì scrive: e el ft dI Me (4) DE Veg — f® IRA PL) Veg — f? + p Veg Ja u=10 Quando l'equazione (4) potrà essere soddisfatta da una funzione w di- pendente dalla sola #? Occorrerà perciò che per mezzo di una funzione X(é) della sola £ sia possibile soddisfare all'equazione PX | Veg—f (è 9 Da Sd arena, (G Veg =f° Meg = det seo Cl). — 339 — per la qual cosa basterà ammettere, come appunto intendiamo di fare, che si abbia (oi > e Pero) e = ut), a,(£) e a»(£) indicando due funzioni della sola È. Ammettiamo dunque che il cambiamento di variabili (8) sia tale che risultino verificate le (6). Le (6) saranno verificate per tutti quei sistemi di coordinate ortogonali È, n pei quali e risulterà funzione della sola £, e g il prodotto di una funzione della sola € per una funzione della sola n. A tali sistemi di coordinate nel piano appartiene il sistema di coordinate polari (coll’ origine fuori del campo C). L'equazione (5) può scriversi d( Su@©ddX) , M M fade _ (7) dell mt) e x=0, diciamo N il massimo in C di a,($) LOL e g il minimo di gf LO è noto che, dicendo (@,) il tratto dell'asse È in cui è contenuto È pei punti di C, per ogni segmento, del tratto (a, 8) dell'asse È, di ampiezza d minore di anti esiste una soluzione della (7) che ivi non s'annulla mai. Se dunque consi- deriamo nel piano x,y la regione di C limitata dalle due curve Ea,y)=e , Ha, y)=etd, c indicando una qualunque costante di (a, 8), essa è un campo F.. Possiamo cioè dire: Una soluzione della (1) nulla sopra un contorno y limitante un campo tutto contenuto in una regione di © limitata dalle due curve se,y)=c , He,g)=c+3, è identicamente nulla. 5. Consideriamo, in particolare, il caso che le coordinate È e n siano coordinate polari e sia £=0 ,pn=0. L'equazione (5) coinciderà allora con l'equazione IX M (8) SS n a = ()); de? aa a cui soddisfa la funzione di Bessel d'ordine zero in ye. Il punto sin- golare del cambiamento di variabili x=Qc080 , y=osen0 è rappresentato da o = 0, dovremo perciò supporre il campo C tutto esterno ) ad un certo cerchio di centro nell'origine e di raggio 7. Sia d’altra parte i + A il raggio del cerchio di centro nell'origine che contiene nel suo in- terno il campo C, i numeri 9 e N saranno rispettivamente 7 e 7 +7. Ne seguirà che in una corona circolare di C di larghezza d minore di n=n]/t Va: nella quale il raggio minore non è inferiore a 7 e il maggiore non superiore art, esiste una soluzione della (2) non mai nulla. Si vede che, per un fissato ma arbitrario valore di #, al crescere di 7 all'infinito, il limite superiore A della larghezza delle considerate corone circolari tende a "VE cioè (n. 2) al limite superiore della larghezza delle striscie godenti della medesima loro proprietà. Un valore di A, indipendente dalla quantità %, che crediamo utile rilevare, è quello che segue dalla considerazione degli zeri di {/o Y(0) per e=r, Y() indicando un qualunque integrale dell'equazione (9) Lo) + - + Y(e)=0. Si ha per J/e Y(0) l'equazione 2 1 / 1 dl (10) Let +(1+)ler=o, per cui, per l’'ordinario teorema di confronto di Sturm, si può affermare (com'è noto) che in ogni intervallo dell'asse positivo 0 di ampiezza 7 cade una radice almeno di Vo Y(0) e che, per 0 = 7, per ogni intervallo di am- piezza minore di TT 1 t Vv: NE 4r? esiste una soluzione della (10), e quindi della (9), ivi non mai nulla. Ne segue, qualunque sia il numero positivo 7, che per ogni intervallo dell'asse o, a destra di 7, di ampiezza d minore di n /p n= |/£ pi+t esiste una soluzione della (8) ivi non mai nulla, e quindi: — 337 — Per ogni contorno y limitante un campo intieramente contenuto n una corona circolare di C avente il raggio minore non inferiore a r, € di larghezza d inferiore a 22522 V++ una soluzione della (1) nulla su di esso è identicamente nulla. Per cui, per esempio, i valori di un integrale della (1) assegnati su due contorni y e y' limitanti un campo semplicemente connesso tutto con- tenuto in una corona circolare di raggio minore = 7, e di larghezza < d, determinano sempre perfettamente l'integrale, ecc. Considerando poi che è J(0) = 1, J(x) designando la funzione di Bessel d'ordine zero, e che le radici di J(x), più piccole in valore assoluto, sono olet—a cone = 2,4048... (3), si può dire: Una soluzione della (1) nulla su un contorno contenuto intieramente in un cerchio di raggio 4048 {/ È 2,4048 i è identicamente nulla. Questo risultato non rientra in nessuno di quelli dati precedentemente, poichè un cerchio del raggio anzidetto non è contenuto in una striscia di larghezza minore di 7 VE. nè in un quadrato di lato minore di ny/2 VE , eco. 6. Osserviamo che infinite altre risposte alla questione proposta al n. 2 si potrebbero trovare confrontando l'equazione (1) con un'equazione che sia con essa nelle medesime relazioni in cui la (2) di (N) è colla (1) di (N) e che possegga un integrale per il quale si possono determinare i campi in cui si mantiene diverso da zero: per ciascuno di questi campi varrà il teorema d’unicità relativo agli integrali della (1) che prendono valori prescritti su un contorno limitante una regione în esso intieramente con- tenuta. 7. È ovvio che i teoremi stabiliti in questa e nella precedente Nota si estendono subito alle equazioni ellittiche autoaggiunte del second’ordine in un numero qualunque di variabili: (11) SLY ansi 4 Aun0 (n=); (*) Secondo la tavola di Hansen. — 338 — poichè il processo adottato al n. 2 di (N) vale inalterato per dimostrare il teorema: Se le forme quadratiche Di Ci AES Di br (0) i, k i,k sono entrambe definite positive per qualunque sistema di valori delle variabili x, %2,..,%n în un campo connesso e finito C di contorno c, mentre pei medesimi sistemi di valori delle variabili la forma DI (Gin i din) X; Xx i, è definita o semidefinita posttiva ed è B=A, se esiste una soluzione u della (11) identicamente nulla su c, non potrà esistere una soluzione v della n D n dU Nba, — + By=0, Soaifa "3a sr per la quale il rapporto pon sta costante in C e ivi si conservi finito. Meccanica. — Sul moto traslatorio d'un solido di rivolu- zione in un liquido viscoso. Nota di E. ZONDADARI, presentata dal Socio V. VOLTERRA. È noto che le equazioni generali del moto di un liquido viscoso sono ù 0 () di put pod petti (1) Lod fr i > (0-E)+osto (2) rt 0. Se però supponiamo il moto /ento, cioè se le componenti di velocità u,v,w e le loro derivate rispetto alle coordinate sono così piccole da po- — 339 — tersi trascurare i prodotti delle une per le altre, le (1) divengono CE. (0-2) +4 RTLA SAR ni. 7) LI (3) SIA e) pro dw d P LO LE 4°%w. \ di Il o) +? È Vogliamo ora studiare (') il moto indotto in un liquido viscoso indefinito dal movimento traslatorio di un solido di rivoluzione qualunque, dotato di velocità V(:) nella direzione del proprio asse di rivoluzione. Supponiamo la velocità V(t) tale che il moto indotto nel liquido abbia il carattere di moto lento. Le (3) sono riferite ad assi fissi; ma è facile riconoscere che esse conservano la stessa forma anche se le intendiamo riferite ad assi mobili paralleli ai fissi e legati invariabilmente al solido di rivoluzione che chia- meremo ancora 0x ,0y,0z; se scegliamo infatti l’asse di rivoluzione come asse Oz e immaginiamo insieme alla terna d'assi mobili 0x,0y,0z una terna d'assi fissi coll’origine sopra Oz e paralleli ad Ox,0y, Og rispetti- vamente, abbiamo, indicando con $ la distanza variabile dell'origine mobile O dall’origine degli assì fissi, w=f(£,4,84+6,0) coca) >f_ Rai di on ; A ma l’ultimo termine deve trascurarsi per l'approssimazione considerata nel- l'ipotesi del moto lento e perciò appunto si può scrivere e quindi le equazioni (3) conservano dunque la stessa forma sia riferite agli assi fissi che agli assi mobili. Ciò premesso, se trasformiamo le (3) in coordinate cilindriche 7, @, 2 si ottiene (Basset, Treazise on Hydrodynamies, vol. II) DRIIO a) R 2) =-2(U-- ARTT; | 0 A ° dg DA: rar IP_10I p { ® 293R 4 SEE e AD (4) di al e (È 3) PAD ) 2 (UL), (1) Espongo in questa Nota, i resultati ottenuti nelle ricerche che formano la prima parte della mia Tesi di Laurea (Roma, ottobre 1909). Sullo stesso argomento è comparsa recentemente nel tomo XXXVIII del « Bulletin de la Société Mathématique de France », una Nota del prof. L. Zoretti, nella quale però possono rilevarsi alcuni errori di stampa. — 340 — in cui R,P,Z sono le componenti di velocita secondo gli assi curvilinei in un punto. Supponiamo ora che il moto del liquido avvenga sempre in piani pas- santi per l’asse Oz e sia lo stesso in tutti i piani. Allora essendo ®=0 e le altre quantità che figurano nelle (4) indipendenti da , le (4) stesse divengono E) x SOA, n_i) (5) ei po (n r 9) < DZ d p 5 —— — —— MI vi (md ove (6) Lilo — nei alle (5) si deve aggiungere la d QEAIZANO (7) PRM+02)=0 ottenuta dalla (2), nell'ipotesi della simmetria rispetto ad Os. Delle tre componenti della rotazione di una particella liquida espresse in coordinate cilindriche da ( 1 È =", Sez; __1(28_ 24, ve i, dr) 1 (o(r@) ?R era" '— == \ ni dr dg ©; € ©, si annullano nel nostro caso; rimane solo ©, che chiameremo sem- plicemente £ e potremo scrivere ® eni(È- 2). Dalle (5) eliminando U "i. sì ottiene (O) (Ed), loz 33), dI \ da d7 d7 0) ma per la (6) I A°R= A Gi de de it) 1 dz i DA dr PAIA e poichè 2: (E) (E) (EL) 08 dA, dI dr la (9) diviene o a_i di ( CS; ( i? cioè, per la (8) (10) DOG (20 da n) i equazione a cui deve soddisfare la rotazione £. All'equazione (7) si soddisfa identicamente, com'è noto, ponendo (11) pe 7, Pu Se sostituiamo questi valori di R e Z nella (8) si ha (12) oi 2\7®% dr RODE QUE sostituendo inoltre nelle (5) i valori di R e Z dati dalle (11) ed elimi- nando fra le (5) stesse la quantità ue da oppure sostituendo il valore di 2 dato dalla (12) nella (10) si giunge all’equazione O SIR O RA iù pi dr 3 dr 7? DIA Val DI d2° O RESO emi et, alla quale deve soddisfare la w. Le condizioni ai limiti si ottengono, supposto che il liquido aderisca completamente alla superficie del solido, esprimendo analiticamente il fatto che le particelle liquide a contatto della superficie del solido sono dotate della stessa velocità dei punti di essa. Supponendo, inoltre, che il solido sia tutto a distanza finita, si dovrà aggiungere la condizione che il liquido resti in quiete all'infinito. Indicando dunque con o la superficie del solido, con Rs, Zs € Rx, Zo le componenti della velocità sulla superficie 0 e all'infinito rispettivamente, si avranno le condizioni ai limiti Ro =0 Za Co) R_=0 Z=0P ReENDICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. pia (dii — 342 — LR PIO E Salito È DIA ail) ii , LO A (ile 2 LI PISO alle quali si deve aggiungere la condizione [Wo cr Wo(7 9 3) cioè (13) relativa allo stato iniziale, dove wo(r,) è una funzione arbitraria nota, soddisfacente sopra o e all'infinito alle stesse condizioni (13) a cui deve soddisfare la w. Matematica. — Sopra l'equazione integrale di Volterra di seconda specie con un limite dell’integrale infinito. Nota del dott. G. C. Evans, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. Matematica. — Sopra una nuova proprietà delle trasforma zioni birazionali nello spazio. Nota di M. PANNELLI, presentata dal Corrisp. G. CASTELNUOVO. Matematica. — Sur les transformations de contact speciales et le théorèòme de Jacobi. Nota di Tua. De DONDER, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Fisica. — Azione elettro-magnetica degli ioni dei metal, deviati dalla traiettoria normale per effetto di un campo magne- tico. Nota di 0. M. CorBino, presentata dal Socio P. BLASERNA. Un disco circolare di bismuto B può essere percorso radialmente da una corrente continua; la quale penetra dal centro, per un filo f che lo traversa e vi è fissato con due piccoli dadi, e viene raccolta alla periferia da due anellini di rame 4,’ applicati all'orlo delle due facce del disco. Da uno degli anelli la corrente ritorna radialmente lungo una piastrina forata di rame parallela al disco, fino a un tubo # che s'innesta nel foro e circonda :l filo centrale. Una bobina piatta CC con le spire parallele al disco, lo circonda tutto in giro ed è rilegata a un galvanometro. inlanian 0A ari Ra era Disco e bobina sono disposti tra i poli d'un elettro-magnete Weiss, nor- malmente alle linee di forza. A tal fine il tubo circondante il filo centrale passa pel canale del nucleo dell’elettro-magnete e pel foro d'una delle masse polari, l’altra massa polare è cieca; entrambe hanno le facce piane d'esten- sione quasi eguale alla parte scoperta del disco in bismuto. Quando l’elettro- magnete non è eccitato, il passaggio della corrente radiale non crea alcuna azione magnetica nella bobina che circonda il disco; e perciò il galvanometro non dà alcuna deviazione qualora si stabilisca o s'interrompa la corrente radiale medesima. Se però si eccita il campo (interrompendo durante la ma- Va N % novra il circuito della bobina e del galvanometro) e si stabilisce, a campo eccitato, la corrente nel disco, si nota al galvanometro una deviazione brusca, come per una corrente indotta. Tornato il galvanometro a zero e interrom- pendo la corrente nel disco, si ha una deviazione eguale ed opposta. Il senso delle deviazioni ottenute s’ inverte col senso della corrente nel disco, come anche col senso della corrente nell’elettro-magnete; e la corrente indotta si annulla quando si sostituisce al disco di bismuto un disco di rame. È perciò escluso che si tratti di azioni dovute ad azione mutua dei cir- cuiti, o a lievi correnti derivate, o a variazioni delle proprietà magnetiche del bismuto pel passaggio della corrente; naturalmente occorre provvedere a che le due correnti che circolano nell’elettro-magnete e nel disco siano completamente indipendenti. Il fenomeno ha una interpretazione molto semplice, che mi servì ap- punto di guida nel prevederne l’esistenza. Come è noto, nel bismuto la corrente elettrica è trasportata da ioni po- sitivi e negativi, che si muovono in senso opposto con grande prevalenza — 544 — della corrente negativa. Nel caso del disco gli ioni che si muovono, a campo non eccitato, radialmente, subiranno un'azione deviatrice quando si eccita il campo, assumendo un moto spiraliforme che si compirà nel medesimo verso tanto pei positivi che pei negativi. Ma poichè le due correnti e le velocità degli ioni loro velocità sono disuguali, malgrado la rotazione abbia luogo nel medesimo verso, si desterà un vero campo magnetico, del quale la bobina esterna rivela la creazione e la fine, alla chiusura e all’apertura della cor- rente nel disco. Una interpretazione del medesimo genere vale, com'è noto, pel fenomeno di Hall: dal quale tuttavia il fenomeno descritto în questa Nota si diffe- renzia notevolmente; specie in ciò che nell’esperienza di Hall le linee di corrente conservano alla chiusura del campo l'andamento rettilineo normale, e non si altera quindi la loro azione magnetica, mentre si modifica la di- stribuzione dei potenziali, il che è rivelato dalle sonde rilegate al galvano- metro. Invece nel mio caso vengon distorte le linee di corrente, con la con- seguente creazione d'un effetto induttivo, ma rimane inalterata la distribu- zione dei potenziali, cosicchè derivando un galvanometro tra due punti inizialmente allo stesso potenziale, esso non darebbe alcuna deviazione alla chiusura del campo; manca perciò il fenomeno di Hall propriamente detto. In queste esperienze preliminari la parte attiva del disco aveva il diametro di 60 mm. e lo spessore di 2,5 mm. L'azione elettromagnetica risultò proporzionale alla corrente che traversava il disco; e crescente con l'intensità del campo, ma molto più lentamente del campo medesimo. Con un campo di circa 1000 unità e una corrente nel disco di 20 am- père, le deviazioni ottenute corrispondevano all'azione induttiva esercitata sulla stessa bobina, da una spira, dello stesso contorno del disco, messa al suo posto nell'interferro, e percorsa dalla corrente di 0,2 ampère. Il senso delle deviazioni fu sempre conforme alla regola seguente: Z/ passaggio d'una corrente centrifuga nel disco, sotto l’azione del campo, lo trasforma in una lamina magnetica col medesimo senso di circuitazione della corrente magnetizzante; se la corrente è centripeta, il senso di circuitazione della lamina magnetica equivalente al disco è opposto a quello della corrente magnetizzante. Prevale adunque l’azione magnetica esercitata dalla corrente distorta negativa. In una successiva Comunicazione sarà esposta la teoria di questo fenomeno, e la sua connessione coi fenomeni galvanomagnetici già noti; € sarà mostrato che esso dipende in modo diverso dalle costanti di Drude relative al metallo, ed è determinato da un numero minore di queste. Fisica. — Su alcuni nuovi modi di preparare soluzioni di Selenio colloidale. Nota di A. PocuerTINO, presentata dal Socio P. BLASERNA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — s4o — Chimica. — Sul decaciclene e sulla sua pretesa proprietà di sciogliere la grafite. Nota di M. PapoA (), presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Nel 1907 comparve nel Journal fir praktische Chemie una Nota di Ivan Ostromysslensky (?) in cui da alcune esperienze si deduceva come pro- babile il potere solvente della grafite per parte di un idrocarburo polinu- cleare, il decacielene. L'autore citato aveva provato a sciogliere la grafite in varî idrocarburi complessi a catene chiuse, basando il suo ragionamento sul fatto che si sciolgono scambievolmente a preferenza quei corpi che hanno costituzione chimica analoga. Ora, ammettendo pel carbonio una struttura policiclica, come si am- mette considerando che per ossidazione con permanganato la grafite dà acido mellitico, riusciva assai accetta l’idea che un solvente pel carbonio potesse essere un idrocarburo come il decaciclene, che è il meno ricco d' idrogeno (ne contiene il 4 °/,, cioè meno dell’antracite) ed ha la struttura seguente come si sa dal fatto che si ottiene ossidando con zolfo l’acenaftene e che dà acido mellitico se viene ossidato con acido nitrico in presenza di sali di mercurio. Ciò che impedì ad Ostromysslensky di fare osservazioni più precise, fu la mancanza di un buon metodo per preparare il decaciclene. Convinto della importanza che avrebbe avuto il potere assodare l’esistenza di tali rapporti di solubilità, che forse avrebbero resa possibile la determinazione del peso molecolare del carbonio, cercai dapprima un metodo più conveniente di quelli noti per la preparazione del decaciclene, poi tentai di sciogliervi varie (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bo- logna. (°) Journal fur praktische Chemie (2) 76, 268-273. — 346 — qualità di grafite; purtroppo, come dirò meglio in seguito, questa seconda parte ebbe esito negativo. Tuttavia rendo note queste esperienze perchè con esse si dà uu metodo buono di preparazione del decaciclene (che è pur sempre un idrocarburo assai interessante) e di cui forse l’Ostromysslensky potrà profittare per tentar di sciogliere qualche qualità di grafite russa che non è alla nostra portata. 1. La preparazione del decaciclene, come è descritta da Dziewonski (') [analogamente opera anche Rehlander (£)] consiste nel far reagire in un pallone gr. 23 di zolfo e gr. 100 di acenaftene, riscaldando fino a 290° circa. Il prodotto, che contiene anche grande quantità di dinaftiltiofene, viene estratto più volte con alcool e benzolo e cristallizzato dal nitrobenzolo 0 dall'anilina. Operando così non siamo mai riusciti ad avere più di 2 grammi di de- caciclene puro per ogni 100 grammi di acenaftene impiegato, senza contare le lunghissime operazioni di estrazione. Risultati un po' migliori, ma non uniformi, si ottennero adoperando soltanto 25 orammi di acenaftene per volta, e zolfo in proporzione. Per fortuna una semplicissima modificazione ci condusse a buoni risul- tati; basta operare in tubi chiusi. Dopo alcuni tentativi si vide che il mi- glior procedimento consiste nel riscaldare gr. 4 di zolfo e gr. 17 di acenaf- tene in tubo chiuso per due ore a 200°; poi si sfiatano i tubi dall'idrogeno solforato (cautamente, perchè se ne forma tanto che lo si vede liquefatto nell'interno del tubo) e si riscaldano di nuovo per circa un'ora a 250°. Dopo ciò il contenuto dei tubi si estrae per 4 o 5 volte con toluolo bollente per eliminare il poco acenaftene inalterato ed il dinaftiltiofene; finalmente si cristallizza dal nitrobenzolo, facendo uso di carbone animale; le filtrazioni vengono fatte a caldo, e per evitare inconvenienti è necessario far uso di un imbuto a doppia parete che contenga olio bollente: Con tale procedi- mento si ottengono circa 12 grammi di decaciclene purissimo per ogni 100 grammi di acenafiene. In queste preparazioni fui coadiuvato dal laureando sig. Vito Foligno. 2. Preparammo così circa 50 grammi di decaciclene purissimo; sì trat- tava ora di determinare con precisione il punto di fusione, che dagli altri autori si sapeva giacere verso i 400°; poi di fare, se la buona sorte lo per- metteva, delle esperienze crioscopiche, impiegando il carbone come corpo sciolto. Anzitutto, per ottenere una temperatura così elevata e costante, co- struimmo una piccola stufa elettrica costituita da un tubo di porcellana chiuso inferiormente, circondato dagli avvolgimenti metallici e da parecchi rivestimenti in amianto; con tale dispositivo si poteva salire fino a 600° facendo uso della corrente alternata stradale a 110 volts. Ci servimmo di (*) Berichte 36, 962. (è) Ibid., 1583. Sr, —— r-_e_—v —* — 347 — un termometro in vetro di Boemia delle Vereinigte Fabriken fiv Laborato- riumsbedarf, che può andare fino a 575°, e dotato delle debite correzioni. Il decaciclene veniva posto in una provetta di vetro infusibile; il bulbo del termometro non veniva immerso direttamente (per evitare rotture al con- gelamento della massa), ma col tramite di una guaina, che serviva anche a condurre nella provetta una corrente di anidride carbonica; fra il bulbo e la guaina si poneva una polvere metallica molto conduttrice. Si faceva fon- dere il decaciclene portando la temperatura a 425° circa, poi si faceva raf- freddare lentamente seguendo l’andamento del termometro col tempo. Delle curve di raffreddamento ottenute, parecchie denotavano un sopraraffreddamento di circa mezzo grado e indicavano chiaramente il punto di fusione, che si può ritenere assai vicino a 389° 5. Per tentare la soluzione della grafite, ce ne provvedemmo di varie qualità: bavarese, in blocchi neri opachi e friabili ; di Ceylan, in lamelle lucenti e untuosa al tatto; siberiana, dura e opaca; questi campioni ci furono mandati dalla casa C. A. F. Kahlbaum. In una prima esperienza si impiegarono gr. 0,364 di grafite siberiana e 6 gr. di decaciclene, riscaldando per un'ora circa a 500° (analogamente a quanto fece Ostromysslensky). Facendo raffreddare, non si potè osservare la solita deviazione della curva indicante il punto di congelamento. Eviden- temente il decaciclene si era scomposto, come potemmo accertare dopo, estra- endo la massa con varî solventi; potemmo ancora ricuperare la grafite intatta: il suo peso era cresciuto di gr. 0,017. Pensammo di ripetere la fusione mantenendo più bassa la temperatura, per evitare alterazioni; riscaldammo per un'ora a 430°, In queste condizioni, con tutte e tre le qualità di grafite, ottenemmo delle curve indicanti il punto di congelamento del decaciclene puro; inoltre la grafite rimaneva completamente inalterata. D'altra parte qualsiasi corrosione si sarebbe resa manifesta specialmente con quella di Ceylan, ma non si potè mai osservare. Abbiamo tentato poi di determinare la costante crioscopica del decaci- clene, che poteva essere interessante per altre esperienze, ma non potemmo trovare sostanze adatte da sciogliervi. In queste esperienze ebbi il valido aiuto del laureando sig. Umberto Dotta. Chimica. — Aralisi termica delle miscele di cloruro rameoso con cloruri di elementi monovalenti. Nota di C. SANDONNINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 348 — Chimica. — Sulla sintesi diretta dei gliceridi. Nota di G. GranoLI, presentata dal Socio A. MNozzI. I signori 1. Bellucci e R. Manzetti hanno comunicato, nella seduta del 22 gennaio p. p., una loro Nota nella quale credettero affermare di essere riusciti per i primi a eterificare completamente gli acidi grassi di elevato peso molecolare, riscaldandoli nel vuoto colla quantità voluta di glicerina. Fecero rilevare, altresì, l’importanza industriale di questo metodo per la pre- parazione della trioleina mediante l’acido oleico. Agli autori è sfuggito probabilmente il rapporto che ho presentato per incarico della Società Chimica di Milano, alla Sezione IV-A del VI Con- gresso di chimica applicata, tenutosi a Roma nel 1906 ('), sull'industria delle materie grasse in Italia, nel quale ho accennato alle cause della im- perfetta eterificazione, quando si procede col metodo indicato da Berthelot ed al sistema da me introdotto nella pratica fino dal 1891, che consiste nell’ope- rare il riscaldamento della miscela di glicerina e acidi grassi in una atmo- sfera rarefatta, cioè collo stesso espediente di cui si sono valsi gli accennati autori. In quell'occasione ho avvertito che i gliceridi, ottenuti direttamente dagli acidi grassi dell'olio al solfuro, presentano una vischiosità maggiore dell'olio di olivo ordinario, e che codesta proprietà riesce vantaggiosa laddove gli oli sono destinati alla lubrificazione. Aggiunsi, inoltre, che la disacidi- ficazione col processo sintetico dell'olio al solfuro ha estese le applicazioni di questo prodotto ed ha migliorate le condizioni di vendita a vantaggio dell’olivicoltura. Posso ora assicurare che vent'anni or sono tale sistema fu attivato in grandi proporzioni e che a quest'ora furono prodotti alcuni milioni di chi- logrammi di olio sintetico. Con ciò credo mi appartenga la priorità del metodo di sintesi dei gli- ceridi più sopra descritto e delle applicazioni industriali che scaturirono. Chimica. — Sulla luminosità del fosforo - Esperienze da lezione. Nota di L. Marino e 0. PORLEZZA, presentata dal Socio R. NASINI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (1) Atti del VI Congresso internazionale di chimica applicata, vol. III, pag. 51, Roma, 1907. — 349 — Chimica. — Sull’esistenza di un nuovo tipo di biossidi. (Rea- sione fra acido selenioso e biossido di manganese). Nota di L. MaRINO e V. SQUINTANI, presentata dal Socio R. NASINI. Chimica. — Sugli stati amorfi del Silicio. Nota di L. CAMBI, presentata dal Socio R. NASINI. Chimica. — Su so/furi di silicio. Nota Il di Livio CAMBI, presentata dal Socio R. NASINI. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Agronomia. — Le rocce e le acque dell’Agro Romano ri- spetto alla calce. Nota di G. DE ANGELIS D’OssaT, presentata dal Socio R. PIROTTA. Più di una volta, come pure occorse ad altri geologi, ho trovato nel- l'Agro Romano nuclei, concrezioni, croste ecc., più o meno calcaree sotto strati di tufo vulcanico permeabile e sopra un altro relativamente imper- meabile. Sotto i non spessi accumoli di pozsolanelle e sopra le irregolarità del sottostante tufo litoide si ha la sede o giacimento preferito. I materiali calcarei elaborati nella massa pozzolanica sono trasportati dallo sgocciola- mento in basso sino al ristagno delle acque calcarifere nelle irregolarità su- perficiali del mezzo impermeabile, dove le acque, evaporando nella calda stagione asciutta, depongono il calcare, con argilla, impregnando il materiale vulcanico. Tra i molti materiali calcarei raccolti in numerose località romane ho prescelto, per lo studio, un campione proveniente dalla via Tiburtina e preso appunto sopra i tufi litoidi e sotto un tenue strato di pozzolanelle e pro- priamente lungo una doccia scolante di quello (loc. guinza). La roccia ge- neralmente presenta colore oscuro, tendente al rossiccio od al giallo-sporco: varia è la compattezza. La massa è infarcita di materiali vulcanici, come: fram- menti di lava, scorie, tufi vulcanici e cristalli isolati; fra quest'ultimi pre- dominano i pirosseni e le miche. Il materiale cementante è prevalentemente di natura calcarea: ma non vi manca l'argilla. Questa isolata (metodo per l'argilla tecnica) si mostra colorata intensamente per ossidi di ferro od in RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 46 — 350 — giallo od in rosso: essa trovasi in gran parte allo stato colloidale, insieme all’idrossido del ferro. Al microscopio (v. fig. 6) si riconoscono subito i frammentini irregolari, spesso subrotondi, di lave, scorie e tufi, più o meno alterati ed infarciti da cristalli di leucite spesso ridotti in scheletro a croce 0 profondamente cao- linizzati, con inclusioni ordinate. Le alterazioni subìte dagli inclusi hanno occasionato lo sviluppo dei composti del ferro. I frammenti nominati sono riuniti da una massa pur ocracea in cui predomina il calcare minutamente cristallino, frammisto ad argilla ocracea. Dentro questa pasta, porfiricamente disseminati, si osservano inoltre cristalli isolati dei seguenti minerali. Fic. 6. Da una fotografia di sezione sottile; a luce ordinaria. Circa X 15. Per numero predomina la mica oscura, ridotta in sottili ed alterate squamette irregolari di varie dimensioni, più frequentemente piccole. Il co- lore, a luce ordinaria, è giallo sporco, talvolta oscuro. Alla luce polarizzata si scorgono meglio le alterazioni subite dalla bdzotite. Segue poi il pirosseno verde, con cristalli idiomorfi di varie dimensioni, con colorazioni e pleocroismo di diversa intensità. I cristalli soventi sono zonati e con angoli di estinzione varianti dall'esterno all’interno. Da tutto ciò e dai valori angolari di estinzione si individualizzano l’augite-egerina e l’augite. Finalmente si trovano ben distinti granuli di feldspato. Le sfaldature difficilmente si osservano, come rare sono le geminazioni ; quelle polisinteti- che non le vidi mai. L'estinzione riportata alle traccie del piano [010] ha dato valori intorno a 30° per modo che parrebbe indicato un plagioclasio basico (Labrador-Bytownite). Tali granuli, somigliando a calcite, si distinguono per la mancanza di traccie di sfaldatura e della frequenza ed evidenza della struttura polisintetica lamellare propria al carbonato di Ca. — 351 — Vi sono inoltre altri minerali e fra questi spesseggiano gli oscuri ed opachi, riferibili a composti di ferro. Le vene sono di calcite ed intersecano, a stockwerX, tutta la massa. Per la petrografia sono interessanti i segni manifesti e profondi del metamorfismo termale subito dalla roccia vulcanica. La composizione chimica varia di molto specialmente a causa degli inclusi vulcanici e della diversa proporzione fra argilla e calcare. Coll’acido cloridrico ho separato i materiali inclusi e l’argilla dal calcare, ottenendone proporzioni diverse non solo da campione a campione, ma nello stesso esem- plare. Non sì devono confondere, per l'’analoga origine, i materiali ora descritti con i vasti depositi travertinosi che s' incontrano sopra od ai bordi delle for- mazioni vulcaniche, specialmente a causa delle diverse proporzioni del fe- nomeno. Però i fatti di cui si ragiona e la natura delle acque circolanti nei distretti vulcanici, generalmente durissime, illuminano d’intensa luce la ge- nesi della formazione travertinosa. Donde il dannoso allontanamento della ca/ce, già in gran quantità, dalle rocce vulcaniche e dai terreni agrari autoctoni che ne derivano e donde la necessità, come sopra espressi nella legge, di trattenere pure questo indispen- sabile ingrediente. Inoltre devesi curare che il processo della liberazione della calce si svolga con tante moderate fasi da non cambiare la limitata ricchezza della ca/ce in soverchia potenza. Per quanto scientificamente poco noti pur sì conoscono i mezzi adatti a trattenere gl’ ingredienti necessarî nel terreno agrario; alludo al potere assorbente, in gran parte purtroppo ancora misterioso. * x x Per meglio precisare le circostanze e l'andamento delle evoluzioni del mobile elemento, calce, sempre allo scopo di indagarne le utili direttive ed applicazioni, ho sottoposto i campioni ad altri esperimenti. Primieramente era necessario conoscere, tanto a volume quanto a peso, la ritenuta d'acqua o capacità idrica delle rocce in esame. A_ motivo di pa- ragone ho scelto il metodo di Wahnschaffe, col quale si usano cilindri di vetro di volume noto (mm. 40 X 130). Si ottennero, con tutte le cautele del caso, i seguenti dati che pur rappresento in grafiche (Vedi fig. 7 e 8). A volume °/o A peso °/o I SAI nei Mae 82.71 30.95 Ten 78.48 34.12 TORRI es da 75.29 32.753 Nk 104.34 45.36 — 352 — È da notarsi che i campioni dopo una sola ora d’immersione avevano già assorbito quantità d'acqua vistose e subeguali, cioè rispettivamente : I gr. 56.3; II gr. 52.2; III gr. 48.7 e IV gr. 60.3. Trascorse solo sei ore le rocce avevano già assorbito quasi tutta l'acqua di cui erano capaci; infatti l'aumento avvenuto nei giorni successivi, sino a peso costante, si aggirò in- torno a pochi gr. 4-7. 100 % » iii. 00 eee Mi eo oo Fia. 7. A Volume. Fic. 8. A Peso. I numeri romani indicano i campioni. Equidistanza orizzontale: 5,10 mm. La velocità relativa di salita dell’acqua nelle rocce fu calcolata pro- fittando degli stessi cilindri del Wahnschaffe, misurando il tempo decorso dall’immersione nell'acqua, sino all'arrivo della stessa alla superficie supe- riore. I diversissimi valori sono qui riportati e rappresentati (Vedi fig. 9). INI --------p-b--- d Ù Ù ' Y i Ù ì Ù I] U i ’ Ù 1) ÙU I U U Ù I 7: IV 115 (CCA I numeri romani indicano i campioni. Equidistanza delle verticali mm. Da Velocità media in mm. per minuto primo: I MT Ae im 800 TL e) 32105 TI BRE LEA IV AE 6:20) Le notevoli velocità di salita mentre da una parte ci assicurano che l’acqua si eleva facilmente e che quindi può smaltirsi o per evaporazione 0 per la vita vegetale, se presente; dall'altra conferma che molto difficilmente l'acqua, allo stato liquido, possa praticamente penetrare nel seno della terra sino alla circolazione sotterranea. Le svariate strutture litologiche giustificano i diversi valori della velo- cità, essendo questi grossolanamente inversi alla piccolezza della grana ed alla quantità del materiale argilloso presente. * x x Il fenomeno inverso all'assorbimento dell'acqua non è stato trascurato. L'esperienza è stata eseguita riempiendo di roccia, carica d’acqua sino a completa tenuta, cubi (lato cm. 5) di rete metallica. Questi, così preparati, sì esposero a disseccare all'aria e furono pesati sino a peso costante. Nella tabella IV sono riportati i dati di osservazione e le relative perdite percen- tuali, sia in peso che in volume. Volume circa cm.? 150. TaBeLLA IV. Pesi in gr. nei giorni di Dicembre (1910) | Perdita a Numero Campioni)i======== == r-e@ecss@ 15 | 16 | 17 | 18 | 19 | 20 | 21 | 22 23 | 24 | 25 Peso | Volume I... |182.6/173.9 165.5|1587 152.5|146.0|140.0|137.2/135.2) — | — | 47.4°/ | 59.71 °/o II... {166.9/159.1|150.8|144.1{138.6{132.5|128.81127.3/126.4] — | — | 40.5 » | 55.81 » III. . |188.4/180.5/171.0/163.9]157.6|151.2/146.2/144.0]141.6| — | — | 46.8 » | 57.13 » | IV. . |176.0/167 0|158.4|150.9|144.9|138.0|132.9/129.4|126.1|125.2 50.8 » | 66.38. » Il disseccamento dei campioni è avvenuto con regolarità, con discreta ce- lerità (8 giorni e con {° = 11°-15°,5 C) e con insignificanti differenze, come appare manifesto dal grafico seguente (Vedi Fig. 10). 0 Se sì considera la tenuta d’acqua per le rocce in esame, per ha e per la profondità di m. 0.50, si ottengono le seguenti cifre: I ER Re Si 3 RIAIBSESO IRIS C 01 MS92400 NIE IERtanE Dit cai 870450 NL E e e 7010) Se le rocce rappresentassero i terreni autoctoni — ciò che nell’Agro sì verifica con troppa approssimazione — i numeri indicati rappresenterebbero LD e esattamente il quantitativo idrico corrispondente ad una completa irrigazione (prof. m. 0.50). Fic. 10. I numeri romani corrispondono ai campioni. Inoltre, conoscendo il valore dell'altezza annuale della pioggia per Roma (mm. 901,8 — Eredia) e supponendo che essa scendesse in una sola ripresa, non è difficile fissare lo strato corrispondente di roccia che ne rimarrebbe saturo, senza sgocciolamento. Esso sarebbe sempre inferiore al metro e par- ticolarmente : I TER IRON m. 0.745 IN RARESADLSI LA » 0.707 HIM: ene. » 0.678 PV » 0.940 Laonde nelle località in cui lo strato possiede un maggior spessore si può asserire che punta acqua praticamente può scendere a far parte dell’idrografia sotterranea. Di questo importantissimo fatto geologico ed idrologico non si tenne mai conto nè per l’Agro, nè per altre regioni in condizioni analoghe. La deduzione è tirata senza tener conto dello strato di terreno vegetale, dotato sempre di molta capacità idrica. L'osservazione poi ha un controllo diretto nella secchezza relativa delle gallerie scavate nelle rocce sperimentate, quando queste hanno uno spessore maggiore dell'indicato. == = — sa —-- —- a e Patologia vegetale. — Sulla batteriosi del pomodoro (Bacte- rium Brtosti n. sp.) ('). Nota preliminare del dott. G. L. Pa- VARINO, presentata dal Socio G. BrIosi. La bacteriosi della quale io intendo parlare, è quella riscontrata nel 1895 in diverse località della Francia dal Prillieux (?), il quale si limitò a rico- noscerne la natura batterica. Della stessa malattia si occuparono anche F. S. Earle (*) nel Nord Ame- rica, ed E. Rostrup (‘) ha osservato la sua diffusione in Inghilterra e Dani- marca come è ricordato nei trattati del Sorauer (9) e del Delacroix (Col nome di marciume dei frutti (/rui? 70%) venne da E. H. Smith (7) notata una malattia che sembra corrispondere alla batteriosi e che fu ritenuta come l'effetto di batterî producenti alterazioni consimili a quelle dovute a Fu- sarium. Anche in Italia, la malattia fu riscontrata dal Ferraris (3) in alcuni orti dei dintorni di Alba e fu segnalata dal Voglino (°) fin dal 1907 nella provincia di Torino. Lo scrivente ha potuto accertare che la malattia non è localizzata soltanto sui frutti più o meno deturpati da macchie depresse allargantesi all'apice, ma attacca tutte le parti della pianta e cioè i germogli, i pedun- ‘coli fiorali, i rami ed il fusto. I germogli ed i ramoscelli si presentano accartocciati e contorti, e sui rami e sul fusto si notano chiazze irregolari brune formanti talvolta stroz- zature e depressioni allungate secondo la direzione dei solchi naturali della pianta. (') Lavoro eseguito nell'Istituto botanico dell’ Università di Pavia. Il lavoro per esteso e corredato di tavola illustrativa verrà pubblicato negli Atti dell'Istituto botanico di Pavia. (?) Prillieux, Malad. des pl. agr., I, 1895, pag. 19. (°) Earle PF. S., Notes on some tomato diseases in Alabama. Coll. Stat. Bull., 108 1896, $ 19. (4) Rostrup E., Plantepatologie, 1902, S. 173. (5) Sorauer, PMlanzenkrank., 2 Band, 1908, pag. 80, 1909. (°) Delacroix, Malad. des pl. cultiv., p. 48, 1909. (*) Smith E. H., Z'he Blossom end rot of tomatoes. Massachussettes Agricult. Exper. Station Technical Bull, N. 3, 1907, pag. 19 e fig. 6. (*) Ferraris T., Trattato di pat. terap. veg., Fase. II, pag. 103, Alba, 1909. (°) Voglino, Ann. Accad. Agricolt., 1909, pag. 277, Torino, 1910. 3 — 396 — * x *% Nel pomodoro fu osservata un'altra malattia, chiamata pure datferzost, studiata da E. F. Smith (') che la ritenne comune ad altre solanacee e do- vuta ad un microrganismo che isolò e descrisse col nome di Bacterzum So- lanacearum. Gli autori sopracitati e cioè il Prillieux, l'Earle ed il Rostrup si limi- tarono a riconoscere che la malattia era dovuta a bastoncini che misurano da 0,3 a 1 di lunghezza e da 0,5 a 0,65 di larghezza, e che nelle culture formano zooglee assai compatte. Anche il Voglino dice che si tratta di un parassita molto simile al Bacterium Solanacearum. Invece l'agente patogeno della batteriosi dei frutti, da me studiato, è ancora assai poco conosciuto e manca di una determinazione specifica. In tale stato di cose io ho creduto opportuno riprendere lo studio della malattia, ed intraprendere le culture nei diversi mezzi nutritivi, allo scopo di isolare l'agente patogeno e determinarne con esattezza i caratteri morfo- logici e culturali. Come risulta dal confronto seguente, il batterio da me isolato è diverso dal Bacterium Solanacearum Smith. CARATTERI MORFOLOGICI E CULTURALI. Bacterium Solanacearum Smith. Batterî ellitici con restringimento, misuranti in certi casi 1,5 per 0,5. Optimum per lo sviluppo, 20-30 C. Colonie formanti intorbidamento alla superficie liquida e talvolta una sottile pseudo-pellicola. Colture in brodo. Colonie superficiali distinte che for- mano scotendo un intorbidamento uni- forme con abbondante precipitato bianco sporco. In generale le colture diventano brune. Gelatina in piatte. Le colonie superf. sono circolari, poco ispessite, di color bianco splen- dente e non producono liquefazione della gelatina. Le profonde sono cir- colari, giallastre o brunastre, a mar- gine ben definito. Per infissione il microrganismo cere- sce formando una specie di canale sottile, biancastro, senza causare li- quefazione di gelatina per lungo tem- po, neanche dopo un mese, a temp. di 20-27 C. Agar in piatte. Colonie superf., sono liscie, di co - lor bianco sporco. Le profonde sono irregolarmente rotonde od oblunghe con margine irregolare e di colore bruno o giallo bruno. Culture a striscio. Colonie liscie, lucenti, prima bian- che o bianco-sporche, poi giallo-spor- che ed in fine brune. (1) Smith E. F., Bacterial disease of the tomato, Washington, 1396. — 39 Per infissione si forma un canale con brevi proiezioni alla superf.; la cultura diventa dapprima bianca, poi giallo-sporca ed infine bruna. Anche l’agar diventa bruno dopo . alcune settimane. Cultura su patate. Vegetazione abbondante, lucente, prima bianca, poi giallo-sporca e bruna, e in fine quasi nera. Bacterium n. sp. Corti e tozzi bastoncini della lun- ghezza di 2-4 e dello spessore di 0,4-06. Optimum temp. ambiente 15-16 C. Colonie formanti pellicola compatta e persistente. Colonie che formano pellicola che sì distacca coll’agitazione e intorbida il liquido formando un piccolo de- posito in fondo alla provetta. Il brodo va colorandosi in giallo. Le colonie superf., dopo 48 ore mos- transi di già sotto forma di punti- {i — cinì giallicci, tondeggianti ed a con- torno regolare. Di poi, crescendo, di- ventano opache ed assumono un colo- rito giallo-limone ed un contorno irregolare e lobato. Le profonde re- stano gialliccie, puntiformi, tondeg- gianti od a forma di cote. Per infissione, il bacterio forma una specie di fittone con barbicine laterali, il quale sviluppandosi pro- duce nella gelatina una coppa di fu- sione. Il colorito della cultura va di- ventando sempre più giallo. Colonie superf., sono dentellate o lobate e divengono presto d'un color giallo-limone. Colonie rigogliose formanti patina irregolare poco rilevata e poco lucida, di color giallo sempre più intenso. Per infissione si forma un fittone gialliccio con spine laterali; alla su- perficie, la patina va degradando dal centro alla periferia e diventando di un giallo più intenso. Si forma una patina poco rilevata, irregolare. gialliecia e poco lucente. Dal confronto, di cui sopra, risulta che il microrganismo da me isolato non si può confondere col Bacterium Solanacearum Smith; e siccome fra i microrganismi, fin’ora descritti, altro non ve n'è che presenti gli stessi caratteri, così credo non vi sia dubbio trattarsi di una specie distinta e nuova che dedico al chiarissimo prof. G. Briosi, direttore del nostro Laboratorio e che chiamo senz'altro Bacterium Briosii n. sp. Per dimostrare il carattere patogeno del microrganismo furono da me fatte le seguenti esperienze. Ho tentato di infettare delle piante sane — appositamente coltivate — bagnandone le parti con brodo di cultura pura, cercando anche di facilitare l'infezione con ferite fatte con coltello sterilizzato, o ricorrendo alla inocula- zione dei frutti mediante siringa opportunamente sterilizzata. In tutti i modi ho potuto riprodurre la malattia sopra tutte le parti aeree della pianta, ma più facilmente in prossimità delle gemme ascellari e nei frutti. RenpiconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 47 CONCLUSIONE. La Batteriosi del frutto del pomodoro è dovuta ad una specie autonom da me chiamata Bacterium Briosti n. sp. Inoltre la malattia attacca non solo i frutti, ma tutte le parti aeree della pianta, producendo un processo patogeno da non potersi confondere coll’avvizzimento delle piante, quale venne descritto nella Bacteriosi dello Smith. Agronomia. — Za distruzione dei semi delle piante infeste per parte degli animali domestici. Nota di 0. MUNERATI, presen- tata dal Socio R. PIROTTA. In uno studio completo del problema della perpetuazione delle cattive erbe nei campi, la questione della eventuale distruzione dei semi da parte degli animali domestici (bovini, equini e ovini da un lato, e gallinacei dall'altro) deve far parte di un vasto programma di indagini specifiche. Riserbandomi di riferire, in un'ulteriore Memoria, i risultati delle mie osservazioni sulla conservazione della vitalità dei semi negli ammassi di stallatico variamente trattato, prendo in esame, nella odierna Nota, il compor- tamento dei semi stessi nel loro passaggio attraverso l'apparato digerente ('). CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA IMPOSTAZIONE DELLE ESPERIENZE. — Ho voluto innanzitutto ridurre le osservazioni a un numero limitato di specie effettivamente infeste, e i cui semi si possono normalmente trovare nei comuni foraggi. Eccone l’eleaco: Avena fatua L.; Vicia segetalîs, Thuill.; Vicia hirta, Balb.; Zathyrus Aphaca, L.; Rapistrum rugosum, (L.) Berg.; Sorghum halepense, Pers.; Rumex crispus, L.; Cirsium arvense, Scop.; Sonchus oleraceus, L.; Papaver Rhoeas, L.; Plantago lanceolata, L. Aggiungo che, più che l'esperimento di numerosissime specie, aveva valore, per me, la valutazione del comportamento delle specie più tipiche, in quanto a volume, conformazione e caratteri esteriori del seme: ciò avrebbe (1) Non mi fu possibile prendere visione che dei seguenti lavori, astrazion fatta dai contributi riguardanti le cuscute e le orobanche, che non vennero da me, finora, prese in esame; The effect of digestion and fermentation of manure on the vitality of seeds. The Maryland Agr. Exp. Station, Bull. 128, 1908 (by Edward Ingram Osvald). Commercial Feeding Stuffs. The viability of weed seeds in feeding Stuffs. Vermont Agric. Exp. Stat.; Bull. 131, 1907, e 138, 1909. Weed seeds in commercial feeding stuffs. Maine Agric. Station; Annual Reports. Comment germent des graines qui ont passées à travers une vache (0. Rostrup, Copenhagen, 1900). — Yo permesso di mettere insieme degli aggruppamenti ai quali aprioristicamente riferire qualunque seme, anche direttamente non considerato. Ho preso invece in considerazione un fattore precedentemente trascurato, cioè l'eà del seme, che, ai riflessi della conservazione della vitalità dell’em- brione, ha, per alcune specie, valor sostanziale. Alle su citate sementi univo poi spesso dei semi di frumento, di gra- noturco, di avena comune e di altre specie coltivate, per determinarne la resistenza in confronto. Il pastone di farina di granoturco ‘e frumento, o di fagiuoli cotti, servì costantemente di veicolo dei semi, mentre subito dopo si somministrava, agli animali in esperimento, del fieno comune (E Quanto a separare le sementi dalle deiezioni per determinare la per- centuale delle integre e delle alterate, era mio intendimento di far passare sulle deiezioni stesse un abbondante filo d'acqua in modo da ricuperare, in una serie di crivelli a maglia gradatamente più piccola, i semi apparente- mente intatti, e già divisi secondo la loro grossezza; ma l'insufficienza e la impraticità del metodo si palesarono immediatamente (*), onde si dovette procedere a una separazione richiedente maggior pazienza e maggior dili- genza. Una parte delle deiezioni fu sempre tenuta in disparte per essere con- servata nel cumulo di stallatico presso i semi postivi direttamente, per il necessario raffronto. I semi separati venivano collocati in germinatoi per de- terminarne la vitalità. ESPERIENZE CON BOVINI. — Una prima serie di esperienze (prove e controprove) fu compiuta presso il sig. Giuseppe Vicenzetti, a Cantonazzo (Rovigo), con due vaccine di due anni e mezzo. Veicolo dei semi: pastone di farina di granoturco e frumento. Una seconda serie di esperienze (prove e controprove) fu compiuta a Loreo, nelle aziende Co: Papadopoli (dirette dal Comm. Bisinotto) con gli stessi semi. Le sementi furono sempre mescolate al pastone di fagiuoli cotti. (*) Si potrebbe osservare che nel fieno possono casualmente trovarsi dei semi delle Stesse specie in esperimento: si ebbe, a tale riguardo, la cura di fornire fieno di primo taglio, che è quasi costantemente privo di sementi, per quanto, in fondo, l'eventuale pre- senza di qualche seme di quelli in prova, non avrebbe modificato o scosso il valore delle deduzioni. (*) Non essendo le deiezioni costituite da sostanze solubili, 0, almeno, tanto finamente divise da passare facilmente, sotto l’azione della corrente d’acqua, attraverso vagli anche a larga maglia, i frammenti aggruppati ostruiscono la maglia dei vagli sottostanti così da impedire persino il normale defluire dell’acqua di lavaggio. A codesto inconveniente si ovvierebbe somministrando, anche nei giorni successivi a quello iniziale, esclusivamente pastoni; ma le condizioni non sarebbero allora normali. — 3600 — Osservazioni e deduzioni. — La duplice serie di esperienze mi autorizza a considerare come definitive le seguenti conclusioni : 1°. La maggior parte dei semi passanti inutilizzati attraverso l'appa- rato digerente si trovano nelle deiezioni espulse 24 a 48 ore dalla inge- stione; una minor parte si trova nelle deiezioni delle seconde dodici ore, e una piccola parte fino a 72-80 ore dopo. 9°. L'età, nei bovini, non esercita un'influenza specifica sul comporta- mento dei semi attraverso il loro sistema digerente: è il caso di osservare che, nelle condizioni normali, i bovini si mettono fuori servizio quando sono ancora relativamente giovani, quando cioè il loro apparato dentario non è logorato. 3°. Il comportamento delle varie specie di semi permette di fare una netta distinzione: a) fra sementi di leguminose (sementi normalmente rotondeggianti e a tegumento più o meno duro) da un lato, e sementi di non leguminose (normalmente non rotondeggianti e a tegumento non duro) dall'altro; b) e nelle sementi di leguminose: tra semi somministrati nell’anno stesso in cui si raccolgono (semi nuovi) e semi di annate precedenti (semi vecchi). 4°, Le sementi di una data specie non leguminosa si comportano, di norma, alla stessa maniera, qualunque sia la loro età: pressochè la stessa percentuale passa inutilizzata, e la stessa percentuale viene distrutta, sia che si tratti di semi dell'anno, sia di semi vecchi. 5°. L'Avena fatua (semi grossi e piccoli, freschi o vecchi) viene quasi completamente distrutta dai bovini. In tutte le prove, i semi si trovarono scomparsi in proporzione del 97-98 per cento! 6°. Meno dell’Avena fatua, ma pur tuttavia fortemente decimati sono 1 semi delle altre specie non leguminose più o meno infeste: Rumex crispus (85-90 °/): Rapistrum rugosum (85-90 °/); Cersium arvense (70-75 °/o; Sorghum halepense (90-95 °/o); Papaver Rhoeas (60-70 °/0). In generale. quanto più ì semi sono piccoli e rotondeggianti, tanto meno facilmente vengono distrutti, certo perchè sfuggono all’azione dell’apparato masticatore. 7°. Le sementi delle più comuni specie leguminose infeste della bassa valle del Po (Vicia segetalis, Vicia hirta, Lathyrus Aphaca) sì comportano diversamente secondo la loro età. Ecco le cifre medie risultanti dalle nostre prove: Semi distratti Semi rigonfiatisi Semi rimasti duri Vicia segetalis dell'annata BONO LOTO 40 %/o di un anno di età 70 » 15 » 15 » di due o tre anni 70 » 20» 10 > — 561 — Semi distrutti Semi rigonfiatisi Semi rimasti duri Vicia hirta dell'annata COMI 0 30 °/ di un anno di età 65 » 20» 15 » di due o tre anni 78» 15 » CINE Lathyrus Aphaca dell'annata 65 °/ OL BOO di un anno di età 72 » 15.0 13 » di due o tre anni 80 » 12» 8» I suesposti dati non hanno, come si comprende, un valore assoluto, po- tendo subire variazioni secondo il momento dell’anno in cui si compie la prova, secondo gli animali, secondo il foraggio che serve da veicolo, ecc. Essi permettono tuttavia di concludere in via categorica che guanto più nuovo è un seme di leguminosa infesta, altrettanto meno facilmente viene distrutto nel suo passaggio attraverso l'organismo dei bovini e dei rumi- nanti in genere (?). La differenza di comportamento tra semi vecchi e nuovi, deve, a mio vedere, essere così interpretata: all'atto della prima masticazione, ‘© i semi vengono senza distinzione franti e, travolti nei movimenti del bolo, si disfanno completamente; oppure, sfuggendo all'apparato masticatore, pas- sano tal quali nello stomaco: quivi, trovandosi in un vero e proprio termo- stato, o sono vecchi, e in gran parte si gonfiano e rammolliscono, 0 sono nuovi (dell'anno), e in buona parte restano indifferenti all’azione dell’umi- dità e del calore, mantenendosi inalterati e duri. Quando il bolo torna in bocca per la ruminazione, i semi che si erano inturgiditi vengono quasi to- talmente schiacciati, mentre i semi rimasti duri in parte sfuggono ancora per tornare definitivamente nello stomaco. Lungo il percorso dell'intestino, in parte (forse perchè contusi) a lor volta si rigonfiano, e in parte fuoriescono stabilmente duri. Vedremo più tardi che i semi rimasti duri si comportano, in quanto a vitalità dell'embrione, come semi assolutamente normali. 8°. I semi di leguminose, paragonati a quelli delle specie non legumi- nose, presi nel loro complesso, si mostrano assai più resistenti. I semi di Sorghum halepense per esempio, e più ancora quelli di Avena fatua, che sono fra le piante più temute, si palesano sensibili e delicatissimi. Può ri- tenersi che questi semi, sia passando attraverso il tubo digerente degli ani- (*) Gli sperimentatori delle stazioni americane, che si occuparono soprattutto dei Commercial feeding stuffs (panelli costituiti in buona parte da scarti di molino, e quindi molto ricchi di semi di cattive erbe), debbono avere operato prevalentemente con semi vecchi. La differenza di comportamento tra semi vecchi e nuovi è troppo manifesta perchè non risalti all'occhio di chi eseguisca una prova di confronto. — 362 — mali, sia con una breve ulteriore permanenza in concimaia, vengano com- pletamente distrutti. ESPERIENZE CON CAVALLI. — Siccome fu più volte affermato, in seguito a constatazioni dei pratici, che l'età del cavallo ha una decisa influenza sul modo col quale viene distrutta o si conserva l’avena comune nel passaggio attraverso il suo organismo, prendemmo per le nostre prove due cavalle di diversa età: una puledra di tre anni e mezzo e una cavalla di 14 anni. Ad entrambe furono somministrati i semi delle stesse specie che ci servirono per le esperienze coi bovini, alternatamente vecchi e nuovi, con prove e con- troprove. Le successive somministrazioni abbracciarono il periodo 29 luglio-12 agosto. Osservazioni sussidiarie compiemmo poi saltuariamente con altri cavalli. Le deduzioni cui siamo giunti, possono così formularsi : 1°) La maggior quantità di sementi passate inutilizzate attraverso l'or- ganismo dei cavalli si trova nelle deiezioni del giorno successivo a quello della ingestione; quantità minima o nulla nel terzo giorno, media nel secondo. 2°) .A differenza dei bovini, l'individualità nel cavallo è fattore che non deve essere trascurato. Non solo si hanno variazioni secondo l'età, ma ancora secondo la voracità dei soggetti: a) quanto all’età, i cavalli vecchi, ad apparato masticatore logoro, lasciano passare inutilizzato un numero di semi molto maggiore che non i cavalli giovani a tavola dentaria normale; 5) quanto alla voracità, dal modo col quale un cavallo mangia, ad es., una razione di avena, si può desumere se nelle deiezioni vi saranno semi integri in maggiore o minore proporzione. 3°) A differenza dei bovini, i cavalli distruggono soprattutto i semi rotondi (veccie, latiri, 97-99 °/o), mentre lasciano passare in discreta percen- tuale l’avena fatua (4-7 °/), i rumea, ì rapistri (5-8 °/,) e, più ancora, l'avena comune (7-15 °/,). La distruzione dei semi di leguminose non varia sensibilmente, sia che si tratti di sementi vecchie, sia di sementi nuove (dell’anno). L'avena fatua, come si vede, è molto meno risparmiata dell’avena co- mune: forse perchè il tegumento di questa è levigato e ad incrostazione silicea e perciò capace di scivolare, di sfuggire all'apparato masticatore, mentre l’avena fatua ha tegumento ruvido o meno resistente. ESPERIENZE CON PECORE. — Era per me di particolarissima importanza il compiere accurate e minuziose indagini sul comportamento dei semi di piante infeste attraverso l'organismo degli ovini. Soprattutto mi interessava — 363 — di controllare le risultanze di Hills e Jones della Stazione agronomica del Vermont ('), i quali avevano concluso che, a differenza dei cavalli e dei bovini, le pecore (e il pollame) distruggono completamente le sementi delle erbacce. Sin dalla primavera del 1909, il cav. Guido Conti, direttore del teni- mento « Gallare » di Migliaro (Ferrara), metteva cortesemente a mia dispo- sizione due pecore di media età, di razza modenese, che per lo spazio di due mesi (luglio e agosto) sottoposi alle prove più svariate di alimentazione, con sementi, infeste o meno, le più diverse e di diversa ctà. Or ecco le più importanti deduzioni: 1?) La maggior parte delle sementi passate inutilizzate attraverso l’or- ganismo della pecora si hanno 24-48 ore dopo l'avvenuta ingestione. 2°) La distruzione delle sementi delle più comuni specie non leguminose (coltivate e spontanee) della bassa Valle del Po, da parte della pecora, è pressochè completa. Rarissimi sono gli esemplari di sementi di Rapistro, Rumex, Sorghum halepense, ecc., e affatto negativa la ricerca di Avena fatua, di frumento, granoturco e altri semi a tegumento delicato. 3“) Il comportamento dei semi delle specie leguminose attraverso l’or- ganismo degli ovini ha molta analogia con il comportamento degli stessi semi attraverso l'apparato digerente dei bovini : permangono, cioè, le differenze tra semi vecchi e semi nuovi, esclusa però, tra le specie considerate, la Vicia hirta, i cui semi sono molto più grossi e generalmente più fragili. I semi di Vicia segetalis e di Lathyrus Aphaca, quasi totalmente di- strutti se vecchi, passano inutilizzati, cioè integri e capacissimi di germinare, in ragione di circa il 10 per cento, se dell'annata. Dei semi vecchi di Vicia segetalis sì trovano nelle deiezioni frammenti di tegumento, mentre parecchi dei semi vecchi di Lathyrus Aphaca si presentano turgidi e deformati, per quanto integri. LA FACOLTÀ GERMINATIVA DEI SEMI PASSANTI INUTILIZZATI ATTRA- VERSO L'ORGANISMO DEGLI ANIMALI. — I semi, che non vengono distrutti nel loro passaggio attraverso l'organismo degli animali, conservano la loro facoltà germinativa normale. Tra i semi di leguminose, quelli che già si trovano rigonfiati pèrdono tosto la loro vitalità se non si pongono subito in germinatoio; ma anche quelli che si mettono immediatamente in condizioni per continuare la loro evoluzione, in buona parte (particolarmente se vecchi) si spappolano. Ecco alcune cifre: Numero 100 semi di Vicia segetalis del 1907, trovati rigonfi subito dopo il loro passaggio attraverso un bovino (posti a germinare il 26 luglio 1909): al 3 agosto germinati 17; i rimanenti spappolatisi. (') Ved. pubblicazioni citate. — 364 — Num. 100 semi di Vicia segetalis del 1909, trovati rigonfi su- bito dopo il loro passaggio attraverso un bovino (posti a germinare il 29 luglio 1909): al 10 agosto germinati 28; i rimanenti spappolatisi. Num. 50 semi di Lathyrus Aphaca del 1907, trovati inturgiditi dopo il loro passaggio attraverso una pecora (messi a germinare il 12 agosto 1909): al 20 agosto germinati 12; i rimanenti spappolatisi. Num. 50 semi di Lathyrus Aphaca del 1909, rigonfiati attra- verso il tubo digerente di una pecora (messi a germinare il 12 agosto 1909) : al 23 agosto germinati 25; i rimanenti spappolatisi. I semi di leguminose che passano duri non si differenziano minima- mente dai semi duri normali della medesima partita, come appare da questo prospetto che congloba i dati riferentisi agli stessi gruppi di semi di cui alle cifre precedenti: Germinazione di semi trovati duri __°’0——.—. >= Ue — r—_—iiliopu=-7 Vicia Vicia Lathyrus Lathyrus segetalis segetalis Aphaca Aphaca del 1907 del 1909 del 1907 del 1909 Semi germinati nel 1909 435% 28 %/o SUA ZIO L) ” » 1910 è ” 25 » 12 » Ta Ritrovati, duri Net 12 » 21 » Oa 27 7 I semi di specie non leguminose palesano sempre, nel loro comporta mento, delle anomalie che mal si giunge ad interpretare. Molte sementi così dette fresche, anche dopo lunghi mesi di permanenza in germinatoio, non manifestano alcuna alterazione, per quanto siano rimaste in gran parte inattive. Siccome si tratta tuttavia di attributo comune anche agli stessi semi normali, si può affermare che quando essi passano inutilizzati attra- verso l'organismo di un animale, senza essere stati profondamente lesi, non si differenziano, se posti in grado di evolversi, dai semi normali. ESAME COMPARATIVO DEI RISULTATI E CONCLUSIONI. Le sementi delle specie spontanee e coltivate si comportano variamente, secondo che sì facciano passare attraverso l'organismo dei bovini e degli ovini da un lato, e cavalli dall'altro. I semi rotondeggianti di leguminose (veccie varie, latiri) vengono distrutti dal cavallo assai più che dai bovini; molti altri semi (avena fatua e ana- loghi) passano più facilmente inutilizzati attraverso l'organismo del cavallo che dei bovini. Caratteristico, nei ruminanti, il comportamento dei semi di leguminose secondo la loro età: i semi vecchi (facilmente rigonfiabili) sono molto più distrutti dei semi nuovi o dell'annata (impermeabili, in grande maggioranza, all'acqua). La prontezza germinativa nei semi di leguminose, è dunque, un fattore di debolezza. — 365 — À prescindere dai gallinacei, gli ovini posseggono al più alto grado la facoltà di distruggere i semi ingeriti. Gli ovini, animali per eccellenza delle terre povere, cercano forse di trarre il massimo profitto dagli alimenti, metten- doli, in conseguenza di una spinta e perfetta triturazione ('), nelle più pro- pizie condizioni per essere digeriti e assimilati. La facoltà germinativa dei semi trovantisi nelle deiezioni può ritenersi normale, non dissimile cioè da quella che avrebbero avuto gli stessi semi se non fossero passati attraverso l'apparato digerente. Detti semi, nelle con- dizioni ordinarie, in ispecie dove si fa dell’agricoltura intensiva, vanno portati nel cumulo di stallatico, e solo in condizioni eccezionali (animali al pa- scolo, ecc.) cadono direttamente sul terreno. Ora, mentre questi ultimi pos- sono essere considerati capaci di conservare, in buona percentuale, la vitalità loro, la vitalità della grandissima maggioranza dei primi va ad essere irri- mediabilmente compromessa (*). Presa la questione nelle sue linee sostanziali, può concludersi che il ciclo delle sementi ingerite dagli animali domestici si chiuda tutto al più quando esse giungono al cumulo di stallatico e che pertanto gli animali domestici costituiscono, nei paesi ad agricoltura avanzata, un fattore secon- dario di perpetuazione delle piante infeste. Agronomia. — L'azione efficiente dell'apparato masticatore nella distruzione dei semi da parte degli animali domestici. Nota del prof. 0. MUNERATI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (*) Ved. mia Nota: L'azione efficiente dell'apparato masticatore nella distruzione dei semi da parte degli animali domestici. (*) Ved. mia Nota: Sulla presunta perpetuazione delle specie infeste attraverso lo stallatico. RenDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 48 Patologia vegetale. — Sul parassitsmo di Diaporthe pa- rasitica Murr. per il castagno. Nota di È. PANTANELLI, pre- sentata dal Socio G. CUBONI. Se le notizie che pervengono dall'America non sono esagerate, sì può dire che la « canker o bark-disease » del castagno prodotta da Diaporthe parasitica Murill = Valsonectria parasitica Rehm, sia la più disastrosa malattia che si conosca per gli alberi d'alto fusto. Infatti le malattie fun- gine più pericolose per gli alberi forestali, sono quelle prodotte da Trametes pini, Armillaria mellea, Dematophora sp. ece., le quali però non arrivano ad uccidere un albero che in parecchi anni, e, per essere funghi sotterranei, sono legati a condizioni speciali di terreno. Invece, secondo. Metealf e Morrill la D. parasitica richiede solo un'estate calda ed umida per espandersi con rapidità simile a quella con cui abbiamo visto diffondersi l’oidio della quercia in Europa, ma con ben più gravi conseguenze : la morte dell'albero in due anni. i La malattia fu osservata per la prima volta nell'estate del 1905 da Merkel (') nel Giardino Zoologico di New-York, e questi richiamò su di essa l’attenzione del dott. W. A. Murrill del Giardino Botanico di quella città. A Murrill si deve lo studio scientifico della malattia, che egli dal 1905 al 1908 ha descritto in diverse Note (*), la cui traduzione è stata opportu- namente inviata dal cav. Guidi Rossati, R. Enotecnico a New-York, al nostro Ministero di Agricoltura (*), il quale incaricò la nostra Stazione di ricerche in proposito, per stabilire se questo fungo sia nuovo per l'Italia, se sia capace di attaccare il castagno europeo nel nostro clima. Infatti il ca- stagno che si coltiva agli Stati Uniti è una varietà differente dalla comune Castanea vesca L., e negli Stati in cui si è sviluppata la malattia, l'in- verno è estremamente rigido, essendo frequenti minimi di — 25° e — 30° C. Il Ministero di Agricoltura degli Stati Uniti ha incaricato degli studî della malattia il Laboratorio di Patologia forestale di Washington diretto (1) Merkel H. W., A deadly fungus on the american chestnut. Ann. Rept. N. Y. Zool. Society, X (1906), pp. 97-103. (*) Murrill W. A., A serious chestnut disease. Journ. N. Y. Bot. Garden, VII (1906), pp. 143-153; Id. Fusther remarks on a serious chestnut disease. Ibidem, pp. 203-211; Id. A new chestnut disease (diagnosi del fungo’. Torreya, VI (1906), pp. 186-189; Id., The spread of the chestnut disease. Journ. N. Y. Bot. Garden, IX (1908), pp. 23-29; TAd., The chestnut canker, Torreya, VIII (1908) (estr.). (*) Ne abbiamo già fatto parola in: Relaz. s. attiv. d. R. Staz. d. Patol. veg. per il 1908-1909, Roma (G. Bertero, 1910, p. 40). 5 ae dal dott. Haven Metcalf. Questi ci ha inviato nel gennaio ed aprile 1909, entro astucci di latta saldati, alcuni rametti di castagno infetti, che ho ado- perato per controllare i dati del dott. Murrill. La malattia si presenta sui rami con chiazze allungate, di color rosso bronzato o scolorite e leggermente depresse, che hanno fatto dare alla ma- lattia il nome di « canker-disease »; questo nome non sarebbe esatto, inten- dendosi per cancro di un albero alterazioni ben diverse. In queste chiazze la corteccia è tutta seminata di pustule, da cui il fungo erompe in forma di piccoli cuscinetti di colore giallo di Siena. Nel materiale americano raccolto in autunno, questi cuscinetti erano costituiti da un feltro miceliare, da cui in camera umida si formarono entro poche ore innumerevoli microconidii a forma di bastoncello, lunghi 3,8 u e grossi 1,7 &, diritti, arrotondati alle estremità, i quali tutti insieme costituivano grosse gocce gialle alla superficie delle pustule. Lo stroma miceliare s'insinuava fra i diversi strati della corteccia, e mandava un fitto reticolato di ife fino al cambium, che appariva qua e là imbrunito e distrutto, raramente fino al legno, la cui porzione periferica era in tal caso invasa da ife del fungo ed in preda a gommosi. In natura pare che il legno non venga invaso, come si osserva anche in altre Valsacee, e il danno consiste nella morte dei tessuti corticali, che sotto l'influenza del fungo si compie nella stessa estate; la porzione di ramo situata sopra al focolare d’'infezione si secca. Dai microconidii seminati su agar all’estratto di castagno ottenni mi- celio biancastro, che qua e là produsse noduli stromatici consistenti, dai quali poi si formarono masse di microconidii di color giallo vivo. Inoculati in rametti di castagno di 5-20 mm. di diametro, sterilizzati a vapore, i microconidii dànno subito un micelio, che in un mese a 25° 0. invadono tutto il substrato, fabbricando cuscinetti stromatici e picnidii con- camerati che sollevano i diversi strati di periderma, ed erompendo poi alla superficie con micelio ed una massa tale di microconidii da costituire cor- doni attorcigliati, gialli, come si osserva nelle Valsa, Nectria ece., in pri- mavera, e come anche Murrill e Metcalf indicano per il fungo in parola. Anche il micelio superficiale è giallo vivo per un lipocromo in gocce che contengono le sue cellule; il micelio interno è gialliccio. Inoculati i rametti staccati di castagno vivi, lavati con sublimato all'1°/o ed acqua sterile, tenuti umidi in grandi provette sterili o in vasi di vetro coperti, i microconidii dànno pure micelio, che dopo due settimane a 25° C. ha già invaso il periderma; dopo due mesi erompono alla superficie i noduli stromatici ed i microconidii, ma intanto i rametti erano già imbruniti e morti. Dopo 8 mesi circa la produzione dei picnidii era appena cominciata in questi rami. Tale portamento fa pensare che la D. parasitica non formi picnidii sui rami vivi e sani, ma più tardi, dopo la morte del ramo. — 368 — Il materiale americano raccolto alla fine dell'inverno portava i peritecii. Essi hanno la forma di fiaschetti con collo lungo fino a 3-4 mm., parete nera esternamente, incolora di dentro, e stanno affondati, in numero di 13-18 per pustula, nello stroma miceliare, sotto al cuscinetto esteriore, in cui si aprono i loro colli. La dimensione e forma degli asci e delle ascospore bicellulari giusti- ficano a mio avviso la diagnosi ed il nome di Diaporthe parasitica dato da Murrill. Rehm invece (') ritiene che sia una Valsonectria. Questo ge- nere, stabilito da Spegazzini nel 1883, comprende due sole specie saprofi- tiche, secondo Saccardo ha affinità con alcune Diaporthe, ma possiede peri- tecii circinanti, asci cilindrici e troncati all'apice, caratteri che mancano nel fungo in parola, che ha tutti i caratteri delle Diaporihe. La forma conidiale ricorda un ifomicete assai comune anche in Europa sui castagni e su parecchi altri alberi, il quale, secondo cortese comunica- zione del prof. P. A. Saccardo, sarebbe la Maemuspora microspora. Questa a sua volta sarebbe la forma picnidica di Diatrype stigma, un altra sferiacea non molto lontana dalla Diaporthe, di parassitismo assai dubbio. Però lo stato picnidico del fungo in questione non può essere confuso con quello di Diatrype stigma, perchè i picnidii sono nel primo racchiusi nello stroma e concamerati, i microconidii o picnospore che vi si originano non sono ricurvi, nè lungamente filiformi, nè hanno le dimensioni di quelli di Naemaspora microspora. Essi appartengono indubbiamente alla D. pa- rasitica, perchè li ho ottenuti identici in cultura pura su rami di castagno tanto partendo dai microconidii, quanto dalle ascospore di Diaporthe. Invece finora non ho potuto osservare la formazione dei peritecii par- tendo dai microconidii o dalle ascospore, in quasi due anni di cultura su rami o su agar al castagno. Pare che anche Murrill e Metcalf non siano riusciti ad ottenere peritecii in cultura pura. Può darsi che occorra l'azione di ripetuti inverni per determinare la formazione dei peritecii, e certe con- dizioni di substrato che difficilmente si possono realizzare in cultura pura, quale la grossezza della scorza. Si conoscono altre cinque Diaporthe sul Castagno, di cui quattro in Europa, ed una raccolta presso New-York: D. castanea (Tul.) Sace. trovata in Italia e Francia su rametti morti: » leiphaemoides (Fuck.) Sace.» Germania — ’ Ù » innata (B. e C.) Sacc. » New-York — ’ ” » castaneti Nits. ” Italia e Germania > ” » nigrocincta Pass. ” Francia — ) ” (1) Relm H., Annales mycol., V (1907), pag. 210. — 369 — Ma le prime due, che Saccardo crede identiche fra loro (') hanno asci appendiculati, clavati, ascospore uniseriate; la terza ha peritecii circinanti, con collo breve, ascospore acuminate alle due estremità; la quarta produce linee oscure nella corteccia e nel legno, peritecii disposti in serie, o in 2-5 per pustula, che si affondano talvolta nel legno, con collo breve; la quinta non ha parafisi, ma le ascospore sono disposte in una sola serie nell’asco. Le dimensioni sono molto diverse (w): microconidii asci ascospore D. castanea 6-7 X 1,5-2 40-55 X 8-9 14-18 X 3-3,5 » leiphaemoides 1-10X 3-4 48X 10 16-18 Xx 3-4 » innata eli — 7-8 X » castaneti — 70-80 X 10,8 15-18 X 4-5 » migrocineta — 110 X 10 12-20 X 7,5 ok sec. Murrill 2-3 X 1 45-50 X 9 9-10 X 4-5 » parasttica » Me(media) 3,8 X 1,7 44,1 X 8,7 8,6 X 4,0 Pare dunque che si tratti realmente di una nuova specie di Diaporthe, e certamente essa sarebbe nuova per l'Europa. Ciò che a noi importa stabilire è, se essa sia tanto violenta da ucci- dere i castagni adulti in così breve tempo, come affermano i patologi ame- ricani (*). Murrill ha inoculato con suceesso piccoli castagni in vaso ed in vi- vaio; il fungo si sviluppò, specialmente se le piante erano tenute in luogo molto umido, e i rami inoculati intristirono e si seccarono. Metcalf (3) ba eseguito nel 1909, 500 inoculazioni coronate da successo su castagni in vaso ed all'aperto. Siccome il castagno edule americano è una varietà diversa dalle nostre, era necessario verificare con maggior sicurezza se ‘la D. parasttica possa attaccare il castagno nel nostro clima, perchè a dir vero i resultati del 1909 lasciavano credere che questo fungo si sviluppi solamente sulle parti morenti, ed abbia quindi un carattere più saprofitario che parassitario. Mi sono però limitato ad inoculare piccoli castagni allevati in vaso nel nostro Laboratorio, in una piccola serra ben custodita. prendendo le più rigorose precauzioni per evitare il trasporto dei germi del parassita. (*) Sylloge, I (1882), pag. 606. (?) Hodson E. R., Frtent and importance ofthe chestnut bark disease. U.S. D. A., Bur. of Plant Ind., Bull. N. 122 (ottobre. 1908); Mickleborough, E. S. R., 1910, 22, 652. Metcalf H. e Collins J. F., The present status ofthe chestnut bark disease. Ibidem. Bull. N. 141, parte V (30 VIII, 1909). (*) Metcalf H.. The chesinut bark disease. Science, XXXI (1910), pag. 748. — 310 — I microconidii o le ascospore furono ripartiti in gelatina fluida (5 °/) all'estratto di scorza di castagno con 1°/, di glucosio, ove anche le asco- spore germinano in poche ore a temperatura ordinaria, emettendo un tubo da ognuna delle due cellule che le costituiscono; e questa gelatina fu ap- plicata entro sottili tagli interessanti solamente il periderma, oppure pene- tranti fino al cambio, o sopra abrasioni che lasciavano a nudo la corteccia viva o addirittura il cambio. In altri casi la gelatina con le ascospore 0 i microconidii fu deposta all’ascella dei rametti, che secondo Metcalf costituisce una delle porte d'entrata del fungo; in altri casi fu introdotta fra le squame delle gemme. I tagli e le scorticature furono poi coperte, 24 ore dopo la inoculazione, con gelatina sterile al 10 °/, perchè non si prosciugassero. Le inoculazioni con microconidii prelevati dalle culture pure su agar all’estratto di scorza di castagno furono eseguite il 15 febbraio, quelle con ascospore prelevate dal materiale americano conservato per un anno all'asciutto il 3 marzo 1910. Durante l'estate, in due degli 8 castagni inoculati con ascospore sì sec- carono i germogli, in altri due si seccarono in autunno, e così pure tre degli 8 castagni inoculati con microconidii. In questi 7 casi l'essiccamento dei germogli è stato rapidissimo, senza speciali alterazioni delle foglie, che si prosciugarono in toto al pari del ramo o del fusto fino al punto ove si era sviluppato il micelio nella scorza. In questo punto si è formata qualche tempo dopo la macchia scolorata rossastra, da cui poi in gennaio hanno cominciato ad erompere gli stromi gialli del fungo. In un altro dei ca- stagni inoculati con microconidii dopo la caduta delle foglie si è comin- ciata a formare durante l'inverno la macchia scolorata; in questa regione il parenchima corticale è imbrunito ed invaso dai filamenti miceliari del fungo. Il micelio invia qualche filamento fino al cambio; sulla sua traccia il tessuto imbrunisce e muore fino ad una certa distanza, come se fosse avve- lenato da prodotti di secrezione del micelio. Finora (gennaio 1910) questo ha prodotto solo stromi, microconidii e picnidii concamerati nelle piante in- fette. Esso si è sviluppato solo alla base di questi giovani castagni, dove la scorza aveva già 3 anni; le iniezioni sui rami di 1-2 anni non hanno dato alcun resultato, e così pure le infezioni per semplice contatto. Occorre una ferita perchè il fungo penetri nel tessuto vivo. Sotto la zona invasa il fusto è rimasto vivo ed anzi nei due castagni seccati per i primi ha cac- ciato nuovi germogli in autunno. L'elevata proporzione d'infezioni con esito positivo e la rapida morte dei castagni in vaso mostrano che questo fungo è realmente un parassita pericoloso non solo per la Castanea vesca var. americana Michaux, ma anche per il nostro castagno, tanto più che molte delle sue ascospore sì sono con- servate germinabili all’asciutto per due anni. La loro germinazione comin- ciava in 2-3 ore a temperatura ordinaria in estratto di scorza di castagno addizionato di 1°/ di glucosio quando erano fresche, dopo due anni richiede 1-2 giorni. I microconidii si sono mostrati altrettanto virulenti, sebbene da un anno fossero coltivati su agar all’estratto di castagno, e la facilità con cui si formano i picnidii anche in rami sottili dà a pensare, perchè ognuno di essi produce un numero sterminato di conidii che si spandono alla su- perficie del fusto durante la stagione umida e resistono all'essiccamento anche per 2 anni. Quanto alle cause fisiologiche che predispongono la corteccia del ca- stagno alla penetrazione della Diaporthe parasitica, Clinton (*) ritiene che i freddi invernali abbiano la massima importanza, opinione già manifestata anche da Murrill. Metcalf invece dà più peso alle ferite (1910). Nelle mie prove il fungo penetrò solamente per i tagli; il suo sviluppo nei tessuti dell'ospite si è compito in piena estate, i picnidii però si sono formati dopo i primi freddi. Ambedue questi fattori hanno probabilmente importanza per il cielo biologico del fungo, e certo l'età e lo stato della scorza hanno una importanza non minore. perchè la scorza di un anno non viene attaccata, e i peritecii si formano solamente nelle corteccie di diversi anni. L'infezione è così rapida e dannosa per la vitalità dell'albero, che se invadesse i nostri castagneti si andrebbe probabilmente incontro a un di- sastro, come è successo agli Stati Uniti, ove secondo Metcalf, 2 milioni di castagni ne perirono dal 1906 al 1909. Non resterebbe allora altro scampo se non la sostituzione del castagno giapponese, Castanea crenata Sieb. e Zucc., che è l’unica specie immune secondo le prove di Metealf (*). Ma sic- come il castagno giapponese, che già è stato esperimentato in Francia contro il mal dell'inchiostro da Prunet (*) come portinnesto resistente (4), dà frutti o legname peggiori del nostro castagno o di quello americano, occorrerebbe ricorrere alla ibridazione per ottenere varietà nuove di castagno, che alla immunità contro la Diaporthe uniscano la squisitezza del frutto e le buone doti del legname, còmpito a cui si è accinto il Laboratorio di Patologia fo- restale di Washington. (*) Connecticut State Agric. Exp. Station, Report of the Botanist for 1907-1908. (*) Zhe immunity of the chestnut to the bark disease U. S. Dep. Agric. Bur. of Plant Ind., Bull. N. 121 (febbraio 1908). (*) Prunet et Gigord, Za reconstitution des chataigniers à l'aide de chataigniers exotigues. Bull. Soc. Nat. Agric.. 1907, pp. 64-65; Prunet, Comptes rendus, CLI, 1909, pag. 19-46; Progrès agr. et vit., XXVII (1910), I Sem., pag. 124 e 634; cfr. anche J. da Camara Pestaîia, Bul. R. Soc. Port. Agric., IX (1907), pp. 686-687. (*) Farcy, Progrès agr. et vit., XXVII (1910), I Sem,, pag. 592, dice che si otten- gono migliori resultati contro il mal dell'inchiostro innestando il castagno sulla quercia, ma ciò non varrebbe contro la Diaporthe. — 972 — Intanto, dopo aver trovato che questo nuovo nemico americano è infesto anche ai nostri castagni, non possiamo che associarci a Metcalf ed Henry (') nel richiamare su di esso l'attenzione dei paesi castanicoli, affinchè invitino i rispettivi Governi ad unirsi per impedire l'importazione di qualunque ma- teriale di castagno, soprattutto della scorza, dagli Stati Uniti. Fisiologia. — Contributi alla Fisiologia del Labirinto (*). Il. Un metodo operativo per la distruzione dei canali semicirco- lari del cane. Nota del dott. M. CAMIS, presentata dal Corrispon- dente V. Apucco. Tra le numerosissime ricerche eseguite sopra i canali semicircolari, re- lativamente poche sono quelle condotte sopra il cane. La ragione per cul quasi tutti gli sperimentatori predilessero per le loro esperienze il piccione, o la rana, o i pesci, risiede nella maggiore facilità con cui si possono in questi animali aggredire i canali semicircolari, sia per distruggerli che per portarvi lesioni o stimoli localizzati. La maggiore opportunità che il cane offre allo studio di alterazioni di moto e di senso, quali possono determi- narsi con l'intervento sperimentale sui canali semicircolari, mi ha però in- dotto a scegliere questo animale per una serie di ricerche che verrò espo- nendo. Senonchè, il metodo seguìto da quelli autori che fin qui vollero di- struggere o ledere i canali semicircolari nel cane, presenta, a mio avviso, un grave inconveniente : quello di portare alla distruzione anche della chiocciola e dell'orecchio medio. Ricorderò, a questo proposito, solo la descrizione data dall’Ewald (*) del suo metodo operativo sul cane, dalla quale appare che, aperta la bolla timpanica, ed asportato il timpano e gli ossicini dell’udito, egli passava alla distruzione della chiocciola. Ciò fatto, egli apriva e svuo- tava il vestibolo penetrando dalla finestra ovale, e terminava con l’asporta- zione dei canali semicircolari. E vero che Fano e Masini (*) descrissero alcune esperienze, nelle quali, aperta la bolla mastoidea, distruggevano solo i canali semicircolari pene- (+) Henry E., La maladie des Chdtaigniers aux Etats-Unis et en Europe. Aon. sc. agron. (3), vol. IV (1909), pp. 241-251. (8) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Fisiologia della R. Università di Pisa. (9) R. J. Ewald, Phystologische Untersuchungen tiber das Endorgan des Nervus Octavus. Wiesbaden 1892 (cfr. pagg. 197-200). (4) G. Fano e G. Masini, Intorno agli effetti delle lesioni por udito (Lo Sperimentale, 1893, XLVII, pagg. 353-405). tate sull'organo dello — 373 — trando dalla finestra ovale; ma questo atto operativo. non solamente implica la distruzione dell'orecchio medio, ma mi si è dimostrato di esito assai dif- ficile e incerto quando sì voglia risparmiare la chiocciola ('). Allo scopo di portare la lesione esclusivamente sui canali semicircolari ho quindi adottato un processo, che credo utile riferire perchè mi diede ottimi risultati. La topografia dell'orecchio interno nel cane non è, ch'io sappia, esatta- mente descritta, dal punto di vista che ci interessa. Anche il Trattato di anatomia del cane di Ellemberger e Baum non porta che qualche notizia sommaria, e le belle immagini fotografiche del Gray (?) rappresentano il labirinto membranoso, sicchè non è facile da esse trarre un sicuro criterio di orientamento per aggredire la rocca petrosa. Ho quindi eseguito alcune ricerche anatomiche preliminari, le quali mi hanno mostrato che la topografia delle varie parti del labirinto, pur conser- vando il tipo generale comune ai mammiferi, offre qualche carattere pe- culiare. Ciò può sintetizzarsi brevemente, dicendo che i rapporti topografici delle varie parti del labirinto fra loro sono nel cane una esagerazione di quelli che sì osservano nell’uomo. E cioè, rispetto al vestibolo, la chiocciola è situata più in avanti, più in basso, e più medialmente, e i canali semicircolari sono situati più in alto, più indietro, e più all'esterno nel cane che non nel- l'uomo. Allo scopo di determinare esattamente questi rapporti, ho praticato le sezioni in serie di una porzione del temporale sinistro di un cane, e cioè della rocca e della bolla timpanica. Il temporale era stato decalcificato con acido nitrico e cloridrico, ed incluso in parafilna. Le sezioni erano dello spes- sore di 80 w, praticate nel senso antero-posteriore, cominciando dall'alto e andando verso il basso. Un grande numero di sezioni fu da me disegnato per mezzo dell'apparecchio di projezione di Leitz, sopra carta millimetrata per avere più facile l'orientamento dell'immagine. L'ingrandimento era per lo più di 8, qualche volta di 16 volte. La ricostruzione del labirinto sulla base dei disegni è assai chiara, e credo inutile spendere molte più parole di quelle che servono ad illustrare le firure. Le sezioni erano circa centotrenta, delle quali, le prime 25 non (1) Anche i metodi proposti da diversi autori per giungere all'orecchio interno di altri mammiferi (gatto, coniglio, cavia) presentano lo stesso inconveniente, giacchè, in tutti la via di penetrazione è la bolla mastoidea o il condotto uditivo esterno. Cfr. la esposizione critica di S. v. Stein, Die Zehren von den Funktionen der einzelnen Theile des Ohrla- birinths, Jena, G. Fischer 1894. . (®) A. A. Gray, 7'he labyrinth of animals. London, Churchill, 1907-1908. RenpIcoNTI. 1911. Vol. XX, 1° Sem. 49 82 98 Fic. 1. — Sezioni trasversali antero-posteriori della rocca petrosa e di parti vicine del tempo- rale sinistro. B= bolla mastoidea; = strato spongioso dell'osso occipitale e della squamma del temporale, T=tragitto del foro di trapano per giungere ai canali 1 canale posteriore; è = sezione trasversale del canale po- Ct= cavum tympani; Car.= Canale in corrispondenza alla base della rocca; semicircolari; a = sezione trasversale de steriore; v = vestibolo; c= chiocciola; != finestra rotonda; carotideo. Ingrandimento 5 volte. | | — 37/5 — interessano che lo spigolo superiore della rocca, senza toccarne ancora le strut- ture caratteristiche della rocca, che sono situate alquanto più in basso. Una quarantina di sezioni interessano i canali semicircolari e il vestibolo, e quindi appaiono le sezioni dove è compresa la chiocciola. Nella figura 1 ho riprodotto pochissime sezioni, di alcuna delle quali ho omesso di disegnare la bolla timpanica, giacchè la parte essenziale per il nostro scopo è la rocca. Il numero portato da ciascuna figura indica il numero progressivo delle se- zioni; le parti tratteggiate significano le cavità labirintiche. Nella 40 si vedono in a, il crus ampullare superior, e in a il crus commune, tagliati di sbieco; in è una sezione trasversale del canalis postertor. MRI C a) i @9 MS LS ip 5, Si Fre. 2. — Sezione della rocca che mostra in C il canale esterno tagliato parallelamente al suo piano. Ingrandimento 8 volte. Nella sezione 43, i due crura si sono riuniti nel vestibolo v; il quale ap- pare più ampio in corrispondenza della sezione 48 dove i crura canalis quasi più non si vedono a causa della grande obliquità con cui sono tagliati. La sezione 55, disegnata a parte, mostra una sezione quasi completa e parallela al suo piano, del canale orizzontale. La sezione 65 interessa giù la coclea, che naturalmente è tagliata obliquamente rispetto al suo asse; in questa sezione si vede il giro basale, mentre nella figura seguente (sez. 75) appare anche tutto il giro medio. La chiocciola nel cane ha una configura- zione a cono più allungato che nell'uomo, e presenta, invece che tre, quattro giri. Questo è un carattere comune alla chiocciola dei carnivori, che è no- tato nella già citata opera del Gray, e che io avevo potuto constatare in un preparato di laberinto membranoso, ottenuto da una rocca decalcificata in acido nitrico e fluoroglucina. Anche dalle sezioni seriali questa disposizione si rileva chiaramente: nella sezione 82 si vedono interessati tre giri cocleari, e si vede il giro basale comunicare, per mezzo della finestra rotonda F, con | totti — 376 — il cavum tympani, essendo distrutta naturalmente, nella preparazione, la membrana timpanica secondaria. L'ultima figura mostra che, andando sempre verso il basso, la sezione non taglia più la chiocciola se non vicino alla sua superficie inferiore. Da quanto si è notato appare che una lesione portata sulla parte po- stero-superiore della rocca petrosa, può distruggere i canali semicircolari senza toccare la chiocciola, alla quale si può giungere solo estendendo ancora la lesione in basso e in avanti. La via per penetrare nella rocca è segnata con la lettera T nella sezione 40, dove le due linee nere indicano il poz- zetto scavato dal trapano nello spessore dell'osso occipitale. Il processo operatorio è il seguente: L'animale è fissato sull’apparecchio di contenzione a cavalletto, con il capo flesso in avanti in modo da poterne dominare la regione della nuca; ha ricevuto un'ora prima, circa un centigr. di morfina per kgr. di peso, ed è poi anestetizzato con miscela A. E. O. Si pratica una incisione longitudinale che passa tra la protuberanza occipitale esterna e l'apofisi giugulare e che si estende per una lunghezza variabile secondo le dimensioni dell'animale, ma che va da un paio di centimetri oltre la linea curva occipitale superiore fino alla 2° vertebra cervicale. Divaricati con uncini a peso i margini dell'incisione cutanea, si incidono col bisturi le inserzioni muscolari lungo la linea curva occipitale e si staccano i muscoli con lo scolla-periostio così da scoprire la porzione nucale della squama dello occipitale. Il campo è tenuto accessibile da un assistente per mezzo di due divaricatori. A questo punto si applica una corona di trapano in corrispondenza della base dell’apofisi giugulare, che si è asportata con qualche colpo di sgorbia allo scopo di facilitare l'applicazione del trapano. Nelle mie prime espe- rienze io applicavo il trapano un po’ medialmente alla apofisi giugulare ("). Ma in seguito ho potuto accertare che in questo modo è più facile, se la direzione del foro non è esattissima, sfondare la parete anteriore della rocca, con pericolo di ledere i centri; è quindi assai preferibile applicare il trapano piuttosto all’esterno che all'interno dell’apofisi giugulare, come è indicato nella figura 38. La direzione del foro deve essere parallela al piano sagittale del cranio, e quindi divergente in avanti e infuori dell'asse lon- gitudinale della rocca, che è diretto in avanti, all’interno e in basso. Quando si senta, dalla resistenza che incontra ìl trapano, di avere attraversato lo strato d'osso spongioso, si vuota accuratamente, con un piccolo cucchiaio, la cavità, e si sostituisce alla corona una piccola fresa. Io ho adottato una serie di punte sferiche per trapano da dentista, e le ho trovate opportu- nissime per questa parte essenziale dell'operazione. (1) Queste esperienze furono oggetto di una comunicazione all’ VIII Congresso di Fisiologia (Vienna, settembre 1910). — 977 — Per eseguirla è necessario illuminare fortemente il campo: ciò che otte- nevo con uno specchio frontale per laringoscopia ed una lampada a gas ad incandescenza; una lente da orologiaio, applicata all'occhio, riesce assai comoda per osservare i particolari più minuti. L'apertura dei canali semicircolari per mezzo delle punte già ricordate, si può fare con notevole esattezza, così da ve- dere l'uno o l'altro canale membranoso attraverso la breccia della parete ossea. Non va però dimenticato che i canali ossei sono scavati nel tessuto compatto, e Fie. 3. — Cranio di cane visto posteriormente per mostrare il punto 7° dove va appli- cata la corona di trapano; S = ipofisi giugulare. che quindi l’isolamento di essi è — almeno per mio conto — impossibile; la distruzione dei canali semicircolari riesce invece perfettamente, e si può con ogni sicurezza arrestare l’atto operativo prima di ledere la chiocciola. Quando invece la conservazione della chiocciola non sia necessaria o non sia desi- derata, è facilissimo continuare la trapanazione in avanti e in basso, distrug- gendo così tutto il labirinto. In questo caso conviene essere cauti, sopra tutto in corrispondenza al fondo del meato acustico interno, giacchè la punta del trapano può facilmente sfuggire e penetrare nella cavità cranica. Terminata l'operazione sui canali, si fà una sutura a due piani, uno muscolare ed uno cutaneo, e si lascia l’animale riposare in luogo appartato e tranquillo. È superfiuo ricordare che tutta l'operazione va compiuta seguendo le regole asettiche. Numerose autopsie hanno dimostrato che l'operazione risponde al suo scopo, in quanto permette la distruzione totale 0 parziale del labirinto senza ledere i centri nervosi. Serg — L'osservazione fisiologica degli animali operati, formerà oggetto di una altra Nota; per ora mi fermerò solamente sopra un punto che riguarda la critica del metodo operatorio. Tutti i cani operati di labirintectomia unila- terale presentano una caratteristica posizione del capo, la quale permane fin che sopravvive l'animale; il capo, cioè, è rotato e flesso verso il lato operato. Mi sorse il dubbio che ciò potesse essere in rapporto, per quanto secondario, con la lesione operatoria portata ai muscoli della nuca. Per ac- certare questo punto ho provato sopra un eane la prima parte dell'atto ope- rativo, compreso lo scollamento dei muscoli della regione occipitale; il cane guarì per prima intenzione, e non presentò mai la menoma asimmetria nel portamento del capo. MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI 1. Parravano M. e Sirovica G. / fenomeni di cristallizzazione ner sistemi ternari. Il. Miscele ternarie isomorfe con una lacuna di miscibi- lità. Pres. dal Socio PATERNÒ. 9. MARTELLI A. Osservazioni geologiche sugli Acrocerauni e sui din- torni di Valona. Pres. dal Socio DE STEFANI. RELAZIONI DI COMMISSIONI 1. BrancHi, relatore, e VoLtERRA. Sulla Memoria: Sopra l’algebra delle funzioni permutabili, del dott. G. B. Evans. 9. Rieuni e BaTTELLI, relatore. Sulla Memoria: Contributo allo studio della velocità degli ioni, del dott. A. BERNINI. 3. Nasini, relatore, e PATERNÒ. Sulla Memoria: / fenomeni di cristal- lizzazione nei sistemi ternari. I. Miscele ternarie isomorfe con una lacuna di miscibilità, dei dottori M. PARRAVANO € G. SIROGICH. Le conchiusioni delle Relazioni delle precedenti Commissioni esamina- trici. favorevoli alla pubblicazione delle Memorie, messe partitamente ai voti dal Presidente, sono approvate dalla Classe, salvo le consuete riserve. PERSONALE ACCADEMICO I Presidente BLasernA dà il triste annuncio della morte dei Soci stra- pieri FEDERICO Von RECKLINGHAUSEN, il quale faceva parte dell'Accademia, — 379 — per la Patologia, sino dal 20 settembre 1887; e Iacopo ENRICO VAN'T HouFF, mancato ai vivi il 2 marzo 1911, che apparteneva all'Accademia, per la Chimica, sino dal 28 agosto 1901. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvICH presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle inviate dai Soci CeLoRIA, MATTIROLO ed HELMERT; il 5° volume delle Opere matematiche del dott. Gomes TEIXEIRA, pubbli- cate sotto gli auspicî del Governo portoghese; e un volume del prof. DUNER in ricordo del 5° centenario della fondazione della R. Società delle scienze di Upsala. Il Socio PATERNÒ fa omaggio, a nome dell'autore prof. CoLson, del- l'opera: Contribution à l’histoire de la Chimie. CORRISPONDENZA Il Presidente BLASERNA comunica una lettera colla quale la R. Ac- cademia delle scienze di Torino esprime il voto che il Governo si faccia iniziatore di una edizione economica delle Opere di Galileo; la Classe de- libera di dare piena adesione al voto sopra citato. Lo stesso PRESIDENTE dà inoltre partecipazione degli inviti perve- nuti all'Accademia per prender parte alle feste commemorative della So- cietà delle scienze di Cassel e della Università di Breslau. Cambi. Sugli stati amorfi del Silicio (pres. dal Socio Masini) (*) . . . . .... Pag. Id. Sui-solfuri di silicio (pres. IIS ZIA VD, De Angelis d’Ossat. Le rocce e le acque dell’Agro end distinzione dei canali semicircolari del cane (pres. dal Corrisp. Aducco) . . ./....... » MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Parravano e Sirovich. I fenomeni di cristallizzazione nei sistemi ternari II. Miscele ternarie isomorfe con una lacuna di miscibilità (pres. dal Socio Paternò). . . » Martelli. Osservazioni geologiche sugli Acrocerauni e smi dintorni di Valona e dal Socio DE SODI I ARSA RE RELAZIONI DI COMMISSIONI Bianchi (relatore) e Volterra. Relazione sulla Memoria del dott. Zvars, intitolata: «Sopra È l’algebra delle funzioni permutabili»n . . + METTI | Righi e Battelli (relatore). Relazione sulla Memoria Ga dale Bini: « Contributo allo studio della velocità degli ioni» . . : 3 i SI] Nasini (relatore) e Paternò. Relazione a Mana dei di Uva e 0 I fenomeni di cristallizzazione nei sistemi ternari. I. Miscele ternarie isomorfe con una [picmnadegiohlitaàt e. RR PERSONALE ACCADEMICO | Blaserna (Presidente). Dà annuncio della morte dei Soci stranieri Federico von Reckling- scesero Mico Von Won na n PRESENTAZIONE DI LIBRI MetiNosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei È Soci Celoria, Mattirolo ed Helmert; del dott. Gomes Texeira e del prof. Duner . » ME iero Fai aimapgio di un opera del prof. Golson °°. enti e CORRISPONDENZA id Blaserna (Presidente). Dà comunicazione di una lettera della R. Accademia delle scienze di ; Forino relativa ad una ristampa delle Opere di Galileo. — Deliberazione della Classe » Id. Comunica gli inviti della Società delle scienze di Cassel e della Università di Breslau » ERRATA-CORRIGE (A pag. I91 lin. 5, si aggiunga: 2) «Una nuova specie di Zeschenau!tia R. Br.» (st.) — | 3) «Note anatomiche sulle Calyceraceae » (st.). — 4) « Contributo allo studio anatomico delle Bur- È manniaceae» (st.).. — 5) A proposito del mio studio anatomico sulle Surmanzaceae » (st.). 349 378 » n (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. RENDICONTI — Marzo 1911. INDICE RT ITA Classe di scienze Hsiche, matematiche e naturali. Seduta del 5 marzo 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Levi-Civita. Trasformazione di una relazione funzionale dovuta al Dini. . . . . . Pas. Volterra. Contributo allo studio delle fungioni permutabili. . . . d na Nasini e Ageno. Ebullizione delle soluzioni acquose di acido horico e sua volatilità in sol Venti diversi organici (*) .. (00. 200006 : a AE DR EI Grassi, Foà e Topi. Studî sulla diffusione SU della Aa ot PgEreIAIC, Piutti. Sulla presenza dell’ Elio nelle Autuniti e sul periodo di vie del Tonio ce). PER) Angeli e Alessandri. Il nitropirrolo Li. + ; SAR RO Angeli. Azione degli acidi nitroso e nitrico sull' Gal e fu nale (o no Cisotti. Sulla biforcazione di una vena liquida (pres. dal Socio Zevi-Civita) . . . » Colonnetti. Sopra un caso di emisimmetrnia che si presenta in certe questioni di Tdi (presse, Jago: SR E o, Signorini. Sul criterio di SR (pres. dal I Biagio Rini DAREI Id. Sulle vibrazioni luminose di un mezze eristallino uniassico dovute alla presenza a di un mico centro luminoso (pres. dal Socio Magg) (®). . . . . no Picone. Sul problema di Dirichlet per la più generale equazione a i. autcagginni alle derivate parziali del second'ordine (pres. dal Socio Bianchi) . LL. a Zondadari. Sul moto traslatorio d'un solido di rivoluzione in un ic viscoso (pres. dal. Socio Volterra) . . . STRA i 7 Evans. Sopra l'equazione un di Veleni di i. specie con un Tag dell integrale infinito (pres. dal Corrisp. Zauricelta) ©). SRI ISCR O ata RI Pannelli. Sopra una nuova proprietà delle trasformazioni mad. nello spazio (pres. dal. Corrisp. Castelnuovo) (£) . oe : D) De Donder. Sur les transformations de ni si et le i de Jacolii oa i. Socio Volterra) e 91. Scegliamo, in corrispon- denza ad uno qualunque di tali valori (p=1 , >), quella determi- nazione reale K(g,,g), di cui abbiamo studiato il comportamento nella Nota precedente (n. 5). Ed esaminiamo quel che avviene quando sì fa va- riare f senza uscire dalla striscia e senza mai attraversare punti singo- lari, attribuendo beninteso a K(p,f—) la determinazione voluta dalla continuità. Restando per un momento sulla retta w = 1, è chiaro che, fino a che >, la funzione definita dalla (19) seguiterà a coincidere colla K(g;,%) del n. 5. Ma non possiamo affermare che ciò accadrà pure per P< 1, poichè c'è di mezzo una singolarità (logaritmica) per g= 1. Evitiamola, addentrandoci intanto nella striscia, dove non saremo arrestati da alcuna singolarità: torneremo poi al contorno. Posto, per brevità di scrittura, TT A rei (con che, entro la striscia, O0Y, da noi adottata, la (19) definisce una funzione uniforme della variabile complessa f, regolare entro la striscia S, per qualsiasi valore reale del parametro ,, e integrabile, rispetto a 1, da — co a +0. Questa fun- sione è puramente immaginaria sull'asse reale y = 0. Infatti la (19), per f= | la (20) per x= Ai mostrano che la frazione sotto il segno lo- garitmo ha modulo 1; la parte reale del logaritmo stesso è quindi nulla, indipendentemente dalla determinazione con cui lo sì deve prendere. Per essere K(g,,f—%) puramente immaginaria sull'asse reale w=0, saranno coniugati i valori di ;K in punti simmetrici rispetto allo stesso asse: in particolare, i valori limiti di 7K, e quindi di K, su w=—1 potranno essere desunti per riflessione da quelli che gli competono per % = Ila Siamo così ridotti, per esaurire la nostra discussione, a renderci conto del comportamento di K sulla rimanente parte (p< 7%.) della retta y=1. All’uopo notiamo che (/ essendo l’affissa di un punto generico di $ rispetto agli assi coordinati g,w, cui cì siamo finora riferiti) =/-(p+d può interpretarsi come affissa (dello stesso punto) rispetto ad assi paralleli ai primitivi coll’origine nel punto g, + (della retta limite w= 1). Ri- spetto a tale sistema i punti di S cadono tutti nel terzo e quarto quadrante : le anomalie loro, dedotte per continuità da una generica, potranno ritenersi comprese fra 0 e — sr, ove si convenga di attribuire il valore zero dell’ano- malia della semiretta w=1, p> 1. Questa ovvia osservazione sì tras- porta alla funzione log f* = log}/— (gi +d|. in cui il coefficiente di 7 è precisamente l'anomalia 4* del punto conside- rato /*, o, se si vuole, /, rispetto al sistema ausiliario. Adottata la deter- minazione reale log(g — 1), per /* reale e positivo (fV=1,9>%Y1), sì avrà, per /* reale negativo (D=1,9<@),d*=—7, ossia (22) log f*= log(go — g)—<7 [si intende, colla determinazione aritmetica di log (g1 — 9)]. slo s4£ — Se ora si pone Tiek dl (23) Re ilog dr. ig si vede che si tratta di funzione regolare nell'intorno di /*= 0 ieri lim rr) = ") i 25 f* 4A LeSna nonchè di ogni altro valore (finito) di /*. Fissata quindi pel logaritmo la determinazione reale in corrispondenza al valore zero di /*, si potrà asse- rire che esso si mantiene reale per tutti i valori reali dell'argomento. Immaginando di sostituire per /* il suo valore /f — (gi +), la K* si presenta come funzione di f regolare nell'intorno di g,1 + i, € reale su tutta la retta W= 1. Siccome si ha dalle (19) e (23) (19) K(g,,f—i)=K*—2log/*, così si accerta in primo luogo che, colle specificazioni adottate per K* e per log f*, il secondo membro rappresenta effettivamente quella determina- zione di K(g,,/— è) (cui ci siamo sempre riferiti) che è reale per W= 1 e p>%,, conformemente alla (21). Ove si supponga invece p< @,, e si passi, dall'interno della striscia, alla retta limite w= 1, la (19°), avuto riguardo alla (22), ci dà senz'altro lim K(g,,f— d) = lim K* — 2log(g, — g) +27. Ora lim K* seguita ad essere reale anche per /* negativo, sicchè, data l'espressione (23) di K*, la differenza lim K*— 2 log(g, — g) non è altro che il nucleo reale K(g,.%) (definito dalla (7°) per tutti i valori reali dei due argomenti). Così in definitiva possiamo completare la (21), scrivendo (24) K(pi,f—è)=K(g.,9)+27i per y=1ep<. 8. — VERIFICA DELLA RELAZIONE DISPARI. Premesso tutto questo relativamente alla K, poniamo (25) ai 0-94, — 389 — indicando con A4(g,) una qualsiasi funzione della variabile reale 1, con- tinua al finito e finita anche all'infinito [come sub a)]. Ne rimane ovviamente definita una funzione y della variabile com- plessa /, reale sull'asse reale, e regolare entro S. Osservando le (21) e (24), vediamo che la funzione K(g,,f—<) non si mantiene integrabile rispetto a gi, (da — 00 a +00) anche su w=1, in causa del termine addizionale 2777, che figura nella (24). Si mantiene però integrabile la parte reale, che è il solito nucleo K(g,,%g). Segue di qua che, scindendo nella (25) il reale dell'immaginario, e ponendo in con- formità y= «+8, si possono dedurre dalla (25) i valori al contorno della #. Basta passare al limite dall'interno della striscia, con che l'inte- grale del secondo membro si mantiene finito e continuo, porgendo (ce) (26) = fo) Lenicre Ne risulterà la (I), tostochè si accerti che i valori limiti di &', al convergere di / verso un punto generico g della retta w = 1, coincidono coi corrispondenti valori A(o) - Deriviamo all’uopo la (25) rispetto ad /, supponendo / izterno ad $: tutto essendo in tal caso regolare, si possono applicare senza riserve gli al- goritmi ordinarî del calcolo, e scrivere (avuto riguardo alla monogeneità di K) POT NO) df 2r Li 2g Oni) Scindiamo l'intervallo di integrazione in tre parti: da — 00 a go— 8, da go — #2 Po+-e e da po +e a + 0, essendo « una quantità positiva arbitraria, che ci riserviamo di far rimpicciolire indefinitamente. Poniamo in conformità (27) î IK — | —A(@)d IP (91) Pr, Pot8 profittando, per la parte residua »Pot8 0 dK da dg A(g) dpi ’ Poe — 386 — dell’espressione (19') di K. Ponendo ancora Pot î dK* (28) J= Jr Iaia 39 Ag.) dg: , e/PoE avremo . »Pot-e î d log (29) i l° 49) dg, Nell’intento di far tendere f al punto 4 della retta w= 1, notiamo: 1°. che, per ogni valore di @,, compreso fra.— 00 è go — £, Oppure fra go +e e +00, K(g1,7/—%) ed anche Se È) tendono unifor- memente verso i lori valori limiti forniti dalle (21), (24) e rispettive de- rivate; x d converge uniformemente, rispetto ad ogni %, dell'intervallo po—&, Pot 8; verso il valore che gli compete per f= @o + 2» ossia per 9°, che, essendo K* regolare nell'intorno di /*=0, anche fe=gpo+i- (+0) P- Le (21), (24) e (23) mostrano d'altra parte che i valori limiti di = e di DI sono puramente reali. Si ha così, rappresentando con RI la parte reale di J, (30) lim RJ=0. Notiamo altresì che log f* dipende da pel tramite della differenza o — 91; € che, 9* essendo l'anomalia del punto generico / [relativa al sistema ausiliario coll’origine in (9, , 1)], la parte reale di — ilog/f* vale precisamente d*. Eguagliando le parti reali dei due membri della (29), e scrivendo e'(6@,w) in luogo di dg). abbiamo * Pot-8 1 dI I sl LA Lea SSL o'(p.y)=RI-7 sol (91) dp: , Po_E — 387 — cui, aggiungendo e togliendo ad A4(g:) la costante A(go), € ponendo Pot x 1 dI* (1) L=-7 | fo 40) Ad t/ Po attribuiremo la forma Ù 1 P1=Pot-8 (82) (9,9) =RI+I:— 7 49919] i P1=Po E Ora, dato il significato di 9*, finchè / si riferisce ad un punto interno alla striscia, quando %,, origine del sistema ausiliario, percorre la retta w= 1 (da — c0 a +00), 4* varia, sempre decrescendo, da 0 a — 7. Se dunque si indica con d il limite superiore di \A(g1) — A(9o)|, per gi compreso fra go — & @ Go +8, SÌ vede |Jz] non può superare d, il quale, a sua volta, per la continuità della 4, va a zero con a. Per f tendente a go +? si ha manifestamente, qualunque sia la quan- tità positiva e, 1=Po7 E ne Pi=P—8 9, con che la (32), avuto riguardo alla (30), porge lim e'= A(g) + lim J;. Nè limo’, nè A(g) dipendono da e. Passando ulteriormente al limite per #«= 0, otteniamo infine (33) lim a' = A(g1). La (26) dà luogo pertanto alla (I), la quale rimane così provata in base all’ unica condizione a). In modo più preciso conviene dire: Premesso : 1°. che esiste al più una funzione armonica #, regolare entro SA dotata (contorno incluso) di limite superiore finito, la quale verifica le due condizioni B=0 per w=0; db 2°. che, in virtù della (33) e della identità vin una tale fun- zione è il coefficiente di ; nella y(f) definita dalla (25); — 388 — rimane provato che l'ipotesi 4) dà luogo ad una e (a meno di una co- stante additiva reale) una sola funzione y(/), regolare entro S, reale sull'asse reale. soddisfacente, in causa della (26), alla relazione dispari (I) e tale che rimane finito il limite superiore di 8 in S (contorno incluso). 9. — PROLUNGAMENTO ANALITICO DELLA A. VERIFICA DELLA RELAZIONE PARI. Con procedimento identico a quello tenuto per K, immaginiamo di introdurre. nella formula (15), che definisce A(g1, g), /—? in luogo di @ e conveniamo di attribuire al logaritmo la determinazione reale per W= 1 epp>g- Con tale specificazione, da Il nl 2 i 9g’ moi | | peo 3 lpi(f-d)] 84) Ag.f—i)=log rimane definita (per qualsiasi valore reale di g,) una funzione di / regolare entro la striscia S, la quale, per g,= = 00, tende verso bia, == 2 (f— î). La parte immaginaria di 4 è costante sull'asse reale w= 0. Sulla parte rimanente (g < 91) della retta w = 1, i valori limiti di 4 (in quanto raggiunti dall'interno della striscia) non coincidono colla deter- minazione reale A(g;,g), ma, come già avveniva per K, presentano l’'in- cremento costante 2777. Ciò premesso, si parta da una generica funzione B(g.), che verifichi le condizioni sub è) (con che il prodotto 4B riesce integrabile rispetto a i 00 da — 0 a -- 00, essendo inoltre | B(g,) dp, = 0), e si ponga S_- (35) i Lf A(9;f — è) B(91) dp: + costante reale. Ripetendo pressochè integralmente le considerazioni del n. precedente, si riconosce che y(f) =@-+18 è funzione regolare in S, reale sull'asse reale, tale che, per w=1, i 1 00 (36) o(g=—57 | 491,9) B(g.) dp + 0088, DIC OI e ancora (87) ole — J B(91) d91, — 389 — mentre i valori limiti di £'() (vogliamo dire di di coincidono con quelli dell’assegnata funzione B(9). Nel discutere la relazione dispari, l' analoga circostanza concernente a’, si dovette verificare direttamente, non derivando dall’ ipotesi a) la conver- genza dell’ integrale i A(1) dp, e non potendosi perciò trarre dalla (25) una relazione limite per @, analoga alla (37). La coincidenza di $" con B può qui essere desunta addirittura dalla (37), la quale mostra altresì che limes: —'0E pi=-|00 Sostituendo 8" a B, la (36) si cambia materialmente nella (II), della quale (nel senso precisato alla fine del n. 8, che conviene, salvo ovvie va- rianti, anche al caso presente) rimane accertata la legittimità sotto la sola ipotesi 2) (!). c. d. d. 10. — LA RELAZIONE INVERSA. Poniamo 1 Q = 1 e, —__r Ss (38) L(: 9) 0g G E PT ) dI) l 9 NP. \ 2 log e (LS f) per pi > 9, (39) M(g.,9)= TT ai 1 | aloge '(14e) per pi<9, con che L(g,,g) si annulla esponenzialmente per g\ = =00, € M(9;, 9) (1) Si sfruttano effettivamente tutte le condizioni enumerate in detta ipotesi: l’in- tegrabilità della 8°, perchè si possa intendere, nella (35), sostituita 8° alla generica B; 00 l'identità sh 8'(@1) dp, =0 per poter asserire che la y(f), definita dalla (35) con B=#", —% risulta reale sull’asse reale; l'identità lim B(g:)= 0, affinchè la stessa y(f) verifichi pi=+%0 la (37). Le due condizioni fatine. lim B(@a)=0 l'o gi =-o0 equivalgono manifestamente alle due enunciate sub 3) lim gB(p.)=0. pi ==0%0 RenpICONTI. Vol. XX, 1° 1911, Sem. 51 — 390 — resta continua anche per g, = @, mentre 3M 4 per po > @P, 40 Le (O) w lr per p? 1 A? È de | 24 CA (fe dv 2a: | dv\de}}" (*) Questi Rendiconti, 19 febbraio 1911, pag. 207. — 395 — abbiamo, sostituendo nella è == + c4° Xx d°- d r 0. da cui appunto Ik 1 Dio (023 Lo stesso risultato, evidentemente, si avrebbe considerando un'altra qualunque delle prime sei equazioni delle (2). Inoltre, formando, per esempio, dXa dI d (103 >; d >; (PEA Gr fed Da i le E lo stesso risultato si avrebbe, evidentemente, considerando un’altra qua- lunque delle prime tre equazioni delle (3). Ciò posto, costruendo le componenti (secondo gli assi x,%,) della tensione sul contorno a, cioè costruendo la #.= f, cos nX 4 ta 008nY + + ts cos e le due analoghe, che indicherò rispettivamente con t, e f., ottengo DE, Apa, si ha 1 1 d- (3) d 3 cos Ty le (£— 1) 7 00682 —(E+1)reosm / |a Wal) ai Ù d (de (Ba a 7a Ii 7 )i- 1 1 dî de d = (k—1) cone —(k+1) nossa +: 30% +1) 77 c0s ra cos ro — al di a (03 — +7 7 cos ne + (4 «°., ola gl 1 1 1 9% r 1 A de AN da A di A i = RR rta + dn VE + Fas (1) È IE ì 4 Z7N ZN ZN (*) Evidentemente, è indifferente scrivere cos vÈ oppure cos vw, mentre cos rg = — O e _o. . Y Cei po O — cosré (essendo implicita la convenzione rÈ =r, dove r e 7 hanno la stessa dire- zione, ma senso opposto). — 396 — E, analogamente, si avrebbe 1 I gl pi Li t,= 3% c0s 79 costo — a n ea i dn 4 dv IT da 19 1 i al 1 DI t.= 3% — cos tà costo — Li Lo s du dv MZ de i Talchè P,=f,cosne + t, cos ny + i cos ne = SE Fm 008 1) d; sti DT | — 347, cos 7n C09 7v — Ir TT, cosnv |. | VAS ULI) il d P.I A [cosrn\} Il termine 3% — cos rn c0s 7v = — 8É cos rv ( ) tende verso lo dn zero, allorchè il punto (x , y , #), mantenendosi sulla superficie o tende verso il punto (£,,é), mentre il termine d 1 d=- 1 AS A Va v -» cos 7V cos 77 A +9 cosnv=—-f{—T— +2 — c0s 2 dv in dn P r at r diventa infinito del primo ordine rispetto alla ; (*). Dunque P, presenta sul contorno o la singolarità annunziata. Infine, indicando con P, la componente della suddetta tensione secondo la normale v, si ha 1 P,=—- (143% 008 79) 7 che pure diventa sulla o, perao=$,y=", z=È, infinita del prime or- dine rispetto alla L. La P, e la P, vengono, inoltre, come si vede, ad avere il carattere (*) Ferme restando le restrizioni imposte alla e, naturalmente. — 397 — d’invarianti rispetto a certe operazioni. Operazioni che risultano manifeste, ripensando al modo con cui la P, e la P, medesime sono state ottenute. 3. Il sistema d'integrali (4) può ottenersi anche prendendo le mosse dai noti triplets elastici del prof. Somigliana: : i» calle or (1): ATTO r ZO 00) n _k dr ria Ada Luo i} AT cine dy° PIRO EAT e n ML III fici ’ 172 890 ’ 579 da? 7 dove intenderemo che nella 7 = J/(x — &)? + (y— n4(e—- 0%), E,n,î siano le coordinate di un punto fisso (arbitrario) del contorno o ed x,y, quelle di un punto generico dello spazio S. Evidentemente, avremo ancora dei triplets elastici moltiplicando i tre ZN ZAN AZ suddetti rispettivamente per cos vz, cos vy, cosvz, formando cioè ZN AN ZN Ux COSVEX, Uy COSVX , Uz C08VX ZN ZAN ZN Va CO8VY , Uy C0SVY , Uz C0SVY ZN ZN ZN Wa C08V8 >, WyC08V8 , WwW_,C08v8. E sarà un triplet elastico anche il seguente ZN ZAN ZN Ug COS VX + vs 08 17 + wa COS vg ZZZ «AN ZEN (5) U, cos vX + vy cos vy 4 w, cos vg ZEN AN ZN uz cC08svx + v, cos vy +- wz cos ve. Ora, calcolando le tensioni caratteristiche corrispondenti al sistema (5) sì troverebbero agevolmente quelle da me costruite nella Nota precedente. Mi limiterò qui a riottenere le tensioni agenti sul contorno 0, le cui com- ponenti, secondo gli assi x, y,4, sono state già indicate con Urago go Se (15) M,,M.), (Nx, Ny, N) sono rispettivamente i tre sistemi di tensioni, agenti sul contorno 0, relativi ai triplets del profes- RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 52 — 398 — sore Somigliana (come sono stati scritti) si ha, come è noto, 1 1 da dr — I, = 940087 7Xae ea così 7% Tar 1 1 Il ZIA Da — L 1 SE cos de —L cos o sy Y x Yan dy dd 1 1 1 ZS AM: r 4 r TS SE = 9 0087 0 (COSMICO du de dA Ta L | LS as CS N — My = 3% cos ry eosma n TU g 06 —M __ 3h cost o s) do È dn 1 1 1 ded DE ZX SSA CZ r VAN — M, = 34 c0s #9) costa + COSI re 1 d- = Ì — N, = 3% cos 74 cos 7x + cos aa — — cos he du È d gii 1 da — N — 3% cos fè cos ty) = + ” cos né _" cos ny di da dy rl N, = 2a . N, = 3% cos? rg \ di i(0,y,0) Esa et posons, en vertu de ces équations: lory) AOLO LS (esta, Pelia, où l'on a éerit X, pour X;(2,y,t), et de méme pour Y.;. Prenons la dérivée È des deux membres de l’identité (1'); en remar- quant que les operations - et d sont permutables et en utilisant (2), on obtient, après quelques calculs: (4) S.(pon— Don) = $ (1 da de dui ) +e nt) IR) 1 dt di C'est la formule fondamentale, que nous avions en vue. Elle fournira une identité en x, x*,#, si nous remplagons da par Xi , de par Y,, CCA a È xi È dyî ; di = i - X,+S Lil de méme pour les di ° et si enfin nous exprimons les x en Di des x, x*,t, au moyen de (2). LOTO, qui en vertu de (1), on pourrait exprimer les 4 et y en fonction des x*,y* ,#; posons alors: Vietti —W(«“ vali0n La formule fondamentale (4) devient, en utilisant (2): 7 dyi dx; dy$ dat 4 Peio Ii ES L ERO x (O di, dii gp du) Di A de smi paio )+ IWie”.y".t) € o) d SII A n | dI 24 di où x;(x*,y°,t) représente x; exprimé en fonetion des x* ,y° — 402 — 2. Equations canoniques de Hamilton. — Considérons le système ca- nonique \ = 2H(e,4.Î) (5) di Yi i 0, dyi ___?>H(7,9, t) | di O dI et effectuons la transformation de contact spéciale des x,y en o e finie par (1); si l'on pose, dans la formule fondamentale (4) x x dIW(a*. it) & dxi(a*, E en), Sa o on trouvera immédiatement que \ = DIL UO) dig EVA (6) vi Ii Î Yi ____ 2% SORIAO) i dai Les équations transformées sont encore canoniques; la fonction caractéristique est devenue W(aX 4% 6. Supposons maintenant que yi soient des invariants (en involution) du système canonique (3); on aura dp o, (A=1,..- 2) d'où DIS) sb dai agi La nouvelle fonction caractéristique H(xX ,y* ,t) est done indépendante de x*,...<}; d'autre part, les yi ,..-yp pourront ètre remplacés par des constantes arbitraires. Il en résulte que le système (5°) se réduit 4 um syS- teme canonique de 2n — 2p équations en A yi ,t et d'un autre système de p équations en 2% ,...X$ ,t, qui s'integrera ensuite 2U moyen de p quadratures. On peut voir ce résultat, lorsque les invariants yx sont indépendants «de ‘, dans une note récente de M. Bugatti ('). (1) P. Burgatti, Sulla trasformazione e sulla riduzione dei sistemi Hamiltoniani. Rendiconti R. Acc. dei Lincei, Roma, vol. XIX, 1910, pag. 566. Les deux exemples in- diqués par M. Burgatti, è la fin de sa Note, montrent suffisamment l’intérét de cette propriété. M. Burgatti a donné une méthode pour trouver les transformations de contaet qui servent à la réduetion des systèmes canoniques; cette méthode subsiste igi, sans modification. — 403 — 3. Théorème de Jacobi généralisé. — Supposons que V(x,4*, 4) soit l'integrale complète de l'équation aux dérivées partielles dV dV nD5 + 0; CASE M N: aa dV les x* jouent le ròle de n constantes arbitraires distinctes, et H(@, "7 o Ù repsésente le résultat obtenu en remplagant, dans H(x,y,%), les y; par Bi (f(=1,...%). Cette fonetion V(a, a*, t) définissant la transformation i de contact (2), considérons la formule fondamentale (4), ainsi que les équa- tions canoniques (5); nous avons l’identité en x SCIARE Va. a* 8) CUI PIL A CHTSAIS ea vi). Mais H(x,y,#) exprimé en fonetion des x,x°,t devient Y I MV(aefa® He end), dI à cause de (2); il en résulte que, dans le premier membre de la relation précédente, l’expression entre parenthèses est identiquement nulle; d’où dai ni =) =: ce qui est le théorème (direct) de Jacobi ('). Pour généraliser ce théorème, il suffira de supposer qu'on connaisse une fonction V(e,*,t), telle que dV dV de. So DI Soit différent de zéro et telle qu'on ait identiquement (?) 1 n DV, 8) PM abzit,.0) PM (CI) ) ll BZ salde — — — —;(), (c da ) IN dI ( dr où est une fonetion quelconque; autrement dit, il suffira que le premier dV(a, 9 40) > et de £. Il résulte dI; membre soit exprimable en fonetion des immédiatement de ce qui précède que PV(x.e3 0) ) i (AyiM 13 ) sa) ei MI} n. 2% ( don lr s( n an (*) On sait, et l’on verrai de mòme. que si le premier membre se réduisait è une fonetion des #* et de t, l’intégration du système (5) s’effectuerait au moyen de 7 qua- dratures. (*) Le théorème réciproque de Jacobi pourrait se retrouver au moyen de la for- mule (4). — 404 — Retournons aux 2 variables 4% ,y%; d'où: dof _ dmly* 0) Gi I MT dyi PU et l'invégration du système canonique (5) se réduira è n quadratures. En particulier, si l'on suppose que H est indépendant de #, et si l'on pose y(y* ,0)=yn, on retrouve un résultat dà è M. Bugatti (Note citée). 4. Systèmes non-holonomes, systèmes perturbés. — Les considérations précédentes s'étendent aisement è l'étude de certains systèmes non-holonomes, ainsi qu'anx équations canoniques qui se présentent dans celle des systèmes perturbés. On powrait généraliser de cette manière certains résultats obtenus par MM. Appell et Dautheville (*) pour les premiers systèmes, et les théo- rèmes de Morera (?) et de M. Poincaré (*) concernant les systèmes perturbés. Matematica. — Sopra una nuova proprietà delle trasforma. zioni birazionali nello spazio ordinario. Nota di M. PANNELLI, pre- sentata dal Corrisp. G. CASTELNUOVO. Il noto teorema del Cremona (‘): « Se fra i punti di due piani ha « luogo una corrispondenza birazionale con soli punti fondamentali ordinarî, «il numero di questi punti è lo stesso per entrambi i piani », si può di- mostrare seguendo due metodi differenti. Un primo metodo, tenuto dal Cremona stesso, consiste nell’esprimere che i punti doppî del fascio di curve, che sopra uno dei piani dati corri- sponde ad un fascio di rette dell'altro, debbono venir tutti assorbiti dai punti fondamentali di quel piano e dalle curve degeneri del fascio. Un secondo metodo si ha calcolando in due maniere diverse il genere della Jacobiana della rete di curve, che sopra uno dei piani dati corrisponde alle rette dell'altro, e poi eguagliando î due risultati così ottenuti (°). (*) S. Dautheville, Sur les systemes non-holonomes. Bull. Soc. math. de France, t. XXXVII, 1909. (2) G. Morera, Sulle equazioni dinamiche di Hamilton. Atti R. Accad. di Torino, vol. XXXIX, 1903-1904. (*) H. Poincaré, Sur une généralisation de la méthode de Jacobi. Comptes rendus. Paris, 13 décembre 1909. (4) Sulle trasformazioni geometriche delle figure piane. Memorie dell’Acc. delle Scienze dell'Istituto di Bologna, tomo V, serie 2°. (3) Per questo metodo veggasi la mia Nota: Sopra una proprietà delle trasforma- zioni birazionali nello spazio ordinario. Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, vol. XIX, serie 5° (1910). — 405 — Questi due metodi applicati alle trasformazioni birazionali nello spazio ordinario, conducono a due relazioni distinte fra gli elementi fondamentali. La relazione che nasce dal secondo metodo trovasi stabilita nella mia Nota dianzi citata; quella che si ricava col primo metodo costituisce l’og- getto della Nota presente. Ma la sua dimostrazione viene esposta somma- riamente, alcuni sviluppi non potendo qui trovar posto, a causa della loro estensione. 1. Per applicare al piano il metodo del Cremona, è necessario conoscere la riduzione prodotta da un punto-base 7‘, sul numero dei punti doppî di un fascio di curve. Quindi, volendo seguire il metodo analogo nello spazio, bisogna trovare la riduzione che sul numero dei punti doppî di un fascio di superficie producono gli elementi multipli della base del fascio stesso. Questa riduzione, sin qui nota soltanto in casi particolari (*), viene data dal teorema seguente, che sarà dimostrato in un altro lavoro: « Un fascio di superficie 4 dell'ordine 7 abbia la base costituita da # « punti P, e da 7 curve C;. Ogni punto P, sia multiplo (ordinario) secondo «L ((>1), per ciascuna superficie 9 e il cono in esso tangente alla super- « ficie medesima vari col variare di questa nel fascio. Così ogni curva G;, « d'ordine 7; e rango 7;, sia multipla (ordinaria) secondo 7 per ciascuna « superficie @, e gli 7 piani tangenti in uno stesso punto di C; alla superficie « medesima varino col variare di questa nel fascio. Inoltre, ogni curva C; « passi con 4, rami per ciascun punto P, e si appoggi ad ogni altra curva «C;(j =) in %; punti. Infine, il fascio dato contenga d superficie dege- « nerì, ciascuna delle quali sia composta da due superficie A e B, che si « taglino, fuori della base, secondo una curva 43, dell'ordine ua e del ge- « nere 773, la quale passi con pa, rami per ogni punto P, e si appoggi in «qQèi punti ad ogni curva C;. In tali ipotesi, il numero D dei punti doppî « del fascio è somministrato dalla formula: D= 4-1} — SY 2(/—1)(2+1) — — > [2(62—3i—1) ui 2(4° +32 — di — 1)] mi + DS Fe 32+1)r; + Di Aa ee) ESE + paia; —sij—(j—Mk- — > 2(4us 4 3a — 3) + > dpa LS 2a. Ò dl ÒI (0) (*) Per questi casi veggasi: 1°. Cremona, Preliminari di una teoria geometrica delle superficie, n. 125; 2°. Pieri, Sopra alcuni problemi riguardanti i fasci di curve e di superficie algebriche, Giornale di Battaglini, vol. XXIV (1886); 3°. Guccia, Sur les RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 58 — 406 — Questa formula può essere messa sotto un aspetto molto più semplice, introducendo il genere aritmetico P_di una superficie g del fascio, l’inva- riante @ di Castelnuovo-Enriques della superficie medesima, e il genere p della curva semplice, che con le curve C; completa la base del fascio (!). Infatti, se si ricordano le espressioni di questi tre caratteri in funzione del- l'ordine n delle superficie g e delle caratteristiche de’ suoi elementi mul- tipli (*) si trova facilmente: (1) D=24P —209+2p—261—2) mt > rr +. 20—- — \ 2(4ua + 32 — 3) + D_ 4pan + D_2dai- È 2 2 dl di 2. Ciò premesso, suppongasi di avere due spazî 2 e 2', fra i punti dei quali abbia luogo una corrispondenza birazionale. La base del sistema omaloidico || formato dalle superficie @ di 2 corrispondenti ai piani @' di 2', risulti costituito da 7 curve Ci, eda d' punti P,, di cui s siano semplici (= 1), e i rimanenti {= 0 —s siano multipli secondo /(2>1). In ogni punto semplice P, le superficie g non abbiano alcun contatto fra loro, e rispetto agli altri elementi fondamentali di X si comportino in modo da soddisfare alle medesime condizioni imposte nel n. precedente alle superficie del fascio ivi considerato. Ipotesi e notazioni analoghe valgano per gli elementi fondamentali dello spazio I. Ora nel sistema di superficie |g| prendasi un fascio (g), il quale cor- sponde in X ad un fascio (@') di piani a' dello spazio 3". Il numero dei punti doppî del fascio (g) è dato dalla formula (1), tenendo conto delle seguenti proprietà particolari, di cui gode il fascio me- desimo, come appartenente ad un sistema omaloidico. 1°) Ogni superficie g è razionale, epperò si ha: P=0: 2°) La curva (semplice e variabile col fascio (g)), che insieme con le curve. fondamentali C;, completa la base del fascio medesimo, è la curva dello spazio X, che corrisponde ad una retta di 2', all'asse del fascio (a) di piani, e quindi anche essa è razionale; perciò si ha pure: p=0. points doubles d'un faisceau de surfaces algebriques. Comptes rendus (1895); 4°. Segre, Intorno ad un carattere delle superficie e delle varietà superiori algebriche. Atti del- l’Ace, delle Scienze di Torino, vol. XXXI (1895). (1) Se questa curva manca è da porre p= I (8) Per queste espressioni si può vedere la mia Nota ricordata in principio. —_——__11n ___———————me—=»==“%%%2%4*“dZÀ=% — 407 — 3°) Ogni superficie 9 è rappresentabile punto per punto sul piano a', che le corrisponde in X'. Essa contiene s punti, ai quali corrispondono sul piano @' altrettante curve razionali, e possiede > mi; curve eccezionali, es- Tan sendo m/ l'ordine di una curva fondamentale C). Quindi il suo invariante 9 è dato dalla formula ('): VU 4°) Infine, il fascio (g) contiene o’ superficie degeneri, poichè ad ogni piano del fascio («’), che passi per uno dei o’ punti fondamentali Py di 2° corrisponde in X una superficie composta dalla superficie A corrispondente al Punto Py e da una superficie B, che con la precedente costituisce una superticie @. Questa superficie B è rappresentabile punto per punto sul piano @' e le sue sezioni piane hanno per immagini, sopra @', curve, che posseggono in Py un punto multiplo secondo /. Quindi alle direzioni uscenti da questo punto e situate sul piano @' corrispondono biunivocamente sulla superficie B i punti di una curva razionale dell'ordine /". Questa curva è l'intersezione 45 fuori delle curve fondamentali C;, delle due superticie A e B. Si ha pertanto : Inoltre, ad un punto fondamentale P, di X corrisponde in 2" una superficie A”, la quale possiede nel punto Py dianzi considerato, un punto di moltiplicità pa,, in modo che essa viene tagliata dal piano a’ secondo una curva avente in P} un punto di eguale moltiplicità. Così sul piano a’ restano determinate pa, direzioni uscenti da Py, alle quali corrispondono altrettanti punti M sulla curva 43. Ma quelle direzioni sono tangenti in Py alla superficie A', ai punti della quale corrispondono i punti infinitamente vicini a P,; dunque questi pa, punti M di 4> sono infinitamente vicini a P,. Ciò dimostra che la curva 43 ha in P, un punto multiplo secondo pa; ep- però si conclude che questa curva > possiede in ogni punto P, di ® un punto di moltiplicità eguale a quella che ha in Py la superficie di 2° cor- rispondente a quel punto P,. Infine, in modo analogo si trova che la medesima curva 43 si appoggia ad ogni curva C; di X in un numero ge; di punti eguale alla moltiplicità di Py per la superficie di 2’ corrispondente a quella curva C;. Ora è noto che la Jacobiana del sistema omaloidico delle superficie di 2", corrispondenti ai piani « di X, è costituita dalle superficie di 2°, (') Castelnuovo-Enriques, Sopra alcune questioni fondamentali nella teoria delle superficie algebriche, nn. 5 e 21. Annali di Matematica, tomo VI, serie III (1900). — 408 — che corrispondono alle curve C; e ai punti P, di XY, contate rispettivamente una e due volte; ed inoltre che la medesima Jacobiana possiede in ogni Py un punto multiplo secondo 40 — 2. Quindi facendo la somma dei rami con i quali una curva 43 passa per tutti i punti P,, e dei punti in cui sì ap- poggia a tutte le curve C;, sì ha: > 2a td gda= 4l' —2 1 i donde estendendo la somma medesima a tutte le a' curve 43, si ricava: 3900 tp dl In tal modo sono noti, per il caso attuale, i valori dei differenti ter- mini, che figurano nella formula (1). Quindi, sostituendo, si trova: Il numero dei punti doppî del fascio (g) è dato dalla formula: D=-2Y mr +20 —2Y m—20+Y n. D'altra parte, a questo fascio (g) di XY corrisponde in >" un fascio (a') di piani, e, come sarà dimostrato altrove, fra i piani di questo fascio sola- mente quelli che riescono tangenti alle curve fondamentali C;, di 2", hanno per corrispondenti nel fascio (g) superficie dotate di un punto doppio situato fuori degli elementi fondamentali di X. Quindi, essendo 7; il rango di una curva Ci, si ha ancora: Dal confronto di questa formula con la precedente si deduce la rela- zione : (2) ii 3 oi r', 0 la quale lega fra loro gli elementi fondamentali dei due spazî 3 e 2°. Ma questa relazione può esser messa sotto una forma più semplice e ben più notevole. Se si indica con e; il genere di una curva C;, sì ha: 2(0; = 1) ==ri-2M, donde, essendo 7 il numero delle curve C;, si ricava: 2) OT) ma. — 409 — Analogamente si ottiene: 2Vey—2a' =Yr-2Y mb. Ca i DA In virtù di queste due formule, dalla (2) si deduce infine il teorema seguente: « Se fra i punti di due spazî X e 2" ha luogo una corrispondenza bi- « razionale, i cui elementi fondamentali soddisfino alle condizioni ad essi « imposte in principio di questo n. 2, fra gli elementi stessi sussiste la « relazione : Wi. o+r—Ye=do+1—Y e, i 7 « nella quale o e 7 indicano rispettivamente i numeri dei punti e delle « curve fondamentali dello spazio X, e 0;(£=1,2,...t) è il genere di «una di queste curve: i simboli o", 7", 0° hanno i medesimi significati ri- « spetto agli elementi fondamentali dello spazio I" ». 3. Le due proprietà delle trasformazioni birazionali dello spazio dimo- strate nella mia Nota più volte citata e nella Nota attuale, sono state ri- spettivamente dedotte dalla considerazione della superficie Jacobiana del sistema omaloidico formato dalle superficie di uno spazio, che corrispondono al piani dell'altro spazio, e dal numero dei punti doppî (gruppo Jacobiano) di un fascio contenuto nel sistema anzidetto. È quindi probabile che l'esame della curva Jacobiana di una rete di superficie appartenente al sistema me- desimo, conduca a qualche altra relazione fra gli elementi fondamentali dei due spazî, diversa da quelle già ottenute. Questo studio mi propongo di fare in seguito. Matematica. — Sopra l’equazione integrale di Volterra di seconda specie con un limite dell’integrale infinito. Nota del dott. G. 0. Evans, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. $ 1 1. Consideriamo l'equazione (1) “a)=9()+ f = u(8) dé ove sono continue le funzioni /(£).g(x). Per mezzo di una trasformazione della funzione «(x) u(x) 95%79) — 410 — l'equazione (1) può scriversi nella forma O) gt AO Trovata la funzione w(x) in modo che la (1) sia soddisfatta, viene trovata (x) in modo che la (2) è soddisfatta, e reciprocamente, trovata v1(z) tale che soddisfaccia la (2), può trovarsi w(x) tale che sia soddisfatta la (1). 2. Consideriamo dunque l'equazione (8) vg f a Porremo ; d (AC) ion p(£) ra = pra è Gro(0,y9) = da G(a, 9) d Go(e,9)= >) G(2,4) e considereremo le ipotesi seguenti delle quali faremo uso in parte o del tutto nei teoremi da svolgersi: a) Nel tratto a=a, sta g(x) continua (*), finita in valore asso- Into 0); e nel campo yZ=ax=a sta la funzione G(x ,y) continua, e finita in valore assoluto 0 vi è un numero infinito di soluzioni u(x) con- tinue per a = a, e tali che lim u(x) esiste. Si possono scrivere nella forma u(x) = U(x) + CW(2) ove C è una costante arbitraria. Inoltre, ogni soluzione u(x) continua, fuorchè in un numero finito di punti, risulta continua nell'intorno del punto x = co e tale che lim u(x) LQ=090 esiste. 4. Facciamo nell'equazione (3) la sostituzione a=e , E=e , de=dgids. Essa diverrà Co) G 1 a Ea (5) e) = gle) + f ETRE dh) de Avremo d , j IP = (10 2 92) i (E)=7/0) 2 FezSi f(e)] = erbi f(e8) + fe) I - f(£) AL 46) | nallkg x log a rale + pro G(et:, e) = G(a, 5) 2. Gi(et1, e51) = et Gio(et, e61) = e Gro(® , È) dI È G(et:, 681) = 2 (log 2)? Gio(@ , 5) dI a d_ Cà ANTE 2 6 % G(ezi, e) = E(log £)° Go(1, È). ReNDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 54 — 414 — Supposte verificate le ipotesi a), b), c), sì supponga inoltre che si abbia 1 LIO 0 una o un numero infinito ri- | spettivamente di funzioni continue che soddisfanno l'equazione (5) e tali che ciascuna s'avvicina ad un certo limite quando diviene infinita la variabile. Inoltre, siccome le proprietà della continuità e del possedere un valore deter- minato nel punto infinito sì conservano con una trasformazione 4 = e, si ha che tutte le soluzioni, se sono continue fuorchè in un numero finito di punti, devono essere continue (cioè anche finite) nell'intorno del punto «= 0, e tali che ciascuna s'avvicini ad un certo limite quando diviene infinita la variabile. Si ha dunque il TroreMa 3. Se sussistono le ipotesi a) b) c) e inoltre si ha 2 {(2) a>=a. x |log x log*(x) . . . log") (log*+(2))? Gro(® » y))} < M y [log y 10g*(y) - « « log" (y) (log**"(y))? Gu(2, 9) < M — 415 — 1 In modo analogo procedendo per mezzo della sostituzione «= ” può ampliarsi la generalità delle funzioni (z), G(z, n) nell'equazione 6 — = d (6) ASGI) (n) dn . Ossia può farsi una trasformazione dapprima dall’equazione (3) all’equazione (6) per mezzo della sostituzione e poscia dall’equazione (6) all’equazione (3) per mezzo della sostituzione B = (Go e così di seguito. 6. È interessante notare che nel caso del limite infinito si può avere un numero infinito di soluzioni, come dimostrano i teoremi (2) (3), mentre resta finito e continuo il nucleo G(, y)/f(y) dell'equazione. Per altro, può limitarsi in qualche caso definitivamente il numero delle soluzioni. Se valgono le ipotesi a) b), e la ipotesi aggiunta nel teorema 1, la (4) può scriversi nella forma 1) 3) =9 + f 1 66,9) vm) d ove le funzioni (z), G(z,) colle derivate del primo ordine sono continue, mentre si ha /(2) >0 quando si ha z>0, e G(2,7) +0 nell'intorno del punto z=0,7=0. Ma in questo caso ogni soluzione se è continua, fuorchè in un numero finito di punti, deve essere continua (cioè anche finita) dappertutto nell'intorno del punto z=0(!). Si ha dunque, partendo dal teorema 1, il TEOREMA 4. Se valgono le ipotesi a) b) e se inoltre tim | FE) esiste, segue che nel tratto x =-a, (a essendo una costante sufficientemente grande) esiste una sola soluzione dell'equazione (3) continua per x =a, fuorchè in un numero finito di punti. Questa soluzione anzi è continua per a=a, e tale che s'avvicina ad un valore determinato quando di- viene infinita la variabile x. (‘) Bull. American Math. Soc. 22 series, vol. XVI, n. 8, pag. 135, aggiungendo alla conclusione del teorema le parole « except possibly at «=». — 416 — Fisica. — Azione elettromagnetica d'un disco percorso da corrente radiale e disposto in un campo. Nota di 0. M. CorBINO, presentata dal Socio P. BLASERNA. In un lavoro presentato all'Accademia nella precedente seduta ebbi a dimostrare che un disco circolare di bismuto, percorso da correnti radiali e disposto in un campo ad esso normale, si trasforma in una particolare lamina magnetica, capace di esercitare un'azione induttiva su una bobina che cir- conda il disco. Fic. 1. Mi propongo adesso di ricercare, sulla base della teoria elettronica della conducibilità nei metalli, quali siano le previsioni della teoria sull’effetto osservato, confrontandole con i risultati dell'esperienza, e come l’effetto stesso dipenda dalle costanti specifiche del metallo. 1. Seguendo le notazioni del Drude ('), con la sola modificazione di adot- tare in tutto le unità elettromagnetiche, indichiamo con e il valore assoluto della carica elettrica posseduta dagli ioni positivi e negativi; con N, e N» i numeri rispettivi di ioni liberi per centimetro cubo, con ev, ed ev» le ve- locità costanti acquistate dagli ioni sotto l'azione di una campo elettrico 1, e quindi con o,=eNivi , 0,=@°N°0v° le conducibilità parziali delle due specie di ioni; sarà: o= 0; + 09 la conducibilità complessiva del metallo. Siano, infine, 7, ed 7: i raggi, in- terno ed esterno, che limitano l'anello di bismuto, disposto nel campo nor- (1) Drude, Ann. d. Physik., 3, pag. 370 (1900). — 417 — male H; e questo sia prodotto da una corrente che circola nel senso della freccia (fig. 1). Sotto l’azione della forza elettrica, le cui componenti secondo gli assi indicheremo con X, Y, e dell’azione elettromagnetica, gli ioni positivi acqui- steranno una velocità le cui componenti A, saranno rilegate dalle equa- zioni: da dy SARE X CI gioni o ( mil >) d) dy da A n 0; (x ol tO) o anche dalle altre che si ottengono combinandole insieme: da 229,2 di (14-H?e2y});:—e0,(X — Hev,Y) dy 202)? mo] (1-FH°e0)= ev, (Y È Hev, X) Avremo così, come equazione della, traiettoria, o dy _Y+He,X de X—HeoY Si osservi intanto che il potenziale elettrico essendo una funzione mono- droma, e tutte le azioni essendo simmetriche rispetto all'asse del disco e del campo, le linee equipotenziali continueranno ad avere la forma circolare posseduta in assenza del campo. La forza elettrica sarà adunque radiale, e avremo, indicando con (7) una funzione della distanza r dal centro, ae ro s fe Con ciò, la (2) diviene dy __y+Hevn de x —Hevsy e anche ponendo (3) Hev = m, dy _ykbma de xax- My Questa si integra facilmente ponendo ESA X — 418 — e si ottiene, detta C una costante, tang È m, log(a° + y°) + c | Di ) e in coordinate polari g=m,logr + 0. La costante C si determina ponendo r= 71, Per 9=0; si ha con ciò 9 (4) r= re" e analogamente per gli ioni negativi, ponendo Hevs = Ma si avrebbe Li rare Adunque le traiettorie dei due ioni sono due spirali logaritmiche di- stinte, anzichè un raggio comune del cerchio, come avviene in assenza del campo. Con una corrente centrifuga la spirale degli ioni positivi è percorsa in senso opposto alla corrente magnetizzante. Se si ammette, con Drude, pel bismuto e0. = 5 X 1075, e evi = 0,085 X 107°, per un disco nel quale log _ — 3, disposto in un campo di 3000 unità, l’intera spirale ri- 1 sulterebbe compresa in un angolo di circa 18° per gli ioni negativi e di soli 35' pei positivi; cosicchè, per questi ultimi, potrebbe considerarsi, pratica- mente, come rettilinea. In generale si può dire perciò che mentre restano inalterate le linee equipotenziali nel disco, si separano le traiettorie delle due correnti, contra- riamente a ciò che ha luogo nell'esperienza di Hall, quando dalla lamina non vengano derivate correnti laterali. E non occorre in conseguenza tener conto, come nella teoria del feno- meno di Hall, della condensazione trasversale degli ioni e della loro conse- guente retrodiffusione elettrica è termica. 9. Veniamo al computo teorico dell’azione elettromagnetica dovuta 2 queste correnti distorte. Sia (fig. 2) OAB la traiettoria degli ioni positivi, che è percorsa nel senso opposto a quello della corrente magnetizzante quando la corrente nel disco è centrifuga. Mentre, a campo non eccitato, la corrente procede lungo un raggio, e torna, per la piastrina posteriore, lungo il medesimo raggio, i due cammini vengono sostituiti, in presenza del campo, dalla curva OABO, — 419 — che dà luogo a un flusso attraverso al disco, e quindi attraverso alla bobina che lo circonda. Per ragioni evidenti di simmetria, nella valutazione del flusso totale attraverso al disco, o anche attraverso alla bobina indotta concentrica, noi possiamo supporre concentrata in questa spira OABA tutta la corrente I, trasportata dagli ioni positivi, data da ove I indica la intera corrente radiale. Pie. 2. Essendo nota la forma della curva, l'azione di questa spira, proporzio- nale a I,, può facilmente calcolarsi per quanto riguarda la sua dipendenza da m,. È evidente, invero, che i tratti OA, BO non eserciteranno alcuna azione induttiva sulla bobina esterna, dando luogo ad un flusso totale nullo attra- verso al disco, poichè le loro direzioni passano pel centro. E così ciascun elemento ds del tratto OAB potrà esser sostituito dalla sua proiezione ra- diale, inattiva sul flusso totale, e dalla sua proiezione MN sul cerchio di raggio 7, eguale a rd9. — 420 — Quest’ ultima proiezione può essere comunque rotata nel cerchio intorno a O. mantenendogli invariata la distanza 7. Possiamo perciò sostituire alla spira un insieme di archetti circolari tutti disposti normalmente a un unico raggio. percorsi dalla corrente I, e aventi la lunghezza 744 o anche, essendo per la (4) rdg=m,dr tutti di lunghezza costante mi, dr. Ma se vogliamo che questi elementi sempre lineari, siano invece limi- tati entro un settore circolare, per esempio d'angolo al centro 1, con che ì Ria ] ì 1 È diversi elementi vengono allungati nel rapporto — 7 occorrerà che essl si m, dr siano percorsi dalla corrente primitiva I, ridotta nel rapporto di 1a m dr, ml ed eguale perciò a dr. Dando, infine, a ogni elemento una larghezza dr, tutto il settore sarà coperto in modo continuo, € ogni striscetta circolare di : my I SMIOR larghezza dr sarà percorsa dalla corrente vr dr, con una densità di cor- Mi, rente — I. P E se il settore ha l'ampiezza di tutto il cerchio, la densità dovrà essere m È punto per punto ah e la corrente totale che traversa un raggio im li Po — log—. 27 5 Ta Risulta così dimostrato che l'azione degli ioni positivi e negativi del disco è proporzionale rispettivamente, 1 Mi I, ea ms Is, e l'azione com- plessiva sarà perciò proporzionale a mili a Mi (Mi O) — My 00) P . La costante di proporzionalità dipenderà solo dalle dimensioni del disco, e anche dalla bobina indotta, se invece del flusso attraverso al primo si ricerca l'azione induttiva sulla seconda; essa sarà perciò comune a tutti i dischi di uguale contorno e di qualsiasi metallo, e potrebbe essere calcolata con considerazioni puramente geometrica. Ma può anche determinarsi speri- mentalmente; basta a tal fine misurare l’azione induttiva d'una lamina conduttrice, forata al centro, spaccata lungo un raggio, e nella quale sia applicata, con due conduttori di resistenza trascurabile disposti lungo gli orli del taglio, una forza elettromotrice costante; questa darà luogo appunto a correnti circolari di densità inversamente proporzionale a 7. Sì misuri, — 421 — sperimentalmente, con una o più spire che l'abbraccino tutto intorno (o con la bobina indotta che serviva pel disco di bismuto) il flusso totale attra- verso la lamina (o la sua azione induttiva sulla bobina) quando la corrente È 1 nà circolare integrale ha il valore dr log a, e sia K il valore ottenuto, ad LI esempio, per l’effetto induttivo sulla bobina. È chiaro che l’azione induttiva constatata col disco di bismuto sarà data da (5) C= (I ml) = E (19 — 000) = KBIH ove sì è posto j eV, 0, — 003.0 (6) pie leali 222 (0) In questa espressione K dipende solo dalle dimensioni del disco, ed E è un coefficiente caratteristico del metallo. L'azione sarà adunque proporzionale alla corrente I, conformemente alla esperienza. Quanto alla legge di dipendenza da H essa sarà meno semplice di quel che appare dalla formola, qualora il campo sia creato con un elettro- magnete in ferro. E invero il flusso che traversa il disco e la bobina si chiude, in parte, attraverso alla carcassa di ferro, penetrando e uscendo per le facce polari. Viene con ciò accresciuta l'intensità delle azioni osservate; ma all'aumentare del campo, e quindi dell’induzione nel ferro, diminuisce la sua permeabilità differenziale, cioè la sua attitudine a dare facile pas- saggio alle nuove linee di forza create dal disco. È perciò che l'azione indut- tiva cresce, secondo l'esperienza, più lentamente del campo, ed è per ciò che, a campo eguale, l'azione aumenta avvicinando al disco le facce polari. Si può, però, correggere questa influenza del ferro confrontando l'azione 0s- servata con quella d’una spira circolare percorsa da corrente, e situata nel- l'intraferro, intorno al disco. Così facendo ho avuto agio di ossservare che anche l’azione corretta cresce più lentamente del campo, così come avviene dello stesso bismuto pel fe- nomeno di Hall. Ciò è dimostrato dalla seguente tabella; in cui la seconda colonna contiene le correnti che era necessario mandar nella spira per ot- tenere la stessa deviazione galvanometrica osservata col disco percorso da 15 ampere: Campo Corrente equivalente 1/H . 105 = nella spira, (= 3700 0,26 A 7 5700 0,31 » 9,6 7000 0,34 » 4,9 8200 0,85 » 4,3 9000 0,37 » 4 RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. d9 — 422 — 3. L'effetto osservato dipende adunque, secondo la teoria, da N, N, v, e vs; mentre l’effetto Hall dipende inoltre da MICA CNG _ dlogN: , gene 0) cioè dalle variazioni relative dei numeri di ioni con la temperatura, secondo la formula €VXL—V2X RE? 2% C Lt % Si riconosce da ciò che l’azione elettromagnetica constatata fornisce un’altra relazione indipendente tra le costanti caratteristiche del metallo. E così anche il segno dei due effetti potrebbe essere opposte se fosse, per ‘ qualche metallo, Vida < 02% e insieme UN. o > YN: 0a il che non può escludersi @ prsori. I coefficienti dei quattro effetti trasversali già noti, designati da Drude con le lettere R, P, Q, S, contengono, eccettuato S, le costanti x, e «2. Solo il coefficiente S dell’ effetto trasversale termico per una corrente calo- rifica è dato da S= (Dì 63 — V2 01) ed è perciò determinato, come il coefficiente dell'effetto elettromagnetico E, [vedi la (6)] dalle stesse quattro costanti v;, 2, 01, 03. Com'è noto le maggiori incertezze si hanno appunto sul valore e perfino sul segno di S, e da questo, secondo Zahn, deriva l'impossibilità di calcolare le costanti del metallo utilizzando i valori di P, Q, R, S. È probabile che le condizioni diventino migliori sostituendo all’ equazione in S l’altra in E, utilizzando cioè l'effetto elettromagnetico. Allo scopo di formarci un'idea dell'ordine di grandezza relativo, pei diversi metalli, dell'effetto Hall e dell'effetto elettromagnetico, ammettiamo che sia per essi, all'incirca, — 423 — si avrà, ritenendo solo i fattori variabili da metallo a metallo, per l'effetto elettromagnetico : N ; ai Cit) — Vial: e per l’effetto Hall: e perciò E= Ro. Or, com'è noto, mentre R varia moltissimo da metallo a metallo, il prodotto di R per la conducibilità o varia molto meno ('). Così mentre il tellurio dà luogo a un effetto Hall 650.000 volte superiore a quello del- l'argento, l’effetto elettromagnetico sarà solo 5 volte maggiore. E per la stessa ragione tra bismuto e argento il rapporto dei due coefficienti Hall è circa 11 mila, mentre quello tra le azioni elettromagnetiche sarebbe solo 150. Tutto ciò, beninteso, con le necessarie riserve per la supposta eguaglianza GR IN 0 RESERO Malgrado questa intensificazione dell’effetto elettromagnetico, nei metalli che presentano un effetto Hall troppo debole rispetto al bismuto, pure diffi- cilmente si riesce a manifestare il primo nei metalli comuni, poichè già col bismuto le deviazioni ottenute non sono molto grandi. Con un disco di 60 millimetri di diametro, percorso radialmente da 20 ampére, e una bobina indotta di circa 500 spire, le deviazioni, misurate a un buon galvanometro Siemens a telaio mobile, sono dell'ordine di circa 100 divisioni della scala disposta a 3000 divisioni dallo specchietto, nè si può sperare molto di più, senza complicare troppo la disposizione sperimentale. È perciò che nelle ri- cerche in corso, per la determinazione assoluta del valore di E, mi son pro- posto di limitarmi ai tre metalli per cui il prodotto Ro ha il maggior va- lore: il bismuto, l’antimonio e il tellurio. (*) Drude, l. c. pag. 392. — 424 — Fisica. — Forze elettromotrici radiali indotte in un disco metallico da un campo magnetico variabile. Nota di 0. M. CorBINO, presentata dal Socio P. BLASERNA. 1. Come ho dimostrato in un precedente lavoro, un disco metallico, per- corso da corrente radiale, e perciò elettromagneticamente inattivo, si trasforma per azione di un campo a esso normale in una speciale lamina magnetica. Il disco, percorso da corrente radiale, produce perciò una lieve alterazione del campo preesistente; si può allora prevedere che, reciprocamente, la crea- zione del campo deve far nascere nel disco una forza elettromotrice radiale, e quindi una corrente radiale qualora si rileghino metallicamente il centro e la periferia. Effettivamente, disponendo tra i poli dell’elettromagnete il disco di bismuto, come nell’esperienza citata, e rilegando il centro e l'anello peri- ferico, attraverso al tubo, con un galvanometro, si constata la produzione di una corrente indotta alla eccitazione del campo, e d'una corrente inversa alla sua diseccitazione. Il senso della deviazione ron dipende dalla direzione del campo; questo fatto differenzia il fenomeno in questione dalle azioni in- duttive ordinarie. Questo particolare fenomeno d'induzione può essere interpretato come un vero effetto Hall subìto dalle correnti di Foucault circolari che sì generano nel disco per la variazione del campo; vi deve corrispondere invero, per l’ef- fetto Hall, una f. e. m. normale alle linee di corrente. La forma delle cor- renti resterà la primitiva, cioè la circolare, finchè per mezzo del circuito esterno non sia stabilita la comunicazione tra il centro e la periferia del disco. La previsione teorica delle leggi del fenomeno riesce però molto com- plicata, qualora esse si vogliano dedurre dall'integrazione, lungo il raggio, delle diverse f. e. m. di Hall, poichè già il calcolo delle correnti di Foucault presenta notevoli difficoltà quando si voglia tener conto del loro ritardo sulle variazioni di flusso esterno. Si aggiunga che il coefficiente di Hall si suol prevedere e misurare pel regime permanente, quando cioè si son rese stabili le differenze di temperatura tra i bordi della lamina dovute alla condensa- zione degli ioni (effetto trasversale termico per corrente longitudinale elet- trica); mentre nel caso attuale è da ritenere che il processo si svolga a tem- peratura sensibilmente costante. 2. Ci converrà, invece, connettere le deviazioni osservate a quelle pro- prie dell'effetto elettromagnetico, partendo dall'espressione della energia pos- seduta dal disco percorso da una corrente radiale nel campo esterno, e appli — 4259 — cando i procedimenti comunemente usati per dedurre le leggi dell’induzione dall'elettromagnetismo. Un disco, percorso dalla corrente radiale I e disposto normalmente a un campo H, equivale elettromagneticamente (') a un sistema piano di correnti circolari aventi per densità di corrente (1) mil — mal __EHI (po r ove 7 è la distanza dal centro, e si è posto: 9 ( Mi —- Hev, | ) Mo = Hev, Ip sIseSsi li Ch NZ (3) VARENOZINIONI DI (4 Arne (0) cioè ev, ,€0, rappresentano le mobilità degli ioni positivi e negativi, I, e I, le correnti parziali; 0, e 0, le conducibilità corrispondenti, o la conducibi- lità totale, e infine N,, N i numeri di ioni dei due segni per cm?. Il coef- ficiente E è perciò caratteristico del metallo. Un anellino di raggio 7 e lar- ghezza dr, sì comporta, quindi, come se fosse percorso dalla corrente HEI : n dr e la sua energia nel campo H sarà: EIH r dW = — dr X 1r* H cosicchè l'energia complessiva del disco nel campo sarà data da (5) W=—L1.kSH? ove S indica la superficie aftiva del disco (sottraendo cioè dalla superficie totale del disco il cerchietto centrale di raggio 7). Occorre tener presente che E è funzione di H: almeno nel caso del bismuto, come risulta dalla variabilità col campo dell'effetto elettromagnetico da me studiato nel precedente lavoro; ma ciò non è un ostacolo allo svi- luppo della teoria, come vedremo tosto. Durante il periodo variabile, entro un tempo d?, sia I la corrente ra- diale indotta, e la f. e. m. relativa, e 4W la variazione dell'energia W. (1) Vedasi l’altra mia Nota in questo fascicolo. — 426 — Sarà: dW= eldt= — 1 Sd (EB*) e perciò PO GI d (EH°) De 2 dt Detta o la resistenza del circuito totale che rilega il centro alla periferia del disco, la quantità di elettricità Q raccolta, tra i valori estremi 0 e H del campo, nell’eccitazione di questo, sarà dunque (6) o=i[ Po pi H? QJo Q ove Ex indica il valore finale di E corrispondente al valore H del campo. L'effetto induttivo sarà perciò indipendente dal segno di H, e il gal- vanometro darà deviazioni eguali e nel medesimo senso alla chiusura del campo, qualunque sia la direzione di questo. L'esperienza conferma, come sì è visto, questa previsione. 3. Se si confronta la (6) con la (5) della mia Nota precedente, che dà la misura dell'effetto elettromagnetico C: C= KIHE si deduce: 1S C y (7) Q= 25 x! Or l'effetto C, relativo ad una data corrente I, aumenta col campo, ma più lentamente di questo nel caso del bismuto: in totale l’effetto Q aumenterà col campo. più rapidamente del campo medesimo. E poichè © cambia di senso col campo, assumendo valori numericamente eguali, si comprende che Q debba invece restare invariato in grandezza e in segno. Si ha così un mezzo per separare dall'effetto ottenuto le eventuali induzioni dell’elettromagnete sul circuito complessivo che fa capo al galvanometro, cioè tutte le azioni induttive accessorie che s'invertono alla inversione del campo. Queste erano nel mio caso trascurabili. Se il disco fosse sottoposto ad un campo alternativo, l'espressione Ea H° della (6) riprenderebbe periodicamente gli stessi valori, e al passaggio per zero si avrebbe sempre Q= 0: il circuito esterno sarebbe percorso perciò da correnti alternate, con trasporto di quantità d’elettricità eguali nei due sensi. Naturalmente il fenomeno sarebbe perturbato, in questo caso, dalle cor- — 427 — renti termoelettriche dovute all'ineguale riscaldamento, per le correnti di Foucault, del centro e della periferia. 4. La formola (6) si presta a una determinazione immediata di E 0% — 02 080° se ne deduce infatti: Basta perciò tarare il galvanometro per quantità di elettricità, e misu- rare il campo e la superficie della lamina. Ho ottenuto in tal modo per la lamina di bismuto che mi è servita in tutte queste esperienze: H E.10° 3700 12,2 6100 7,8 7250 7,2 8100 7,0 8700 6,8 Si ritrova cioè la diminuzione di E al crescere del campo, già riferita per l’effetto elettromagnetico C, nella mia Nota precedente. 5. Il valore ottennto per E, che è espresso in unità assolute elettro- magnetiche, ci permette di calcolare, in base alla (5), l'energia W del disco percorso da una corrente I in un campo H. Per I= 20 ampèere=2C.G.S, e H= 9000 si ottiene W=— 1820 erg. E se la normale al disco forma col campo un angolo «, sarà W=— 1820 cos'e. Si eserciterà allora sul disco una coppia di momento = CA = 1820 sen 2a da Questa è massima per a= 45°, ed ha in tal caso il valore M = 1820 dine-centimetro cioè il disco sarà sollecitato da una coppia di circa 1,85 grammi peso-cen- timetro. Una coppia così rilevante deve potersi mettere in evidenza, mal- grado le complicazioni dovute alle proprietà magnetiche del metallo. Sono — 428 — in corso delle esperienze per la constatazione di questo effetto elettro- dinamico col bismuto e con altri metalli. 6. L'ordine di grandezza, relalivo ai diversi metalli, della f. e. m. in- dotta, è per la (7) corrispondente a quello dell'effetto elettromagnetico, e perciò, in prima approssimazione, dipende dal prodotto Ro del coefficiente di Hall per la conducibilità del metallo: prodotto che varia pei diversi me- talli molto meno di R. Ma poichè col bismuto gli effetti induttivi ottenuti non sono molto rile- vanti (il galvanometro a telaio mobile subiva alla chiusura del campo una deviazione massima di circa 100 divisioni della scala), si può prevedere che l'effetto sarà accertabile nettamente, senza cure speciali. solo per pochi altri metalli, quali l'antimonio, il tellurio e forse anche il ferro. 7. Dell'effetto induttivo osservato, può darsi ancora una interpretazione più sintetica e suggestiva. Gli ioni del disco metallico, muoventisi in tutti i sensi come le molecole di un gas, si trovano sottoposti per effetto del campo magnetico supposto crescezte, a una forza elettrica, dovuta alla va- riazione del campo, che tende a trascinarli prevalentemente lungo un cerchio concentrico al disco, e a una forza elettromagnetica, dovuta al valore attuale del campo, perpendicolare al moto, e perciò agente con prevalenza nel senso radiale: quest’ultimo moto sarà centripeto, com'è facile riconoscere, per en- trambi gli ioni, se il campo è crescente, centrifugo nel caso opposto. À causa della loro ineguale mobilità, questa forza radiale è diversa per le due specie di ioni: essi si accumuleranno perciò in diversa misura al centro o alla peri- feria, opponendosi al nuovo arrivo di altri dello stesso segno qualora il cir- cuito esterno sia aperto e non ne permetta l’uscita. L'esperienza descritta può quindi considerarsi come una vera centrifugazione magnetica degli ioni. Fisica. — Su alcuni nuovi modi di preparare soluzioni di Selenio colloidale. Nota di A. PocHETTINO, presentata dal Socio P. BLASERNA. 1. I metodi finora usati per la preparazione di soluzioni colloidali si possono dividere in due gruppi: metodi di condensazione, nei quali si parte da un sistema dissociato in ioni e si provoca una parziale condensazione di questi: metodi di dispersione, nei quali si parte dalla costanza compatta e con mezzi convenienti se ne spezzano i legami molecolari; al primo gruppo appartengono i metodi di riduzione, di ossidazione, di idrolisi: al secondo i metodi meccanico-chimici e gli elettrici (*). Fra essi, quelli usati fin qui per la preparazione di soluzioni di Selenio colloidale, sono il primo del primo (®) The Svedberg. Herstellung Kolloider Lòsungen. Dresda, 1909. — 429 — gruppo e l'ultimo del secondo. ll meccanismo dei metodi di riduzione sembra possa enunciarsi schematicamente così: l'elemento da ridursi colloidale tro- vasi nella soluzione di partenza allo stato di ioni, sottragghiamo a questi la loro carica elettrica e gli atomi risultanti, elettricamente neutrali, si uniscono in aggregati costituenti la fase dispersa della soluzione colloidale. Questa sottrazione di carica può farsi principalmente nei seguenti modi: o trasmet- tendo la carica in questione all'idrogeno che passa allo stato di ioni-idrogeno (riduzione all’anidride solforosa, all'idrossilammina, all'idrato di idrazina, ecc.), o trasmettendola a ioni di carica inferiore con tendenza ad assumerne una maggiore (riduzione di nitrati con citrato ferroso o con sali stannosi), o neu- tralizzandola per via elettrolitica, introducendo direttamente elettroni ne- gativi (elettrolisi di soluzioni diluitissime di nitrati): di questi modi, l'unico che abbia dato risultati positivi nel caso del selenio, è il primo. I metodi di dispersione elettrica sono due: nel primo, la spolverizzazione della sostanza viene ottenuta mediante l'arco voltaico fra asticelle della sostanza stessa, a corrente continua nell'acqua distillata (Bredig), o a correnti ad alta tensione e ad alta frequenza nell’alcool isobutilico (The Svedberg); nel secondo, per un meccanismo ancora non ben noto, la spolverizzazione si ottiene facendo passare una correute continua fra due lamine di platino, immerse in acqua pura, delle quali, quella unita al polo — è coperta parzialmente colla so- stanza che si vuol disperdere (E. Miller); di questi metodi hanno dato pel Selenio buon risultato quello di The Svedberg e quello di E. Miller. 2. Le soluzioni di Selenio colloidale che si ottengono coi diversi metodi, hanno caratteri diversi. Quelle preparate colla riduzione all’anidride solforosa o all’idrato di idrazina, hanno color rosso per riflessione, bleu per trasparenza e durano poco tempo, a meno che non sì ricorra all'uso dei colloidi protet- tori, per es. quelli di protalbinato o lisalbinato di sodio o di potassio. Le soluzioni ottenute col metodo di The Svedberg in alcool isobutilico sono rosse per riflessione e per trasparenza e durano soltanto uno o due giorni. Finalmente quelle ottenute col metodo E. Miller sono rosso-brune per traspa- renza e rosso-giallastre per riflessione e, dopo dializzate, si mantengono per molto tempo. Se si esaminano queste soluzioni col dispositivo ultramicroscopico, a condensatore di Abbe a fondo cieco, il loro comportamento è molto diverso. Le soluzioni che presentano il colore bleu per trasparenza e rosso per rifles- sione, deposte sul condensatore, appariscono rosse e con un ingrandimento di circa 100 diametri si riesce già a distinguere in esse delle particelle a contorno circolare color rosso-arancio; le soluzioni che hanno invece color rosso-bruno per trasparenza e rosso-giallastro per riflessione, appariscono sul condensatore di colore verde-giallastro, le particelle sospese sono molto più piccole e si comincia appena a distinguerle se si usa un ingrandimento superiore ai 700 diametri. La doppia colorazione quindi in bleu e rosso che presentano le RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 56 DI 490 — prime non è dovuta a un fenomeno di fluorescenza, come credono Gutbier e Schulze e come si trova esposto nei trattati, ma dipende dalla grandezza maggiore delle particelle. 8. Da alcune mie ricerche sulla solubilità del Selenio risulta che si pos- sono preparare sospensioni di Selenio colloidale in solventi svariatissimi solidi e liquidi; il metodo consiste nel far fondere il Selenio in un solvente adatto e chimicamente indifferente anche in quelle condizioni di temperatura. Se si prende uno dei corpi seguenti: Retene, Fluorene, Fenantrene, Antracene, Naftalina, «-Naftolo, a-Naftilammina, Difenilmetano, Difenilammina, Trifenil- ammina, Fenolo, Timolo, Paraffina e si riscaldano fino verso la loro tempe- ratura di ebollizione (sempre superiore al punto di fusione del Selenio) in presenza di Selenio, si vede che il liquido va assumendo man mano un co- lore rosso sempre più carico, indicante che parte del vapore di Se è passato in esso liquido; questo, solidificato, conserva il color rosso. I punti di fusione e di congelazione, nonchè l'andamento delle curve di fusione e di solidifica- zione di queste soluzioni solidificate, sono praticamente eguali a quelli del solvente puro. Allo stato solido presentano color rosso, per trasparenza invece colore bleu, hanno insomma la doppia colorazione caratteristica delle sospen- sioni colloidali di Selenio a granuli più grossi. Queste nuove sospensioni solide possono rifondersi e risolidificarsi quante volte si voglia, e conservano sempre le stesse caratteristiche; è degno di nota il fatto che il Selenio rosso distribuito nel solvente solidificato non passa, alla fusione di questo, nello stato grigio-cristallino, neppure quando è disperso nell’Antracene e nell'acido ftalico i cui punti di fusione sono superiori alla temperatura di trasforma- zione del Selenio nello stato grigio-cristallino. Se si preparano al microtomo delle sezioni di queste sospensioni solidificate, di spessore non eccedente i 5 u. @ poi si osservano all’'ultramieroscopio, si rileva subito la presenza di una distribuzione uniforme abbastanza fitta di particelle di Selenio; queste sono tanto più piccole quanto più elevata fu la temperatura raggiunta nella preparazione e quanto più lento fu il raffreddamento. Se si sciolgono le sostanze su ricordate nei loro solventi, il Selenio passa ancora allo stato di notevole dispersione nel nuovo solvente liquido. Le esperienze vennero condotte con le seguenti sostanze: Solfuro di carbonio Etere Benzolo Cloroformio Alcool Retene Retene Retene Fluorene a-Naftilammina Fluorene Fluorene Fluorene Naftalina Difenilmetano Naftalina Difenilmetano Fenantrene Difenilmetano Difenilammina Difenilammina a-Naftolo Trifenilammina Trifenilmetano a-Naftolo Fenantrene Fenantrene Difenilammina a-Naftolo Fenantrene Timolo Fenolo Timolo Timolo Fenolo Trifenilammina Timolo Timolo e — 431 — Tutte le sospensioni di Selenio che ne risultano, presentano la doppia colorazione: bleu per trasparenza, rossa per riflessione, e in generale sono poco stabili: le più durature sono quelle in etere e più ancora quelle in alcool; fra queste ultime le più stabili (fino a parecchi giorni) quelle con fenolo e «-naftilammina. Le meno stabili di tutte sono quelle in solfuro di carbonio, e fra queste specialmente quelle con fluorene, retene e fenantrene. La grandezza delle particelle di Selenio, a parità di altre condizioni, dipende da ambedue i solventi: il solido e il liquido, usati; per esempio: il timolo dà particelle più piccole in alcool che non in etere; delle soluzioni in alcool quelle a granuli più piccoli sono quelle di fenantrene e di «-naftolo. Abban- donate a sè stesse, queste sospensioni precipitano e depositano sul fondo del recipiente del Selenio, generalmente rosso. Le soluzioni di fenantrene in solfuro di carbonio e in etere dànno deposito di Selenio nero, mentre dànno un deposito misto di Selenio rosso e nero le soluzioni di retene in solfuro di carbonio (predominanza di Selenio rosso), e in benzolo (predominanza di Selenio nero). In generale si nota che al sole la precipitazione della fase dispersa avviene più rapidamente e con tendenza a depositarsi allo stato nero: cio notasi specialmente nelle soluzioni di a-naftilammina in etere e anilina, di Fenantrene in solfuro di carbonio e di Retene in benzolo. La possibilità di avere queste sospensioni di Selenio in liquidi isolanti mì ha indotto a studiare il comportamento della sospensione stessa in un campo elettrostatico. In una bacinella ho posto la soluzione, e in essa ho immerso due lastrine di platino in comunicazione rispettivamente coi poli di una piccola macchina elettrostatica di Wimshurst. Dopo pochi giri della macchina il solenio sì deposita sulla lamina unita al polo positivo formando un deposito compatto, fortemente aderente. Le soluzioni studiate furono quelle di Fluorene, Retene, Timolo, Difenilamina, Trifenilamina in solfuro di carbonio e in benzolo. Sembra che il solvente possa in qualche caso aver influenza su questo fenomeno; infatti, le soluzioni fatte partendo dal Fenantrene, si comportano diversamente a seconda del solvente liquido, e precisamente per quelle in benzolo, il Selenio va costantemente a depositarsi al polo posi- tivo, per quelle in solfuro di carbonio invece sempre al polo negativo. 4. Seguendo in fondo lo stesso metodo, si riesce ad ottenere la sospen- sione colloidale di Selenio direttamente in anilina e in glicerina: si prende dell'anilina pura e si riscalda fino all’ ebollizione in presenza di un po' di Selenio nero vetroso. Dopo circa 5” il liquido diviene giallastro con riflessi rossastri alla superficie; la soluzione è fatta, e presenta un colore giallo aran- ciato tanto per trasparenza come per riflessione. Lo stato di dispersione del Selenio dipende dalla temperatura: lasciando raffreddare il liquido, verso i 60°, comincia a vedersi la formazione di una sospensione rossastra, la quale va sempre diventando più densa fino alla temperatura ordinaria; a questa il liquido presenta netta una doppia colorazione: rossa per riflessione, verde — 432 — per trasparenza. Esaminando all’ultramicroscopio con ingrandimento superiore ai 700 diametri, si vedono delle particelle a contorno circolare, color giallo aranciato, dotate di movimento Browniano molto vivace. Dopo 24 ore circa, il Selenio precipita allo stato nero; alla luce solare diretta questa precipi- tazione avviene in pochi minuti. Appena comparsa la sospensione rossa, se noi riscaldiamo il liquido nuovamente a 100°, la sospensione scompare e il liquido ridiventa giallo trasparente per poi ritornare torbido in rosso di nuovo verso i 60° circa. Si vede dunque che, coll’elevarsi della temperatura, le particelle del Selenio disperso si scindono in altre più piccole, e tanto più piccole quanto più elevata è la temperatura. La mancanza di mezzi oppor- tuni mi ha impedito di seguire all’ultramicroscopio la diminuzione di dimen- sioni delle particelle; questa diminuzione, dal modo almeno col quale avviene la scomparsa del torbidore, sembra avvenire con continuità. Operando allo stesso modo con la glicerina, si ottiene un liquido quasi incoloro per trasparenza e leggermente bruno torbido per riflessione; raffred- dato, rimane incoloro per trasparenza, mentre per riflessione assume un colore bruno rossastro. All'esame ultramicroscopico, le particelle risultano all’ incirca della stessa grandezza di quelle del caso precedente; la soluzione però ha una stabilità molto maggiore che può arrivare anche a parecchi giorni. 5. Ho ricordato in principio che, fra i metodi di condensazione in uso per la preparazione di sospensioni colloidali, vi è quello dell’idrolisi: si usa in generale idrolizzare degli acetati, dei nitrati o dei cloruri, e la fase di- spersa che così si ottiene è quasi sempre un ossido ('). Ora è noto che i seleniuri dei metalli alcalini sono facilmente idrolizzabili, e che nell’ idrolisi si libera del Selenio allo stato rosso; il fenomeno è specialmente marcato pel seleniuro di potassio, l'idrolisi del quale è completa. Ebbene, operando a grandi diluizioni, sì possono facilmente ottenere con questo semplice mezzo delle soluzioni di Selenio colloidale molto stabili e a concentrazioni notevolissime: se si scioglie un grammo di seleniuro di po- tassio in 100 di acqua, si ha un liquido rosso-bruno per trasparenza e per riflessione; dopo pochi minuti si separa alla superficie del liquido stesso del Selenio rosso, il quale forma sul vetro delle macchie rosse per riflessione e bleu per trasparenza; dopo un'ora comincia a depositarsi sul fondo del Se- lenio nero, e dopo 4 ore la soluzione è diventata incolora e tutto il Selenio sì è depositato sul fondo allo stato nero. Una soluzione al 5 per 1000 è, appena preparata, rosso-bruna per trasparenza, color ceralacca per riflessione; dopo 4 ore è divenuta giallo-arancio per trasparenza e rossa per riflessione, il Selenio si è depositato sul fondo in granuli neri contenenti qua e là delle particelle rosse; dopo 24 ore la soluzione è incolora e tutto il Selenio pre- cipitato. Una soluzione al 2 per 1000 è, appena preparata, opaca, rosso- (®) Vedi The Svedberg, loc. cit. Tabella a pagg. 280 e 281. ___— Qa9 ui CO I giallastra per riflessione, e continua a mantenere queste caratteristiche per parecchi giorni di seguito. Esaminando all’ultramicroscopio, con un ingrandi- mento superiore ai 700 diametri, si vedono delle particelle di color giallo; crescendo la diluizione, le soluzioni vanno acquistando un colore che va dal rosso-giallastro al giallo per trasparenza, e dall’aranciato al giallo-verdastro per riflessione; all’ultramicroscopio, la struttura granulare della sospensione s' intravede appena usando ingrandimenti superiori a 800 diametri; le solu- zioni a concentrazione superiore al 2 per 1000 lasciano già dopo quattro ore precipitare del Selenio rosso. Noto infine che la resistenza elettrica specifica di queste soluzioni pre- senta questa caratteristica: per una soluzione dell’1 per cento è invariabile, mentre a partire da una concentrazione del 3 per 1000 aumenta col tempo gradualmente, come può rilevarsi dalla tabella: Concentrazione 1 per 100 3 per 1000 1 per 1000 4 per 10.000 1 per 10.000 Appena preparata . . . 25 99 290 943 2730 Dopo Alea vili o 129 120 370 1200 3160 Dop oR24N0re MERA 25 140 480 1450 3350 IDOPog4 Sorci 26 190 570 1600 3600 la quale contiene la resistenza in Ohm di uno strato di liquido di 1 cm? di sezione e 6 mm. di lunghezza. Queste soluzioni, a partire da una concentrazione inferiore al 2 per 1000, dializzate, possono conservarsi per lungo tempo ed hanno tutte le caratte- ristiche delle soluzioni preparate col metodo di E. Miller; anche non dia- lizzate, possono del resto durare per alcuni giorni senza che la fase dispersa precipiti notevolmente. Chimica. — Su: solfuri di silicio ('). Nota II di Livio CAMPI, presentata dal Socio R. NASINI. Nella Nota precedente (*) ho cominciato su di un nuovo metodo di preparazione del monosolfuro di silicio, metodo con il quale si può ottenerlo facilmente in quantità assai rilevanti rispetto ai metodi precedenti. Con il mio processo sì ottiene monosolfuro in due forme: una gialla-aranciata, l’altra nera- stra compatta, che si presenta anche in uno stato vetroso (*). L’idrolisi di questi (') Lavoro eseguito nel laboratorio di Elettrochimica del R. Istituto tecnico supe- riore in Milano. (*) Questi Rendiconti, vol. XIX (1910), 2° sem., pag. 294. A proposito di questo mio lavoro faccio notare come esso sia stato riassunto in maniera poco esatta dal Chem. Zentralblatt 1910, II, pag. 1860; fra l’altro si dice che io prima di sublimare il solfuro lo decompongo con l’acqua! (*) A proposito del mio metodo di preparazione del monosolfuro di silicio, noterò che nella sublimazione nel vuoto del solfuro stesso non ho mai osservato sublimazione rTWEFF_E_A5zAEIZk5GÒG ii; g];]Ù;:;*”S”WVW©YFyoNNNI"”;\VE\:fA>G©x>p:5— 5 -z E”S|]T_ —_eeì©t©(@©o o r——_———=—EE—_=_m_u—m___m—r_mrry_i. — 434 — solfuri ha un andamento nettamente diverso: quello giallo, come già aveva osservato Colson (*), produce una sostanza bianca insolubile, del tipo dei silicoossidruri ; quella nera produce silice solubile ed un corpo insolubile ricco di silicio. Le indagini odierne ebbero per scopo di precisare la natura di questi prodotti, e così da essi poter risalire all'intima struttura dei due solfuri. Prodotto d’idrolisi del monosolfuro giallo di silicio. — Va notato che il solfuro giallo si ottiene sempre in piccole quantità rispetto a quello nero; esso si raccoglie nelle parti più fredde del tubo in cui sì compie la sublimazione, in forma di polvere gialla o di masse giallo-aranciate, che si distinguono nettamente dal solfuro nerastro, e da cui si possono separare facilmente. Il solfuro giallo ha grande tendenza a reagire; all'aria umida, come dissi, si ossida rapidamente; quando venga a contatto dell'acqua si ha talvolta una reazione tanto energica, da produrre l’arroventamento e l'accen- sione del solfuro. L'idrolisi venne compiuta scegliendo accuratamente le masse più compatte e pure di solfuro, ponendo a reagire piccole quantità di composto con acqua ghiacciata, priva d'aria, in atmosfera di idrogeno. Il prodotto bianco d'idrolisi si ossida pure facilmente lasciato a contatto con l’acqua a temperatura ordinaria, e svolge lentamente idrogeno. A idrolisi completa venne raccolto su filtro, lavato con acqua ghiacciata con alcool ed etere assoluti; infine posto a peso costante nel vuoto su acido solforico € potassa fusa. Il composto è assai sensibile alle soluzioni alcaline, anche l'ammoniaca lo trasforma in acido silicico con svolgimento rapido di idrogeno. È pure sensibile alle soluzioni di acido fluoridrico. Riscaldato all'aria, brucia arro- ventandosi e genera silice. Ha notevoli proprietà riducenti : riduce i sali mer- curici a mercurosi e a mercurio, il nitrato di argento, il permanganato. Ri- scaldato nel vuoto a 400° circa, si scinde in idrogeno e silice contenente silicio. L'analisi mi ha dato i risultati seguenti: il silicio venne determinato trasformando il composto in silice con la soluzione di ammoniaca; l’idro- geno per combustione con ossido di rame. I. gr. 0,0948 di sostanza fornirono gr. 0,1076 di Si 0:. II.» 0,1010 ” ” » 0,0168 » H;0. Trovato Calcolato per H, Si, Os Si 53,36 03,18 H 1,86 1,88 di ossisolfuri. Con il metodo di Colson si otterrebbero gli ossisolfuri; come avrebbero confermato anche I. G. Rankin e S. M. Revington, Proc. Chem. Soc. 24 (1908), pag. 131, che da quanto si deduce dalla breve Nota hanno isolato e analizzato Si SO e Si SOa. (') Colson, Compt. R:nd. 94 (1884), pag. 1526. — 439 — La sostanza possiede adunque una composizione identica all’anidride silicoformica, e corrisponde a questa in tutti i suoi caratteri suddescritti. L'anidride silicoformica, H; Si, 0}, cui si attribuisce la formola H.Si0 i Soa HEI per quanto probabilmente polimera, venne ottenuta finora per idrolisi del siliciocloroformio e degli altri composti silicoalogenoformici. Si ammette che nell’idrolisi si formi in via intermedia l’acido silicoformico: H.SiCk+2H,0=H.Si0.0H+3HC1 ('); che poi si anidrifica. Analogamente si deve ammettere che avvenga l’idrolisi del monosolfaro di silicio: SiS+2H,0=H.Si0.0H-+H,S. Come valenza di ossidazione, come grado di ossidazione dell'elemento, i composti formici si equivalgono ai composti contenenti l'elemento stesso puramente bivalente. L'idrolisi del monosolfuro giallo dimostra così che il silicio in esso contenuto è effettivamente bivalente. Nella serie dei composti del C, Si, Ge, contenenti l'elemento allo stato bivalente, si ripete nel silicio una reazione già nota per gli altri due ele- menti. L'acido formico si genera per idrolisi degli alogenoformi, come dal- l'ossido di carbonio, e per idrolisi di composti che contengono il carbonio puramente bivalente, come i derivati carbilaminici : H.CCk — H.C0.0H CO- H.C0.0K C:NR—. H.C0.0H Nel germanio l’idrato germanoso, Ge (OH),, si produce tanto dal clo- i 20H ruro germanoso, quanto dal germaniocloroformio (*). La forma Mc . che \O0H si può ammettere soltanto come labilissima nel carbonio e nel silicio, si afferma nel germanio, in accordo con il suo comportamento di elemento di transizione fra lo stagno e il silicio: e le due forme, l'una gialla e l’altra rossa dell'idrato germanoso, avente questa caratteri acidi, indicano il pro- cesso di tantomeria reversibile: Ge (OH), — H.Ge0.0H (2). (1) Gattermann u. Weiling, Berichte, 27 (1894) pag. 1942. (*) Winkler, Journ. prakt. Chmie, 34 (1886), 177. (*) Hantsez, Zeit. anorg. Chemie, 30 (1902), pagg, 305 e 313. — 436 — Il tipo formico si manifesterebbe anche, secondo Hantscz, nella forma- zione dei piombiti e degli stanniti. La stabilità dei composti formici è do- vuta alla proprietà del carbonio e del silicio di sviluppare valenze negative e positive anche contemporaneamente, proprietà amfotera che s'attenua nel germanio. Il comportamento all'idrolisi del solfuro giallo trova riscontro nella azione dell'acido cloridrico secco sul solfuro stesso; la reazione si compie a 940°-260°, con formazione di idrogeno solforato. Ho raffreddato i gas prove- nienti dalla reazione in un serpentino immerso in un bagno di ghiaccio e sale; ottenni un liquido incoloro di cui la massima parte bolle al disotto di 40°. Questo prodotto si idrolizza dando una sostanza bianca insolubile che svolge idrogeno con l'ammoniaca. Si ha soltanto un lieve residuo bollente al disopra di 45°, che però dà pure per idrolisi un composto bianco svolgente idrogeno con l’ammoniaca. Il punto di ebollizione del siliciocloroformio è di 33°, e per quanto la piccola quantità di prodotto non abbia permesso di analiz- zarlo, pure dai dati che ho esposto si deve ritenere che il siliciocloroformio è il prodotto principale della reazione, e dai prodotti di idrolisi si deve esclu- dere la presenza di composti contenenti il silicio tetravalente rispetto all’os- sigeno e al cloro. Il monosolfuro giallo di silicio completa con le sue proprietà chimiche la serie dei monosolfuri degli elementi della seconda metà del quarto gruppo; così per il colore si ha: Si S Ge S Su S Pb S giallo-aranciato rosso-bruno bruno-scuro nero Prodotti di idrolisi della forma nera del monosolfuro di silicio. — Il solfuro nero-rossastro che si presenta in forma di masse vetrose, traspa- renti in frammenti sottili, quando si raccoglie nelle parti più attigue al sol- furo giallo-aranciato, assume un aspetto opaco nelle parti più interne e più riscaldate. Il solfuro vetroso, come dissi, si separa nettamente 6 facilmente con mezzi meccanici dal solfuro giallo, che talvolta lo riveste. L’idrolisi venne compiuta, come ho già descritto nella Nota precedente. Come allora ho comunicato, nell’idrolisi si forma silice solubile ed un corpo molto finamente suddiviso, di colore giallo rossastro, che contiene dal 78 °/5 all'80 °/ di silicio, e inoltre idrogeno combinato alla maniera dei siliconi. Questo corpo che viene intaccato profondamente dall’acido fluoridrico in so- luzione fino a completo discioglimento, sottoposto ad un trattamento par- ziale, rapido, ha subìto una concentrazione dall'86 °/, all'88 °/, di Si. Nella ipotesi che in esso insieme @ silicoossidruri e a silice vi fosse contenuta una varietà di silicio amorfo molto attiva, come già ebbi a notare, data l'impos- sibilità di ricorrere all'acido fluoridrico disciolto, per estrarre la parte 0s- sigenata, ho sottoposto il prodotto stesso d’idrolisi all’azione dell'acido fiuo- — 4387 — ridrico secco. L'acido fluoridrico si svolgeva da fluoruro di calcio e acido solforico, in un recipente di piombo: la sostanza venne posta alternativa- mente all'azione dell’idracido, e nel vuoto su acido solforico e potassa. Si ha un attacco molto notevole del prodotto; in alcuni casi ho notato una volatilizzazione di oltre il 60 °/, del suo peso; ma ho sempre verificato una concentrazione di silicio nel residuo. Da prodotti d’idrolisi anidri che contenevano in media il 78 °/, di Si, dopo l’azione dell’acido fluoridrico ho ottenuto in quattro preparazioni diverse i risultati seguenti: le analisi, come le determinazioni successive, vennero eseguite sui prodotti seccati nel vuoto su acido solforico e potassa, poi nel vuoto a 150°-160°. I. Si trovato in cento: 90,89. Tsi En ” ” 93,08. III. Si » » n 94,86. INCISA ” 7 96,02. Del prodotto III venne determinato l'idrogeno contenutovi: H trovato in cento: 1,09. Dei prodotti I e III ho determinato inoltre il peso specifico, in benzolo e in petrolio, tenendo a lungo le polveri molto leggiere e voluminose a con- tatto dei liquidi nel vuoto. Per il I ottenni: P.S = 1,979; per il III: PS! = 2,082. Noterò che non ho ottenuto maggiori concentrazioni in silicio. Ricorderò come non senza difficoltà, e soltanto dalla reazione di Vigouroux si possa ottenere del silicio amorfo di maggior purezza del 96-97 °/,. I prodotti riechi di silicio che ho descritti conservano tutti i caratteri che ho già notati per i prodotti diretti di idrolisi, come pure conservano il colore ocraceo rossastro: i caratteri di attività corrispondono a quelli del silicio amorfo attivo descritto per la prima volta da Berzelius: aggiungerò che il mio prodotto s'intiamma con l’acido nitrico, che riduce i sali mercu- rici ed il nitrato d'argento. Con l'acqua si ossida anche a freddo: in pre- senza di piccole quantità di acido fluoridrico, con un solo lavaggio, da un prodotto che conteneva il 92 °/ circa di Si, ottenni un prodotto al 78 °/ di Si. Per ulteriore conferma della costituzione del solfuro nero, ho studiato l'azione dell'acido cloridrico secco su di esso. L'attacco avviene a 290°-300° con formazione di idrogeno e acido solfidrico: i gas provenienti dalla rea- zione opportunamente condensati generano un liquido incoloro fumante; ri- mase non attaccato dall’acido cloridrico un residuo, circa il 3 °/,, di silicio rossastro-scuro, che non conteneva che piccole quantità di silice e di solfo. Il liquido venne sottoposto a ripetuti frazionamenti; raccolsi tre frazioni : I bollente da 35° a 44°; IT da 54° a 59°; III da 94° a 97°. Ottenni un re- RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 57 — 438 — siduo molto scarso bollente al disopra di 110°. La più gran parte del liquido è rappresentata, circa il 70 °/, dai liquidi bollenti da 45° a 100°; la prima frazione costituisce circa il 30 °/. Il liquido I genera per idrolisi acido cloridrico ed una sostanza bianca insolubile che svolge idrogeno con la soluzione d'ammoniaca; esso inoltre brucia all'aria; per le sue proprietà si deve riconoscere in esso principal- mente del siliciocloroformio: P.E. 33°. Il liquido TI per idrolisi genera acido silicico, corrisponde al tetracloruro: P.E. 57°. Il III produce pure acido silicico, ma oltre all’acido cloridrico genera idrogeno solforato, e cor- risponde al solfidrato già noto, Si Cl; . SH, P.. E 96°. Infine il residuo bol- lente oltre 110° genera per idrolisi prodotti di riduzione dell'acido silicico, svolgenti idrogeno con gli alcali, e produce pure idrogeno solforato e acido cloridrico, ed in esso, con tutta probabilità, debbono essere contenuti quei solfocloruri derivati da silicoesacloroetano. Le determinazioni seguenti confermano la natura dei tre corpi. I. Si calcolato per SIH Cl} 20,92 °/,; trovato 19,88 °/ (0). TI. Si ” » SiCl 16,68 » ” 16,54 » II. Si ” » SiCl,.SH 19,28 » L) 19,03.» Dai fenomeni di idrolisi del solfuro nero si deduce che in esso vi sono due parti distinte di silicio: l'una che forma silice, l’altra che genera i corpi da cui si può ottenere silicio: considerando i due prodotti estremi noi ab- biamo dunque silicio e bisolfuro di silicio. Nell’azione dell’acido cloridrico si hanno i due corpi Si CI, e Si Cl, SH che corrispondono all’acido silicico, e si ha, come dissi, un residuo di silicio. Inoltre si ha la presenza del sili- ciocloroformio che si può formare a 300° da silicio ed acido cloridrico. Il complesso di questi fatti prova che nel solfuro nero di silicio è av- venuta una dissociazione Q Sis Sid Sis; che potrà essere più o meno completa, giacchè non si può escludere anche la presenza di monosolfuro inalterato, e forse anche di composti intermedi, per quanto labili, del tipo, ad esempio, di quelli presentati dal fosforo come P.S, ecc. L'equilibrio fra silicio bisolfuro e monosolfuro di silicio. — Dal comportamento del monosolfuro giallo, dalla composizione costante delle masse compatte di solfuro nero, si deve ammettere che alle temperature di sublimazione 980°-1000° e al disopra di queste il monosolfuro di silicio sia stabile. Ma si deve pure ammettere che nel solfuro nero sia avvenuta (1) Per la non grande quantità di liquido non ho potuto procedere ad un ulteriore frazionamento di questa I parte. — 439 — una decomposizione in silicio e bisolfuro. Devesi quindi supporre che il mo- nosolfuro giallo, che è il vero solfuro del silicio bivalente, sfugga alla de- composizione per un brusco raffreddamento dei vapori; che il monosolfuro stesso, accumulandosi nelle parti meno lontane da quelle riscaldate delle canne di porcellana in cui avviene la sublimazione, col procedere di questa subisce, per l'azione del calore, una decomposizione più o meno pronunciata, a seconda delle varie condizioni: principalmente della temperatura e della durata del riscaldamento. Ciò ho potuto provare con le seguenti esperienze: 1°. Usando un tubo caldo-freddo: ponendo un tubo di rame piegato ad U, in cui circolava acqua fredda, e fissato al tappo attraverso cui compievo la aspirazione, nella zona in cui sì conduceva il solfuro, ho notato che i primi strati deposti sul tubo erano gialli-aranciati. Prolungando l’esperienza in modo da ricoprire del solfuro giallo coibente il tubo metallico freddo la massa si deponeva vetrosa nero-rossastra. 2°. Sottoponendo, nel vuoto o in atmosfera d’idrogeno, a temperature inferiori a quelle di sublimazione, a circa 700°-800°, dei pezzi di monosol- furo nero-vetroso, dopo un certo tempo ho notato che essi avevano subìto un cambiamento profondo di colore che diviene sempre più chiaro, ed in essi talvolta si distingue del silicio azzurro ardesia, quale quello che si ottiene da certi solventi metallici del silicio. Trattando con acqua questi pezzi di solfuro, si può ottenere da essi del silicio azzurro che ricorda assai quello che Hempel e v. Haasey ottennero da leghe di alluminio. Se si prolunga inoltre il riscaldamento del solfuro a 900° circa si può osservare anche una sublimazione, per quanto limitata, di bisolfuro bianco. 3°. Contrariamente, sublimando a temperatura di 1100°-1250° delle mi- scele di silicio amorfo, preparatomi con il metodo di Vigouroux e di bisolfuro di silicio, ho ottenuto monosolfuro nelle forme nera e gialla, e questo ope- rando tarto a 20-30 mm. di pressione come in atmosfera di azoto, dove sembra che si formino anche degli azoturi. A quelle temperature avviene quindi la reazione inversa a quella precedente Si+ Sis, — 2558. Il comportamento del monosolfuro di silicio trova un riscontro in quello del solfuro stannoso, osservato da Spring (') che si scinde per lungo riscal- damento in stagno e solfuro stannico. E in generale nel comportamento di tutti quei composti che essendo stabili ad alte temperature sussistono a basse temperature sebbene siano in stato non stabile, e che per riscaldamento si scindono per raggiungere lo stato di equilibrio stabile. (!) Spring, Zeit. phys Chemie, 18 (1895), pag. 553. — 440 — Ai limiti di stabilità del monosolfuro si debbono indubbiamente quelle apparenti volatilizzazioni di silicio, osservate da Sabatier solforando il silicio, analoghe a quelle osservate da Troost e Hautfeuille nel caso del Sis Cle, dove pure intervengono equilibri analoghi dipendenti dalla temperatura. Noterò infine come dall'insieme delle mie osservazioni si possono accor- dare i dati di Colson e di Sabatier in apparenza contradditorî: il primo aveva notato la formazione di monosolfuro giallo, il secondo di monosolfuro giallo e nerastro insieme a bisolfuro per la solforazione del silicio: diffe- renze dovute alla diversità dei metodi. Chimica. — Sugli stati amorfi del silicio. Nota di Livio CamBI, presentata dal Socio R. NASINI. I prodotti descritti nella Nota precedente, da me ottenuti dal solfuro nero di silicio, devono essere considerati silicio amorfo. Per stabilire la rela- zione del mio prodotto con i silici amorfi descritti dai varî autori, ho prepa- rato i varî prodotti per confrontarli con quello. Come è noto il silicio amorfo si presenta in aspetti diversi, ed anche con proprietà diverse a seconda delle reazioni che lo producono: si hanno due tipi principali: silicio amorfo attivo simile a quello @ di Berzelius, e silicio amorfo di Vigouroux. Fino a poco tempo fa dai dati di Vigouroux ('), si ammetteva general mente l'esistenza di una sola varietà definita di silicio amorfo, che si ot- tiene riducendo in condizioni speciali la silice col magnesio. Secondo Vi- gouroux non potevano considerarsi tutte le altre varietà ottenute principal- mente riducendo i composti alogenati del silicio con i metalli alcalini, perchè notevolmente impure. Recentemente E. Wilke-Dòrfurt (2), studiando il silicio amorfo, ha ri- prodotto il silicio attivo, descritto per la prima volta da Berzelius, riducendo con sodio il SiF,, ed egli ha riscontrato in prodotti sufficientemente puri quei caratteri di attività che in gran parte corrispondono a quelli del silicio che ho descritto. Il silicio di Vigouroux invece è assai inerte e secondo questo autore si doveva attribuire alle impurezze l'attività del silicio di Berzelius. Io osserverò che nel mio caso nella formazione di silicio non in- terviene alcun metallo estraneo; si ottiene da corpi che contengono soltanto solfo e silicio: poi che le varietà attive reagiscono completamente, unifor- memente con la soluzione di ammoniaca, con l'acqua. Wilke-Dòorfurt ritiene che l’attività sia dovuta alla suddivisione, analo- gamente, dice egli, ai metalli pirofori: non esisterebbe che silicio cristallino (1) Vigouroux, Annales (7), 2, pag. 153. (*) E. Wilke-Dorfurt, Chem. Zentralblath, 1909, II, pag. 1969. — 44l — più o meno suddiviso. Pure riconoscendo che l’attività non possa essere un carattere assolutamente distintivo, e pure non volendo escludere che alcune delle varietà attive descritte come amorfe possano essere cristalline, osser- verò che nel mio caso il silicio si ottiene da masse di solfuro compatte evi- dentemente amorfe, e anche vetrose, omogenee, e non mi sembra probabile che da esse per idrolisi a freddo si ottenga silicio cristallino, per quanto suddiviso. Ho preparato i varî silici descritti come amorfi: quello di Vigouroux, quello di Hempel e v. Haasey, e quello del tipo di Berzelius riducendo con sodio in eccesso il tetrafluoruro di silicio. Anche per le proprietà fisiche il mio si differenzia da questi; possiede un colore molto più chiaro giallo-rossastro, che sì distingue pure da quello giallo-grigio che può assumere il silicio cristal- lino talvolta; inoltre il mio prodotto al 96 °/, di Si possiede un peso specifico di 2,08. Per confronto ho determinato, in condizioni identiche, il P.S. del silicio di Vigouroux: un campione al 96,6 °/ mi ha dato P. S.1° — 2,345; un altro al 99°/ mi ha dato P.S.? =2,369. Questi risultati sono in accordo con il valore dato da Vigoroux 2,35. Inoltre il mio prodotto per riscaldamento perde gradatamente le sue proprietà: riscaldato a 900° nel vuoto per un’ora circa perde il suo colore per assumere un colore bruno assai simile a quello del silicio di Vigouroux, e acquista quei caratteri di resistenza ai reattivi proprî di questo. In un caso ho determinato la variazione di peso specifico, da un prodotto avente il peso specifico di 1,98, dopo riscaldamento ho trovato in condizioni iden- tiche 2,31: come si vede anche il peso specifico si avvicina a quello del silicio precedente. Wilke-Dòrfurt nega l'esistenza del silicio amorfo, fintantochè non si ot- terranno delle masse compatte amorfe di silicio per sopraraffreddamento del silicio fuso. Ma con questo si esclude la possibilità di diversi stati amorfi del silicio, e si esclude che questi possano formarsi per vie diverse che non sia quella del sopraraffreddamento del silicio fuso, ciò che invece si verifica in numerosi altri casi. Gli stati amorfi del silicio noi non possiamo considerarli come stati allo- tropici nettamente definiti, ma come un insieme di forme aventi forse anche struttura molecolare diversa. Probabilmente gli stati del silicio si dovranno considerare in maniera analoga agli stati amorfi del carbonio: una miscela di forme instabili ten- denti a trasformarsi nella forma stabile. E come queste per il riscaldamento tendono in maniera continua verso la grafite, così quelle verso la forma sta- bile di silicio cristallino. E dovranno essere influenzate dalle varie reazioni da cui si producono, e dalle condizioni di queste; dalle reazioni meno ener- giche con maggiore probabilità si otterranno le forme meno stabili. ì — 442 — Il contenuto di idrogeno, indubbiamente in parte legato al silicio, e di ossigeno che si riscontra nelle forme attive di silicio, come ha notato anche Berzelius tanto che egli riteneva che nel suo silicio amorfo attivo vi fosse contenuto un idruro di silicio solido; elementi che devono provenire da rea- zioni del silicio con l’acqua; ricorda pure le impurezze delle forme del car- bonio. E come in molte di queste non possediamo finora i mezzi per distin- guere fino a quale grado dobbiamo considerarle come miscele di corpo sem- plice e di composti per quanto variamente complessi. Il contenuto di idro- geno e di ossigeno del silicio attivo è del tutto simile, nei rapporti, col silicio, a quello dei siliconi, e questi d'altra parte si formano per reazioni operate dall'acqua sul silicio dei varî siliciuri. Chimica. — Sulla luminosità del fosforo - Esperienze da lezione (*). Nota di L. MARINO e C. PoRLEZZA, presentata dal Socio R. NASINI. Occupati nella ricerca di alcuni composti fosforati, abbiamo avuto oc- casione di fare alcune osservazioni sulla luminosità dei vapori di fosforo, le quali possono assai bene servire per mostrare questo fenomeno ad un nume- roso uditorio senza aver bisogno della oscurità completa. È noto (*) che le esperienze più comunemente eseguite per far vedere la fosforescenza del fosforo sono quella coll’apparecchio di Mitscherlich in cui si osserva la luminosità nel punto ove comincia la condensazione dell’acqua nel refrigerante, e quella della fiamma di fosforescenza che si rende evi- dente nel cono verde di una fiamma di idrogeno anche dopo l'estinzione di questa. Quest'ultima esperienza si presta invero molto meglio della prima, perchè si può eseguire nella semioscurità, ma siccome in tali condizioni si genera idrogeno fosforato, essa non è così convincente come nel caso in cui il gas che trasporta il vapore di fosforo non abbia azione su questo. Benchè Hofmann (*), Retgers (*) e Vandevelde (*) abbiano notato che anche usando altri gas la fosforescenza ha luogo, pur nondimeno si continua ad impiegare l'idrogeno il quale, come si è detto, permette di osservare la fiamma fredda di fosforescenza del vapore di fosforo, qualora sia possibile d’oscurare la stanza. (3) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale della R. Università di Pisa. (*) Vedi Heumann-Kiihling, Arlestung zur Experimentieren, 3* ed., pag. 451-52; R. Salvadori, Esperienze per un corso di chimica. Firenze, Le Monnier, 1907, pp. 103, 105. () Heumann-Kihling, loc. cit. ‘4) Retgers, Berl. Ber., 27, Ref, 864. (5) Vandvelde, Bull. Acad. Roy. de Belgique, [3] 29, 400. — 443 — Eseguendo le esperienze nel modo consigliato da noi si ha il vantaggio di: 1° impiegare fosforo rosso e non bianco; 2° togliere dalla sala solo la luce diretta del sole; 3° osservare anche da lontano con bellissimo effetto la fosforescenza in una grande superficie senza che i vapori di fosforo molestino gli uditori; 4° impiegare un gas che non prende parte alla reazione. Siccome A. R. Leeds parla (*) di una riduzione dell'anidride carbonica per parte del fosforo, abbiamo cercato di stabilire se essa nelle condizioni delle nostre esperienze poteva realmente aver luogo. Facendo circolare per sei ore mediante una pompa a mercurio una de- terminata quantità di anidride carbonica secca su fosforo riscaldato in con- dizioni identiche a quelle delle nostre esperienze, abbiamo riscontrato, col- l'analisi gassometrica, che si formano quantità così piccole di ossido di car- bonio, da potere, nel nostro caso speciale, considerare l'anidride carbonica come gas completamente inattivo rispetto al fosforo. La fig. 1 mostra chiaramente qual'è la disposizione da noi adottata per le nostre esperienze: Una corrente di anidride carbonica, fatta gorgogliare in una soluzione satura di bicarbonato sodico e seccata in cloruro di calcio, passa su del fo- sforo rosso, il quale può essere riscaldato entro un tubo 2 di vetro infusi- bile, con un piccolo fornello, e conduce i vapori di fosforo entro un pal- lone A di circa due litri. Per osservare il fenomeno si comincia a scaldare il tubo da P verso a, mentre passa una lenta corrente di anidride carbonica, fino ad eliminazione completa di ogni traccia di umidità; in queste condizioni l'operazione non presenta alcun pericolo. Eliminata tutta l'acqua si mette in @ il tubo a sviluppo e si riduce al minimo la corrente di anidride carbonica, Il fosforo (1) Berl. Ber., 12 (1879), 1834. — 444 — viene allora riscaldato finchè incomincia la distillazione del fosforo bianco, e allorchè cominciano a deporsi le goccioline di questo nella parte meno calda si pone il pallone A sotto il tubo a squadra e si fa passare d'un tratto una forte corrente intermittente di CO,. I vapori di fosforo giunti in A a contatto coll'ossigeno dell'aria contenuta nel pallone, e diluita dal- l'anidride carbonica sopraggiunta, generano una bellissima fiamma verde, mentre tutto il fondo del pallone appare fosforescente. Perchè il fenomeno sia più appariscente, la lunghezza della squadra dev'essere tale che la fiamma possa lambire il fondo del pallone, quando si inietta la corrente di anidride carbonica. Siccome i fumi che si originano dopo un certo tempo impediscono la visione netta della luminosità è consigliabile, nel caso che l'esperienza sì voglia prolungare, di sostituire un nuovo pallone pieno d’aria. Con lo stesso dispositivo, qualora sia possibile abbuiare la sala, sì può riprodurre molto più in grande il comune fenomeno della fosforescenza quale si osserva nell’apparecchio Mitscherlich. In tal caso in luogo del pallone 4 (vedi fig. 1) si. mette un pallone munito di un tappo a due fori nell’uno dei quali passa il tubo di sviluppo 4 e nell’altro un semplice tubo a squadra munito di una pinza di Hoffmann. S'immerge il pallone fino a metà nell'acqua fredda, e quando tutto l'ap- parecchio è completamente pieno di anidride carbonica si scalda il fosforo rosso secco operando come si è detto nella precedente esperienza. Col soffio intermittente di anidride carbonica il vapore di fosforo passa in forma di minutissima nebbia in A e si depone quasi subito in sottilissimo strato in tutta quella parte del pallone che si trova sotto l’acqua. Se allora si stacca il pallone a e vi sì immette una corrente di anidride carbonica secca con- tenente circa il 10°/, di aria, tutto lo strato del fosforo dà luogo ad una bellissima fosforescenza, la quale è tanto più viva quanto più ra- pida è la corrente gassosa. Lo strato del fosforo dopo qualche tempo diviene giallo citrino; pet aggiunta di acqua sviluppa calore e sì ottiene una s0- stanza gialla che resta in sospensione nel liquido, mentre si depongono dei granelli di un corpo molto più rosso che probabilmente corrisponde al com- posto ritenuto da Reinitzer ('), come polimero dell'anidride fosforosa. Siccome la sostanza gialla che resta sospesa in acqua si separa assal difficilmente dal composto più rosso, e siecome la densa nebbia giallognola | che si ottiene neil'ossidazione per la prima esperienza presenta caratteri per- fettamente identici, così abbiamo cercato di vedere se era possibile prepa- rare per questa via quantità maggiori di detto prodotto. Il dispositivo della fig. 1 viene perciò modificato nella seguente maniera. L'estremità della canna infusibile ? si fa arrivare in un pallone a due colli £ (1) Berl. Ber., 14, 1884. — 445 — (vedi fig. 2), il quale porta un tubo leggermente inclinato che imbocca nel collo di un pallone codato B facendo un angolo di circa 25°. La coda del pallone entra in un imbuto posto su un grosso cilindro. Seccato e riscaldato il fosforo, come precedentemente dicemmo, si manda nell'apparecchio una corrente continua di anidride carbonica in modo da Mantenere costante la fiamma verde non molto calorifica che si origina in d. Ad ovviare ogni possibile inconveniente e per avere un prodotto più puro, il vapore si deve accendere in è prima di mettere a posto il pallone 3. Si osserva subito la formazione di densi fumi gialli che scorrendo sulla parte inferiore del pallone effluiscono dalla coda per cadere entro l’imbuto e da questo nel cilindro. La sostanza si depone su tutto il percorso e nel cilindro stesso assai lentamente formando una massa gialla non fosforescente che trattata con acqua Fic. 2. non dà sviluppo di calore e rimane del tutto inalterata all'aria. La sostanza lavata prima con acqua fu trattata con solfuro di carbonio, raccolta su filtro e seccata nel vuoto fino a costanza di peso. Riduce il nitrato d'argento am- Imoniacale; con ammoniaca concentrata imbrunisce, ma non sviluppa idrogeno fosforato, e lasciata all’aria riprende il suo primitivo colore. Da 80°-90° si infiamma. Queste proprietà farebbero ritenere che il composto ottenuto possa es- sere il sottossido di fosforo P,0, ammesso da varî autori (*), e ultimamente messo in dubbio da Stock (?). Infatti il potere riducente corrisponde a questo grado di ossidazione. - gr. 0,0760 di sostanza fatti bollire a lungo con un eccesso di soluzione di nitrato d'argento ammoniacale al 10 /o han dato di Ag gr. 0,9863. (*) Michaelis e Pitsch, Berl. Ber.. 32, 337, ecc., una estesa bibliografia si trova nel Gmelin Krant, 72 edizione, vol. I, parte III, pp. 77-81. (*) Chem. Zeitung., 33, 1354. I RenDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 58 — 4438 — Non può sfuggire l’importanza di questo nuovo composto stabilissimo all'aria, sia perchè i sali di biossido di manganese sono poco conosciuti ('), sia perchè esso possiede proprietà ossidanti che possono con vantaggio tro- vare impiego in molte ossidazioni di composti organici, come dimostreremo in un altro lavoro. Preparazione del selenito di biossido di Manganese. In un palloncino di circa 200 ce. si fanno reagire gr. 25 di biossido di manganese ancora umido con 70 gr. di anidride seleniosa disciolti in circa 50 ce. di acqua. Si scalda cautamente 2 fuoco diretto fino alla tempe- ratura di ebollizione, agitando finchè tutta la massa è diventata un bel rosso aranciato. Dopo raffreddamento si lava varie volte per decantazione in modo da eliminare la massima parte di acido selenioso. Il prodotto ottenuto si fa di- gerire a freddo per circa un'ora con 200-250 cc. di acido nitrico diluito (7-8°/,), si lava ancora due volte con altro acido e poi con acqua. Si rac- coglie su filtro il sale giallo-arancio e si secca a 100°. Il biossido impiegato era ottenuto per azione di cloruro manganoso su permanganato potassico in soluzione diluita. Perchè esso reagisca istantanea- mente deve essere preparato di recente. Impiegando un biossido preparato da un anno e mantenuto sotto l'acqua, si arriva ad un prodotto che sì priva assai difficilmente delle ultime quantità di biossido. Per stabilire la composizione del sale ottenuto si dosò il selenio e il manganese. Siccome evitando certe cautele, ad es. l'eliminazione del selenio prima della determinazione del manganese, si possono avere dei risultati erronei, diamo alcuni particolari sul modo come deve essere eseguita la determina- zione. La sostanza pesata si scioglie nella minor quantità possibile di acido cloridrico concentrato a freddo; si diluisce subito con il doppio volume di acqua, e si aggiunge una soluzione acquosa di cloridrato d'idrazina in picco- lissimo eccesso. Completata a caldo la reazione si raccoglie su filtro tarato, e seccato a 100°, il selenio deposto, si lava con acqua bollente, sì secca nuovamente a 100° e sì pesa. Il metodo volumetrico (*) con permanganato in soluzione alcalina non è qui applicabile perchè il composto è insolubile in acido solforico. Il metodo di Peirce (*) di precipitare cioè il selenio con ioduro di po- tassio non è consigliaabile, giacchè si mette in libertà del cloro, il quale libera tale un eccesso di iodio da formare nel riscaldamento una soluzione {") Dammer, Handbuch anorg. Chem. Bd. III, 267; Moissan, Traité de Chimie mi- nerale, IV, 540. (:) Marino, Gazzetta Chim. It. Anno XL, pag. 210 (1910). (5) Peirce, Amer. Journal of Science (2) I (416). — 449 — solida di selenio e iodio (!) che, per raffreddamento solidifica e perde dif- ficilmente lo iodio anche in presenza di un grande eccesso di ioduro di potassio. Si hanno infatti valori oscillanti che differiscono dal calcolato di LARE TOA Il liquido filtrato nella determinazione del selenio si concentra a bagno- maria; si aggiunge acqua di bromo. Cessato lo sviluppo gassoso si scaccia l'eccesso di bromo e si precipita nel solito modo con carbonato ammonico il Manganese. Si ebbero così i seguenti valori: I. Gr. 0.7870 di sostanza dettero di Se gr. 0.4021 e di Mn, 0, gr. 0.1991 e di MnSO, gr. 0.8876. II. Gr. 0.7397 di sostanza dettero di Se gr. 0.3754 e di Mn3 0, gr. 0.1856. INI. Gr. 0.8176 di sostanza dettero di Se gr. 0.4190. IV. Gr. 0.9841 di sostanza dettero di Se gr. 0.5082 e di Mn 0, e gr. 0.2438. da cui si ha: Calcolato per Mn Se, 0g Trovato I II III IV Mn= 55.00 17.78 17.98. 18.07 —_ 17.84 Se» — 158.40 01.20 51.09. 50.75 51.24. 51.13 Og = 96.00 31.02 309.40. 100.00 Il composto analizzato è una polvere cristallina di colore giallo aran- ciato, praticamente insolubile in acqua' in acido nitrico e solforico diluiti. Nell'acido cloridrico concentrato e diluito si scioglie sviluppando cloro. Dalle soluzioni di ioduro di potassio acide per acido acetico libera istan- taneamente iodio. Coi carbonati e con gli idrati alcalini libera biossido di manganese. Con una soluzione di acido ossalico svolge quantitativamente anidride carbonica. Ossida i sali mercurosi a mercurici, i sali rameosi a ramici, il ferro- cianuro di potassio a ferricianuro, l'acido arsenioso ad acido arsenico. Per comprendere il modo di reagire del nuovo composto è interessante conoscere qual'è ]’ Azione degli alcali caustici sul sale MnSe, O,. Essi, aggiunti in piccolo eccesso, decompongono quantitativamente il composto secondo lo schema. Mn Se, 0, — Mn0,+4 2Se0, (*) Pellini, Gazz. Chim. Ital. 1908. — 450 — difatti : Gr. 0.1985 di sostanza dettero di SeO, gr. 0.1423 da cui Calcolato per °/o Trovato Se 0, 71.90 71.68 Il residuo è costituito da biossido di manganese, svolge cloro che tito- lato iodometricamente richiede di Na, Se» 0; N/i cc. 12,6 corrispondenti a gr. 0.05481 di Mn0» (cale. gr. 0.056). Secondo questa decomposizione il composto sarebbe dunque da consi- derarsi come selenito di biossido. Siccome non era da escludersi a prior? la formazione di un acido del selenio corrispondente all'acido ditionico, così ab- biamo tentato di mettere in evidenza l'eventuale formazione di questo nuovo acido. I tentativi riuscirono infruttuosi, perchè anche tentando di eterificare il composto con solfato di metile, intervengono fenomeni di ossidazione a com- plicare l'andamento della reazione. Oltre all’etere metilico (*) (riconoscibile al grato odore etereo, alla solubilità in acqua, alla solubilità in acido sol- forico, dal quale si sviluppa per aggiunta di acqua, alla formazione di un liquido incoloro per forte raffreddamento) si ottiene un liquido denso, oleoso con odore pungente che ricorda l'aldeide formica insieme ad una massa cri- stallina avidissima di acqua, formata in prevalenza da acido selenioso. Vi è però presente una sostanza che per traccie di umidità si decompone dando selenio rosso, e che per le grandissime difficoltà incontrate nella purifica- zione non ci è stato ancora possibile di identificare in modo sicuro. Caratteristica è anche la Decomposizione del sale MnSe»0; col calore. Scaldando il selenito alla temperatura di circa 400° per la pressione atmosferica quasi tutto il selenio si separa sotto forma di anidride seleniosa, e il manganese rimane sotto forma di Mn 0,. Infatti: Gr. 1.000 di sostanza dettero di Se (dall’anidride seleniosa sublimata) gr. 0.4752 da cui sì ha: Calcolato per °/o Trovato Se 51.20 47.52 La differenza in meno è da ascriversi alle piccole quantità di selenio che rimangono costantemente combinate nel residuo. La decomposizione avviene però in due fasi, le quali restano sperimen- talmente comprovate nella maniera seguente: La sostanza, posta in un pic- (1) Data la facilità con cui l'alcool metilico si trasforma in etere in presenza del nostro composto, sono in corso diverse esperienze sulla sua influenza catalitica potendosi vantaggiosamente impiegare il selenito di biossido per la preparazione di grandi quantità di eteri dai differenti alcool. aidolin— colo palloncino dal collo molto lungo, a cui è saldato un tubo di vetro allo scopo di collegarlo eventualmente con una pompa a mercurio, si riscalda a una determinata temperatura mediante una piccola stufa formata da terra refrattaria ed amianto. A traverso il tappo del palloncino passa un tubetto di quarzo entro cui Sta una coppia termoelettrica platino-platino-rodio per la misura della tem- peratura. Dopo alcune ore di riscaldamento sulle parti più fredde del pal- loncino si depone l'anidride seleniosa che si produce nella scissione. La massa da rossa diviene bianca per seleniato manganoso mentre si sviluppa os- sigeno. Nella prima fase della reazione si ebbe infatti: I. Gr. 0.9944 di sostanza dettero di Se 0, (dall’anidride sel gr. 0.226 corrispondenti a gr. 0.1609 di selenio. II. Gr. 0.9944 di sostanza dettero di Se 0; nuti lisciviando con acqua il residuo) di selenio. eniosa sublimata) (dai composti di selenio otte- gr. 0.2348 corrispondenti a gr. 0.1690 Si calcola così: Calcolato per °/, Trovato Se (da Se0.) 25.59 16.19 Se (da Se (079) 25.59 16.99 I valori mostrano così che la decom posizione può esprimersi col seguente schema : Mn Se. 0, — Se 0, + Mn Se0, . La differenza in meno per l'acido selenioso è anche qui dovuta a pic- cole quantità di selenio fissate nel residuo in seguito a reazione secondaria. Continuando più a lungo il riscaldamento o innalzando la temperatura anche il seleniato manganoso si decompone, ma rimane sempre del selenio combinato al manganese residuo in una forma da precisarsi con altre espe- rienze. Facciamo però notare che è piccola la quantità di seleniato cl le ri- mane. Difatti nella seconda fase: I. Gr. 0.9972 di sostanza dettero di Se 0» da Se0, sublimato gr. 0.4537 corrispondenti a gr. 0.3281 di selenio e gr. 0.0162 di selenio (da acido selenico) da cui Calcolato per °/o Trovato Se 91.20 32.41 Facendo il vuoto nell'apparecchio con una pompa a mercurio allo scopo di misurare la quantità di ossigeno che si sviluppa abbiamo stabilito che 452 — la sostanza si decompone in queste condizioni secondo l'equazione: 5 Mn Se 0; — 8Se0,--2MnSe0, + Mn3 044 050 Infatti: Gr. 1.000 di sostanza dettero di ossigeno ce. 13 a 0° € 7600. Gr. 1.000 di sostanza dettero di selenio ottenuto dall’ acido selenioso gr. 0.4661. Gr. 1.000 di sostanza dettero di selenio ottenuto da acido selenioso e acido selenico gr. 0.46832. Gr. 1.000 di sostanza dettero di Mn 0, gr. 0.2854. da cui sì ha: Calcolato per °/o Trovato (0) 2.00 1.856 Se (da SeO.) © 40.95 46:61 Se (S60,+ Se 03) 51.20 46.82 Mn3 0 14.80 28.54 I valori più alti ottenuti per l'acido selenioso provano che interviene anche la decomposizione del seleniato manganoso con formazione di anidride seleniosa e ossido misto. Se si calcola, infatti, la quantità di ossido misto che corrisponde al seleniato manganoso è secondo la suddetta equazione si trova esser 9.80 °/, per cui si ottiene in definitiva 94.60 di Mn;0, che dif- ferisce dal residuo trovato 38.54 della quantità corrispondente al selenio fissato dal residuo. Che realmente il residuo è formato da Mn30, lo si deduce dalla de- terminazione iodometrica del cloro sviluppato. Infatti : Gr. 1.000 di sostanza dettero di residuo gr. 0.2854. Questo può spostare tanto iodio da richiedere ce. 26.3 di iposolfito N/10 a cui corrisponde gr. 0.0789 di cloro. Se tutto il residuo fosse dato da Mn; 0, si otterrebbe di cloro gr. 0.088. La piccola differenza è dovuta alla presenza del selenio. Da tutte le esperienze eseguite risulta dunque che il composto Mn Se» 0g è da considerarsi come selenito di biossido di manganese. Per definirne la costituzione è necessario indagare prima se esso debba considerarsi come derivato dell'acido selenioso asimmetrico. Qualunque possa essere però la sua struttura ci sembra interessante far rilevare che anche con l'acido selenioso, come con l'acido solforoso, biossido di manganese e biossido di piombo reagiscono differentemente, ciò che com- prova sempre più l'ipotesi ammessa da uno di noi (*) che essi abbiano una diversa costituzione. (1) Marino, Zeitschr. f. Anorg. Chem. 56, 234 (1907). > VS Chimica. — Sopra una nuova ossidazione dell’a-metilindolo Nota di G. PLANCHER ed U. CoLACICCHI (!), presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Sono ben note le utili applicazioni dell’acqua ossigenata e dei peros- sidi alla ossidazione delle più varie classi dei corpi organici, che hanno dato modo di risolvere molte questioni di costituzione mediante ossidazioni limi- tate e caratteristiche, e di fornire nuovi metodi di preparazione di nuove classi di composti. Nella maggior parte dei casi si opera a reazione acida o a reazione alcalina e in presenza di sostanze catalizzanti come i sali fer- rosi ecc. Si trova sempre però una certa difficoltà per queste reazioni quando sì agisca con corpi insolubili o scarsamente solubili in acqua. Da qualche tempo noi ci serviamo della soluzione eterea di acqua os- sigenata. Questo reattivo ci venne fornito dalla ditta Carlo Erba di Milano (?) che ora lo pone anche in commercio a diverse concentrazioni. Noi abbiamu sempre creduto utile adoperare la soluzione al 15 °/, Questa soluzione se conservata in vetro che non ceda tanto facilmente alcali, o che sia stato vaporizzato con acido cloridrico si conserva a lungo, se è tenuta in luogo fresco ed al buio. Noi l'abbiamo impiegata in numerose ossidazioni delle quali renderemo conto in seguito ed abbiamo riscontrato che essa presenta molti notevoli vantaggi; che dà dei prodotti facilmente separabili e sovente delle ossida- zioni quantitative. Oramai siamo riusciti ad escludere ogni pericolo in queste reazioni operando a piccole porzioni, ma in una prima operazione un poco in grande avendo concentrata la miscela dell’acqua ossigenata e della sostanza organica con una corrente d’aria, tutto ad un tratto si ebbe, con esplosione molto viva, la decomposizione dell'acqua ossigenata e la combustione completa dell'etere e del prodotto. Per ora ci preme di rendere noto un nuovo modo di ossidarsi dell’a-me- tilindolo che abbiamo osservato con questo reattivo. Tutti i modi di ossidazione del metilchetolo e dei suoi derivati portano alla rottura del nucleo con formazione degli acidi, antranilico o dei suoi prodotti di sostituzione. Solo colla fusione con potassa si può ottenere l’acido a-indolcarbonico. Invece con l'acqua ossigenata si arriva ad un corpo che ha la composizione di due molecole di metilindolo meno due idrogeni, più un atomo di ossigeno. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica Generale della R. Università di Parma. (*) Vedi anche: Carrasco, Gazz. chim. 1909, 47 RenNDICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. 59 — 454 — Questo corpo l'abbiamo ottenuto nel modo che segue: In una bevuta furono messi gr. 4 di metilchetolo con 20 ce. di acqua ossigenata eterea al 15 °/, e tenuti în luogo fresco per alcuni giorni. Dopo qualche ora comincia a separarsi una sostanza gialla cristallina, e dopo al- cuni giorni rimane tutta una crosta giallo verdiccia. Separata tale sostanza per filtrazione, si purifica cristallizzandola ripetutamente coll’alcool assoluto nel quale è pochissimo solubile e fonde a 209°-210°. È quasi insolubile nella maggior parte dei solventi organici. Non dà la reazione di Angeli degli indoli. Bollita con acido acetico glaciale dà una colorazione rossa. Trattata con H, SO, concentrato si scioglie colorando la soluzione intensamente in azzurro e la soluzione così ottenuta diluita con acqua diventa verdastra e separa dei fiocchetti verdi. Con potassa concentrata 0 alcoolica resta inalterata. All’analisi ha dato i seguenti risultati : In 100 parti: CU 78,23 HN0,07 N 10,07 Data la difficoltà di trovare per questa sostanza un solvente che si presti per le determinazioni crioscopiche noi abbiamo stentato a trovarne il peso molecolare. Questa serie di determinazioni in naftalina, che però inten- diamo di controllare, sembra concludere all'incirca per la formula CRERCOND I Conc. °/o 0,623 A 0,17 PM 259 II. ” 1,161 ” 0,27 >» 296 HI. a) 1,257 ’ 0,33 » 263 Peso molecolare medio = 271 A tale sostanza compete dunque la formula bruta C;g H1g Na. Infatti : Calcolato per C.s His ON» Trovato COoimMSizo 718,28 Ea 5.80 6,07 N» 10,15 10,07 PM » 276 271 Ed essa risulta dalla unione di 2 molecole di metilchetolo a mezzo di un atomo di ossigeno ed eliminizione di due atomi d’'idrogeno secondo la seguente equazione : 205 IS N + 2Hs 0; = Cis His ON; | 3H,0 Riduzione della sostanza precedente con stagno ed acido cloridrico. — Grammi 10 di sostanza sciolti in 100 ce. di acido cloridrico fumante, e sr. 50 di stagno furono messi a ricadere a b. m. Il liquido si colora inten- samente in rosso, colorazione che va perdendosi lentamente finchè scompare — 459 — del tutto. Dopo raffreddamento si alcalinizza con liscivia di soda e poi si distilla al vapor d'acqua. Passa un liquido oleoso incoloro di odore grato che viene separato per estrazione con etere e seccato su carbonato potassico calcinato. Evaporato l'etere si distilla e si raccoglie un liquido chiaro lim- pido bollente a 224°-226° e 766 mm. Ad un grammo di tale prodotto sospeso in acqua e addizionato di un eccesso di soluzione di soda al 20 °/, vennero aggiunti agitando continua- mente ed a piccole porzioni 5 grammi di cloruro di benzoile. La reazione avviene con lieve sviluppo di calore e conviene raffreddare con getto d'acqua. La parta oleosa va raffreddandosi finchè si trasforma tutta in una massa solida biancastra. Si purifica cristallizzandola 2 volte dall'alcool, e si pre- senta in forma di bei cristalli prismatici fondenti a 91°-92°. Il punto di fusione di tale prodotto corrisponde a quello del benzoil- diidrometilchetolo di Bamberger (') e lo abbiamo identificato con esso prepa- randolo nel modo da lui indicato e fondendo il miscuglio dei due prodotti che fuse esattamente a 91°-92°. Dunque la base da cui ottenemmo il benzoilderivato è il diidrometil- chetolo, e infatti il suo punto di ebollizione corrisponde a quello dato dai citati autori. Si è originata dal prodotto C,3 H,g ON; per azione di due mo- lecole di idrogeno. In seguito abbiamo voluto vedere se allo stesso risultato si poteva arri- vare impiegando o l’acqua ossigenata in altro ambiente, oppure qualche peracido. Abbiamo visto che l’acqua ossigenata reagisce, ma con risultati meno buoni, anche in soluzione acquosa (*), e che invece l’acido monopersolforico (acido di Caro) è molto ben adatto per avere a buon prezzo notevoli quan- tità del derivato descritto. Invece bollendo il metilchetolo con persolfato potassico non sì ottiene alcun risultato rimarchevole. Anche con l’ozono sia in sospensione acquosa che in soluzione cloroformica si ottiene lo stesso corpo insieme ad altre sostanze non studiate. Azione del reattivo di Caro sul metilchetolo. — Il reattivo di Caro fu preparato nel modo solito (*). Grammi 5 di metilchetolo furono messi in una bevuta con 100 cc. del reattivo di Caro e lasciati a sè per 48 ore. Dopo questo tempo si era quasi totalmente trasformato in una sostanza di colore verdognolo, che filtrata alla pompa e lavata con alcool per asportare il me- tilehetolo non trasformato venne cristallizzata diverse volte dall'alcool bol- lente da cui si deposita in cristallini colorati in giallo fondenti a 209°. (') Bamberger und Stemitzki, Ber. XXVI, II, 1303. (*) Con acqua ossigenata acquosa Ch. Porcher ha ottenuto dall’indolo l’indossile e quindi l’indaco. Bull. (1909), serie IV, vol. V, pag. 526. (*) Baeyer-Villiger, D. Chem. G. XXXIII, 124. — 456 — Questa sostanza si mostra identica a quella ottenuta coll’acqua ossige- nata. Il miscuglio delle due sostanze fuse a 209°. All’analisi ha dato pure risultati concordanti per la formula C;g Hig ONs. Infatti: Calcolato per Cig Hi ON» Trovato CI U0/87326, 77,95 Hilta 5,80 5,99 Nt st STO 10,15 Degli omologhi dell’a-metilindolo abbiamo tentato di ossidare altresì l’a-fenilindolo, ma questo rimase lungamente inalterato ; l’a-8- dimetilindolo si trasforma presto in una materia resinosa che non abbiamo pel momento potuto purificare, ma che studieremo in seguito. Appare però certo che in quest'ultimo caso la reazione procede altrimenti. In quanto al fenilindolo anche in altre reazioni esso dimostra un comportamento differente dagli alchilindoli, ma invece pel dimetilindolo si può pensare che la mancanza di idrogeni metinici liberi sia la causa del diverso comportamento, Per quanto riguarda la formula del nuovo composto si possono fare di- verse ipotesì : L'ossigeno potrebbe essersi fissato in modo da collegare in legame etereo i due carboni metilici laterali Ne cHe dd Magie e. NH NH Noi crediamo però di dovere eliminare questa ipotesi per la facilità con cui l'ossigeno viene eliminato coi riducenti e in modo particolare col cloruro stannoso. Resta quindi da scegliere fra le altre due ipotesi 5 bi: le e | II lo DI DE. CH; o NH de AI DI Sdi) gg nt STA N se si vuol ritenere senz'altro come improbabile che l'ossidazione si sia por- tata sul nucleo benzenico. — 457 — Nel primo dei due ultimi casi si avrebbe un etere derivato dall’indos- sile, nel secondo si avrebbe un derivato dell'N-ossindolo. Noi non abbiamo ragioni decisive per preferire una piuttosto che l’altra delle due forme; però la II è in certo qual modo la nostra favorita, giacchè il color giallo e le diverse reazioni colorate con H,S0, e con acido acetico che essa fornisce, stanno più per un affine dell’indossile che dell’N-ossindolo. Difatti, mentre gli eteri dell'acido N-ossindol-2-carbonico (!) sono inco- lori, l'indossile (*) è giallo ed i suoi eteri sono fino a bruni ($). La formula però non è altro che presunta, e stiamo lavorando pèr de- cidere quale sia veramente la costituzione di questo corpo. Ringraziamo il dott. Ugo Maggi per l’aiuto prestatoci in queste ri- cerche. Chimica. — Amabisi termica delle miscele di cloruro rameoso con cloruri di elementi monovalenti (4). Nota di C. SANDONNINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Scopo di questo lavoro è lo studiare il comportamento termico di mi- scele del cloruro rameoso con cloruri di altri elementi allo stesso grado di valenza. Il comportamento delle miscele di cloruri di elementi monova- lenti venne già studiato per gli alcalini da N. S. Kurnakow (5) e da RIRSSì ZemeZuZny (°); per gli altri elementi vennero studiate solamente mi- Scele di cloruro potassico e di cloruro d'argento del ZemezZuZny (7). Vennero perciò esperimentate miscele del cloruro rameoso coi cloruri di elementi del primo gruppo, potassio, sodio, argento e di un altro elemento, il tallio, che allo stesso grado di valenza dà composti stabili che sono generalmente iso- morfi con quelli di potassio. I sali adoperati parte provenivano dalla ditta Erba, parte vennero pre- parati in laboratorio. Le miscele vennero, secondo le temperature, fuse in provette di vetro infusibile e in bagno a sabbia con una lampada Mecker, oppure in provette di porcellana ed in forno elettrico a resistenza. Per la misura delle temperature venne usato un termoelemento Pt — Pt Rh e un galvanometro Siemens ed Halske. Come punti fissi per la correzione degli (!) Reissert, Ber. XXX, 1046. (?) D. Vorlinder und B. Drechser, Ber.. XXXIV 1856. (*) Baeyer, Ber. XIV, 1741. (4) Lavoro eseguito nell’ Istituto di Chimica generale della R. Università di Pad ova diretto dal prof. G. Bruni. (C)ENFISÌ Kurnakow u. RO SÌ ZemeZuiny, Zeitsch. f. Anorg. Chem. 52, 1907, 186. (OMEAIS ZemeZuZy e F. Rambach, Zeitsch. f. Anorg. Chem. 65, 1910, 403. (*) F. S. ZemeZuZny, Zeitsch. f. Anorg. Chem. 57, 1908, 267. — 453 — apparecchi furono usati i seguenti: p. eb. dell’acqua, dell’anilina (183°); punti di fusione dello zinco (421°), dell'antimonio (630°) e dell'argento (962°). I punti di solidificazione dei sali adoperati dalle curve di raffredda- mento risultarono i seguenti: Cul zaino BRANO n vaf HU PeA22e figo oe» 11) SA inse Nap Me 8008 TUO O TI OL I MT col OR Venne usata per le miscele una massa costante di dieci grammi ; quando però dalle curve di raffreddamento risultò qualche punto incerto, venne rad- doppiata la massa; nelle tabelle le durate dei varî punti di arresto sì rife- riscono sempre a dieci grammi di miscela. 1. — Il sistema NaCl — Cu Cl. 11 punto di solidificazione del cloruro sodico risultò a 806°. Mc. Crae (!) dà questo punto a 811°, Kurnakow e ZemezuZny (loc. cit.) a 819°. Ruff e Plato (?) a 820°. Quello del cloruro rameoso è in buon accordo con quello dato da K. Monkemeyer (*) (419°). La curva di cristallizzazione primaria discende dal punto di solidifica- zione del cloruro sodico ad un punto eutettico a 75 mol. °/, di CuCÌ, per risalire direttamente al punto di solidificazione del cloruro rameoso. Le durate di arresto eutettico si annullano rispettivamente a 12 e 2 88 mol. °/, di CuCl, concentrazioni che possono essere assunte come limiti di miscibilità allo stato solido dei due componenti. Le miscele che depositano cristalli misti ricchi in cloruro rameoso hanno la miscela a 90 mol.°/ di CuCl e quella al 95 nell'intervallo di 20 llizzazione dei cristalli intervalli di cristallizzazione ben netti: cristallizza nell'intervallo di 22 gradi, gradi; non fu possibile cogliere il termine di crista misti ricchi in cloruro sodico. (1) Mc. Crae, Ann. Phys. (3) 55, 1896. (*) O. Ruff u. W. Plato, Ber. d. d. Chem. Gesch. 36, II, 1903, 2357. (*) K. Monkemeyer, N. Jahr. f. Min. G. u. P. XXII Beit. Band, 1907, 1. 0.00 10.00 20.00 30.00 40.00 20.00 60.00 65.00 70.00 75.00 77.50 80.00 85.00 90.00 95.00 100.00 Molecole °/o i Culi “Lin ca nn rr 3 1 DIO TABELLA I. Temperature di cristalliz. primaria 806 772 736 674 610 995 — 459 — Temperature d’arresto eutettico Cloruro sodico + Durate in secondi ! Molecole °/o di CuCl 0.00 8.00 13.75 26.50 37.30 49.75 54.60 53.40 68.30 78.60 85.20 93.00 96.50 100.00 TABELLA II. Temperature | Temperature Durate di cristalliz.| d’arresto primaria eutettico in secondi 455 SEN Ca — _ 433 -- 412 260 _ 371 262 40 325 262 140 ? 260 250 eut. 261 250. 285 261 150 314 260 60 350 260 30 365 258 —_ 298-368 — — 410-391 _ = 499 a 2a Cleruro rameose — 460 — 2. — Il sistema AgC1 — CuCI. È analogo al precedente. Il punto di solidificazione del clorurof?d’'ar- sento è in buon accordo con quello degli altri sperimentatori ('). Cloruro d argento + cloruro rameoso on: Molecole 4 di cloruro rameoso (1) 10) 20130 40 50 60 70 80 90. 100 AgCl CuCl La miscela eutettica a 54.6 mol.°/, di CuCl e a 260°. In questo si- stema possono essere assunti come limiti di miscibilità allo stato solido le concentrazioni di 12 e 92 mol. °/ di CuC1. La miscela al 93 °/o cristallizza nell’intervallo di 30 gradi e quella al 96,5 nell'intervallo di 19 gradi. Anche in questo caso non fu possibile cogliere il termine di cristallizzazione ‘ dei cristalli misti ricchi in cloruro d'argento. 3. — Il sistema KCI— CuCll. Il punto di solidificazione del cloruro potassico risultò a 776°. Le Chatelier (?) dà questo punto a 740°; Kurnakow e Zemezuzny (loc. cit.) | Fic. 2. (1) Le Chatelier, Comp. Rend. d. l’Ac. des Sciences, 118, 800. (£) K. Monkemeyer (loc. cit.) 4529. — 461 — a 790°, Ramsay ed Eumorfopoulos (') a 762°; Me. Crae a 803°, Ruff e Plato a 790°. La curva di cristallizzazione primaria scende dal punto di solidifica- zione del cloruro potassico fino a 54 mol. °/, di CuCle a 224° ove si nota un evidente gomito, per ridiscendere fino ad un punto eutettico a 67 mol. %, e a 136° per risalire direttamente al punto di solidificazione del cloruro rameoso. 800 | di 700 | Cloruroputassico + Cloruro rameoso 700 Q | I | O 600 | | \ 600 | \ I \ 500 i D | | \ | \ i 400 | \ Hib | \ , 200 | e % 200 | S NS | DI \ | = SÒ 3 \ O (= Molecole | di cloruro rameoso i Ù Ù ) : ' Ù Ù ONNNGI ON 2oNNNNsoNicoNiNi5oN Ceo moifisoMiMico Ntr00 KCI CuC1 Fic. 3. Per tutte le miscele fino a #4 mol. ®/, di CuC1l si nota, nelle curve di raffreddamento, un punto di arresto a 224° che ha il massimo di durata a 33.4 mol. °/ di CuC1, e si annulla al cloruro potassico puro e a 54 mol. °/, di CuCl. Viene così ad essere accertata l’esistenza di un composto corrispondente alla formola CuCI - 2KC1, decomponibile per fusione, e che ha la sua tem- peratura di formazione a 224°. (*) Ramsay a. Eumortopoulos. Phil. Mag. 41-1896-360. RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 60 — 462 — L'arresto eutettico CuCl1 — CuC1-2KC1 si nota a concentrazione in K Cl di molto superiori alla composizione del sale doppio, anzi fino alle più forti concentrazioni in cloruro potassico: è anche questo un caso anomale spiegato da Tamman (') e già trovato in un lavoro precedente nel sistema joduro di piombo-fluoruro di piombo in cui la reazione che dà luogo al composto non avviene completamente durante il tempo in cui avviene il raffreddamento. D'altra parte le durate di arresto eutettico si annullano al cloruro rameoso, cioè tanto CuC1, quanto K C1 si depositano puri dalle mi- scele fuse. TapeLLa III. Molecole °/o | Temperature | Temperature | Durate |Temperature| Durate di di cristalliz. del d'arresto CuCl primaria 1° arresto | in secondi eutettico | in secondi JR peer ii | TNA e I ne 0.00 776 —_ —_ — — 10.00 734 217 20 130 = 20.00 671 219 40 134 30 30.00 588 220 50 135 70 33.40 51315) 224 80 139 100 40.00 485 225 60 157 130 45.00 426 221 40 135 150 50.00 355 226 30 137 170 55.00 220 _ _ 135 180 57.50 218 — _ 136 200 60.00 200 — — 137 230 65.00 180 — — 136 300 70.00 170 = — 156 180 75.00 232 = — 136 160 80.00 274 — — 134 110 90.00 362 — _ 135 80 95.00 394 = — 130 20 100.00 429 = = = = 4. — Il sistema TIC1 — CuCÌ1. Il punto di solidificazione del cloruro talloso è dato da K. Monkemeyer a 426°. Il punto di solidificazione del cloruro talloso usato risultò a 429°. Il diagramma che risulta dalle curve di raffreddamento è analogo al pre- cedente; si rivela un composto decomponibile per fusione corrispondente alla formola CuCl-2TICI. La sua temperatura di formazione è a 226°; la mi- scela eutettica CuC1— CuCl. 3TICI giace a 60 mol. °/ di CuCl e a 122°. Il gomito a questa temperatura nella curva di cristallizzazione primaria si nota, benchè debolmente a 47.5 mol. °/, di CuCl. Le durate del punto di arresto a 226° si riducono a zero a 7 mol. °/ di CuC1; e così le durate eutettiche rispettivamente a 35 e a 97 mol.°/, di Cu0I. Il composto Cu Cl: 2T1C1 decomponibile alla fusione, dà cristalli misti coi due componenti (*). Tanto in questo sistema, quanto nel sistema precedente, la composizione dei sali doppî CuC1-2KC1le CuCl-2TICÌ si può dedurre solamente dalla massima durata degli arresti spettanti alle loro temperature di formazione. (*) G. Tamman, Zeitschr. f. Anorg. Chem. 45, 1905, 24. (3) R. Ruer, Metallographie, pag. 207; 1907. sen crt = — 463 — TABELLA IV. Moleeole 0/0 di Culi 0.00 5.00 10.00 15.00 21.15 30.00 33.40 37.75 40 00 45.00 50.00 50.10 55 00 61.70 64.50 65.00 70.10 81.30 90.06 95.00 100.00 Molecole Temperature | Temperature Durate Temperature Durate di cristalliz. del d'arresto primaria 1° arresto | in secondi eutettico in secondi 499 a 2a Di pai 410 — — — — 380 223 _ — — 370 223 —_ — = 345 222 40 2 —_ 300 226 140 — — 283 226 180 — — 270 224 130 _ = 260 223 100 123 20 ? 221 60 124 60 218 _ — 121 80 208 = = 123 90 173 = = 124 110 166 = — 122 240 166 — — 123 200 183 — —_ 123 190 258 = —_ 120 130 313 — _ 120 100 362 — — 116 30 385 — — 116 a 422 — — _ = Cloruro lalloso 4 Cloruro rameoso ‘i 300 200 ‘4 100 — 464 — La esistenza di un sale doppio CuCl-2KC] era già nota; esso infatti preparato da Mitscherlich (') per via umida che gli attribuì la formola doppia Cu, Cl, - 4K Cl; non era nota invece l’esistenza di un sale doppio CuC1.2T1C1. CONCLUSIONI. 1) Il cloruro rameoso dà soluzioni solide in rapporti limitati coi clo- ruri degli omologhi della seconda metà del primo gruppo, sodio e argento ; 2) dà sali doppî del tipo CuCl-2MCI coi cloruri di potassio e di tallio monovalente. Col cloruro di tallio si formano inoltre cristalli misti entro limiti assai ristretti. In complesso i risultati ottenuti, come già quelli avuti da Kurnakow e e ZemeZuZny coi cloruri alcalini, stanno in buon accordo colle relazioni già note fra gli elementi studiati e colla loro posizione nel sistema periodico. Chimica. — Sistemi binari dei cloruri di alcuni metalli mono- valenti. Nota di G. Poma e di G. GasBI (*), presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Il cloruro rameoso ed il cloruro d’argento possono dare tanto con acido cloridrico, quanto con cloruri alcalini dei sali complessi, in cui il metallo pesante fa parte dell’anione. Così, per esempio, nella letteratura si trova la descrizione di tutta una serie di cuprocloruri alcalini (*) che poterono essere isolati allo stato solido, mentre d'altro lato le misure di solubilità del clo- ruro d’argento nelle soluzioni dei cloruri di potassio, di sodio e d'ammo- nio ecc. (4) provano in modo non dubbio l’esistenza in soluzione, di cloro- sali d’argento. Per queste ragioni e per le relazioni che esistono nelle proprietà chimiche e fisiche di taluni dei cloruri dei metalli monovalenti, ho creduto opportuno studiare le curve di raffreddamento dei sistemi CuCl e KC1; CuCl e AgCl. Già Le Chatelier (5), Plato (°), e Kurnakow e Zemezuznyj (*) realiz- zarono le curve di raffreddamento del cloruro di sodio e di quello di potassio (*) Mitscherlich, Ann. d. Chemie et Phys. 73, 1840, 384. (®) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Parma diretto da G. Plancher. (3) Abegg's Handbuch der anorg. Chemie, Bd II, 1, S. 544. (4) Abegg's Handbuch der anorg. Chemie, Bd II, 1, S. 679. (5) Compt. rend. 113, 350. (5) Ber. 36, S. 2357. (*) Ztschr. anorg. Chemie, LII, 186. — 465 — dimostrando la formazione, ad alta temperatura, di soluzioni solide dei due sali che, per raffreddamento, tornano a separarsi. Più tardi Zemezuznyj (1) eseguì un'analoga ricerca per il sistema AgC1 e KC1 giungendo ad escludere che dalla miscela dei due sali fusi si separino composti complessi solidi, come pure cristalli misti. Il metodo da noi tenuto nell’eseguire la presente ricerca è essenzial- mente il medesimo di quello seguito dagli autori prima citati; in una parte delle nostre misure ci siamo serviti di un fornellino di lamiera di ferro a doppia parete, avvolto in grosso strato di amianto. Nel tubo interno del for- | nellino sospendavamo, mediante un tappo di amianto, una larga provetta di vetro di Jena, chiusa a sua volta con un secondo tappo di amianto, attra- verso al quale, per due fori, passavano il tubetto esterno di un pirometro Le Chatelier, ed una squadretta di vetro, addutrice di un gas inerte. Il fornellino veniva riscaldato con le fiamme di ‘una grossa Teclu. In tali con- dizioni però non ci riuscì agevole superare di molto la temperatura di 500°, per cuì nella seconda parte del nostro lavoro ci siamo serviti di un piccolo fornello elettrico a resistenza, formato da un tubo di ferro, attorno al quale è avvolto un filo di nichel di un millimetro di diametro; tale filo è rive- stito da un tessuto di amianto che serve anche da isolatore. Il tubo così avvolto, viene posto nell'interno di un cilindro di ferro, e fissato con silice in polvere finissima, la quale ne rende assai buono l'isolamento termico. Con tale dispositivo, usando una corrente dell’ intensità di sette ampères circa, sì può facilmente giungere a temperature anche superiori ai 1000°. Le pile termoelettriche impiegate furono due: Per il sistema CuC1 — AgCl, nel quale non v'è mai bisogno di giungere a temperatura superiore al 500°, ci siamo valsi della coppia a grande forza elettromotrice, rame- costantana, per il sistema CuCl1— KC1 della coppia platino-platino rodio. Il galvanometro usato, possiede due scale graduate direttamente in tem- perature; esso venne fabbricato dalla casa Siemens & Halske. Abbiamo messo la maggior cura nella scelta dei sali coi quali abbiamo sperimentato. Il cloruro potassico ci venne fornito dalla casa Kahlbaum di Berlino, esso apparteneva alle serie di sali che quella Ditta accompagna con certificato di garanzia ed era quindi da ritenersi sufficientemente puro. Il cloruro d’argento fornito dalla stessa Ditta, venne da noi analizzato con ri- sultato favorevole. È noto invece che il cloruro rameoso tende ad ossidarsi con estrema facilità; perciò noi abbiamo impiegato tre campioni di questa sostanza, aventi diverse provenienze, e prima di usarli abbiamo ritenuto necessario sotto- porli ad una purificazione. A questo scopo abbiamo sospeso il CuCl in una soluzione acquosa di anidride solforosa, quindi lo abbiamo filtrato alla pompa (!) Ztschr. anorg. Chemie, LVII, 267. — 466 — e lavato abbondantemente con acido acetico, alcool ed etere. La massa ancora imbibita di quest'ultimo solvente, venne introdotta in un pallone tenuto im- merso in acqua bollente, e dopo averlo chiuso mediante un tappo di gomma munito di una squadretta, vi abbiamo praticato il vuoto. In questo modo ci fu possibile ottenere del cloruro rameoso perfettamente bianco, che essendo secco, si conservò indefinitamente. I punti di fusione che abbiamo trovati per questi tre sali sono seguenti : AG GI EMME TO DERSTEE 451° Cul) fp Re aloni hon4tog Eli! Fhnasd0 ron. sint. 03 47092 La temperatura di fusione del cloruro d'argento non risulta ben defi- nita nella letteratura, poichè esistono fortissime discordanze fra i varî fautori. Così essa è secondo Kohlrausch (*) 487°, secondo Ehrhard (*) 490°, secondo O. H. Weber (3) 450° e secondo Zemezuzny) (4) 451°. Le nostre ricerche dànno risultati che stanno in accordo con quelli di questi ultimi autori. La temperatura di fusione del Cu01 è secondo Car- nelly (*) di 434° = 4, quella trovata da noi è 415°; tale differenza non può però assolutamente essere imputata ad impurità, perchè i tre diversi cam- pioni fondevano tutti alla stessa temperatura, benchè fossero di provenienze diverse. Se mai, la differenza potrà dipendere dal metodo di misura. La temperatura di fusione del cloruro potassico è secondo Tamman (°) di 778°, secondo Zemezuznyj 790°, secondo Plato (7) 772° e secondo Ramsay e Eumorfopoulos (3) 762°. Il valore trovato da noi concorda sufficientemente con quest'ultimo; ad ogni modo anche qui può essere fatta l'osservazione precedente. In causa dell'estrema ossidabilità del Cu C1, tutte le fusioni da noi eseguite, vennero fatte in un'atmosfera di azoto. Sistema CuCl — AgCl. Come risulta dalla figura (A) annessa, la curva di raffreddamento in questo sistema è semplicissima. Nella seguente tabella sono raccolti i risul- tati da noi ottenuti. (‘) Ann. Ph. Chem. Wiedm. 17, 642. (®) Ann. Ph. Chem. Wiedm. 24, 215. (3) Ztschrt. anorg. Chemie, 21, 305. (4) Loc. cit. (5) Journ. Chem. Soc. 33, 273. (8) Zschr. anorg. Chemie, 43, 215. *) Ztschr. physik Chemie, 55, 721. ) ( (*) Phil. Mag. 41, 360. — 467 — TABELLA I. Inizio della cri- pati di aullizazine Ci TED te 0 415° ph E”, 4 410 — — 6.66 400 — — 10 395 — — 12.5 388 240° 20" 13.3 385 245 30 29 359 250 200 37.5 324 250 320 45 300 250 400 50 279 250 460 5) 260 250 520 62.5 270 250 460 67 295 250 400 75 335 250 280 85 385 250 180 90 405 250 76 93.33 415 — — 97 435 — — 100 451 — —_ conc. °[, in peso Fie. A. — 463 — Le temperature dei due primi arresti eutettici sono alquanto più basse di 250°, ciò che però alle estreme concentrazioni, si verifica abbastanza fre- quentemente. Il peso totale di ciascuna miscela, fu ordinariamente di 20 gr., ma quando le miscele erano rispetto ad uno dei due componenti, assai di- luite, allo scopo di rendere più evidenti gli arresti eutettici, operammo con miscele del peso di 30 gr. Date le condizioni di ottimo isolamento termico in cui abbiamo lavorato, non è verosimile che ci siano sfuggiti arresti anche notevelmente piccoli; noi possiamo quindi concludere che mentre allo stato liquido CuCl e AgCl sono perfettamente miscibili, allo stato solido presen- tano una larghissima lacuna di solubilità, di cui possiamo calcolare per estrapolazione i limiti estremi. Dall’annessa figura appare evidente che dalla miscela fusa non si separa per raffreddamento nessun composto tra i due componenti. Sistema CuC1 — K CI. In questo caso i fenomeni si presentano alquanto più complessi. Come risulta dall’annessa tabella, nelle curve di fusione si hanno talora due ar- resti e l'andamento della curva è quello caratteristico per i sistemi binari in cui, tra i due componenti, si forma un composto che si dissocia ad alta temperatura. Ecco i risultati ottenuti. TABELLA JI. i Percentuale Inizio della NEGO Durata del SErondo À Durata del ia Esso di ortllicnzone © © cutetco -| MiMo smetto ‘aesio | gioinseconi 0 415° — _ — — 5) 395 142° 130” — — 5) 379 141 170 —_ = 12 310 142 520 — — 259 181 143 920 — — 28 144 144 1220 — — 33 200 144 960 — — 40 285 143 700 234° 80" 50 450 148 450 236 200 60 045 142 320 236 300 70 635 142 220 239 290 80 690 — 220 239 290 90 735 — — 2206 123 100 759 — _ _ — Come si vede il punto di cristallizzazione primaria si abbassa sino alla temperatura di 142° che corrisponde al primo eutettico. Dal lato del CuC1 la curva delle durate dell'arresto arriva sino all'or- dinata corrispondente, ciò che permette di escludere la formazione di cri- — 469 — stalli misti. Al di là della concentrazione corrispondente all’eutettico, la curva per quantità maggiori di K Cl sale rapidamente. Intorno alla tempe- ratura di 236° per tutte le concentrazioni superiori al 38 °° in peso di KCI, si nota, nelle curve di raffreddamento, un altro arresto. Cu0l | KCl 800 |- 800 700 600 500 400 300 200 100 conc. sl° in peso Fia. B. Data la forma della curva di fusione e i valori delle durate d'arresto, deve escludersi che esso sie dovuto alla formazione di due strati liquidi o a\fenomeni di polimorfismo; rimane adunque soltanto possibile il caso della formazione di un composto, che fonde con decomposizione. Noi non siamo stati in grado di stabilire con assoluta certezza a quale concentrazione di KCl corrisponda la massima durata di questo arresto. Con tutta probabilità però, essa si aggira intorno al 60°/,. La ragione di questa incertezza sta nella non sufficiente durata degli arresti e nel fatto che l’eutettico che cor- RENDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. o 61 — 470 — risponde a 142°, si perde sicuramente solo in vicinanza dell’ 80 0/, circa. È noto infatti che nel caso teorico l’orizzontale dell'eutettico dovrebbe arre- starsi in corrispondenza alla massima durata del secondo arresto, ciò però assai spesso non si verifica, poichè il composto che si separa all'atto del congelamento, va a rivestire i cristalli già formati del secondo componente, impedendo che essi partecipino ulteriormente alla reazione. Riducendo le percentuali in peso con le quali abbiamo fino ad ora espresso la concentra- zione del K C1, in molecole per cento si ottiene, come probabile concentra- zione corrispondente alla massima durata del secondo arresto, il 66 °/. Ciò significa che con tutta verosomiglianza al composto che si forma, com- pete la formula [CuCl;]K:, che è appunto il cuprocloruro di potassio che per altre vie era già stato ottenuto. Chimica. — Sugli equilibri di solubilità fra l'iodio e le so- stanze organiche ('). Nota di F. OLIvaRI, preseotata dal Socio G. CIAMICIAN. 1. Bakhuis Roozeboom nel II volume del suo trattato: Die heterogenen Gleichgewichte, accennando alle molte misure di solubilità dell’iodio in sostanze organiche rileva che nessuna di esse fornisce l’intero diagramma di equilibrio (p. 251) il quale rimane così per la maggior parte incognito. » Es ist also ginzlich unbekannt, ob die Iodkurven in der Nihe des Schmelz- punktes dieses Stoffes besser wie beim Schwefel ibereinstimmen. Die wei- tere Untersuchung der mittleren und hoheren Teile dieser Iodkurven wurde weitere Anhaltspunkte geben kénnen fiir die Beurteilung der Zustande dieser Lòsungen, da die Untersuchung von verdiinnten Lisungen stets zu der Mole- kulargrosse J, gefilhrt hat, obwohl die Farbe der Losungen auf Kompliziertere Verhiltnisse weist. Dabei ist dann natiùrlich auch stets zu untersuchen, ob das Jod sich rein oder als Mischkrystall abscheidet, wie Beckmann beim CéHy fand ». Secondo le numerose ricerche di Beckmann e dei suoi allievi, il diverso colore delle soluzioni iodiche nei solventi organici deve essere attribuito alla formazione di composti di addizione del tipo degli idrati mI,.[R], — in cui R indica la molecola organica — i quali nella fase liquida sono in equi- librio di dissociazione (termolitica) coi componenti : mi,.[R Km PCR t pl +gR....... (a) Nulla si può dire di preciso intorno alla loro complessità: senza dubbio essa deve dipendere dalle condizioni sperimentali (temperatura, diluizione) (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio Chimico della R. Università di Parma, diretto dal prof. G. Plancher. — 471 — e dalla natura della molecola R. Le esperienze crioscopiche di Hildebrand e Glascock (') tendono a dimostrare che nelle soluzioni rosso-brune diluite esistono composti semplicemente equimolecolari I. [R]; Waentig (*) per altra via ha però riconosciuto che in alcuni casi si deve supporre anche l’esistenza di composti più complessi I, .[R].. Sono poi noti i prodotti di addizione della formola L .[R]. Riguardo alla isolabilità degli iodocomplessi possediamo poche osserva- zioni. Le antiche misure di Arctowski (*) mostrano che la curva di solubi- lità dell’iodio in CS, presenta varî punti di discontinuità corrispondenti ai punti di scomposizione di composti che non raggiungono inalterati la loro rispettiva temperatura di fusione. D'altra parte Hantzsch e Denstortî (4) ot- tennero per cristallizzazione dalle soluzioni miste in cloroformio, iodocomplessi del dietossidinaftostilbene e del dixantilene aventi la composizione L .[R]. Infine recentemente, per forte raffreddamento delle soluzioni iodoalcoliche, Waentig annuncia di aver cristallizzato un complesso iodo-alcool di compo- sizione non ancora determinata. Dalle soluzioni di iodio in piridina per ag- giunta d’acqua questo autore ha inoltre precipitato il composto I,.[C: Hz N] poco stabile. Gli analoghi bromocomplessi sono invece meglio noti per opera special- mente di Mc. Intosch (5); in quest'ultimi tempi egli ha applicato con suc- cesso l’analisi termica all'esame delle miscele di bromo ed etere solforico (°) mostrando che la curva di fusione rivela l’esistenza di due composti: R.Br. e RBrz. Contemporaneamente Guye e Wroczynsky (") descrivevano la curva di fusione per i miscugli di bromo e bromuro di etile dai quali, a — 74° circa cristallizza un prodotto di addizione [ R]» . Br>. Occupandomi da qualche tempo delle proprietà dell’iodio come solvente ho creduto non privo di interesse intraprendere anche lo studio dei diagrammi completi di solubilità relativi ai miscugli binarî dell’iodio con varie so- stanze organiche allo scopo: 1°) di precisare quali relazioni di stato fisico (miscibilità completa o incompleta, solubilità allo stato solido ecc.) intercedono fra i componenti; 2°) di stabilire se in questo campo termico gli eventuali iodocom- plessi sono capaci di cristallizzare o comunque rivelano la loro esistenza dalla forma delle curve di equilibrio. (1) Journ. Am. Chem. Soc. [1909] 31, p. 26. (3) Z. f. phys. Chem. 68, p. 513 [1910]. (*) Z. anorg. Chem. 6, p. 392 [1894]. (4) Lieb. Ann. 349, p. 1 [1906]. (5) C. C. 1905, I, p. 921-1459. (5) Journ. Am. Chem. Soc. XXXIII, p. 71. ("*) Journ. Chem. Phys. 1910 VIII, p. 189. Zi 9. Le mie esperienze si riferiscono per ora alle seguenti sostanze: io- doformio, p-dibromobenzolo, azobenzolo, p-dinitrobenzolo, anidride benzoica e acido benzoico. Di molte miscele veniva determinata oltre la temperatura 120 | 110 100 | 90 80 70 60 Sistemi AZ 50 o 9: GA Ba E DIGA . » ep GAIL, » - [GE 00h0 40 nel COOH U) 10 20 30 40 50 M60 NINO NN80 N 90,100 ol, mol. di miscela | di cristallizzazione primaria anche il punto crioidratico la cui posizione serve | utilmente a completare e confermare il significato dei diagrammi di fusione. | Non si è invece dimostrata necessaria la conoscenza delle durate di cristal- Î lizzazione eutectica. | — 473 - Dall'esame della figura che riassume i risultati ottenuti, possono trarsì le seguenti conclusioni: 1°) Le curve di solubilità dell'iodio in prossimità del punto di fu- sione di qnesto elemento mentre praticamente coincidono per l’iodoformio, l’azobenzolo, il p-dibromobenzolo e il p-dinitrobenzolo, deviano per minore inclinazione nel caso dell'anidride benzoica e dell'acido benzoico. Il contegno di queste sostanze, per quanto si deduce da mie precedenti misure criosco- piche ('), è da attribuirsi alla loro polimerizzazione molecolare. 2°) Le curve di solubilità dell’iodio in p-dibromobenzolo, p-dinitro- benzolo, anidride benzoica ed acido berzoico presentano un esteso tratto oriz- zontale corrispondente alla formazione di due strati liquidi. L’iodio fuso non è dunque completamente miscibile con le predette sostanze organiche. Non venne determinata la curva critica. 3°) Nei diagrammi di solubilità con p-dibromobenzolo e azobenzolo sì osserva invece un mutamento di curvatura (flesso) alle concentrazioni di circa 70 e 60 °/, rispettivamente. Ora, secondo van Laar (?), la curva ideale di solubilità di un componente possiede un punto di flesso quando il calore latente di fusione Q del componente stesso (calcolato per grammimolecola) è minore del quadrato della sua temperatura assoluta di fusione T. Pren- dendo per base il calore latente di fusione dell’iodio w=11.7 per kgr., sì ha per J° Q= 2970, valore che supera di molto il quadruplo della tempe- ratura assoluta di fusione 4T = 1544°. Per quanto w sia stato determinato in modo non completamente sicuro da Favre e Silbermann (8) la condizione: <4T è lontana dall'essere soddisfatta. D'altra parte un punto di flesso può riscontrarsi, come hanno dimostrato Roozeboom e Aten (‘), anche nelle curve di fusione di due componenti, fra i quali si formano composti endotermici in equilibrio di dissociazione nel fuso: nel nostro caso però la formazione di tali composti non sembra verosimile, perchè dagli studî anche recenti relativi alla influenza della temperatura sugli iodocomplessi è emersa costantemente la loro natura di prodotti di ad- dizione costituiti con sviluppo di calore. Data la tendenza dell’iodio liquido alla incompleta miscibilità con i componenti organici ricordati al $ 2°, più probabile ricorre l'ipotesi che il punto di inflessione delle curve sia dovuto al fatto che le soluzioni ad esso adiacenti passino in vicinanza dello stato critico (G. Eggink) (?). (') Rend. Ace. Lincei, XVIII. serie 5%, 2° sem., p. 384. (?) Roozeboom. Heter. Gleig. II, p. 276. (5) Landolt. Tabellen, p. 470. (*) Z. phys. Chem. 53, p. 449. (*) Z. phys. Chem. 64 p. 449. — 474 — 4°) La presenza dell'eutectico anche nelle soluzioni diluite (5-6 */,) esclude l’isomorfismo fra i componenti al disopra di questi limiti. Infine le curve non ci forniscono alcun accenno della cristallizzazione di iodo complessi; siccome vi è motivo per credere che essi esistano in solu- zione — tra l’altro per il colore rosso o rosso-bruno della fase liquida — può ritenersi che la loro temperatura di saturazione nella miscela sia infe- riore alla temperatura eutectica (Confr. la mia Nota: Sulla esistenza nella fase liquida di composti fra due componenti non separabili come fasi solide, inserita nei Rend. della Soc. Chim. Ital. Anno 1911). Agronomia. — L'azione efficiente dell'apparato masticatore nella distruzione dei semi da parte degli animali domestici. Nota di 0. MUNERATI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Nel corso delle mie osservazioni sulla distruzione delle sementi delle specie spontanee e coltivate da parte degli animali domestici, giungevo gra- dualmente a convincermi che le locuzioni generalmente adottate « sem di- strutti nel loro passaggio attraverso il tubo digerente », « semi distrutti dai succhi gastrici », « effetti della digestione sulla vitalità dei semi», ecc., non dovessero costituire l'esponente di un fenomeno interpretato al suo giusto valore. Più che di un’azione biochimica avrebbe dovuto trattarsi, a mio ve- dere. di un'azione prevalentemente meccanica: l'apparato masticatore avrebbe dovuto, in altri termini, assai più influire del tubo digerente come fattore di disfacimento dei semi. Precisiamo alcuni accertamenti di fatto: 1° Somministrando ad un animale (bovino ed equino specialmente) delle sementi a tegumento più o meno duro e delle sementi a tegumento molle e delicato, insieme o separatamente, si trovano poi nelle deiezioni, in maggiore o minore quantità, sementi integre e vitali di tutte le specie: persino dei semi previamente cotti (fagiuoli per esempio) possono passare inutilizzati conservando il loro tegumento completamente sano. Ora, come potrebbe giustificarsi un così diverso e strano comportamento se fosse il succo gastrico agente primo di dissolvimento? Nessuna ipotesi potrebbe invece meglio permettere di interpretare il fenomeno, all'infuori di quella per cui si ammetta che i semi, per disfarsi lungo il tubo digerente, debbano venire prima schiacciati o contusi dall’apparato masticatore. 9° I semi vecchi e nuovi di una stessa specie di leguminosa infesta (veccie, latiri, ecc.) si comportano in modo molto diverso nel loro passaggio attraverso l'organismo di un ruminante: i semi nuovi sì salvano in propor- — 475 — zione assai maggiore di quelli vecchi (!). Tanto dei semi vecchi come di quelli nuovi una parte viene schiacciata durante la prima masticazione, e una parte, sfuggendo all’azione contundente dell’apparato masticatore, passa nello stomaco; qui i semi vecchi in grande maggioranza assorbono acqua e sì gonfiano, talvolta deformandosi; i semi nuovi, in grande maggioranza duri, non subiscono quasi alcuna alterazione o deformazione. All’atto del rigurgito, le stesse ragioni per le quali una parte dei semi erano sfuggiti all'apparato dentario la prima volta, permangono, ai riflessi delle sementi dure, anche per il periodo della ruminazione, mentre i semi che tornano in bocca gon- fiati, sformati e rammolliti, vengono facilmente schiacciati. 3° Il cavallo distrugge una maggiore o minore quantità di semi se- condo l'età e secondo la voracità degli individui. Ai cavalli vecchi, ad appa- rato masticatore più o meno rovinato, molte volte occorre frangere l'avena prima di somministrarla. Basta poi avvicinarsi a un cavallo quando sta con- sumando una razione di avena per giudicare 4 priori se nelle deiezioni si troverà inutilizzata una maggiore o minore percentuale di semi: i cavalli che inghiottono più avidamente masticando poco fanno passare più semi dei cavalli che mangiano adagio. 4° La pecora è, tra i mammiferi domestici, quello che distrugge la maggiore quantità di sementi. Partendo dal presupposto che dovesse interve- nire, nel disfacimento dei semi, l’azione dei succhi gastro-enterici, qualche fisielogo volle stabilire dei confronti tra la pecora ed altri animali in merito a lunghezza dell’intestino, a periodo di permanenza della sostanza alimentare nel tubo digerente, ecc. Che si tratti invece di un'azione prevalentemente meccanica, lo dimostra la meticolosità con la quale l’ovino trae profitto dagli alimenti mercè una prolungata ruminazione. Le deiezioni, nella pecora, sono costituite da frammenti minutissimi, mentre i frammenti sono meno minuti nel cavallo e più grossolani ancora nei bovini, come appare dalla unita riproduzione fotografica. Aggiungasi che la presenza, malgrado la in- tensa triturazione del foraggio, di un certo numero di sementi dure di veccie e di latiri nelle deiezioni, trova una giustificazione più che plausibile nella considerazione che si tratta di semi rotondeggianti e a tegumento levigato, e pertanto capaci di sfuggire ripetutamente ai denti che tenderebbero a schiacciarli. 5° Somministrando a un animale una quantità notevole di semi di una data specie, la percentuale che ne va distrutta è generalmente minore che non nel caso in cui allo stesso animale si facciano ingerire le medesime sementi in numero ridotto: indubbiamente nel primo caso l'apparato masti- catore ne lascia sfuggire in più forte copia. 6° I semi di minima grandezza si trovano nelle deiezioni in percen- tuale più elevata dei semi più voluminosi: si comprende come i primi, (*) V. mia comunicazione: Za distruzione dei semi per parte degli animali domestici. — 476 — quasi riparati e protetti da frammenti di foraggio, sfuggano all'azione con- tundente dell'apparato dentario; se intervenisse l’azione diretta dei succhi, i semi piccolissimi e a tegumento relativamente delicato, dovrebbero essere digeriti ben più facilmente delle sementi più grosse e a tegumento duro. 7° Nei gallinacei l'apparato masticatore è meravigliosamente rappre- sentato dal ventriglio: le pareti muscolose agiscono, con le loro violente contrazioni, quali potenti mandibole, mentre le pietruzze contenutevi costi- tuiscono degli energici organi contundenti e molitori (1). Fs 3 i i (i È Bue Cavallo Pecora Riproduzione in grandezza naturale (fot. dell'Autore). A suffragare l'ordine di idee esposto nelle precedenti considerazioni, sottoponevo sementi di diverse specie e diversamente trattate a prove di digestione artificiale, eseguendo insieme un esperimento di carattere certo più probatorio. Digestione artificiale. — Costituita una delle diverse formule attive (5) () Mi riserbo di pubblicare in proposito varie osservazioni di indagini che sto completando. (3) La formula adoperata fu la seguente: Pepsina. gr. 1,60; Acido cloridrico, gr. 0,56; Acido lattico, gr. 0,50; Cloruro sodico, gr. 1,70; Acqua, gr. 200. I semi vennero posti in un termostato dell'Ospedale civile di Rovigo e seguiti, durante la prova, dai dottori Zapparoli ed Accardi. Li — 477 — in altrettante capsule in termostato a temperatura di 38-40° centigradi, il 18 agosto 1910 furon posti i varî gruppi di sementi che seguono: a) Semi normali di Vicia segetalis, Thuill.; Zathyrus Aphaca, L.; Plantago lanceolata, L.; frumento e granoturco, tutti dell'annata 1910; b) Semi incisi di Vicia segetalis, Thuill.; Lathyrus Aphaca, L. e frumento del 1910; c) Semi normali di Vicia segetalis, Thuill. del 1908; Lathyrus Aphaca, L. del 1907; Rapistrum rugosum, (L.) Berg. del 1909; Cersium arvense, L. del 1909 ; d) Semi incisi. dì Vicia segetalis, Thuill. del 1908; Zathyrus Aphaca, L. del 1907; granoturco del 1907; e) Fagiuoli cotti, integri; f) ) o V00ISIE L'esame successivo dei varî aggruppamenti portava ad accertamenti che era facile prestabilire. Le sementi incise, soprattutto quelle di veccia, di latiro, di fagiuolo, si presentavano, già dopo 24 ore, inturgidite e sformate; dopo 48 ore la sostanza interna poteva uscire in seguito a piccola pressione. Indubbiamente questi semi, se fossero stati travolti nel movimento delle materie alimentari, si sarebbero spappolati lungo il tubo digerente. Le se- menti integre vecchie dopo 24 ore, e a maggior ragione dopo 48 ore, erano rigonfiate e più o meno sformate, ma a tegumento assolutamente normale, compresi i semi cotti. I semi nuovi (dell'annata) di leguminose erano in grandissima parte in ottimo stato, a colore ed aspetto invariato. Data, in ogni modo, la grande difficoltà, se non la impossibilità, in un esperimento di digestione artificiale, di avvicinarsi, anche grossolanamente, alle condizioni di un reale processo di digestione, con tutti i complessi fe- nomeni che lo accompagnano (peristalsi, stimolo di liquidi varî, azione di fermenti, ecc.) le osservazioni compiute, per quanto sufficientemente persua- sive, non potevano essere ritenute rigorosamente dimostrative. Passaggio diretto di semi attraverso il tubo digerente di un cavallo. — Se si poteva dimostrare che un certo numero di semi, passanti direttamente nello stomaco senza essere schiacciati o contusi dall’apparato dentario, si trovavano poi tal quali nelle deiezioni, sì giungeva a dar valore quasi asso- luto alla tesi. Scelto un cavallo di media età, del sig. Giuseppe Vincenzetti di Can- tonazzo, dopo varî tentativi esperiti indarno insieme col dott. Ferruccio Cu- latti, veterinario-zootecnico aggiunto alla Cattedra Ambulante di Agricoltura di Rovigo, finimmo per adottare il sistema dei boli: numerosi semi di specie varie, racchiusi in diversi piccoli boli a base di una pasta di miele e farina, furono somministrati all'animale spingendo i boli con una spatola giù nell’esofago: determinata, con diverse prove preliminari, la miglior pro- cedura, la manovra riusciva abbastanza facile. Renpiconti. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 62 — 478 — Sementi impiegate: Vicia segetalis, Thuill.; Vicia hirta, Balb.; La- Ihyrus Aphaca, L.; Avena saliva, L.; frumento, granoturco e fagiuoli verdi. Delle prime tre specie che il cavallo, quando può avere libero e sano l’ap- parato masticatore, distrugge quasi totalmente, si misero a confronto semi vecchi e semi nuovi (dell'annata). Le prove furono eseguite nella seconda quindicina di agosto del 1910. Costantemente, la pressochè totalità dei semi fu ritrovata nelle deiezioni. compresi i semi a tegumento delicato come il frumento e il fagiuolo ancor verde; î semi vecchi di leguminose erano rigonfiati e più o meno deformati, quelli nuovi del tutto normali; alcuni semi (di frumento particolarmente), in condizioni straordinariamente favorevoli per evolversi, già avevano, fra- mezzo alle deiezioni, la piumetta! CONCLUSIONE. Nessun dubbio ormai, per me, che la base prima della disintegrazione delle sementi da parte degli animali domestici risieda esclusivamente in un'azione meccanica dell'apparato masticatore. Ove si tratti di alimentare un animale a base di semi, la vecchia formula: « prima digestio fit în ore » acquista, per così dire, un più grande e più manifesto valore di verità nel senso che l'azione contundente degli organi della masticazione rende acces- sibili ai succhi gastrici le sostanze che sono contenute nel seme e che al- trimenti verrebbero, anche se protette da un involucro debole ma intatto, del tutto sottratte alla funzione digestiva. In altri termini, il tubo digerente non ha, in quanto si riferisca alla distruzione dei semi, che un ufficio complementare, sia pure importantissimo ed efficiente ai riflessi della loro assimilazione: i semi che sono sfuggiti alle forche caudine dell'apparato masticatore o non si alterano affatto, oppure sì gonfiano, talvolta spappolandosi più per pressione interna e per urto mec- canico esteriore, che per azione corroditrice diretta dei succhi. D'altra parte, come attribuire ad un liquido, di potere dissolvente rela- tivamente molto debole, come è quello che si trova nel tubo digerente degli animali, un'azione relativamente rapida e diretta su sostanze, quali la cel- lulosa e derivati, resistenti ad agenti anche incomparabilmente più energici? Le sementi di diverse specie escono a tegumento integro e vitalissime dopo essere rimaste lungamente a contatto di acidi dotati di forte poten- zialità corrosiva, come è, ad esempio, l'acido solforico concentrato, capace di disorganizzare rapidissimamente ogni mucosa: in che modo spiegare la di- struzione degli stessi semi da parte degli animali se non intervenisse una preventiva azione meccanica a interrompere la soluzione di continuità dei tegumenti ? — 479 — Gli è pertanto che alla locuzione « semi distrutti dai succhi gastrici » e simili, troverei più proprio e più preciso sostituire l’altra « semi che, più o meno franti o contusi dall’apparato masticatore, vengono successiva- mente distrutti o disfatti nel loro passaggio traverso il tubo digerente » (?). Botanica. — Zsperienze sulla disinfezione delle piante. Nota di L. DANESI, presentata dal Socio Grassi. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Patologia. — Sulla Leishmaniosi e sul suo modo di trasmis- sione (*). Nota 5* preliminare del dott. CARLO BASILE, presentata dal Socio B, GRASSI. (Con una tavola di fotomicrografie e disegni). La frequenza ormai largamente dimostrata nell'Italia Media e Meri- dionale, di un'anemia da Leishmania, definita Kala-Azar, dal Gabbi, che tanto si rese benemerito in tale studio, imponeva la ricerca dell’ insetto tras- missore di sì terribile morbo. Illustri clinici e igienisti, nelle Indie e nelle regioni Mediterranee, hanno già affrontato l'argomento, senza giungere a con- clusioni del tutto definitive. In una pubblicazione in esteso esaminerò singolarmente le ricerche fatte dai varî autori; oggi, in questa Nota, sento piuttosto il dovere di ripetere ancora, che io son giunto a stabilire che « almeno nelle regioni Mediter- rance, la pulce serraticeps e verosimilmente la pulce drritans sono gli in- setti trasmissori dei parassiti di Leishman », seguendo metodicamente la via suggerita, per la ricerca dei secondi ospiti (ospiti intermedî o defini- tivi), sin dal 1892, dal mio maestro prof. Grassi (*) e da lui stesso battata, con gran vantaggio per gli elminti. Il metodo dell'illustre Maestro si rias- sume « nella limitazione delle forme sospette per via di comparazione » . Non per puro caso, adunque, sono riuscito a determinare le pulci come insetti trasmissori del Kala-Azar, ma per aver adottato accuratamente quel (*) In casi molto meno frequenti, come ho detto, i semi passati integri nello sto- maco e travolti nel movimento delle materie alimentari, possono, è vero, spappolarsi lungo il percorso del tubo digerente, ma anche qui il tegumento viene offeso per una azione vera e propria meccanica e non per un fenomeno biochimico p. d. (2) Lavoro eseguito nell’Istituto di Anatomia Comparata della Regia Università di Roma. (3) Ringrazio sentitamente il prof. Grassi i cui consigli, mi han condotto, pronta- mente, alla risoluzione dell’importante problema. Ringrazio anche S. E. l'on. Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio dei Ministri, e l’on. R. Santoliquido, Direttore Generale della Sanità Pubblica, per i fondi concessi per le presenti ricerche. mio metodo col quale il Grassi, ha potuto prontamente indicare gli Anopheles come agenti propagatori della malaria. Lo studio particolareggiato e continuo delle condizioni di vita degli uomini e dei cani che s'infettavano coi parassiti di Leishman, le ricerche minute di tutti gli insetti succhiatori di sangue presenti nelle case ove essi si trovavano o che potevano arrivare a pungerli, l'epidemiologia stessa del morbo limitavano man mano le forme sospette. Si aggiunga che, nelle re- gioni mediterranee, la distribuzione geografica della Leishmaniosi del cane andava sempre più rivelandosi identica a quella del Kala-Azar, mentre io andavo dimostrando definitivamente la sua identità etiologica e clinica a questo morbo ('). Le mie ricerche sul veicolo di trasmissione delle Leishmanie furono ini- ziate nel 1909 e nei primi mesi del 1910 acquistavo la convinzione, frutto di scrupolose ricerche e rigorosi esperimenti, che alle pulci bisognava rivol- gere principalmente l'attenzione. Infatti, nel maggio 1910 io potei già vedere forme di Zeishmania nel- l'intestino di pulci serraticeps, tolte a giovani cani agonizzanti per Leish- maniosi a decorso acuto. Nell'estate e nell'autunno successivo andai, sempre più, avvalorando le mie prime ricerche e pubblicai allora che «con ogni verosimiglianza le pulci si dovessero ritenere gli insetti trasmissori del Kala-Azar ». Iniziai quindi nuove ricerche tendenti a realizzare la mia ipo- tesi per via sperimentale e per via naturale. Tralascio, per ora, di riassumere tutti quei risultati delle mie ricerche che sono stati già pubblicati, e vengo a render noti recentissimi miei espe- rimenti. Sei cagnolini nati (25 ottobre 1910) e allevati in laboratorio, in un canile ripetutamente lavato con soluzioni di creolina, e ben protetto da fitte reti metalliche (non stati perciò punti dalle pulci), furono sottoposti all’età di poco più di un mese (primi di dicembre 1910) alla trapanazione della tibia (?); l'esame del midollo così eseguito riuscì negativo per le Zeshmanze. Due di questi cagnolini, che dovevano servire di controllo furono tenuti nel suddetto canile. Gli altri quattro furono portati subito in altro canile, di nuovissima costruzione, ben protetto anch'esso di fitte reti metalliche, difeso dal freddo e posto in luogo lontano dall'abitato; si ebbe anche cura che nelle vicinanze (1) L'identità etiologica era stata ammessa, dal Nicolle, anche in base alla possi- bilità della trasmissione sperimentale dei parassiti di Leishman dai bambini malati ai cani. Qualcuno, però, suppone ancora che si tratti di due specie di parassiti differenti per quanto affinissime. A eliminare qualsiasi dubbio che, in realtà (dato quanto ho pub- blicato nelle note precedenti) mi sembra infondato, ho iniziato nuove ricerche. (®) Questa operazione già proposta dal Pianese per la ricerca dei parassiti di Leish- man nel midollo dei bambini con sintomi clinici di Leishmaniosi, fu da me applicata ai cani ai quali riesce innocua. — 481 — non vi fossero altri cani. Sin dai primi di dicembre furono messe addosso a questi ultimi quattro cagnolini, alcune pulci tolte ai cani di Bordonaro (Messina) o trovate nelle coltri e nelle materassa di molte famiglie di detto villaggio e subito spedite a Roma. Fu, in questi cani in esperimento, ripe- tutamente eseguito l’esame del sangue periferico; nei preparati finora osser- vati ho avuto sempre esito negativo per le Zeishmanze. Anche la puntura del fegato (!) dapprima fu negativa; i cani però dimagravano, trascinavano il treno posteriore, mentre la temperatura rettale era affatto irregolare. La puntura epatica ripetuta il 2 marzo si rese, in due di essi, positiva. Da questo giorno in poi, potei notare che tutti e quattro i suddetti cagnolini in esperimento stavano accovacciati l'uno accanto all’altro, rifiutando gran parte del cibo loro quotidiano a base di pane e latte. La mattina del 5 marzo uno di essi fu trovato morto; il 6 marzo, in mia presenza, ne morì, quasi fosse stato fulminato, un secondo. Il terzo ed il quarto morirono in coma il giorno 8 e il giorno 9 marzo. All'autopsia, eseguita quasi subito dopo la morte (*), trovai la milza e il midollo di un colorito rosso cupo; la milza non mi sembrò ingrandita. Allestii dei preparati per strisciamento della milza, del midollo e del fegato e rinvenni dovunque costantemente le Zeish- manie in varia quantità. Tutti e quattro questi cagnolini morirono dunque per una infezione, a decorso acuto, da parassiti di Leishman in seguito a punture di pulci pro- venienti da luoghi ove esiste la Leishmaniosi (nell'uomo e nel cane). I due cagnolini di controllo, grassi e vispi, furono in questi ultimi giorni, uccisi; all’autopsia nulla di anormale: sulla cute, com'era da atten- dersi, nessun ectoparassita: nella milza, nel fegato e nel midollo della tibia la ricerca dei parassiti di Leishman fu negativa. Questi rigorosi esperimenti, corroborati dai controlli dimostrano che il Kala-Azar, almeno nelle regioni mediterranee (*), si trasmette per mezzo delle pulci (pulex serraticeps e probabilmente pulex irritans) (*). * x x Ho già comunicato nella Nota precedente (*) che a Bordonaro ho po- tuto personalmente rinvenire pulci serraticeps nelle coltri e nelle mate- (*) La puntura del fegato fu eseguita secondo le norme consigliate dal Nicelle. (2) Sulla loro cute furono rinvenute delle pulci, dall’intestino delle quali sono stati già allestiti preparati per strisciamento, che sono in corso di studio. (8) Io scrivo di « Kala-Azar delle Regioni Medilerranee » perchè, per quanto finora si sa, questo morbo a differenza del Kala-Azar delle Indie è trasmissibile sperimental- mente al cane. (4) Sebbene le mie ricerche sieno state negative non si può escludere, per ora, che anche il Cimea lectularius possa essere, in certi casi, nelle Regioni Mediterranee, il vei- colo di trasmissione. del Kala-Azar da uomo ad uomo. (5) Basile Carlo, Rendic. Acc. Lincei, volume XX, sem. I, fasc. 4. — 482 — rassa di alcune di quelle famiglie che hanno l'abitudine di tenere cani in casa. Riguardo alla percentuale delle pulci infette, posso dire che su circa mille, finora esaminate, provenienti da Bordonaro (raccattate sui cani e nelle coltri e nelle materassa di molte famiglie), solamente in quattro ho potuto rinvenire forme di Zeishmania: in una proporzione adunque, per ora, del 4 per 1000. La Zeishmania sì moltiplica attivamente nella pulce serzraziceps, ove compie il suo ciclo evolutivo; nella mia terza Nota sull'argomento (*), in data 8 gennaio 1911, ho già pubblicato che facendo nutrire, alla tempera- tura di 22°, delle pulci serraticeps con succo splenico di un cane infetto di Leishmaniosi, avevo, sin dal dicembre 1910, osservato « che nel loro inte- stino le Zeishmanie si mostrarono di gran lunga più abbondanti di quel che non fossero nel succo splenico di cui esse pulci si erano nutrite » e che i detti protozoi « si presentarono alcuni in via di divisione longitudinale ed altri in altri stadî di sviluppo =; più tardi, nella Nota quarta, in data 19 febbraio 1911, chiarendo questo concetto, scrissi « che i parassiti nume- rosissimi, disposti frequentemente a rosetta, si erano presentati, alcuni nello stadio preflagellato, in via di divisione longitudinale, altri nello stadio fla- gellato »; oggi mi sia permesso aggiungere, che negli stessi preparati ho osservato anche delle forme che, per ora, tendo a ritenere come appartenenti allo stadio postflagellato del parassita. Nei preparati allestiti per strisciamento dell'intestino di pulci infette, dissecati, fissati in alcool assoluto e coloriti al Giemsa, si osservano nell’ in- testino medio, Zeishmanie di forma ovale, rotondeggiante o piriformi, per- fettamente identiche a quelle che riscontransi nel fegato, nella milza e nel midollo degli infermi e dei canì infetti. Questi protozoi misurano in media u 2-3; il nucleo eccentrico appare quasi sempre compatto, qualche volta con un vacuolo centrale, di un colorito lacca-carminio (rosso violaceo in- tenso); il blefaroblasto alle volte non si vede; ovvero può essere rotondeg- giante o bastonciniforme, di un colorito identico o più intenso del nucleo; il protoplasma assume una delicata tinta di bleu pallido. Man mano però il protoplasma si ingrandisce e si vacuolizza; si ottengono così delle forme di 4-6 w di lungh., 2-3,5 w di largh., in alcune delle quali il nucleo invece che compatto si presenta reticolare e spostato verso il centro del parassita. Verso l'intestino posteriore si riscontrano corpi rotondeggianti o piri- formi (6-8 w di lunghezza, 1,5-2,5 w di larghezza) dei quali alcuni muniti di flagello, che, nelle osservazioni fatte finora, non eccede, in questi corpi, la lunghezza di 3 w. La caratteristica delle forme a pera in genere, è che il blefaroblasto, ora puntiforme, ora a bastoncino, ora falciforme presentasi (') Basile Carlo, Rend. Acc. Lincei, vol. XX, sem. I, fasc. 1. — 483 — quasi costantemente dal lato arrotondato che è l'anteriore e dal quale, nelle forme completamente sviluppate, parte il flagello; però ho riscontrato (V. fo- tomicrogramma) delle forme a pera, di piccole dimensioni, in alcune delle quali la parte anteriore è lievemente assottigliata; in queste forme è da notare però che il blefaroblasto appare costantemente addossato al nucleo. Assieme alle forme a pera flagellate o no, isolate o disposte a rosetta, tro- vansi delle forme allungate (9-11 w) munite di flagello, e che presentano anch'esse l’estremità anteriore arrotondata e l'estremità posteriore a punta. Il blefaroplasto ordinariamente unico, qualche volta può essere doppio. Il flagello può apparire riunito al blefaroplasto; all'esame microscopico qualche forma a pera presenta due flagelli, qualche volta apparentemente agglutinati l'uno all’altro; a questo proposito voglio far notare che l'esame fotomicrografico (a luce monocromatica) rivelò, in qualche altra forma ancora, ritenuta al microscopio monoflagellata, l’esistenza di due flagelli. Si nota tutta una serie di forme di passaggio sino a giungere così a forme di piccole dimensioni da me, per ora, ritenute postflagellate, carat- terizzate, in gran parte, da un blefaroblasto che pare addossato al nucleo. Chi osserva le fotomicrografie e i disegni da me dati di Zeishmania nella pulce serraticeps e li confronta coì disegni dati dal Rogers delle forme da lui ottenute, nel 1904 coltivando i parassiti del Kala-Azar nel sangue al citrato di sodio (10 per 100) alla temperatura di 22°, ne riconosce la perfetta identità non solo nella forma ma anche nelle dimensioni. Le figure da me date minutamente ripetono poi, le figure date dal Leishman che ha coltivato i parassiti del Kala-Azar nel 1905, nel succo splenico addizionato di acido citrico, e tenuto alla temperatura di 17°-22°, e le figure date dalla maggior parte degli altri autori che hanno ottenute culture di Zeishmania. Dalle mie ricerche fatte finora parrebbe che nella pulce serraticeps le Zeishmanie si evolvono completamente alla temperatura di 20°-22°. questo fatto ha un riscontro nell’epidemiologia del Kala-Azar (5) * xx Dal complesso delle mie pubblicazioni « sulla Zeishmaniosi e sul suo modo di trasmissione », risulta che io, per primo, ho segnalato l’esi- stenza, in Italia (Messina-Roma), di tale infezione naturale nei cani, studiandone accuratamente la sintomatologia e il decorso clinico, il quale, per quanto in oggi è noto, corrisponde al decorso clinico del Kala-Azar. Spetta anche a me (per quanto sono andato pubblicando) la priorità della ipotesi che, oggi, per mezzo delle mie ricerche e dei miei esperimenti viene realizzata, che « la pulce serraziceps è l'agente trasmissore dei parassiti di Leishman » e mi sia ancora permesso rivendicare a me la priorità di aver (!) Sarebbe interessante poter stabilire se ed a quale temperatura le Zeishmanie arrestano il loro sviluppo nella pulce. — 484 — segnalato, nella pulce serraticeps, una parte importante del ciclo evolutivo delle Zeîshmante. Dopo che io, il 19 febbraio 1911, nella mia quarta Nota presentata alla Reale Accademia dei Lincei, chiarendo quanto avevo scritto in data dell'8 gennaio, pubblicavo che sin dal dicembre 1910 avevo visto le forme flagellate di Zeishmania nella pulce serraticeps, Sangiorgi, assistente nel- l'Istituto d’Igieno della Regia Università di Torino, ha descritto in Patho- logica, in data 1° marzo 1911 « 2 quadro evolutivo completo în natura » di alcuni protozoi della pulce serzaticeps « rassomiglianti » alle forme di Leishmania dei quali in data del 13-15 gennaio 1911 aveva dato alcune prime notizie. Ognuno noti quante e quali differenze passino fra le Zeishmanîe da me, fino ad ora, ottenute, nei loro varî stadi di evoluzione, in pulci serra- ticeps, nutrite alla temperatura di 22°, con succo splenico di un cane in- fetto di Leishmaniosi (a decorso cronico) ed i protozoi descritti dal San- giorgi (!). Io aggiungo che il Patton, che nel 1907 aveva pubblicato di aver se- guìto lo sviluppo della Zeishmanza (Herpetomonas) Donovani nel Cimex rotundatus (*), essendogli falliti gli esperimenti della trasmissione sperimen- tale del Kala-Azar ai cani di Madras ed essendo stata notata, nel 1908, da lui stesso e da varî altri autori la presenza di Herpetomonas nell’intestino di varî insetti, il 80 gennaio 1909 (*), in uno studio ove tratta dell Herpeto- monas Lygaei e dell’ Herpetomonas muscae domesticae ha scritto: « It seem to me, therefore, that ît will be well-nigh impossible to prove finally {hat Cimex rotundatus îs the carrier of this dangerous parastte ». Noto ancora che Balfour (4) nel 1906 ha descritto le prime forme di Herpetomonas nel Pulex (Pulex Cleopatrae, ectoparassita di alcuni roditori); (1) Sangiorgi, dopo aver notato che i protozoi da lui descritti come « forme di leish- mania nella pulce serraticeps », quando son disposti a rosetta, nello stadio flagellato pre- sentano il flagello rivolto verso il centro delle rosette stesse, vorrebbe per questo differen- ziarle dall’herpetomonas; e infatti fra l’altro serive che « I herpetomonas negli agglome- ramenti si sogliono disporre in modo che la parte posteriore, e non l'anteriore, ossia la flagellata, guarda verso il centro della rosetta ». Seguendo queste parole dovremmo ritenere che le forme flagellate a rosetta ottenute dal Pulvirenti, innestando nei terreni di Novy-Neal e Novy-Neal- Nicolle, succo splenico di bambini affetti da Kala-Azar, non sieno Leishmanie, e che ad es. 1’ herpetomonas ctenophthalmi (Mackinnon: Parasitology, 1909) e l’Rerpetomonas iaculum Leger of Nepa Cinerea (Porter, ibidem) non sieno her- petomonas. T'ermino piuttosto ricordando che qualche autore dà perfino il nome di Her- petomonasiasi al Kala-Azar ed al Bottone d’ Oriente. (®) Patton, Scient. Mem. by. off. of the Med. and San. dep. of the Gov. of India. Calcutta 1907. (*) Patton, The Lancet, 1909. (‘) Balfour A., Journal of Hyg. t. VI n. — 485 — che più tardi nel 1908 Patton (') ha segnalato forme di Merpetomonas nel Ctenocephalus felis (*), e che nel 1909 il Mackinnon (*) ha studiato in Cteno- phtalmus agurtes (pulce del Mus decumanus) un Leptomonas che egli chiama Herpetomonas ctenophalmi (*). Data la frequenza di protozoi, spesso morfologicamente simili, nell’inte- stino degli insetti, a me sembra che chi studia i protozoi, agenti etiologici di forme morbose, nel loro ciclo evolutivo, più che dallo studio morfologico di essi, è dagli esperimenti che, per ora, può trarre rigorose deduzioni; ed è per ciò che oggi, ancora una volta, ripeto che « per molte ragioni, deve rite- nersi almeno prematura, per ora, l'identità dei protozoi descritti dal San- giorgi alle forme di Leishman ». SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA. Leishmanie nella Pulce Serraticeps Quapro I. — Fotomicrogramma a luce monocromatica (ingr. 2000 d.). Il parassita @ perfettamente identico a quelli che riscontransi negli organi degli uomini e dei cani infetti: i parassiti 4, disposti a rosetta, sono in via di evolu- zione; fra essi il parassita c è in divisione longitudinale. Quapro II. — Fotomicrogramma a luce monocromatica (ingr. 2000 d.). Parassiti nello stadio preflagellato, di cui qualcuno in divisione longitudinale. Parassiti, di piccole dimensioni, muniti di flagello. Quapro III — Disegni alla camera lucida all’ingrandimento 900 diametri (*/15 semiapocr. e ocul. 6) e riprodotti a circa 2700 diametri per renderne più esattamente i particolari. Parassiti nello stadio preflagellato e nello stadio flagellato. Le fetomicrografie sono state eseguite dal mio caro amico dott. F. Faure, dell’Isti- tuto di Botanica della R. Università di Roma. (1) Patton, Ann. Rep. upon the Work of the bact. set. of the King Inst. Madras 1908. (®) Pulex (Ctenocephalus) Felis e Pulex (Ctenocephalus) Canis sono ritenute due varietà di Pulex (Ctenocephalus) Serratiseps. (Vedi Tiraboschi, Arch. de Parassito- logie, t. VIII. (3) Mackinnon, Parasitology, 1909. (4) Io mi limito per ora a trascrivere in parte il riassunto che ne dà il Bull. de l’Inst. de Pasteur (anno 1910, pag. 25): « Merpetomonas ctenophtalmi est un leptomonas à extrèmité antérieure pointue et à extrèmité postérieure longue et particulièrement ténue; le corps mesure 21X 2 4; mais il y a aussi des formes éxtrémement petites et parfois des éléments larges et trapus ». E. M. D dI RenDpICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. MOT VIVIANE Ù 14014 X DITE a noi HRR) TAI la i MIFOVETRON O, SA RATA] IFO CASI ri snapigineeti MOON LANI E ANA REC MORTO RUS ORION "i TIA MET NILPAEROTI IREITEPIONIRETON ei LSTLRNDONI VPARIERO IA RIUAOTI VOCE LORLARIT PIENFINI GP TRTA LÌ Bit {7 RIO CNC ic) TR RATA sap AVRO saran Li MITINISUIATO bi CAR Tad Ep f Ci x PRI 15 { DYÀ sei N ì 53 (d47à] y i SELL È VTILIT pat (RSA BIT “ugo Î RISO ISO Ì IN \ ) Vie i th) DAT î tì ni; (TT ILA LU 179 ni h EEC BASILE CARLO - Sulla Leishmaniosi e sul suo modo di trasmissione. Quadro primo. Quadro secondo. Quadro terzo. Rendiconti dell’Accademia dej Lincei, Vol XX - Serie V - 7° Semestre - Fasc. 62, ; È = x n 4: 5 = < È 5 i _i& 3% = 2 S 3 2 sj sì ©) s = ; LR METE ne Publicazioni della AR. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo 1-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze moralé, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI VI. VII Serie 3* — TRransUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MeMmoRIE della’ Classe. di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — II. (4, 2). — HI-XIX. MeMmoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpiconTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 54 — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XX. (1892-1911). 1° Sem. Fase. 6°. ReENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVIII. (1892-1910). Fase. 7°-10°. MemoRrIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VIII. Fase. 7° MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONII DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI na DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l'Italia di L. #0; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : «Ermanno LozscHER & U.o — Roma, Torino e Firenze. Utrico Hogrri. — Wilano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Marzo 1911. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 19 marzo 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Levi-Civita. Trasformazione di una relazione fauzionale dovuta al Dini}. (005% Pag. 981 Pincherle. Sopra alcune omografie dello spazio funzionale (,) . 00.0 20 I 391 Ciamician e Ravenna. Sul contegno, dell’alcool benzilico nelle piante E Crudeli. Contributo allo studio delle tensioni elastiche (pres. dal Corrisp. Laurecella) . » 394 De Donder. Sur les transformations de contagt spéciales et le théorème de Jacobi (pres. dal RS i RR IE Weio Volterra) I A n 400 Pannelli. Sopra una nuova proprietà delle trasformazioni birazionali nello. spazio ordinario o (pres: dal‘ Corrisp.«Castelnuor:0) . : Re » 404 Evans. Sopra l'equazione integrale di Volterra di seconda specie con un limite dell' integrale ‘infinito (pres. dal ‘Corrisp. Lauricella). FR e N n 409 Corbino. Azione elettromagnetica d’un disco percorso da corrente radiale e disposto in un campo (pres. dal Socio Blaserza). . + SEE SERIO ei go Ta. Forze elettromagnetici radiali indotte in un disco metallico da un campo magnetico va- riabile (pres Udi i sE I DS E n 424 Pochettino. Su alcuni nuovi modi di preparare soluzioni di Selenio colloidale (pres. /d.) .. » 428 3 Cambi. Sui solfuri di silicio (pres. dal Socio /V2stma) n 438 Id. Sugli stati amorfi del Silicio (pres. /d.). RI RO Lio 5 n» 440 Marino e Porlezza. Sulla luminosità del fosforo - Esperienze da lezione (pres. /d.) » 442. Id. e Squintani. Sull'esistenza di un muovo tipo di biossidi. (Reazione fra acido selenioso e biossido di manganese (pres. /d.) . ; MES IV E AE SDAI IO ARRISN] Plancher e Colacicchi. Sopra una nuova ossidazione dell’a-metilindolo (pres. dal Socio Cia- mician) . PO O AA ENIARADI I N O e no ARS Sandonnini. Analisi termica delle miscele di eloruro rameoso con cloruri di elementi mono- valenti (pres: Id.) » 457 Poma e Gabbi. Sistema binari dei cloruri di ‘alcuni metalli monovalenti (pres. dd.) ine Olivari. Sugli equilibrî di solubilità fra l'iodio e le sostanze organiche (pres. /d.). . . » 470 Munerati. L'azione efficiente dell'apparato masticatore nella distruzione dei semi da parte degli... animali domestici (pres. dal Socio Pirotta) CET, Vee EE e Danesi. Esperienze sulla disinfezione delle. piante (pres. dal Socio Grassi) (*). .. . . ..» 479 Basile. Sulla Leishmaniosi e sul suo modo di trasmissione (DIES) ERRE RE PR e) ERRATA-CORRIGE pc A pag. 191, linea 4%, agg.: 5) « Psammologia di alcune terre rosse italiane » (msi). © (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. Pubblicazione bimensile. Roma 2 aprile 1911. N. ". sli 13) i DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CGCCVIII. 1911 SSBtReeb REN PA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 2 aprile A9L. « Volume XX. — Fascicolo 7° 1° SEMESTRE. ee IRERO RE ape ei «saran Instig, a SS “o i x MAY 261911 | Nap; SUA DA ona]. Muset Ra IPA SARO all ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI I 1911 d ù ron i elet 3 SSIS e LL (‘LL LI, zen | | ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quenta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Mnoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1.1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Socl o uorrispondenti, 650 agli estranei: qualora l'autore ne desideri un uumero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell'Acca- demia; tuttavia se i Soci, cha vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indì- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per Ie Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com. missione la quale esamina il lavoro e ne rife: risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 5) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell? Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubbliez, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchò nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. È 5.L’Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 ae estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è messa a carico degli autori —_— RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEHI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. A Seduta del 2 aprile 1911. Presidenza del Socio anziano G. STRUVER. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Matematica. — Sopra alcune omografie dello spazio funzio- nale. Nota del Socio S. PINCHERLE. 1. Sia una successione di funzioni reali continue di una variabile reale x, date nell'intervallo ab (a=x = bd): (a) ei) aL) Indico con Sy l'insieme delle funzioni rappresentate da serie della forma: (1) kia + koor + + Anon +e» dove le X,,:,... sono costanti reali, prese in modo: a) che X%î sia convergente ; b) che la serie (1) converga uniformemente nell'intervallo ab. Dirò (4) l'insieme delle successioni di numeri che verificano le condi- zioni precedenti a) e 2). L'insieme Sa è evidentemente uno spazio lineare, poichè vi appartengono tutte le combinazioni lineari di un numero finito di elementi di quello spazio; come pure è lineare l'insieme (£). 2. Sia una seconda successione di funzioni reali continue della va- riabile reale y, date nell'intervallo a ln@n (n) di Sa, si ottiene: (8) A() n DE (65 lia + Cn Ens1) Ans (n) se sì applica la A ad un elemento y= hnfn (n) di Sg, si ottiene: (9) A(w) == Da (8 lin + Cnr e») Pa (MM) e per l'ipotesi 0) del $ 3, A(g) ed A(Y) appartengono rispettivamente ad Sa ed Sp. 5. L'operazione A ammette radici nello spazio Ss. Infatti, se poniamo (10) Cr In + Cn In: = 0 (a=1,2,3,..) ne viene da (8) che l'elemento o=Q + dee + 4 Inn + 300, dà (11) A(@0)=0; e poichè si ha dalle (10): (12) In =(— 1)"9 01 09 10° Onza 1 CiCa CHEN ne segue per l'ipotesi c) del $ 3, che questa radice @, appartiene effetti- vamente ad Su. Nel caso in cui il sistema (@) sia tale che un elemento (1) di S, non possa essere nullo se non ne sono nulli tutti i coefficienti £,, la radice è unica per A in Sa, all'infuori del moltiplicatore costante 9, . 6. Risolvendo il sistema 7 __(0 per a+m (13) Cnkn 4 Cnkns: = l'on — 490 — sì ottiene la soluzione particolare 1 ki= 0, ka =0 km > Cm c' cl e mt +1 ce° Umtn=1l Ema iosa 90. (OERA = (— 1) si 9 Cm Cm+i Cm Cr+i «0° Comt+n_1 e da queste e dalle (10)-(12) la soluzione generale L'elemento 1 i (14) On = mir pei Xm+2 + 10 Cm m Cm+i soddisfa all’'equazione in (15) A(g) = Gm, cui soddisfa pure è + co, (6 eostante arbitraria), e questa ultima è la soluzione più generale di (15) nell'ipotesi fatta alla fine del $ precedente. L'elemento ©, appartiene ad Sa, come risulta subito dalle ipotesi del $ 3. 7. Dai due SS precedenti risulta che l’omografia A presenta quella degenerescenza che ho chiamata di prima classe ('): essa ammette cioè ra- dice in S,, ma è invertibile in Sa nel senso che qualunque elemento della base (@) di questo spazio si può generare applicando l'operazione A ad un elemento dello spazio medesimo. 8. Consideriamo ora l’effetto della A applicata ad un elemento w di Sg. Si ha, se è w= Z7 fn, dalla (9): A(Y) a » In Pn b) In SS c, (di + Cn-1 (gs è (n) Ora, poichè la 9, appartiene ad (4), e quindi 297, è ‘convergente, ed è anche convergente 39%, dove 9g, è data dalla (12), ne segue, come è ben ‘noto, la convergenza di Zgn9n. Ma si ha immediatamente TAO , , n L10200 On Cn gigi 4-a»9: 4 daga — (1) onde COCIRSCA a =1 e te D_lIn9 Lim ) ARTI (n) (*) Rendic. dell’Istituto Lombardo, 15 luglio 1897; Pincherle e Amaldi, Ze opera- zioni distributive, pag. 444 (Bologna, Zanichelli, 1901); Hadamard, Za série de Taylor, pag. 80 (Paris, Naud, 1901). — 491 — Ma per l'ipotesi c) del $ 3, è Dunque si ha (16) DI daga = 0- Talchè l'operazione A, applicata allo spazio Sg, non riproduce elementi ar- bitrarî di questo spazio, ma solo elementi tali che i loro coefficienti 91,9s,... soddisfino alla relazione (16). Secondo una nomenclatura geometrica che ho usata in varie circostanze, gli elementi A(y) appartengono ad un determi- nato piano funzionale. Per il suo carattere, la proprietà degli elementi A(W) è logicamente analoga alla divisibilità ('). D'altra parte, la A non ammette necessariamente radici in Sg. Così, se il sistema (8) è tale che un elemento (2) di Sp non possa essere nullo se non sono nulli tutti i coefficienti 7,, l'operazione A è priva di radici non identicamente nulle, poichè l'equazione A) =0 porta al sistema co lin + Cn_i Mini =” 0 ’ (n == 1 , 2 , si) che dà tutte le /, uguali a zero. 9. Risulta dal $ precedente che l’omografia A dà esempio di quella degenerescenza che ho detta di seconda classe: non ammette radici in Sp, ma applicata ad Sg non riproduce tutto lo spazio Sg, bensì solo una parte di esso. 10. Nel caso che uno dei coefficienti c’, sia nullo, per esempio cr=0, i due fatti ora notati si presentano nel modo più semplice. Infatti @, è ra- dice per l'operazione A, mentre l'operazione A è tale da produrre quei soli elementi di Sg in cui manca il termine in fi. 11. Per brevità di discorso si è ammessa la continuità della (a) e delle (8) e la convergenza uniforme delle serie di S, ed Sg. Non vi è diffi- coltà a porre condizioni meno restrittive; basta la semplice integrabilità, nel senso di Lebesgue, per le funzioni, e la integrabilità termine a termine per le serie; si lasciano al lettore le facili modificazioni. (*) V. la mia Nota nei Rendiconti dell’Accad. di Bologna, 8 maggio 1910. — 492 — 12. In un recente lavoro (2), sintesi accurata e ricca di interessanti considerazioni sulla teoria delle matrici infinite secondo le idee di Hilbert, i signori Hellinger e Toeplitz dànno alcune proposizioni di carattere for- male (*) relative alle equazioni simboliche aWDWw=I, yJa=i, dove A è una matrice data, I è la matrice unità, DS ed 3} sono matrici da determinarsi; tutte da supporsi limitate (beschrinkt) nel senso di Hilbert. Quando esistono tali matrici 9, 3}, la prima si dice reciproca 2 destra, la seconda reciproca a sinistra di A. Gli autori citati osservano che mentre per le matrici finite sono possibili solo i due casi seguenti: 1) esiste un'unica reciproca a destra e un'unica reciproca a sinistra, fra loro coincidenti; 2) non esiste reciproca nè a destra, nè a sinistra; invece per le matrici finite limitate sono possibili anche gli altri due casì: 3) la reciproca a destra è indeterminata, la reciproca a sinistra non esiste; 4) la reciproca a sinistra è indeterminata, la reciproca a destra non esiste. Ora, i due casi 3) e 4), particolari alle matrici infinite, corrispondono precisamente alla degenerescenza di prima e di seconda classe che ho notate nelle omografie di uno spazio ad infinite dimensioni. A persuadersene, basta osservare che in uno spazio Sa la cui base sia la successione @1,@2,...@n3-) un'omografia A è definita da A(a,) =Un21 + don 9 + Dr + Uyn Xn de do le si può fare corrispondere la matrice Win CO SOAVE ‘ag 422 e Uan << e alla somma ed al prodotto di due operazioni corrispondono, come si verifica subito, la somma ed il prodotto delle matrici corrispondenti. Se allora siamo nel caso 3) di Hellinger e Toeplitz, abbiamo, indicando con 1 l'operazione identica, almeno due distinte operazioni X, X' tali che AX=1, AX=1 onde A(X— X')=0; (1) Grundlagen fiir eine Theorie der unendlichen Matrizen (Math. Ann., Bd. 69, pag. 289, 1910). (3) Loc. cit., pp. 311-812. o l'operazione A ammette dunque radici, pure essendo qualunque elemento dello spazio raggiungibile coll'operazione A: A è dunque degenere di prima classe. Mentre se siamo nel caso 4), abbiamo per due operazioni distinte VE NU NATIA ale onde (Y—-Y)A=0; l'operazione Y — Y', non nulla in Sy per ipotesi, dà dunque per risultato lo zero se applicata a qualunque elemento A(a); A(&) non può essere dunque che una parte di Sa, pur non avendosi radici. A è quindi degenere di se- conda classe. Per le operazioni À ed A studiate nella presente Nota, troviamo come matrice corrispondente ad A la seguente: COMO) IE \o GG ORI ci Oc Sc; Se si vuole la matrice reciproca a destra, si ha da risolvere il sistema (13), che ne pone in luce l’indeterminazione; mentre se si cerca la reciproca a sinistra, si ha da risolvere il sistema ì a(0, pesi Cr fox, + Cnr Mero, sa | 1 ” n= M il quale dà in generale una successione 4, non appartenente a (%); natu- ralmente l'inverso accade per A. Matematica. — Sopra le funzioni permutabili di 2° specie e le equazioni integrali. Nota del Socio Vito VoLTERRA. Zoologia. — Intorno ai Protozoi dei Termitidi. Nota preliminare del Socio B. Grassi. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 494 — Matematica. — L'equazione integrale di Volterra della se- conda specie con un limite dell’ integrale infinito. Nota del dott. G. C. Evans, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Meccanica. — Sulla biforcazione di una vena liquida (0). Nota II di U. CisortI, presentata dal Socio T. LEVvI-CIVITA. 6. — AZIONE DELLA VENA SOPRA IL PROFILO RIGIDO. Designi dy un elemento di profilo rigido y, 9 l'angolo che forma con l’asse x la normale a dy, volta verso l'interno del campo A. La risultante delle pressioni subite dagli elementi di contorno avrà per componenti Re =— fo cosé dy , R,y= — ( psonò dy . CV y Queste relazioni sì possono compendiare in /Y Ora il contorno y confina con A lungo @, + w, e con B nella parte rima- pente. Se si nota [efr. n. 2] che quivi è p= Po, si avrà per la (3), a=- po f ed—3 (1— V?) e dw. y 2 “Dit Dg Essendo identicamente nullo il primo integrale, si ba in definitiva ® i fave, Di Da Questa relazione mostra che A dipende esclusivamente dallo stato di moto in w, 0 wa (*). Considero ora tre sezioni trasversali delle vene: 2 monte e a valle di y, a distanze convenientemente grandi da y, che chiamo rispettivamente 0,01,02. Per quanto si è visto [n. 2] è 2 ritenersi che %, 71, > sieno le rispettive larghezze di queste vene in dette sezioni. Si tratta di valutare . (1) Vedi Nota I, a pag. 314 (seduta del 5 marzo 1911). (*) Cfr. Levi-Civita, loc. cit., pag. 195 — 495 — Giova a tal uopo prendere le mosse da una immediata conseguenza del lemma di Green (*). Se g(x,y) è una funzione uniforme, armonica e re- golare în un campo limitato da una linea chiusa s (0 più generalmente da un sistema di tali linee), e si pone =) ( di ww} st ha dp {3P odi i (va (23) n ao ds=53 i ds, rappresentando n la normale in un generico punto a s, volta verso l'in- terno del campo, e 0 l'angolo che n forma colla direzione positiva del- l’asse x. Applico la (23) alla parte del campo A limitata dal contorno costituito da 0,7 ,6,1,À, 0,024, 02,2". Essendo il potenziale di velocità delle molecole liquide in A [ cfr. n. 1] e V il valore assoluto della loro velocità, si notì che: 0 sopra 2',4”,2Z,,%2;W1, Da, dg == 1 ” o — 1 ” 0, € 03; È sopra 0 , SRI Familia Gal, L 10 sopra 0 , 6= T-|-d, ” 01, T+d, » 02; V=1 sopra tutto il contorno eccettuati w, € ws. Ciò posto, dalla (23) si ricava h— hi gîSa === hs TAGE = | V? e do + el dà . Da Da NATA HA La eliminazione dell’ | V? ef da tra la precedente e la (22) permette di Dida esprimere & nel modo seguente: a) QAR = h = ha ea =" hs TA = | e ds è N44 LA +7 (3) Cfr. Levi-Civita, Sulla contrazione delle vene liquide. Atti del R. Ist. Ven. di Sc. Lett. ed Arti, tomo LXIV (1905), pp. 1466-1467. RenpICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. 65 PS — Ma poiché è nullo I far ds esteso ad un contorno chiuso, l'integrale del secondo membro non è altro che — |etgs= _ hA he 4 ho. “04-01-40, Con ciò, posto hi _ 000 i Me con che x, e-%, rappresentano i rapporti delle larghezze (e quindi delle por- tate) di ciascuna delle due vene a valle a quella della vena a monte, si ha in definitiva (24) A= A — ge — go e), essendo [cfr. n. 2] xx 4 x:="1. Questa formula esprime in modo compendioso, notevolmente semplice, la risultante delle azioni esercitate dalla vena sopra il profilo rigido, in funzione di elementi direttamente accessibili all'esperienza. Dalla (24) ri- sulta che & won dipende dalla forma del profilo y, ma soltanto (beninteso oltre che dalla velocità della vena a monte e dalla sua portata) dal dislo- camento delle vene a valle (2). Mi. Il Nel caso della simmetria è — 9,=9,=f e %xa= Xalof avendo chiamato £ il valore assoluto dell'angolo che ciascuna delle direzioni assin- totiche delle vene a valle forma con l'asse 2; la (24) diviene allora ©» (24) RA = A(1— cosp)=2% sen? 3 ; d'onde, in particolare, R, 0, come era evidente 4 priori attesa la sim- metria. 7. — CASO PARTICOLARE: VENA SIMMETRICAMENTE BIPARTITA DA UNA LAMINA RETTILINEA. AZIONE UNITARIA. Riferendomi al n. 5, prendo 2a = e L=0. Se si tiene presente allora che quando c'è simmetria d=0, © = —h=jl [efr. nn. 1 e 2], dalla (20) e dalle (12), (13); (LO)Netd7 (1) Cfr. Voigt, Meccanica elementare (Versione italiana di A. Sella). Roma, Loescher, 1894, pag. 378. Ivi nelle formule (83) — valide nel problema a tre dimensioni — è sostanzialmente contenuta la mia formula (24). Cfr. anche Masoni, Corso di idraulica teoretica e pratica. Napoli, Pellerano, 1908. terza edizione, pp. 182-189. La (24) rientra anche in una notevole formula generale dedotta in questi giorni dal prof. Boggio e che apparirà in questi Rendiconti. I SL DONE | | scendono — notando che /- =/1 — le relazioni seguenti : gie È io a en La mr) RE ( i) al! tp IT Are Q a (21), per la (18), dà in tali condizioni (25) Il 06 (26) o(6) = =i log Je aL i6 Sulla semicirconferenza 1,7, — 1 si ha $=e?”, con o compreso tra | 0 e 77. Ne viene { E coso w TT 100. o, it | 08 0 TT | (è ala per ag SI Ricordando la (9) 0) o=9+t1, ed il significato di 4 [n. 3] si può dire che 2 due segmenti w, e ws, SONO per diritto, e si tratta di un profilo rettilineo (lamina) normale all'asse x. | 5 “i Fic. 4. Il coefficiente di 7 in w ha l’espressione È _|cos o] Co Ela SI + seno’ valida su tutta la semicirconferenza 1,%, — 1. — 498 — Poichè, detto £ l'angolo che ciascuna delle direzioni assintotiche delle vene a valle forma coll’asse 2, deve essere [cfr. nn. 1 € 4 (GC) = e o(")= —f, dalla (26) si ricava "= — d= igÈ Per queste, dall'ultima delle (25) si ha a = sen b. Dopo ciò e per le (25), l'ultima delle (12), la (15) e la (16) possono scriversi rispettivamente h ci do ro " si sen*f ( Sulla semicirconferenza 1,7, —1 è = e (con o reale e compreso fra 0 e 7); la precedente porge allora (28) ap È seno coso do ca 0 per 0O<8<3> si può dire che il rapporto ; è continuamente crescente da 0 a co quando o IT 8 varia da 0 a DE Pertanto la deviazione assintotica delle vene a valle AI : l cresce 0 diminuisce assieme al rapporto > - — 500 — La (24) fornisce l'espressione dell'azione totale esercitata dalla vena sulla lamina; dividendola per / si ottiene l’azione unitaria DL It dr L +2 cot5 logtg (1 +5) (32) Poichè Ra, cotslogig(1+5 =2, — ricordiamo che in tal caso il rapporto i cresce indefinitamente — dalla precedente sì ricava allora CZ) {7 n+4° che è il risultato dovuto ad Helmholtz, riguardo all’azione unitaria eserci- tata sulla lamina quando la corrente liquida è indefinitamente larga (*). Come si accerta senza difficoltà, il denominatore del secondo membro della (32) cresce continuamente da 7-- 4 fino a co quando $# varia da 0 fino a gi può quindi concludere che la azione unitaria della vena sulla lamina cresce 0 diminuisce assieme al rapporto 7° assumendo il massimo valore quando detto rapporto è infinitamente grande, TT 144 ed il minimo valore 0 quando pi 0: Fanno seguito due tabelle. La tabella 1 contiene diversì valori del rap- porto o ricavati, mediante la formula (31), attribuendo a # altrettanti va- lori compresi tra 0° e 90°. Risulta da essa che la deviazione delle vene a valle si rende sensibile anche per n abbastanza piccolo, e raggiunge valori vicinissimi al massimo (8= 90°) quando ; = 10 circa. La tabella 2 reca diversi valori dell’azione unitaria È della vena sulla lamina, corrispondenti ad altrettanti valori del rapporto n. Quelli della co- lonna intermedia corrispondono al caso — finora trattato — della vena (1) Cfr. ad es. Lamb, ZeArbuch der Hydrodynamik (trad. tedesca). Leipzig und Berlin, Teubner, 1907, pag. 117. — 501 — libera, e sono stati valutati in base alla formula (32); quelli dell’ ultima colonna (a destra) si riferiscono invece al caso in cui la lamina viene inve- stita dalla corrente di un canale rettilineo, entro cui trovasi, e sono stati ricavati da formule che ho stabilite nella Memoria: Sul moto di un solido in un canale (’). TABELLA 1 TABELLA 2 o R Waloricdi Valori di Valori di Walsh 2 Valor GR n l l o 8 n i nella nel 1 vena libera canale 0° 0 0,0 0,43 0,43 10° 0,02 0,1 0,43 0,44 20° 0,13 0,2 0,43 0,44 30° 0,27 0,3 0,43 0,45 40° 0,53 0,4 0.43 0,45 50° 0,83 0,5 0,42 | 0,46 60° 1,22 0,6 0.42 0,46 70° 1,67 0,7 0,42 0,47 80° 2,34 0,8 0,42 0,48 820 2,52 0,‘ 0.41 0,49 84° 2,75 1a 0,41 — 86° 3,05 2 0,36 — 88° 3,51 3 0,30 — 89° 3,96 4 0,24 89030” 4,42 5 0,19 — 89059” 6,62 6 0,16 — 89°597307 7,21 7 0,14 — 89959750” 9,23 8 0,12 = 89059587 9,94 9 Vee i 10 0,10 = M'è sembrato utile porre in condizioni di confronto i risultati corrispon- denti ai due casi. Si accerta così che mentre nella vena libera l’azione SLI LOCARNO. ; Z i unitaria a decresce assai lentamente (da 0,43 fino a 0,41) quando 7 varia da 0 a 1, invece nel canale essa aumenta più sensibilmente (da 0,483 fino (*) Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, vol. XXVIII, pp. 307-852. Dalla formula (62°) e dalla (67) della citata Memoria, posto = sì ottengono le formule DI 1-2 gratia +4 acta], 7 =} eso, are tg 4 = ° ((Peri0i=47==01)), 19)? di cui mi sono valso per determinare, nella tabella 2, valori di i nel canale. — 502 — l 1 ERE a 0,49 quando ; raggiunge 0,9). Nel canale non sono ovviamente possibili valori di ,> 1, ma tale limitazione non vige naturalmente per la vena libera; pertanto un ulteriore confronto nei due casi non è più possibile. Riferendoci allora alla vena libera è interessante rilevare che per = 1 i valori di ] decrescono con maggiore rapidità : così, in particolare, per 10 si ha di già È — 0,10. Matesatica. — Sulle superficie e varietà algebriche di ge- nere geometrico nullo. Nota del Corrispondente FRANCESCO SEVERI. Meccanica. — Calcolo delle uzioni dinamiche esercitate da correnti fluide sopra pareti rigide. Nota I di Tommaso BoGGro, presentata dal Socio T. LEVI-CIVITA. Matematica. — Sopra un nuovo operatore differenziale per le omografie vettoriali. Nota di G. BuraLi-Forti, presentata dal Socio T. LevI-UIVITA. Matematica. — Sulle funzioni permutabili di seconda specie. Nota di LUIGI SINIGALLIA, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. Geodesia. — Sulle rappresentazioni isodromiche. Nota di COR- rapINO Minro, presentata dal Corrisp. A. VENTURI. Fisica. — Rotazione del campo magnetico di un disco di bismuto percorso radialmente da un flusso di calore. Nota di 0. M. Corsino, presentata dal Socio P. BLASERNA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Chimica. — Sulla sintesi diretta dei gliceridi. Nota di I. Bal- Lucci e R. MANZETTI, presentata dal Socio PATERNO. Con due Note recentemente pubblicate in questi Rendiconti (fascicolo 2°, gennaio 1911; fascicolo 4°, febbraio 1911), abbiamo riferito i risultati pre- liminari di alcune ricerche da noi intraprese con intento ed indirizzo pura- mente scientifico intorno alla sintesi diretta dei comuni gliceridi. Nostro primo scopo è stato quelle di apportare possibilmente dei perfezionamenti a questa im- portante sintesi che fin dai tempi di Berthelot, come abbiamo chiaramente indicato, non era stata mai oggetto di studio sistematico in riguardo alle migliori. più rapide ed economiche condizioni in cui essa può svolgersi. Par- tendo da quantità note di acido grasso e di glicerina, isolando e caratteriz- zando i prodotti ottenuti, nella loro qualità e quantità, siamo riusciti a riportare questa reazione sintetica nel rango dei più semplici processi di eterificazione, sfrondandola di tutti i concetti di difficoltà che finora vi erano a torto collegati. Abbiamo infatti provato che, senza ricorrere ad alcuna aggiunta di so- stanze estranee, tale sintesi può effettuarsi con rendimento pressochè teorico, tutte le volte che, anche all'ordinaria pressione, si riscaldino convenien- temente ed in ambiente inerte /e sole quantità stechiometriche di acido grasso e di glicerina in modo da garantire la continua e libera eliminazione del- l’acqua. Dalle nostre ricerche è rimasto quindi chiarito che mon è necessarzo di riscaldare a pressione ridotta la miscela acido grasso-glicerina, per quanto in tal caso si abbia un favorevole abbassamento nella temperatura di reazione. Negli Atti del VI Congresso di Chimica applicata, tenutosi in Roma nel 1906, pubblicati nel 1907, trovasi un rapporto del prof. G. Gianoli sull'industria delle materie grasse in Italia, nel quale questi accenna ad un processo di deacidificazione dell'olio di oliva al solfuro, così testualmente esprimendosi : «. . .mnel 1891 ci proponemmo di riconvertire in gliceridi gli acidi grassi che si trovano liberi negli olî scadenti. Mentre Berthelot aveva sug- gerito di operare sotto pressione, il che non permetteva di eliminare l'acqua che si rende libera e che ostacola la ulteriore eterificazione, noi ci siamo valsi del riscaldamento in un'atmosfera rarefatta e per avviare la reazione abbiamo fatto intervenire piccole quantità di acidi organici solubili nella glicerina e che a temperatura elevata sono spostati dagli acidi grassi a peso molecolare elevato. Siccome non si può evitare che accanto ai trigliceridi non si formino anche piccole quantità di digliceridi, e che gli acidi ossigrassi col riscaldamento non diano luogo a lattoni, così l’olio che si ottiene acquista Renpiconti. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 66 — 504 una densità maggiore dell’ordinaria e questa nuova proprietà, dal punto di vista della lubrificazione, si può ritenere vantaggiosa. (Seguono in nota al- cune determinazioni di densità e di viscosità fatte nell'olio di oliva comune ed in quello neutro) ». Queste poche righe hanno servito di base al sig. Gianoli per una riven- dicazione di priorità sulle nostre ricerche di sintesi dei gliceridi, riyendica- zione che egli fa con una breve Nota pubblicata nel penultimo fascicolo di questi Rendiconti (fasc. 5°, marzo 1911). Da quanto precede ci sembra emerga con evidenza la differenza sostan- ziale fra le nostre succitate ricerche, svoltesi con criterî ed intenti puramente scientifici, e tutto quello che il sig. Gianoli, nelle poche righe sovraripor- tate, ha reso noto dei suoi lavori aventi carattere così diverso da quello che noi abbiamo comunicato a questa Accademia. Basterebbe osservare che il Gianoli sperimenta in concomitanza di acidi organici estranei alla reazione, cosa che noi abbiamo provato essere completamente inutile, ed ottiene a lato dei trigliceridi anche digliceridi e lattoni e quindi non prodotti isolati nè definiti per qualità, purezza e ren- dimento. Quanto poi alla questione dell’aria rarefatta, sulla quale egli poggia la sua rivendicazione, tutta la letteratura chimica attribuisce concordemente a Scheij il merito di avere fin dal 1899 effettuato la sintesi diretta dei gli- ceridi, riscaldando la miscela acido grasso-glicerina nell'aria rarefatta (vide partiel.), e noi non abbiamo mancato di indicare ciò in entrambe le nostre note. Saremo tuttavia ben lieti, essendo anche una questione che non ci ri- guarda affatto, di attribuire al sig. Gianoli quanto finora è stato attribuito a Scheij appena potremo conoscere dove, anteriormente al 1899, sono state pubblicate le sue ricerche in proposito. Spetterà allora al Sig. Gianoli quella priorità del riscaldamento in aria rarefatta che egli rivendica e che noi abbiamo provato non avere alcun carattere di essenzialità nella sintesi dei gliceridi. Chimica. — Gli arseniuri di stagno Nota di N. PARRAVANO e P. De CEsARIS, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Chimica. — Sulla preparazione e la fototropia di alcuni osazoni. Nota II di M. Papoa e L. SANTI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 505 — Patologia vegetale. — ritorno allo svernamento dell’oidio della quercia. Nota del prof. Virrorio PeEGLION, presentata dal Socio G. CUBONI. Alcune piantine di quercia, provenienti da seme, allevate nella serra an- nessa alla R. Scuola superiore di agraria di Bologna, mi hanno offerto il destro di compiere qualche osservazione intorno allo svernamento dell’ Oidium quercinum, Thim., la misteriosa crittogama, comparsa bruscamente in Francia nel 1907 e diffusasi epidemicamente nei querceti d’Italia e di tutta Europa dal 1908 in poi. I numerosi tentativi di riferimento di questo dannoso pa- rassita delle quercie a qualcheduna delle specie di erisifacee già conosciute, rimasero sinora frustrati od ipotetici, poichè non ne è stata scoperta la forma ascofora. Si ritiene pertanto che questo parassita sia specie esotica, proveniente secondo ogni probabilità dal Nord America ov'è presumibile che compia il suo ciclo biologico sopra le specie di quercie colà indigene, differenziandovi cioè ad un determinato momento i frutti ascofori. Riuscite vane anche a me le indagini rivolte alla scoperta dei periteci del parassita, ho iniziato delle ricerche intese a seguirne le vicende durante la stagione invernale. A_ tale scopo, le piantine di quercia farnia anzidette, allevate in cassette, e violentemente assalite dall’oidio durante il 1910. non subirono alcun trattamento anticrittogamico e furono ricoverate in serra fredda dall’ottobre in poi. L'esame metodico delle chiazze fungine residue dell’antecedente infezione, assai appariscenti nelle foglie secche e cadute — ripetutamente compiuto dal dicembre ad oggi — ha dimostrato che anche in ambiente relativamente riparato — com'è quello di una serra fredda — scompare ogni traccia di vitalità negli avanzi miceliali e nelle spore; nè si osserva alcuna differen- ziazione che indichi la possibilità di adattamento del fungo alla vita saprofi- taria, in seguito alla quale si formino speciali organi ibernanti. Il giorno 7 marzo, in seguito al sensibile raddolcimento della stagione, più intenso naturalmente nella serra, si era iniziata la schiusura di un certo numero di gemme. Fra le altre, una piantina rimasta assai malconcia dal- l'infezione, apriva due gemme apicali da cui si svolsero in breve 6 foglio- line, le quali apparvero ricoperte uniformemente da un fitto strato bianco, farinoso, che l'esame microscopico rivelò costituito dalle caratteristiche frut- tificazioni di Oidium quercinum Thim. Ho assoggettato allora ad indagine microscopica una dozzina di gemme staccate saltuariamente da diverse piantine, prelevandone alcune di già schiuse ed altre appena rigonfie. Praticate delle sezioni longitudinali, ho constatato — 5900 — in 8 gemme, che in corrispondenza della faccia interna delle perule esse presentavano una rete miceliale continua, assai fitta che si distende in taluni casi sino ad avvolgere l'apice vegetativo. L'intera gemma è allora infetta. Dal micelio superficiale si staccano i conidiofori, i quali nelle gemme in via di schiudersi sono già provvisti di conidi maturi. I caratteri morfologici del micelio e le dimensioni dei conidi maturi corrispondono a quelli indicati per l'Oidium quercinum: i conidiofori misurano 50 — 80 w e sono formati da due o tre articoli; il conidio maturo misura in media 30 X 18 wu. Lasciate le piantine a sè, si sono schiuse successivamente numerose altre gemme, fra le quali a tutt'oggi 6 hanno dato origine a getti uniformemente, infetti. L'azione del parassita nella gemma è lungi dal riescire indifferente poichè se talvolta dalla gemma infetta ha preso origine un germoglio di forma, dimensione e numero di foglie normali, in altri casi la gemma ha for- nito un solo paio di foglioline, deformate e l'apice vegetativo sembra atrotiz- zato. È inutile aggiungere che tanto le semplici foglie, quanto l'intero ger- moglio sono costantemente infetti in ogni parte. Non appena accertata la ricomparsa del parassita, ho trasportato un certo numero di conidi sulle foglie già aperte, tenere di altre piante, per seguire l'andamento dell'infezione. La semina fu eseguita l’8 marzo. Con mia sorpresa il parassita si è rivelato assai poco virulento: nelle aree ove furono deposti i conidi, si ebbe un lieve imbrunimento dei tessuti quasi da contu- sione, e trascorsa una ventina di giorni solo una chiazza formata da frutti- ficazioni del parassita, che ha attecchito, ma non accenna ad espandersi. Siffatta scarsa diffusione, seguìta alle inoculazioni praticate ad arte è confermata dal fatto che l'infezione stessa, a tutt'oggi, è nettamente clrco- scritta ai germogli rivelatisi infetti sino dalla nascita. L'abbondante produ- zione di conidi — sebbene gli stessi raggiungano rapidamente la maturità, siano perfettamente atti a germinare e sì disperdano in giro con la massima facilità — non ha punto comunicata l’ infezione alle piante adiacenti ai getti infetti. Resta pertanto dimostrato da queste osservazioni che nel caso di pian- tine di quercia ricoverate in serra fredda, l'oidio sverna parassita delle gemme e può quindi conservarsi in vita da un anno all’altro senza differenziare fruttificazioni ascofore. Le condizioni in cui si presentano le gemme, esami- nate in diversi stadî di sviluppo stanno difatti ad indicare che non sì tratta di puro e semplice ricovero delle spore entro le perule, ma di vero parassi- tismo dell’oidio sugli organi in vita latente. La sopravvivenza del parassita — così come ho dimostrato per un'altra specie di oidio, l' Oidium Evouymi — è assicurata dai rapporti simbiotici che si stabiliscono durante l'inverno tra parassita e tessuti dell'ospite. Altre indagini, già iniziate in querceti cedui di pianura, mirano a sta- bilire se tale sia effettivamente lo svernamento dell'oidio anche in aperta | | | — 507 — campagna, nelle condizioni naturali d'ambiente; se cioè il parassita della quercia abbia un hadilat invernale conforme a quello posto in evidenza dal Ravaz nello studiare lo svernamento dell'oidio nelle gemme della vite, l'unica specie di erisifacea esaurientemente studiata sotto tale punto di vista, sebbene per molte erisifacee indigene sia spesso indicato ora come ipotesi, ora invece come realtà — non accertata però, per quanto mi consta — lo svernamento parassitario nelle gemme dell'ospite. Anche per l’oidio della vite, prima della scoperta dei peritecì era am- messo e non provato che esso svernasse per mezzo di miceli ibernanti o di spore riparate nelle gemme. La scoperta dei periteci in Francia, successiva- mente confermata in altre località d'Europa, ha più che altro sanzionata l'identità del parassita europeo della vite coll’ Wncinula necator, ma come ebbe giustamennte ad osservare il Ravaz « detti periteci sembrano avere una parte poco importante nella prima comparsa dell'oidio. Vi sarebbero anzi ragioni di ricercare ciò che essi diventano prima e dopo dell'inverno ». La parte precipua dello svernamento dell’oidio della vite sarebbe de- voluta, secondo il Ravaz, al micelio svernante parassitariamente nelle gemme: quest'A. ha trovato filamenti miceliali con o senza conidiofori non soltanto nelle gemme della vite appena mosse, ma anche nelle gemme insta to di assoluto riposo, sopratutto sulle perule, dalla base della gemma sino all'apice vegetativo. i Patologia vegetale. — Wieriori ricerche sulla genesi del Roncet od arriceriamento della vite. Nota di E. PANTANELLI, pre- sentata dal Socio G. CuBONI. Agronomia. — Sulla presunta perpetuazione delle specie in- feste attraverso lo stallatico. Nota di 0. MUuNERATI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Botanica. — Esperienze sulla disinfezione delle piante. Nota I del dott. LrosALDO DANESI, presentata dal Socio B. GRASSI. Intorno alle esperienze sulla disinfezione delle piante mercè l’acqua calda, pubblicai già i risultamenti ottenuti mediante le ricerche da me intraprese nell’anno 1900 (!); le ricerche furono continuate anche negli anni successivi, al fine di confermare i precedenti risultati, ed estenderle altresì sugli altri argomenti concerneuti la viticoltura moderna, prefiggendomi di raggiungere i seguenti scopi : 1) dimostrare praticamente se l'immersione delle barbatelle fillosse- rate nell’acqua a 55° C. per cinque minuti, sia proprio sufficiente ad uccidere le fillossere e sterilizzare le uova delle attere radicicole e l’uovo d'inverno; 2) verificare quale resistenza presentino all’azione del calore le diverse specie e varietà di viti; 3) esaminare se esista alcun rapporto fra la resistenza all’azione del- l’acqua calda delle varie qualità di viti e la loro resistenza alla siccità; 4) accertare se la grossezza- delle talee abbia influenza o no sulla mag- giore o minore resistenza all'azione del calore; 5) sperimentare se sia possibile disinfettare le viti contemporaneamente contro la fillossera e contro le varie malattie crittogamiche, impiegando una soluzione acquosa e calda di solfato di rame; 6) provare se sia possibile combattere il /?omcet mercè la scottatura delle talee infette, sia con acqua semplice, sia con acqua contenente, in so- luzione, del solfato di rame o del solfato ferroso; | 7) verificare infine l’azione insetticida della piridina, per vedere se fosse possibile applicarla contro i parassiti animali non solo della vite, ma anche di altre piante. Me Nell'anno 1901 diedi incarico al direttore del Vivaio di viti americane di Portoferraio, sig. Silva, di continuare le esperienze, che nell’anno precedente io aveva appunto eseguite in quel Vivaio, con la cooperazione del dott. Persi, allora direttore colà. Il Silva pubblicò per proprio conto il risultato di tali esperienze, che io poi continuai negli annì successivi, cominciando dall'anno 1903, mediante l'ottimo e svariato materiale che esiste alle Isole Tremiti. (1) Rapporto intorno al vivaio di osservazione alle Tremiti e alla disinfezione delle piante. Roma, tip. della Camera dei Deputati, anno 1900. i — 509 — Il programma da me tracciato, consisteva nel cercare quale era il punto massimo di calore, che poteva essere sopportato tanto dalle talee che dalle barbatelle; e per ciascun grado di temperatura, quale influenza aveva il tempo d'immersione sulle talee e sulle barbatelle stesse. x x x Prima però di riferire in qual modo furono condotte le esperienze, sarà bene dica qualche cosa del nuovo apparecchio che feci appositamente costruire a Firenze per questo scopo. Tale apparecchio è quasi identico a quello da me descritto nel ricor- dato rapporto; soltanto è di dimensioni più grandi, ed è possibile con esso disinfettare più migliaia di talee per volta. La differenza che passa tra questo apparecchio e il precedente, è che nel nuovo l’acqua del cassone si scalda per mezzo di un termo-sifone, costituito da un fornello, il quale viene attraversato da un grosso tubo, piegato a ser- pentino, che comunica dai due estremi con l’interno del cassone pieno d’acqua. Col termo-sifone si può eseguire la disinfezione in modo assai ra- pido, poichè si può mantenere costantemente l’acqua del cassone alla voluta temperatura, cosa che non consente di fare l’altro apparecchio. Tanto con l’uno che con l’altro, devesi avere l'avvertenza di mantenere l'acqua calda continuamente in movimento, durante il tempo dell’immersione delle viti, e ciò è facile ad ottenersi mercè l’apposito agitatore. * x x È col nuovo apparecchio, che ho potuto sperimentare il potere disinfet- tante dell’acqua calda all'Osservatorio antifillosserico di Fauglia, diretto dal Senatore prof. Grassi, il quale diede l’incarico di cooperare meco, in queste esperienze, alla dott. Anna Foà. A tale scopo furono scelte parecchie decine di barbatelle di un anno, abbondantemente fillosserate, le quali vennero divise in tre gruppi: uno fu Scottato per cinque minuti a 53-54° C., un altro alla medesima temperatura per sette minuti, ed il terzo a 55-56° C. per cinque minuti. Eseguita la scottatura, le piantine vennero poste in adatti vasi, con terra veramente immune d'infezione fillosserica perchè raccolta in un bosco, dove non era alcuna vite. Anche i vasi furono tenuti in luogo appartato, e le piantine normalmente coltivate. Tali piantine, nella primavera, vegetarono regolarmente, senza che nessuna avesse a soffrire della scottatura, a cui venne sottoposta. Nell'estate furono accuratamente e ripetutamente esaminate, ma non fu possibile trovare alcuna traccia di infezione. Perciò rimase così praticamente dimostrato, che scottando con acqua a 54° O. per cinque minuti le barbatelle di viti riconosciute veramente infette, si uccidono gli insetti, si sterilizzano — 510 — le uova, e si rendono quindi le barbatelle sicuramente immuni da infezione fillosserica. Ma tale esperienza non si potè completare perchè non fu possibile avere viti con uova d'inverno; è stata però ripresa in Sicilia, dove non manca materiale adatto, e dei risultamenti ottenuti si dà conto in altra Nota. X x x Per verificare la resistenza delle diverse specie di viti all’azione del ca- lore, furono fatte anche numerose prove e con talee e con barbatelle di viti americane. Tali prove, come già dissi, furono ripetute in più anni, e sì potè realmente riscontrare che è ben diverso il grado di calore che può essere sopportato dalle varie specie di viti americane 0 dai loro ibridi; ed è stato anche accertato, che la resistenza delle barbatelle è notevolmente superiore a quella delle talee. I risultamenti delle varie esperienze eseguite con talee sono i seguenti: Hanno resistito alla temperatura di 60° C. per dieci minuti la /- paria X Cordifoglia- Rupestris 106-8; per sette minuti la medesima varietà ed il Rupestris X Berlandieri 301 A. Alla temperatura di 59° C. hanno resistito per dieci minuti il /06-4$, V Aestivalis-Calcicola X Riparia-Rupestris 554-5, e il 301 A; per sette minuti le precedenti e il Berlandieri X Riparia 157-11; e per cinque mi- nuti le precedenti varietà, l’ Aramon X Rupestris Ganzin n. 1, ela Riparia X Rupestris 3306. Alla temperatura di 58° C. mostrarono di resistere, per 10 minuti, tutte le varietà precedentemente indicate, la Riparia X Rupestris 101-14, è i Ber- landieri X Riparia 34 E, e 420 A; per sette minuti, oltre a tutte le va- rietà sopra indicate, anche la Riparia X Rupestris 3309, e per cinque mi- nuti tutte quelle avanti accennate, la Rupestris metallica e la Solonis X Riparia 1616. Alla temperatura di 57° C. per 10,7 e 5 minuti le medesime varietà indicate avanti. Lo stesso può dirsi per le temperature di 55 e 56° C. comprendendovi fra le varietà resistenti anche la Rupestris du Lot. Avvertasi però, che per le talee scottate a temperature elevate e lunga immersione nell'acqua calda, la percentuale di attecchimento fu bassa. Per ogni varietà di vite sottoposta all’azione dell'acqua calda, furono scelte talee ugualmente grosse € lunghe, senza essere scottate ; le quali ven- nero piantate nello stesso tempo di quelle sottoposte alla scottatura e messe tutte nelle medesime condizioni di terreno, impianto, coltura ecc. Concludo che in generale si può eseguire la scottatura delle talee su tutte le varietà di viti (purchè il Jegno sia tolto da piante vigorose, anche se giovani) mantenendole cinque minuti fra 53 e 54° C. senza nuocere al potere — 511 — vegetativo, anzi col beneficio di disinfettarle e renderle immuni da ogni even- tuale infezione fillosserica. Soltanto per alcune varietà, come per esempio la Riparia gloîre bisogna badare a non superare i 54° C. Colle barbatelle invece, tanto se innestate o no, si può arrivare anche sino a 57° C., purchè non restino immerse oltre i cinque minuti. Le barba- telle di Berl/andieri possono tollerare anche una temperatura superiore di due o tre gradi. n * x Come è noto, fra le viti americane riconosciute in pratica più resistenti alla siccità, sono le Berlandieri, la Riparia X Cordifoglia 106-8, la Ru- pestris X Berlandieri 301 A, la Aestivalis-Calcicola X Riparia -Rupestris 504-5, i Berlandieri X Riparia 1357-11, 34 E, 420 A, ìl RipariaX Ru- pestris 3306, l Aramon X Rupestris Ganzin n. 1; ed alcune altre. Da queste esperienze risulta, che le varietà maggiormente resistenti alla scottatura sono quelle che più resistono alla siccità: vuol dire adunque che vi è un rapporto fra la resistenza all'azione dell'acqua calda delle varie qualità di viti e la loro resistenza alla siccità. Per poter però con sicurezza stabilire questo fatto, io credo sia necessario ripetere le esperienze, adoperando barbatelle della medesima età, delle stesse dimensioni e del medesimo peso. Se si avrà la conferma di quanto si è enunciato, i viticoltori avranno a loro disposizione un mezzo pratico e facile, col quale potranno, 4 prz0r2, sta- bilire, per nuove varietà o nuovi ibridi di viti americane, quale sia la loro resistenza alla siccità. Don La grossezza delle talee di viti americane, sembra che non abbia alcuna influenza sulla maggiore o minore resistenza alla scottatura con acqua calda. Le prove eseguite con talee di uguale varietà e lunghezza, ma di diffe- rente diametro, alcune di cinque millimetri ed altre di sette, non diedero alcuna differenza nei risultamenti ottenuti. SR Le stesse esperienze, fatte con semplice acqua calda, al fine di deter- minare la resistenza alla scottatura delle diverse specie e varietà di viti americane, furono fatte poi con soluzioni di solfato di rame all'1 e al 2 per cento, e ciò per determinare se fosse possibile eseguire contempora- neamente la disinfezione non solo contro la fillossera, ma anche contro le principali crittogame, specialmente il B/ac% rot. il quale non è stato ancora riscontrato in Italia, ma che può facilmente importarsi con la introduzione di viti americane, specialmente delle barbatelle innestate. Dette prove furono ripetute in più anni su talee e barbatelle, e i risul- tamenti ottenuti dettero luogo alle seguenti conclusioni : Re CONICO IP AVIONA 10 Ser. 67 — 512 — Non tutte le talee dei diversi vitigni resistono alla scottatura in solu- zione di solfato di rame all’1 e al 2 per cento, per cinque minuti a 53° e a 55° C.; si mostrano le più resistenti il Rupestris X Berlandieri 301 A., la Aestivalis-Calcicola X Riparia Rupestris 554-5, il Mourvedre X ku- pestris 1202, la Riparia Rupestris 3306, la Riparia Gloire; hanno mo- strato debole resistenza i Berlandieri X Riparia 420 A, 34 E, e la Ru- pestris du Lot. Le barbatelle invece, innestate o no, hanno mostrato, anche in qneste prove, una maggiore resistenza. * x x Le scottature tanto con l’acqua semplice quanto con le varie soluzioni di solfato di rame e di solfato ferroso sembrano inefficaci a combattere il Roncet. Si fecero a tal uopo esperienze con talee di Riparia X Rupestris 3306 e Rupestris du Lot, tolte da piante colpite di Ronces, e che avevano i segni caratteristici di questa malattia, e si potè osservare che sebbene scottate o tenute immerse per un giorno in soluzione di solfato ferroso al 3 °/o, le pian- tine ottenute dopo uno o due anni, trovaronsi .colpite da /onced. * x x La Piridina C* H° N, ottimo insetticida, è un alcaloide che, come è noto, si ricava dalla distillazione dell'olio animale di Dippel. È liquido alla temperatura ordinaria e bolle a 116,7° C. Emette vapori anche a bassa tem- peratura, che si riconoscono facilmente dall’acutissimo odore caratteristico. Sono questi vapori che sembra abbiano elevato potere insetticida. To volli sperimentare se la piridina potesse adoperarsi nella pratica per la disinfezione delle piante e perciò feci le prime prove a Catania. ove la temperatura dell'ambiente oscillava fra 27 e 28° C., e potei riscontrare, che veramente i vapori della piridina hanno elevato potere insetticida anche contro la fillossera. Restava a studiare l’azione di questo alcaloide sulle piante da disinfet- tare; come occorreva altresì stabilire meglio la quantità di insetticida che bisogna usare, e il tempo necessario perchè spieghi completamente la sua efficacia. In altra Nota viene riferito come furono eseguite queste ricerche, ed i risultamenti ottenuti. l Al — 513 — Patologia. — Sopra l’azione tossica della chinina sui centri nervosi. Nota del dott. Marco ALmacrà, presentata dal Socio E. MARCHIAFAVA. Gitologia. — Sugli Elaioplasti nelle Mono- e Bicotiledoni. Nota preliminare del dott. IoANNES PoLITIS, presentata dal Socio Prof. G. BRIOSI. Queste Note saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Anatomia. — Sullo sviluppo dello scheletro assiale nei Mu- renotdi(*). Nota del dott. M. SELLA, presentata dal Socio B. GRASSI. Lo studio generale dell'organizzazione delle larve dei murenoidi (lepto- cefali) venne intrapreso da Grassi, sin da molti anni or sono, con l’intento di formare una. monografia di questo gruppo; ma altri lavori intrapresi non lasciandogli tempo di applicarsi a uno studio più particolareggiato di alcuni sistemi anatomici, quale il sistema scheletrico, egli mi affidò gentilmente la continuazione delle ricerche di quest'ultimo, mettendo a mia disposizione il suo materiale. Mi limiterò in questa breve Nota ad esporre alcuni dei fatti più im- portanti osservati in tali ricerche. Protocentrocieli. — Caratteristica del gruppo dei muneroidi è la cal- cificazione metamerica della membrana della corda, la quale forma un vero e proprio sistema vertebrale primitivo di origine cordale, che precede quello osseo. Essa venne osservata per la prima volta e accennata in una breve Nota da Grassi e Calandruccio (?) che denominarono « protocentrocicli » le porzioni metameriche di corda ossificata. L'ossificazione avviene in corrispondenza agli archi, cioè nelle regioni vertebrali; prima alla parte dorsale e poi a quella ventrale della corda, pro- babilmente in varî pezzi che si fondono fra loro. Comincia alla regione cau- dale e via via interessa tutta la membrana della corda fino al capo. Nelle sezioni sagittali il tratto ossificato appare colorato intensamente, rifrangente, rigido, diritto prima della formazione del vero osso di origine peri- cordale; ed incurvato verso l'esterno dopo. Si distingue da quest'ultimo perchè (*) Lavoro eseguito nell'Istituto di anatomia comparata della R. Università di Roma. (£) Grassi e Calandruccio, Sullo sviluppo dei murenoidi. Rend. Accademia Lincei, Seduta del 8 Maggio 1896. — 514 — privo di cellule; alle estremità è leggermente ingrossato e seghettato alla su- perficie esterna. L'ossificazione quando ha interessato un certo tratto non si estende maggiormente. Essa rimane inalterata anche nelle vertebre degli animali adulti, all’interno del vero osso nella porzione compresa fra i doppî coni fino a che non avviene lo strozzamento completo della corda. Le porzioni intervertebrali di membrana della corda non si ossificano e passano per le seguenti modificazioni: La membrana s’ingrossa e si sprofonda nel tessuto della corda stroz- zandola e formando degl’infossamenti circolari, indi si accorcia nel senso longitudinale e con essa diminuisce la larghezza degli infossamenti finchè questi scompaiono, e le due superficie interne destra e sinistra si accollano; in questo stadio, in una sezione sagittale od orizzontale la porzione inter- vertebrale della membrana forma come un sacchetto ripieno che sporge in- ternamente. (fig. 1, fig. 2). In corrispondenza degl infossamenti sia il connettivo pericordale che lo strato epitelomorfo della corda sono più ricchi di cellule. — dlo — In seguito, quando già si sono formate le vere vertebre a doppio cono, la pressione interna dei vacuoli cordali dovuta all’attiva proliferazione che si manifesta nelle regioni intervertebrali della corda, spinge questo cercine verso l'esterno insieme all’elastica fino a farlo estroflettere e aderire al liga- mento connettivale (Kélliker) intervertebrale (fig. 3). Gl’infossamenti descritti ed i relativi protocentrocicli appaiono, come si è detto, prima alla regione caudale, e in piccolo numero si riscontrano già in animali molto giovani che ancora non hanno cominciato a trasfor- marsi; questo numero dapprima quasi stazionario aumenta rapidamente fino a interessare tutta la corda quando comincia l’accorciamento dell'animale. Fic. 3. Tessuto della corda. — Un fatto sommamente caratteristico già osser- vato dallo Schauinsland (') è la presenza di grandi vacuoli che si susse- guono l'uno all'altro come gl’'internodi di una cannuccia. Le loro modifica- zioni successive, per es. nel Conger, sono le seguenti: visti in sezioni sagit- tali in uno stadio più giovane hanno forma di rettangolo con il lato minore nel senso longitudinale; allungandosi l’animale, questo rettangolo passa ad una forma quadrata e quindi ellissoidale effetto di pressioni che entrano in giuoco con la formazione di nuovi piccoli vacuoli periferici. La proliferazione di questi piccoli vacuoli s'inizia nella zona anulare limite fra i grandi vacuoli, i quali occupano dapprima tutto il tubo formato dalla membrana cordale. Quivi si forma dapprima una catenella di piccoli vacuoli, per cui in sezione si osserva, in corrispondenza agli spigoli dei quadrati o rettangoli rappresentanti i grandi vacuoli, un piccolissimo vacuolo. (!) Schauinsland H., Die Entwickelung der Wirbels diule nebst Rippen und Brustbein. In: Handbuch Vergl. Exp. Entwick. d. Wirbeltiere v. O. Hertwig. Jena, 1906. — 516 — A questa catenella se ne aggiungono poi altre due laterali, e così via via la zona di proliferazione si estende lateralmente fino a incontrarsi con la successiva, e la massa dei vacuoli così formati approfondandosi esercita una pressione sui grandi vacuoli che assumono forma più o meno ellissoidale e vengono successivamente a perdere la loro contiguità con la parete del tubo cordale ed a trovarsi nel mezzo del tessuto della corda, dove scompa- riscono solo nell'animale definitivo, quando si forma il cordoncino protoplasma- tico assiale. La vacuolizzazione della corda nelle regioni caudali, mediana e cefalica, presenta notevoli differenze che verranno esposte in un lavoro più esteso. Quanto al numero dei grandi vacuoli, nel grongo si avvicina sensibil- mente a due nella regione mediana e si fa un po' maggiore verso il capo e verso la coda. Scheletro gelatinoso. — La corda si trova sospesa in mezzo ad un tessuto mesenchimatico, che venne da Grassi denominato scheletro gelatinoso. Dapprima (in stadi giovanissimi) esso è indifferenziato, poi si differenzia in una parte assiale più compatta, come un astuccio, che circonda e pro- tegge la corda e in un’altra più gelatinosa, che riempie quasi tutta la cavità del sacco muscolo-cutaneo. Non vi sono divisioni segmentali, salvo che nella prima le cellule mesen- chimatose si riuniscono a formare gli abbozzi degli archi. La struttura di questi due scheletri che denomineremo Jaloscheletro compatto è Jaloscheletro gelatinoso proprio è molto complicata. Vi si notano numerosissime fibrille, le quali in quest’ultimo sono disposte in senso orizzontale (*), mentre nel primo si proiettano radialmente tutt’attorno dell’astuccio. L'animale nella sua metamorfosi a individuo definitivo assorbe tutto questo tessuto, il quale scompare prima dorsalmente alla corda (parlo della regione del tronco) ove le pareti del sacco muscolo-cutaneo sì avvicinano fino a fondersi insieme ,mentre ventralmente alla corda, là dove avviene l'invasione dei visceri, persiste ridottissimo, per un tempo un po’ più lungo. Infine accennerò in via generale alla presenza di straterelli molto com- plicati che vi trovano nell'angusta lacuna compresa tra la muscolatura e lo jaloscheletro. Ho creduto opportuno di limitarmi ad esporre in questa breve Nota soltanto alcuni dei fatti osservati senza entrare nelle considerazioni di ordine più generale, che ne possano derivare. Accennerò qui soltanto alla relazione che ho potuto stabilire fra l’accor- ciarsi dell'animale e le modificazioni anatomiche della corda durante la for- mazione dei protocentrocicli. (1) Nell’Anguilla le fibrille hanno in certe regioni una disposizione speciale che non si riscontra nel grongo. — 517 — A questo fine ho costrutto prima una grafica dell’accrescimento dei lep- tocefali del Conger vulgaris. Com'è noto questi leptocefali quando hanno raggiunto una certa lunghezza sì accorciano enormemente prima di trasformarsi nella forma definitiva. Per misura dello stadio ho preso il rapporto fra la lunghezza totale e quella ano-caudale, due grandezze che variano in modo diverso essendo l'accorciamento del tubo intestinale maggiore di quello della lunghezza to- tale dell'animale. Gl’individui misurati furono 115, la grafica ottenuta è la seguente: U ] I | 1 l ] i I i LU Mo (8 ' i î Ù ! I Pe > | i Ù Ù I Ù I i È ! ; i i ! mai masi. lol. Ù I i I I ] Le ; [ I Ì I I I ; i N lolali f ( I I I Ù i i I l I Ì i \C Ù ! i ' i È Lotal defi vilivi î I I I I Ù i tig ' ' I i i i MO Ù [ I I I I ! I I î Ù ' Ù tb 7 I I | ] I dg I È i SARI Sì SI I o aaa 3 3 Si s & SI] S Si SS Ù pi S n 3 D I ) dI i Ù fi I Ù Ù Ì I I i I I l Ù ì OLUIRE i i i CRIARI o 10 IIS 1 ! L I ' I S I “e E RE E Mv. To I I . Ni Larne p>_—__+»- ) i I po IS Si e) CURGSAIS I I I I I RS di i i ARGINE 0 SLI I ] ) TRIO SN ‘n } 6 & 4 SE 97 295 1815 ; APPORTI = cufossarueuli Fic. 4. Osservando poi il comportarsi dei protocentrocieli e infossamenti nei varî stadii ho riscontrato che al ramo discendente della grafica corrisponde appunto il rapido aumento nel numero dei medesimi andando dalla regione caudale della corda fino al capo. In altre parole l’accorciamento dell'animale per quel che riguarda la corda avviene tutto a spose delle regioni intervertebrali non calcificate della membrana cordale la quale s’infossa, s'accorcia e si contrae, annullando così quasi completamente la distanza che separa protocentrociclo da protocentro- ciclo, e vertebra da vertebra. — 518 — MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI G. Ponte. Studi sull’eruzione etnea del 1910. Pres. dal Socio STRÙVER. RELAZIONI DI COMMISSIONI Il Segretario MiLLosevica legge, a nome dei soci RicHI e BATTELLI (relatore), una relazione colla quale si propone la inserzione nei volumi delle Memorie, di un lavoro del dott. A. OCcCHIALINI avente per titolo: / fenomeni luminosi all'inizio dell'arco. Le conclusioni della Commissione esaminatrice, messe ai voti dal Pre- sidente, sono approvate dalla Classe, salvo le consuete riserve. PERSONALE ACCADEMICO Il Corrisp. Apucco legge una Commemorazione del compianto Socio sen. AnGELO Mosso, lettura che è accolta dal plauso unanime della Classe e per la quale il Presidente ringrazia, a nome dei Colleghi, l’oratore. Questa Commemorazione sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvicH presenta le pubblicazioni giunte in dono, se- gnalando quelle inviate dai Soci LORENZONI, SILVESTRI, LACROIX; € dai signori AntoNnIazzi, Acgazzorti e PaGLIANI. Presenta inoltre un volume pubbli- cato in onore del Socio prof. KoERNER in occasione del 50° anniversario della sua laurea, col titolo: Za determinazione del luogo chimico nei com- posti così detti aromatici; tre volumi contenenti gli Atti della Commissione d'inchiesta per le industrie bacologica e serica; e l'opera: Za temperatura d'Italia del dott. ErEDIA, facendone particolare menzione. Il Corrisp. REINA presenta all'Accademia la riproduzione, assai bene eseguita sotto la sua direzione dall'Istituto Geografico Militare di Firenze, — 519 — del rilievo planimetrico e altimetrico della Media Pars Urbis compiuto dagli allievi della Scuola d'applicazione per gl'ingegneri di Roma, colla guida dei professori Barbieri e Cassinis. Si tratta di un grande album con 16 tavole, nelle quali i monumenti trovansi riprodotti nel rapporto di 1 a 500. Il Corrisp. Rivoira fa i più grandi elogi di questa pubblicazione che ha una grande importanza per la topografia antica, specialmente a causa della estrema precisione colla quale i rilievi dei monumenti vennero eseguiti ; e conclude col dire che l'opera del prof. Reina e dei suoi collaboratori torna ad onore non soltanto della scienza ma anche del nostro paese. CONCORSI A PREMI Il Segretario MiLLosEvIcH comunica che tra i concorrenti ai premi del Ministero della Pubblica Istruzione deve esser compreso il prof. MuscaTELLO, il cui lavoro ms. « Endemismi ed esodemismi della Flora Italiana » fu in- viato in tempo utile al Ministero, ma venne trasmesso con ritàrdo all’Acca- demia. CORRISPONDENZA Il Segretario MiLLosevicH comunica le congratulazioni pervenute al- l'Accademia dei Lincei, per la fausta circostanza della celebrazione del cin- quantenario della indipendenza italiana, dall'Accademia Britannica e dal- l’Università di Londra. E. M. RENDICONTI, 1911, Vol, XX, 1° Sem. 68 "I PRESENTAZIONE DI L]o!: Millosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte ‘în dono, segnalando quelle dei Soci Lorenzoni, Silvestri, Lacroix; è dei signori Antoniazzi, Aggazzotti, Pagliani, OCRA MESE i. e n. Pago 518 Zterna. Presenta la riproduzione del rilievo planimetrico e altimetrico della Media Pars Urbis» » Rivoira. Loda la precedente pubblicazione, mettendone in rilievo la importanza. . . . » 519 i CONCORSI A PREMI Millosevich (Segretario). Comunica che tra i concorrenti ai premi del Ministero della P. I. devoWesseracompresosilv prof. Muscatello rt... MMM. CORRISPONDENZA Millosevich (Segretario). Comunica le congratulazioni, in occasione del Cinquantenario, inviate dall'Accademia Britannica e dall'Università di Londra. 0.0. +... n» ERRATA-CORRIGE Î a Nella Nota di 0. M. Cordino a pag. 425 del precedente fascicolo, la formola (1) va sostituita con quest'altra mil — ml EHI 2rer 2 e in conseguenza in tutto il seguito, esclusa la formola (4), ov’è segnato E bisogna leggere DE A pas. 377 nella leggenda della fig. 3, invece di « jpofisi giugulare » leggasi «apofisi giu- gulare ». RENDICONTI — Aprile 1911. INDICE Classe di scienzè fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 2 aprile 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Pincherle. Sopra alcune omografie dello spazio funzionale... |... . .... +. Pag. 487 Volterra. Sopra le funzioni permutabili di 2% specie e le a a (O) i o Grassi. Intorno ai Protozoi dei Termitidi (*) . . . . . ù AMA ino, Evans. L'equazione integrale di Volterra della seconda specie con un ‘limite Li infinito ‘(pres.:dal'Corrisp. Lauricelligiee e. RIDE Cisotti. Sulla biforcazione di una vena liquida (pres. /d.). . . 0... Me Severi. Sulle superficie a varietà algebtiche irregolari di genere geometrico o so PRIORI Boggio. Calcolo delle azioni dinamiche esercitate da correnti fluide Done pareti rigide (pres. dal Socio Levi-Civita). . . i E) i) Burali-Forti. Sopra un nuovo rato differenziale per le 0 vettoriali (pres. Id.) n» Sinigallia. Sulle funzioni permutabili di seconda specie (pres. dal Corrisp. Zauricella) ©)» » Mineo. Sulle rappresentazioni isodromiche (pres. dal Corrisp. Venture) (A) 0/0. 90» Corbino. Rotazione nel campo magnetico di un disco di bismuto percorso radialmente da un flusso, di calore (pres. dal Socio Aleserma)(). 0... 00 Me o) Bellucci e Manzetti. Sulla sintesi diretta dei gliceridi (pres. dal Socio Palcino)i I o Parravano e De Cesaris. Gli arseniuri di stagno (pres. Id.) (A). 000.0 504 Padoa e Santi. Sulla preparazione e la fototropia di alcuni osazoni (®) ... . . AGR Peglion. Intorno allo svernamento dell’oidio della quercia (pres. dal Socio Cudori) DÌ nt 05 Pantanelli. Ulteriori ricerche sulla genesi del Roncet od arricciamento della vite (pres. DOLORES È Anno Munerati. Sulla presunta io (10 specie infeste 0, lo dale SE dal Socio Loto È 5 AR Danesi. Esperienze sulla i delle visilo i. dal Sieio Gi Dia in NDOS Almagià. Sopra l’azione tossica della chinina sui centri nervosi (pres. dal Socio Mari OE . I, ED Sella. Sullo sviluppo dello i ail nei ni (i dal Socio Gea) MERE, MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Ponte. Studi sull’eruzione etnea del 1810 (pres. dal Socio Struver) . 0. 0 ++ +0» (518 RELAZIONI DI COMMISSIONI Righi e Battelli (relatore). Relazione sulla Memoria del dott. A. Occhialini: I fenomeni luminosi all'inizio dell'arco. © CRM eo A e o PERSONALE ACCADEMICO Aducco. Commemorazione del Socio sen, Angelo Mosso (®*) , o s Cis fi(2) Py), 1 (1) Questioni generali sulle equazioni integrali ed integro-differenziali. Rend. Ac. dei Lincei, Seduta 20 febbraio 1910, $ 8. RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 69 — 522 — essendo Cis DI DI Gin Ant Ars » Per rappresentare questo scriviamo le sostituzioni dir, 29» Vin dir g Dia ge Dun) (1) A= do: 3 d22 , e Uan i (2) Ba dai ’ dar DIO dan Ani 9 Anz 3 e Ann essi , De ques Dan ) MZIIORO. dun Cri 3 €12 3 eee Cin | (3) ig do, , ds0 que don ) (4) C—- Coi, C29 0 «e Con \ Ani , Ano qeso nn Cnr Cnz è «e Cnn \ ed avremo C=A4B, ove il secondo membro denota il prodotto delle tre sostituzioni A 4B. Ne segue che la condizione necessaria e sufficiente per la permutabilità di seconda specie delle funzioni (I) e (II) è espressa da (5) AAB=BAA. 2. Ciò premesso osserviamo che la relazione precedente è equivalente all'altra (5) (AA)(AB)=(A4B) (AA), dunque, condizione necessaria e sufficiente per la permutabilità di seconda specie di F e ® è che le sostituzioni AA e AB siano fra loro permutabili. Nella ipotesi in cui B si riduca all'identità, cioè MLOc.0 RM 0 ORO e quindi (6) P(x,9)= D. fi(c) Pi(4) la condizione precedente si riduce 2 AA=4AA, ossia che Ze sostituzioni A e A siano fra loro permutabili, mentre se A=1 essa diviene AB= BA, ossia che siano permutabili le sostituzioni B ed A. — 523 — 8. Ho studiato la questione delle permutabilità delle sostituzioni nei Preliminari della seconda parte della mia Memoria: Su fondamenti della teoria delle equazioni differenziali lineari (?). Rimando quindi alla suddetta Memoria per la trattazione del problema di trovare tutte le sostituzioni permutabili con una data sostituzione. Perciò nota la funzione (II) potremo avere tutte le funzioni della forma (1) permutabili di 2° specie con essa. 4. Nella Memoria adesso citata (*) ho dimostrato il teorema seguente: La condizione necessaria e sufficiente affinchè le sostituzioni permutabili con una data sostituzione stano permutabili fra loro è che î divisori ele- mentari della sostituzione data siano potenze di basi tutte differenti fra loro. Quando questa condizione è verificata ho chiamato la sostituzione ele- mentare. Ne segue che /a condizione necessaria e sufficiente affinchè tutte le funzioni (I) permutabili colla (Il) siano permutabili fra loro è che il prodotto delle sostituzioni AB sia elementare. 5. Vogliamo dare subito una applicazione dei precedenti resultati ad una questione di equazioni integrali. Supponiamo -4B elementare e siano Fo, F,, F.,... Fn, m+1 fun- zioni della forma (I) permutabili di 2* specie con (II): esse saranno per- mutabili fra loro. Proponiamoci il problema di trovare una funzione F, avente la forma (I) e permutabile con (11), la quale verifichi l'equazione integrale di grado m (III) pp” sr P, pm IL, P, pm +-+ Tg] +Fn=0. Posto OD " ® f;(©) Ps(4); (Ah) dh) (A) da ) Ag It Ain da) (LO) (1) a i e 4 An SA, 210220 zan \, (h) M) (A) Uni 6 09 DIESOO Ann dovremo avere (IIIa) = (AA) (4A) (AA)) (AA): + (4A) (AA)? |... + 3} (AAm-1) (AA) + AAn= (!) Memorie della Società Italiana delle Scienze (detta dei XL), ser. III, tomo XIl. (*) Preliminari, $ 6. — 524 — Ora, riducendo le sostituzioni AAo, 4A, AAm, AA, alla forma nor- male (*) potremo scrivere TIR ì ) ove A) Co 0 ,0 (0) oe DM 0 (0) hyg 9 “hg 9 go oso Rn,g ao (2) (1) 0 hg ? hg * hg Mese (%9) Xg71) (XAI72) (1) ng? %n,g > ®n,g Sig] (1 a, 0 ,0 RE) (2) (05) do 0a ,0 DIRO, R = Ù g (3) (2) (1) bi, 3%, STO 1 =—2 1 ok Ò o Ù 9 a ) SICCO at ) g g g mentre mtbat + 20=%, e T è una sostituzione a determinante diverso da zero. Ne segue (7) Ro,g R7° + R1,g R77 + Roy Re * 4. | Rmag Ro + Rmg= 0. (gi=1 DO rnp)L Potremo dunque prendere «© eguale ad una qualunque delle radici della equazione algebrica di grado wm (= elia palzani palati. + alage + ate =0 Ottenuto @®, i valori di «2? , aj”, ... o%9, tali che la (7) sia soddisfatta, si calcoleranno risolvendo successive equazioni lineari. Le diverse sostituzioni ZA, e quindi le diverse A, che verificano la (III) si avranno dunque mediante la risoluzione di equazioni algebriche (8) di (1) Sui fondamenti della teoria delle equazioni differenziali lineari. Parte prima. Memorie della Società Italiana delle Scienze (detta dei XL), ser. III, vol. VI, Prelimi- nari, $ 2. Vedi anche Parte seconda (prec. citata), Preliminari, $ 6. — 529 — grado m e di equazioni lineari, e a seconda delle combinazioni delle varie radici delle equazioni (8) si otterranno altrettante soluzioni. Ad ogni sostituzione A che verifica la (IIl,) corrisponderà una fun- zione F che soddisfa l'equazione integrale (III). 6. Sia ora (x,y) una funzione qualunque permutabile di 2* specie colla (II). Poniamo = ff 10) 910) fd, €119 0120 Ein pie €21 3 €22) «00 C27n, Eni ’ En2 1000 Enn In virtù delle permutabilità avremo fe, PERO =f@ A PAOLA quindi il J Pn(x) (4) da dy { P( (x , ta) DEI Dist fi(8) Ps(Y) dé = = SS 00) e) drdy (E) ZIZ ba fia) 91 (0) E, vale a dire ZZ, by | [02,9 90) (0) de dî (9 0) Poca. d'onde (9) EB4= ABE. Scriviamo (x,y) = ZnTn Mar fn(®) Pr) + O(2, y) colla condizione 1 1 fol (x,y (2) f.(9) de dy=0. (r,s=1,2,...n) Posto \ Mir, Mz 3 0 Man M Mary Mazq ce Mon Moi ’ Mn 9 DO) Man — 526 — sarà E= AMA. Quindi, in virtù della (9), (AM) (4B)=(4B) (AM), onde la funzione 3,3% Mux fn(®) 4r(Y) sarà permutabile colla (II) e perciò anche © sarà permutabile colla (II), cioè sl 02,5) 3 bf) fi PO Moltiplicando per /x(y) dy e integrando fra 0 e 1 si avrà Sh) d {0 sE) Zi X; Dis fi (€) Ps(y) dé n bf) ff ENIT, ovvero DX bis da f OG ,5) fp) de=0. (€=1,2,..0) Ne segue, supposto il determinante della sostituzione B_4 diverso da zero, (10) fow.ni@4=o. 2 2008) In modo perfettamente analogo si ha (10) Solo pe) = 0). (E) Ora la funzione più generale che soddisfa. le (10) e (10") è (*) a) 0,)= As) Lig) f A, 9 (0 Tu fi) f LE) PE 4-31 3a fa) 900) LZ; nto f' (208, PO MAE di (*) Cfr. Lauricella, Sopra alcune equazioni integrali. Rend. Accad. Lincei, Seduta 7 giugno 1908. — 527 — ove \ Mii s Mia, e Min | Mar > Mao se Mori — 4 Mn Mna 3 Unn e (x,y) è una funzione arbitraria. Prendendo dunque la funzione più ge- nerale della forma (I) permutabile di 2 specie con (II), ottenuta colla regola delle sostituzioni permutabili, e aggiungendovi la (11) si otterrà la funzione più generale P(x,y) permutabile con (II). 7. Ritornando alla equazione integrale (III) di grado m, osserviamo che, se alla soluzione F, avente la forma (I), aggiungiamo la funzione ® otterremo sempre, in virtù delle relazioni (10) e (10’), una funzione che sod- disfa l'equazione integrale stessa, ed avremo così la funzione più generale permutabile con la (II) che vi soddisfa. 8. Se prendiamo fi(2) = gpi() (Ci) e supponiamo che queste funzioni siano normalizzate, sarà 4="1 e De) =, X. bis f(0) fs), F(®,9) di DI: dis fi(®) fs(Y) . Quando le funzioni /,,/:,..-/, fanno parte di un sistema normalizzato fa, f2, fs, (essendo N >w) otterremo delle funzioni ®© che verificano le (10) e (10’) prendendo N N O=);D.dsfi(2) fs(9), n+1 nEI ove le g;s sono costanti arbitrarie. È facile estendere il resultato al caso N=c. 9. Mi sono permesso di presentare le precedenti osservazioni in occa- sione della pubblicazione dei resultati eleganti e di notevole interesse do- vuti al prof. Sinigaglia. Mi sembra che, ponendo in luce il collegamento della questione delle funzioni permutabili di 22 specie con quella della permutabilità delle sosti- tuzioni, si riconosca la vera natura del problema e si possa penetrare nella sua intima essenza. Nel tempo stesso possono così anche ottenersi varie estensioni e delle applicazioni del problema medesimo come abbiamo veduto nel $ 5. Vi è poi da osservare che i metodi che servono per le funzioni permu- tabili di 12 specie sono diversi da questo applicabili alle funzioni permutabili di 2 specie. — 528 — Matematica. — Sulla espressione del resto in una opera zione funzionale usata da Lord Rayleigh. Nota del Socio T. LEVvI- CIVITA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Matematica. — Sulla risoluzione dell'equazione integrale di 1° specie. Nota del Corrisp. G. LAURICELLA. In una Nota, presentata all'Accademia nella seduta del 7 giugno 1908 (' ), ho introdotto, per lo studio e per la risoluzione dell'equazione integrale di 12 specie a limiti costanti, la considerazione delle funzioni ortogonali di Schmidt, ed ho scritti, in termini noti, i coefficienti dello sviluppo della soluzione della equazione integrale medesima in serie di funzioni ortogonali, dimostrando ($ 4,, pag. 780) che se essa serie, moltiplicata per il nucleo, è integrabile termine a termine in tutto il campo, rappresenterà certamente una soluzione dell'equazione integrale data. Nella medesima Nota ed in un'altra del 6 settembre 1908 (?), ho date poi due condizioni necessarie ($ 3, pag. 780 della prima Nota; S 2, pag. 195 della seconda Nota) per l’esistenza di una soluzione di una equazione integrale di 1 specie. In seguito il Picard (*), usufruendo di un noto teorema di Riesz, ha dimostrato, per il caso di un nucleo chiuso, che queste condizioni, le quali si riducono allora ad una solamente, sono necessarie e sufficienti; e subito dopo io, gui- dato dall'idea di Picard, di usufruire cioè del teorema di Riesz, ho dimo- strato (4) che anche nel caso di un nucleo non chiuso, le due condizioni necessarie, trovate nelle precedenti mie Note, sono sufficienti. Qui mi propongo di dimostrare che, in virtù di un recente teorema di Weyl (3), quando è soddisfatta una delle due condizioni (quella comune a tutti i casi) di esistenza della soluzione dell’equazione integrale di 12 specie, (1) Sopra alcune equazioni integrali. Rendic. della R. Ace. dei Lincei, vol. XVII, serie 5°. (®) Sulle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate. Ibid. (@®) Quelques remarques sur les équations intégrales de première espèce, ecc. Comptes rendus, 14 juin 1909. (4) Sull’equazione integrale di 1° specie. Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, vol. XVIII, serie .5°. (5) Weber die Konvergenz von Reihen, die nach Orthogonalfunctionen forschreiten. Math. Annalen, Bd. LXVII, 1909. Cfr. M. Plancherel, Contribution a l'étude de la ré- presentation d'une function, ecc. Rend. del Circolo Mat. di Palermo, t. XXX. — 529 — il corrispondente sviluppo in serie di funzioni ortogonali, per un conveniente aggruppamento dei suoi termini, è convergente in tutto il campo, eccettuato al più un insieme di punti di misura nulla, ed ancora che questo sviluppo, così modificato, moltiplicato per una funzione sommabile (cioè integrabile nel senso di Lebesgue) insieme al suo quadrato, è integrabile termine a termine; sicchè, supposta soddisfatta anche l'altra delle due condizioni di esistenza, esso sviluppo rappresenterà sempre nel campo che si consi- dera (eccettuati al più î punti di un insieme di misura nulla) una solu- zione dell'equazione integrale data. In questo modo si ha una rappresen- tazione analitica della soluzione di un'equazione integrale di 1 specie, tutte le volte che essa soluzione esiste. L'indeterminazione dei valori di questa soluzione in un insieme di punti di misura nulla, dipende evidentemente dalla natura stessa del problema; anzi si possono fissare ad arbitrio in questi punti, quando si presentano, i valori della soluzione. La dimostrazione di questo teorema rappresenta nello stesso tempo una nuova dimostrazione della sufficienza delle condizioni di esistenza di una soluzione delle equazioni in- tegrali di 12 specie. È per questa ragione che nella presente Nota presup- pongo solamente la conoscenza del teorema di Weyl e della teoria delle funzioni ortogonali di Schmidt. È importante osservare che, se il nucleo dell’equazione integrale non ha discontinuità alcuna nel suo campo di variabilità, le corrispondenti fun- zioni ortogonali non avranno discontinuità; e quindi, poichè, in virtù del teorema di Weyl, la serie che rappresenta la soluzione, modificata nel modo anzidetto, è equiconvergente in qualunque campo che escluda i punti di indeterminazione (i quali formano, come si è detto, un insieme di misura nulla) con segmenti che li contengano nel loro interno (convergente unifor- memente în generale), ne segue che le discontinuità della soluzione della equazione integrale potranno presentarsi al più nei punti di questo insieme di misura nulla; per modo che essa soluzione sarà certamente integrabile nel senso di Riemann; e quindi i risultati stessi devono potersi dimostrare senza ricorrere al concetto di integrale di Lebesgue. La medesima osserva- zione può farsi nel caso in cui il nucleo ha nel suo campo di variabilità un numero finito di punti e di linee di discontinuità; e non è escluso che essa possa ripetersi in casi nei quali il nucleo, pur avendo un numero infi- nito di punti e di linee di discontinuità, sia integrabile nel senso di Rie- mann (1). In fine della presente Nota dò poi un metodo per ricondurre la risolu- zione di un'equazione integrale di 1 specie a nucleo non simmetrico, alla risoluzione di un'equazione pure di 1? specie a nucleo simmetrico. (!) Tale è ad es. il caso di una funzione che abbia un numero infinito di rette di discontinuità parallele ad uno dei due assi, supposto che i punti di intersezione di queste rette con l’altro asse formino un insieme di misura nulla. RenpiconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 70 [D) Eco) — 1. Il teorema di Weyl si può così enunciare: Se f1(5) ’ f=2(8) dies è una serie di funzioni sommabili (integrabili nel senso di Lebesgue) nel campo ad, insieme ai loro quadrati, la quale sia convergente in media, la quale cioè soddisfaccia alla condizione: ; 7 db lim | }fa(9)— /(9 ds=0; pa a indicando con sm il limite superiore dei valori dell'espressione: b J Vfm(8) — fim+p(8){? d8 (p=1 AI) ed estraendo dalla serie delle e» una qualsiasi serie convergente : Eni 2 Eng oli CR) si avrà che la corrispondente serie di funzioni: (1) faro fn se convergerà, secondo una locuzione introdotta da Weyl stesso, uniformemente in generale nel campo ab, ossia, indicando con d una quantità positiva ad arbitrio, la serie (1) convergerà in ugual grado in un campo Ba, facente parte di ab, e di cui la misura non è inferiore a 9 —a—d, verso una funzione /(s). La funzione /(s) sarà così determinata nel campo ab, astra- zione fatta al più per i punti di un insieme di misura nulla; ed ancora la funzione /(s) sarà sommabile insieme al suo quadrato e si avrà: (2) lim a hf ds=0. p=% a Importa aggiungere che, in virtù della (2), qualunque altra serie con- vergente uniformemente in generale nel campo ab, che si può trarre dalla serie data /1(s), fe2(8); -. convergerà sempre verso la funzione /(s); e con- vergerà pure verso la funzione /(s) in un certo campo «8, contenuto in ab, qualunque serie convergente in @$, che si può trarre dalla data. 2. Sia K(s,/) una funzione sommabile insieme al suo quadrato nel campo azs - sarà, perg >P, b b( 9g. 2 q TRA i 3/p(8) — fa(8){? ds =f DI dy ky 29) ds= DI dà. ; e quindi, in virtù dell'ipotesi fatta, b lim Mo(8) — fe(8)t? ds = 0. p.À=%0 a Si avrà inoltre: Scelto l'insieme n, ,€n,,.. in modo che, come si può sempre fare, la serie En dii Eng H st sia convergente, si consideri la funzione /(s) verso la quale, in virtù del teorema di Weyl, converge uniformemente nel campo Ba (d essendo data ad arbitrio) la corrispondente serie di funzioni: fn:(8) ’ 3) DIDO (*) Cfr. Lanricella, Sopra gli sviluppi in serie di funzioni ortogonali. Rendiconti del Circolo Mat. di Palermo, t. XXIX, 1910. (*) Questa condizione necessaria è contenuta, come dimostrai al $ 3 (pag. 78) della terza delle mie citate Note, nella condizione necessaria stabilita al $ 3, (pag. 780) della mia prima Nota. — 533 — Sì ha evidentemente per un indice p qualsiasi: RIOT EILd=? da VE) — {de + + AUTO tt +2 f 0-94; e poichè il 3° membro della disuguaglianza non dipende da d, avremo che esiste ed è certamente finito il lim f 3/O—K(, (Md (1/90 45; e quindi ancora sarà determinato e finito l'integrale: iS ror+ior 0x9 ]a=f09/04. Dalla disuguaglianza: [) 2 ‘6 b RICER EI ETTI NATA e dalla (2) risulta poi: Lim i) oo J (E e quindi, essendo: b P [) p f E(0,9) (6) ds= X,4, a f El, 9) Uds= Xda 9), risulterà : (7) SE9/0d= S.9()=9(). Importa notare che, in virtù della disuguaglianza : Da d, 910) =( fEG9/0 da) = fr, 9. Snora= b lo) Fo) | Reds. ad = ( E(t, 9) as. S° dd, — 584 — la serie al secondo membro della (7) è equiconvergente in tutto il campo ab; sicchè potremo scrivere per un indice w qualsiasi: b Fo) "db D'aogou= a | pl dt a 1 «a e così si avrà: fol jg(i) — gi(d)4 di—i0E qualunque sia l'indice w. Questo significa (*) che la funzione 0(s)= g(s) — — g9;(s) è soluzione dell'equazione (5). Ora si ha per una soluzione 6;(s) qualsiasi dell'equazione (5): b (a) ) i 0;(1) gi) de= >, di Î p.(6) d;() die= 0; a 1 a per cui si avrà in particolare : Seo g() de=0. a Ciò premesso, supponiamo che la funzione g(s) soddisfaccia alla con- dizione (6). Si avrà: b il 6(t).g(t) dt=0; e quindi: S'ora= fe -a0ta=o. a Si avrà dunque in tutto il campo ad, escluso al più un insieme di punti di misura nulla: fr9/0d=90. 4. Nel caso in cui il nucleo K(s,é) non è chiuso, se x(t) è la funzione più generale del campo ab, per la quale la serie: - ‘b Vul) fx) dele) de è integrabile termine a termine nel campo ab, la soluzione più generale dell'equazione : fk6.0 ol) di —0 (1) Schmidt, loc. cit., pag. 464. — 535 — sarà data da (1): oO= 20) - Yu Wal) | VO) dr; e quindi la soluzione più generale dell'equazione (8) sarà data da: hs) = f(8) + (3). Osserviamo che si può scrivere: 1) = fm) 44/2 (9) — fa + ft ossia : ws(8) + DI dy Ayyy(8) + n+1 (8) MEA si Riepilogando si ha così il seguente teorema: Condizione necessaria è sufficiente affinchè l'equazione integrale (3) ammetta una soluzione somma- bile insieme al suo quadrato nel campo ab, è che la funzione data 9(5) sia tale che la serie D_, 8 dî converga e che inoltre, nel caso in cui il nucleo K(s,t) non è chiuso, essa g(s) soddisfaccia alla condizione (6). Tutte le volte che queste condizioni sono soddisfatte, i termini della serie DE dyÀy Wy(s) sÎ possono aggruppare ordinatamente in modo che essa ri- sulti convergente uniformemente in generale in tutto il campo ab, e la somma f(s) di questa serie, così modificata, sarà una soluzione dell’equa- zione (3). La soluzione più generale di questa equazione st otterrà aggiun- gendo alla f(s) l'espressione g(5). 5. Osserviamo che la serie D_, dy A wy(s) în tutti quei punti nei quali è convergente, rappresenta sempre la soluzione f(s) dell'equazione (3). Infatti ciò è evidente se il punto s è di quelli nei quali la serie (8) è con- vergente uniformemente in generale, ossia se il punto s è di quelli nei quali la /(s) è determinata. Se il punto s fa parte del gruppo di misura nulla, nel quale la /(s) non è determinata, basterà prendere per valore di f(8) in tale punto il valore della somma >, dy 4y wy(s). 6. Dimostriamo ora che l'equazione integrale (8) a nucleo non simme- rico equivale sempre all’equazione integrale a nucleo simmetrico: (3) gi(7) = (6.0 h(t) de, dove: b b (9) Yi(7) =f estro) K(r, t) = (7) (SASE (*) Cfr. Lauricella, la prima delle citate Note, $ 6, pag. 482. — 536 — Infatti, moltiplicando i membri della (3) per K(s,7) ed integrando a tutto il campo ad, si ha ovviamente la (3); ossia se h(t) è una soluzione dell'equazione (8), soddisferà all'equazione (3). Viceversa sia 7(#) una soluzione dell'equazione (3). Tenendo conto delle (9), si avrà: See Mo) 100 -—fx6 ,0) hd) di ds=0; e perciò l’espressione: °b (3) =) — J K(s, 6) h(t) di sarà una soluzione dell'equazione (5). Se il nucleo K(s,#) è chiuso, dovrà quindi aversi: (10) cm JI °e(s,0) N00) di in tutto il campo ad, esclusi al più i punti di un insieme di misura nulla. Se il nucleo non è chiuso, si rammenti che la 9(s) allora deve soddi- sfare alle condizioni (6); per cui si avrà in particolare : "Db 1) g(s).0(s) ds= 0; e poichè: IRC ds fK(6,0) Ma) di= f 0 di (K6,)-00 see risulterà: fuor ds = (%) loo— fl OLIO) a 0; e quindi anche nel caso in cui il nucleo non è chiuso dovrà valere la (10). — 597 — Matematica. — Sulle superficie e varietà algebriche irre- golari di genere geometrico nullo. Nota del Corrispondente FRANCE- SCO SEVERI. Lo studio esauriente delle superficie algebriche irregolari di genere geo- metrico zero, fu già fatto da Enriques fin dal 1905 (1) partendo dal legame, allora da poco scoperto (*), tra l'irregolarità di una superficie ed il numero de' suoi integrali semplici di 1% specie. La proprietà fondamentale da cui occorre muovere per quello studio, è data dall'esistenza di un fascio irrazio- nale di curve, sopra una superficie irregolare F di genere zero (8). In questa Nota mi propongo di pervenire a tale proprietà per una via geometrica, che è applicabile anche alle varietà superiori (nn. 6, 7, 8), mentre il procedimento finora seguìto per le superficie, non sembra facilmente esten- dibile. La dimostrazione cui alludo, oltre ad esser concettualmente assai sem- plice, parmi anche più appropriata alla natura del risultato da stabilirsi. Posso qui riassumerne in brevi parole il concetto informativo. Sulla superficie F_di genere p,=0 e d’irregolarità = 1, si assuma un sistema algebrico ® c0!, di curve C non equivalenti tra loro: v sia l’in- dice del sistema, e D la curva composta colle v curve C uscenti da un punto x di F. Le co? curve D, che si ottengono al variare di 4, non possono essere a due a due equivalenti, perchè lo sarebbero le C. Restano quindi, a priori, possibili due ipotesi: 1) Le D si distribuiscono in gruppi di un numero finito 2(= 1) di curve equivalenti. 2) Esse distribuisconsi invece in una semplice infinità di sistemi 00, ciascuno dei quali è costituito da curve D equivalenti. Orbene, si dimostra che l’ipotesi 1) è da scartarsi. Ciò è evidente senz'altro, quando g=1, perchè i sistemi lineari |D|, che appartengono ad un medesimo sistema continuo, non possono essere più che 00 tra loro distinti. Nel caso g >1, se fosse possibile l'ipotesi 1), la superficie F o più generalmente una sua involuzione I, — i cui gruppi sa- rebbero dati dai punti x di un medesimo sistema di curve D equivalenti — (') Enriques, Sulle superficie algebriche di genere geometrico zero (Rendiconti del Circolo matematico di Palermo, t. XX, 1905). (*) Le citazioni relative si trovano ad es. nell’articolo di Castelnuovo-Enriques alla fine del t. II della ZAéorie des fonctions algébrigues de deux variables indépendantes di Picard et Simart (Paris, Gauthier-Villars, 1906), pag. 494. (°) L'esistenza di un tal fascio era già stata dimostrata da Castelnuovo, sotto l’ipo- tesi, rivelatasi poi superflua, che F possedesse integrali semplici di 1 specie. ReEnDpICONTI. 1911, Vol. XX. 1° Sem. 71 — 538 — risulterebbe birazionalmente identica ad una superficie della varietà di Jacobi V,, rappresentante i gruppi di p elementi dell'ente co° 2, di genere p; mentre invece sulla V, non possono esistere superficie di genere zero. In ogni caso resta dunque possibile soltanto l'ipotesi 2). I punti del sistema H formato da 0! curve D equivalenti, riempiono una curva alge- brica M, la quale, variando H, descrive sulla F' il fascio irrazionale di cui volevasi provare l’esistenza. 1. Esistenza d'un fascio irrazionale sulle superficie d’irregolarità q="1. Consideriamo anzitutto una superficie F d’irregolarità 1 (e di genere geometrico qualunque). Si dimostra assai facilmente che la F contiene un fascio ellittico di curve. Si assuma infatti su F un sistema algebrico 00? X di curve C non equi- valenti tra loro: ciò è sempre possibile appunto perchè F è irregolare (*). I gruppi di v curve C uscenti dai punti della superficie, dànno luogo ad un sistema X' di 00? curve D, le quali non possono essere tutte equivalenti tra loro, perchè lo sarebbero anche le C (*). Nè può darsi che in 3" vi sia soltanto un numero finito (zero incluso) di curve equivalenti ad una gene- rica D, perchè sì otterrebbe in tal caso su F un sistema continuo formato da ©? sistemi lineari distinti. Ne deriva che, data una generica D, vi sono in X' 01, e soltanto c0!, curve a quelle equivalenti. I punti di F da cui escono i gruppi di curve C formanti queste co ‘ curve D equivalenti, riempiono una curva M , la quale, variando la generica D, da cui siamo partiti, varia su F descrivendo un fascio, giacchè è ben chiaro che per ogni punto di F non può passare che una M. Poichè la serie algebrica segata sopra una data M dalle 00! curve D ad essa relative, è formata da gruppi equivalenti, lo stesso accadrà della serie segata su quella M dalle C (*). Se pertanto il fascio delle M fosse lineare, dal momento che le C segnano sulle sue curve gruppi equivalenti, ne seguirebbe l'equivalenza di tutte le CUS): (1) Enriques, Sulla proprietà caratteristica delle superficie algebriche irregolari (Rendiconti della R. Accademia delle Scienze di Bologna, 1904). Vedi pure Severi, Intorno alla costruzione dei sistemi completi non lineari che appartengono ad una superficie irregolare (Rendiconti del Circolo matematico di Palermo, 1905). (®) Severi, /l teorema d'Abel sulle superficie algebriche (Annali di Matematica, 1905), n. 9. Il teorema I di questa Memoria, sopra cui si fonda la proposizione applicata nel testo, fu poi dimostrato geometricamente da Castelnuovo (Rendiconti dei Lincei, 1906). (*) Severi, /l teorema d’Abel, ecc. teorema I; Castelnuovo (Rendiconti dei Lincei, 1906). 3 (4) Severi, /l teorema d’Abel, ecc. n. 6. Il criterio d’equivalenza applicato è ivi di- mostrato per via geometrica. — 539 — Dunque il fascio delle M è di genere >0 e quindi, dato il valore dell'irregolarità di F, di genere 1 (1). 2. Esistenza d'un fascio irrazionale sopra le superficie di genere geo- metrico zero e d'irregolarità q>1. Abbiasi ora una superficie F di ge- nere gg= 0 e d'irregolarità g > 1. Assumasi ancora su di essa un sistema Z co!, d'indice v>1, di curve C non equivalenti. Si può sempre supporre che il genere p di >, come ente co! sia >1. Ciò equivale ad affermare che sulla varietà V, di Picard inerente ad F — varietà i cui punti rap- presentano gli 00 sistemi lineari contenuti in un generico sistema continuo completo di curve tracciate su F — si possono costruire curve di genere > 1. Per convincersene basta p. e. considerare le curve caratteristiche del sistema lineare formato dalle sezioni iperpiane di V, o di un multiplo ab- bastanza elevato di questo sistema (curve comuni a g —1 varietà del si- stema). Aggiungeremo inoltre l'ipotesi, non restrittiva, che il sistema non sia composto con un involuzione. Ciò posto, si considerino le co? curve D formate coi gruppi di v curve C uscenti dai punti di F. Per brevità, nel seguito, un punto di F lo chia- meremo «il punto v-plo » della D composta colle v curve C che escono da quello. Dimostreremo che, entro all'ente X, le serie lineari individuate dai gruppi D, non possono essere o? tra loro distinte. Potremo allora concludere che ogni gruppo D, entro all'ente Y, ne ha c0!, e soltanto c0!, equivalenti, perchè se i gruppi D, entro 3, fos- sero tutti equivalenti tra loro lo stesso accadrebbe delle curve C su F (?). 8. Se le serie lineari individuate entro X dai gruppi D, sono co ?, distinte tra loro, vuol dire che ogni gruppo D è equivalente ad 7 —1(= 0) gruppi analoghi, e su F si ha un'involuzione d'ordine zx (= 1) i cui gruppi sono formati dai punti »v-pli di quelle x curve D. Ma, anche qualora fosse x >1, ogni superficie D che rappresentasse birazionalmente l’involuzione suddetta, avrebbe evidentemente il genere geo- metrico nullo (*). Or io dico che la totalità delle co ? serie lineari d'ordine », individuate in X dalle D, si può riferire birazionalmente ad una varietà co ? di gruppi di p elementi dell'ente 2, talchè ne seguirà che ® è birazional- mente identica ad una superficie della varietà di Jacobi V,, imagine dei gruppi di p elementi dell'ente X, o meglio delle 00? serie lineari distinte, individuate da questi gruppi (*). (1) Severi, Osservazioni sui sistemi continui di curve appartenenti ad una super- ficie algebrica (Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, 1904). Vedi alla fine del n. 6. (2) Severi, Il teorema d’Abel, ecc. n. 9, teorema è). Questo teorema è dimostrato geometricamente, (°) Basta ricordare come si trasformano per una corrispondenza (1,7) le curve ca- noniche d’una superficie (Enriques-Severi). (*) Lo studio geometrico d’una tal varietà trovasi in Castelnuovo (Rendiconti del — 540 — Introduciamo per brevità una curva S, i cui punti rappresentino le curvo di Y, e indichiamo con G il gruppo di v punti rappresentante una D fissata genericamente, con G' il gruppo omologo d'una D variabile, e in- fine con H un gruppo non speciale di p punti della S. Poichè la serie li- neare | G-+ H), d'ordine v + p, è non speciale, esisterà, per ogni posizione di G', la serie |G-+-H— G'| e si ridurrà generalmente ad un gruppo 707 speciale H' di p punti, perchè questa circostanza si verifica in particolare quando G' coincide con G.. La varietà delle serie \G'| vien così riferita bi- razionalmente alla varietà dei gruppi H' o meglio delle serie |H'|. 4. Resta quindi stabilito che la superficie ®, di genere geometrico nullo, è birazionalmente identica ad una superficie della varietà di Jacobi V,. priva di varietà eccezionali. Trasformando @ mediante il gruppo continuo co? delle trasformazioni birazionali di 2 specie, che appartengono a V, (!), data la transitività del gruppo, il sistema algebrico T costituito dalle trasformate di @, invaderà tutta la V,, e sarà quindi almeno di dimensione p — 2 . Ma ciò è assurdo, perchè la V, risulterebbe allora di genere geome- trico nullo (?), mentre invece il suo genere geometrico vale 1 (n. 5). Si conclude pertanto che, dato un gruppo D, entro all'ente 2, ve ne sono co! altri, e soltanto 00), ad esso equivalenti. I punti v-pli delle re- lative curve D riempiono una curva algebrica M e, al variare della D con- siderata, M descrive un fascio T (per ogni punto di F' passa una sola M). Poichè la corrispondenza tra una M e l'ente 2, ove sì chiamino omo- loghi un punto di M e una curva C quando si appartengano, è a valenza zero nel passaggio da M a X, sarà a valenza zero anche nel senso inverso (*), il che significa che le C segano sopra ogni M gruppi equivalenti. Consideriamo ora il sistema continuo completo }C} — costituito da co? sistemi lineari distinti — cui appartiene Y. Poichè X si può, senza restri- zione, supporre variabile entro }C{ in tal guisa che risultino assegnabili ad arbitrio in }C} due delle curve di X, e poichè d'altronde, variando X, il fascio TY, che è già un sistema completo (di grado zero), non può variare, ne consegue che due qualunque C segano sopra ogni M gruppi equivalenti, talchè, se esse non sono equivalenti, differiscono per curve del fascio (4). Trattandosi di curve dello stesso ordine, una di quelle C si otterrà dunque dall'altra aggiungendo e togliendo due gruppi di un egual numero di curve di T. Il sistema }C} conterrà pertanto altrettanti sistemi lineari distinti, R. Istituto lombardo, 1892). Prendendo come elementi di Vp le serie lineari gp dell’ente 2, si ottiene una Vp priva di varietà eccezionali. (*) Vedi Castelnuovo, loc. cit. (3) Severi, Alcune relazioni di equivalenza tra gruppi di punti d'una curva alge: brica 0 tra curve di una superficie (Atti del R. Istituto veneto, 1911), n. 7, oss. 4°. (*) Severi, Il teorema d’Abel, ecc. teorema II (4) Ibidem, n. 6. — 541 — quante serie lineari di dato ordine (= p) son contenute in Y°, e quindi sarà p=g. Concludendo: Ogni superficie di genere geometrico nullo e d’irregolarità q = contiene un fascio irrazionale di genere q, di curve algebriche (e o. Digressione sul genere geometrico della varietà di Jacobi. — Nel n. precedente abbiamo dovuto far uso del fatto che una varietà di Jacobi ha il genere 1. Questa proprietà si stabilisce agevolmente per via trascendente (E ma, dato che qui sì tratta di esporre una dimostrazione geometrica dell’esi- stenza di un fascio irrazionale sopra una superficie irregolare di genere zero, occorrerà che cerchiamo di giungere alla proprietà invocata in modo conforme al nostro scopo. Dimostreremo che sulla V, delle g-ple di punti di una curva C di ge- nere p (9 =p), la varietà M,; delle g-ple tolte dai singoli gruppi di una 9% canonica, è una varietà canonica (*). Poichè il teorema è vero per g=1, lo supporremo dimostrato per le varietà dei gruppi di g—1 punti e lo stabiliremo per le varietà VEE La V,y contiene co! varietà W,_,, irriducibili e birazionalmente iden- tiche, ognuna delle quali rappresenta le g-ple con un punto fisso. Cerchiamo di caratterizzare l'intersezione di una W,._, relativa al punto P, colla M,-, di cui si parla nell’enunciato. Nella corrispondenza tra le (7 —1)-ple di C e i punti di W, alle (1 —1)-ple tratte dalla 99% residua del punto P rispetto alla fissata Qgraro risponde una varietà, la quale, addizionata a quella che rappresenta le (g—1)-ple aventi il punto fisso P, pel teorema ammesso, dà una varietà canonica di W. E invero, quando una 9ips si muove tendendo alla serie 934 P, la varietà delle (9 — 1)-ple tratte dalla prima serie, tende alla varietà delle (7 —1)-ple che impongono 9 — 2 condizioni ai gruppi della serie limite, la qual varietà è appunto costituita dalle (9g — 1)-ple tolte dalla 93 e da quelle che hanno il punto fisso P. E poichè queste ultime sono rappresentate dai punti comuni alla War fissata e alla sua varietà infinitamente vicina, la M,_, viene a segare su Wo, una varietà residua della varietà caratteristica rispetto al sistema ca- nonico. Ne segue che M,, è una varietà canonica di Ve: In particolare per p = q sì ha come varietà canonica la M,-, delle p-ple speciali, la quale si riduce addirittura ad un punto (semplice) di V,, (*) Che poi queste curve sieno razionali quando 9 > 1, è dimostrato per via geo- metrica in Enriques (Annales de la Faculté des Sciences de Toulouse, 2° série, t. III, pag. 88). (*) Severi, Sulle superficie che rappresentano le coppie di punti di una curva algebrica (Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, 1903) n. 9. (3) Ibidem, n. 10. (*) Severi, Alcune relazioni di equivalenza, ecc. n, 7. — 542 — se, invece di assumere i punti della varietà di Jacobi come immagini delle p-ple, si assumono come immagini delle serie lineari d'ordine p apparte- nenti a C. Sicchè, insomma, sulla V, priva di varietà eccezionali, il sistema cano- nico è d'ordine zero, e quindi il genere geometrico di V, è uguale ad 1. 6. Estensione delle cose precedenti alle varietà. Esame delle Va che hanno l'irregolarità superficiale g co! di varietà V,_, non equivalenti. Gli co* gruppi di v varietà V,_, uscenti dai punti di V,, danno luogo a varietà riducibili W, non equivalenti tra loro, perchè altrimenti sarebbero equivalenti i gruppi segati da W sopra una curva qualunque di V, e quindi anche j gruppi segati sulla stessa curva dalle Vx.; (*), il che porterebbe all'equivalenza di queste ultime varietà (*). Ne deriva che, data una W, ve ne sono 00* (1 zik. — Scelto su V, un sistema X co! di varietà Vr, e considerate le varietà W composte colle v V,_, che escono dai punti di Vx, si prova, come nel n. precedente, che entro V, esiste un sistema To, d'indice 1 e d’ irrego- larità bidimensionale 7, di varietà M; (1=kT—-i. Sia infatti 47<%—< e indichiamo con V,.; una varietà i cui punti rap- presentino birazionalmente le M; del sistema T°. Pel teorema del n. 6, sulla Vx-i esisterà un sistema I°, c0 Eur diimdice iL edi irregolarità 9, costituito h) Ji se — 544 — da varietà M;, e nella corrispondenza tra Vi; @ Vr, al sistema T' rispon- derà un sistema T,; 077%, d'indice 1 e d irregolarità g, costituito da varietà M;,; composte col sistema TY. Se non è ancora q=k—it—-i, si potrà similmente proseguire, finchè non si pervenga ad un sistema d'in- dice 1 e di dimensione non superiore a 9 - 8. Proprietà degl’integrali semplici di 1° specie appartenenti ad una V, di genere zero. — La nota dimostrazione dell’esistenza di un fascio ir- razionale sopra una superficie F di genere zero, fa capo in sostanza all’ iden- tità di Noether, che lega ogni coppia d' integrali semplici di 1 specie ad un integrale doppio di 1° specie, sopra una qualunque superficie (*). Non sembra facile estendere alle varietà la relazione di Noether, tanto più perchè, a quanto pare, non una, ma k—1 identità debbono ottenersi sopra una V,, in corrispondenza ad altrettanti legami fra gl integrali som- plici e gl'integrali doppî, tripli, ..., 4-pli di 1? specie. Comunque, il risultato del n. precedente ci dà modo di stabilir subito l'estensione di quel fatto che sulle superficie di genere zero consegue dalla identità di Noether, e cioè: Data una Vy di genere zero € l'irregolarità superficiale q > 0, esiste un intero i (1 =î=k—1), tale che k—i-+1 integrali semplici di 1° specie di Vx son sempre funzionalmente dipendenti, mentre non lo sono in generale un numero inferiore di essi. Sia infatti I° il sistema co! ((=%— 0), d’irregolarità bidimensionale 9, costituito da varietà M; appartenenti a Vr. Per l'osservazione con cui si chiude il n. precedente, si potrà sempre supporre che sia dg =. Fissiamo il modello proiettivo di Vy nello spazio Sx+1 (Z1 Ca» LIVRE in tal guisa che Vx sarà un’ ipersuperficie f(&1 02) 0009 Cei) — 0) di questo spazio; e sia inoltre (È, , E, 10009 E141) 0) l'equazione di una V, glo: SAM Eu) — i cui punti rappre- sentino birazionalmente le M; di 1°. Essendo T d’indice 1, le & risulteranno funzioni razionali del punto « variabile su Vi, e gl integrali semplici di 12 specie di Vx, dal momento che Vx e V, hanno la stessa irregolarità superficiale g, proverranno tutti dagl integrali semplici di 1% specie di V,, mediante la sostituzione razionale : È, == E (1 3C2 30003 Cei) DICONO) È, = E(%, +L2 4 c00 9 XCx+1) . (*) Vedi l’osservazione di Castelnuovo alla fine di una Memoria di Enriques pubblicata negli Annales de la Faculté des Sciences de Toulouse, 2° série, t. III. — 545 — Presi pertanto / 4 1 integrali linearmente indipendenti di V, (con che si viene implicitamente a supporre che sia g>{): fi A, (Gli el la matrice jacobiana dei corrispondenti integrali di V,, considerati come funzioni delle variabili indipendenti x, ,..., xx, sarà L VALSE DI SEI SI VA rs Ta r=l Pesi La r=l AK ‘Eli E ove, beninteso, le derivate si calcolino tenendo conto che xx.: è funzione algebrica di %,,%2,... xk. Consideriamo un determinante d'ordine / +1 estratto da questa ma- trice, p. es.: dé, dé, TI Ni 19r19;910n9 À rs va: dxs z darsi (GIRA Esso uguaglia il prodotto delle dne matrici: | dé, dé» dii CETRA DIR [Area (SEIAROZERIE e poichè in queste il numero delle orizzontali supera il numero delle ver- ticali, il determinante prodotto risulterà identicamente nullo. Ciò vale per ogni determinante di ordine massimo estratto dalla matrice funzionale di {4-1 integrali qualunque di V,; dunque gl'integrali stessi son funzional- mente dipendenti. Ci resta da considerare l'ipotesi g=/. Se la varietà V, non ha i suoi integrali di 1* specie funzionalmente distinti, si conclude facilmente, come sopra, che +10 L C,H;.N— C0 Anche i tentativi infruttuosi eseguiti recentemente da I. Scheiber (!) e diretti a scindere questi eteri in forme attive, che sarebbero dovute alla asim- metria dell'atomo di carbonio unito all’azoto ed all’ossigeno, parlano in fa- vore della nostra ipotesi. Se le nostre vedute erano giuste, era da aspettarsi che questi N-eteri anche in altre reazioni dovevano comportarsi in modo analogo alle basi di Schiff; e noi abbiamo iniziato le nostre ricerche studiando il contegno di queste sostanze rispetto al reattivo di Barbier-Grignard, in modo analogo a quanto il Busch (?) aveva fatto per i prodotti di condensazione delle aldeidi con le ammine. (') Berliner Berichte, XXXXIV, 761. (*) Berliner Berichte, XXXVII, 2691 e seguenti. | | il i | | | === — 548 — Le nostre esperienze ci hanno subito dimostrato che le due reazioni procedono nello stesso modo: infatti, impiegando bromuro di fenilmagnesio: CH, CH = N CHE 02 (Cs H;),. CH. NH. CsHs CITE SCHINOHE Fra (CH;):. CH.N(0H)CHs. | 0) La sola differenza risiede nel fatto che, in seguito all'addizione di un atomo di idrogeno all’azoto, l'ossigeno assume la forma ossidrilica. Durante l’azione del bromuro di fenilmagnesio, insieme con l’idrossilam- mina accennata si forma anche un prodotto che fonde a 214°, e che con- tiene due atomi di idrogeno in meno: come le nostre esperienze hanno di- mostrato, la sua formazione è dovuta ad una ossidazione determinata dalla presenza del reattivo di Barbier-Grignard. Infatti lo stesso prodotto, del quale, per la sua piccola solubilità nella maggior parte dei solventi, ancora non ci fu possibile determinare la grandezza molecolare, si forma anche dalla medesima idrossilammina per azione dell'ossido mercurico, ovvero per azione dell’aldeide benzoica, in presenza d’aria. Ciò evidentemente è dovuto ad un processo di autossidazione, e senza dubbio il reattivo di Barbier-Gri- gnard, per azione dell'ossigeno, fornisce un perossido, in modo analogo a quanto V. Meyer e Demuth (*) hanno trovato per il caso dello zincoetile. Anche il prodotto che fonde a 214 per ossidazione fornisce nettamente benzofenone e nitrosobenzolo; ridotto con mezzi appropriati, dà la base già descritta da Busch (?): (C.Hs):. CH.NH .C3Hs. In modo perfettamente analogo partendo dall'etere C,.H,.CH=N.CH..CsHs, } si perviene all'idrossilammina: (Cs H;): . CH — N (0H). CH». CH; la quale si comporta come quella precedentemente descritta. Continueremo lo studio di queste sostanze. (1) Berliner Berichte, XXIII, 394. Che il reattivo di Barbier-Grignard possa all’aria dar origine a perossidi, venne osservato da Wuyts, il quale ha dimostrato che mette in libertà iodio da ioduro di potassio, e che rende azzurri l’idrochinone e la difenilammina (Compt. Rend. de l’Accad, des sciences, 148, 930). (*) Berliner Berichte, XXXVII, 2691 e seguenti. — 549 — PARTE SPERIMENTALE. Azione dell'ioduro di etil-magnesio sull'etere Nfenilico della benzal- dossima. — Ad una molecola del prodotto N-fenil-benzaldossima, ben secco e finamente polverizzato, sospeso in molto etere, sì aggiunge, raffreddando con ghiaccio, una quantità equimolecolare di ioduro di magnesio-etile sciolto in etere, ed infine si fa bollire per un'ora circa. Dopo raffreddamento si ag- giungono alla soluzione eterea dei pezzetti di ghiaccio e, precipitata com- pletamente la magnesia, dell’acido solforico diluito fino a reazione nettamente acida al metilorange. Separato l'etere, per evaporazione rimane un olio giallo, che presto si rapprende in cristalli: questi, purificati dall'alcool, si presen- tano come prismetti incolori, splendenti, che fondono a 127° e per azione della luce si colorano in giallo: sono molto solubili in etere anche a freddo, poco in alcool. I. gr. 0,2394 di sostanza diedero gr. 0,6939 di CO» e gr. 0,1635 di H,0. II. gr. 0,2598 di sostanza diedero cc. 13,5 di azoto a 14° e 763 mm. In cento parti: Trovato Calcolato per C,; Hi NO re C 79,05 — 79,29 H 7,59 — 7,49 N — 6,20 6,16 Trattata con soluzione di permanganato potassico a caldo, dà nitroso- benzolo: con altri mezzi ossidanti, come l’acqua ossigenata e l’ossido di mer- curio, ottenemmo solamente, insieme con sostanza inalterata, un olio giallo che non ha cristallizzato. Azione del bromuro di magnesio-fenile sul medesimo etere N-fenilico della benzaldossima. — Su di una molecola del composto abbiamo fatto reagire una molecola ed un quarto di bromuro di magnesio-fenile, operando del resto in modo perfettamente analogo a quello già descritto. La sostanza, che si ottiene dalla soluzione eterea decantata da un piccolo residuo che ri- mane indisciolto, purificata dall'alcool, è molto simile nell'aspetto a quella ottenuta con ioduro di magnesio-etile: fonde a 127°: è pure molto solubile in etere, poco in alcool a freddo: ingiallisce assai più lentamente per azione della luce. I. gr. 0,1864 di sostanza diedero gr. 0,5653 di CO, e gr. 0,1053 di H?0. II. gr. 0,8055 di sostanza diedero cc. 13,4 di azoto a 18° e 768 mm. — 550 — In cento parti: Trovato Calcolato per Ci Hir NO i 0 C 82,71 — 82,91 E 6,27 — 6,18 N = 0,29 5,09 Dalla soluzione eterea del composto lasciandola a sè, e dall'alcool che ha servito a cristallizzarlo concentrando fortemente, si hanno pagliette giallo- chiare, rifrangenti, che, purificate dallo stesso solvente, fondono in un liquido bruno a 214°. Questo prodotto che si forma in piccola quantità, è quasi in- solubile in etere: poco solubile anche all'ebullizione in alcool e in benzolo. Nelle ultime preparazioni avemmo cura di raffreddare bene con ghiaccio il liquido etereo prima di separarlo dalla parte rimasta indisciolta ; ed in questa, dopo il solito trattamento con ghiaccio e successivamente con acido solforico diluito, insieme con poca sostanza di partenza inalterata, si trova una discreta quantità del composto giallo che fonde a 214°, mentre nella soluzione eterea decantata rimane il prodotto p. f. 127°, quasi puro. Il prodotto giallo (p. f. 214°), è assai stabile in presenza di permanga- nato potassico. Esso fornì i seguenti resultati analitici : I. gr. 0,1301 di sostanza dettero gr. 0,3970 di CO, e gr. 0,0672 di H;0. II. gr. 0,2787 di sostanza dettero cc. 11,9 di azoto a 8° e 773 mm. In cento parti: Trovato Calcolato per Cis His NO —_ —_--T_PT I II C 83,22 = 83,52 H 5,04 — 5,49 N — 5,27 5,12 Questi resultati, che corrispondono al una formula con due atomi di idrogeno in meno di quella del composto precedente (p. f. 127°), nonchè i rapporti genetici dei due prodotti, sono rispettivamente spiegati e dimostrati dalle esperienze seguenti. Ossidazione con ossido di mercurio del composto p. Oo — Grammi 0,60 di prodotto vennero sciolti in etere, e si aggiunse loro a poco a poco un ugual peso di ossido giallo di mercurio, preparato di fresco ed in finissima polvere, agitando di continuo. La soluzione ingiallì rapidamente, ed occorse tenerla raffreddata con acqua corrente perchè si scaldava notevolmente: si formarono presto dei minutis- simi cristalli gialli, la quantità dei quali aumentò col procedere dell’ossi- dazione. Dopo aver lasciato il tutto un poco 2 sè, la soluzione eterea venne — dbbl — separata per decantazione ma evaporando il solvente dette un ben piccolo residuo: la maggior parte del prodotto si trovava infatti mescolato al mer- curio ridotto, da cui venne separato lavandolo ripetutamente con alcool bol- lente. La sostanza, ricristallizzata infine dall’alcool, si mostrò identica a quella già descritta col p. f. 214°, sia per i caratteri fisici, sia per i dati analitici seguenti: gr. 0,2829 di sostanza dettero cc. 12,3 di azoto a 9° e 772 mm. In cento parti: Trovato Calcolato per Ci9 His NO C 9,94 5,12 Ossidazione, determinata dal reattivo di Barbier-Grignard, del com- posto p. f. 127°. — Quantità equimolecolari del prodotto p. f. 127° e di bromuro di fenil-magnesio, sciolte in etere, si fecero bollire vivacemente per cinque ore. Durante l'ebullizione si separò in quantità sempre maggiore una polvere cristallina: la soluzione eterea e la polvere vennero poi trattate se- paratamente con ghiaccio ed acido solforico come nei casi antecedenti : però la soluzione eterea conteneva, insieme con alquanta sostanza di partenza inal- terata solo poco prodotto p. f. 214°. La maggior parte di questo si trovava nella polvere separatasi durante l’ebullizione: e, purificato dall'alcool l’ot- tenemmo puro per l’analisi, con tutti i caratteri fisici del composto sopra de- scritto. gr. 0,2100 di sostanza dettero cc. 9,4 di azoto a 11° e 758 mm. In cento parti: Trovato Calcolato per Cs Hi; NO N 9,96 5,12 Impiegando l'ioduro di etil-magnesio, l'ossidazione procedette anche più rapida. Ossidazione, determinata dall’aldeide benzoica, del composto p. f. 127° — Una piccola quantità del prodotto p. f. 127° venne sciolto in etere e fatto bollire per un'ora; ma non si formò in tal modo del composto p. f. 214°. La soluzione, che aveva solamente assunto un color giallo, venne addizionata d'un leggero eccesso di aldeide benzoica, e concentrata fortemente. Il reci- piente, aperto, venne allora lasciato sul piano della stufa che riscalda la stanza di lavoro, e il giorno dopo già constatammo che si era formato del composto p. f. 214°. Ripetemmo la preparazione partendo da gr. 1 del prodotto (p. f. 127°) che venne bagnato con poco etere e successivamente con lieve eccesso di benzaldeide: il recipiente venne tenuto, aperto, su bagno-maria tiepido, du- rante due giorni. Riprendendo poi con etere, per separare il composto dalla benzaldeide e dall’acido benzoico, ottenemmo i caratteristici cristallini gialli — 552 — in stato quasi di purezza; vennero ricristallizzati da alcool e sottoposti all’analisi. gr. 0,2236 di sostanza dettero cc. 10 di azoto a 10° e 753 mm. in cento parti : Trovato Calcolato per Cis His NO N 5,34 Dali2i Abbiamo constatato che la medesima ossidazione si rompie anche con acqua ossigenata. Scissione del derivato p. f. 214° con acido cromico. — Alla solu- nione in acido acetico glaciale di un grammo di sostanza, si aggiungono gr. 0,50 di acido cromico e si pone a ricadere per completare la ossida- zione. Appena il solvente comincia @ ricadere colorato in verde, si distilla in corrente di vapore. Da una prima porzione del liquido distillato, che ha color verde, cristallizza una sostanza bianca che fonde a 65° in un liquido verde: venne identificata per nitrosobenzolo trattando un po' della sua so- luzione con il reattivo formato sciogliendo in acqua cloridrato di idrossilam- mina e la corrispondente quantità di carbonato sodico, ed aggiungendo un po di «-naftolo: il miscuglio delle due soluzioni reso alcalino assunse il bel colore rosso caratteristico del benzolazonaftolo. Sul liquido distillato ri- manente, incoloro, galleggiano delle gocce oleose pure incolore, le quali, al contatto di un cristallino di benzofenone, si rapprendono in cristalli col p. f. 48°. A confermare che si tratta di benzofenone, gr. 0,60 della sostanza, così ottenuta, vennero disciolti con gr. 0,72 di cloridrato di idrossilammina nella mescolanza di ce. 7 di alcool e cc. 4 di acqua: si aggiunsero poi gr. 1,2 di soda caustica sciolti in ce. 1,5 di acqua, e si fece bollire per un'ora. Dopo raffreddamento, per aggiunta di acido acetico precipitò l’ ossima in finissimi cristalli bianchi che, purificati da acqua ed alcool, fondevano esattamente a 141°. gr. 0,1650 di sostanza dettero cc. 10 di azoto a 10° e 769 mm. In cento partì: Trovato Calcolato per Cis His NO N 7,99 7,10 Questo secondo prodotto di scissione, identificato così come benzofenone, venne ottenuto con rendimento addirittura quantitativo; ciò che conferma completamente le nostre ipotesi sulla costituzione del composto p. f. 214°. Come era da aspettarsi, trattando nella stessa maniera il composto p. f. 127°, arrivammo a resultati identici. Riduzione con zinco ed acido acetico della sostanza p. f. 127°. — A gr. 1,50 di prodotto sciolti in alcool si aggiunge un grammo di acido — 593 — acetico, indi a poco a poco polvere di zinco in piccolo eccesso, scaldando leggermente. Si filtra infine a caldo, si lava con alcool lo zinco e sì ag- giunge acqua in eccesso alla soluzione: si separa così un olio denso pesante che viene ripreso con etere, con carbonato potassico, e quindi, cacciato il solvente, con etere di petrolio, da cui si ottiene in cristallini massicci p. f. 56°, quasi incolori. gr. 0,2655 di sostanza dettero cc. 12,3 di azoto a 10° e 769 mm. In cento parti: Trovato Calcolato per Cis Hi N N 5,65 5,40 La sostanza p. f. 127° si mostrò stabile all’azione dell’amalgama di alluminio. Invece il composto p. f. 214°, ridotto con amalgama di alluminio, fornì la medesima base, identica a quella già preparata e descritta da Busch. Azione dell'ioduro di etil-magnesio sul composto p. f. 214°. — Si fecero bollire per una mezz'ora quantità corrispondenti ad una molecola del com- posto ed una molecola ed un quarto di ioduro di etil-magnesio in soluzione eterea; ma, dopo trattamento analogo a quello usato nei casi precedenti, si ottennero soltanto cristalli della sostanza di partenza, identificati per il punto di fusione da soli ed in mescolanza con prodotto primitivo. Tale stabilità al reattivo di Barbier-Grignard del composto p. f. 214°, trova la sua corri- spondenza nel fatto che il composto medesimo è assai stabile al permanga- nato potassico, come abbiamo fatto notare a suo luogo. Dimostrata così la costituzione di questo interessante derivato, abbiamo tentato di ottenerlo per sintesi da benzofenone e fenilidrossilammina. Un grammo di benzofenone, sciolto in alcool, venne trattato con gr. 0,60 di fenilidrossilammina: ma per quanto si lasciasse a sè e si innescasse la soluzione con un cristallino del composto 214°, non ne ottenemmo traccia. Riscaldammo allora da sole le stesse quantità di benzofenone e di fenìl- idrossilammina, in bagno di paraffina a 150°; ma neppure in tal modo sì effettuò la sintesi desiderata. Riduzione con zinco e cloruro ammonico dell’etere N-fenilico della benzaldossima. — Un grammo di benzalfenilidrossilammina, sospeso in pol- vere finissima in assai etere, venne sbattuto con una soluzione acquosa di un grammo di cloruro ammonico a cui si aggiunse a poco a poco della pol- vere di zinco in piccolo eccesso. Scomparsi i cristalli del composto, l'etere separato détte, per evaporazione, la base di Schiff (benzalanilina) sotto forma di un liquido denso, che non cristallizzava. Allo scopo di ottenere sostanza pura, si distillò il residuo dall’evaporazione dell’etere in corrente di vapore; e le goccie oleose che passarono con l'acqua, al contatto di un cristallino di RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 73 — 554 — benzalanilina, si rappresero in cristalli che fondevano a 50° e per idrolisi con acido solforico diluito dettero aldeide benzoica ed anilina. Riducendo col medesimo procedimento il composto p. f. 214°, avremmo dovuto ottenere il fenilimidobenzofenone o benzofenonanilina, già conosciuto e descritto ('); ma arrivammo invece ad un derivato col p. f. 83°, il quale, per quanto alle analisi risulti della medesima composizione della benzofe- nonanilina, è assai diverso nei suoi caratteri ed esige quindi studî ulteriori. Ossidazione della B-dibenzilidrossilammina con ossido di mercurio. — Sei grammi di questo derivato, sciolti in cloroformio, vennero ossidati con un ugual peso di ossido giallo di mercurio, che venne aggiunto a poco a poco agitando continuamente: per evaporazione del solvente, si ottenne una so- stanza incolora, che, ricristallizzata da etere, fondeva a 82° e si identifica, per i suoi caratteri, per l'etere N-benzilico della benzaldossima, già preparato per altra via e descritto nella letteratura. Azione del bromuro di magnesio fenile sull’etere N-benzilico della benzaldossima. — Si bolle per un’ora la soluzione eterea contenente per ogni molecola della sostanza p. f. 82° una molecola e un quarto di bromuro di fenil-magnesio, e infine, con il trattamento descritto precedentemente, si ottiene una bella sostanza bianca, che, purificata da etere di petrolio, fonde a 1059; è assai solubile in etere. gr. 0,1941 di sostanza dettero ce. 8,4 di azoto a 109,5 e 758 mm. In cento parti: Trovato Calcolato per Cso His NO N 5,19 4,84 È instabile al permanganato potassico. Ossidazione con ossido di mercurio della sostanza descritta. — La sostanza (p. f. 105°), sciolta in etere, venne ossidata con l’ugual peso di ossido giallo di mercurio e, siccome l'ossidazione procedeva assai più lentamente che nei casi precedenti, si bollì infine a ricadere per una mezz’ora. Durante l'ebullizione si formarono minutissimi cristalli incolori che vennero separati dalla soluzione eterea per decantazione dopo raffreddamento e ripresi poi con cloroformio per estrarli dal mercurio ridotto fra cui erano impigliati. Ven- nero infine cristallizzati, insieme col residuo dall’evaporazione dell'etere prima separato, da etere solforico, e si ottennero così puri per analisi, col p. f. 159°. gr. 0,1885 di sostanza dettero cc. 8,1 di azoto a 9°,5 e 764 mm. In cento parti: Trovato Calcolato per Cso Hi7 NO N 5,22 4,88 (') Annalen, 187, pag. 199. — 559 — Come il composto omologo p. f. 214°, essa è stabile al permanganato, ma non così all'azione dell’ioduro di magnesio-etile: si arriva, in tal caso, ad un olio gialio-arancio, molto solubile negli ordinarî solventi e che non accenna a cristallizzare. Scissione con acido cromico di quest’ultima sostanza. — Un grammo di prodotto, disciolto in acido acetico, vien trattato con gr. 0,65 di acido cro- mico: si scalda alquanto a ricadere, e, quando la soluzione ha assunto una colorazione verde-scura, sì distilla in corrente di vapore. Una prima porzione del liquido che passa odora fortemente di aldeide benzoica: per identificarla, ne preparammo un derivato ben noto e caratteri- stico, la azina, e ne potemmo ottenere in quantità da riconoscere tutti i suoi caratteri. Nell'altra porzione di liquido distillato si nota odore di benzofenone; si raccolsero infatti dei cristalli incolori col p. f. 45° e che, trattati con idrossilammina, dettero l’ossima caratteristica del benzofenone col p. f. 141°. Otteniamo dunque due prodotti di scissione, aldeide benzoica e benzofenone, in armonia con la costituzione assegnata al derivato. Completeremo lo studio di queste interessanti reazioni. Fisica matematica. — SuZle vibrazioni luminose di un mezzo cristallino uniassico dovute alla presenza di un unico centro luminoso. Nota di A. SieNoRINI, presentata dal Socio G. A. MaccI. In questa Nota espongo brevemente alcuni risultati della mia tesi di Abilitazione (') che permettono di risolvere in modo completo il problema della rappresentazione analitica delle vibrazioni di un mezzo cristallino unias- sico dovute alla presenza di un unico centro luminoso. Come è noto, le for- mule date da Lamé (*) come soluzione di tale problema, anzi del problema analogo relativo al caso più generale dei mezzi cristallini biassici, per le singolarità delle funzioni che in esse compariscono, non corrispondono allo scopo pel quale sono state cercate (5). Le equazioni differenziali fondamentali della teoria elastica della luce, in un mezzo cristallino uniassico non soggetto ad azioni perturbatrici esterne, quando si assuma come sistema coordinato un sistema cartesiano ortogonale (2 yz) coll’asse 2 parallelo all’asse ottico del mezzo e si rappresentino con (*» Sulla teoria analitica dei fenomeni luminosi nei mezzi cristallini uniassici (in corso di stampa negli Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa). (®) ZLecons sur l’élasticité. 23° lecon. (8) V. Volterra, Sur les vibrations lumineuses dans les milieua biréfringenis. In- troduction. Acta Math. Bd. XVI. — 500 è) 1 20 lea i ALU 1 5 rispettivamente la lunghezza di un qualunque asse dell’ellissoide di elasticità relativo al mezzo considerato, parallelo al piano xy e la lunghezza dell'asse dello stesso ellissoide parallelo all'asse 4, e si rappresentino con #,n,6 le componenti dello spostamento elastico presente al tempo { nel punto (xyz), sono, come è noto, le seguenti: DE n (E RM DA d3 \ de dI dy \ dx (1) din — 2 Lil pena di eat af — d di dl? nea 00y dY i a dI? dYy \ dy de dx \ de . dY dm\ DE LN _L® si Uni dÙ 3) Un qualunque loro integrale £, n, si può ottenere da un conveniente in- tegrale g,w del sistema 3; SRI LEE La a Asp — (a E; (2) (3Y d 2 io fevnmi I Dr ponendo TI 09 OE ni na; "Tie ° Poniamo 76) e file lean DU en a P (9 Re dd 4ner È-c: (8) ; 3 da (0 alb A DI fera 4rva*r iene Dai a r al dl a Id: muilazez Ara dY- lei a (1) V. Volterra, Mem. cit., Art. 8, 1. (a se dI DIO Li ce) E — pl) Ski de— "Sa(a) 2 + gl Saida spp CH IECEZIORIT — 597 — ove —_ NEO OE oli. 2 e î 21 ti PEER j/e ev) a o Viren. e @(t) £(t) sono due funzioni arbitrarie del loro argomento che nel seguito supporremo nulle per tutti i valori di 7 inferiori algebricamente ad un va- lore fissato. Allora le formule (4) g=fr[e,6] , w=f.[e,8] 0) almeno se le funzioni @,f sono finite e continue insieme alle loro derivate 102°... n°(n = 8), ci daranno il più generale integrale del sistema (2) re- golare per qualunque valore del tempo insieme alle sue derivate 1° 2° ... (2 — 1)? in tutto lo spazio fuorchè nel punto «=y=z=0. Infatti essendo identicamente EA n | y? e(e — ERRE see cia ta dY a Lal FRA) EEE rl paz el +?) +e life) alt cl oa sia fin ) de (1) Questi integrali del sistema (2) — in una forma leggermente diversa che rende meno evidente la loro regolarità fuori del punto €«=y=z=0 — furono ottenuti per la prima volta dal prof. Griinwald nella sua Memoria: Weber die Ausbreitung elastischer und elektromagnetischer Wellen in einazig-krystallinischen Medien (Sitzungsberichte der k. Ak. der W. in Wien; Math-naturw. Classe, Bd. CXI, Abth. II, a. april 1902) ricer- cando l’espressione dell’integrale generale g,yw del sistema (2) per i valori che ad un istante iniziale fissato prendono le funzioni g,w e le loro derivate prime rispetto al tempo. Nella stessa Memoria Egli risolve la questione che forma il soggetto della pre sente Nota assumendo come espressioni delle componenti £,7,% degli spostamenti ela- TV] a e le due terne di funzioni SITÎ ) ) —iel=t), % 0) dando due integrali del sistema (1) — integrali di Lamé — colla posizione fatta si ottiene certamente un integrale del sistema (2). E questo risulta il più generale che soddisfi alla condizione suddetta in base al teorema se- guente, che estende agli integrali del sistema (2) un ben noto teorema di Kirchhoff relativo agli integrali dell'equazione De d° Ap: Sia o una superficie chiusa avvolgente un punto fissato (2y2), 2 la sua normale interna in un suo punto qualunque (4’y'2°). Dato un integrale g,w del sistema (2), almeno se esso è finito e continuo insieme alle sue derivate prime e seconde nell'interno di o per tutto un intervallo di tempo convenientemente esteso, avremo: stici originati in un mezzo cristallino uniassico dalla presenza di un unico centro lumi- noso situato nel punto *=y=2z= IA] 3 n=f[e,B] 5 e=mar(i-2). ove y, al pari di @ e $, è una funzione arbitraria del suo argomento. Ciò però non è legittimo perchè, anche disponendo della forma delle funzioni @,f,7, non si ha mai per ogni valore di 2,y,z se non è identicamente a=f=y=0: È fi[e A; niAL, a+ r(i-2)= ( y(cY2t) = fuola: — 559 — da [g(2'43%), Y(e'y4)]— ron So] — (a? — e?) cos ny! n fLp(x'44),0] + +@ 0) eng] gle) ,0 ]- — (a°— c?) cos na! Lf LO, UD] + + @— 09) cosna' fi 0. VV) ]+ + (a? — e?) cos ny’ - flo, g(ey)]— — (a — 0°) cos na fi Da vp er40 + + (a? — 0°) c0s na' mi [y(a'y),0])— — (a° — ce?) cos ny NET (2'y4't), o]: 5) viag) = fanta È ro gley0, 4A) — noe [Za P(L'Y3t), a i Vv) | == — (@— @) cos ay gr fa [9124/20 I+ +@ osa | dr glev), o ]- — (@*— 0°) cosna' Lay (0, y(2Y/2)] + +@— 0) cosa): | 0, T-uleys) )]+ + (@— 09) cos ay Lr. (0, 924/20) — “ani g(ey#) |+ + (a? — 08) cos nel 7 fa [(AY#9 0] — — (a°— c°) cos ny/ fa [e @Y#),0 |. tato LI RITI a o I n 11 ———«zI CGS E I — 560 — OVe d d A d ; d E — = — 008 Na — 08 # — COS 4 mi dd To dy Jin dI d d CNNIO, 7 d r d 7 — Tgr: 3,5%, 098 —, c08 7 — G0s 24, SOno da Slo do'° dy'° dai’ dn de ci dy 3h de : intendere eseguite senza tener conto della dipendenza delle @,w dalle variabili ay (*). La più semplice soluzione del sistema (1) atta a rappresentare le vibra- zioni luminose di un mezzo cristallino uniassico dovute alla presenza di un unico centro luminoso situato nel punto x = y —z=0 (e tale che non sia identicamente & = 0) (*) si otterrà dunque ponendo I oi fi e gg ATO ie, im Le a ul NA ay el , 8]. Tenendo conto delle espressioni effettive (3) di /1 [a,B]} e fee, 8], essa si può porre nella forma seguente : E £09) ul 500) me £09) SE 509) ,\n= O SE ni Ju n) + N) 4 (6) i — di (1) Sono pervenuto alle formule (5) con un metodo analogo a quello tenuto da Kirchhoff (V. Kirchhoff, Zur Theorie der Lichtsstrahlen, Sitzungsberichte der k. Akademie der W. in Berlin, 1882) basandomi sulla conoscenza degli integrali (4) del sistema (2). Ma nella mia tesi d’Abilitazione ho riportato anche un’altra dimostrazione che delle stesse formule ha dato il prof. Griinwald e che, quantunque non sia stata ancora resa nota per mezzo della stampa, pure molto gentilmente mi è stata da Lui comunicata, quando ero già in possesso delle formule in questione. (®) In tal caso le funzioni E,m ci dànno un integrale @,w del sistema (2) pel dP A) ì b à 5 quale Da — 0, e si ottengono necessariamente da una conveniente soluzione del- da dY , o) ORI df Rodi SIOE Ndr SENO l'equazione o e? va + c VO + a 3a? ponendo é = Ja) Tra Fra le solu- zioni del sistema (1) per le quali è identicamente é= 0 e che sono regolari in tutto lo spazio fuorchè nel punto 2 =yY = 4 — 0, la più semplice è data da 1 Ti ani 7 di. e=-die(t=7) n= 3e(1=1) do — 561 — ove: Di 0 _ ca (ae + By 00 DI Mad (4 EI 4 are y I? der a+y a -%w0 O___ ya (on fy) Livi agRna Dg A Si la de. F veda 0) relazi i lr PRETE O _ 1 ii a Î 73 x Ly? i. r PONE yz (ay —Bx di 50) _ iriania) E act F* x + y? È mr al Y n at—y? E (24 dI aaa Secondo queste formule il movimento elastico originato in un mezzo cristallino uniassico dalla presenza di un unico centro luminoso situato nel punto *=y=<=0, sarà da considerare come risultante dalla composi- zione di quattro movimenti pei quali, ad un istante qualunque, lo sposta mento del punto (xy2) è rappresentato rispettivamente dai quattro vettori (OO) 000) 0,900) 0,00). Evidentemente nessuno di questi quattro movimenti, e neppure l’ uno o l’altro dei due movimenti corrispondenti agli spostamenti 0) 0 0 0 0 0) ( DIC 5) ( 5) eo 0 0,0) (EPA o può avere un'esistenza fisica a sè. 3 (0) (0) (0) i Il movimento corrispondente al vettore \& ‘,n ,é sì propaga dal centro luminoso per onde sferiche e il movimento corrispondente al vettore (+0 (5) 9) che e Los o e po SM, per onde ellissoidiche 7 = cost. Le direzioni degli sposta menti competenti in questi due movimenti a un punto qualunque dello spazio non variano al variar del tempo, e coincidono colle direzioni dei due dia- metri principali dell'ellisse sezione dell’ellisse di elasticità relativo al punto sede del centro luminoso col piano condotto per tal punto normalmente alla retta che lo unisce al punto del mezzo per cui ci riferiamo. RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 74 i du T — 562 — Al contrario le direzioni dei due vettori (FO FD O 0 0) variano col tempo e i movimenti corrispondenti non sono ondulatorî. I va- lori delle due funzioni @,# ad un certo istante © non contribuiscono ad un qualunque istante successivo 7 soltanto alla formazione dei valori delle fun- zioni £0) ; 0 i 9) e 50) ) n0) ; i relativi ai punti di una superficie, ma contribuiscono invece alla formazione dei valori di vali funzioni relativi a tutti quanti i punti rispettivamente interni alla sfera 7 = a(f— 7) e all'elis- soido 7= a(t—t), cioè a tutti quanti i punti nei quali precedentemente all'istante { i valori delle funzioni @, f all'istante © hanno avuto parte 0 0 0 nella formazione delle funzioni 3 ° ni 1, c i e 59) i di) ; ch Ciò si può interpretare dicendo che le singole onde dalle quali risul- Ù 1 È ; ) (0) (0) 0) tano i due movimenti corrispondenti al vettore ( sapo e al vet- (8) (8) 0) : : tore (& ; ,©°) suscitano in tutto lo spazio da esse attraversato delle vibrazioni perenni che combinate tra di loro dànno appunto origine ai due mo- vimenti corrispondenti al vettore (£0 , NO, È 9) e al vettore (£0 È y®, 9) È Ciò non è in contradizione coi risultati sperimentali, perchè, se le due funzioni «,$ sono periodiche con un periodo molto breve, i due vettori (0 ) 0 ; 0) e 509) i n ; 20) risultano sempre trascurabili rispetto al 0 0 (0) vettori (5 i. x 5 e )) (50 Î si. 19) , e lo stesso accade, qualunque sia la forma delle funzioni @,, nel caso di un centro luminoso a distanza grandissima, nel qual caso le formule (6) sì riducono a quelle che necessa- riamente rappresentano gli spostamenti elastici presenti nei singoli punti di un mezzo uniassico quando si ammette a priori che il mezzo stesso debba risultare sede di una propagazione di onde piane. o Quanto ora abbiamo detto rende ragione anche del fatto che gli inte- grali di Lamé non risultano adatti a rappresentare il movimento elastico originato in un mezzo cristallino dalla presenza di un'unica sorgente lumi- nosa di dimensioni piccolissime. Infatti tali integrali furono ottenuti in base al concetto che un tal movimento dovesse risultare da una successione di onde sferiche e di onde ellissoidiche 7 = cost, propagantisi nel mezzo, le une indipendentemente dalle altre, senza lasciar traccia del loro passaggio. — 563 — Matematica. — Sulle funzioni permutabili di seconda specie. Nota di Lurcr SINIGALLIA, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. 1. Il prof. Volterra (!) chiama funzioni permutabili di seconda specie due funzioni F(x,y), K(x,g) finite e continue, le quali soddisfano alla relazione: M fTE9K690=f IMAA. Scopo di questa Nota è di mostrare come introducendo le funzioni orto- gonali di Schmidt, possano determinarsi le funzioni K(x,y) permutabili di seconda specie con una data funzione F(x,), che sia uguale alia somma di un numero finito di prodotti di una funzione della sola x per un'altra funzione della sola y. Poichè qui ci occuperemo della sola permutabilità di seconda specie, diremo brevemente che tutte le funzioni K(x,y) che soddisfano alla (1) sono permutabili colla F(x,y). Supponiamo poi che la funzione data sia espressa mediante il corrispon- dente sistema ortogonale completo %,(x),w,(y), ossia supponiamo che sia: (2) F(x ,9) = DRD Pr(c) Wr(9) (2) Piena ; ove: 5 pn b 1 pila f gua) pile) de=}0 5 N si Yi(4) Wa) dI =} 0 so Si Notiamo anzitutto che se b (3) LI Rx 09) E(s0y) de —g(2000)0 la g(x,y) dovrà soddisfare alla relazione n b 0) deM=Y A) f 9A, (*) Volterra, Sopra le funzioni permutabili. Rendiconti R. Accad. Lincei, serie 5°, vol. XIX, 1° semestre 1910. — 5904 — e se Ki(2,y) è una soluzione della (3), la soluzione generale della (3) è data da (') K(x,y)= Ki ,9) +07,9), essendo 0(x ,y) la soluzione generale dell'equazione (8) SEEM 0,Md=0 e quindi | 6) o, 9) = 02,9) —X Y(0) [ 90) 008,9) d essendo la (x,y) una funzione arbitraria integrabile. Parimenti se ) (1) fEEMFE,Md=I,% sarà ® ge) =X 40) f e) 0 e se K.(4,y) è soluzione della (7), la soluzione generale della (7) stessa è K(x,y) = Ks(2,9) +-8(7,9); essendo (x,y) la soluzione generale dell'equazione (9) S56,9 Ro e quindi (10) Ec,y)=e0@, )- Xi ORNCCRO t) pr(6) di , essendo e(x ,y) una funzione arbitraria integrabile. Intanto dalle (4). (8) si ha. sesm= YU (I IL ossia (1) ge, n=) din P(1) Un) (1) Lauricella, Sopra alcune equazioni integrali. Rendic. R. Accad. Lincei, ser. 5%, vol. XVII, 1° semestre 1908. — 5605 — essendo a;n delle costanti. Per determinarle rammentiamo (') che la g(0,%) definita dalla (11) deve essere una funzione permutabile colla F(x,y), cioè sarà b b SFE,9I6,M0= f s2,916,9) 4; quindi se poniamo l) bn= f 9 YU ds dovrà aversi n 1 n i 1 n DITD Arpa — 7 D Arion | gi() VM) =0: 1 h r=1 rel i,h= e poichè le ;(x) sono fra loro linearmente indipendenti e così pure lo sono le w,(y), le n? costanti a;,n dovranno soddisfare alle n° relazioni (12) i Y Ang dio — da Y Ary rn=0, (ea) r=1 Posto ciò preso un sistema di valori «;n che soddisfano alle (12) cerchiamo la soluzione più generale dell'equazione (9) fFE,9E6,9db= S anglo): A tale scopo cerchiamo di determinare le costanti d;, in modo che la funzione (14) Kit ,9)= D dia gi(0) va) v,h= sia una soluzione della (13). In tal caso dalla (13), ponendovi per K(x ,%) la K,(x,y) data dall'espressione precedente, si ha Ti Api by, a dia Pi(€) Yi(Y) na) d=, e quindi le d;, soddisferanno alle relazioni (15) x Ai by,n = Ài Ai,h (2 o =) D 2 1600 n) 0 r=) (1) Volterra, Questioni generali sulle equazioni integrali ed integro differenziali. Rendic. R. Accad. Lincei, ser. 5%, vol. XIX, 1° semestre 1910. — 566 — Ora si vede facilmente che se il determinante del sistema (15) è D”, e se denotiamo con Pi il comple- mento algebrico di A;n nel determinante D (che supponiamo diverso da zero) deduciamo dalle (15) 1 n DIA Ar,h (REA r=1 (16) din = La soluzione generale della (13), quando le costanti din soddisfano alle (12) è dunque (17) K(,9)= Di bin 90) Wx 9) +00 19): ove 0(x ,y) è la soluzione generale della (15) ed è quindi data dalla (6); le costanti din sono poi date dalle (16). Osserviamo poi che per la (14) b n 1 SA rea S 7 Andar 91 (0) Vi): a ile dn ma per le (16) 1 n 1 n n 7a > Any din DA, z ds Pi,s >: Anr dsr > e per le (12) 1 n_ 1 n (18) Da 2 An dir = D >A Teo A,.s Or,n = di,h è Quindi si ha (HE.IrEML= E anglo 41), % e la funzione Ki(4,y) definita dalla (14) ed i cui coefficienti sono dati dalle (16) è una funzione permutabile colla F(x, 7). Dunque perchè la K(x,y) definita dalla (17) sia permutabile colla F(4,y) bisogna che 0(x,y) sia una funzione permutabile colla F(2,7) stessa. Ma la 0(x,y) è la soluzione generale della (5), dunque essa dovrà pure soddisfare alla (9); sarà cioè la soluzione generale comune alle (5), (9). — 567 — Concludiamo così che la funzione più generale permutabile colla nostra F(7,y) è data da One pa bin Pi(2) Wa(9) + a(2, 9) — » D Pr(4) i “al 36) (0) di — x (2) Luo e(s,y) ds + gp di Pi(4) INONIETTO ds [als si) g:(t) dt, essendo «(x ,y) una funzione arbitraria integrabile e le d;,n costanti deter- minate dalle (16). Dalle relazioni precedenti possiamo anche facilmente trovare le relazioni cui soddisfanno le costanti d,,; infatti dalle (15), (18) si deduce subito (20) ài Ò Ann Dir — dn d$ Ara, (CMI_MER.I) r=1 r=1l cioè le di,n soddisfanno alle stesse equazioni cui soddisfanno le di,» . In particolare se F(x,y) è una costante, poichè allora go=vy= =, — 1/22 la funzione più generale permutabile con una costante sarà Ele y)= ac) if let feat, essendo c una costante arbitraria. 2. Per risolvere completamente il nostro problema dobbiamo ora occu- parci delle determinazioni delle costanti a;n, oppure delle d;x. Se poniamo n T; == DI (A;r Qi, Es) Ari dri) r= 05 Aim =; DO Any din — An D Ari rst (CE=/0)E r=1 r=1 il sistema (12) consta delle # equazioni 7;=0 e delle (2 — 1) equazioni Ain = 0. Tali equazioni però non sono linearmente indipendenti perchè se — 0968 — le A; con 7 # non sono nulle, fra le 4; , T; sussistono queste 7 relazioni Ain A;ri 00 AGNO, A; ERO SI LA Apih Arnsri | Ar AT, h Ansa (A 1000 DAI Ys-1 1 Ariri SI Arirs i=1 rEl dr, se A Arsri 200 Arsrs ((=12 0840523), ove intendesi esteso a tutte le n(n — 1) disposizioni semplici della = di classe seconda degli indici 1,2, ... 2; il di va esteso a tutte le (7205) rfi,h a combinazioni della classe s — 1 degli indici 1,2, ..2—1, i+1,..h—1, h+1,..n ed il > va esteso a tutte le (te) combinazioni della ri classe s degli indici 1,2,..t —1 NOE ER ENRELCE Perciò il grado di indeterminazione del sistema (12) [oppure del si- stema (20)] è in generale x; e se poniamo sei È So = 00 Pi,h ai la soluzione del sistema (20) quando D+ 0 e le A;n con é==% non sono tutte nulle è data in generale da Ain Ari 0 Air n-2 A Dn Sa DI IL (Aa Ari Ano ) = di dn rEih des siete hrs Aa ALSO Aysh Arr seo Aysrs essendo le c delle costanti arbitrarie. Ponendo tale valore delle 8; nella (19) avremo la espressione della funzione richiesta. Invece quando tutte le A; con “4 sono nulle il sistema (12) diviene (A Ann — An Ai) din = 0 (RMS) e da tale relazione segue che le «n relative agli indici %,% pei quali — 569 — ZA; Arnm— AnA4i=="0 possono prendersi arbitrariamente, mentre le 4;, relative agli indici 7, / pei quali 2; Agn —4, A+ 0 devono essere nulle. Così se le 4, sono tutte fra loro diverse, la funzione generale permu- tabile col nucleo Splrpini è data da r=l Dar 9,(0) ) Pr) +2, Y)» essendo le a. delle costanti arbitarie e D(z,y) la soluzione comune alle (5), (9). Invece se @,(z), (r=1,2,.. 27) sono 2x funzioni ortogonali e sì pone (0) = Pn+r(2) (=1...2) il nucleo Ea i è permutabile con la funzione Di di,n Pi(c) Wh(4) qualunque siano i valori delle costanti 4;n . Meccanica. — Sull’effusso dei liquidi fra pareti che presen- tano una interruzione. Nota di Gustavo COLONNETTI, presentata dal Socio LEVI-CIVITA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisica. — rotazione nel campo magnetico di un disco di bismuto, riscaldato al centro o alla periferia. Nota di 0. M. CoR- BINO, presentata dal Socio P. BLASERNA. 1. Un disco di bismuto è sospeso tra le facce polari d'un elettroma- gnete, a 45° dalle linee di forza, per mezzo di un filo che compensa con la sua torsione la tendenza orientatrice dovuta al diamagnetismo del disco. Inviando nel centro di questo un sottile fascio di luce, che lo riscaldi anche lievemente, si manifesta l’esistenza d'una energica coppia che tende ad annullare l'orientazione diamagnetica, e a disporlo perciò parallelamente alle linee di forza. L'azione non s'inverte invertendo il senso del campo; cambia invece di segno se del disco si scalda con un fascio di luce anulare, o altrimenti, la periferia. La coppia è massima a 45° dalle linee di forza e può allora raggiungere un valore rilevante così da superare la forte ten- denza orientatrice dovuta al diamagnetismo, specialmente se il disco è un poco affumicato. RenDpIcONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 75 — 570 — 9. La teoria elettronica dei metalli ci rende conto facilmente dell’ef- fetto osservato. Secondo il Drude (') la conduzione del calore nei metalli avviene con un doppio meccanismo. Da un canto si produce nel metallo tra le parti calde e le fredde uno scambio continuo di ioni che ha per effetto di egua- gliare le temperature convettivamente come nei gas, in modo cioè che un numero eguale di ioni traversa un piano qualsiasi nei due sensi. A questo trasporto di calore non è connessa perciò alcuna manifestazione elettrica. Contemporaneamente avrebbe origine una differenza nella concentrazione degli ioni tra i punti in cui la temperatura è differente, poichè in quasi tutti i metalli il numero di ioni per centimetro cubo è funzione della temperatura. Ne segue una vera migrazione di ioni in un senso determinato, e se il corpo è isolato, nascono in esso delle forze elettriche che modificano la ulteriore diffusione degli ioni. A questa migrazione sarebbero dovute le deviazioni dalla legge di Wiedemann e Franz e l'effetto Thomson; ad essa pure è dovuta la rotazione sopra riferita del disco di bismuto nel campo. 3. Supponiamo che il disco sia percorso, in un campo ad esso normale, da un flusso di calore centrifugo radiale. Dimostreremo che il disco deve equivalere a una particolare lamina magnetica con senso di circuitazione opposto a quello della corrente magnetizzante. Notiamo anzitutto che la di- stribuzione delle temperature, ed eventualmente del campo elettrico, nel disco continuerà per ragioni di simmetria a essere circolare. E perciò il gradiente di temperatura e la forza elettrica saranno in ogni punto radiali. h ; dT : $ AI gradiente termico nel senso dr eguale a gh negativo, corrisponde per la teoria di Drude, un flusso centrifugo di ioni positivi con velocità dT — È, dal essendo (1) ti, = PILA nella quale p è una costante Y1= 01 il prodotto della carica e dell’ ione per la velocità che esso acquista sotto la forza 1, e #1 la variazione relativa con la temperatura del numero N, di ioni per centimetro cubo: Consideriamo, in un punto del disco alla distanza 7 dal centro, la ca È id E componente radiale Di e la componente circolare È della velocità e sup- poniamo che la corrente magnetizzante circoli nel senso di 3 crescente. (1) Drude, Ann. d. Physik, 1, pag. 566, 1900. Ponendo Hev, = mM, avremo dI dr (2) di 1 di Detta E la forza elettrica radiale che prende origine per l'accumulo diseguale di ioni, e computandola positivamente nel senso centrifugo, sarà inoltre dr dT di (3) me i La (2) ci dice che la traiettoria degli ioni è la stessa spirale già trovata per un flusso radiale elettrico (*). La (3), combinata con la (2) ci dà poi dr dT PANE E E IR pere +e nEh: Trascurando, in prima approssimazione, mî di fronte alla unità, la densità della corrente radiale trasportata dagli ioni positivi sarà perciò dr AT Ir=Meg=Me(nE-t): Per gli ioni negativi ‘si trova egualmente d dT Io —Ne=Ne(sE+47) . Ma essendo il disco isolato, deve essere (4) Ir + Ta, =0 e perciò dT dT N(nB-ug)=—N (ne+4%) dalla quale si ricava il valore della forza elettrica: Niti1— Nsfs dT 5 — SLI ali ; | (5) È Ng + Nays de | (*) Corbino, Rend. Lincei. t. XX, pag. 424, 1911. — 572 — Analogamente ponendo per gli ioni negativi Mo => He Vo si ottiene per la densità delle correnti circolari trasportate dagli ioni posi- tivi e negativi dd Roe Dci dd A eee Motos A questo flusso circolare di cariche corrisponderà un'azione magnetica equi- valente a quella prodotta da una corrente complessiva i: e questa, per la (4) sarà data da . dT LE me ln) Nie(nE47) Tenendo presente la (5), e la (1) questa diviene Lr Kb cs n i=peNiy Ney gg LNogo | pr (y +92) H o anche essendo (Ri = eNi Yi o,=eN3y: i contributi delle due specie di ioni alla conducibilità elettrica totale o=0, + 0 si potrà scrivere (6) di 22 (1 + x.) (+y)H 7 gni Ma se si indica con Q la quantità totale di calore che fluisce nel disco, si avrà, computandola positivamente nel senso centrifugo, dT ie Za 5 ove con % è indicata la conducibilità termica della sostanza. Sarà perciò O de << k2nr° — 573 — Sostituendo nella (6) avremo dunque ee Dei or (21 + 22) (/1-+-y2) QH e perciò, ponendo 0, 0 (7) U=p To Mt) (VW 42); il disco eserciterà un'azione elettromagnetica equivalente a quella di un sistema di correnti circolari di densità (8) dq== UQH 2rtr e l'azione stessa sarà, per date dimensioni del disco, proporzionale al coeffi- ciente U caratteristico della sostanza, al flusso di calore Q e al campo H. Poichè x, + x:, secondo la teoria, è una funzione comune a tutti i metalli, e da quanto è noto essa ha un valore positivo, e poichè le altre grandezze che compariscono nella espressione di U sono essenzialmente positive, ne risulta che 7 ha un senso opposto a quello di circuitazione della corrente magnetizzante. 4. Il disco per le sue proprietà elettromagnetiche, possiederà un'energia di posizione nel campo; per un anellino 2rrr. dr essa è data da ata So dW == UQH dr X ar°H. L'energia totale sarà ove S indica la superficie totale attiva del disco. Ma se la normale al disco fa un angolo « con le linee di forza, la energia sarà W=Wcos?a. St eserciterà perciò sul disco una coppia di momento MEA = W sen 2a da e per a= 45° il 2 M=3 UQSH — DIA — La coppia sarà perciò proporzionale al quadrato del campo H, al flusso calorifico Q, alla superficie del disco S, e dipenderà dal coefficiente U carat teristico del metallo. Deducendo dall'esperienza il valore di U si viene così a possedere una nuova relazione indipendente dalle altre già note per la determinazione delle costanti caratteristiche di Drude. E come si vede dalla (7) il coefficiente non ha niente da fare col coefficiente q=—L (01219:+ 02221) del fenomeno trasversale termomagnetico (effetto elettrico) di Ettingshausen e Nernst, come potrebbe sembrare a prima vista. Osserveremo invece che si può porre la (7) sotto la forma: ue p ide a px ea, ora il primo fattore varia di poco per i diversi metalli; il secondo fattore è proporzionale a queste variazioni, cioè alle deviazioni dalla legge di Wie- demann e Franz e il terzo al coefficiente P del fenomeno galvanomagnetico (effetto termico) di Ettingshausen, cioè alla differenza di temperatura tras- versale che acquista una lamina percorsa nel campo da una corrente elettrica. Cosicchè la coppia constatata nelle presenti ricerche dipende dal pro- dotto dello scarto dalla legge di Wiedemann e Franz, del coefficiente Pe della conducibilità o del metallo. Purtroppo questi tre elementi si conoscono solo per pochi metalli, e anche in modo poco sicuro; essi sono riferiti nella seguente tabella, nella quale la prima colonna dà i valori delle deviazioni D dalla legge di Wie- demann e Franz, la seconda il coefficiente P, la terza la conducibilità e riferita all'argento, la quarta il loro prodotto 77, in unità arbitrarie, da cui dovrebbe dipendere U. D.103 PSL08 lo) II DRAMA gico 0 - 60 0 Cui a 2 — 56 0 Costantana . . . 468 — 20 0 NI in cone 16 0,2 (04 2,4 Reti ZO 0,06 8 67 Carbone ae ? 5 — bj Sho een ano00) 2 1,5 900 Bio oe... eos 50 0,8 12300 Come si vede la coppia si potrebbe manifestare solo col bismuto e con l’antimonio, e forse anche col carbone. In realtà, servendomi della semplice disposizione indicata, non ho otte- nuto alcun risultato con dischi di alluminio, di argento e di rame. 1] — 575 — Patologia vegetale. — Weriori ricerche sulla genesi del roncet od arricciamento della vite. Nota di E. PANTANELLI, pre- sentata dal Socio G. CUBONI. In una Nota precedente (!) ho accennato che le ricerche del triennio 1907-1909 avevano portato ad accertare, che si può ottenere la comparsa del roncet anche al primo anno d'impianto, allevando talee o barbatelle sane in luoghi dove furono estirpate da poco altre viti. Inoltre da al- cune esperienze in vasi ed in cassoni era risultato, che l’affierolimento dell'attività produttrice di nuove radici e il rapido deperimento delle radi- celle stesse, che insieme all’alterazione della funzione assorbente hanno la parte massima tra i fattori causali interni della malattia (*), sono provocati dall'azione di sostanze tossiche che diffondono dai frammenti di radici in lenta morìa sparsi per il terreno. Le esperienze del 1910 confermano e pre- cisano questi risultati. Anzitutto ricordo ancora che Ruggeri (*), Segapeli (4), Paulsen (9 Krasser (°) hanno osservato che piantando legno sano, specialmente di 2u- pestris du Lot, Aramon X Rupestris G. 1, Riparia X Rupestris 3306 e 3309, subito dopo l'estirpazione di viti malate, anche di varietà differenti, la malattia compare subito sui ripianti. In queste esperienze però erano man- cate sempre le prove di controllo: si doveva ripiantare anche su vigne non affette da roncet o nel medesimo terreno coltivato a graminacee o leguminose, altrimenti l'esistenza di un'infezione nel terreno non è provata. Nelle mie esperienze di ripianto si tenne conto di queste circostanze; e facendo uso di diversi vitigni, estirpando viti di età diversa, sane o malate, intercalando culture diverse, si sono avuti i seguenti risultati: 1) il rachitismo e specialmente la deformazione delle foglie, caratte- ristica per il roncet delle Rupestris, colpiscono subito il legno sano piantato in terreno infettato naturalmente dai resti di radici di vite, ancora vivi e non invasi da micelii di rizomorfe; 2) la cultura di graminacee purga il terreno fino alla profondità a cui arriva l'influenza delle loro radici, perchè queste asciugano la terra e (') Rendic. Accad. Lincei (5), vol. XIX, 1910, 1° sem. pag. 395. (*) Bull. Off. Minist. Agric. Anno 1910, serie C, fasc. 29, pag. 8. (?) Ibidem, anno 1903, vol. VI, pag. 2273. (*) Citato da Schiff-Giorgini, ibidem, anno 1906, vol. VI, pag. 973. (5) Ibidem, anno 1908, vol. III, supplem. pag. 1247. (5) Relaz. al Congresso Internaz. Agric. Vienna, 1907, pag. 24. — 5760 — fanno scomparire — per ossidazione — le sostanze nocive prodotte dall'au- tolisi e lento deperimento dei frammenti di radici sparse per il suolo; 3) il sovescio di leguminose aggrava invece la situazione, perchè con- serva il terreno umido e permette ai micelii terricoli di continuare a vege- tare, affrettando la morìa dei detti residui di radice e indebolendo anche le parti sotterranee delle nuove viti ripiantate. È da notarsi, che i fenomeni di lento deperimento dei residui radicali nel suolo non erano finora stati studiati da alcuno, e più o meno si credeva, che essi cadessero in preda ad un rapido marciume per opera di funghi, batterii, acari ecc., andando così ad arricchire il capitale humoso del ter- reno. Nei terreni siciliani, specialmente in quelli che si prestano come foco- lari di origine del roncet, questa rapida disgregazione colpisce solamente i residui morti, ma ciò che resta nel terreno quando si estirpano viti o bar- batelle è un fitto intreccio di radici vive di diametro variabile, le quali generalmente si rimarginano alle estremità con un callo, talora molto svi- luppato, e in queste condizioni si conservano in vita per varî anni; p. es. quattro anni dopo l’estirpazione di un barbatallaio abbiamo trovato uno strato quasi continuo di questi frammenti di radici, ancora vivi, ad una profondità di 40-60 cm. Le radici di media grossezza sono quelle che resistono meglio allo sfacelo; tuttavia anche tre anni dopo l'estirpazione di vigne o viti madri ho trovato nel sottosuolo frammenti di grosse radici ancora vive. È probabile che in paesi più settentrionali, ove il terreno sia più freddo ed umido, le radici rimaste nel suolo cadano più presto in preda alla marcescenza. Certo è che risultati analoghi si ottengono coltivando per parecchî anni le barbatelle di vite nel medesimo posto. Nel vivaio di Noto ho avuto campo di osservare fin dal 1907, che negli appezzamenti stanchi del barbatellaio non solo l’attecchimento era molto scarso — fatto ben noto fin dai lavori di Oberlin (1891) — ma un certo numero di barbatelle aveva germogli ra- chitici, foglie piccole, deformate, irregolari nella Berlandieri Ress. 1 e 2, Riparia X Berlandieri 420 A,157-11; piccole, profondamente laciniate ed irregolari nella Rupestris du Lot, metallica, Aramon X Rupestris G. 1, Riparia Martineau, Riparia X Rupestris 3306, 3309 ecc., sebbene il ma- teriale impiantato fosse scelto con cura: per la Rup. du Lot proveniva anzi dal R. Vivaio di Vittoria, ove questo vitigno è ancora tutto sano e robusto. Negli appezzamenti ove le barbatelle seguivano ad un anno di cultura a leguminose (ceci, fagioli) l’attecchimento era soddisfacente, il fogliame bene sviluppato e sano. Questi accertamenti m' indussero a studiare nel 1908 quali relazioni passano fra la stanchezza del barbatellaio — giudicata in base alla percen- tuale di attecchimento — e la comparsa del roncet su materiale sano al momento dell'impianto. P. es. da un appezzamento che per 13 anni era adibito a barbatellaio (b. stanco), si ebbe, in confronto ad appezzamenti che — 577 — nel 1907 erano stati coltivati a leguminose, la seguente raccolta di barba- telle adatte alla distribuzione, un po’ inferiore all'attecchimento totale : barbatellaio stanco barbatellaio riposato rapporto piantate raccolte °/o piantate raccolte °/o riposato Rupestris du Lot. . . . 2000 315 15,75 3000 1455 48,54 83,07 ” metallica. . . 4000 1124 28,09 (64000) (37835) (59,20) 2,11 Riparia Gloire. . . . . ” 1383 34,57 10250 6595 63,44 1,86 ” X Rup. 3309 . . ” 2074 51,85 (59200) (33974) (57,88) 2,11 Aramon X Rup. G. 1. . ” 844 21,10 10250 6754 65,91 3,12 Berlandieri Ress. 2. . . ” 437 10,92 D) 3324 82,43 2,97 Riparia X Berland. 402 A . ” 250 6,25 ” 5421 52,89 8,47 Rupestris X Berland. 1737 ” 963 24,07 ” 6694 65,81 2,71 Vinifera (Calabrese). . . 100 85 85 100 96 96 II] ra Nessuna barbatella contrasse il roncet nel terreno riposato, mentre nel terreno stanco si ebbe: piantate raccolte °/o sane malate lo RupWfidutbot i. 42000 315 15,75 240 75 23,81 n metallica . . . . 4000 1124 28,09 1090 34 3,03 RapaiGlomme. i. ago ” 1383 34,57 1368 15 1,08 MMO, c,D'. Nel caso nostro bisognerebbe prendere o 0 che è il più piccolo dei due raggi di convergenza spettanti alle serie (3), (4). In quest'ordine di idee, val forse la pena di notare che, per le irascen- denti intere di genere zero, si ha la limitazione (1) | D*y| < M 5 corrispondente a 0= 1. In base ad essa, le serie D cot D.y, LE convergono assolutamente in tutto il piano /, e ne rimangono rigorosamente dimostrate le (2). Ma la detta categoria di funzioni è press'a poco la sola per cui il risultato sus- siste sotto forma di serie. 4. È invece possibile, ricorrendo alla teoria delle funzioni armoniche e trasformando opportunamente una formula del Dini (°), attribuire alle re- lazioni fra @ e #, sulla retta w=1, due forme integrali assai più vantag- giose. E precisamente una prima forma, risoluta rispetto a 8, che è appli- cabile in ogni caso (relazione dispari), e una seconda, risoluta rispetto ad a (relazione inversa), che richiede (o, meglio, la cui dimostrazione ha richiesto) una ipotesi addizionale circa il comportamento all'infinito della Bb. Le due relazioni sono (gli apici designando derivazioni rispetto agli argomenti indicati) 1 00 (6) B=3 | K9,9) (9) dgr. i 7 ef m (6) e (9) = B(g sf L(g1, 9) (91) dg con (7) K(g.,g)=lg{—t°- |, DON 0a 1 (8) L(g., 9) 7) La (5) può ben dirsi valida incondizionatamente, essendo certo soddis- fatta (*), ogniqualvolta si sappia che @' è funzione (dei punti della retta yw= 1) continua al finito e finita anche all’ infinito. (') Come risulta da un teorema generale di Poincaré. Veggasi ad es. Borel, Zecns sur les fonctions entières, Paris, Gauthier-Villars, 1900, pag. 56. (°) Cfr. le Note: 7rasformazione di una relazione funzionale dovuta al Dini, pp. 285-296, 381-391 di questi Rendiconti (sedute del 5 e 19 marzo u. s.). (*) Da una e una sola funzione 7(f) regolare entro la striscia S, e tale che la sua parte immaginaria /8 si mantiene ovunque finita (contorno incluso) [ Cfr. pag. 387, se- duta del 19 marzo]. — 609 — La (6) è stata stabilita nell'ipotesi che £(g), oltre ad ammettere le prime due derivate (continue al finito), tenda ad annullarsi per g = © 00: quest'ultima è in sostanza la sola ipotesi restrittiva, potendosi tranquilla- mente ammettere — almeno nelle applicazioni che abbiamo in vista — che si tratti di funzioni derivabili quante volte occorre, e finite ovunque (anche all'infinito), assieme alle loro derivate. 5. Scopo della presente Nota è di ricavare dalle richiamate relazioni integrali — (5) e (6) — degli sviluppi differenziali, che contengono rispet- tivamente quanti si vogliano termini delle serie U .e',DcotD.#, più un resto. È chiaro che l'interesse risiede esclusivamente nell'espressione del resto. Essa ci mostrerà che le serie (2) (pur essendo quasi sempre divergenti, come abbiamo osservato poc'anzi) possono servire utilmente in calcoli approssima- tivi, quando si limitano a un numero conveniente di termini. 6. Occupiamoci dapprima della relazione inversa (6), che fa riscontro alla seconda delle (2). Sotto questa forma essa fu già rilevata e (in via di approssimazione) genialmente sfruttata da Lord Rayleigh nelle sue ricerche sull'onda solitaria (*). Introduciamo, al posto di g,, una nuova variabile di integrazione s= (pg — 9). Per essere L funzione pari del solo argomento (pg, — 9), risulta subito (ole) con 8' dI (8°) La=lg a: Se si ricorre all’ identità h? pen kh” (e 2n_1 per seni D?"8(p+ ht). dt. e la sì applica alla funzione 8° facendovi h= = al si ottiene G 4 8 nl 1 g8Y ”r Morini: " ANO N _ D2v+2 r(0-)+e(0+t)=2 Lap D+ LO ST ; 2n-1 \ 2n+2 st 2n+2 st Ì ten? ave e(9+7)T? eo 3) ( 1) Scientific Papers, vol. I, Cambridge University Press, 1899, pp. 256-261. — 610 — Procuriamoci il valore degli integrali definiti 8° lo il SI che è del resto ben noto (!). Lo si calcola partendo dalla formula elementare . ds (v intero positivo), Sg J Suliertids — (20)! 0 o, meglio, da questo suo corollario: (27)! 2 , Mm v+1l Do f P FSE 4(2v)! z MO+2 2' indicando una somma estesa ai soli numeri dispari. Se si introduce per un momento anche la somma complementare x” , estesa ai soli nu- mata meri pari. si hanno manifestamente le identità poi VSS mO+? Sp î mete = $2+2, mr ]Ì 1 mO+? i 94? S2v+2 3 da cui DA TERI mEK(s)a __ gn 2(2n — 1)! (E D a | Ù) K(s) ds f (1 t) dt 2 donde, eseguendo le quadrature e badando alla (13) 2 1 ASMARA (15) \Rs.| = (ay San+2 1 di D?%+1 9 È 2 Siccome sana 1 — ai tende ad 1 al crescere di 7 (differendone in ogni caso ben poco), si può dire che l'ordine di grandezza di R$, è quello della derivata (2n + 1)e*m di @ divisa per la corrispondente potenza di ARICZIO 2° La limitazione è un po’ meno vantaggiosa di quella trovata per l'analogo RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 19 Sem 81 — 614 — resto della relazione inversa: in quel caso si hanno a denominatore potenze di 7, in questo soltanto potenze di DÒ Mostrerò in una prossima comunicazione come effettivamente si appli- chino le equazioni integrali (5), (6) alla teoria delle onde di canale, e in particolare all'onda solitaria, conducendo, per quest'ultima, ad una approssi- mazione maggiore di quella raggiunta da Lord Rayleigh e, con diverso pro- cedimento, da Boussinesd. Meccanica. — Sulle deformazioni finite dei solidi elastici isotropi. Nota I del Corrisp. E. ALMANSI. Matematica. — Sopra i nuclei reiterati. Nota del Uorrisp. GiusEPPE LAURICELLA. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Chimica vegetale. — Ricerche sulla genesi degli alcaloidi nelle piante. Nota del Socio G. Crawician e di C. RAVENNA. In questa Nota esponiamo le esperienze da noi iniziate già da tre anni per cercare di risolvere qualche questione relativa all'origine degli alcaloidi nelle piante. A questo scopo abbiamo inoculato, col metodo altre volte de- scritto, alcune sostanze azotate a piante che contengono normalmente alca- loidi. Le piante prescelte furono la datura ed il tabacco; le sostanze ado- perate, la piridina, la piperidina, l'acido carbopirrolico e per il tabacco, oltre a queste, l'asparagina, l’ammoniaca ed alcune sostanze non azotate, cioè il glucosio e l'acido ftalico. RICERCHE SULLA DATURA Una prima serie di esperienze fu eseguita nell'estate del 1908 sopra poche piante, e nell'anno successivo si fece una seconda serie ripetendo le prove colla piridina, su più larga scala. PRIMA SERIE. Le prove di questa serie si fecero inoculando nella datura la piridina, la piperidina e l'acido carbopirrolico. Piridina. — Si prescelsero tre piante, alle quali venne inoculata la sostanza libera nei giorni 4, 18 agosto e 2 settembre, nella quantità totale — 615 — di 12 grammi. Le piante vennero prese in esame il 15 settembre e pesa- vano, in totale, kg. 4. Per conoscere il poso totale degli alcaloidi in esse contenuti, venne pre- parato un estratto con acido solforico diluito; il liquido concentrato fu trat- tato con potassa in eccesso, quindi estratto con etere il quale, dopo l'estra- zione, fu dibattuto con acido cloridrico diluito. Il liquido alcalino residuo dell'estrazione eterea fu poi sottoposto alla distillazione in corrente di vapore, raccogliendo il distillato su acido cloridrico. Le due soluzioni acide furono riunite, svaporate a secco, ed il residuo seccato in stufa a 100°-110°. Si ottennero gr. 3,8 di eloridrati, corrispondenti a 0,45 per mille di piante. Per vedere se fra gli alcaloidi della datura si trovassero delle basi vo- latili. abbiamo rimesso in libertà le basi con potassa, estratto con etere e distillato con vapore l'estratto etereo. Il distillato, saturato con acido clori- drico e svaporato a secco, pesava gr. 0,60. Sciolto questo residuo in poca acqua, sì ottenne, per trattamento con cloruro d'oro, un precipitato che, cri- stallizzato dall’acido coloridrico diluito, si presentò in forma di spine di pesce miste a piccola quantità di una sostanza che si separava oleosa (forse cloroaurato di atropina). La quantità però non fu tale da permettere una ulteriore purificazione; questi cristalli vennero messi da parte per poterli poi riunire a quelli provenienti dalle lavorazioni successive. Risultò tuttavia da questa prova l'assenza della piridina, il cui cloro- aurato, per la sua poca solubilità, è facilmente riconoscibile anche in pic- cole dosi. Piperidina. — Le inoculazioni furono eseguite col tartarato della base in tre piante nei giorni 8, 19 agosto e 2 settembre. La quantità totale di sostanza introdotta fu di gr. 21. Le piante sì raccolsero il 15 settembre e pesavano, complessivamente, kg. 38 Col metodo già descritto, vennero estratti gli alcaloidi e separate le basi volatili. I cloridrati dei primi pesavano gr. 5,2, pari al 0,65 per mille di piante; quelli delle seconde, gr. 1,28. Questi diedero col cloruro d'oro, dei cristalli simili ai precedenti, ma in quantità troppo piccola per rendere possibile la purificazione. Non possiamo dire con certezza se fra le basi distillate col vapore sì trovasse un poco della sostanza inoculata; senza dubbio, però, la massima parte di essa era scomparsa. Acido carbopirrolico. — Si adoperarono cinque piante, che furono ino- culate col sale sodico nei giorni 12, 18 agosto e 2 settembre, nella quantità totale di gr. 30. Col solito procedimento sì ottennero gr. 6,4 di cloridrati, corrispondenti al 0,70 per mille di piante, e gr. 0,94 di cloridrati delle basi volatili che fornirono un cloroaurato simile ai precedenti. Testimoni. — Per la prova di confronto si prescelsero tre piante che vennero raccolte lo stesso 15 settembre. Il loro peso complessivo era di kg. 4,5. Da esse si ottennero gr. 2,6 di cloridrati, corrispondenti al 0,58 — 616 — per mille di piante, e gr. 0,35 di cloridrati delle basi volatili. Questi, trat- tati con cloruro d’oro, diedero cristalli simili a quelli ottenuti, in modo ana- logo, dalle precedenti esperienze; perciò vennero tutti riuniti e cristallizzati dall’acido cloridrico diluito. Fondevano a 215°-214°, e la determinazione del- l'oro diede risultati corrispondenti al cloroaurato di tropina. Calcolato per C$H15 NO,HAuCl, Trovato 41,09 41,18 Il cloroaurato di tropina fonde a 203°,5 secondo Ladenburg; a 212° se- ‘ condo Schmidt ('). Da questa prima serie di prove si vede che le sostanze inoculate scom- paiono almeno per la massima parte e che, d'altro canto, la maggior quan- tità di alcaloidi fu trovata nelle piante trattate con piridina. SECONDA SERIE. Per accertare meglio i fatti ora descritti, abbiamo eseguito, come già si disse, esperienze su più larga scala; e poichè i prodotti finali che si otten- gono sono gli stessi, qualunque sia la sostanza inoculata, e d’altra parte il risultato più importante si ebbe con la piridina, così venne ripetuta soltanto la prova di inoculazione con questa base. Le inoculazioni furono eseguite sopra 72 piante con tartarato di piridina che si somministrò nei giorni 24 luglio, 3, 12 e 23 agosto, nella quantità totale di circa gr. 600. Le piante furono raccolte il 3 settembre e pesavano kg. 238. Altre 72 piante, coltivate nelle stesse condizioni, ma senza alcun trattamento, avevano l'ufficio di testimonî. Forono anch'esse raccolte il 3 set- tembre, ed il loro peso complessivo era di kg. 208. Le prime operazioni, data la mole del materiale, vennero eseguite nello stabilimento Campari a Sesto S. Giovanni di Monza. Alla Ditta Campari e al dott. Emiliò Soncini, sotto la cui direzione furono con molta cura ese- guite le estrazioni, esprimiamo i nostri più sentiti ringraziamenti. L'estratto cloridrico concentrato delle piante, soprasaturato con potassa, venne estratto con etere, e gli alcaloidi trasformati in cloridrati. Questi fu- rono da noi presi in esame. Moculate. — I cloridrati greggi, seccati nel vuoto a bagno salato bol- lente, pesavano gr. 104, pari al 0,44 per mille di piante. Soltanto 29 gr. però erano costituiti dai cloridrati delle basi organiche, essendo il rimanente clo- ruro ammonico. Fra gli alcaloidi volatili abbiamo riscontrato traccie di piridina e, como nelle esperienze preliminari, la tropina, il cui cloroaurato fonde a 212°-213°. Calcolato per Cs His NO.HAuCk Trovato C 19,95 19,82 H 3,90 3,99 €) Beilstein, 3° edizione, vol, IMI, pag. 786; supplemento, vol. III, pag. 605. — 617 — Riteniamo per altro che la tropina non preesista nelle piante, ma che si sia liberata dall’atropina durante le manipolazioni ora descritte. Noi infatti abbiamo eseguito sull’atropina pura le stesse operazioni fatte sulle dature, ed abbiamo potuto stabilire che realmente si forma della tropina libera. Il liquido alcalino, da cui furono estratti con etere gli alcaloidi, venne distillato a Sesto S. Giovanni col vapore acqueo. I cloridrati ottenuti dal distillato furono estratti con alcool, e l'estratto alcnolico dette gr. 6,5 di pro- dotto. Per trattamente con cloruro d'oro si ottennero dei cristalli a forma di bastoncini fondenti, con decomposizione, a 215°. Della probabile natura di questo corpo, che ottenemmo pure nella esperienza parallela colle piante te- stimoni, ci occuperemo a proposito di queste. Testimoni. — I cloridrati dell'operazione eseguita a Sesto pesavano gr. 63,5, di cui soltanto gr. 15 erano da attribuirsi alle basi organiche ed il rimanente all’ammoniaca. Ciò conferma pienamente il risultato delle espe- rienze della prima serie, e cioè il forte aumento di alcaloidi determinato dalla piridina. Anche dai testimonî si ebbero, dal liquido alcalino, per distillazione, delle basi volatili. I cloridrati, purificati dall'alcool, pesavano gr. 6. Con cloruro d'oro diedero cristalli simili a quelli corrispondenti, ottenuti dalle dature inoculate; perciò furono tutti riuniti e cristallizzati dall'acido clori- drico diluito. Si ottennero aghetti fondenti, con decomposizione, a 231°. Il cloroaurato venne trasformato in picrato, che è pochissimo solubile nell’alcool e nell'acqua e che col riscaldamento annerisce senza fondere. Le analisi di questi sali dettero numeri che si avvicinano a quelli dei corrispondenti sali della /etrametilendiamina. Noi abbiamo perciò preparato il cloroaurato ed il picrato di questa base, ed abbiamo osservato una certa corrispondenza con quelli preparati dalla base ottenuta dalla datura. Il cloroaurato di tetrame- tilendiamina fonde con decomposizione a 230° (!), ed il picrato annerisce del pari senza fondere. Ma le nostre esperienze non ci permettono di affermare con certezza che l'alcaloide in questione sia la tetrametilendiamina. Questa base potrebbe provenire dalla decomposizione delle proteine. RICERCHE SUL TABACCO Con questa pianta (var. kentucky) si eseguirono tre serie di esperienze: la prima e la seconda corrispondenti a quelle sulla datura adoperando le stesse sostanze; nella terza serie si inocularono nel tabacco l’asparagina, l’ammoniaca, la piridina e le sostanze non azotate, glucosio ed acido ftalico. (1) Gli autori dànno il punto di fusione 210°: Beilstein, 82 ediz., vol. I, pag. 1156. — 618 — PRIMA SERIE. Le sostanze inoculate farono, come nella corrispondente serie di espe- rienze sulla datura, la pividina, la piperidina e l'acido carbopirrolico. Piridina. — Sì scelsero tre piante alle quali venne inoculata la piri- dina libera nei giorni 8, 19 e 30 agosto, nella quantità totale di gr. 12. Le piante vennero raccolte il giorno $ settembre e pesavano, al momento della raccolta, complessivamente kg. 8. Per estrarre gli alcaloidi, le piante vennero esaurite con acido solforico; il liquido concentrato fu reso fortemente alcalino con soda ed estratto con etere; la soluzione eterea venne spogliata degli alcaloidi dibattendola con acido cloridrico. Il liquido alcalino residuo della estrazione eterea, venne distillato col vapore su acido cloridrico. Le due soluzioni cloridriche, riunite, furono svaporate a secco nel vuoto ed il residuo seccato a 100°-110°. I cloridrati ottenuti pesavano gr. 18, pari al 2,25 per mille di piante: estraendo con alcool assoluto a caldo per elimi- nare il cloruro ammonico, ne rimasero gr. 15. Le basi furono rimesse in li- bertà con potassa ed estratte con etere. Svaporato il solvente con precau- zione, si ottenne, per distillazione frazionata, una prima frazione bollente fino a 110° ed una seconda fra 238° e 242° nella quantità di gr. 7,7. Que- sta ultima è costituita da nicotina, il cui punto di ebollizione è 246°,7 (cor- retto) (*). Per identificare la parte più volatile, venne convertita in cloridrato 6 si trattò con cloruro d'oro. Si ottenne una piccola quantità di precipitato che, purificato, fondeva a 190° (cloroaurato di nicotina). Per concentrazione delle acque madri, sì separarono dei cristalli a forma di grandi tavole, che nel vuoto sfiorivano e fondevano, deacquificate, 151°-152°. Della natura di questo sale, tratteremo in seguito. Risultò con certezza da questa esperienza che tra gli alcaloidi isolati dalle piante trattate con piridina, non si trova traccia di quest'ultima. Piperidina. — Questa sostanza venne fornita a tre piante, allo stato di tartarato, negli stessi giorni dell'esperienza precedente e nella quantità totale di gr. 18. Le piante vennero prese in esame l’8 settembre e pesa- vano, complessivamente, kg. 8,5. Da esse, col metodo già descritto, sì otten- nero gr. 16 di cloridrati corrispondenti a 1,88 per mille di piante verdi. Le basi, messe in libertà e frazionate, diedero per distillazione una prima frazione fino a 110° ed una seconda bollente intorno a 240°, nella quantità di gr. 6 (nicotina). Dalla prima frazione si ottenne, anche questa volta, una piccola quantità di cloroaurato fondente a circa 190° ed i cristalli tabulari fondenti a 151°-152°. Non possiamo dire con certezza se fra gli alcaloidi più volatili vi fosse qualche poco di piperidina. (1) Beilstein, 8* edizione, vol. IV, pag. 855. — 619 — Acido carbopirrolico. — Fu somministrato allo stato di carbopirrolato so- dico. Si operò sopra cinque piante inoculando il sale nei giorni 12, 18 e 30 ago- sto, nella quantità di gr. 30. Furono raccolte 1’ 8 settembre, e pesavano kg. 9. Esse fornirono gr. 12,8 di cloridrati, corrispondenti a 1,42 per mille di piante. Messe le basi in libertà, si ottennero, per distillazione frazionata, le due solite porzioni. La prima diede i cloroaurati fondenti rispettivamente a 190° e 151°-152°; la seconda era costituita da nicotina (gr. 5,5). Testimoni. — Abbiamo prescelto, per il confronto, tre piante che non subirono alcun trattamento. Furono anch'esse raccolte l'8 settembre e pe- savano kg. 8,1, Esse fornirono gr. 14,6 di cloridrati corrispondenti a 1,80 per mille di piante. Dalle basi più volatili si ottennero anche qui gli stessi cloroaurati fondenti a 190° e 151°. Da questa serie di esperienze sul tabacco, risulta, come dalla serie pa- rallela sulla datura, che le sostanze inoculate scompaiono, almeno per la massima parte, mentre in tutti i casì si ritrovano le stesse basi, e che la maggior quantità di esse si ebbe dalle piante trattate con piridina. SECONDA SERIE. Queste esperienze furono eseguite allo scopo di meglio accertare i fatti osservati nella prima serie, e, inoltre, di identificare la base più volatile ritrovata costantemente, il cui cloroaurato fonde a 151°. Anche qui furono ripetute soltanto le esperienze di inoculazione colla piridina che aveva dato, come nelle dature, il risultato più favorevole. Le inoculazioni furono eseguite sopra 90 piante, con tartarato di piri- dina. La quantità totale impiegata fu di circa gr. 1100 somministrati nei giorni 3, 13, 24 agosto e 1° settembre. Le piante furono raccolte il 10 set- tembre, e pesavano kg. 236. Altre 90 piante che avevano l'ufficio dì testi- moni, furono pure raccolte il 10 settembre e pesavano kg. 265. Allo stabilimento Campari le piante furono estratte con acido clori- drico; l'estratto, concentrato nel vuoto, venne soprasaturato con potassa, di- stillato col vapore su acido cloridrico, ed il liquido raccolto, concentrato a piccolo volume. A questo punto abbiamo ripreso noi la lavorazione. Inoculate. — Una parte aliquota ('/s0) dell'estratto cloridrico, conve- nientemente purificato e separato coll’alcool dal cloruro ammonico, servì per il dosamento dei cloridrati degli alcaloidi. Se ne ottennero gr. 10,5. In to- tale, dunque, le piante inoculate fornirono gr. 525 di cloridrati, che rappre- sentavano il 2,22 per mille di piante verdi. Dal rimanente dell’estratto cloridrico furono messe in libertà le basi che vennero poi distillate frazionatamente. Si ottenne una frazione più volatile del peso di 14 gr., bollente fra 80° e 115°, e gr. 258 di nicotina. Poichè la parte più volatile aveva l'odore di piridina, questa fu dosata allo stato di cloroaurato. Da gr. 2, si ebbero 6 gr. di cloroaurato, corrispondenti ad — 620 — una quantità totale di 8 gr. di piridina, in confronto dei 1100 gr. di tar- tarato inoculato. Per concentrazione delle acque madri del cloroaurato di piridina, si ottenne, come sempre, il cloroaurato tabulare che, deacquificato, fondeva a 150°-151°. Testimoni. — Anche in questo caso si dosarono dapprima i cloridrati totali degli alcaloidi, che risultarono nella quantità di gr. 380, corrispondenti a 1,43 per mille di piante. Le basi, messe in libertà, diedero, per distillazione, una frazione più volatile, bollente fra 80° e 123°, e gr. 196 di nicotina. Nella parte più volatile era contenuta, anche in questo caso, la base il cui cloroaurato fonde a 151°. Avendone avuto @ disposizione una suffi- ciente quantità, abbiamo potuto analizzarlo. Seccato nel vuoto, esso ha la composizione corrispondente alla formula C.H.;N.HAuClh Calcolato Trovato C 14,05 14,13 H 3,27 3,90 Au 46,18 46,08 Siccome il cloroaurato cristallizza con acqua, questa fu determinata asciugando i cristalli fra carta bibula e disidratandoli poi nel vuoto. Dal- l’analisi risultò che il corpo in questione contiene una molecola di acqua di cristallizzazione. Calcolato per C; His N.HAuChk.H0 Trovato H,0 4,04 4,14 Abbiamo potuto accertare che la base in parola non è altro che l'es0a- milamina, confrontandone il cloroaurato con quello di isoamilamina da noi espressamente preparato. Questa serie di esperienze conferma quanto fu osservato nella prima, cioè che la piridina, mentre scompare quasi completamente dalle piante inoculate, determina un notevole aumento nella quantità totale di alcaloidi. TERZA SERIE. I risultati finora ottenuti potevano far credere che la piridina avesse un'azione specifica nella sintesi degli alcaloidi. Era perciò necessario speri- mentare il contegno di un maggior numero di sostanze azotate. Furono pre- scelte a tal fine l’asparagina e l'ammoniaca, e venne ripetuta l'esperienza colla piridina. In secondo luogo, siccome è noto che le materie zuccherine fanno aumentare l'acido cianidrico nelle piante cianogenetiche ('), appariva oppor- (1) M. Treub, Annales du Jardin botanique de Buitenzorg, /3, 1 (1896); ibid.. 4, serie 2*, 86 (1904). — C. Ravenna e A. Peli, Gazzetta chimica italiana 37, 2, 586 (1907). tuno sperimentare il comportamento di sostanze non azotate anche sul ta- bacco: abbiamo adoperato, a tal fine, il glucosio ed una sostanza aromatica del pari molto ossigenata, l’acido ftalico. Inoltre abbiamo ricercato se le ferite fatte nel fusto per introdurvi le sostanze potessero determinare varia- zioni nel contenuto in alcaloidi, come influiscono sul contenuto in acido cia- nidrico le lesioni in generale ('). Un ultimo fatto rimasto incerto, era se l’isoamilamina si trovasse fra gli alcaloidi del tabacco o se provenisse da altre sostanze durante la lavorazione in laboratorio. Per risolvere tutte queste questioni, abbiamo eseguito le esperienze che ora descriviamo. Le prime operazioni, in causa della grande quantità di materiale in esame, furono eseguite allo Stabilimento Carlo Erba di Milano. Anche qui sentiamo l'obbligo di esprimere alla Ditta Erba, al suo procuratore dott. Gio- vanni Morselli ed al dott. Raffaele Pajetta la nostra viva riconoscenza. Le piante di tabacco vennero esaurite con acido cloridrico: e per evitare che durante la concentrazione l’acido danneggiasse i lambicchi di rame, l'estratto cloridrico fu neutralizzato con soda, poi acidificato con acido tartarico. Il li- quido ottenuto potè così essere portato nel vuoto a piccolo volume, senza difficoltà. L'estratto concentrato ci venne spedito per l'ulteriore esame. Per ogni singola operazione si operò sopra 5 piante che vennero inoculate nei giorni 10, 20, 30 agosto e 9 settembre, e raccolte il 17. Per la prova ri- guardante l’isoamilamina fu preparato invece semplicemente l'estratto acquoso di 64 piante, che, dopo concentrazione, ci fu inviato in laboratorio. Asparagina. — La quantità totale di sostanza inoculata fu di gr. 29; al momento della raccolta le piante pesavano kg. 15,8. Per conoscere la quantità totale delle basi contenute nell’estratto tartarico giuntoci da Mi- lano, lo abbiamo reso fortemente alcalino con potassa e distillato in corrente di vapore su acido cloridrico; il liquido raccolto fu svaporato nel vuoto, e dal residuo secco si eliminarono coll’alcool i sali ammoniacali. L'estratto alcoo- lico, seccato a 100°, pesava gr. 38,2, corrispondenti al 2,50 per mille di piante. Piridina. — Si inocularono, in totale, gr. 60 di tartarato della base. Le piante, al momento della raccolta, pesavano kg. 17,1. Con processo si- mile ai precedenti si ottennero gr. 31,0 di eloridrati, corrispondenti a 1,81 per mille di piante. Ammoniaca. — Anche questa sostanza fu somministrata allo stato di tartarato, nella quantità di gr. 36. Dalle 5 piante, che pesavano kg. 15,2, si ottennero gr. 29,4 di cloridrati, corrispondenti a 1,93 per mille. Glucosio. — Furono inoculati gr. 40 della sostanza. Le piante pesa- vano kg. 16,0 e fornirono gr. 34,5 di cloridrati, pari a 2,15 per mille. Acido ftalico. — Fu inoculato allo stato di ftalato potassico; dalle piante in esame, del peso di kg. 13,1, si ottennero gr. 20 di cloridrati, pari a 1,52 per mille. (1) C. Ravenna e M. Zamorani: Le stazioni sperimentali agrarie italiane, 42, 389 (1909). RenpiconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 82 — 622 — Piante lesionate. — Per studiare l’effetto delle lesioni, nel fusto di 5 piante di tabacco venne praticata un'apertura simile a quella nella quale venivano introdotte le sostanze in esame. In questo caso, peraltro, l'apertura si richiudeva senz'altro, fissando le parti di corteccia staccate, con paraffina. Da queste piante, del peso di kg. 17,9. si ottennero gr. 34,0 di cloridrati, vale a dire 1,90 per mille. Testimoni. — Furono prescelte 5 piante che non subirono alcun tratta- mento. Pesavano kg. 15,4 e dettero gr. 23 di cloridrati, corrispondenti a 1,49 per mille. L isoamilamina. Questa sostanza sta senza dubbio in relazione colla leucina, da cui può prendere origine per eliminazione di anidride carbonica. L' isoamilamina si forma infatti per distillazione a secco, con potassa, della leucina € di alcune sostanze proteiche, come la materia cornea (*). Appariva quindi possì- bile che nelle nostre ricerche questa base prendesse origine o da leucina presente nelle piante o da qualche materia proteica. Perciò noi abbiamo vo- luto sottoporre al trattamento da noi seguìto per l'estrazione degli alcaloidi del tabacco, un vegetale contenente notoriamente molta leucina (le piantine germinanti di veccia), poi la materia cornea e finalmente la leucina stessa. Ma da nessuno di questi materiali si ottenne isoamilamina. Per risolvere in modo definitivo la questione, ci sembrò tuttavia neces- sario eseguire sopra il tabacco stesso alcune esperienze in modo da evitare l’azione degli acidi e delle basi forti. Abbiamo operato, come si disse, sopra 64 piante (Kg. 147), di cuì fu preparato l'estratto acquoso. Una parte ali- quota di esso (+) fu evaporata a secco nel vuoto, il residuo trattato con alcool, e l'estratto alcoolico, sciolto in acqua, fu distillato col vapore, in presenza di un eccesso di idrato di magnesio, su acido cloridrico. Dai cloro- idrati ottenuti si misero in libertà le basi che vennero distillate fraziona- tamente. Dalla parte più volatile (fino a 110°) si ottenne il cloroaurato di isoamilamina, cristallizzato nelle caratteristiche tavole che, deacquificate, fondevano a 151°. Rimane così provato che l'isoamilamina da noi ritrovata costantemente in piccola quantità fra gli alcaloidi del tabacco, non proviene nè dalle s0- stanze proteiche, nè dalla leucina. Non possiamo però affermare se questa base si trovi nelle piante allo stato di sale o in forma di qualche suo derivato facilmente scindibile anche dalla magnesia. RIASSUNTO. I risultati delle esperienze ora descritte sono riuniti nel seguente quadro. Siccome ogni serie di prove fu eseguita in differenti condizioni di tempo e (*) H. Limpricht, Annalen der Chemie und Pharmacie, 101, 296 (1857). — e di coltura, i risultati delle diverse serie non sono rigorosamente comparabili tra di loro. I numeri che si riferiscono alla terza serie sul tabacco, sono invece strettamente comparabili, anche perchè le quantità di sostanze azo- tate inoculate si equivalgono rispetto all’azoto. ESPERIENZE SULLA DATURA. NumERO CLORIDRATI CLORIDRATI Serie TRATTAMENTO È Peso col liberati delle piante 5 n cloruro ammonico dal cloruro ammonico Kg. Gr. Gr. Ja | Piridina 1 8 4,0 3,8 pari a 0,95 °/oo — ” Epi dina 3 SON 5 NO 00 —_ ” Carbopirrolato . 5 SON 6-4 — D) Testimoni . 5 5) 4,5 Go 058 = Pil Padoa e o 19 238 |1040 » 0,44 » | 29,0paria0,12°/v0 » Tesoro. rale o 72 208 63,5, 2.090 ».| 15,0» 0,07 » HsPERIENZE SUL TABACCO. E | Z E & CLORIDRATI CLORIDRATI ‘ | TRATTAMENTO |£" È col liberati NICOTINA dA ZE cloruro ammonico dal cloruro ammonico O e ene | e i iui Kg. Gr. Gr. Gr. 1*| Piridina . 3| 8,0| 18,0paria 2,25 9/00 15,0 pari a 1,87 °/oo 6,0 pari a 0,96 °/oo » | Piperidina . 3| 8,5| 16,0 » 1,88» — ONTO » | Carbopirrolato.| 5| 9,0| 12,8.» 1,42 » — DO OE » | Testimoni SS RO) FE no 50 5,0 » 0,62 » SREP:ridina e (9012961120000 5,100» | 513 MN2:1700=) | 298) n 1,10 » Testimoni SS 900265| 812 (8,10 | 3800143, 0 196 0,74 » 3° | Asparagina . 5|15,8 — 38,2.» 2,50 » — » | Piridina . 5|17,1 —_ 31,0» 1,61 » — n | Ammoniaca. 515,2 — 294 » 1,93 » — n | Glucosio. . .| 516,0 —_ BO Wa —_ » | Acido ftalico 5|13,1 _ 20,0.» 1,52 » — » | Lesionate 5|17,9 — 940 AM9 08 _ » | Testimoni 5|15,4 _ 23,0 » 1,49 » 5 Dal precedente quadro risulta che la piridina non ha un'influenza spe- cifica sull'aumento degli alcaloidi: nel tabacco, l’ammoniaca produce lo stesso effetto. Più rimarchevole è l'influenza dell’asparagina la quale, nelle nostre esperienze, ha determinato la maggiore quantità di alcaloidi. Anche la le- sione produsse l’effetto di far aumentare la nicotina; e perciò non è impro- babile che, in genere, un trauma accresca il contenuto in alcaloidi nelle piante — 624 — alcaloidiche, come fa aumentare l'acido cianidrico nelle piante cianogenetiche. Anche il glucosio determinò un forte aumento di nicotina; perciò, anche da questo lato, le esperienze relative alla formazione dell'acido prussico diven- tano comparabili colle attuali. Infine è rimarchevole che la inoculazione del- l'acido ftalico abbia condotto al minor per mille di alcaloidi, tanto da diffe- rire di poco da quello delle piante testimoni. Tenendo conto dell'influenza della lesione, se si può il suo effetto ritenere costante in tutti i casi da noi studiati, si potrebbe addirittura dedurre che l'acido ftalico ha fatto di- minuire la quantità di nicotina. Sarà perciò utile continuare lo studio del- l'influenza che esercitano le sostanze aromatiche sulle piante alcaloidiche. CONCLUSIONI. Le osservazioni raccolte in questa Nota non permettono di trarre con- elusioni sufficientemente sicure, relative alla genesi ed al significato degli al- caloidi nelle piante. Ci sembra, però, che le nostre esperienze parlino piut- tosto in favore di quelle vedute che considerano gli alcaloidi vegetali come provenienti dagli acidi amidati. In appoggio di questa tesi, oltre al contegno della asparagina nel tabacco, ci sembra che possa essere interpretato il fatto della presenza da noi riscontrata dell’isoamilamina e si potrebbe supporre, come fa il Winterstein nella sua interessante monografia sugli alcaloidi ('), che basi provenienti da acidi amidati, quali la lisina e l’ornitina, vengano utilizzate dalle piante nella formazione degli alcaloidi. Ci è grato infine esprimere i nostri sentiti ringraziamenti al dott. Vin- cenzo Babini per l’efficacissimo aiuto che ci prestò in queste esperienze. Chimica. — Azioni chimiche della luce. Nota XVIII del Socio G. CIAMICIAN e di P. SILBER. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (1) E. Winterstein e G. Trier, Die Alkaloide, Berlin, 1910. — 625 — Chimica. — Relazioni fra alcuni derivati dell'ossigeno e del- l'azoto. Nota del Corrisp. A. ANGELI. Le considerazioni che formano argomento della presente Nota, si pos- sono riguardare come un seguito a quelle contenute nella mia comunicazione fatta lo scorso anno a questa Accademia: Sopra alcune analogie fra de- rivati dell'ossigeno e dell’azoto (*), ed ebbero origine dalla lettura degli interessantissimi lavori che C. Harries ha pubblicati sull'azione dell'ozono sopra le sostanze organiche. Come è noto, questo autore ha trovato che una molecola di ozono reagendo sopra un composto contenente un legame doppio o triplo fornisce prodotti che egli ha chiamati ozonzdi : o=0< 3 ani cio N i quali a loro volta sono suscettibili di subire svariate ed importanti tras- formazioni, fra le quali è rimarchevole la scissione: Dr Od | | go O pe CC 00 \gy7 0 Nel corso dei suoi studî, Harries stesso ha trovato che l'ozono reagisce non solo sui legami multipli fra carbonio e carbonio, ma che un processo analogo, sebbene ancora non sia stato possibile isolare il corrispondente ozo- nide, con tutta probabilità si compie anche quando si tratti di legami mul- tipli fra carbonio ed azoto (*); nel caso p. e. dell'ossima: >C=N(0H) + 0,= 20 Ti 02 0H) NO; (0) (0) ad (1) Questi Rendiconti, vol. XIX, 2° sem., pag. 29. (?) Liebig*s Annalen, 348, pag. 323. 6260 — Queste reazioni, prescindendo da qualunque formula di struttura (*) sì voglia attribuire a queste sostanze, dimostrano che in questi casi una mo- lecola di ozono può perdere un atomo di ossigeno e che al suo posto è an- dato un atomo di carbonio, come nel caso della formazione dei perossidi : 70 7 ovvero un atomo di azoto, come nel caso dell'acido nitrico dalle ossime (?): /0 Vl (O) Ne ovvero MONTE Ne segue perciò che nella molecola dell'ozono un atomo di ossigeno è stato rimpiazzato dall’azoto; nei seguenti schemi si è tenuto solamente conto del modo con cui gli elementi probabilmente sono disposti, e non come sono riuniti : 10) 10) i —S tom (©) ES Ora possiamo seguitare nel processo di sostituzione degli atomi di os- sigeno; infatti, come ha dimostrato Thiele, dall'acido nitrico si può prepa- rare la nitrammide: (0) | 0 (0) | | N(OH) — DONE: (0) (') Taluni attribuiscono all'acqua ossigenata la struttura O=0=H3; in modo ana- logo all’ozono si potrebbe assegnare l’altra O=O=O, all’acido azotidrico N=N=NH ed al diazometano N==N=CH, che meglio spiegherebbero i processi di addizione di queste sostanze. (2) Partendo p. e. da acetone, dapprima si prepara l’ossima che poi si tratta con ozono: (CH;):CO + NH,.0H=(CH,).:CNOH +4 H,0 (CHy);:CNOH + 03 =(CH3),:CO 4 NO;H Il chetone quindi si rigenera, e sommando le due eguaglianze ne segue la relazione molto semplice: NH,.0H + 0; = H,0 + NO;H che forse si potrà realizzare anche direttamente. — 627 — la quale perde facilmente una molecola di acqua per dare protossido di azoto; dunque: (0) N | | NODIIIN | | 0 0 Finalmente il protossido di azoto per azione dell'’ammoniaca (sotto forma di sodioammide, come ha trovato W. Wislicenus) scambia il suo atomo di ossigeno col residuo >NH e così si arriva all’acido azotidrico : N N NA zio N ò NH Si vede quindi che per mezzo di queste trasformazioni è possibile di sostituire successivamente nella molecola dell'ozono ciascun atomo di ossi- geno con un atomo di azoto: 0 0 N | | | | O is (0) MU | | | | 0 0 0 NH ovvero anche, giovandosi delle formule solite: Da Ng VOCE E O NA In questo caso i due termini estremi, ozono ed acido azotidrico, presen- tano fra di loro maggiori analogie che non con gli intermedî; tutti e due in- fatti si formano con assorbimento di calore e da ciò il loro potere esplosivo; entrambi sono velenosi e di odore soffocante; entrambi reagiscono con i com- posti a legami multipli; il primo formando gli osonidi a cui prima si è accennato, mentre l'acido azotidrico (ed î suoi eteri): CH=CH | NH = CH-=CH | N N N dà luogo alla formazione di #riazoli. > (Ra Botanica. — Piproduzione artificiale della Morìa dei ca- stagni (Mal dell’ Inchiostro) ('). Nota del Socio G. BrrIosr e di R. FARNETI. In una Nota pubblicata nel luglio del 1907 (*) dimostrammo che il processo morboso che determina la così detta Morda dee castagni, così nei cedui come nelle fustaie, non si inizia nelle estremità delle radici (ove sono le micorize) per procedere verso il tronco, ma segue la via inversa, cioè dal tronco scende alle radici; contrariamente a quanto si riteneva da tutti coloro, e sono molti, che si sono occupati di questa micidiale malattia dei castagni, che ha distrutto intere selve, tanto in Italia quanto in Francia, Spagna, Portogallo ecc. In essa dimostrammo pure che nei cedui della Toscana la malattia si manifesta sui polloni con la produzione di un cancro che si presenta in forma di una depressione livida della corteccia nella parte attaccata, cancro prodotto dall’azione patogena di un fungo microscopico parassita, che noi descrivemmo sotto il nome di Coryneum perniciosum Briosi e Farneti. In una seconda Nota pubblicata nel giugno 1909 (*), dimostrammo che detta Moria presentava in Piemonte, in Liguria e nella Lunigiana, gli stessi caratteri osservati in Toscana, e che ivi pure era dovuta allo stesso parassita, il Coryneum perniciosum Briosi e Farneti; anzi, di questo parassita sco- primmo allora anche la forma picnidica (Zusicoccum perniciosum Briosl e Farneti) e la forma ascofora (Melanconis perniciosa Briosi e Farneti), e le descrivemmo. Inoltre, in essa si dimostrò pure che ovunque l'andamento del male era identico e tanto negli alberi d'alto fusto, nei polloni dei ceduì, salvo lievi differenze dovute al variare delle condizioni dell'ambiente, all’età del albero, allo spessore e allo stato esterno della corteccia della pianta, al vigore di questa e, specialmente, al punto in cui il ramo od il tronco viene attaccato. Quando l'infezione comincia nei rami, la malattia si manifesta col pre- coce ingiallire delle foglie e col disseccamento dei rami attaccati, e ciò av- (1) Il lavoro in esteso, corredato da disegni e fotografie, verrà pubblicato negli Atti dell’ Istituto Botanico della R. Università di Pavia. (2) Briosi e Farneti, Sulla Morda dei castagni (Mal dell'Inchiostro). Prima Nota. Atti dell'Istituto Botanico della R. Università di Pavia, Ser. II, vol. XIII, Milano, 1907. (3) Briosi e Farneti, Intorno alla causa della Morda dei castagni (Mal dell'inchiostro) ed ai mezzi per combatterla. Atti dell'Istituto Botanico dell’Universisà di Pavia, Sez. IL val. XIV, Milano, 1909. — 629 — viene senza ordine e senza causa apparente. Da principio, nel suo complesso, la pianta non sembra molto sofferente; ma, negli anni successivi, il male si estende, la pianta tutta intristisce e muore. Sui rami, più o meno giovani, di un albero d'alto fusto, il male si può seguire come nei polloni di un ceduo, poichè il percorso dell’ infezione lascia dietro di sè la caratteristica depressione livida della corteccia, cioè il cancro cosparso più o meno di pustole del parassita. Quando il male colpisce direttamente il tronco o la ceppa, l’intero al- bero muore improvvisamente, come preso da apoplessia ; senza che l’ infezione lasci traccia di cancro sulla corteccia, generalmente grossa e coperta di riti- doma. Allora le foglie e i frutti seccano sui rami aì quali restano attaccati anche durante l'inverno. Questo modo, non infrequente, di morire degli alberi è quello che più sconvolse le idee degli studiosi e diede luogo alle maggiori controversie, poichè non se ne sapeva trovare la giusta ragione. Il male, in questi casì, si diffonde sotto il grosso ritidoma che lo na- sconde all’ occhio dell'osservatore; e soltanto quando il processo morboso ha molto progredito ed è riuscito a circuire il tronco o la ceppa o ad invadere le radici, si rende manifesto. La pianta, nulla di anormale rivela all’ esterno; il parassita rimane nascosto sotto la corteccia, limitato più o meno intorno ai focolai d'infezione. DE, Che il Male dell'inchiostro fosse dovuto al parassitismo del Coryneum perniciosum e delle sue forme più evolute (Fusicoccum e Melanconis), per noi non vi era alcun dubbio; poichè centinaia di osservazioni fatte nelle selve di diverse regioni ci comprovavano quanto fin da principio avevamo intuito ed affermato. Del resto, anche i signori Griffon e Maublane, della Stazione di pato- logia di Parigi, che recentemente studiarono questa malattia nei cedui della Francia, hanno trovato le stesse cose da noi osservate, e confermato quanto noi avevamo pubblicato, come risulta dall'ultimo loro lavoro e come essi stessi in persona ne accertarono, in una cortese e gradita visita fattaci al nostro laboratorio in Pavia, nel mese scorso. In tale occasione noi avemmo il piacere di mostrare ai chiarissimi scien- ziati francesi i nostri preparati, il materiale che ci aveva servito per lo studio; e potemmo loro dimostrare anche come il male che uccide gli alberi d'alto fusto (da loro non ancora studiato) fosse perfettamente identico a quello che fa morire i cedui. Se noi non avevamo peraltro alcun dubbio sul parassitismo del Coryneum perniciosum e delle sue forme più evolute, e sul fatto che esso fosse la causa efficiente della Morèa dei castagni o Mal dell'inchiostro, ne mancava peraltro la prova sperimentale diretta, quella che può togliere a chiunque ogni dubbio RenpIconTI: 1911, Vol. XX, 1° Sem. 83 — 630 — e che si ottiene solo con la riproduzione artificiale della malattia. A ciò ot- tenere, noi iniziammo esperienze sino da due anni or sono; ed ora finalmente esse hanno maturato i loro risultati, ed in modo così evidente che noi ne potemmo mostrare gli effetti chiari e sicuri, e confermanti in tutto la nostra opinione anche ai due esimii patologi francesi, in occasione della loro visita a Pavia. Le esperienze cominciarono sulla fine della primavera del 1909 sopra un grosso albero di castagno d'oltre trent'anni d'età, nel pieno vigore e ri- goglìo di vegetazione, posto nel R. Orto Botanico di Pavia. Era un albero posto nelle migliori condizioni, poichè isolato e in mezzo ad una vasta pianura, dove il castagno non è oggetto di speciale coltivazione, e che per di più trovasi a qualche centinaio di chilometri dai più vicini centri infetti. Le prove furono ripetute nel 1910 sopra giovani pianticelle provenienti da un vivaio di Mariano Comense, trapiantate appositamente in altro angolo del nostro Orto Botanico; ma di queste diremo in altra occasione, essendosi in esse solo da poco iniziata la riproduzione del male. Le prove di riproduzione furono fatte, come è naturale, col metodo del- la inoculazione diretta delle spore del parassita. i Nella primavera del 1909 noi stessi andammo a raccogliere corteccie malate nei cedui dei dintorni di Savona, da le quali traemmo i germi per le nostre inoculazioni. In queste adoperammo spore tanto della forma conidica (Coryneum per- niciosum) quanto della forma ascofora (Melanconis perniciosa), ricavate in parte direttamente dalle pustole delle piante malate, in parte ottenute da | colture pure del parassita, da noi convenientemente preparate. Avendo un solo albero a nostra disposizione, le diverse forme di spore | vennero iniettate in settori distinti e ben limitati del suo tronco, a poco più | di un metro dal suolo. Per facilitare l’inoculazione, le spore furono poste in acqua distillata sterilizzata, poscia iniettate nel tessuto erbaceo della corteccia mediante una siringa di Pravaz. Nelle aree del tronco prescelte per le inoculazioni asportammo da prima | il ritidoma, mediante raschiabtura e scarificazione col bistori, su qualche cen- timetro quadrato di superficie. Per facilitare la penetrazione dell'ago della siringa e del liquido con- | tenente le spore, si perforò, con un altro ago più resistente e più grosso 0 | con la punta del bistori previamente sterilizzati, il tessuto erbaceo della cor- | teccia, procurando di non intaccare il cambio e di non provocare sgorgo i di linfa; e perchè il foro da infettare percorresse lunga porzione di tes- suto, si tenne l'ago molto obliquo, procedendo, come è naturale, dall'alto al basso. — 631 — Un mese dopo praticata la inoculazione, cioè nell'agosto, incominciò la corteccia ad acquistare, intorno ai centri infettati artificialmente e nei limiti delle aree raschiate e anche un poco più sopra e più sotto, un colore bruno- rossastro che persiste tuttora. Noi supponemmo che si fosse iniziato il processo d’ infezione, ed ansiosi aspettammo la formazione netta del cancro ed il suo rapido sviluppo. Ma ciò non avvenne; le piccole macchie non progredirono, e noi rimanemmo col dubbio se esse fossero dovute alla formazione del trauma oppure all’azione del parassita inoculato. Durante l'autunno e l'inverno, nulla si manifestò intorno alle aree in- fettate artificialmente, nè alcan disturbo venne fatto di notare nella vegeta- zione della pianta, la quale maturò perfettamente i suoi frutti, i quali cad- dero regolarmente insieme con le foglie ad autunno inoltrato. Nella primavera del 1910 la pianta si rivestì di foglie, e la fioritura e l’allegamento dei frutti furono regolari. Solo si ebbe lo sviluppo di molte gemme avventizie alla base del tronco, fino a circa 60 centimetri dal suolo. Questo fenomeno denota nelle piante, in generale, una perturbazione nel corso ascendente della linfa; ma nel castagno, quantunque questo fatto sia stato anche dato quale sintomo della Morza, si osserva assai di frequente pure nei castagneti floridi e immuni. Sul finire dell'estate dello anno scorso si ebbe un arrossamento generale e precoce delle foglie, e l'arresto dello sviluppo dei frutti; ma anche a questo fenomeno noi non demmo soverchia importanza, potendo essere prodotto da cause estranee alla Mor2a, come si verificò appunto l'anno scorso in molti castagneti dell’ Emilia e della Toscana. Nell'autunno ultimo le foglie non caddero come d’ordinario, ma rima- sero attaccate ai rami insieme coi frutti immaturi e mummificati. La persistenza anormale delle foglie e dei frutti è uno dei sintomi che, come si è detto, accompagna qualche volta il Male dell'inchiostro, e sul quale gli autori richiamarono più volte l'attenzione, poichè si manifesta in tal modo il caso più grave, e per molti inesplicabile, della malattia. Un tale fenomeno, peraltro, non sì può avere per esclusivo e caratteri- stico della Mor2a; esso in fondo denota solo la morte repentina, quasi ful- minea, della chioma dell'albero: fenomeno che può avvenire per diverse cause. La corteccia dei rami non presentava nulla di anormale, ad eccezione di un colore leggermente più scuro ma poco apprezzabile. Fino a tutto il febbraio ultimo, nulla di nuovo; ma nel marzo inaspetta- tamente, sulla corteccia del tronco, nella regione ove si erano fatte le inocu- lazioni, è apparsa una abbondante eruzione di pustole speciali, che l'aspetto esterno e l'esame microscopico dimostrarono essere formate dagli stromi del — 632 — Coryneum perniciosum, i quali avevano sollevato e rotto la corteccia. E tale eruzione si estendeva da pochi centimetri sopra il suolo sino a metri 2,20 di altezza. Il parassita da noi inoculato si è quindi riprodotto, e su larghissima scala, sporificando, fino ad ora, unicamente sotto la forma conidica. La pianta presenta i sintomi caratteristici della Morca nella sua forma più grave, cioè in quella della apoplessia, poichè tutta la chioma dell'albero è morta e le foglie ed i frutti sono rimasti mummificati sui rami. Esaminando attentamente l'albero, vedesi che il suo tronco è morto fin quasi a terra, e che il processo morboso sta ora discendendo rapidamente nelle radici. Si può seguire il percorso e misurare anche con approssimazione la ra- pida corsa discendente dell'infezione, poichè da una delle parti del tronco la corteccia è morta fino quasi rasente il suolo, e morti sono ì succhioni sopra di essa spuntativi l’anno scorso, mentre dalla parte opposta il processo mor- tifero è invece ora arrivato a circa 60 centimetri da terra, ma continua. I rimessiticci sviluppatisi sopra tale altezza sono pure tutti morti, mentre quelli sottostanti, formatisi l’anno scorso, veggonsi ancora vivi e rigogliosi, come viva mostrasi tuttora da questa parte l’ultima breve porzione sottoposta del pedale dell'albero. Il male rapidamente discende anche su questo lato: infatti in pochi giorni ha raggiunto il livello dei germogli più alti, or ora spuntati, ucciden- done quattro, uno dopo l’altro. L'eruzione delle pustole del parassita ha determinato sul tronco, delle aree allungate nel senso dell'asse dell'albero, più o meno depresse, sufficien- temente manifeste, specialmente all'estremità superiore, dove non confluiscono fra loro, ma terminano a punta ottusa. Queste aree si estendono al disopra per circa m. 0,60 a 0,70, e per m. 1,20 ad 1,50 al disotto dei luoghi ove si erano fatte le inoculazioni. Il micelio del parassita, in venti mesi, irradiando dai tre centri delle tre inoculazioni fatte, ha invaso dunque una superficie di circa 8000 centi- metri quadrati, avanzandosi verso l’alto in ragione di tre centimetri al mese, discendendo verso la base del tronco con velocità doppia, e trasversalmente ostendendosi in ciascun settore colla velocità di circa mezzo centimetro. L'andamento e la diffusione dell'infezione artificiale nella pianta, quindi, segue lo stesso percorso e si avanza con la stessa rapidità delle infezioni na- turali che abbiamo trovato nei castagni di Cadibona e nei cedui di Sella presso Savona, come dimostreremo nel lavoro definitivo. Me, In conclusione, siamo riusciti a riprodurre artificialmente la Morza dei castagni (Mal dell'inchiostro) colla semplice inoculazione delle spore del Co- — 633 — ryneum perniciosum Briosi e Farneti e di quelle della forma ascofora dello stesso micete. L'albero inoculato ed ucciso era perfettamente sano, in pieno rigoglìo di vegetazione, posto a centinaia di chilometri dalle selve infette, quindi nelle condizioni più favorevoli per tali esperienze. Anche in altre pianticelle giovani, artificialmente infettate, il male si sta riproducendo; ma di queste parleremo quando lo sviluppo della malattia sarà in esse più avanzato. Il male si sviluppò attorno ai centri delle inoculazioni fatte sul tronco a poco più di un metro dal suolo, e da detti centri si irradiò in alto ed in basso (sino alle radici) invadendo parecchie migliaia di centimetri quadrati di corteccia e riproducendo perfettamente i cancri caratteristici che trovansi negli alberi delle selve naturalmente infette, con sopra riprodottevi a decine di migliaia le pustole del Coryreum perniciosum. Considerato che le iniezioni sono state eseguite con tutte le necessarie pre- cauzioni, non v'è alcun dubbio che al Coryneum e non ad altri agenti sia dovuta la riproduzione della malattia, perchè deve escludersi ogni altra causa predisponente o determinante, ed anche il minuscolo trauma prodotto dall’ago della siringa non ha potuto, di certo, in alcun modo influire. Il male si è rivelato solo dopo lungo lasso di tempo, un anno e più, e sì è manifestato riproducendovi la forma finora più misteriosa ed inesplica- bile della malattia, quella della improvvisa apoplessia con tutti i suoi segni caratteristici, cioè precoce essiccamento delle foglie, mummificazione dei frutti che non sì staccano dai rami, tardiva formazione degli organi riproduttori del parassita, ecc. Il fatto di essere riusciti ad uccidere artificialmente, come abbiamo fatto noi, con semplici iniezioni di spore in alcuni limitatissimi punti del tronco un intero grosso albero sano, d’oltre 10 metri d'altezza in rigogliosa vege- tazione (è forse il primo esempio di tal genere), prova quanto sia grande la potenza patogena di certi funghi parassiti; il che non è privo d'importanza altresì per la parassitologia generale, e dimostra anche come sia strana ed errata l'opinione di quella scuola di patologi che vorrebbe negare a questi microrganismi ogni diretta azione sulla produzione delle malattie delle piante. — 634 — Meccanica. — Calcolo delle azioni dinamiche esercitate da correnti fluide sopra pareti rigide. Nota I di Tommaso Boggio, presentata dal Socio T. Levi-CIviTA. Nell'Idraulica, e specialmente nella teoria delle Turbine, è problema di alta importanza quello della determinazione delle azioni dinamiche esercitate da correnti fluide, in modo permanente, sopra pareti rigide. Tale determinazione è effettuata nei trattati di Idraulica (') e sulle Turbine (*), per alcuni casi particolari e con speciali artifizî che variano da caso a caso, e, quel che più importa rilevare, con ipotesi e procedimenti tutt'altro che rigorosi; spesso vi si ricorre alle equazioni delle quantità di moto, ma, come giustamente osserva il prof. Levi-Civita, a proposito di questioni analoghe (*) « il punto di vista è sempre particolare, e vi sì tra- scura qualche cosa fin da principio ». Orbene, facendo invece uso unicamente dei principî fondamentali della Idrodinamica razionale, si può con metodo uniforme, rigoroso, e quanto mal semplice, trattare in tutta la sua generalità la questione enunciata. Come caso particolare si ottengono formule che sono in perfetta armonia con quelle date negli accennati trattati. È appunto ciò, che mi propongo di mostrare in questo lavoro, nel quale determino dapprima (Nota I) la risultante delle azioni dinamiche, e poi (Nota II) il momento risultante. Nella trattazione mi valgo dei procedimenti dell'Analisi vettoriale (4), i quali si mostrano particolarmente adatti in tali ricerche, a causa della (!) Masoni, Corso di Idraulica, 3* ediz. Napoli, a. 1908; Flamant, Hydraulique, 3° édit. Paris, a. 1909. () Zeuner, 'Aéorie des Turbines, traduite de Vallemand par E. Kreitmann, Paris, a. 1905; Pfarr, Die Z'urbinen fr Wasserkraftbetrieb, Berlin, a. 1907. (®) Levi-Civita, Sulla contrazione delle vene liquide. Atti del R. Istituto Veneto, t. LXIV, a. 1904-05. (4) Cfr. Burali-Forti e Marcolongo, Eléments de calcul vectoriel, Paris, a. 1910; Omografie vettoriali ecc. Torino, a. 1909. In un breve articolo, pubblicato nel n. 61 della Revue du Mois (10 janvier 1911, pag. 112), il sig. J. Drach dà notizia degli 4léments de calcul vectoriel ora citati, ma, a proposito del calcolo vettoriale in genere, dice tali ... amenità, che è naturale il domandarsi sc egli abbia proprio capito lo spirito, la sostanza e l'oggetto di detto calcolo. Per conto mio poi desidererei assai che il sig. Drach mi dicesse come si fa, col calcolo abbreviato di Bobillier e cogli invarianti, non a scrivere soltanto i risultati finali da me stabiliti in questo lavoro, ma al ottenerli in modo altret- tanto chiaro e breve, pur avendo sviluppato tutti i calcoli. — 635 — estrema semplicità e chiarezza che conferiscono alle formule che si debbono maneggiare. 1. Hormule preliminari. — Indichiamo con S lo spazio limitato da una superficie chiusa o, e con u, v due vettori funzioni regolari dei punti P dello spazio S. Si ha allora la formula (?): (1) faruas=— fx vdo—(v divud$S, ove N indica un vettore unitario, normale a o, e diretto all’interno di S. Oltre le dimostrazioni di questa formula, indicate nella mia Nota citata, si può pure dare la seguente, assai semplice. Si ha (?): grad Hu .v)= Mu+vaivu, quindi, integrando ambi i membri nello spazio S, 6 trasformando poi il primo membro in un integrale esteso a o, risulta: f gra Hu,wWdS=-— f ta ,wWNdo= - fax vado, S 0 (O) perciò ne segue la (1). La (1), che è una generalizzazione del lemma di Green, è molto im- portante per l'Idrodinamica. Nel caso particolare in cui u=v= grad g, essa è stata data dal prof. Levi-Civita, il quale l’ha utilmente adoperata nella sua Nota già citata. Le equazioni cartesiane, equivalenti alla (1), sono state assegnate e adoperate recentemente dal prof. Cisotti, per stabilire il pa- radosso di d'Alembert (*); tale forma cartesiana è però alquanto complicata: e poco dopo io ho fatto vedere (nella mia citata Nota dell'Istituto Veneto) come, per mezzo della (1), si potessero molto semplificare i calcoli. Ricordiamo ancora che se una massa fluida, di densità 0, è animata da moto stazionario, il vettore v, velocità di ogni particella fluida P, deve soddisfare all'equazione di continuità : (2) div (ov)=0, (') Boggio, Sul moto permanente di un solido in un fluido indefinito. Atti del R. Istituto Veneto, t. LXIX, a. 1909-910. (*) Boggio, Sul gradiente di una omografia vettoriale. Rendiconti di questa Acca- demia, serie 5%, vol. XIX, 2° sem. 1910. (*) Cisotti, Sul moto permanente di un solido in un fluido indefinito. Atti del R. Istituto Veneto, t. LXIX, a. 1909-910. — 636 — e all'equazione fondamentale del moto, che, sotto la forma di Eulero, e in assenza di forze di massa, si scrive (*): dv 1 3 -— y= —-gr (3) dP piEraTLO ove p è l'intensità della pressione. Qi MAIA xd Fis. 1. Moltiplicando scalarmente la (3) per dP (supposto che dP sia preso nella direzione del flusso), si deduce subito : dvz= — 2 SK È Q od ancora: Pd (3') va, Po Q ove v, è un vettore costante, © Po Una quantità pure costante (sopra ciascun filetto fluido). Questa equazione nou è altro che quella di Bernoulli. Alle precedenti equazioni bisogna poi aggiungere l'equazione caratteri- stica del fluido, che, nel caso della temperatura costante, si può scrivere: (4) o=f(P)- 9. Pressione nei tubi. — Indichiamo con o una superficie tubolare rigida, di forma qualunque, aperta alle due estremità; e supponiamo che il (!) Boggio, Dimostrazione assoluta delle equazioni classiche dell’Idrodinamica. Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XLV, a. 1910. — 637 — suo interno sia occupato da una massa fluida in moto; più precisamente supponiamo che una corrente fluida (libera), proveniente dall’infinito, im- bocchi il tubo (senza urti), e, dopo averlo attraversato, sbocchi formando così una vena, che si estende pure fino all'infinito. Si suppone che il moto del fluido sia ovunque stazionario, e che non agiscano forze di massa; circa la natura del fluido non facciamo alcuna ipo- tesi, come pure non escludiamo che al finito possano esistere dei vortici; si sottintende però che il fluido sia perfetto (non viscoso) e a temperatura co- stante. Chiamiamo , la sezione normale asintotica (cioè a distanza infinita) della corrente a monte del moto, ed , quella asintotica della vena a valle, \ e supponiamo inoltre che la velocità asintotica a monte v, sia costante e \ normale alla sezione £2,, e così pure che la velocità asintotica a valle v, \ sia costante e pure normale alla sezione Q,. Indichiamo con 4 le superficie libere, pure di forma tubolare, che limi- tano la regione occupata dal fluido, sia a monte che a valle del tubo 0. Lo spazio S occupato dalla massa fluida è così limitato dal contorno 0-44 2,4-9,. Nella regione indefinita S', esterna ad S, regna la quiete, perciò in essa si avrà una pressione costante, che chiameremo 7. Indichiamo ora con R il vettore che rappresenta la risultante della azione dinamica esercitata dal fluido in moto sulla parete o del tubo; esso è la differenza fra la risultante delle forze effettivamente esercitate sul tubo, e quella che si avrebbe coe/eris paribus nel caso statico. Sì ha perciò: =— ((0_n)Ndo. Poichè le superficie Z sono libere, su esse p=py, onde si può scrivere: si... (p — po) Ndo +, (p—p)Nd9, pr I (p— po) Nd9.. Trasformiamo il primo integrale col teorema del gradiente ('). ed osserviamo che siccome a distanza infinita il moto è uniforme, la pressione (come pure la densità) vi deve essere costante, e avremo così: (5) R= f grad 048 + (0 — pn) @ (pp), S Vi Vi ove pi € ps sono le pressioni asintotiche rispettivamente a monte e a valle, e V,, Vs sono le grandezze delle velocità v, , v,. (!) Cfr. i già citati Aléments de calcul vectoriel, pag. 105. RENDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 84 — 658 — Conviene intanto osservare che se, come in figura, il tubo o non si estende indefinitamente, nella formula (5) spariscono gli ultimi due termini, perchè: (6) pi=p.= Po; inoltre Vi= VI —Vok; se invece il tubo si estende indefinitamente soltanto a monte, si ha: (6°) pi ed Vi= Vo, perciò nella (5) sparisce solo l'ultimo termine; se poi il tubo si estende indefinitamente, sì a monte che a valle, non si presenta più alcuna ridu- zione nella (5). Ciò premesso, trasformiamo, nella (5), l'integrale di grad p. Dalla (3) risulta : ° dV ni grad paste ff De (ov) d$, perciò applicando la (1), e ricordando la (2): I Jh grad p d$= si Bi ne do; ma nei punti di 0 + 4 la velocità è tangenziale, cioè V X N=0, per con- seguenza : ;l grad pos = Jose! xN)ovdo=e,V: Livi — e2Va2Va ove 0,0, sono le densità asintotiche a monte e a valle. Anche qui con- viene notare che se il tubo o non si estende indefinitamente, insieme colle (6) si avrà, in virtù della (4): 0,= @2- Se si osserva che, per il carattere permanente del moto, la portata Q attraverso la sezione , deve essere eguale 2 quella attraverso la sezione 2,, sì ha: (7) Q=aViQ = eV, perciò: { grad pdS = Q(Vi — Vo); sostituendo nella (5) avremo infine: Vi Va (8) R- Q(vi — va) + (pi — 20) Lg — (Po Po) Leg, ; Vi Va Questa formula mostra che il vettore R dipende solo da elementi asintotici del moto. — 639 — Poichè non abbiamo fatto alcuna ipotesi circa la forma del tubo o al finito, la (8) vale naturalmente anche se il tubo presenta dei rigonfiamenti, i quali diano origine alla formazione di regioni ove il fluido è in riposo (regioni stagnanti). Se il tubo o si estende indefinitamente a monte e a valle, allora £,, £, denotano le sezioni asintotiche del tubo. 3. Cast particolari. — Se il tubo o non si estende indefinitamente, a (8) si riduce, in forza delle (6), ad (8°) R=0(v-v.), e poi dalla (7) si conclude che le aree delle sezioni ;,,£, devono essere eguali. a (8°) equivale alle formule stabilite, pel caso dei liquidi, dal Masoni (loc. cit., pag. 168) e dallo Zeuner (loc. cit., pag. 85) per i tubi ad asse piano; però le lettere hanno un significato un po diverso, perchè mentre nella nostra (8') vi, vs sono le velocità asintotiche, nelle formule del Ma- soni e dello Zeuner indicano invece le velocità del fluido all’ ingresso e alla uscita dal tubo, velocità che occorre supporre costanti, mentre, in generale, la velocità all’orifizio di uscita, varia da punto a punto. L'orifizio di uscita del fluido può essere praticato sulla superficie late- rale del tubo (invece che sul fondo), in guisa che la direzione di V» risulti perpendicolare a quella di v,; allora la (8') porge per la componente R, di R secondo la direzione di v, (reazione dinamica orizzontale) : (9) Re TA QV, Ia L,V3 : Anche il Masoni (loc. cit., pag. 168) ottiene questa formula come caso particolare della (8'); però conviene avvertire che le ipotesi sotto le quali egli ottiene la (8°) — fra le altre quella che il moto abbia luogo per se- zioni piane — non sono affatto ammissibili per il caso particolare ora con- siderato. La (9) è stata stabilita nell'ipotesi che non agiscano forze di massa: però, come ha già suggerito il prof. Levi-Civita nella sua Nota citata, essa — 640 — si può, con sufficiente approssimazione, applicare @ problemi ove interven- gono forze conservative, come accade ad es. per un liquido pesante, sosti- tuendo però alla sezione asintotica @, della vena, la sezione contratta Q', e alla velocità V, il valore 29h, ove % è il carico sull’orifizio da cui sgorga la vena, e 9g è l'accelerazione della gravità. Si ha così dalla (9): Ro =—- 202 gh È Questa formula è in accordo con quella proposta dallo Zeuner (loco citato, pag. 97). La (8') sussiste pure se il fluido scorre in un canale, a pelo libero, cioè se il tubo o presenta una spaccatura longitudinale (di larghezza arbi- traria), che vada da un'estremità all'altra di esso; il tubo poi può anche estendersi indefinitamente tanto a monte che 2 valle (!). Esaminiamo ora il caso in cui il tubo 0 si estende indefinitamente a monte; allora nella (8) sparisce soltanto l’ultimo termine; se poi si tratta di un liquido omogeneo di densità 0 (costante), dalle (3'), (6) risulta: perciò : la quale, ricordando le (7), può ancora scriversi: Sr 1 2 Li 250 VAUD Vi 2 (10) R=le0.vi L( c+5)V DI 0). perciò la reazione dinamica della vena liquida non dipende dalla forma del vaso nelle vicinanze dell'orifizio; ciò che si accorda con un'opinione corren- temente accettata nella pratica. Nel caso, particolarmente interessante, in cui l’orifizio è praticato sul fondo del vaso, in guisa che la direzione della vena sia la stessa di quella (*) In questo caso particolare, e nell'ipotesi di moti in due dimensioni, la (8°) è pure stata stabilita recentemente dall'ing. Colonnetti nella Memoria: Sul moto di un liquido in un canale, in corso di stampa nei Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo. (®) Nel caso particolare di moti in due dimensioni, la (10) è stata ottenuta dal prof. Cisotti nella Nota recentissima: Sur la réaction dynamique d'un jet liquide (Comptes Rendus de l’Académie des Sciences de Paris, 23 janvier 1911). Il procedimento del Cisotti (come pure quello adoperato dal Colonnetti nella Memoria sopra citata), ana- logo a quello esposto dal prof. Levi-Civita per il problema dei moti con scia, è fondato sulla teoria delle funzioni di variabile complessa, € sul teorema di Cauchy sui residui. — 641 — dell'asse del vaso, si ha vi:Vi= vz:V:, perciò dalla (10) si trae: ltd 2 Qi La Vi R—Jeovi +? Vi, vale a dire la reazione della vena liquida è interamente sopportata dal fondo del vaso. Se invece il vaso non si estendesse indefinitamente a monte, la (8') porgerebbe, nelle stesse ipotesi, R = 0, il quale risultato è evidente- mente paradossale. Se poi l'orifizio è scolpito (fig. 2) su parete verticale, l’espressione che la (10) porge per la reazione dinamica orizzontale R,, coincide colla (9). Anche la (10) si può, come si è fatto per la (9), estendere al caso di liquidi pesanti. Matematica. — Sopra un nuovo operatore differenziale per le omografie vettoriali. Nota di C. BuraLI-FORTI, presentata dal Socio T. LEVI-CIVITA. Se @ è omografia vettoriale ed u è vettore funzione del punto P_varia- bile in un campo a tre dimensioni, è noto (0. »v. ('), pag. 47, [7]) che d(au) du apri? gp td) essendo 4 l’omografia tale che, per x vettore arbitrario, da ix = Da x) u. Per la rotazione del vettore eu si ha dunque r0t (21) = 2V( na +2va, ma la rot(eu) non può esser calcolata direttamente mediante @ ed u, sino a che non si sappia esprimere, pure mediante @ ed wu, il vettore di 4. Scopo di questa Nota è di dimostrare che il VA si ottiene applicando ad u una omografia, funzione di @, della quale è possibile, e facile, il cal- colo effettivo comunque sia data @ (formule del n. 2). Tale omografia gode di (‘) C. Burali-Forti e R. Mareolongo, Omografie vettoriali ..... Torino, 1909, G. B. Petrini. — 642 — molte e notevoli proprietà che applichiamo alla risoluzione di alcune equa- zioni le quali, evidentemente, hanno notevole importanza in questioni di Fisica e di Meccanica. Le dimostrazioni sono semplicissime ; ci risparmiamo, in generale, di citare nelle 2. v. le regole note di calcolo omografico che applichiamo; però sviluppiamo completamente i calcoli necessarî per tali dimostrazioni. 1. In tutto ciò che segue: u,v sono vettori funzioni del punto P che varia in un campo a tre dimensioni; a è vettore costante, arbitrario; 1,)J,K è terna unitaria-ortogonale-destrogira-costante di vettori; @, 8 sono omografie funzioni del punto P; #1 è numero pure funzione di P. Con la notazione Rot @ indichiamo l'omografia, funzione di @, tale che comunque si fissi il vettore u si ha sempre (1) (Rot «) u = rot (au) — 2V (e HI i Occorre dimostrare che Rota, così definita dalla (1), è realmente una omografia vettoriale. Risulta subito dalla (1) che (a) (Rot @) (u + v) = (Rot a) 1 +- (Rot a) V (6) (Rota)(mu)=mrot(eu) + grad m /\ el — — 2V \ma no + «H(grad m , u) i — ;rot (cm) = 2V (è Te) + + grad mA eu — 2VH (grad m, eu) = m(rot a), e le (a), (0) provano appunto che Rota è omografia. È poi evidente che: Rot è operatore che applicato ad una omografia produce una omografia, è quindi, Rot ammette qualsiasi potenza positiva. In particolare, ponendo nella (1), in luogo di wu, il vettore costante, arbitrario, a si ha (2) (Rot a)a=rot(ca) il che giustifica la notazione Rot @ scelta per indicare l’omografia, funzione di @, definita dalla (1) (*). Per le potenze di Rot si ha, per induzione, (2) (Rota) a = rot" (aa). (*) Non giustificherebbe però la notazione rota, finchè rot rimane, nel significato usuale, operatore per i vettori, mentre il nuovo simbolo deve essere operatore per le omografie. od L Introducendo la terna i,j,k die, del; da (3) Rota=i/\ piti/ pit KA gpE: perchè, per proprietà ben note, i Moccal defi |. da. i) (Rot a)a = rot(aa) —2V AP il IP it mill ae L'operatore Rot è distributivo rispetto alla somma, (4) Rot (a + 8) = Rot a + Rot f come risulta subito dalla (1) o dalla (2). Non è però commutativo col pro- dotto per un numero, e si ha (5) Rot(ma) = m Rota + grad m/a (1), perchè } Rot(ma)} a= rot(maa)=wmrot(@a) + grad m \ aa = =(mRota+grad m/\a)a. 2. Per il calcolo effettivo dell’omografia Rot @ valgono le formule fon - damentali seguenti : (6) Rot m= grad m / (*) du i du ,. (7) er eee) (09) (') Se nella nota formula rot (mu) =mrotu+ grad m / u si cambia rot ed u in Rot ed «, si ottiene la (5). Se nella formula, pure nota, Ca(m/\v)=u Ka v+ (Kan) \v si cambia v in una omografia 8, si ottiene una formula vera. Da questi ed altri esempi non è lecito dedurre, imitando i moderni quaternianisti, che omografia è vettore sono una stessa cosa, e nemmeno, imitando quanto ha fatto il Gibbs per il V. dedurne che le omografie sono vettori simbolici. (3) Dalle due formule gradlmx = , gradm/ = Rotm risulta che l'operatore cn, e il nuovo operatore Rot m, dànno tutti gli operatori semplici che dipendono da grad m. Per l'operatore da, a 27 dimensioni, si hanno attualmente le due funzioni grad Rot che dipendono da «a div(ca) = grad Ke Xa , rot(aa)= (Rot e)a, ma è certo che ne devono esistere altre e praticamente importanti. (*) Rotu /\ significa Rot(u /\) e non (Rot u)/\ che è privo di significato (ciò non avverrebbe se si fosse scritto, illogicamente, rot@ in luogo di Rot a). — 644 — (8) Rot H(u, v) = H(u, rot v) — ki (9) Rot (ua) = H(grad Ke , u) — SÉ u — (c Te) : (10) Roda S00u) (11) Ro infuno = Anche le dimostrazioni sono interessanti per la loro semplicità. Dim. (6). (Rot m)a=rot(ma)=gradm/\a= (grad m/\) a Dim. (7). (Rotu/\)a= rot(u/\a)= CE — div n) a Dim. (8). }Rot H(u, v)ia=rot(uXa.v)= —uXa.rotv+ grad(uXa)/\v du du — stu eta + (RE) Av {i(0 1000) VAL TT)A Dim. (9). }Rot(uAa)ta =rot(u/\caa)= da du —\H(grad Ke yu) — jp fe du du drotu Dim. (10). (no I az r0t 1 a)= “np a du) (O N Dim. (11). (nor) rt (Ep n)=r0t}77 riu /\ al drotu drot U dip LIM a (divirotu— AP )a=o. ——————— Si ha dalla (7) (Cfr. 0. »., pag. 58, [11]) rot(u/\v)= (Rot u/\)v — (Rotv/\)u e quindi Rot è l'operatore differenziale che dà a rot(u/\v) la stessa forma di duAv)=(duA)v- dv/)u — 645 — 3. Per i prodotti degli operatori Rot,V,I1,,K,grad, 4, si hanno le formule notevoli: d grad Ka 2 i —--©@@ y, negativamente nel verso opposto. 4. È opportuno effettuare a questo punto un cambiamento di variabile che sostituisca alla striscia 0 dell’altra parete. Us Se ora si osserva che la funzione è, considerata come funzione della nuova variabile £, per essere regolare entro il semicerchio dato e reale sul- l'asse reale, può in virtù del principio di Schwarz, continuarsi per riflessione analitica nel semicerchio sottostante, si potranno studiare gli elementi così cinematici come geometrici (1) del problema, analizzando il comportamento della funzione @(é) regolare in tutto il cerchio |î|<1, finita e continua sulla circonferenza |î|==1, eccezione fatta per un gruppo discreto di punti della semicirconferenza 1, î, — 1, immagini dei punti angolosi della parete ri- gida, nonchè per quegli altri punti della semicirconferenza 1, —?, — 1 che si ottengono dai primi per riflessione. 5. Sia f,= eÎ l’affissa di un punto della semicirconferenza 1,î, — 1 immagine di un punto angoloso P, della parete rigida. Per î= è, la fun- zione w($) non può conservarsi finita, ma diviene infinita in modo non acces- sibile all’intuizione diretta. È noto però che a caratterizzare la natura della singolarità basta la conoscenza dell'andamento della sua parte reale; basta cioè l’imporre che, al muoversi di P su quella delle due linee di contorno del campo del moto su cui sta il punto Pn, si abbia { lim 0 = 8, per È tendente a &, lungo la porzione di contorno VibiGn lim 0= 07 per é tendente a &n lungo la porzione di contorno —], tn 6, e 6 essendo gli angoli che la tangente alla parete rigida immediata- mente a monte ed a valle di P,, prese nel senso del moto, formano colla direzione positiva dell'asse @. e P” si avvicinano indefinitamente. Per contro per d=1 cioè per f = 0 l’arco di linea libera si estende indefinitamente così a monte che a valle del moto: si ricade allora, come caso particolare, in quello stesso problema di cui mi sono occupato nella citata mia Memoria. (1) In particolare le immagini sul piano & delle linee di flusso y=K del piano 4 sono quartiche aventi per equazione nl — @+m)]=tgK(P@+) @+#-2@-n)_1). — 659 — Per contro in ogni punto del contorno immagine di un punto non an- goloso, 0(£) deve riguardarsi come funzione continua dotata di derivata pure continua. Detta pertanto @, una particolare funzione armonica entro il cerchio \E}<1, simmetrica rispetto all'asse reale, soddisfacente a tutte le condi- zioni di discontinuità testè imposte, nonchè a quelle che ne derivano sulla semicirconferenza 1, — î, — 1 per riflessione, e detta o la sua associata (la co- stante additiva intendendosi presa in modo che , si annulli nell'origine) la funzione Lo ni 06 + d0o della variabile complessa £ si mantiene reale sull’asse reale. L’integrale generale del moto in questione può perciò scriversi sotto la forma = —L, 2 essendo una funzione della variabile complessa $, reale essa pure sul- l’asse reale, regolare entro il cerchio |[Î]<1, al pari di © e di @,, ma avente sopra di esse il vantaggio di restare finita e continua anche sulla circonferenza |î|= 1. Sulla possibilità di costruire, in ogni caso speciale, la funzione @,, non è qui il caso di insistere; si tratta di cosa nota (DE Termineremo perciò ricordando come il grado di arbitrarietà dell’ inte- grale generale proposto, può mettersi in evidenza per mezzo della serie dove le c, sono costanti reali legate dalle condizioni: > Ch COS NON = x drei (—j) — î log V. n=0 > cher = wo (j) — a —tlog Vi. n=0 (1) Cisotti, Vene Nluenti, Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, 1908; ovvero: Memoria citata (1), $ 13. — 656 — Matematica. — L'equazione integrale di Volterra di seconda specie con un limite dell’integrale infinito. Nota del dott. G. O. Evans, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. 1. In una prima Nota su questo soggetto abbiamo considerato il piano xy come se l'infinito fosse un solo punto, cioè le nostre funzioni avevano sempre ciascuna un solo valore, indipendente dal modo secondo cui crescono i valori delle variabili. Nell’altro caso si può procedere in modo diretto, e dimostrare il teorema seguente: TEOREMA 5. — Nell’equazione D a) a) =g()+ Î K(,5) 8) de Va supponiamo che g(x) sia continua nel tratto x =a, e finita in valore assoluto m uniformemente, quando è = x' = x,, dove x, è un valore qualunque nel tratto a = d (*). Allora st ha che fm, a)= "Kw ,8/(m,8) dé è una funzione dello stesso genere. Infatti /.(m,) è continua e finita in valore assoluto n, tanto grande che si abbia Mo ; e i, \f(m a) —f(m,2)|de=7]p, Quindi si avrà (ma) — fi(m, 0) =. Cioè lim /1(m, x) esiste. Si ha anche, essendo x' nel tratto 9 = x' = x,, e «1 un valore fisso, Sn, — fm a) de = i led | ("05/0944 f "K(©,8) (/(n8 8) — fm, 8)) dé + +S KE €) (/(m ,5) — f(m,5)) dé =39 ("i ("I£le | 5)|de{ de + Pa [of ft0/,8) —/(m dba da dove m > mo. Preso m, tanto grande che sia m' 2 y) IE Ke le= 7 prendiamo m > mo tanto grande che si abbia fa 9 fm de Xi aa d) Dunque si avrà (41 Sat, Aaa la quale dimostra la desiderata convergenza uniforme. Ma in questo modo si dimostra che tutti gli integrali che compaiono nella funzione S,(m , x) sono delle funzioni /(m , x) perchè (x) è una tale funzione. E per conseguenza si ha che a) S,(x) = lim S,(m, @) esiste, a=d. mn — 659 — Inoltre segue dalla convergenza della serie S(m, x) che db) S(m,x)=limS,(m, x) esiste, a =, NZ e dall’ ineguaglianza 8. ,2)|SP:(1-4+-N+N" +-+ N] Pi ani =, che la convergenza affermata di S(m , x) è uniforme rispetto alla m. Quindi si ha dal teorema sopracitato di Osgood che S(x)= lim S(m, 2) esiste, x=b, e =00 ) lim S,(4) esiste e è eguale a S(x), x =. 3. Dalla forma della serie S(m,x) si ha l'equazione @) f'K(,9) 5,8) dE=51,2) — 9(0) e quindi dalla c), (3) lim J EE ,5) S(m, £) dé esiste e è eguale a S(2) — g(2). ML Ma il primo membro dell'equazione (3) può scriversi nella forma lim Il “K(,E)S(m,%) de, infatti si ha [K6,98@, 9.4 (KG, 80,545] = (KG, OS, pleszzr f 69, che per un valore fisso di x si può fare tanto piccola quanto ci piace, col prendere m abbastanza grande. E questa non è altro che (4) lim ( m=0 Tina oÌ ""K(2,5) S(m,8) Ù3) nm, x Per meglio esaminare quest'ultima funzione (4) sarà opportuno con un cambiamento nell'ordine di integrazione scriverla in un'altra forma. Infatti — 660 — dalla formula pi "de K(2 8) ol "KE, #)g(E) de = N "ae g(€) J "K(0 6) KE, #) de si ha fa K(e, fre K(é, HI ca , EM) p(EM) dem — sd Ji "ew g(£%) [ ra nl si (n) (n) È E ea o EMP) pen (E97° : (I) Te(EfteD ì SO) denev. E si può scrivere (5) SM = [E dove (x,y), il nucleo dell’equazione risolvente di Volterra, è dato dalla formula È 90 y y È y Ho,)=— Ke) -S fera faref n=0v 0 T y ii ; I) K(5 È Y) de, E siccome «===. =è© = y, si ha , P @S%: Di più, essendo sempre uniforme la convergenza della serie in x,y, sì ha m m fre, plays [KE + % m Y Yy + o | dy f eo Ù E)| |K(E® ;y) | de® n=l Id X la quale, dopo avere usato l’inversa della trasformazione già fatta diretta- mente, si vede che è = N/(1— N). Per conseguenza l'integrale sl |e'(x , €)|dE esiste, e la funzione x VRICHATTOLE gode delle proprietà delle funzioni /(m,«) dell'articolo (2). Perciò S(m,) — 661 — gode delle stesse proprietà. Inoltre siccome Î'K@,9)]|8(2,5)— S@m,8)|d6=P. f""]8(n,0) — S(m, 0)|dr, si vede che È si fa=x Lo K(x, 5) S(m, È) dé osd =) esiste. Tornando ancora all'espressione (4) si ha che (a) lim I (15) (im, E) deliosisto. (0) lim | “K(a,%) S(m,£) dé esiste, e quest'ultimo uniformemente rispetto alla m; quindi applicando il teorema sopracitato di Osgood, si può nell'espressione (4) invertire l'ordine dei due limiti, e scriverla (6) lim [im Ni "'K(x,8)S(m,8) ds | l mi 00 m=% Ma lim e<05) S(m,€)dE non è altro che ['x@.8) S(É) dé dove l'integrale è l'integrale di Lebesgue ('). Perciò si ha dalla (3) (EE bepae-s0o e quindi S(x) è soluzione dell'equazione (1). 4. Supponiamo che esista un’altra soluzione «(#), limitata, e integra- bile nel senso di Riemann o di Lebesgue (?). Si ha che la differenza, (') Per dare una definizione abbastanza generale dell’integrale non bisogna allonta- narsi dai metodi delle funzioni continue. Data una funzione /(@) supponiamo che possa trovarsi una serie di funzioni /i.(#) continue, finite in valore assoluto il che vuol dire che wu + 7v' è funzione della variabile complessa Teme E la quale si può anco scrivere, per la 1* delle (10): (15) at {8= ku € (16) at iB=ku+ ev. Di qui il seguente TroREMA. — Essendo (u,v) e (u ,v') due sistemi isotermi risp. sulle superficie S e S', la più generale rappresentazione isodromica di S su S' st ottiene ponendo (17) wu + iv =®(ku 4 ev), dove ® e il simbolo di una funzione arbitraria. Le costanti © e X hanne, per la rappresentazione, i significati geome- trici indicati dalle (8), (10). Per X=1,@= 90°, la rappresentazione è conforme, e il teorema pre- cedente si riduce a quello notissimo di Gauss. Per = 90° e X = 1, abbiamo il caso trattato dal prof. Venturi. Notiamo infine che, supposto X = 1, la (17) si può anco tradurre nel seguente teorema, già trovato dal Beltrami: Se w' e v' sono parametri îso- metrici di una superficie S', eguagliando il binomio u + iv' a una qua- lunque funzione di u+- e'®v, si ottengono due sistemi di curve u= così, — 666 — v= cost di S', che si tagliano dappertutto sotto l’angolo costante @ (?). Resta inoltre dimostrata, per la (16) e per la 2* delle (13), l’osservazione fatta dal Beltrami, che le curve del sistema v = così sono, per una stessa funzione D di u+ c'°v, indipendenti dall'angolo w, e che quindi da una stessa funzione D si deduce un sistema di curve v, accompagnato dai sistemi delle sue traiettorie sotto tutti gli angoli possibili (?). 2. In virtù della (17), la (4) diviene: (18) ds =2'|D'P}k? du + 2% cos o du dv + dv |. E quindi per il modulo di deformazione lineare di un elemento ds della superficie S, formante l'angolo 6 con le linee v = cost, abbiamo: 770 (19) GTA ik? cos°0 + Y cos c sin 20 +- sin°0| . Da questa segue che le direzioni dei due elementi lineari di S ai quali compete il massimo e il minimo modulo di deformazione, son date dai va- lori di 6 che soddisfanno all’equazione 2k COS (20) tg 20= gp da] 5 e i corrispondenti valori di m (moduli principali) sono neri RIOT 1) o se La (20) mostra che gli angoli formati con le linee v dalle direzioni di massima o minima deformazione lineare, sono costanti per tutti i punti di S, e quindi le linee di massima e minima deformazione lineare costitui- scono sulla S un doppio sistema (ortogonale) di lossodromiche, cui corrisponde sulla S' un altro doppio sistema CEOEOSIO | di lossodromiche. Per il caso particolare X = 1, e per èw 2 90°, si vede che le linee di massima e minima deformazione lineare sono, sulla S, le traiettorie a 45° delle linee v (0 %). Dalle (21), poi, segue che per ogni punto di S è costante il rapporto 2a dei moduli principali lineari. 2 (1) Beltrami, Delle variabili complesse sopra una superficie qualunque. Opere ma- tematiche, Hoepli, t. I (1902), pag. 329. (?) Beltrami, /Qidem, pag. 320. fi — 667 — Sarebbe poi facile dimostrare, date le (20) e (21), che la massima e la minima proiezione su S' di uno stesso angolo A di S restano costanti, al variare dell'orientazione di A, qualunque sia il punto di S; e corrispon- dono a due orientazioni di A pure indipendenti dal punto considerato. In generale è costante intorno a ogni punto di S ogni circostanza angolare, rispetto alla rappresentazione (*). Matematica — Sulle funzioni implicite. Nota del dott. L. OR- LANDO, presentata dal Corrisp. A. Di LEGGE. Data l'equazione /(x,y)="0, si può in molti casi dedurne una fun- zione continua y= g(x) della variabile 7, che abbia per derivata (1) CO DI È molto naturale domandarsi in quali casi ciò avvenga: ma una precisa ri- sposta non è così facile a formularsi come la domanda. Intanto una condizione indispensabile è che esista almeno un punto 4«,d, tale che. sia /(2,0)=0. Per esempio, l'equazione e%*= 0 non potrà mai definire una funzione y della variabile x. Una condizione, sufficiente insieme con /(4,d)= 0, affinchè in un ade- guato intorno di a,d esista la y= g(x) e possa anche scriversi la (1), è d/ . £ Hi dI ; È ; 3 che esistano le due derivate parziali DE: > e siano continue in ogni x punto dell’intorno, e che inoltre la derivata si vi sì mantenga di segno invariabile. Tale condizione è data in eccellenti trattati d'analisi; per non citare altri, citerò i trattati di Genocchi-Peano e di Baire, nei quali scienza e buon senso mirabilmente si conciliano, e citerò l’ultima edizione del trattato di Jordan, circa la quale l'illustre autore potrebbe senza immodestia riferire il verso di Orazio: exegi imonumentum aere perennius. Io voglio, con osservazioni in parte note ed in parte facilmente dedu- cibili, ampliare tale condizione; e poi accennerò inoltre ad un'idea, che potrà prestarsi, io credo, ad un largo svolgimento. Supponiamo che /(4,) sia zero, e poi supponiamo che esista un ret- tangolo (@,,8,;&2,f1;@,:;@;:), orientato secondo gli assi 2,4, avente 4, come punto interno, e tale che in ogni suo punto, per ogni « fisso, la funzione /(x,y) della variabile y sia continua e crescente; poi ag- (1) Cfr. Venturi, loc. cit., pp. 35-36. — 668 — giungiamo l'ipotesi che, sul lato y = f,, la funzione /(2,f;) della varia- bile x conservi inalterato il suo segno, e che la funzione /(@ , 8») della va- riabile x conservi, sul lato y= #2, anch'essa inalterato il suo segno. La condizione che /(x,y) sia, per ogni x fisso (dunque, in particolare, per a = a), una funzione crescente della variabile y, ci assicura che f(a,8:) è inferiore ad /(a,0), e quindi è negativa, e che /(a, f), supe- rando /(a,), è positiva. Ma questi due segni debbono mantenersi invariati sui lati y=,,y=:; dunque, se $ è una qualsivoglia ascissa fra @, ed a,, sarà f(E, A) <0 , f(É,8:)=0. Ma allora basta riferirsi alla sup- posta continuità della funzione /(£,y) della variabile y, per vedere che esiste un n (unico, perchè tale funzione è crescente), il quale verifica la relazione /(£,79)=0. Notiamo che le ipotesi fatte sulla /(x,y) sono abhastanza ampie; al- quanto più restrittive sono le condizioni che imporremo ad /(c,y) affinchè y= (x) risulti continua. Aggiungendo alle precedenti ipotesi quella che f(x ,y) sia continua in ogni punto x,y del campo, dedurremo la continuità di y= 9(2). Supponiamo, per assurdo, che (x) non sia continua per ISS SE 7 la y relativa a questo valore di x. Allora, scelto un opportuno numero po- sitivo e, debbono sempre esistere, nelle più immediate vicinanze di È, va- lori x tali che le relative y abbiano da n una differenza non inferiore ad e. Siano x, (che supporremo differente da é meno di 1), x» (che supporemo differente da £ meno di 4), x» (differente da & meno di 3), ecc. siffatte a- scisse, alle quali dunque corrisponderanno le ordinate Y1, Ye; %8+:%> diffe- renti da non meno di e. Questo insieme di infiniti valori y1,Y23Y8::--» appartenenti all'intervallo finito (8), 8»), ammette qualche valore limite : sia £ un valore limite. Questo valore limite È avrà nelle sue immediate vici- nanze valori y, con indice n arbitrariamente alto, corrispondenti a valori %» arbitrariamente vicini a E (x, dista da £ meno di al Ma /(cn,Un) è zero; dunque il numero fisso /(£,6) si dovrà ritenere, per la continuità di f(@,y), arbitrariamente vicino a zero; tale proprietà non compete ad altro numero fisso che a zero: dunque sarà /(£,0) = 0. Ma /(5,7)=0 de finisce 7: danque sarà £ = 7. Questo risultato è assurdo, perchè le y,, che stanno nelle immediate adiacenze del valore limite é, debbono invece man- tenere da n un distacco non inferiore al numero fisso «. La continuità di y=y(x) in ogni valore € dell'intervallo (@,,@») resta in tale modo provata (*). Circa la derivabilità dobbiamo aggiungere (®) In una breve conversazione che ebbi nella scorsa estate col Bagnera, egli mi parlò di questi argomenti; non credo di avere qui riferito ciò che egli mi disse, ma certamente le idee che ho qui svolte sull’esistenza e sulla continuità di y= (2) non sono molto lontane da quelle che volle indicarmi l'illustre scienziato. — 669 — DIE altre ipotesi. Intanto supponiamo che ei esistano, e che inoltre sia X df > 0h Per metterci in un primo caso, vogliamo supporre che esista una suc- cessione (convergente a zero) di incrementi Az della variabile x, ai quali corrisponda sempre Ay="0. Allora, osservando che sulla curva y= g(e) valgono le relazioni /(2,y)=0 , /(r+ Ax,y+A4y)=0, noi possiamo, per tutti questi valori, sostituire /(x + Ax,g) ad f(r+A4x,y+ Ag), e scrivere f(C +4 Ax, y) — f(@,y)=0, o anche [atAe,9)—f(,9) _g. ANT i DA dunque troviamo Fal: Se poi ad ogni successione di Ax convergente a zero corrispondono Ay nulli, allora risulta senz'altro valida la (1). In un secondo caso, noi supponiamo che Ay sia (per Ax sufficiente- mente piccolo) sempre diverso da zero, e scriviamo identicamente: (a 4 A4a,a + Ay)— f(@,y + 49) Da "i Ax+ PILONI yo ; (EE Ae) SE 4 e i eg, AY dove ì punti 2,y;2 + Ax,y-+ Ay appartengono alla curva y = g(e). Basta aggiungere alle precedenti ipotesi una di queste due: o la continuità di i rispetto ad y, o la continuità di i rispetto ad 4, per dedurre su- bito la (1). Se poi ci troviamo in un caso intermedio, che esista cioè qualche suc- cessione di Ay tutti nulli e qualche altra di Ay tutti diversi da zero, al- lora, procedendo come nel secondo caso su questa seconda successione (1) stabiliremo la (1), e, procedendo come nel primo caso sulla prima succes: DI sione, verremo a conoscere il valore di n (che risulterà nulla). df o 3 . ; d i (') Si ammette qui, beninteso, che esistano sua >. e che una delle due sia con- (e, (e, MÉ tinua rispetto all'altra variabile, e che sia > 30 RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 88 — 670 — Tenendoci su questa via, di volere, nello studio della curva y = g(2), far intervenire tu//a la funzione di x,y, mediante la quale è definita, ben poco potremmo estendere le condizioni finora imposte, e ben poca luce po- tremmo avere sull’importante questione di conoscere quanto si stacchino tali condizioni suficienti dall'essere necessarie. Faremo dunque capo a un'altra considerazione. Sia F(2,y) una funzione che non verifica le condizioni ora indicate. Cerchiamo una funzione f(x ,y) che abbia gli stessi zeri di F(2,y) e che invece verifichi tali condizioni. Evidentemente la funzione y = g(x), se esiste come conseguenza di F(x,y)="0, potrà essere studiata sulla /(x ,y) piut- tosto che sulla F(x,y). Si presenta dunque il problema di cercare /(2,7), cioè di cercare una funzione, che abbia gli stessi zeri di F(x,y), e che sia, rispetto alle condizioni che qui ci importano, più regolare della F(e, 7). La più desiderabile funzione sarebbe y — g(x); ma sarebbe anche una ingenuità pensare di dedurla con un metodo generale da F(x , y). Sarà, in- vece, opportuno fare un esame diretto delle irregolarità di F(2,7), e cer- care una funzione K(e,y), sia pure irregolarissima, che, moltiplicata per F(2,y), lasci ottenere un prodotto (x.y) = F(c,y) K(x,y) più regolare di F(,y). Sarà indispensabile, peraltro, che tale funzione K(x,y), che possiamo chiamare correttiva, non si annulli e non diventi infinita nel campo. Per esempio, se F ha un salto da 0-0 a o-+0, noi daremo a K un AES a sode E ; salto da Ò DIE dove 4 rimane ancora arbitrario. L'idea fondamentale di quest'artifizio (destinato a correggere le irregolarità di F), il quale in molti casi d'immediata pratica mi è riuscito utile (!), è quella dì cointeressare il meno possibile colla curva y= 9(«) le sue adiacenze; se i punti d'ir- regolarità di F sono a distanza finita dalla curva, allora la regolarizzazione è teoricamente fittizia, sebbene possa in alcuni casì far comodo (se non altro per diminuive il numero dei rettangoli da considerare); ma se i punti di irregolarità si addensassero nelle più immediate adiacenze della curva y= g(x), allora noi, pur senza conoscere esattamente l'ubicazione di questa curva, potremmo liberarla, non certamente dalle irregolarità sue proprie, ma da fastidiosi vicini. (®) E un grossolano errore quello di credere che le funzioni utili in pratica siano le più facilmente trattabili; per esempio, nella lettura comparativa dei diagrammi spe- rimentali, bisogna, se si vuol procedere con coscienza, largamente sfruttare quella micro- scopa analitica, che oggi, per malinteso spirito di comodità, si suole da molti procla- marc inutile. — 671 — Chimica. — Zormazione di soluzioni solide metalliche per diffusione allo stato solido ('). Nota di G. BrunI e D. MENEGHINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Tl fenomeno della diffusione fra solidi è stato dimostrato da molti autori su materiali di natura diversa, ma specialmente fra metalli. La constatazione della diffusione venne però fatta o per analisi chimica dei varî strati, oppure mediante osservazioni micrografiche. Occupandoci ora di pino studio sistematico di questi fenomeni, abbiamo creduto interessante di ricercare se si possa stabilire detta diffusione, nel caso della formazione di soluzioni solide, mediante osservazioni di variazioni di proprietà fisiche. E infatti noto che in molti casi certe proprietà fisiche delle soluzioni solide sono assai diverse da quelle che si calcolerebbero come medie delle proprietà dei componenti. Così si comportano infatti le soluzioni solide per rispetto alla condut- tività elettrica. La aggiunta di un metallo ad un altro quando vi si sciolga allo stato solido, ne abbassa la conduttività elettrica, e, in genere, assai no- tevolmente. Quando le soluzioni solide possono formarsi in tutti i rapporti, la curva delle conduttività in funzione delle concentrazioni è una curva con- tinua che presenta un minimo per lo più assai piatto. Così si comportano p. es. le coppie rame-nichel, rame-oro, argento-oro. Noi abbiamo sperimen- tato auzitutto sulla prima di dette coppie, e riferiamo qui i risultati ottenuti. Rame-nichel dànno cristalli misti in tutti i rapporti, come venne dimo- strato da Guertler e Tammann (?) e da Kurnakow e Zemezuznyj (*). La curva di solidificazione sale infatti senza alcuna discontinuità dal punto di fusione del rame (1084°) a quella del nichel (1484°). Le conduttività a zero gradi di queste leghe vennero determinate da Feussner (4). La curva relativa, partendo dalla conduttività del rame 65,3, scende subito assai rapidamente e presenta un minimo assai piatto con un tratto quasi orizzontale per composizioni da 40 a 60°/, in peso di rame; e risale quindi alla conduttività del nichel 8,9. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica docimastica e tecnologica della Scuola di applicazione per gli ingegneri della R. Università di Padova. (*) Zeitschr. f. anorg. Chem. 52, 25, (1907). (3) Zeitschr. f. anorg. Chem. 54, 149, (1907). (4) Verhandl. d. physik. Ges. Berlin, /0, 109 (1891). Cfr. Guertler, Zeit. f. anorg. Chem. 5/, 403, (1906), e Kurnakow e Zemezuznyj, loc. cit., 159. — 672 — La conduttività minima osservata è circa 1,9. Le leghe corrispondenti alla zona di minimo, e specialmente quella al 60°/ di rame, vengono uti- lizzate nella pratica ed indicate col nome di costantana. Noi abbiamo voluto vedere se dette leghe possano formarsi per diffu- sione allo stato solido, e se la loro formazione possa verificarsi col corri- spondente aumento di resistenza elettrica. Abbiamo preso un filo di nichel del diametro di 0,5 mm. e lo abbiamo ricoperto di rame mediante elettrolisi. Abbiamo cercato di ottenere uno strato quanto più compatto fosse possibile; abbiamo quindi operato con un bagno di cianuro cupro-potassico, con un anodo costituito da una treccia di fili di rame e con una corrente debolis- sima di 0,1 Amp. Abbiamo continuato l’elettrolisi fino ad avere un deposito tale da corrispondere presso a poco alla proporzione in cui il rame sta al nichel nella costantana. Del filo venne poscia misurata la resistenza elettrica su un tratto di 90 centimetri. Esso venne quindi riscaldato, tenendolo orizzontale, in una lunga e sottile provetta di porcellana, che veniva introdotta in un forno elet- trico a resistenza di Heraeus. Per evitare l'ossidazione, si faceva passare con- tinuamente una corrente di idrogeno secco. Il forno veniva tenuto ad una temperatura di 1000° con lievi oscillazioni; sì restava così a temperatura di circa 80 gradi inferiore al più basso possibile punto di fusione, che è quello del rame. Siccome poi il metailo più fusibile stava all’esterno, si sa- rebbe facilmente avvertito anche il minimo inizio di fusione, mentre non se ne ebbe mai traccia. La temperatura veniva continuamente controllata e misurata mediante una coppià termoelettrica platino, platino-rodio ed un gal- vanometro di Siemens e Halsko graduato in temperature e campionato nel solito modo. Il riscaldamento veniva interrotto di tempo in tempo, e si misurava la resistenza dello stesso tratto di 20 cm. La misura veniva eseguita mediante un ponte doppio di Thompson, della casa Hartmann e Braun, adatto per misure di resistenze piccole e piccolis- sime; detto strumento appartiene al laboratorio di elettrotecnica, al cui di- rettore prof. F. Lori facciamo i nostri migliori ringraziamenti. La tempera- tura era quella dell’ambiente, che durante le nostre esperienze non si scostò mai molto da -- 15°. Finite le misure, abbiamo tagliato dei campioni in diverse posizioni del tratto di 20 cm., su cui le misure stesse furono eseguite, e li abbiamo ana- lizzati per avere la composizione esatta del filo: gr. 0,2909 di lega hanno dato gr. 0,1716 di rame, ossia 58,9 °/o, ciò che corrisponde presso a poco alla composizione della costantana comune. Siccome, come è ben noto, il rame deposto elettroliticamente, non ostante ogni cura per avere un deposito compatto, ha sempre una resistenza mag- giore di quello ricotto, in causa della minore compattezza, abbiamo voluto — 673 — renderci conto della intensità che questo effetto poteva avere nel nostro caso. Preso quindi un filo di rame ricotto di 0,5 mm. di diametro, lo abbiamo coperto elettroliticamente di uno strato di rame operando come sopra. Il filo così ottenuto fu sottoposto a riscaldamento ed alla misura nello identico modo del filo rame-nichel. Abbiamo così ottenuto i seguenti risultati : prima del riscaldamento: resistenza: 0,0075 Ohm. dopo 2 ore di riscaldamento » 0,0063 » ”» 6» » » 0,0063 ” » 15 » ) 7 0,0068.» Come era dunque da aspettarsi, dopo una lieve diminuzione di condut- tività nelle prime ore, si ottiene un valore che rimane poi costante. Siccome ‘il filo aveva un diametro esterno di 0,75 mm., dal valore costante si calcola come conduttività a + 15°: 64,03. 104 rec-ohm; ciò che sta in ottimo ac- cordo coi dati di Feussner (loc. cit.), che a 0° trova 65,03. 104. Col filo di nichel ramato venne prolungato il riscaldamento fino ad avere un valore costante, ed abbiamo avuto i risultati seguenti: prima del riscaldamento: resistenza: 0,0260 ohm. dopo 2 ore di riscaldamento — » 0,0256 » E) 6 = L) » 0,0279 » I GLOME» ” ” 0,0290 » O MIOnO ” Ù 0,0723 » » 34 n ” ’ 0,1372 » n. 48 » ” ” 0,1641 » 00» ” 7 0,1883 » OT CONO ” O) OHIESOTAO Vero ” ” 0,2065 » » 135 » ” 7 0,2097. » lora a ” ” 0,2105. » Come si vede, dopo una lievissima diminuzione nelle prime ore dovuta all'effetto del riscaldamento sullo strato superficiale elettrico, si ha un au- mento dapprima lento, poi rapidissimo, quindi nuovamente rallentante fino ad aversi un valore costante enormemente superiore al primitivo. A questo punto il filo ha preso anche esteriormente l'aspetto della costantana. Che questa sì sia formata in modo praticamente completo è dimostrato dal va- lore della resistenza a cui si giunge. Infatti, siccome il filo ha un diametro esterno di 0,75 mm., si trova come conduttività a 15°: 2,07 .104 rec. ohm, mentre Feussner, per una co- stantana al 58,61 °/, di rame, ossia quasi identica alla nostra, ottiene 2,0 a 0°. — 674 — Rappresentiamo l'andamento dei fenomeni sul diagramma qui unito in cui sulle ascisse sono portati i tempi e sulle ordinate le resistenze effetti vamente osservate. La curva I rappresenta l'andamento del filo nichel-rame, il piccolo tratto II quello del filo rame-ramato. Come si vede l'andamento è regolare, almeno quanto si può aspettarsi da esperienze come queste che hanno necessariamente un carattere preliminare. 0.20 0.15 UO Ul ezuagsIsaI 0.10 0.05 Infatti la misura del tempo non è rigorosa, non potendosi per esempio tener conto del tempo impiegato dal forno nel riscaldarsi e raffreddarsi ad ogni interruzione. Anche la temperatura durante il riscaldamento non si potè tenere tanto costante quanto sarebbe probabilmente necessario per poter trarre conclusioni quantitative sull'andamento del fenomeno. Abbiamo così dimostrato, colla misura della resistenza elettrica, che i due metalli nichel e rame che danno soluzioni solide în tutti i rapporti, possono formarle diffondendo l'uno nell'altro allo stato solido. Abbiamo in corso altre esperienze: 1°, a differenti temperature per studiare l'influenza della temperatura; 2°, con filo a molti strati alternati dei due metalli per ricercare la influenza della maggiore o minore superficie di contatto; 3°, con le coppie rame-oro, argento-oro, che presentano fenomeni ana- loghi a quelli della coppia ora studiata. Oltre alla conduttività elettrica, altre proprietà fisiche possono essere utilizzate per verificare la formazione di soluzioni solide per diffusione. Anche su questo punto comunicheremo presto risultati interessanti. — 675 — Chimica. — Sua preparazione e la fototropia di alcuni osazoni (*). Nota II di M. PapoA e L. SANTI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Per proseguire, secondo i criterî esposti nella Nota precedente (?), lo studio della fototropia negli osazoni, abbiamo preparato altri di tali composti non noti finora; impiegando della m. tolilidrazina assai pura riuscimmo ad ottenere dei (8) m-tolilosazoni che sono, come quasi tutti gli altri, fototropi. Abbiamo pure preparato altri osazoni dell'anisile, e il f-naftilidrazone del piperile che riuscimmo a separare dal corrispondente osazone. Per alcuni osazoni abbiamo rilevato l'interessante proprietà di cristallizzare con un sol- vente (benzolo o cloroformio); notammo che gli osazoni puri, fototropi, non lo sono più nei composti d'addizione col solvente. La m-tolilidrazina fu preparata dalla m-toluidina in modo analogo a quello che ci aveva servito per la preparazione delle altre due toli- lidrazine (8). 1. — (8) m-tolilosazone del benzile. CH;.C=N.NH.CH,.CH; | CHA NTNEC, HRACHE È stato ottenuto bollendo a ricadere per un'ora una soluzione in acido acetico glaciale di 1 gr. di benzile e gr. 1,8 di m. tolilidrazina. Versando il prodotto della reazione nell'acqua, si separa una sostanza rossastra peciosa che dopo alcuni giorni indurisce. Questa si lava con alcool bollente e rimane una polvere giallo-chiara che cristallizza da una miscela di benzolo ed alcool in begli aghetti di color giallo canarino. Fonde a 168°. Analisi: Calcolato Trovato N°/ 13,40 13,50 È debolmente fototropo, assumendo in alcuni minuti al sole una tinta leggermente più carica. La variazione è però tanto piccola che non si riesce a determinare un punto di scoloramento. Tuttavia si può osservare che al buio si scolora in due o tre giorni. (4) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (2) M. Padoa e L. Santi, Questi Rendiconti, 1910, II, 302. (*) M. Béosler, Liebigs Annalen, 2/0, 8388. — 676 — 2. — (B)m.tolilosazone del piperile. CH,0,:CH3.C=N.NH.GH,.CH; CH,0,:C,Hx.C=N.NH.C;H,.CHs È stato ottenuto come il precedente. Cristallizza da benzolo ed alcool in minuscoli aghetti di un color giallo carico che fondono a 187°. Analisi: Calcolato Trovato N°/ 11,06 MURO È fototropo. In un minuto o due al sole assume una colorazione rosso mattone molto viva, e al buio ritorna indietro in un giorno 0 due. Il punto di scoloramento giace fra 130° e 135°. 3. — (8)m.tolilosazone dell’anisile. CH,0.CH,.C=N.NH.CsH,.CHz | CH;0.C,H,.C=N.NH.C;H,.CHz Abbiamo incontrato notevoli difficoltà nella preparazione dell’anisile, perchè soltanto dopo numerose prove siamo riusciti ad ottenere l’anisoino condensando l'anisaldeide con KCN, nonostante venissero seguiti scrupolo- samente tutti i particolari descritti da A. Rossel (‘), da M. Bosler (*) e da R. Stierlin (£). Dall’anisoino si ottiene facilmente l’anisile per ossidazione con liquore di Fehling. Non ci sembra notato da alcuno che i bellissimi aghi giallo zolfo dell’anisile presentano una notevole fiuorescenza. L'osazone è stato preparato come il precedente. Si presenta in minu- tissime scagliette giallo chiaro che fondono a 1500,5. Analisi: Calcolato Trovato N°/ 11,71 11,68 È fototropo. Al sole passa in una decina di secondi a un bellissimo aranciato vivo. Si scolora al buio rapidamente in principio, ma per scolo- rarsi completamente occorrono alcune ore. Per questo suo comportamento riesce difficile determinare un punto esatto di scoloramento, che sembra gia- cere intorno agli 80°. 1) Liebigs Annalen, /5/, 33. ( (*) Berichte, XIV, 327. (*) Berichte, XXII, 377. — 677 — 4. — (8). B-naftilidrazone del piperile. CH, 0, ò CH, i C=0 | CH, 0,:C,H;. CN NHSCHHI Operando su maggiori quantità di sostanza, di quanto si era fatto nella preparazione dell’osazone descritto nella Nota precedente, abbiamo potuto isolare maggiori quantità dell’altro composto che notammo già formarsi con- temporaneamente all’osazone, e purificarlo cristallizzandolo dall’alcool. È una minutissima polvere cristallina gialla che fonde a 162°. L'analisi dimostra che è l'idrazone: Calcolato Trovato N°% 6,39 6,30 Esposto al sole passa lentamente a giallo più carico, ma non si può ritenere accertato che si tratti di fototropia, perchè al buio non retrocede o forse la retrocessione è mascherata da una lieve alterazione. o. — Composto di addizione del (8).f-naftilosazone del piperile col cloroformio. CH30,:CH3.C=N.NH.C,,H; . CH CI; CH,0,:CH3.C=N.NH.CoH,; Il solvente adoperato per cristallizzare il $-naftilosazone del piperile (vedi Nota precedente) (!) era una miscela di alcool e cloroformio che diede allora buoni risultati. In una seconda preparazione si separò invece un olio bruno che andò trasformandosi in una sostanza cristallina gialla ; usando molto solvente la cristallizzazione era immediata. Questa sostanza è evidentemente diversa dal primo osazone ottenuto; infatti non è fototropa, ma lo diventa se bollita con alcool; fonde a 80° svolgendo bollicine gassose, poi solidifica di nuovo per rifondere a 201°. E poichè l’osazone puro fonde a 207°, abbiamo pensato che si trattasse di un composto di addizione col cloroformio. Tale solvente può essere eliminato, ma lentissimamente, tenendo il composto nel vuoto a freddo; nella stufa a vuoto si ha un'alterazione anche a soli 60°. Tuttavia questo composto di addizione può essere seccato sul cloruro di calcio fino a peso costante, e allora pel suo contenuto di azoto dimostra contenere una molecola di cloroformio per una di osazone: Calcolato Trovato N° 8,03 8,30 (*) Questi Rendiconti, loc. cit. RenpicontI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. 89 — 678 — L'alcool agisce sul composto di addizione e ne asporta il cloroformio, con che ricompare la fototropia. 6. — ($).f-naftilosazone dell’anisile. CH,0.CH,.C=N.NH.CioH: CH,0.C,H,.C=N.NH.CioH; Lo abbiamo preparato bollendo una miscela di gr. 1 di anisile, gr. 2 di cloridrato di f-naftilidrazina e 50 cc. di alcool. Dopo circa un'ora sì è separata già una notevole quantità di osazone che abbiamo filtrato all'ebol- lizione: abbiamo ripetuta l'operazione tre volte nello spazio di cinque ore, dopo di che non si è più separato nulla. Rendimento molto buono. L'osazone così grezzo è però cristallino, giallo; lavato con alcool bollente, nel benzolo si scioglie subito a freddo, per lasciar separare dopo pochi minuti il com- posto di addizione solubile all’ebollizione; per aggiunta di 2 volumi di alcool e distillazione di metà del liquido si ottiene l'osazone; non sempre però, perchè alcune volte si è invece separato il composto di addizione, da cui sì ottiene facilmente l'osazone per ebollizione con alcool. L'osazone ottenuto per cristallizzazione da benzolo ed alcool si presenta in begli aghi riuniti in stellette di color giallo pallido. Anche con ripetute cristallizzazioni conserva un punto di fusione fra 165° e 169°. Vicino al punto di fusione assume una colorazione gialla intensa. Analisi: Calcolato Trovato N°/o 10,18 10,17 È fototropo allo stato puro in un modo spiccatissimo, ceolorandosi al sole istantaneamente in rosso vino; dopo alcuni minuti raggiunge un rosso molto cupo. Al buio si scolora in pochi minuti. Il punto di scoloramento giace intorno ai 59°. 7. — Composto di addizione del (8). p-naftilosazone dell’anisile col benzolo. CH,0.C,H,.C=N.NH.CioHi CH. OO, ISEE NEO, Si ottiene come fu detto in precedenza. Cristallizzato dal benzolo è polverulento finissimo, ma dal benzolo e alcool si ha in begli aghi. Il colore è bianco, ma presto ingiallisce alla superficie per sfiorimento (non sì tratta di fototropia, perchè questa colorazione non retrocede nè al buio, nè col riscaldamento). Nel vuoto su paraffina diminuisce continuamente di peso, ma — 679 — molto lentamente. Nella stufa si altera; quello che resta però anche in questo caso è fototropo (non moltissimo). Basta però lavarlo con alcool perchè la fototropia diventi molto intensa. Fonde fra 155° e 158°. Analisi: Calcolato Trovato N° 8,94 8,95 Come abbiamo già detto, mon è fototropo. 8. — (B).o-tolilosazone dell’anisile. CH;0., Ce Hu » CIN. NH Co Hi . CH, | CRIORCHEAC N NEMGNERSCH, È stato preparato bollendo per un'ora gr. 1 di anisile, gr. 2 di o-toli- lidrazina e 8 cc. di acido acetico glaciale. Versando in acqua si separa una massa peciosa che viene bollita prima con acqua, poi con alcool e cristal- lizzata 2 volte da una miscela di benzolo ed alcool. Cristallini giallo-arancio carico, che fondono a 168°. Analisi : Calcolato Trovato NO Jola 11,80 Non è fototropo. 9. — (8). p-tolilosazone dell’anisile. CHRONCIHESC=N . NHRCSH CH; | CH30.CH.,.C=N.NH.GH,.CH; Fu preparato come il precedente; ma non ci è stato possibile ottenerlo per cristallizzazione dalla solita miscela di benzolo ed alcool, perchè così in tutte le condizioni si otteneva il composto di addizione dell'osazone col ben- zolo che descriveremo più sotto. L'alcool puro non può servire a cristalliz- zare gli osazoni, perchè questi vi sono quasi insolubili anche all’ebollizione. Perciò l’osazone libero non l'abbiamo potuto ottenere che per ebollizione con alcool del composto di addizione purissimo. Polvere giallo-chiara che fonde a 158°. Analisi: Calcolato Trovato N°/, Lg 11,81 È fototropo, ma è molto lento a colorarsi: occorre un buon quarto d'ora di sole e allora raggiunge un bel rosso vivo. E pure molto lento a retro- cedere (occorrono alcuni giorni). Il punto di scoloramento è circa 85°. — 680 — 10. — Composto di addizione del (8) . p-tolilosasone dell’anisile col benzolo. CH:0.C,H,.C=N.NH.CH,.CH; | ; CH,0.C,H,.C=N.NH.CH,.CH; Come abbiamo detto sopra, quando l’'osazone viene cristallizzato dal benzolo ed alcool, si ottengono dei magnifici aghi bianchi setacei costituiti dall'unione di una molecola di osazone e una di benzolo, come dimostra l’analisi. E la formazione del composto di addizione è manifesta, perchè l'osazone nel benzolo freddo (come avviene anche per il (8) . B-naftilosazone) si scioglie subito completamente; ma dopo breve tempo si separa una pol- tiglia cristallina che si ridiscioglie soltanto all’ebollizione. Per aggiunta di aleool e raffreddamento si separa di nuovo questo composto, anzi in presenza di benzolo non è più possibile anche con moltissimo alcool riottenere l'osa- zone. Anche questo composto di addizione sfiorisce lentamente, per cui non è possibile seccarlo nel vuoto; messo al sole rimane dapprima del tutto insensibile, poi a poco a poco comincia a colorarsi lievemente in roseo (ciò dipende con ogni probabilità dalla perdita di benzolo), ma non arriva all'in- tensità di colorazione dell'osazone puro. Nella stufa a vuoto si altera meno degli altri composti di addizione descritti. Fonde a 166°. Analisi: Calcolato Trovato N°/ 10,07 10,81 Come gli altri composti di addizione, on è fototropo. La preparazione degli osazoni non ancora noti viene proseguita. Fisiologia vegetale. Sull’assimilazione dell'azoto atmosferico libero nei vegetali superiori (*). Nota dei dott. Eva Mameli e Gino PoLLacci, presentata dal Socio Grovanni BRIOSI. Già in una Nota preliminare (*) rendemmo noti i risultati affermativi di alcune esperienze tendenti a dimostrare che l’assimilabilità dell’azoto elementare non deve ritenersi proprietà esclusiva degli esseri vegetali infe- riori aclorofilliani (muffe, bacterii), ma che essa può estendersi anche ai ve- getali clorofilliani, sia inferiori sia superiori. Lo sviluppo notevole raggiunto nelle nostre culture da alcune specie di alghe, di licheni, di Hydropteridee e di Lemne, in ambiente sterile ed affatto ('*) Ricerche eseguite nell'Istituto Botanico dell’Università di Pavia, negli Atti del quale apparirà il lavoro completo, corredato da tavole litografate e figure nel testo. (3) Rendic. Accad. Lincei, XIX, 501, an. 1910. | — 681 — privo di azoto combinato; i risultati che ottenemmo dall’analisi dell’aria in cuì erano vissute piante clorofilliane, sia inferiori sia superiori, ci avevano già permesso di generalizzare questa proprietà; ora i nuovi risultati anali- tici ottenuti da culture di specie diverse (Acer Negundo, Solanum nigrum, Cucurbita Pepo, Raphanus sativus, Polygonum Fagopyrum) confermano quelli precedentemente ottenuti, e ci permettono altresì di constatare in qualche caso un rapporto tra la quantità di azoto libero assimilato e la quantità di azoto combinato che la pianta potera assorbire dal terreno. Le culture delle specie su citate vennero ottenute da semi previamente sterilizzati con soluzioni adatte di acqua ossigenata, seminati in substrato nutritizio sterile esente di azoto o contenente una quantità nota di questo elemento. L'aria che circolava entro le grandi campane contenenti i recipienti di cultura, veniva resa sterile e privata dell'azoto ammoniacale, nitroso, nitrico e organico, col metodo già indicato. Le piantine ottenute da questi semi venivano accuratamente pesate e analizzate. La differenza tra l'azoto totale in esse contenuto e l'azoto contenuto nei semi, dava la quantità di azoto sottratto all'aria. Nel caso in cui il substrato conteneva una quantità nota di un sale azotato, veniva fatta l'analisi, oltrechè del seme e della pianta, anche del substrato in cui la pianta aveva vissuto, e per differenza si otteneva la quan- tità di azoto assimilata dall’aria. I metodi analitici comunemente adoperati per la ricerca dell'azoto nei Vegetali sono: il metodo di Dumas, quello di Will e Warentrapp, e il me- todo Kjeldahl. Nessuno di questi metodi è tuttavia applicabile, senza modi- ficazioni, alla ricerca dell'azoto totale nei vegetali. Infatti il metodo Dumas, per quanto abbia il vantaggio della maggiore esattezza, ci permette di scom- porre, per mezzo dell’ossido di rame, la sola sostanza organica, e non i com- posti salini: i nitrati, che sono contenuti in generale in tutti i vegetali, ed 1 nitriti, la cui presenza, benchè eselusa dal Berthelot ('), è ammessa da altri (*). Lo stesso dicasi del metodo Will e Warentrapp, che è inoltre poco esatto. Anche il metodo Kjeldahl, eseguito col semplice procedimento dettato dall'autore, permette di dosare solo l’azoto organico e l'azoto amidico, ma non è neppur certo che con questo metodo si riesca ad intaccare qualunque sostanza organica azotata, poichè ad es. gli alcaloidi e le nucleine vegetali hanno una costituzione così complessa che l'azoto in esse contenuto offre una grande resistenza alla riduzione in ammoniaca. Tuttavia il metodo Kjeldahl è suscettibile di modificazioni tali che permettono di scomporre e di dosare così l'azoto organico come quello minerale, sotto qualunque forma. Innumerevoli (*) M. Berthelot, Chimie végét. et agric. Tome III pag. 76. (®) F. Ozapek, Biochemie der Pflanze, II, pag. 208. — 682 — sono le modificazioni che vennero fatte al metodo Kjeldahl: noi applichiamo in tutte le nostre ricerche quantitative (su semi, piante, terreno) il metodo Kjeldahl modificato dal Joldbauer (*), che ci permette di dosare l'azoto totale sia organico, sia inorganico, anche in dosi minime. Com'è noto, la modificazione consiste nell’aggiungere all’acido solforico concentrato che deve intaccare la sostanza, 2-3 ce. di acido fenolsolforico (ottenuto sciogliendo gr. 50 di fenolo in acido solforico concentrato fino ad ottenere 100 ce. di mescolanza), poi 2-3 gr. di polvere di zinco e 4-5 goccie di cloruro platinico contenenti gr. 0,04 di platino in lcc. di acqua. Si ottiene con questo metodo la scomposizione completa di tutte le so- stanze azotate, come dimostrano le analisi di prova fatte dall'autore stesso con sostanze diverse, e da noi ripetute con quantità note di nitrato e nitrito potassico, e di asparagina. Il riscaldamento della sostanza per la trasformazione dei composti azo- tati in solfato di ammonio durava da 1-3 giorni, e cioè fino 2 che il liquido non diventava perfettamente incoloro ; la distillazione avveniva nel solito modo e veniva prolungata per 2 !/» 3 ore. Distingueremo in due serie, le culture fatte seguendo il metodo speri- mentale e analitico ora descritto, e cioè : Serie I. — Culture di Raphanus sativus, di Acer Negundo, di Cucurbita Pepo, di Polygonum Fagopyrum, ottenute in substrato esente di composti azotati. L'analisi delle piante rivelò notevoli aumenti d'azoto in confronto alla quantità contenuta nel seme, aumenti spiegabili con la completa astinenza di azoto combinato a cui queste piante erano costrette. Anche il loro svi- luppo, relativamente alle condizioni in cui le piante crescevano, era notevole: fatto che si desume anche dai dati analitici qui riportati : Raphanus sativus. — Dal 18 luglio al 14 settembre 1910: Numero delle piante analizzate . . + - 12 PGs0 1INOSCO | (N A IE E MRO 4,5240 BGINOSTS SCTIBRIBAIEN MATT 0 VCO SISMA til NNONA D LOL 0,7068 Azoto totale contenuto nelle piante e 0,0238 ” ” ” In IO CROMO Oo (o 0,0063 Aumento! it AZ 00 MAE O ETCC EE 0,0175 (‘) M. Jodlbauer, Chem. Centralblatt, 13 F. 27, 433; e Zeitschr. f. analyt. Chemie, 26, 92, (1887). — 683 — Raphanus sativus. — Dal 13 luglio al 30 settembre 1910: Numero delle piante analizzate Peso fresco . DNS CECCONI Me. Azoto totale contenuto nelle piante . ’ ” ” in 12 semi . Aumento în azoto. 12 gr. 5,2940 » 0,8278 » 0,0308 » 0,0063 » 0,0245 Acer Negundo. — Dal 15 luglio al 5 ottobre 1910: Numero delle piante analizzate Peso fresco . n» Secco . ao LILIAN Azoto totale contenuto nelle piante . ’ ’ ’ in 10 semi Aumento in azoto. Acer Negundo. — Dal 15 luglio al 1° novembre Numero delle piante analizzate Peso fresco . ” Secco . SRO I Azoto totale contenuto nelle piante . ” ” ’ in 6 semi. Aumento în azoto. Cucurbita Pepo. — Dal 5 agosto all'8 settembre Numero delle piante analizzate Peso fresco . IMNS CC CONI E) Azoto totale contenuto nella pianta . 7 ” ” in 1 seme. Aumento in azoto. 10 gr. 5,90 » 1,0801 » 0,0224 » 0,0112 » 0,0112 1910: gr. 3,54 » 0,7975 » 0,0154 » 0,0067 » 0,0087 1910: gr. 7,51 » 0,6300 » 0,0147 » 0,0183 » 0,9014 Cucurbita Pepo. — Dal 5 agosto al 27 settembre 1910: Numero delle piante analizzate Peso fresco . » Secco . 5° SOI cr SINO Azoto totale contenuto nella pianta . ” ’ ’ in 1 seme Aumento în azolo. BIO. » 0,6827 » 0,0266 » 0,0133 » 0,0138 — 684 — Cucurbita Pepo. — Dal 5 agosto al 18 ottobre 1910: Numero delle piante analizzato . . . . . 1 Peso fiesRot i I 0, i giano ARES OGEON 100, TT AM N e, n Og VI 1,2322 Azoto totale contenuto nella pianta . . . . ” 0,0308 ” ” ” MOlsenno il. n 0019 Aumentotin azoto: (SO = «so Ne 0,0175 Polygonum Fagopyrum. — Dal 7 settembre al 20 ottobre 1910: Numero delle piante analizzate . . . »- - 15 P630) FLOSCON e re è 10 a ME I IST 2,68 PITON SIA 0 RPRITMIAGOITICO > SC CONI CR ANS CIN O OTT LE 0,6147 Azoto totale contenuto nelle piante . . . - ? 0,0133 ” ” ’ indil5: semi. oi a 010,0039 Aumento în azoto. +. 0 » 0,0094 Serie II.— Culture di Raphanus sativus, di Acer Negundo, di Cucurbita Pepo, di Solanum nigrum, ottenute in substrato contenente una quantità nota di azoto combinato. Le analisi delle piante rivelarono anche in questo caso notevoli aumenti, variabili a seconda della quantità di azoto sommi- nistrata. Servano di esempio i risultati seguenti : Raphanus sativus. — Dal 15 giugno al 20 novembre 1910: Numero delle piante analizzate . . . . Il Peso resto =. RM n OE 4,00 N IRECCONSI LI. 0° SN N 0,6594 Azoto totale contenuto nella pianta. . . . ” 0,0301 ” ” ” » soluzione sommi- nistratal 00.00 e SO 0,03069 Azoto totale rimasto nella sabbia . . . . ? 0,0091 ” ” contenuto in 1 seme . . . . ? 0,00055 AUMENIO TN AZINET CRE 0,00798 Acer Negundo. — Dal 15 luglio al 15 settembre 1910: Numero delle piante analizzate . . +. + + 2 Peso: fresco (I USA e API LI N 2,25 ni SECCO, lt 2 RR 0,5545 Azoto totale contenuto nelle piante . . . . ? 0,1624 ’ ’ ’ nella soluzione sommi- ERRE MIMMO 00 GUI DIGNITOSO SCESO 0,1432 Azoto totale rimasto nella soluzione. . . . ” 0,0035 ” ” contenutoRimz seni e 00022 AUMENTO CN AGOLOS MMM = > RE 0,0205 RR E, — 6385 — Cucurbita Pepo. — Dal 5 agosto al 1° novembre 1910: Numero delle piante analizzate . ..... 1 | RRESORAfrescORE E GAIA O) TCORAIERCIO, gr. 13,61 SOCCI, 01950 I Azoto totale contenuto nella pianta. . . . » 0,04494 | ’ ” ” » soluzione sommi- TIE EA CA MAR i ARRE 00 RR tI 0,02046 | Azoto totale rimasto nella sabbia . ... = 0,0014 ” "fliicontenutoimtNiseme! RENANIA: 0133 i AUMENTO AMAO COMANO IM O, 0,01258 Cucurbita Pepo. — Dal 5 agosto al 5 novembre 1910: | Numero delle piante analizzate . ..... . 1 I o RESDITOSEO, 0 ci e i O AR TO 0875 Azoto totale contenuto nella pianta... . » 0,0679 o 7 5 a » soluzione sommi- | NOSTRA ARRESE RI o INA ho 102046 | i Azoto totale rimasto nella soluzione. . . . >» 0,0007 i ” ” contenuto nel seme... .. 0,0133 LAUIMENLOMIRINAZO FORNO 5 vic TOMI o 0,0383484 | Solanum nigrum. — Riuniamo i dati di alcune analisi nel seguente specchietto : Azoto totale | | a Azoto totale Azoto totale | Azoto totale Aumento | 5 | Peso fresc P sec tenut aa x A 3 | iS piate | di'spiante | cpntontto. [nola soluzione ,yfeisto, | sonemto. | cin | iS gri gr. gr Se rata Si gr. gr: | e | Ì A 8527 0,8930 0,0195 0,02046 | 0,0028 0,00006 0,0017 | | B 8,06 0,8819 0,03192 0,02046 0,01208 0,00006 0,0234 | C 8,87 0,9905 0,0507 0,02046 0,0000 0,00006 0.0306 D 26,15 3,5140 0,0294 0,04092 0,0224 0,00006 0,0108 DIO) 0 1,4730 0,0735 0,0864 0,0168 0,00006 0,0039 | | Dalla comparazione di questi risultati si deduce che le culture che ri- cevettero una maggiore quantità di azoto diedero una minore quantità di (!) Si.noti che, mentre le culture A, B, C, D ricevettero l’azoto sotto forma di ni- trato di calcio, la cultura E lo ricevette sotto forma di fosfato d'ammonio bibasico, e di nitrato potassico. RenpICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. 90 i — 636 — azoto libero assimilato, perchè nella sabbia (0 nella soluzione residuo) restava ancora una certa quantità di azoto combinato: mentre le culture che rice- vettero meno azoto e che lo assimilarono in gran parte (lasciando nella sabbia poco o nullo residuo), diedero una quantità di azoto libero assimilato maggiore. Dal complesso delle nostre esperienze noi crediamo dunque di poter concludere che la facoltà di assimilare l'azoto atmosferico libero è proprietà assai più diffusa di quanto fino ad ora si ammetteva, ed è presumibile che tutti i vegetali, dalle alghe alle fanerogame, possano, in condizioni speciali, far uso con maggiore o minore attività di questo potere. Come tale assorbì- mento avvenga, e quale sia, e se esista un organo specifico che adempia a questa funzione, non ci è noto; certo è che non si può accettare, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la teoria dei « generatori di albumina » emessa dal Jamieson (*). Ma è pur certo che, a prescindere anche da qualunque risultato sperimentale, è fisiologicamente ammissibile che la cellula vegetale clorofilliana, sede di molte altre, forti e complesse reazioni chimiche (in parte a noi ancora ignote), compia anche quella della fissazione dell'azoto libero. Inoltre, le moderne teorie sulla catalisi, sulle sostanze colloidali e sugli enzimi (così comuni nelle cellule vegetali), ci permettono di ammettere che il fenomeno della fissazione dell'azoto libero per parte delle cellule delle piante superiori, possa avvenire per combinazione diretta dell'azoto con l'idro- geno nascente, per dar luogo alla formazione di un composto azotato, primo prodotto della sintesi degli albuminoidi. All'infuori della cellula vegetale infatti, questa combinazione venne ottenuta già da varî anni dal Loew, che in presenza della spugna di pla- tino 0 di altre sostanze catalizzanti ottenne, in ambiente esente di composti anotati, la fissazione dell'azoto libero, con produzione di nitrati. Recentemente poi il prof. Haber di Karlsruhe è riuscito a dare un'applicazione pratica a questa sintesi, mettendo una miscela di idrogeno e di azoto in presenza di uranio finemente diviso. In modo analogo potrebbe, secondo noi, avvenire la fissazione dell'azoto libero nel plasma vegetale vivente. Ad ogni modo, che tale fissazione in realtà avvenga, a noi sembra dimostrato dalle nostre esperienze. Che tuttavia molte specie non possano rinunziare all’azoto combinato che trovano da lungo tempo e in gran quantità nel terreno, è cosa naturale. È chiaro che se si somministra per anni ed anni di seguito, ad una data specie, un eccesso di sostanze azotate, in modo da ottenerne da parte della pianta la graduale assimilazione, non potremo poi pretendere da quella stessa (3) T. Jamieson, Utilisation of nitrogen in air by plants (Agricultur Research Asso- ciation, 1905-1908). rrnnnrse: — 687 — specie che, non solo si sviluppi in assenza di quella sovrabbondanza di nu- trimento a cui si era adattata, ma che trasformi totalmente il suo modo di vita, e adatti le proprie cellule in modo da assimilare un elemento libero, allo stato gasoso, anzichè lo stesso combinato sotto forma di sale inorganico e disciolto. Ma è naturale altresì che esistano piante dotate di uno speciale potere di assimilabilità dell'azoto libero, delle vere accumulatrici di azoto, di cui forse col tempo potremo rendere, con mezzi adatti, più remunerativa la col- tivazione. In tal modo il problema dell’assimilazione dell'azoto libero, stu- diato nei suoi particolari, potrà avere una grande importanza, oltre che nel campo puramente scientifico, anche in quello dell'agricoltura pratica. Patologia vegetale. — Intorno allo svernamento di alcune Krisifacee. Nota del dott. Virrorio PrGLION, presentata dal Socio G. CuBONI. Colla ripresa della vegetazione ho potuto completare le osservazioni intorno all’Oîdium quercinum Thim. per quanto ha attinenza collo sverna- mento di questo parassita allo stato conidiale nelle gemme della quercia. Già l'esame metodico di parecchie centinaia di gemme allo stato di riposo, provenienti da alberi crescenti in diverse località, mi aveva fornito resultati positivi: un limitato numero di esse presentava un'infezione diffusa, così come le gemme staccate dalle piantine di quercia ricoverate durante la scorsa invernata nella serra della R. Scuola Superiore di Agraria di Bologna. Tuttavia, la migliore conferma alle conclusioni esposte nella mia precedente Nota è venuta dalle indagini compiute di mano in mano che le quercie entravano in vegetazione. Ho raccolto ormai numerosissimi germogli infetti disseminati saltuariamente in mezzo alla rigogliosa vegetazione spuntata nel volgere di pochi giorni sulle annose quercie che si trovano nei dintorni di Ferrara. I germogli infetti sono interamente ricoperti dalla caratteristica efflo- rescenza bianca, che ne rende facile la scoperta in mezzo al verde tenero delle nuove cacciate. Essi si rinvengono di preferenza sulle ramificazioni cespu- gliose che si trovano lungo i fusti non debitamente governati. Accade in aperta campagna lo stesso fenomeno segnalato nella prece- dente Nota: l'infezione resta cioè circoscritta per parecchi giorni ai germogli dischiusisi infetti, nonostante che sulla trama miceliale si trovino conidio- fori che disseminano in giro numerosi conidi perfettamente maturi ed atti a germinare. Anzi negli ammassi di conidi che formano rivestimento polve- rulento alla superficie degli organi infetti, è facile osservarne non pochi in via di germinazione. — 688 — Resta pertanto stabilito che anche in aperta campagna l’oidio della quercia si conserva da un anno all'altro vivendo parassitariamente nelle gemme. Aggiungo ora che nella serra, dopo un periodo di incubazione durato per oltre una ventina di giorni, l'infezione si è poscia diffusa con tale vio- lenza da costringere ad eseguire una solforazione per porvi argine ed impedire che la vegetazione delle giovani quercie fosse compromessa. Non occorre aggiungere che, in tali condizioni d'ambiente, l'applicazione dello zolfo ha consentito di soffocare radicalmente e rapidamente l'infezione. È probabile che non poche altre specie di erisifacee, oltre all’ Otdium quercinum ed all'oidio della vite, svernino allo stato conidiale nelle gemme dell'ospite: posso confermarlo intanto per altre due specie, e cioè l'oidio del Melo e l’oidio delle Rose. La forma conidiale (Oidium farinosum Cook) del parassita del Melo è assai diffusa nei frutteti della regione del Basso Emiliano; è noto che di recente il Laubert (') ne ha scoperti i periteci nei pometi di Dahlem, iden- tificandoli colla Podosphaera leucotricha Salm.; pur rilevando il significato biologico inerente alla constatata fruttificazione ascofora di questo parassita, lo stesso Laubert ammette in massima che esso possa, al pari di altre eri- sifacee, svernare per mezzo di miceli ricoverati nelle gemme. Le accurate riproduzioni fotografiche di germogli interamente infetti, intercalate nel testo dell’interessante lavoro di Laubert, lasciano appunto suppore che essi pro- vengano dallo svolgimento di gemme infette. Anche von Tuboeuf (*) riporta un caso di svernamento dell’oidio nelle gemme di una pianta di Melo rico- verata in una serra. A me non si è mai presentata l’opportunità di osservare i peritecì dell'oidio del Melo in questa regione: tuttavia, mi risulta da osservazioni continuate da qualche anno dal dott. À. Manaresi che questo parassita si manifesta regolarmente in qualche frutteto dei dintorni di Bologna ed Imola; questa primavera, l'ho riscontrato diffusissimo nei pometi dei dintorni di Ferrara. Le osservazioni compiute in queste differenti località consentono di affermare che l’oidio del Melo sverna precisamente nelle gemme dell'ospite. Esso si rinviene tanto in gemme foglifere che miste. La faccia interna delle squame e soprattutto poi foglie, peduncoli e fiori sono uniformemente rico- perti dalla fitta rete miceliale, da cui si differenziano i caratteristici coni- diofori. Ogni conidioforo che raggiunge all'incirca 110 w di lunghezza segmen- tandosi, dà origine a 4-6 conidi, che misurano 24-37 X 15-17 w. I getti infetti si riconoscono abbastanza agevolmente poichè, invece della colorazione bianco-argentina dovuta allo spesso tricoma che ne av- (1) Laubert, Der echte Mehlthau des Apfelb. Deutsch. Land. Presse 1908, pag. 628. (2) Von Tuboeuf C., Beodacht. d. Veberwinter. von Pflanzenparas. Naturwissensch. Zeitschr. 8 Iahrg. 1910, heft 1, pag. 57. — 689 — volge i singoli organi, si presentano di colore bianco smorto, quasi bigio. L'infezione, quando sia diffusa nella proporzione avvertita in alcuni alberi del frutteto della Montagnola, diventa una vera calamità, poichè i getti colpiti, oltre a fungere da centri di infezione primaria, subiscono anche una non trascurabile caduta di fiori. Epperò ho fatto eseguire forti solforazioni allo scopo di arrestare l'infezione stessa e giudicare, per quanto sarà possi- bile e mediante opportuni confronti, quale sia l'entità del danno in seguito al libero dilagare dell’oidio. Veniamo finalmente all’oidio delle rose: come osserva il Pollacci (I in Italia questa specie si rinviene quasi sempre allo stato conidiale (Oidium leucoconium Desm.); qualche anno fa venne segnalata da Cuboni e Petri (©) la forma ascofora (Sperotheca pannosa) sviluppatasi su rametti di pesco col- piti dal cosidetto bianco; di fronte alla diffusione che rende questo paras- sita una delle maggiori avversità delle rose, si può ritenere che la forma- zione dei periteci sia davvero un fatto eccezionale. Orbene procedendo il 12 aprile u. s. all'esame delle prime tracce d'infezione comparse quasi simul- taneamente alla schiusura delle gemme, su delle rose riferibili alle varietà Maréchal Niel, Marie Henriette, Vittorio Emanuele, — che si dimostrano più specialmente soggette al diazco — ho potuto accertarmi che la Sphae- retheca pannosa è da annoverarsi fra i parassiti capaci di svernare anche, se non precipuamente, per mezzo di formazioni miceliali ricoverate nelle gemme. Premetto che anche in questa circostanza le più serupolose indagini rivolte alla ricerca dei periteci sui rami e sugli avanzi foliari ebbero risul- tato negativo. Lungo i rami stessi ho raccolto germogli formati da 2-3 foglie uniformemente ricoperte da trama miceliale e conidiofori di Oidium leuco- conium; germogli fioriferi nei quali le foglie sono irregolarmente cosparse da macchie oidiali ed i bottoni fiorali ancora ermeticamente chiusi — in taluni esemplari tuttora inclusi nella stipola — nelle sezioni longitudinali mostrano la faccia interna dei sepali, coperta da un fitto tricoma bianco in mezzo al quale serpeggia il micelio da cui si distaccano numerosi i caratte- ristici conidiofori dell’oidio anzidetto. Anche in questo caso, l'infezione resta per qualche tempo circoscritta in questi centri primarî, donde poi divampa all’intorno colla ben nota virulenza. Ho riunito queste osservazioni sommarie a sostegno dei concetti di recente espressi da Ewert (*) circa l’importanza che si deve attribuire alle 1 (°) Pollacci G., Monografia delle Erisifacee italiane. Atti R. Ist. Bot. Un. Pavia, 1907. (*) Cuboni G. e Petri L. Rend. Acc. Lincei, XVIII, 1909, (*) Ewert, R., Die Uberwinter. von Sommerkon path Ascomyc. Zeitsch. f. Pflans, 1910, 129. 3 — 690 — forme conidiali estive, per quanto ha attinenza collo svernamento dei paras- siti, non limitandone però la portata alle sole specie che raramente differen- ziano fruttificazioni ascofore, ma attribuendovi, come opina Hecke (!) un si- gnificato biologico assai più ampio. Batteriologia agraria. — Sopra la microflora della cam- pagna romana (). Nota di R. PEROTTI, presentata dal Socio G. CUBONI. Lo studio della microflora della campagna di Roma è uno di quei che anche nella preparazione delle leggi di bonifica dell'agro romano venne com- pletamente trascurato. Di ciò peraltro non può essere fatta colpa ad alcuno in quanto che la conoscenza del valore che alla microflora stessa spetta nella coltivazione dei campi è molto recente, più recente anzi dei provvedimenti fondamentali ehe si vollero decretare per il risorgimento economico del nostro agro. Il primo lavoro di batteriologia riguardante i terreni circondanti la città di Roma, i quali si presentano invero in condizioni alquanto singolari, fu eseguito dal Faelli nell'estate e nell'autunno dell’anno 1903 (3). Con esso si venne alla conclusione che le iufarine, le pozsolanelle e le argille plio- coniche sono ricchissime di microrganismi, fra i quali si contano micro- cocchi, bacilli fermenti dell’urea, protei, sarcine; che il numero dei micror- ganismi stessi è minore alla superficie che non a 30 cm. e diminuisce appro- fondendo di più la presa del campione; che il 15 °/ all'incirca è costituito da ifomiceti e saccaromiceti. Solo due anni appresso venne in luce un mio primo studio sopra i batteri oligo- e mesonitrofili della campagna romana, del quale riferii a questa stessa Accademia (4), e nel quale misi in evidenza la diffusione e la impor- tanza che i batteri fissatori di azoto posseggono nei nostri terreni in rela- zione particolarmente alla locale e vecchia pratica del maggese. Una ulteriore illustrazione della batteriologia della campagna romana fu l’altro mio lavoro (!) Hecke, L. Beob. uber Ucberwinterung von Pflanz. paras. Nat. wissensch. Zeitschr. Tobias ik (2) Lavoro eseguito nel Laboratorio di batteriologia agraria della R. Stazione di Patologia vegetale di Roma. (3) G. Faelli; Ricerche di batteriologia agraria fatte nell’agro romano. Archivio di farm. sperim., INI, 1904. (4) R. Perotti, Batteri oligo- e mesonitrofili della campayna romana. Rend. Accad. Lincei, XIV, 2° sem., fasc. 11, pag. 623. — 691 — sopra lo Pseudomonas leuconitrophylus n. sp. in essa diffuso e da me stesso descritto (1). Gli altri miei studî sopra il movimento del capitale-azoto nei terreni della campagna romana (*) e sopra i metodi di misura delle attività micro- biche da me praticati (*), sono ulteriori contribuzioni alla conoscenza della microflora dell’agro in quanto si riferiscono alla fanzionalità di essa in rela- zione alle proprietà fondamentali che un terreno atto alla coltivazione deve presentare. Nelle mie ricerche sopra la biologia dell'agro ho voluto però prendere in esame la microflora molto più da vicino, avendo fin da principio sospet- tato che la naturale e attitudini di essa, non solo avrebbero potuto illumi- narci sopra il fondamento naturale delle pratiche già in uso nella campagna romana, ma avrebbero anche permesso di trarre conclusioni a vantaggio delle misure di bonifica eventualmente da adottarsi. Condussi le ricerche stesse per l'intero anno 1910 ottenendo così risultati che sono la espressione non solo delle proprietà dei differenti terreni della caratteristica ed importante regione, ma anche dei varî momenti dell’intero ciclo annuo delle vicende atmosferiche. Anzitutto volli indagare sopra il contenuto quantitativo dei batteri dei terreni dell’agro ed intorno alle variazioni che il numero di essi presenta con la diversa natura del suolo, con i lavori, ecc. In tale ordine di ricerche feci largo uso del mio agar all’estratto di torba, di cui avevo già più volte sperimentata l'efficacia (‘). La coltivazione fu fatta a temperatura ambiente e la conta eseguita dopo 20 giorni dalla data di allestimento delle culture, in doppia prova per ogni campione di terra. Riporto qui appresso alcuni dati scelti fra i moltissimi ottenuti nello intero anno decorso. (') R. Perotti, Su una nuova specie di bacteri oligonitrofili. Annali di Botanica, vol. IV, fasc. 3°. (*) R. Perotti, Il movimento del capitale-azoto nei terreni della campagna romana. Rend. Acc. Lincei, vor. XIX, 2° sem., fasc. 12, pag. 671. (®) R. Perotti, Sopra i metodi di misura delle attività microbiche del terreno agrario. Rend. Acc. Lincei, vol. XX, 1° sem., fasc. 4, pag. 266. (°) R. Perotti, Per l'esame bacteriologico-agrario del terreno. Rend. Acc. Lincei, vol. XVI, 1° sem.. fasc. 1, pag. 67. — 692 — “eqRUITOTOO UOU ‘oqua way 00006 SE @ tqeAI][oo (eItoTeo-oso]]1S 000°076 06 “Ie OUaII93) QIDAQT, [OP AIIEA 000/076 OT 0888 000°SF7I | 06 = = SG ‘epewuro Too UOu ‘0}U9QUMIS 000°0CÌ 000°07I | 06 è EqRAN][oo QUITUY.[[P_9IlBA | 0000087 | 000'8LL| OT 00888 # va 0S ‘a]RI 000°008 | 000°EL | SE “neu 0gexd ‘(oxeoqeo-0so][tS Oggi 009081 | 00079 | 06 - IV 0U9II9Z) QUALUYW,[[®P PIIBA | 00S'FI 000013 | 000°LIT| OI = 000066 08 00S'EL = SG ‘aeangeu ogeid 002°£S 000°0LI 06 (oeueozzod) oueIdiTe Ip AITEA | 000 SIT 000'00T OL co O0S'LE 08 ‘oqUu 000°S8 ra ce -IOUO9 UOU ‘OZuAUMIF V OJBA 000°08% 00006 06 -1}00 (orpeue|ozzod) omerdiy 000°008 00S°GL OI == Fa 00S'L8 0S 000°SG 000°SI = SG ‘egeanqeu 006 S6I 000°SI 00666 | 06 ogeid ‘(opoue]ozzod) ouerdgIy i 006 G9G 00S°LS 000°SLL| OT 0S == SG 000 18 06 ‘ogpoout “(o;n9) enamteds 00S'66 OI = 00S'EL 00G'GI 06 “ee uit uoo 0008 è > SE uou ‘OjuUOUINIT 8 EqUALI]OO 00003 0099. Q00°LI 06 (ourte;m9) ouerdigge IP OICA 000/611 00889 000°SSI OT I SS TÉ 0S 00S'IF | 00867 A SE ‘0geuIto 09 UOU ‘0QuatImIj è 0089 | 00678 OOS'TI 06 oqgAT}[o9 (outIeim)) OUEIdOIY 0066 | 00S'E7 00087 OI 00S'O7 a # 06 = = 000'2I 00986 SE ‘een 09088 000°SG | 00066 00S°'8Ì | 06 -eu ogrid ‘(ourIe;nI) OUEIATITYy 006 GL 00056 |00S'00I 00S'SI OI H "UL9 UOLZDALI8SO QIqueo | atquaaon | 21090) | 91qU9}49S 0gs0Sy 01,8nT ouSn1s 0183€N aqudy OZIEH orgIqqog | oteuto) [:0h99) -U0J0Ig ‘VIUAL IT OTNO OULUNILNHO YHd INUHO INC QUUNOAN — 693 — L'esame di queste cifre permette molte conclusioni : Anzitutto, in quanto a ricchezza di germi, si rileva che occupano il primo posto i terreni della valle del Tevere e dell'Aniene; alquanto dietro vengono tutti gli altri terreni dell’agro, fra i quali, tuttavia, per maggior numero di germi, primeggiano gli altipiani di pozzolanelle e le valli di alti- piano di tufarine. Sulle spallette il contenuto dei germi è assolutamente basso. In linea generale, si osserva una grande differenza tra il numero dei microrganismi dei terreni lavorati e di quelli lasciati a prato naturale. I lavori favoriscono notevolmente la moltiplicazione dei germi anche nelle nostre terre. In alcuni casi, il numero ha superato anche i due milioni per centi- metro cubo, cifra che non si raggiunge molto frequentemente. | Circa le variazioni quantitative del contenuto batterico con l'avvicen- damento delle stagioni, troviamo il fatto dell'aumento dei germi nel periodo invernale, decorrente dal settembre al marzo; in quanto però alla distribu- zione con la profondità, dobbiamo constatare irregolarità frequenti. In linea di massima mi sembra che non possa affermarsi la circostanza che nei nostri terreni, nelle profondità medie (cm. 30-35) si abbia il maggior numero di batteri. Vi sono molti casi nei quali troviamo le cifre più elevate a cm. 50, come ve ne sono molti altri nei quali le stesse cifre elevate sì trovano alquanto più in alto. Nelle tufarine, ad es., che formano in genere terreni poco potenti e che si disseccano facilmente, si ha il maggior numero di mi- crorganismi negli strati profondi. Altre ricerche furono da me eseguite sopra la microflora della campagna romana a mezzo dell'esame quantitativo. Procedetti all’isolamento ed alla identificazione delle specie sviluppan- tesi non solo sopra le piastre all’agar di torba, già usate per la numerazione dei germi, ma anche di quelle sviluppantesi nelle soluzioni selezionanti ser- vite alla misura dei poteri di ammonizzazione, nitrificazione, denitrificazione e di fissazione dell'azoto della quale ho riferito nelle mie precedenti Note. Per lo studio mi valsi quindi anche di agar nutritivo al peptone, di gela- tina, di agar di fagiuoli ‘e di agar Beyerinck alla mannite. Sopra i subst:ati al peptone ottenni singolare sviluppo di Bac. /wo- rescens liquefaciens con molte varietà, di Bac. Aworescens putridus (Flugge) e più raramente di Bac. piocyanens e di qualche Profeus. Sopra il substrato preparato con brodo di fagiuoli, ottenni con prevalenza sviluppo di Bac. subtilis, Bac. denitrificans, Bac. megatherium, Sarcina lutea, S. auran- tiaca, Bac. violaceus, Ascobacterium luteum: sopra l'agar Beyerinek ottenni sviluppo del mio Pseudomonas leuconitrophylus e di altre forme particolar- mente adattate a substrati magri riferentisi al Bac. Alvorescens liquefaciens, nonchè dell’Azotobacter chrooccocum. Sopra l’agar all'estratto di torba 0s- servai una equa rappresentanza di quasi tutte le soprariferite forme e di più RenpiIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 91 — 694 — un ricco sviluppo di ifomiceti, tra cui: Mucor mucedo, Penicillium glaucum, Aspergillus niger, Fusarium roseum, Cladosporium, ecc. La concordanza dei risultati di non poche osservazioni fatte, mi permette di affermare alcuni fatti che non ritengo privi d'importanza per la conoscenza della distribuzione delle specie microrganiche nell’agro romano in relazione alle differenti proprietà dei terreni di esso ed alle diverse influenze esterne che i medesimi sono costretti a subire. Da innesti con campioni di pozzolanelle si ottengono, con una certa pre- valenza, forme batteriche; da innesti con campioni di tufarine si ottengono, invece, molto più abbondanti le forme ifomicetiche. Il rapporto numerico fra queste due categorie di microrganismi, che nei riguardi agronomici hanno una differente importanza, varia del resto alquanto con le epoche dell’anno. Se inverno le forme miceliche rappresentano il 15-20 °/ delle specie sviluppatesi sopra l'intera pianta, in estate esse possono raggiungere fino il 90-95 °/, mentre la residua frazione è costituita quasi esclusivamente da Bac. sublilis. Tale circostanza attesta che in estate i terreni della campagna romana pos- sono godere di proprietà microrganiche molto differenti da quelle che si hanno in inverno; essa si nota a partire dal mese di aprile e perdura, più o meno ac- centuata, fino al mese di settembre. La specie che nei terreni del nostro agro mi è fin qui risultata essere fra quelle che posseggono la maggiore importanza è il Bac. Auorescens li- quefactens. Esso, non solo ha una diffusione più che ordinaria, essendo par- ticolarmente in grado di sostenere nelle condizioni locali la concorrenza vitale di tutte le altre forme, ma presenta anche un grande numero di varietà, le quali fanno passaggio a quel Pseudomonas leuconitrophylus, che io ho tempo fa descritto come forma oligonitrofila importante per la nostra campagna e che contribuisce a rendere questa un ambiente dove la oligonitrofilia possa sfruttarsi con vantaggio economico. Fisiologia. — Contributo alla biologia degli Enzimi. Sulla azione delle lipasi. Nota di Sabato Visco, presentata dal Socio L. LUCIANI. Botanica. — Esperienze sulla disinfezione delle piante. Nota II dei dott. L. DANESI e M. Topi, presentata dal Socio B. Grassi. Queste Note saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 695 — RELAZIONI DI COMMISSIONI Il Corrisp. VioLa, relatore, a nome anche del Socio STRUEVER, legge una Relazione colla quale si propone la inserzione nei volumi accademici, della Memoria del dott. G. Ponte, intitolata: Studi sull’eruzione elnèa del 1910. Parte prima. Eguale proposta fanno i Soci DE STEFANI, relatore, e Bassani, per il lavoro del prof. A. MarTtELLI, dal titolo: Osservazioni geologiche sugli Acrocerauni e sui dintorni di Valona. Le conelusioni delle Commissioni esaminatrici, messe ai voti dal Pre- sidente, sono approvate dalla Classe, salvo le consuete riserve. PERSONALE ACCADEMICO Commemorazione del Socio straniero FEDERICO von RECKLINGHAUSEN, letta dal Socio E. MARCHIAFAVA : Ringrazio il nostro Presidente di avermi dato l’onorifico incarico di com- memorare il prof. Federico von Recklinghausen, socio corrispondente estero, perchè a lui mi legavano, come ora alla sua memoria mi legano, sentimenti di riconoscenza per la ospitalità, onde mi fu largo nell’anno 1875, nel suo Istituto di Strasburgo, ove aveva ricevuto la stessa cordiale accoglienza il nostro Socio professore senatore Foà, e come poi l’ebbero altri giovani me- dici italiani, che vi andarono chiamati dalla fama dell’ insigne maestro. Federico von Recklinghausen, spento serenamente nell'età di 76 anni, dopo la morte di Virchow, era il Nestore dei patologi tedeschi. Cominciò la carriera scientifica in Berlino, in quell'epoca memorabile per la medicina, nella quale un uomo di genio, Rodolfo Virchow, che chiamava il nostro Morgagni, il grande Maestro, aveva attirato l’attenzione di tutti i medici nazionali ed esteri con la nuova dottrina della patologia cellulare, e la me- dicina, uscita dalle pastoie dei sistemi fondati meno sopra l'osservazione e l'esperienza che sopra le speculazioni, rispettati i tesori raccolti per opera di osservatori intelligenti e sagaci dall'esperienza clinica, entrava finalmente, come voleva Bichat, nell'orbita delle scienze naturali, e additava la via di un progresso veramente positivo, onde le conquiste meravigliose per la scienza ed utili per l'umanità raggiunte in poco più di mezzo secolo. — 696 — Fu in quel tempo che Virchow riconobbe nel giovine Federico von Reck- linghausen, una intelligenza penetrante, una iniziativa operosa, l'alto senti- mento del dovere e lo ammise nel suo Istituto. Dopo aver passato sei anni nell’ Istituto patologico di Berlino, insegnò a Kénisberg, poi a Wirzburg e da ultimo nella Università di Strasburgo, ove rimase fino a quando ne divenne professore emerito. I primi lavori che lo fecero conoscere nel mondo scientifico medico fu- rono eseguiti negli anni 1862 e 1863. Due riguardano la struttura del tessuto connettivo, il quale secondo Vir- chow, occupava un posto importante nella patologia cellulare. In uno: / vasi linfatici e la loro connessione con îl tessuto connettivo, studiò particolar- mente i canalicoli del succo: SaftKànalchen, che, scavati senza pareti proprie nei varî tessuti connettivi, sono in comunicazione con i vasellini linfatici per gli stòmi della membrana endoteliale, nella quale egli dimostrò i limiti delle cellule endoteliali con il trattamento al nitrato di argento. In questo lavoro egli dà una interpretazione della struttura delle cellule connettive diversa da quella che ne aveva data il suo Maestro. Nell'altro: 7 riassorbimento dei grassi, il primo lavoro sperimentale sopra questo argomento, dimostrò che i grassi e le emulsioni di sostanze coloranti introdotti nel peritoneo sono rapidamente assorbiti per le piccole aperture delle membrane endoteliale della superficie inferiore del diaframma dai linfatici del centro tendineo e trasportati in quelli della superficie tora- cica. Questo studio, che fu poi ripreso e ampliato da ricercatori italiani, è pieno d'interesse per i processi del riassorbimento. Nel terzo dei suoi primi lavori: Sopra il pus e i corpuscoli del tes- suto connettivo, notabile per la dottrina della Flogosi, dimostrò che le cel- lule del tessuto connettivo identiche alle cellule bianche del sangue e. alle cellule del pus, sono cellule rotonde capaci di migrare negli spazî linfatici per virtù dei loro movimenti ameboidi, che egli potè studiare per lungo tempo con l'esame microscopico in una camera umida da lui costruita. Questa scoperta aprì forse la strada all'altra della fuoruscita delle cellule bianche dai vasi sanguigni fatta pochi anni dopo nello stesso Istituto da Giulio Cohnheim. Ai lavori ora ricordati che portarono un contributo alla dottrina cellu- lare del Maestro, seguirono numerosi altri che sarebbe lungo esaminare anche brevemente. Ne ricorderò alcuni: 1’ Esostosi multiple; gli Encondromi mul- tipli; la Ranula; la Neurofibromatosi della pelle chiamata anche la malattia di Recklinghausen; l' Embolia venosa e il trasporto retrogrado nelle vene e nei linfatici; la Spina bifida; la Carcinomatosi osteoplastica dello scheletro; gli Adenomiomi dell’utero e delle trombe; la Osteite fibrosa. Tutti sono eseguiti con tecnica semplice, ma inappuntabile, con critica severa; e in tutti si trovano fatti nuovi, interpretazioni nuove di fatti noti, vedute origi- nali, germi di future ricerche, di discussioni proficue. — 697 — Oltre i lavori di anatomia patologica speciale, egli pubblicò nel 1383 il suo ben noto e grande Trattato di Patologia generale della circolazione e della nutrizione, nel quale è raccolta la dottrina completa delle altera- zioni della circolazione, della flogosi, delle degenerazioni e della febbre. In questo trattato, che sarà sempre consultato da coloro, che vorranno cono- scere lo stato della scienza patologica fino a quell'epoca, sono egualmente fatti e idee originali, in modo speciale nei capitoli della trombosi, della stasi, della degenerazione grassa, della jalinosi. L'attività didattica di F. v. R. non si rallentò mai: egli insegnava con ardore e con fervore. Io ricordo che egli stesso, sebbene circondato da valorosi assistenti come Friedlinder e Zahn, si occupava di tutti i preparativi per le lezioni dimostrative, e che alle sue lezioni, con gli studenti, assistevano numerosi medici desiderosi di conoscere dalla bocca del grande maestro i progressi della scienza. Per F.v. R. la ricerca scientifica non era soltanto il dovere, ma anche la vera gioia e quasi la condizione indispensabile della sua esì- stenza. Nel 1891 cominciò le sue ricerche sopra la patologia delle ossa e in particolare sopra la rachite e la osteomalacia, concentrandosi in questo studio nelle ferie, poichè nei mesi di lezione quasi tutta la sua attività era per l'insegnamento. Nel 1905 per sua volontà, divenuto professore emerito, non si prese il meritato riposo o volse la sua mente ad altri studî, ma do- mandò un posto nell'Istituto da lui fondato e del quale era stato per tanti anni il decoro, per continuarvi le sue indagini sopra la rachite e la osteo- malacia e vi si dedicò dalla mattina alla sera, stimolato dal pensiero che la tarda età poco tempo gli avrebbe consentito ancora; onde la necessità di far procedere rapidamente il lavoro, il cui compimento era ormai per lui un sacro dovere. E quando cominciarono i primi sintomi di quella debolezza del cuore, alla quale doveva presto soccombere, egli presago della prossima fine, rac- colse con ferma volontà tutte le forze che gli rimanevano, perseverò in quel lavoro e potè terminarlo prima di morire. Non potè sciogliere il voto da lungo tempo fatto di presentarlo alla Università Federico Guglielmo di Ber- “lino, la sua A/ma Mater, durante le foste del Centenario della fondazione; ma il suo figlio che curò la pubblicazione della grande opera, la più grande sopra l'argomento trattato (un volume di 573 pagine e un magnifico atlante di 43 tavole) ne scrisse la dedica, come un legato, a quella Università se- condo il desiderio del padre. F. v. R. alle doti d’insigne scienziato univa quelle di un carattere ele- vato e leale, di una bontà attiva, di un tatto fine e delicato. Nella città di Strasburgo, dove egli andò quando ancora non era spento l'eco delle grandi battaglie, le sue belle qualità furono feconde di una influenza nobilmente pacificatrice. Una prova solenne della stima dell’affettu e della riconoscenza — 698 — delle generazioni dei medici, che si succedettero nei 34 anni del suo inse- gnamento è la fondazione, che porta il suo nome, destinata ad incoraggiare le ricerche scientifiche, istituita con le contribuzioni dei medici e dei pro- fessori che gli furono discepoli. E questo fu un omaggio meritato da F. v. R. che per tutta la vita rimase fedele alla scienza e il cui nome per le sue opere rimarrà nella storia della Medicina. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvICH presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando qnelle inviate dai Soci: TarRAMELLI, BERLESE e SILVESTRI. À nome poi del Corrisp. on. CARDANI fa omaggio di un lavoro a stampa del prof. G. BERNARDI, avente per titolo: 7avole contenenti i doppi, i qua- drati, i tripli dei quadrati ed i cubi dei numeri interi da 1 a 1000 ecc. Il Segretario Grassi fa omaggio dell’opera del dott. D. GrorpANO, in- titolata: Trattato di Chirurgia; appendice 2%: Compendio di Chirurgia operatoria italiana, di cui segnala la dottrina e la importanza. Il Socio Nasini offre una copia del suo discorso: Za Teoria atomica e l'opera di Stanislao Cannizzaro, pronunciato alla 4 riunione della So- cietà italiana per il progresso delle scienze, dando su di esse alcune notizie. Il Corrisp. LauRIcELLA presenta, a nome del Socio VoLTERRA, le Lezioni di Analisi infinitesimale del prof. GiuLio VivanTI, rilevandone ì pregi scientifici e didattici, ed in particolare la ben riuscita fusione del Calcolo integrale col differenziale. — 699 — OPERE PERVENUTE IN DONO ALL'ACCADEMIA presentata nella seduta del 5 marzo 1911. Agamennone G. — Brevi cenni sull’orga- nizzazione del servizio sismico in Italia con l’eleneo dei principali Osservatorî sismici italiani. (Estr. dal « Boll. della Soc, Sism. Ital. », vol. XIII). Modena, 1908. 8°. Atorsi P. — Le così dette Miloniti del- l'isola d' Elba. (Estr. dagli « Atti della Soc. Tosc. di Sc. Nat. ». Memorie, vol. XXVII). Pisa, 1911. 8°. BarBEeTTE E. — Le dernier théorème de Fermat. Liège, 1910. 8°. BoccarpI G. — Sulla latitudine di Torino. (Estr. dall’ « Annuario Astronomico pel 1911 »). Torino, 1911. 8°. CaBrEIRA A. — Algumas palavras sobre o planeta Marte. Lisboa, 1901, 8°. CasrEIRA A. — Demonstragào mathema- tica do seguro Portugal previdente. Lisboa, 1907. 8°. CaBREIRA A. — Descoberta e primeiras propriedades geometricas de uma espi- ral binomia do primeiro grau. (Extr. do « Jornal de scien. mathem. phys. e natur.», ser. 2°, t. V). Lisboa, 1897. 8°. CasrEeIRA A. — Methodos novos para de- terminar o lado e a area de qualquer polygono regular. (Extr. do Jornal de scien. mathem. phys. e natur. ». s. 2°, t. V). Lisboa, 1898. 8°. CaBrEIRA A. — Note sur les rapports des solides. (Separ. do « Instituto »). Coim- bra, 1905. 8°. CasreIRA A. — Note sur les rapports po- lygonaux. (Sonderab. aus dem « Jahres- bericht der deuts. Mathem.-Verein- igung », Bd. XIII). Leipzig, 1904, 8°. CasrEIRA A. — Sobre algumas applica- g6es do theorema de Tinseau. (Estr. do «Jornal de scien. mathem. phys. e natur. », S. 22, t. V). Lisboa, 1897, 8°. Casrerra A. — Sobre as psopriedades po- lares dos pontos (Extr. do « Jornal de scien. mathem., phys. e nat. », S. 22, t. VI). Lisboa, 1900, 8°. CasreIRA A. — Sobre a consideragaào da irradiagào no problema dos seguros de vida. (Separ. de « Trabalhos da Acad. de science. de Portugal », t I). Lisboa, 1808. 89. Casrerra A. — Sobre a theoria dos loga- rithmos de ordem N. (Extr. do « Jor- nal de sciencias mathem., phys. e nat. », S. 22, t. V). Lisboa, 1898. 8°. Caprrira A. — Sobre o calculo das pha- ses de uma funcgào simples. (Extr. do « Jornal de scien. mathem., phys. e nat. », S. 28, t. VI). Lisboa, 1900. 8°. Casreira A. — Sobre o calculo das re- servas mathematicas. Lisboa, 1907, 8°. CapreIra A. — Sobre os polyedros regu- lares convexos. (Extr. do « Jornal de scien. mathem., phys. e nat. ». S. 2°, t. VI). Lisboa, 1902. 8°. Caprera A. — Sur l’aire des polygones. Lisbonne, 1897. 8°, CagrerRA A. — Sur la géométrie des cour- bestrascendantes; mémoires originaux. Lisbonne, 1896. 8°. CasretrA A. — Sur le probléme relatif a la résolution d’un triangle dont on con- nait deux cotés et l’angle opposé a l’un d'eux (Extr. du « Bulletin des sc. mathém. et phys. élémentaires ». An. 1906). Paris, 1906. 8°. CasreIrA A. — Sur les corps polygonaux. Coîmbre, 1907. 8°, CaBrEIRA A. — Sur les polynòmes dérivés. Lisbonne, 1906. 89, CaprEIRA A. — Sur les propriétés de deux cercles égaux et tangents. (Separ. do « Instituto »). Coîmbre, 1906. 8°. CaBrEIRA A. — Sur les propriétés des nombres en diagonale. (Extr. des « Tra- — 700 — balhos da Acad. de sciences de Portu- gal ». Ser. I, t. II). Lisbonne, 19190. 8°. CasreIRA A. — Um theorema sobre a area dos polygonos regulares. Lisboa, 1901. 82. CeLorIA G. — Sull’eclisse totale di luna del 16 novembre 1910. (Estr. dai « Rend. del R. Ist. Lomb. di sc. e lett. ». S. II, vol. 48). Milano, 1910. 8°, Corson A. — Contribution a l’histoire de la Chimie a propos du livre de M. La- denburg sur l’'histoire du développe- ment de la Chimie depuis Lavoisier. Paris, 1910. 8°. DonpER (de) TH. — Sur l’équations cano- niques de Hamilton-Volterra. (Extr. des « Mémoires de la CI. des sciences de l’Académie roy. de Belgique ». S. 2°, t. III). Paris, 1911. 4°, GaBBA L. e Vota L. — Osservazioni della cometa 1910, e della cometa di Halley fatte al R. Osservat. astron. di Brera. (Estr. dai « Rendiconti del R. Ist. Lomb. di sc. e lett. ». S. II, vol. 43). Milano, 1910. 8°. GABRIELLI R. — Ignazio Cantalamessa 1856-1896. (Estr. dalla « Rivista Mar- chigiana », an. VI). Roma, 1910. 8°. HeLMERT F. B. — Ueber die Genauigkeit der Dimensionen des Hayfordschen Er- dellipsoids. (Sonderabd. aus dem « Sit- zungsberichte der Konigl. preuss. Aka- demie der Wissenschaften.» 1911, II). Berlin, 1910. 8°. Kunglica vetenscaps Societetens i Upsala Tvahundrairsminne. Upsala, 1910. 8°. Mascart J. — Une vague de charleur. (Estr. de « Ciel et Terre »; bull. de la Soc. belge d'Astron., n. 12). Bruxel- les, 1910. 8°. MartIOLo O. — Chenopodium Amaran- Seduta del R. AccapeMIA DEI Lincei. Prof. Vincenzo Reina. — Media pars Urbis. Rilievo planimetrico ed altimetrico eseguito dagli allievi della Scuola di Applica- zione per gli Ingegneri in Roma, colla ticolor Cost. et Reyn. Nuovo succe- daneo dello spinacio. Risultati delle prove fatte nell’anno 1910. (Estr. dagli « Annali della R. Accad. di Agricol- tura di Torino », vol. LIV) Torino, 1911825 MarTIoLo O. — Il Colus hirudinosus Ca- val. et Sich. nella flora di Sardegna. (Estr. dagli « Ann. di Botanica» del prof. E. Pirotta, vol. VITI). Roma, 1910. Sù MartIRoLo 0. — I vegetali nell’arte degli antichi e dei primitivi. Discorso letto per l'inaugurazione dell’anno accade- mico 1910-1911. Torino, 1911. 8°, MieLioraro E. — Note botaniche di vario argomento. Roma, 1910. 8°. MoRrtENSEN Th. — Report on the Echino- derms collected by the Danmark-expe- dition at North-East Greenland. (Dan- mark-Expeditionen til Gronlands Nord- ostyst. 1906-1808. Bind V, 4). Onoranze al conte comm. prof. Napoleone Passerini, senatore del Regno (25° an- niversario della fondaz. dell’Istituto Agrario di Scandricci). Pistoia, 1910. So) Risaga C. — Nuovi Copeognati sud-afri- cani. (Estr. .dal « Redia», vol. VII). Firenze, 1911. 8°. Terxrrra F. G. — Obras sobre Mathema- tica, vol. V. Coimbra, 1904. 4°. Tosone D. -- La quadratura del circolo con la riga ed il compasso. Roma, 1911. 8°. Vorra e GaBBA L. — Osservazioni della Cometa 1910 a, e della Cometa di Halley, fatte al R. Osservatorio astro- nomico di Brera. (Estr. dai « Rendi- conti » del R. Istit. Lomb. di sc. e lett. S. II, vol. 43°). Milano, 1910. 8°. 2 aprile 1911. guida del prof. U. Barbieri e dell'ing. C. Cassinis Firenze, 1911, fol. gr. AntonIazzi A. — Il valore medio della parallasse solare risultante dalle os- servazioni dei passaggi del pianeta — 701 — « Eros » fatte all’equatoriale Dem- bowski (obb. 187mm) dell’Osservat. di Padova dal 23 ottobre 1900 al 13 feb- braio 1901. (Estr. da « Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», anno 1910-11). Venezia, 1911. 8°. ATI della Commissione d'inchiesta per le industrie bacologica e serica. Vol. I, III, IV. (Min. di Agric. Ind. e Comm. Ispettorato gen. dell’ Industria e del Commercio). Roma, 1910, 8°. Burra P. — Studî intorno al ciclo parteno- genetico dell’ Zeliotrips haemorrhoi- dalis, Bouché. (Estr. dal « Redia » vol. VII). Firenze, 1911. 8°. Carnoy H. — Sur les travaux mathéma- tiques de M. Ernest Lebon. Paris, 1910. 8°, CoLonnetTI G. — Le linee d'influenza della trave continua. (Estr. dagli « Atti della R. Accad. delle Scienze di To- rino », vol. XLVI). Torino, 1911. 8°, EreDIA F. -- La temperatura in Italia. (Estr. dagli « Annali dell’ Ufficio Cen- trale di Meteor. e Geod. », vol. XXXI). Roma, 1911. 4°. Guyor J. — Étude théorique et expéri- mentel snr la théorie de Nernst et les différences de potentiel au contact de deux électrolytes. Clermond-Ferrand, 1907. 8°. HENRIKSEN G. — Geological Notes. Chri- stiania, 1910. 8°. JANET CH. — Note sur la phylogénèse de l’insecte. Rennes, 1909, 8°. JaneT CH. — Sur la morphologie de l’in- secte. Limoges, 1909. 8°. JaneT CH. — Sur l’ontogénèse de l’in- secte. Limoges, 1909. 8°. KorRNER G. — La determinazione del Luogo Chimico nei composti così detti aromatici. Milano, 1910, 8°, LAcrorx A. — Les minéraux radioactifs de Madagascar. (Extr. des « Comptes rendus des séances de l’Acad. des Sciences », t. 152). Paris, 1911. 4°. LoRENZONI G. — Relazione sulla Nota del prof. A. Antoniazzi, intitolata: Il va- lore medio della parallasse solare ri- sultante dalle osservazioni di passaggi RenDpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. del pianeta « Eros » fatte all’ Equato- riale Dembowski dell’Osservatorio di Padova dal 23 ottobre 1900 al 13 feb- braio 1901. (Estr. dagli « Atti del R. Istit. di Veneto scienze, lett. ed arti », anno 1910-11). Venezia, 1910. 8°. MarreLLI G. — Brevi notizie sulla Sa- turnia Pavonia L. e su un suo pa- rassita. (Estr. dal « Bollett. del La- borat. di Zool. gen. e agr. in Por- tici », vol. V). Portici, 1911. 8°. MartELLI G. — Breve risposta ad alcune critiche ai mezzi di lotta contro le cavallette. S. 1. nè d., 8°. MartELLI G. — La nuova cocciniglia de- gli agrumi. S. 1. nè d. 8°. MarreLLI G. — Primo contributo alla biologia del Phytonomus variabilis Herbst. (Estr. dal « Bollett. del Lab. di Zoologia gen. e agraria in Portici », vol. V). Portici, 1911. 8°. Passerini N. — Sul lavoro di vanga. (Estr. dagli « Atti della R. Accad. dei Georgofili », ser. 52, vol. VII). Firenze, 1910. 8°. Reina V. — Media pars Urbis Rilievo planimetrico ed altimetrico. (Estr. dai Rend. R. Acc. dei Lincei. CI. di sc. fisiche, mat. e natur. », vol. XXIX). Roma, 1910. 8°. SarASIN E. e Tommasina T. — Action de faibles élévations de temperature sur la radioactivité induite. Paris, 1911. 4°, SARASIN E. e Tommasina T. —— Constata- tion de quelques faits nouveaux en ra» dioactivité induite. (Extr. des « Ar- chives des Sciences phys. et natur. », t. XXXI). Genève, 1911. 8°. SiLvesrRI F. — Description d’une espèce et d’une variété nouvelles d'insectes de l’ordre des Thysanoures (Oterole- pisma Kervilleiet Japix gigas Brauer var. syriacus) recueillies par M. Henri Gadeau de Kerville pendant son vo- yage zoologique en Syrie. (Extr. du « Bulletin de la Soc. des amis des Sciences natur. de Rouen », 1911). Rouen, 1911. 8°, SILvestRrI F. — Termitofili raccolti dal prof. K. Escherich a Ceylon. (Abd. aus 92 — 702 — der « Zoolog. Jahrbiichern » Bd. 30). Jena. 1911, 8°. SiLvesTtRI F. — Di una nuova specie di Aleurodes vivente sull’olivo. (Estr. dal « Bollett. del Laborat. di Zoologia generale e agraria della R. Scuola sup. d’Agricolt. in Portici », vol. V). Por- ICI OSO SiLvestRrI F. — Notizie preliminari suilo sviluppo del Copidosoma Buyssoni (Meyr) (Hymenoptera: Chalcididae). (Estr. dal « Monitore Zoologico ita- liano », anno XXI). Napoli, 1910. 89. Tommasina TH. e SArASIN Ep. — Action de faibles élévations de temperature sur la radioactivité induite. Paris, 1911. 4°. Tommasina TH. e SARASIN Ep. — Consta- tation de quelques faits nouveaux en radioactivité induite. (Extr. des « Ar- chives des Sciences phys. et natur. », t. XXXI). Genève, 1911. 8°. Seduta del 7 maggio 1911. BerLESE A. — Alcunai Acari entomofili nuovi. (Estr. dal « Redia », vol. VII). Firenze, 1911. 8°. Bonomini D. Grov. B. — Osservatorio di Memmo. (Estr. dai « Commentari del- l'Ateneo di Brescia », 1909-10). Bre- scia, 1910. 8°. CagrEIRA A. — Sur les propriétés des nombres en diagonale. (Extr. des « Tra- balhos da Academia de sciencias de Portugal », S. I, t. II). Lisbonne, 1910. Se CoLonnetTI G. — Sull’equilibrio elastico dei sistemi reticolari piani. (Estr. dagli « Atti della R. Accademia delle scienze di Torino », vol. XLVI). Torino, 1911. 8°. Duarte N. — Addenda ao Codigo mnemo- telegraphico com applicagio 4 meteo- rologia. Rio de Janeiro, 1911. 8°. DuartE N. — Codigo mnemo-telegraphico com applicacào a meteorologia. Rio de Janeiro, 1911. 8°, Grorpano D. — Trattato di chirurgia, ap. pendice seconda. Compendio di chi- rurgia operatoria italiana. Torino, 1911. Sa GrIrrini A. — Le specie del genere « Hyperbaenus » Brunner. Studio mo- nografico. Firenze, 1911. 8°. Izzo R. — Nuova astronomia. Scoperta del vero sistema planetario. Roma, 1911. 8°, LeBon E. — Sur le calcul avec une équa- tion indéterminée des caractéristi- ques entrant dans une Table des fac- teurs premiers des grands nombres. (Extr. du « Bulletin de la Société phi- lomatique de Paris » ser. X, t. II.) Paris, 1910. 89°. LeumER (Derrick-Norman). — Factor Ta- ble for the first ten millions containing the smallest factor of every number not divisible by 2, 3,5, or 7 between the limits o and 10.017.000. (Extr. du « Bulletin des science. mathem » ser. 22, t. XXXV). Paris, 19Y1. 8°. MeLIi R. — Escursioni geologiche ese- guite cogli allievi ingegneri della R. Scuola di Applicazione di Roma. Cenno di relazione. Roma, 1910, 8°, Meri R. — Sull’importazione di una col- lezione di marmi antichi, cioè, ritro- vati negli scavi di Roma, posseduta in Roma dal sig. Filippo Belli. Roma, 1910, fol. RAFFALLI A. — Surface exacte du Cercle. Bastie (Corse) Foglio. SiLvestri F. — Sulla posizione sistema- tica del genere Zermitaphis Wasm. (Hemiptera) con descrizione di due specie nuove. (Estr. dal « Bollettino del laboratorio di Zoologia generale e agraria di Portici» vol. V). Portici, 1911. 8°. TARAMELLI T. — Di un giacimento di li- — 703 — gnite in terreno cretaceo presso Oli- vetta a Nord di Ventimiglia. (Estr. dai « Rendiconti del R. Ist. Lombardo di sc. e lett. vol. XLIV). Milano, 1911. 8°. Tropore G. — Le glandule ceripare della femmina della Pulvinaria camelicola Sign. (Estr. dal « Redia », vol. VII). Firenze, 1911. 8°. Vivanti G. — Lezioni di analisi infinite- simale. Pavia, 1911. 8°. ib esenta e pubblicazioni giunte il no segnalando quelle inviate e, Silvestri e dal prof. £ O A on e IERI o ume del dott. D. Giordano e ne discorre. . . n» I MERO PANEL) » o è . e dà notizia . . . n» in (609 el prof. Giulio Vivanti © n s) RENDICONTI — Maggio 1911. | INBBMIGC'E Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 7 maggio 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Levi-Civita. Sulla espressione del resto in ‘una ‘operazione funzionale usata da Lord Ray- marea MOTEL elia so i Almansi. Sulle ii finite dei solidi Justici iano 1) aio IL) Lauricella. Sopra i nuclei reiterati (*). . +. +... + SR e n Ciamician e Ravenna. Ricerche sulla genesi degli alealoidi IL san e i Id. e Silber. Azioni chimiche della luce €)... . È LO SIE ORE RO ZL: Angeli. Relazioni fra alcuni derivati dell’ossigeno e dell i. SERGREA » 625 Briosi e Farneti. Riproduzione artificiale della Morìa dei castagni (Mal dell Di » 628 Boggio. Calcolo delle azioni dinamiche esercitate da correnti fluide sopra pareti rigide (pres. dal Socio ZLevi-Civita).. . . 2 ; En Burali-Forti. Sopra un nuovo i ‘dial per Ù ai qa (E Id.) n» 641 Colonnetti. Sull’efflusso dei liquidi fra pareti che presentano una interruzione (pres. /d.) . » 649 Evans. L'equazione integrale di Volterra di seconda specie con un limite dell’integrale infinito (pres. dal Corrisp. Lauricella). . . . . BI SNO e) I) Mineo. Sulle rappresentazioni isodromiche (pres. dal di Pensari) E i NSD Orlando. Sulle funzioni implicite (pres. dal Corrisp. Di Legge). . . . E DO Bruni e Meneghini. Formazione di soluzioni solide,metalliche per dif Dl Hat solido (pres. dal Socio Ciamician). +. . . +. AE en Ci Padoa e Santi. Sulla preparazione e la foleiapia di n osazoni 0 Lui ui Cia- mician) << . + + ; I ; ero Mameli e Pollacci. i dell sli a musferico Li nei n superiori (pres. dal Socio Briost). . . . . ; i Re Peglion. Intorno allo svernamento di scudi Hifi ifacoo (pres. i) 0) Cuboni). . . . » 687 Perotti. Sopra la microflora della campagna romana (pres. /d.). +. . . . n 690 Visco. Contributo alla biologia degli enzimi. Sulla azione delle lipasi (pres. dal Soda n) ©» 694 Danesi e Topi. Esperienze sulla disinfezione delle piante (pres. dal Socio Grassi) È). . n° > RELAZIONI DI COMMISSIONI Viola (relatore) e Strdver. Relazione sulla Memoria del dott. G. Ponte: Studii sull’eru- zione etnea del 1910. Parte prima . +. + - 00 De Stefani (relatore) e Bassani. Relazione sulla io del Lol di Martel Ouseraioni | geologiche sugli Acrocerauni e sui dintorni di Valona . . ./././. 6... n 3 Segue in terza pagina. (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Abbonamento postale. ere e a REALE ACCADEMIA DEI LINCHI eri A ia E; Pubblicazione bimensile. Roma 21 maggio 1911. N. 10. AT | DELLA ANNO. CCCMIIT. IS bal SRRAR.O DTA RENDICONTI i Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 2A maggio 191. Volume X.X.° — Fascicolo 10° 1° SEMESTRE: . (ELI 27 ansonian Inst La f ic i È RI 1 ns u ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINGEI PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI 1911 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Coi 2892 si è iniziata la Serse queta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei, Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le notme seguenti : 1.1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e riaturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi: formano un'annata. 2. Tie Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Tie Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la respousrbilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni. 75 estratti gratis ai Socr è vorrispondenti, e.50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell’Aeca- demia; tuttavia se i Soci, cha vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iseritto. II. I. Le Note che oltrepassino i limiti indî» cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro» priamente dette, sono senz'altro inserite neî Volumi accademici. se provengono da Soci 0 da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com missione la quale esamina illavoro e ne rife risce in una prossima tornata della Classe. 2, La relazione conelude con una delle se- guenti risoluzioni. - 2) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. — 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti ‘0 ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: ziamento all’ autore. - 4) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall art. pre. cedente, la relazione è letta in seduta pubblica. nell ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte. che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 sè estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mersa a carico degli autori. ui iaia rita DE inn RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. ANANNNIA—---- Seduta del 21 maggio 1911. F. D' Ovipio Vicepresidente. MiMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Meccanica. — Sulle deformazioni finite dei solidi elastici sotropi. Nota I del Corrisp. E. ALMANSI. 1. Nella ordinaria teoria dell’elasticità si ritiene che le tensioni unitarie siano funzioni lineari omogenee delle sei quantità (> e CE e TTD de dyY CAGIOONO) dove «,v,w denotano le componenti dello spostamento. Ora è noto che queste relazioni fra le tensioni unitarie e le quantità @xx,...,0y:; +, Appli- cate allo studio dei più semplici casi di sollecitazione di un solido elastico (per es. alla trazione o compressione di un cilindro) conducono a resultati (proporzionalità fra tensione e allungamento) che per molti corpi, in parti- colare per alcuni metalli, come la ghisa e il rame, non sono affatto in ac- cordo coi risultati dell'esperienza. È quindi naturale che si cerchi di costruire una nuova teoria, o, se si vuole, di modificare l'antica, in maniera che, in quei casi particolari i quali meglio si prestano ad una verifica sperimentale, i risultati a cui condurrà la teoria così modificata concordino con quanto risulta dall’osservazione diretta. La teoria ordinaria si limita a considerare quelle deformazioni di un solido elastico a cui corrispondono, in tutto il solido, valori così piccoli delle derivate prime di %,v,, rispetto ad x,y ,z, che le derivate stesse si possano, in un certo senso, ritenere infinitesime. Per ristabilire l'accordo RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 93 — 706 — fra le deduzioni teoriche e i risultati sperimentali è necessario (e, presumi- bilmente, sufficiente) rinunziare a questa ipotesi restrittiva: si dovranno dunque studiare non più le deformazioni énfinitesime, ma le deformazioni finite dei solidi elastici. Qui è opportuna una osservazione. Le relazioni a cui accenno sopra fra l'efsenlliquantità lag .0 Ayz +, che chiamerò 9g, e le tensioni interne, de- rivano dall'ammettere che il potenziale unitario di elasticità sia una funzione (definita positiva) sviluppabile in serie di potenze, delle quantità 9; e che nello sviluppo si possano trascurare i termini di grado superiore al 2° (quelli di 1° sono identicamente nulli). Ora è da notarsi che se le formule così ottenute risultano, per un determinato corpo, in disaccordo coll’esperienza, e ci si propone di stabilirne altre più esatte, il procedimento che talvolta si segue, e che consiste nel tener conto, nello sviluppo in serie del potenziale, conside- rato ancora come funzione delle quantità q, di termini di grado superiore al 2°, non è logicamente giustificato, nè da esso è da attendersi una più esatta corrispondenza fra la teoria e il fenomeno reale. Infatti l'ammettere che il potenziale di elasticità sia una funzione delle quantità g, il consi- derare cioè queste quantità g come caratteristiche della deformazione, pre- suppone già che le derivate prime di %,v,%w rispetto ad x,y, siano da ritenersi infinitesime. Le g rappresentano, insomma, i termini di primo grado, nelle espressioni delle vere caratteristiche (v. il paragr. seg.). I termini di grado superiore, nella teoria ordinaria, vengono trascurati. Ed allora, seguendo lo stesso criterio, anche nelle espressioni delle tensioni interne si dovranno conservare i soli termini di primo grado, e nel potenziale solo quelli di secondo. La teoria delle deformazioni finite dei sistemi continui ad una, due, e tre dimensioni, è stata svolta, trattando la questione da un punto di vista molto generale, da E. ed F. Cosserat (1). Ma volendo limitarsi — ciò che appunto io mi propongo in queste Note — alla considerazione dei solidi isotropi, ed arrivare a formule che mettano bene in vista la dipendenza delle ten- sioni dagli elementi che definiscono la deformazione, conviene riprendere l'argomento dal principio, e seguire un procedimento alquanto diverso. 2. Ricordo alcune formule e proprietà relative alle deformazioni dei sistemi continui a tre dimensioni. Un tale sistema X subisca una deformazione finita, passando dalla con- figurazione C alla configurazione C. Siano P, e Pi punti dello spazio occu- pati, nelle due configurazioni, da un punto 72 del sistema; xo e Nd, dI x ,Y,8 le loro coordinate rispetto ad una terna di assi ortogonali. Consideriamo, nella configurazione C,, una linea s, passante per Po, ed un suo elemento ds,, attiguo a Po. Sia s la linea deformata, ds l'ele- (1) Zhéorie des corps déformables. A. Hermann et fils, Paris, 1909. — 707 — mento corrispondente a dso. Se deo, dyo deo, e da, dY, dz sono le proie- zioni dei due elementi, si avrà (a meno d' inf. d'ord. sup.) dXL0 2 ZIEMeCC. (0): DE (0) dX0 dX0 dro i FRA der + — di dI Tr dY ‘0 Assegnato alla linea So; € quindi alla s, un verso positivo, diciamo @0,f0,Y0» ed a,8,y i coseni direttori di ds, e ds. Avremo, dividendo per dsc: d3 (11. da DIA ILo\ Ne a — |, ecc. ; 2 ( an . ds i al: ZAUIIE Poniamo = 1-+a, denotiamo cioè con 4 l’alluagamento unitario sU- 200) bito dalla linea s, nel punto Po; 0 inoltre u="% — Zoe 3 V==Y — Yo» ; ; dI du dI dU w==2— 20, d'onde si deduce POR e ecc. \Olter- da Id dY y remo la prima delle equazioni seguenti, a cui le altre due sono analoghe: du du dU m=(1+ (ee zo OR Sc Si), dv dv dVU 0) = + (Ae rt). dw dw dw n=0+a(—< dx i gut sl Consideriamo un’altra linea so, passante pure per P,; e la sua defor- mata s°. Avremo le equazioni, perfettamente analoghe alle precedenti, r » dU du QU 2 =(1+ 1 gg —y =), ec, (2) Lia 0) (« da P WY r 1) in cui è evidente il significato dei nuovi simboli. Moltiplichiamo membro a membro le equazioni (1) e (2), e poniamo: a000 + BoBo + YoYo== 608 Wo » ad +8 | yy =605%, intendendo che w, e w denotino gli angoli minori di 7 (od eguali) formati dalle tangenti alle linee. Otterremo l'equazione: (3) cosw=(14+4)(1+ 0’) (cos w — 2erw), (1) È utile, in questa trattazione, assumere come variabili indipendenti le coordi- nate finali 2,Y,. — 708 — ove (4) En = @@'Evg + 8B'8yy + ALE + + (PY +-PN ew t (10 + y@) e. 4 (aP + 8) €, essendo li 1/9 D) 1/09 du |, vw Www) Go a i ag ay DAS Con 7 ed 7" abbiamo denotate le due direzioni (aBy) ed (a'8'y). Le sei | quantità «2%, .. €). rappresentano i valori che assume & quando le direzioni 7,7" sono quelle di due assi coordinati (o di un medesimo asse). 8. Se le direzioni (ay) ed (a/8Y/), quindi ancora le (@0Boyo) ed (068076) coincidono, denoteremo anche semplicemente con e il valore di Er. Sarà, per la formula (4), (5) sitoe05 + B° Em + V°Ex + 2PYEy: + 270829 + 20BExy 3 e per la (3), ove dovremo fare cosy = cosw=1,4 =: (6) 1=(1+a?(1-2%, da cui 28 2+ a "ME Dunque, per ogni punto P, e per ogni direzione (a8y) (nel solido deformato) la quantità e è una funzione dell’allungamento unitario @ relativo a quel punto e a quella direzione. Se @ è uguale a zero, anche £ è uguale a zero; se a ha un valore piccolissimo, il rapporto S differisce pochissimo da 1. 2009. inferiore degli allungamenti unitarii) e tende verso — co. I valori di e relativi alle direzioni degli assi sono Cr n Eppago Le due direzioni (@8y) ed (a'8°y') siano invece ortogonali: denoteremo allora anche con # la quantità 2s,w. Dalla formula (3), in cui dovremo fare cosyw=0, avremo: Ma col crescere di a, e tende verso 2; col tendere di a a —1 (limite COS Wo E AL) IT . dA . e ponendo g=W—-W=Y — 3 chiamando cioè g lo scorrimento rela- u = tivo alle due direzioni : sen g “= Tata: — 709 — Quando 9 è uguale a zero, anche w è uguale a zero; © inversamente. L'an- nullarsi di w significa dunque che le duo direzioni erano ortogonali anche prima della deformazione. Se a,a' e g sono piccolissimi, o differisce po- chissimo da 1. I valori di w relativi alle coppie di direzioni degli assi coordinati sono 2ey: > 2830 > QE ay - Per non introdurre nuove denominazioni, chiamerò allungamenti e scor- rimenti anche le quantità e e m. 4. La formula (5) permette di fare sugli allungamenti « e sugli scor- rimenti w, in un punto P_ del sistema deformato, considerazioni perfetta- mente analoghe a quelle che si fanno, nella teoria delle deformazioni infi- nitesime, sugli allungamenti 4 e sugli scorrimenti 9 - Si avranno, per ogni punto P, tre direzioni ortogonali 71,72, 73 (dire- zioni principali) a cui corrispondono scorrimenti w (e quindi g) nulli: ossia tre direzioni che erano ortogonali anche prima della deformazione. Chiamando 8,2, 83 gli allungamenti e relativi a queste tre direzioni (allungamenti € principali), per due direzioni qualunque 7,7%, i cui coseni, rispetto alle ri; M,73, SIANO @,, 0,03, ed 01,0), 0), si avrà: (7) sy = 0018, + 030), + 03 0383 ; e se le due direzioni coincidono : (8) s= fe, + 058, + 0383. Qualunque funzione 7s00r0pa delle sei quantità &xx, -)8y:3- $Q1à una funzione dei tre invarianti fondamentali, lineare, quadratico e cubico, che denoteremo con È,n,É, e che espressi mediante gli allungamenti principali, sono dati dalle formule E= 8184-83, — 89834 83.81 + £182, 4) less" In un punto P le direzioni principali possono essere indeterminate; ma tutte le formule e proprietà, che ad esse sì riferiscono, sussistono ancora, purchè si chiamino direzioni principali tre direzioni ortogonali qualunque, a cui corrispondano scorrimenti nulli. 5. Farò ora un'osservazione che è essenziale nel procedimento qui seguito. Supponiamo che il sistema X si deformi con continuità nel tempo, partire dall’ istante T, in cui esso si trovi nella configurazione C. Seguiamo — 710 — un punto # del sistema nel suo movimento, e consideriamo, in ogni istante, le tre direzioni principali 772,73 relative ad m,ei corrispondenti allun- gamenti £,,€,,&3. Consideriamo ancora una linea del sistema (1) s, pas- sante per w, la sua tangente 7 in m, i coseni direttori , 30,03 di 7 rispetto ad 7,,7,73, e l'allungamento # relativo al punto m e alla dire- zione ”. Sussisterà, in ogni istante, l'equazione (8), da cui, derivando ri- spetto al tempo, avremo: Nell istante iniziale T la linea s sia tangente in #m alla direzione princi- pale 7: sia quindi @,=1,0,=%63 =0. Sarà in quell’ istante (ammesso che tutte le derivate rispetto al tempo abbiano un valore finito): de —È do n Ma anche l’ultimo termine dell'equazione è nullo. Diciamo infatti , uno dei due angoli formati dalle direzioni 7, #, (per es. quello che al tempo T Q è nullo). Sarà © = cos 9, , po, = — sen 2, Pei e al tempo T: DI dI ION nQ,= 0 E sen 2, da Per conseguenza: (9) DE DEI dl PI; la qual formula sussiste dunque, insieme alla «= #,, nell'istante T, sebbene negl istanti successivi la tangente r alla linea s nel punto m, non coinci- derà, in generale, colla direzione principale 7), ed e sarà perciò diverso dale, Un'uguaglianza analoga alla precedente vale per gli allungamenti 4 ed a, relativi alle stesse direzioni 7, 7. Infatti, poichè « è funzione di « (S 2) ed a, di e), sarà: (10) da MAMET), da, dei ai i Le Ma dall'equazione (6) abbiamo i da i , e analogamente ii! — 28) ? (2). 1 (*) Per linea del sistema intendo una linea la quale, nelle diverse configurazioni che il sistema assume, sia sempre costituita dalle stesse particelle materiali. (®) È sempre 1— 2e> 0 , 1— 2e1>0 (vedi $ 3). — N11 — Onde al tempo T in cui #= «1 Sarà ca = DO e per le formole (9) e (10), 1 da _ da di di LI CORE CAgLA dA Introducendo i differenziali da = Di di , da, = avremo pure: ce da= da; la qual formula ci dice che se ad un sistema X, il quale si trovi nella configurazione C, noi diamo una deformazione infinitesima, l'incremento che subisce, in un punto m del sistema, un allungamento principale 41, è uguale (a meno d’inf. d'ord. sup.) all’ incremento che subisce in quel punto l’allun- gamento a di una linea s tangente, nella configurazione C, alla direzione principale a ui si riferisce a, . Se diciamo ds un elemento della linea, s attiguo al punto m, dso lo ds stesso elemento nella configurazione Co, Sarà © et 1, quindi AS od anche, chiamando d, l'allungamento untaro da che subisce, nella deformazione infinitesima, la linea s nel punto m: doi +a)d- Formule analoghe varranno per gli altri due allungamenti principali. 6. Noi conserveremo le ipotesi, ordinariamente adottate, che si riferi- scono al potenziale di elasticità. Supporremo dunque che ad ogni configura- zione C del solido elastico che si considera, corrisponda un determinato valore di una funzione W, le cui variazioni siano uguali al lavoro eseguito dalle forze elastiche nel passaggio del sistema da una ad altra configura- zione. Ammetteremo poi che esista una, ed una sola configurazione Co (stato naturale del solido) a cui corrisponda il massimo valore di W, che potremo assumere uguale a zero. Per ogni altra configurazione C il valore W, vale a dire il lavoro eseguito dalle forze elastiche nel passaggio dallo stato na- — 712 — turale, alla configurazione C, sarà allora negativo. Supporremo infine che la funzione W sia espressa dalla formula w=- (ves, ove S denota lo spazio occupato dal solido nella configurazione C a cui W sì riferisce, e V una funzione isotropa delle sei (RE INIE Erano noe nulla nella configurazione Co, Ossia per ex, = = &,=-=0, positiva in ogni altra. Per un teorema richiamato nel $ 4, V sarà una funzione dei tre inva- rianti fondamentali &,,é, quindi degli allungamenti principali e, «,, as od anche degli a, 142343; @ sarà una funzione il cui valore non varia per- mutando le tre variabili 41, 4:, 4, (0d' #1, €3). Diciamo 0 la dilatazione cubica, che è legata agli allungamenti prin- cipali dalla formula (11) 146=(1+@)1+2)1+%), e poniamo @= (1-+ 6) V. Come la V, così la g sarà una funzione dei tre allungamenti principali che non varia permutando le variabili. Ed avremo, poichè dS= (14 60) dS: W=- (ga. 7. Il sistema si trovi nella configurazione C. Diamo ad esso una de- formazione infinitesima, e calcoliamo il lavoro dW che eseguiscono le forze elastiche. Sarà: dP Id dp sw=— (25 2 dar 4-2 94, )dS,, i i pw PSA 1) 3 ovvero: 1 dP dP dY p Lit. GE a ET so e i, a pe Ricordando le cose dette nel $ © potremo porre: da =(14+ a)d, , da =(14 a) d» , das =(14 43) d,, ove d,,d,,d; denotano gli allungamenti unitarii che, per la def. inf. data al sistema, subiscono, nel punto m dell'elemento dS, tre linee del sistema tangenti, nella configurazione C, alle tre direzioni principali. Quindi, po- nendo ancora — 713 — avremo : (13) dW=— fe d, + 120, + 1303) dS . Consideriamo i tre allungamenti e i tre scorrimenti dovuti pure alla def. inf., e relativi rispettivamente alle direzioni, e alle coppie di direzioni, parallele agli assi; ossia le quantità (analoghe Alle Ga peo Veg peo I si trascurino i termini di 2° grado) dx 3d0y , dd: NR N du ove dx, dy,d: denotano le componenti dello spostamento di un punto del sistema. Osserviamo che trattandosi di una deformazione infinitesima non ha luogo la distinzione (tra elementi 4 ed e, 9g ® w) fatta nel caso delle deformazioni finite. Se &1,f1,Y1 > &2, Pa, 72) %P3,73 sono i coseni delle tre direzioni principali (a cui sarà assegnato un verso positivo) rispetto agli assi coordi- nati, avremo, con formule analoghe alla (5) d0y ig Da ce +(25 sl SI n, Quindi, sostituendo nella (13) e ordinando: i (| 3a ELE +E) (48, 96 dY , ) avendo posto: (15) | s=ait + arr + 003); ( t=f NT + Boyot> + #3Y3%3 eee Introdotte, per la simmetria delle formule, le quantità <.), Tx: Ty uguali rispettivamente alle €y:, Tx, Toy. ben note considerazioni riguardanti la formula (14) (trasformata mediante il lemma di Green) permettono di attribuire un significato meccanico alle €,x,Txy, @0C.; e precisamente di considerare le ©xx, Try; Tx: come le componenti, secondo gli assi coordinati, della tensione unitaria che nella configurazione C, agisce sulla faccia posi tiva dell'elemento normale all’asse delle 2; e analogamente le altre. Se in particolare supponiamo che gli assi delle x, delle y, delle s vengano a coincidere colle direzioni principali r,,72,73 relative ad un punto #2, avremo in quel punto, per le formule (15), cea =, tay=0, t,-=0, ecc. Dal che risulta che sugli elementi normali alle direzioni prin- cipali agiscono tensioni normali agli elementi stessi, i cui valori son dati dalle formule (12). RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 94 — 714 — Tenendo conto della relazione (11) queste formule possiamo scriverle: Me AO ' (14 a) (14 43) da.’ gn: Se) i -- ) a 1 BAI i 0) (1+a,) (14 d2) da: i Si hanno dunque, almeno per i solidi isotropi, e per le tensioni prin- cipali, espressioni notevolmente semplici; le quali, per quanto è a mia co- noscenza, non furono prima d'ora considerate. Chimica. — Azioni chimiche della luce. Nota XVIII del Socio G. CIAMICIAN e di P. SILBER. Nella nostra XV Nota (') abbiamo trattato di alcune esperienze relative all'azione reciproca che si compie fra l’acetone e gli alcooli metilico ed eti- lico; la presente serve di complemento alle osservazioni allora descritte. Acetone ed alcool metilico. — Queste due sostanze, per azione della luce, dànno segnatamente un prodotto di addizione, il g/icole isobutilenico di Nevolè CH; | C.0H—CH;.0H, CH; ma accanto a questo si formano altri composti, che l’anno scorso avevamo trascurato. Per renderci conto dell'intero andamento della reazione abbiamo ripetuto l’esperienza, utilizzando anche i residui di quelle precedenti. L'esposizione del miscuglio fatto nel rapporto di una parte di acetone per due di alcool metilico (400 c.c.), durò un anno all’incirca: dal 9 feb- braio 1910 al 20 marzo 1911. Il liquido senza colore, debolmente acido, venne distillato a b. m. La parte volatile subì poi un ulteriore fraziona- mento, per cui si potè ottenere una porzione che passava intorno ai 70°. Questa fu trasformata in ioduro e si ebbe un prodotto da cui riuscimmo a separare l'ioduro di isopropile, dal punto di ebollizione 88-89°. Però, oltre che combinarsi all'alcool metilico, l’acetone aveva subìto la riduzione ad (') Questi Rendiconti, 19, I, pag. 364 (1910). — 715 — alcool isopropilico. Erano dunque da ricercarsi anche le sorti dell’alcool metilico. Il residuo della distillazione a b. m. (25,6 gr.) ha un lieve odore di aldeide formica: esso venne saturato con carbonato potassico ed il liquido separa- tosi, estratto con un miscuglio di alcool ed etere. Eliminato il solvente e distillato il resto frazionatamente, prima a pressione ridotta e poi a quella ordinaria, abbiamo potuto separare dal g/icole isobutilenico, che passò @ 177-180°, formando la parte maggiore del prodotto, una frazione superiore bollente fra i 185° e 200°. In questa frazione era contenuto il glicole elz- lenico ordinario, che ha il punto di ebollizione a 197° ('). Noi lo abbiamo riconosciuto per mezzo del suo diberzoalo che fonde a 73°. L'identità venne confermata oltre che dall'analisi, dal punto di fusione dei due campioni me- scolati, che rimase a 73°. La formazione del glicole etilenico, può, secondo il nostro avviso, essere interpretata nel senso che l’aldeide formica, prodottasi nella riduzione del- l’acetone, si condensa coll’eccesso dell'alcool metilico ancora presente : I. CH} CO— CH, + CH;.0H = CH; — CH.OH — CH; + CH:0 acetone aleool metilico alcool isopropilico aldeide formica JOE CERRORINE CCENT CH, AO =CH,-0H glicol etilenico Anche nella reazione fra l'alcool etilico e l’acetone abbiamo osservato un analogo fenomeno. Acetone ed alcool etiliec. — Con le nostre esperienze dell’anno scorso abbiamo potuto ottenere e riconoscere fra le sostanze presenti nel miscuglio formatosi per l’azione dell'alcool etilico sull'acetone il glicole trimetiletile- nico del Wurtz, che bolle a 177°: CHs | COH —CH.0H, | | CH; CHz ma già allora avevamo accennato alla necessità di ripetere lo studio della reazione per scoprirne l’intero andamento. Vogliamo subito aggiungere che in quella nostra Nota siamo incorsi in un errore di trascrizione che ora cor- regeremo. Alla luce venne esposta in fiaschi saldati alla lampada una soluzione di 1250 ce. di acetone in 2500 ce. d'alcool etilico, dal 22 aprile 1910 al 16 gennaio di quest'anno. Il prodotto venne anzitutto distillato a b. m. con (1) Bcilstein, 3* ediz., vol, I, pag. 260, — 716 — un apparecchio deflegmatore: incomincia a bollire a circa 60° ed il punto di ebollizione si innalza gradatamente fino a 80°. Le prime porzioni ave- vano un lieve colore giallo ed un odore pungente aldeidico; dopo avere cer- cato di concentrare questa sostanza con successivi frazionamenti nella parte più volatile, vi abbiamo fatto agire l’idrossilammina ed abbiamo ottenuto, in piccole quantità, un composto fusibile a 244° (a 286° in tubetto chiuso), identico alla diossima del dzacetile, di cui Fittig (') trovò il punto di fu- sione a 234,5. Anche questa volta, come nella reazione coll’alcool metilico, era da attendersi la presenza di alcool isopropilico; siccome il suo punto di ebol- lizione (84°) è poco diverso da quello dell'alcool ordinario, abbiamo trattato le ultime frazioni con iodio e fosforo e così ci è stato possibile di separare l'ioduro d’isopropile (p. eb. 899,5) da quello di etile (p. eb. 72°,3). La pre- senza dell'alcool dsopropilico fra i prodotti della reazione era però dimo- strata. Il residuo della distillazione, liberato in fine a pressione ridotta dagli alcooli, circa 100 gr., conteneva il glicole trimetiletilenico, da noi ottenuto l'anno scorso, ma assieme a questo evidentemente un altro corpo. Per ten- tare una separazione siamo ricorsi all'artificio di distillare il miscuglio a b. m. nel vuoto con aggiunta di acqua, che veniva di tanto in tanto rinno- vata, man mano che il liquido si andava concentrando. In questo modo otte- nemmo un distillato acquoso, in cui si era accumulata la parte più volatile. Spostando il prodotto mediante il carbonato potassico dalla soluzione acquosa, si ebbe un liquido oleoso, che venne frazionato a 13 mm. di pres- sione. Esso bolliva a 80-32°, a pressione ordinaria a 177°, ed era identico al glicole trimetiletilenico da noi ottenuto l’anno scorso (?). Il composto, così separato, non era però perfettamente puro, ma conteneva ancora del- l’altra sostanza, meno volatile, che era rimasta precipuamente nel residuo della distillazione e forse ancora qualche altra piccola impurezza, che non siamo riusciti a riconoscere. La sua natura risulta però in modo evidente dal fatto che questa porzione per riscaldamento con acido solforico dà ab- bondantemente il metilisopropilchetone, come venne dimostrato già l’anno scorso. La parte rimasta indietro nel frazionamento nel vuoto con l'acqua, liquido denso colorato in bruno, venne trattata anche essa con carbonato potassico e l'olio separatosi ripreso con etere e seccato. Frazionato a 13 mm. di pressione, passò per la maggior parte a 81-83°. L'analisi dimostrò che esso era meno ricco in carbonio dell'altro prodotto, ma evidentemente ancora (*) Liebigs, Annalen der Chemie, vol. 249, pag. 204. (3) Dalla nostra Nota, già citata, appare come se questo glicole fosse stato contenuto nella parte meno volatile del prodotto, invece l’analisi sì riferisce alla frazione che era passata col vapore acqueo. — 717 — a questo mescolato. Dall'esperienza fatta coll’alcool metilico appariva assai probabile che in esso fosse contenuto un glicole butilenico, C4H,00:, for- matosi per condensazione dell’aldeide acetica con alcool etilico. In questo caso, per la minore differenza nei punti di ebollizione dei due glicoli, la separazione per frazionamento era impossibile, e però abbiamo dovuto ricor- rere ad un artifizio. Vogliamo confessare che questo punto delle ricerche ci ha tenuti per molto tempo perplessi: in varie riprese siamo tornati su questo argomento, senza venirne a capo, ma infine le difficoltà furono superate felicemente. Supponendo che dei due glicoli presenti nel prodotto in esame quello trimetiletilenico subisca la trasformazione pinacolinica (in metilisopropilche- tone) più facilmente dell'altro, abbiamo scaldato entrambe le frazioni, quella più e quella meno volatile, con acido solforico al 10°/ in tubo a 130°. Il contenuto del tubo che si separa in due strati, venne distillato fino ad eli- minazione della parte oleosa, di cui diremo più avanti. Il residuo saturato esattamente con barite, dà per spostamento con carbonato potassico un nuovo liquido oleoso, più denso, solubile nell'acqua, che venne estratto con otere e seccato. Sottoposto ad accurato frazionamento a 11 mm. di pressione, bolle in massima parte a 33°; alla pressione ordinaria bolle a 180-134°. Di questo prodotto sì ebbero da 20 gr. della frazione più volatile: 4,4 gr. (accanto a 11,7 del metilisopropilchetone greggio) e da 19,2 gr. della frazione residua: 9,2 gr. (assieme a 8 gr. di metilisopropilchetone greggio). La pre- senza di un composto meno volatile del glicole trimetiletilenico (p. eb. 177°) era così dimostrata; le analisi peraltro, sebbene dessero numeri che accenna- vano alla formola di un glicole butilenico, C4 H,,0,, non erano sufficiente- mente esatte e però il prodotto non ancora sufficientemente puro. Per accer- tarne la composizione e la costituzione ne abbiamo fatto i derivati benzoi- lici e quelli feniluretanici coll’ isocianato di fenile e lo abbiamo sottoposto ad ossidazione con acqua di bromo alla luce, seguendo una indicazione del Pechmann (!). Vogliamo dire subito che già dal punto di ebollizione appa- riva assai probabile, che nel nostro prodotto fosse contenuto il glicole dime- tiletilenico, perchè dei due composti, che avrebbero potuto prendere origine dall’aldeide acetica e dall'alcool etilico: CH; CH.OH—CH.0H—CH; e CH;—CH.OH—CH,—CH,.0H, glicole dimetiletilenico glicole -butilenico il primo bolle, come il nostro, a 183-184° ed il secondo a 203-204° (?). Ora, ossidando come fece il Pechmann per il glicole metiletil-etilenico, una parte del glicole bollente a 180-184° con acqua di bromo alla luce, si ebbe un (1) Berichte, vol. 23, pag. 2427 (1890). (*) Beilstein, 3° ediz., vol. I, pag. 262. — 7183 — composto volatile, giallo, dall'odore pungente, che, trattato con idrossilam- mina, dette la diossima del dzacetile, dal punto di fusione 240°. In questo modo era provata anche la presenza del glicole dimetiletilenico fra i pro- dotti dell'insolazione del miscuglio di acetone ed alcool etilico. Trattando la stessa frazione 180-184° con isocianato di fenile a b. m. e cristallizzando il prodotto dal benzolo in modo sistematico, abbiamo otte- nuto due composti della stessa formola, l’uno, il meno solubile, fondente a 201-202° e l'altro a 175°, in quantità pressochè uguali. Però, dato il punto di ebollizione del nostro prodotto, che passò, come si disse, fra 180° e 184°, apparisce poco probabile la presenza di entrambi i due suaccennati glicoli butilenici ed è piuttosto da ritenere che i due feniluretani siano gli ste- reoisomeri racemico ed inattivo del glicol dimetiletilenico, che contiene due atomi di carbonio asimmetrici : CH3 — CH (CO, NHC;H;) — CH (CO. NH C;H;) — CH; . Anche con l'anidride benzoica ed il benzoato sodico si ebbero dalla fra- zione bollente a 180-184° due prodotti: uno solido che si separa dall’etere petrolico in grossi cristalli dal punto di fusione 77° ed uno liquido. La composizione del primo corrisponde alla formula: C,g Hg 0, CH; — CH (0. COC;H;) — CH (0, COC;H;) — CH,. Ksso venne determinato cristallograficamente dal prof. Giovanni Boeris, che ci communica quanto segue: sistema cristallino monoclino, a:b:c=0,4170:1:0,3337;8=69°6". Forme osservate: {110} {111} {001} {010}. angoli limiti medie calcolato n (111) : (001) 48 25-48 48 4835 + 6 (001) s (110) 70 19-70 58 7035 * 10 (110): (110) 492 31-42 37 42 34 - 4 (Î11): (010) E 7328 73213" 1 La parte liquida da cui venne separato il composto ora descritto, venne ripetutamente frazionato alla pressione di 16 mm. e si raccolse la parte principale, che bolliva a 217-218°. L'analisi peraltro non dette buoni risultati. Il liquido, a cui venne più sopra accennato, che si ebbe a canto al glicole butilenico nel trattamento del miscuglio di questo e di quello tri- — 719 — metiletilenico con acido solforico diluito, avrebbe dovuto essere costituito integralmente dal metilisopropilchetone formatosi secondo il noto schema: CH; CH; Î | COH — CHOH = H;0 + CH—C0—CH:. | | Infatti una prova eseguita col glicole preparato secondo Wagner, scal- dandolo con acido solforico al 10°/ a 130° in tubo, dette 2tegralmente il suddetto chetone. Con nostra meraviglia, invece, il prodotto in esame non aveva un punto di ebollizione costante. La parte più volatile passava segna- tamente a 93-95° (il metilisopropilchetone bolle a 93°,5 o 95°) (*), ma vi era altresì una proporzione meno volatile, che distillava a 147-150°. Per separare il composto che accompagnava il chetone, abbiamo trattato entrambe le frazioni con semicarbazide. La prima si combinò quasi integralmente, la seconda invece rimase quasi del tutto oleosa e si potè senza difficoltà sepa- rare l'olio per distillazione con vapore acqueo. La parte combinata era co- stituita dal semicarbazone del metilisopropilchetone, che fonde a 112° (?). Dal distillato venne separato l'olio con carbonato potassico; sottoposto a distillazione, passò completamente a 149°. L'analisi condusse alla formola C,H,g0,. Esso non contiene nessun gruppo etossilico ed è stabile al permanganato. Non ci sembra improbabile che possa essere riguardato quale un ossido misto dei due glicoli presenti : C:H,30;

0 , O,= Di. + kaî + Ama + kla > De > 0; dunque si può applicare il criterio d’'induzione, per essere certi che dal segno positivo dei D, relativi al polinomio /(x) si deduce il segno positivo dei corrispondenti ©, relativi al polinomio y(a)=f(@)(C+-)(e+7)= = /(x)(x° 4 kx +1). Ma tutto ciò risulta subordinato alla validità della — 744 — (6) e della (7): fino a quale v possono ritenersi valide tali formule? Se consideriamo anche questi due determinanti: MR, °° SRO 0 as CM 0 0 D,= 00 On-r In-2 OT 0 0 An Qi do B.. «0 0 (0) 43 do MO 0 a 0 0 ner Un=a Un=3 0 0 e 0 Un Ani sn vali 00 — SITO rr 1 e procediamo anche su questi per ottenere le due formule (3), (4); allora la validità delle dette formule potrà estendersi fino a v=n — 1. Con ciò giungeremo a considerare anche ©,. Ma il polinomio y(%), che è di grado n+2 ha anche il ®,.,, analogo al D,- del polinomio / (E È appunto quest’analogia ciò che ci dispensa da una ulteriore estensione (possibilissima) della validità delle formule (3), (4); infatti, per ®,+, vale una formula analoga alla (5), e si vede subito che, supposte positive le parti reali di tutte le r, il On risulta senz'altro positivo. Resta in tale modo stabilito che, se l'equazione ha soltanto negative le parti reali delle radici, allora la catena dei primi minori principali del relativo determinante è costituita di elementi positivi. Vogliamo far ancora vedere che, viceversa, se i D sono tutti positivi, allora le parti reali delle radici saranno negative. Supponiamo, per assurdo, che i D siano positivi e che /(®) — 0 abbia qualche coppia di radici complesse con parte reale non negativa (è inutile parlare delle radici reali, perchè, avendo i coefficienti positivi, non può averne che negative). La formula (5), dove D,-1 si ammette positivo, accusa che non potrà /(2) = 0 ammettere una sola coppia di radici con parte reale non negativa, ma dovrà averne almeno un paio di coppie con parte reale positiva (non nulla perchè s'annullerebbe D,-,). Sia «+8, a —?8 una di queste due coppie. Consideriamo i due polinomî I [) cia ls vba oe i — 745 — legati evidentemente da una relazione del tipo v()= 92) (2 + e + 01). Ora, se noi formiamo i determinanti (analoghi ai D) relativi a (x), e poi, facendovi figurare i coefficienti do, 01,3 One del polinomio @(«), scri- viamo i © relativi a w(x), noi vediamo subito che i determinanti relativi a (x) coincidono coi @ di ugual indice; ciò avviene perchè nel fattore x'+ è,a° + os figurano sole potenze pari di x. Per esempio, i due de- terminanti O vd bi do 0 GA da di ba + Di bi ds + w, do di ds d4 ds db+ b3 + ws, di Ds + 0) da 4 03 do b3 + w) di sono evidentemente uguali. Ma i D sono tutti positivi; ed i ©, relativi al polinomio w(x) ottenuto moltiplicando /(x) per un trinomio x° + kx +2, del tipo dianzi considerato, debbono anch'essì risultare tutti positivi. Ma se noi ammettiamo il teorema di Hurwitz (evidentemente valido per i polinomî di secondo grado) fino al grado n — 1, noi vediamo che g(x) = 0 di grado più basso di 7, avendo ancora qualche coppia di radici con parte reale positiva, non potrà avere positivi tutti i suoi determinanti; ma questi coin- cidono coi primi n —3 fra i ©, dunque i ®© non potranno essere tutti positivi. Si cade dunque nell’assurdo negando il teorema di Hurwitz. Avi Nel precedente lavoro, io non considerava i rapporti ; senza tale v considerazione, era abusivo dedurre il segno positivo dei © da quello dei D. Il procedimento appoggiato sulle formule (6), (7) ripara, invece, questa omis- sione, che era da ripararsi. Matematica. — Sul calcolo del nucleo dell'equazione risol- vente per una data equazione integrale. Nota del dott. G. U. Evans, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. RenpiconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 98 — 746 — Fisica. — Rotazione in un campo d'un disco metallico per- corso da una corrente elettrica radiale. Nota di 0. M. CorBINO, presentata dal Socio BLASERNA. 1. In una serie di Note antecedenti (*) ho riferito sulle proprietà elet- tromagnetiche anormali d’un disco metallico percorso da una corrente elettrica o termica radiale e disposto in un campo. Per effetto della deviazione subìta dagli elettroni in movimento, questo si compie lungo una spirale anzichè lungo il raggio, e perciò il disco si comporta come una speciale lamina ma- gnetica, equivale cioè a un sistema di correnti circolari la cui intensità è inversamente proporzionale alla distanza del centro. Come effetto di questa equivalenza il disco acquista una energia nel campo, e quindi è sollecitato da una coppia qualora non sia ad esso normale. L'energia mutua e la coppia che ne è l’effetto hanno per caratteristica di dipendere dal quadrato dell’ in- tensità del campo, e perciò non cambiano di segno alla inversione di questo. Ciò è ben naturale se si riflette che il senso di circuitazione degli elettroni nel disco, e quindi la polarità della lamina magnetica equivalente, s' inverte anch'essa quando il campo cambia di senso. Si ha in ciò un ottimo criterio per sceverare nelle azioni ottenute la parte dovuta alle imperfezioni mecca- niche o fisiche dell'apparecchio. Così nell'esperienza del disco di bismuto riscaldato con un fascio di luce al centro o alla periferia, possono prodursi delle vere correnti termo- elettriche nella massa o per eterogeneità e anisotropie irregolari del bismuto, o per effetto della illuminazione non ben centrata, e della non perfetta unifor- mità del campo. Basta allora invertire il senso di questo e ristabilire il flusso radiale, con che s' inverte la coppia dovuta alle azioni elettromagnetiche or- dinarie o di prima specie, mentre resta invariata l’azione di seconda specie della quale ci stiamo occupando. La nuova rotazione del disco avrà in gene- rale un valore diverso, pur restando nello stesso senso; ma può anche cam- biare di senso, qualora le azioni di prima specie siano più intense delle altre. Ciò avverrà specialmente quando il campo è debole; poichè, mentre le azioni di prima specie variano in ragione della intensità del campo, quelle di se- conda specie variano col suo quadrato, e s’indeboliscono perciò più rapida- mente quando il campo va facendosi sempre meno intenso. 2. Di queste azioni elettromagnetiche di seconda specie avevo messo in evidenza, nei lavori citati, l’azione induttiva su una bobina circondante il disco di bismuto percorso da corrente elettrica radiale, la forza e. m. radiale (!) O. M. Corbino, Rend. Lincei; vol. XX, 1° sem., p. 842, 416, 424, 569; 1911. — 747 — destata nel disco alla creazione del campo, e la coppia dovuta al riscalda- mento centrale o periferico. Dai risultati ottenuti si poteva prevedere che particolarmente rilevanti debbono essere le coppie create dalla corrente ra- diale elettrica; esse per un campo di 3000 unità, e un disco di 7 centimetri di diametro percorso radialmente dalla corrente di 10 ampere dovrebbero raggiungere il valore di circa un migliaio di dine-centimetro e perciò del- l'ordine di grandezza di un grammo-centimetro. Per quanto sulla effettiva esistenza dell'azione prevista non possa aversi alcun dubbio, il suo valore notevole dà un particolare interesse alla realiz- zazione dell’ esperienza, poichè se ne può dedurre un metodo sensibile di misura della costante E del metallo, cioè della grandezza che può chiamarsi il suo momento ionico differenziale. Ma nella esecuzione si sono incontrate difficoltà non lievi. Occorreva in- vero rendere mobile tra le masse polari un sistema di due dischi di bismuto o di un altro metallo (destinato a raccogliere la corrente periferica inviata nel centro del primo) e fare in modo che per i fili adduttori della corrente, meccanicamente solidali col sistema dei dischi, fossero trascurabili le azioni elettromagnetiche di prima specie o amperiane. Inoltre dovendo disporre il sistema dei dischi a 45° dalle linee di forza, il loro movimento viene forte- mente ostacolato dalle correnti di Foucault che esercitano proprio in quella posizione la massima azione di freno. Infine il sistema mobile tra le masse polari subisce da parte del campo un'azione orientatrice dovuta alle proprietà magnetiche del materiale impio- gato; e perciò la forza antagonista che si oppone alla cercata coppia elettro- magnetica non è solo la torsione del filo cui il sistema è sospeso. Non po- tendo facilmente realizzare un sistema astatico per queste azioni magnetiche, ed essendo queste molto variabili nelle diverse posizioni del disco, le rota- zioni elettromagnetiche vengono di molto ridotte, e il valore esatto della coppia non è facile a misurare. 3. Per rimuovere tutte queste difficoltà ho proceduto nel modo seguente. L'apparechio della fig. 1 descritto nella mia prima Nota venne modificato sostituendo alla scatoletta di rame su cui è fissato il disco di bismuto una scatola di zinco di spessore più piccolo; e inoltre il fondo posteriore della scatola e l'anello periferico furono tagliati lungo un raggio e una genera- trice, per attenuare le correnti di Foucault, che costituiscono, come si è detto, un grave ostacolo al movimento del sistema. Il tubo #, col filo interno con- nesso al centro del disco, venne piegato fino a ricondurlo nel piano della scatola lungo una direzione passante pel centro di quella. Così tutta la sca- — 748 — tola poteva esser sospesa tra le masse polari; mentre in basso e a notevole distanza da questa i capi del tubo e del filo centrale, costituiti da due fili di platino, pescavano in due bicchierini contenenti mercurio pei quali si poteva mandare la corrente. Le masse polari, del diametro di 10 centimetri, erano disposte a circa 5 centimetri di distanza, cosicchè la scatola del diametro di 7 centimetri poteva essere orientata fino a circa 40° dalle linee di forza. In queste con- dizioni il campo nel grande spazio tra le masse polari non poteva rendersi superiore a 3000 unità. Malgrado le cure impiegate nella costruzione della scatola, non sì riuscì a ottenere che fossero assolutamente nulle le azioni elettromagnetiche di tipo amperiano; le quali si rivelavano col fatto che la rotazione del disco prodotta dalla corrente non restava assolutamente invariata invertendo il senso del campo. Ho trovato utile per facilitare la compensazione dell'effetto di prima specie saldare un filo di rame tra due punti del tubo ripiegato, nella parte in cui esso è disposto nell’interferro; il filo era così percorso da una pic- cola derivazione della corrente totale, ed era quindi soggetto a una forza elettromagnetica; cosicchè dandogli per via di tentativi una forma oppor- tuna, si poteva ottenere che la deviazione restasse sensibilmente invariata in direzione e in valore invertendo il senso del campo; prendendo la media degli effetti osservati col campo diretto nei due sensi, la residua azione di prima specie poteva eliminarsi tutto. La forza orientatrice dovuta alle proprietà magnetiche del materiale im- piegato, la quale era diversa nelle diverse posizioni della scatola, superava, pei campi intensi, quella dovuta al filo di sospensione, anche quando questo, era costituito da un filo di ottone di 0,13 mm. di diametro e circa 5 centi- metri di lunghezza, che dava luogo a un momento di torsione di 4,8 dine- centimetro per grado. In questo caso le due coppie orientatrici erano però molto prossime. Per valutare la coppia dovuta alla corrente fu quindi necessario con- frontare la deviazione osservata con quella prodotta da una misurabile rota- zione dell'estremo superiore del filo. Questo fu tarato determinando la durata di oscillazione di un corpo a esso sospeso e di cui era noto il momento di inerzia. 4. Dal valore della coppia si passa facilmente a quello della costante E del metallo. Si ha infatti M= Wsen2a= BL FISH? sen 2a 47 in cui I è l'intensità della corrente, S la superficie del disco, H l' intensità del campo e « l'angolo formato dalla normale al disco con le linee di forza. — 749 — Così in una esperienza si ebbe M = 7,3 dine-centimetro per I = 0,02 (unità clettromagnetiche), S= 38 cm*; H=2400 e a=18°. Se ne deduce ECO Per lo stesso disco e nel medesimo campo il valore di E fu anche deter- minato col metodo della forza elettromotrice radiale; i due risultati non esattamente concordanti, per ragioni che saranno esposte e discusse in una prossima Comunicazione. Ma si riconobbe, ad ogui modo, che mentre il me- todo della coppia richiede maggiori precauzioni, esso è sempre molto più vantaggioso poichè l’effetto osservabile è d'un ordine di grandezza ben più rilevante. Così in un campo di sole 500 unità, con un filo di sospensione in ottone di 20 cm. di lunghezza e 0,13 mm. di diametro, alla corrente radiale di 1 ampère corrispondeva una rotazione del disco di circa 2 gradi. E poichè l’azione è proporzionale al quadrato del campo, non appare impro- babile che si riesca a constatare e misurare la coppia anche con altri me- talli, come il rame e l'argento, pei quali il valore di E dovrebbe essere da 100 a 200 volte minore. Chimica. — // sistema binario Cu Br—K Br ('). Nota del dott. P. De Cesaris, presentata dal Socio PATERNO. Facendo seguito ad una mia Nota precedente (°) sul comportamento ter- mico delle miscele binarie di cloruro rameoso con i cloruri di potassio, di sodio e di argento, riferisco qui le ricerche compiute sul sistema binario CuBr—K Br. Per le esperienze mi sono servito di bromuro di potassio puro di Erba che ho ricristallizzato. Il bromuro rameoso l'ho preparato secondo Denigès, facendo bollire una soluzione di solfato di rame e di bromuro ‘alcalino nelle dovute proporzioni insieme con ritagli di rame e versando poi la soluzione limpida e calda in una grande massa d'acqua fredda acidulata con acido acetico. Il prodotto della reazione veniva raccolto, lavato e seccato. Prima di adoperarlo naturalmente mi sono accertato della sua purezza con l’analisi. Il dispositivo sperimentale era lo stesso che ho indicato in precedenza. Per punto di fusione di CuBr ho trovato 478°; Carnelley e Williams (3) hanno indicato 504° e Monkemeyer (*) ha trovato recentemente 480° in ac- cordo perfetto con il mio valore. Quest'ultimo autore ha trovato pure che il CuBr a 384° subisce una trasformazione accompagnata da un discreto svi- (!) Questi Rendiconti, vol. XX [5], 1° sem. fase. 8, 1911. (3) C. R., 208, 567, 1889. (3) Journ. Chem. Soc., 37, 125, 1880. (4) Neues Jahrb. f. Min. Beilageband, 22 1 1906. = & SERIE pt PRE ELI ISO ORO NO SI MENDACI PRSLI DE IPC MIS ANZI E on POE SIA ILE Men RIINA RI OS ir nato FETI — 750 — luppo di calore, trasformazione che ho constatata anche io sulla curva di fusione alla stessa temperatura. Il punto di fusione del bromuro di potassio è stato determinato varie volte. I diversi autori danno per temperatura di fusione valori oscillanti fra 730° e 750°. Io ho trovato 730° in buon accordo com Ramsay e Eumor- fopoulos (!) che hanno trovato 733°, e con Hiittner e Tammann (?) che hanno indicato 740° come punto di fusione. I risultati delle esperienze sono riassunti nella seguente tabella: Pe page ee Me a Tato TE a di to iran E 100 730° — = 2 = 95 718 2920008 120” 182° 120" 90 706 232 150 182 180 80 662 232 IC 182 300 70 615 234 225 180 375 65 574 238 240 183 405 60 548 234 300 184 450 55 500 234 240 182 480 50 446 234 180 182 555 40 342 336 60 184 690 35 229 a > 183 750 30 212 = — 183 675 20 302 - — 182 450 10 402 => x 182 240 5 442 sl = 182 150 Con questi dati è stato costruito il diagramma di stato riprodotto nella figura della pagina seguente. A partire da 730°, temperatura di fusione di K Br, il punto di fusione delle miscele di K Bre CuBr si va abbassando fino a 182° per poi tornare a risalire fino a 480°, punto di fusione di Cu Br. Come si vede sono tracciate nel diagramma tre orizzontali: una prima a 384°, una seconda a 182° e una terza a 234°. La prima orizzontale a 384° corrisponde alla trasformazione che a questa temperatura subisce il Cu Br. A temperature superiori a 384° il CuBr si separa in una forma e poi a 384° si trasforma nell'altra; a tem- perature inferiori invece esso si separa senz’altro nella seconda forma. L'oriz- zontale a 234° corrisponde alla reazione che a questa temperatura si compie tra massa fusa e fase solida depostasi in precedenza con formazione di un nuovo solido; l'altra a 182° invece corrisponde alla separazione eutettica di Cu Br, più il solido che prende origine a 234°. La reazione che ha luogo a (1) Phil. Mag., 4/, 360 (1896). (*) Zeit. Anorg. Chem., 43, 215 (1905). — 751 — 234° non è però completa e perciò l'arresto eutettico a 182° che dovrebbe annullarsi in corrispondenza della composizione del composto che si forma a 234°, continua invece a verificarsi anche oltre e va ad annullarsi in corrispon- denza del K Br. La composizione del composto risulta però chiara egual- mente dalla durata degli arresti a 234°, durata che è massima per una miscela che contiene il 60 per cento di K Br. Perciò al composto che si ori- gina a 234° compete la formula CuBr2 K Br per la quale si calcola un con- tenuto del 62,39 per cento di K Br. PLAZA PAA x N NS »N vm ;00 d IAZZTÀ Geo GN o N si Svo S00 «uo 400 EI |300 700 {1/00 i ee ti dei ____iccdi i GBP 10 20 To 40 SO 60 20 80 90 100 (I 100 90 COMOZO, co So so 30 20 Ze 9 Questo composto a cui CuBr e K Br possono dar luogo corrisponde, come si vede, perfettamente al composto che comparisce nel diagramma di stato del sistema CuCI—K C1; però mentre nel caso dei cloruri si conoscevano già sali doppî idratati di questo tipo, nel caso invece dei bromuri, per quel che è a mia conoscenza, questo è il primo sale doppio del bromuro rameoso con bromuro di potassio, di cui viene constatata l’esistenza. Miscibilità allo stato solido pare non ve ne sia, o per lo meno, se ve n'è, essa non deve essere che limitatissima, perchè, pei miscugli al 5 ed al 95 per cento di CuBr, si può già constatare nettamente un arresto eutettico a 182°. — 752 — Chimica-fisica. — A proposito di uno studio recente su l’in- dice di rifrazione dei miscugli binari. Nota di ArRIGo MAzzuo- CHELLI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. È noto che lo studio della costituzione dei miscugli quale può dedursi dalle loro proprietà fisiche di fronte a quelle dei componenti non è dei più progrediti della chimica fisica, e la ragione principale è da ricercarsene nella complicatezza delle relazioni che necessariamente devono regnare nei miscugli dove uno dei due componenti non si trovi in proporzioni di assoluta infe- riorità rispetto all’altro (dove cioè non si abbia che fare con « soluzioni di- luite », per le quali la semplicità delle leggi sperimentali non dipende tanto da problematiche analogie colla materia allo stato aeriforme, quanto dalle ovvie semplificazioni che possono portarsi nelle formule, tutte le volte che si ha che fare con alcune quantità che siano molto piccole di fronte alle rimanenti). Per queste ragioni non può aspettarsi di ritrovare, nel comportamento dei miscugli binarî, leggi semplici e facili a riconoscere senza il sussidio di una elaborazione matematica più o meno complicata. Se si vuole sem- plificare troppo si corre il rischio di rimanere vittime del nostro stesso si- stema, e di credere di avere scoperto regolarità nuove in quelle che non sono altro che la espressione (e vien quasi voglia di dire, la vendetta!) della necessaria, inevitabile complicatezza dei fenomeni di cui non sì è voluto tener conto. Queste riflessioni mi sono suggerite dallo studio di una notevole Me- moria recentemento comparsa (*), su cui ha richiamato la mia attenzione il prof. Paternò, che mi è qui grato di ringraziare. In essa il sig. Schwers si occupa delle relazioni fra l'indice di rifrazione e la composizione dei mi- scugli binarî, e dirò subito, poichè disgraziatamente le convinzioni che mi sono formato mi portano a doverne criticare l’opera in alcuni punti, che io sono il primo a riconoscere il valore, innegabile e durevole, di tutto il co- pioso materiale sperimentale di cui egli ha arricchito la scienza, e anche la opportunità e la giustezza delle sue considerazioni sulla teoria delle solu- zioni, nell'ultima parte del suo lavoro. Solo che io trovo da sollevare qualche dubbio sulla forma, a parer mio eccessivamente semplice, delle relazioni che egli ha tentato di stabilire fra le varie grandezze fisiche sperimentali, e spero che egli non mi saprà male se io rendo di pubblica ragione questi (1) Parte I, Journ. de chim. phys., VIII, 1910 (630-696); Parte II ibid. IX, 1911, (15-100). — 753 — dubbî, pensando che dalla serena discussione sulle opinioni scientifiche non può derivare altro che vantaggio per quella ricerca della verità, a cui tanti benemeriti studiosi dedicano, come il sig. Schwers, così grande somma di lavoro e di studî. Ed entro senz'altro in argomento. Si sa che altre volte il Pulfrich si era proposto di studiare le rela- zioni di proporzionalità fra la contrazione della densità e quella dell'indice di rifrazione, in un miscuglio binario, di fronte a quelle dei componenti, —D N-N pai voi Nd e l'indice sperimentali del dato miscuglio, Do, No quelli teorici calcolati mediante le formule: facendo uso della formula dove D, N sono la densità N 1 ) N—1 NESÒ Bo 0 ae pn Anche lo Schwers vuole studiare i rapporti fra queste due contrazioni, solo che, pur accettando la formula del Pulfrich per calcolare la densità teorica, per quanto concerne l'indice preferisce servirsi della formula: Pi + de Pi Po N, N N; o, piuttosto, della N;(p. +22) =N Pi -— N3 ps, dove in ogni caso, non entrano che le sole percentuali in peso (!). Egli giustifica questo cambia- «mento col dire che, dal momento che si confrontano fra loro le variazioni della densità con quelle dell'indice di rifrazione, non è opportuno far en- trare nel calcolo di quest’ultimo quella stessa grandezza con cui lo si (1) Lo Schwers, a pag. 640 della sua Nota, propone solo la prima formula, ma una ricalcolazione dei miscugli acqua-alcool, pei quali egli riporta tutti i dati occorrenti, mi ha mostrato che, almeno in quel caso, si è servito invece della seconda formula. Sa- rebbe facile provare che il rapporto fra i due valori dell'indice così calcolato è dato da IN (N, — N)? 2(100— 2) Neca Lar Ni Na 100? i Questa formula ci insegna: che Ns è sempre maggiore di N,; che la loro differenza raggiunge il massimo per la percentuale x=50; che d'altra parte questo rapporto è quasi sempre assai vicino all'unità: infatti, posto N = 1,400, N = 1,300 (e per lo più gli indici dei liquidi organici sono assai più vicini tra loro, sebbene occasionalmente possano darsi differenze anche più rilevanti) la espressione acquista il valore 14 0,00137. Effettivamente, tutti i valori a pp. 648-645 loc. cit. sono maggiori di quel che si calco- lerebbe con la formula che dà N,, mentre concordano perfettamente con l’altra, che dà N;. Per tutte queste ragioni io considererò esclusivamente la formula in Ns che si presta assai meglio al calcolo algebrico. RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem 99 702 — 754 — vuole paragonare. A prima vista il ragionamento fila, ma fila solo dal punto di vista matematico, non da quello fisico. Considerando le cose sotto il riguardo sperimentale, è un fatto che, per una sostanza unica, l'indice di rifrazione varia moltissimo col variare (per l'influenza della pressione o della temperatura) del volume che è uniformemente riempito da un deter- minato peso di essa: le formule di Lorenz-Lorentz e di Gladstone esprimono appunto, in modo più o meno esatto, le relazioni che legan fra loro in questi casi indice e densità. Sembra dunque verosimile che analoghe varia- zioni dell'indice debbano pure aversi quando il volume entro cui la sostanza è ripartita varia, anzichè per cause meccaniche o termiche, per mescolanza con una seconda sostanza, e ciò indipendentemente da qualsiasi influenza chimica o fisica che le due sostanze esercitino poi fra di loro. Noi potremo dunque pensare a indagare, come si propone lo Schwers, le variazioni che queste influenze apportano nel valore dell’indice solo dopo averlo depurato di quella variazione che spetta al volume aumentato. I volumi dunque do- vranno in qualche modo entrare nel calcolo dell'indice Leorico, poichè è ri- saputo che si e/i/miza l'influenza, che una data variabile ha sulla grandezza da misurare, proprio col farla figurare esplicitamente nella formula che ci deve fornire la grandezza in questione. A tutti questi requisiti soddisfa bene, dal punto di vista teorico, la formula che altre volte aveva proposto Schrauf, la quale per lo più concorda anche bene con la esperienza: N-1 N_-1 Nìs—- 1 a) el Di Pr Fra l’altro, nel caso limite in cui la seconda sostanza aggiunta abbia peso nullo, e volume diverso da zero (in cui cioè si consideri la variazione di volume di una sostanza unica) essa ricade nella formula di Gladstone, di cui si è sopra ricordato il buon accordo con la esperienza, mentre la for- mula adottata da Schwers porterebbe a concludere che in questo caso l'indice di rifrazione non deve essere variato. Questo risultato rende già verosimile che anche in altri casi il modo di calcolo adottato dallo Schwers possa dare una espressione alterata delle relazioni sperimentali, e magari fare apparire come nuove regolarità fisiche quelle che non sono altro che conseguenze aritmetiche e infeconde di regolarità già note. E questo ci risulterà, infatti, dalla discussione dei risultati consegnati nella Nota in questione, per la quale preferisco seguire un ordine inverso di quello tenuto dall'autore, e cominciare da quanto si riferisce alle variazioni dell’indice di rifrazione in seguito alla compressione, o al cambiamento di stato, o alla polimerizzazione ('). (!) Jour. de chim. phys., IX, 1911, pp. 82-94. — 755 — Nel caso della compressione, l'autore stabilisce la relazione la N; asa N . , Io . . . HA 2 fra la contrazione del volume e l'aumento dell'indice di rifra- zione, essendo v, N le costanti fisiche del liquido non compresso (*), e trova che la A ha dei valori fra 4 e 3, regolarmente decrescenti, nella serie degli alcoli, coll'aumentare del volume molecolare, che per tal modo determine- rebbe il valore di questo rapporto. Ora è noto che in questo caso vale, con buona approssimazione, la formula di Gladstone (N—1)v= (N_-1)v; I NN _N—-l ef 3 v da essa quindi possiamo dedurre e per conseguenza rlca- vare 4 priori il valore di A, cioè iii ovvero A ine pento Trattandosi di pressioni poco elevate, si può porre approssimativamente vi=, e quindi À =: e poichè gli indici di rifrazione dell'acqua e degli alcoli inferiori oscillano fra 1,300 e 1,400 deve risultare necessa- riameute un A dell’ordine di grandezza sopra riportato. Inoltre, A deve di- minuire col crescere di N (infatti dA men: e quindi ci spie- ghiamo agevolmente anche il risultato ottenuto nella serie degli alcoli: che anzi, mentre non è completa la antibasia, supposta da Schwers, fra il valore di A e il volume molecolare dei singoli alcoli, dai suoi numeri stessi risulta perfettamente confermata la antibasia fra A ed N che la formula di Gladstone permette di prevedere. E lo stesso può ripetersi per le regolarità che l'A. trova nel caso della solidificazione dell’acqua; il coefficiente A, calcolato nel modo solito, ha un valore poco diverso da quello trovato nel caso della compressione, per la semplice ragione che anche qui vale, approssimativamente, la formula di Gladstone. Nè sono diverse le considerazioni nel caso della polimerizzazione (aldeide-paraldeide, acetilene-benzolo): infatti si sa che i polimeri hanno un potere rifrangente poco diverso (le piccole differenze essendo dovute al vario numero dei doppî legami), e poco diverso pure il volume specifico: val- gono perciò, approssimativamente, anche in questo caso, le formule vedute per la compressione, e non c' è quindi da meravigliarsi se lo Schwers ritrova, su per giù, gli stessi valori di A. Essi non esprimono delle nuove regolarità fisiche, ma solo una diversa formulazione dell’addittività del potere rifrangente. (®) Veramente, a pp. 83-84, loc. cit., si parla di una « contrazione » anche per l’in- dice di rifrazione, ma evidentemente si tratta di una svista a cui non è il caso di dar peso. «va = =—" — ——————_@@m—@—@m@ò DE BS SE SIIT MRI DIRI RETI RINO DISTINTI LIZA — 196 — E veniamo infine alle relazioni trovate dallo Schwers nel caso dei mi- scugli. Qui egli calcola A mediante la relazione (1) a 0 EMI (pei simboli vedi sopra) e trova: 1) che, a seconda dei casi, A è una gran- dezza praticamente costante e indipendente dalla composizione del miscuglio, ovvero aumenta regolarmente col crescere della percentuale di uno dei com- ponenti (così nelle soluzioni acquose degli acidi alifatici e del solforico, dove starebbe in relazione colla dissociazione elettrolitica); 2) che questi valori sono poco diversi da quelli che si ritrovano nel caso della compressione, polimerizzazione ece.; 3) infine, varie relazioni di aspetto stechiometrico, nel caso di componenti appartenenti a serie omologhe. Ora tutto ciò poteva prevedersi a priori, dal tipo di formule adoperate. Infatti, tenendo conto che pei miscugli vale almeno in prima approssimazione la formula di Schrauf, cui può darsi la forma 9 ar (2) D N---1 noi deduciamo, eliminando 3 = fra la (1) e la (2) Nei NN; (3) NS N ovvero anche No er 1 N; (4) 1- Rai =A(1- N). La formula ha un'apparenza simmetrica, che rende già verosimile che A debba poco risentirsi del variare della composizione, poichè infatti N, l'indice sperimentale, che è la grandezza più irregolarmente variabile (in quanto che per lo più cala dal valore che spetta al liquido più rifrangente sino a quello del meno rifrangente con regolare diminuzione, ma spesso pure attraverso un maximum intermedio) figura al denominatore sia a destra che a sinistra in modo che la sua influenza viene in gran parte ad eliminarsi, mentre gli altri due indici teorici N, ed N,, pure avendo valori diversi per un dato miscuglio, hanno però questo a comune che, col variare della com- posizione, dal valore che spetta al liquido più rifrangente passano in ogni caso a quello del meno rifrangente con andamento simbato, senza attraversare nè massimi nè minimi, onde anche la loro influenza sul valore di A deve in gran parte compensarsi. La questione, veramente, non può con questo rite- — 750 — nersi del tutto liquidata, fra altro, per quanto concerne i casì in cui À aumenta regolarmente col variare della composizione, e in una discussione completa, che per mancanza di spazio debbo rimandare ad altra occasione, occorrerebbe sostituire a No e N; i loro valori rispettivi, dati da 5) W(5+ Mt ND o NG Nip Nap: ottenendo così la formula: (6) 100(N—N:)—P ING (ROIO N(d—1)) a (N— 1)[100 + p.(0—1)] 100(N— N.) —pi&W—1)N: 100 N i dove si è posto p. + pa = 100, e, per semplificare, v = n, di i 2 1 convenendo che sia, in ogni caso, Ni > N:. Ma fin da ora voglio accennare ad una semplificazione che permette di trarre delle conclusioni interessanti : in generale, gli indici di rifrazione dei liquidi (e più particolarmente quelli presi in in considerazione dallo Schwers) non differiscono molto fra loro, talchè pai è poco superiore ad 1. Poniamolo addirittura uguale ad 1, 2 e la (6) diventa allora (7) (N—N,)[(100-+p ($—1)] _ , 100(N— Na) (N— 1)[100+p1:((0—b] 100 N ovvero anche A = gi Vediamo così come in questo caso limite A debba assumere gli stessi valori come nel caso della compressione di un liquido unico, e, se anche, in realta, v non è proprio uguale ad 1, ma gli è solo di poco superiore, A non si discosterà molto dai valori sopradetti. La seconda delle regolarità osservate dallo Schwers riceve con ciò una facile spiega- zione algebrica, la quale potrebbe senza difficoltà estendersi alle variazioni che subisce A col variare del peso molecolare nei miscugli di alcoli o di acidi alifatici con acqua, variazioni le quali stanno semplicemente in rela- zione cogli aumenti dell'indice di rifrazione di quelle sostanze organiche. Se con questo ho tentato dimostrare che partendo dal nuovo punto di vista proposto dal sig. Schwers non c'è molta speranza di arrivare a re- lazioni nuove e tali da far progredire di molto le nostre conoscenze sulla costituzione dei miscugli binarî, d'altra parte mi è grato concludere coll’os- servazione che tutto il meritorio lavoro di calcoli da lui compiuto non deve “id FU dela dh u_u .}rrrÈr_i-"-__ Pe I”mz————EwyEE ERE}: ZZZ} àzgocNòZBM@Zy OouoOIoEU©\oBoHu[uvu[wU[h.--:i: Mer kei — 758 — davvero considerarsi come infecondo per la scienza, alla quale invece, anche all'infuori del copioso materiale sperimentale che l'accompagna, mi pare che porti in ogni caso un utile contributo. Per chi esamini le numerose tabelle numeriche contenute nel lavoro in questione, la costanza quasi completa dell'A, o la sua regolarissima variazione con la composizione dei miscugli non può apparire che assai degna di nota: se anche dobbiamo formarci la convinzione che essa è dovuta essenzialmente ad una compensazione alge- brica delle diverse grandezze variabili, bisogna convenire che, come compen- sazione algebrica, è ben riuscita. Io penso perciò che le formule dello Schwers potranno in ogni caso servire come formule di interpolazione per calcolare, da pochi indici di rifrazione di una serie di miscugli di cui si conoscano tutte le densità, gli indici rimanenti, o, viceversa, dagli indici e poche densità, le densità rimanenti. Chimica. — Analisi termica di miscele binarie dei cloruri di metalli monovalenti ('). Nota di CARLO SANDONNINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Per la conoscenza completa dei rapporti di isomorfismo fra i sali dei varî elementi e della loro eventuale tendenza a combinarsi fra loro, è im- portante conoscere il loro comportamento alla solidificazione delle miscele binarie, quale può essere dedotto dall'analisi termica. Io mi sono proposto di esaminare a fondo le relazioni fra i cloruri degli elementi monovalenti ed ho preso in considerazione precisamente i cloruri dei seguenti sette elementi: litio, sodio, potassio, rubidio, rame (rameoso), argento, tallio (talloso). Delle 21 coppie binarie che si possono ottenere, sei furono già studiate da Kurnakow (?) e Zemezuny (*) e precisamente quelle fra i cloruri alcalini; inoltre da Zemezuzny (4) fu studiata la coppia AgCl-KCL Altre quattro coppie e precisamente NaCl-CuCl, AgCI-CuC], KCI-CuC], TICI-CuC1 furono studiate da me, e i risultati relativi furono esposti in una Nota già comunicata a questa Accademia. Contemporaneamente a me G. Poma e Gabbi (*) hanno pubblicato osser- vazioni fatte sui sintemi AgCI-CuC1, KCI-CuCI, e subito dopo P. De-Cesaris (°) (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Pa- dova, diretto dal prof. G. Bruni. (*) Zeitsch. f. anorg. Chem. 52, 1907, 186. (3) Zeitsch. f. anorg. Chem. 65, 1910, 403. (4) Zeitsch. f. anorg. Chem. 57, 1908, 266. (5) R. Accad. dei Lincei [5] 20-464. (5) Id. Id. [5] 20-597. — 759 — ha riferito esperienze su quelli NaCl-CuC1, AgCl-CuCI, KC1-CuC1. I risultati di questi signori concordano completamente coi miei, salvo le piccole diffe- renze quasi inevitabili sui valori assoluti di alcune temperature. La circostanza che diversi sperimentatori hanno trattato contempora- neamente lo stesso soggetto che io sto studiando mi obbliga a render noti ‘ senza ritardo i risultati delle mie esperienze ulteriori. Riferisco in questa Nota sul comportamento delle tre coppie AgC1-NaC], LiCl-CuC1, LiCl-AgCI. Delle 21 coppie accennate rimangono le sette CuCl-RbCI, KCL-TICI, AgCI-T1C1, AgC1-RbCI, TICI-RbCI, LiCl-TICI, che sto ora studiando e su cui riferirò fra breve. Quando il lavoro sperimentale era già terminato apparve un lavoro di W. Botta (*) in cui sono esposti i risultati ottenuti pure per via termica per le miscele di cloruro sodico e cloruro di argento. I risultati sono con- cordanti perfettamente con quelli da me ottenuti, se si eccettua qualche differenza nei punti di solidificazione dei componenti. Secondo questo esperimentatore il punto di solidificazione del clo- ruro sodico giace a 792°, e quello del cloruro d'argento a 460°; dalle mie esperienze (v. tabella) questi punti risultarono rispettivamente a 306° e 455°. Dei punti di solidificazione dei singoli componenti, all'infuori di quello del cloruro di litio, venne già detto nella Nota a questa precedente. Il punto di fusione del cloruro di litio è dato da Zemezuzny e Rambach (loc. cit.) a 614°, e da Carnelley (*) a 602°. Il cloruro di litio anidro preparato dal cloruro di litio idrato per riscaldamento in capsula di platino fino a completa per- dita di acqua reagisce debolmente alcalino; prima però di usarlo venne posto in una storta di vetro infusibile e riscaldato di nuovo in corrente di acido cloridrico gassoso e secco; l’alcalinità dopo questo trattamento scom- pare, ma dopo fusione, benchè assai debolmente ricompare. Il punto di fusione del cloruro di litio così ottenuto giace a 602°. Per tutti i sistemi venne usato il solito metodo di fusione e di raffredda- mento. Le miscele vennero fuse parte in provette di vetro infusibile e parte in provette di porcellana ed in forno elettrico. Per la determinazione delle temperature venne sempre usato un ter- moelemento Pt — Pt+ Rh ed un galvanometro Siemens ed Halske. Vennero sempre usati dieci grammi di miscela. (1) Centralblatt. f. Min. Geol. u. Pal., 1911, 5, 198. (2) Carnelley, Journal Chem. Soc. (1876), 489. — 760 — 1. Il sistema NaCl-AgCl. W. Botta (loc. cit.) dà solo l’inizio di cristallizzazione delle miscele fuse; col sistema di raffreddamento da me usato l'intervallo di cristallizza- zione è sufficientemente netto per poterne cogliere il fine. Le temperature di cristallizzazione delle miscele fuse dei due compo- nenti stanno tra i loro punti di solidificazione originando una serie continua di cristalli misti il cui intervallo di cristallizzazione è assai largo. L'anda- mento delle curve relative è mostrato dalla fig. 1. TABELLA l?. I Mol. °/o Inizio Fine Intervallo 3 della della 5 : Ag C1 cristallizz. | cristallizz. | in gradi E CO ALAN O E VI 00 806° — = 10 770 730° 40° 20 748 680 68 30 708 640 68 40 670 980 90 50 640 520 120 60 610 490 120 65 580 482 98 70 565 476 89 75 580 470 60 80 520 465 55 85 505 461 44 90 490 460 30 95 470 457 13 100 455 — = Notevole è il fatto che le miscele di nitrato di argento e di sodio (?) dànno due specie di cristalli misti. 2. Il sistema AgCl-LiCl. Anche in questo sistema i punti di solidificazione delle varie miscele sono intermedî a quelli dei componenti; tuttavia dalle curve di raffredda- mento risulta un diagramma ben diverso. Alla concentrazione di 73 circa mol. °/, di Ag Cl si ha nella curva di cristallizzazione primaria un debole gomito e le miscele da oltre 12 a 73 mol. °/, di Ag Cl dànno oltre all'ar- resto di prima cristallizzazione un arresto a 469° che ha il suo massimo di durata a 50 mol. °/ di AgCl, e che si rende nullo rispettivamente a 12 e (1) D. U. Hissink, Zeitsch. f. phys. Chem. 32, 1900, 537. — 701 — a 73 mol. °/; inoltre da 50 mol. °/ a 73 mol. °/, si ha un intervallo di cri- stallizzazione, che ha il suo punto di partenza dal punto a 469°. In defini- tiva tra queste concentrazioni la curva di raffreddamento delle miscele fuse è caratteristica del tipo IV di Roozeboom. Si rivela cioè una lacuna di mi- Cloruro Sodico— Cloruro d'argento 800 800 750 750 700 | I 700 Q x, S 650 650 | 5 DI: 600 o 600 I i SACRE \ pd -| 550 Cb Si Ò i 3 500 o Si O). SS Xx 90-04 450 Mol. % di Cloruro d'argento. 1 02030 GONE SON 6000 70) SOMMCONNT00 NaCl AgC1 Aressl scibilità allo stato solido da 16 a 50 mol. ,/° di AgCl il cui punto di ar- resto giace a 469°, si hanno così due specie di cristalli misti, una più ricca in cloruro di argento e una più ricca in cloruro di litio. Il termine di cristallizzazione dei cristalli misti ricchi in cloruro di argento coincide quasi colla temperatura di cristallizzazione del cloruro di argento stesso. Per le curve relative vedi fig. 2. RenpicontI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. 100 — 762 — TABELLA 2°. Mol. °/o Inizio DI) Fine Durata della della del 29 Ag C1 cristallizz. arresto cristallizz. arresto O pbaRIe Di lp |} — “o n _ (0) 602° = = = 10 580 = 548° = 20 565 468° _ —_ 810) 540 469 _ 30” 40 526 468 — 50 50 510 469 _ 80 60 493 469 — 60 65 480 468 460 40 70 474 468 459 20 1 466 —_ 457 n 80 461 — 456 — 85 460 = 456 — 90 459 — 456 _ 95 457 = 455 —_ 100 455 POS — "o — 650 Clorurodi tto Cloruro di argento 600 600 550 500 450 400 400 ' mol % di Cloruro d argento LiC1 ASCI Fia. 2. — 763 — 8. Il sistema CuCl-LiCl. Questo sistema è analogo al precedente. Si hanno adunque due specie diverse di cristalli misti, una più ricca in cloruro di litio, e una più ricca in cloruro rameoso. La lacuna di misci- 600 È Cloruro di lilio— Cloruro rameoso (00 550 DIO 500 500 450 550 400 400 cs0 350 LD di cloruro rameoso. O RST O IO 030 MONA S0N 0 (601. 70M SORMIONI I00 Lic1 Cu01 bilità allo stato solido va da 25 a 55 mol.°/ di CuCl, l'arresto che le spetta giace a 424° e si annulla a 25 e 62 mol. °/ avendo il suo massimo di durata a 55 mol. °/o. I cristalli misti ricchi in cloruro rameoso presentano un minimo che giace circa a 80 mol, °/, di cloruro rameoso. — 764 — Un caso identico venne per la prima volta ottenuto, per miscela di sali, da G. Bruni e D. Meneghini (*) nel sistema nitrato-nitrito sodico. Non fu possibile cogliere con esattezza la fine di cristallizzazione dei cristalli misti, oltre il minimo, cioè assai ricchi in cloruro rameoso; quindi nella seguente tabella e nella figura 3, sono dati solamente i loro inizi di cristallizzazione. TABELLA 83°. o Inizio o Fine Durate Lio della a della in secondi Cu Cl cristallizz. arresto cristallizz. | del 2° arresto LT ee e BEE 0 602° = — — 10 573 —_ 560° — 20 546 mm 510 Le, 30 5192 424° _- 20” 40 472 425 _ 40 50 450 425 — 60 55 440 424. — 80 60 428 423 412 20 65 420 = 409 _ 70 415 — 409 — 75 413 — | 409 — 80 408 = = _ 85 409 = _ ai 90 414 — ì — _ 95 417 = — _ 100 4922 — I — _ Riassumendo : 1. I cloruri di sodio e di argento delle loro miscele fuse depositano cristalli misti di una sola forma ed in tutte le proporzioni. 9. I cloruri di litio e di argento dànno cristalli misti di due specie. Esiste una lacuna di miscibilità che va da circa 16 a circa 50 mol. °/ AgCI. 3. I cloruri di litio e di rame (rameoso) dànno pure cristalli misti di due specie. La lacuna di miscibilità va da circa 25 a 59 mol. °/, CuCl. La curva di solidificazione presenta un minimo. Chimica. — Analisi termica di miscele binarie dei cloruri di elementi bivalenti. Nota di C. SANDONNINI e G. SCARPA, presen- tata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (!) Gazz. Chim. Ital., 40, 1, pag. 682, e Zeitsch. f. anorg. Chemie, 64, 1909, 193. — 765 — Chimica. — Sopra gli aleooli tanacetilici isomeri (). Nota del dott. V. PaoLINI, presentata dal Corrispondente A. PERATONER. Come indica il titolo della presente Nota, esiste più di un alcool ta- nacetilico. Nel 1892, Wallach (?) isolava dall'olio essenziale di thuja una frazione di natura chetonica, il « thujone », e, riducendo questo con sodio ed alcool etilico, otteneva una sostanza bollente a 210-212°, della composizione Cio Hig0, l’« alcool tujlico». Quasi nel medesimo tempo, un alcool secon- dario rispondente alla stessa formula veniva ottenuto da Semmler (?), trat- tando nello stesso modo un chetone isolato puro dall'olio essenziale di tana- ceto, ossia, riducendo il «tanacetone »; e, successivamente, « alcool tanace- tilico » veniva pure ottenuto dallo stesso Autore per riduzione del sabinolo con sodio e alcool amilico (*), e da Haller e Martine (*) per riduzione del tanacetone secondo il metodo di Sabatier. Non occorre poi dire che si è sco- perto alcool tanacetilico in diversi olii eterei, sia allo stato libero, sia sotto forma di eteri composti (acetico, isovalerianico, e, probabilmente, anche pal- mitico) (°); ed infatti, avuto riguardo alla diffusione del corrispondente com- posto chetonico, il tanacetone, lo stato naturale dell'alcool tanacetilico appare ovvio, essendo tale alcool, nell'attività fisiologica delle piante, semplicemente un precursore del tanacetone (°). Questi alcooli tanacetilici di diversa provenienza mostrano tutti le pro- prietà di altrettanti alcooli secondarî; p. es., ossidati con acido cromico, ri- generano tanacetone, ed il loro contegno è tale che ad essi, specialmente per le ricerche di Semmler (8), devesi attribuire la formula di struttura seguente : Hel 0H(CHo) = CHEOri N D H,C— O[CH(:CH.);] CH, (1) Lavoro eseguito nell'Istituto chimico-farmaceutico della R. Università di Roma. (2) Annalen, 272, 109 (1392). (*) Berichte, 25, 3344 (1892). (4) Berichte, 33, 1459 (1900). (5) Compt. rend. 740, 1298 (1905). (6) Schimmel & Co, Sch. 1897, I, 51; Jeancard e Satie, BI. III, 3/, 473 (1904). (7) Specialmente dalle osservazioni di Charabot (Compt. rend. /30, 923; BI. III, 23, 474, 1900) a questo riguardo risulta infatti, che, in generale, in una prima fase, nel pe- riodo, cioè, più rigoglioso dell’assimilazione e dell’accrescimento, ha luogo, nelle parti verdi della pianta, la formazione degli alcooli terpenici e di quei prodotti di trasformazione che si formano da essi per eliminazione di acqua (eteri composti, e terpeni). La forma- zione di aldeidi e di chetoni avviene in un secondo periodo dell’attività vitale, allorchè i processi respiratorî prevalgono su quelli di assimilazione. (8) Berichte, 25, 3344; 27, 895; 33, 275; cfr. inoltre W. Semmler, Die aetherischen Oele, III Bd. pag. 143 (1906). — 766 — Ma, dalla sola ispezione di questa formula, si comprende subito che vi può ossere tutta una serie di alcooli tanacetilici strutturalmente identici, e pur fisicamente isomeri. Una cosa simile può già prevedersi per il corrispondente composto chetonico, per il tujone, nel quale, secondo la formula di Semmler ormai generalmente accettata, sono contenuti ben tre atomi di carbonio asim- metrici : * HCO —T CH(CH;) —T C0 DI * N H.C Ta C[CH(: CH;):] ture CH; DS E infatti, da ricerche recenti di Wallach ('), risulta che in realtà esistono almeno due tanacetoni fisicamente isomeri, un @-tuJone, levogiro, ed un $-tujone, destrogiro; entrambi questi isomeri (che non sono nemmeno antipodi ottici) si accompagnano tanto nell’olio di tuja che in quello di tanaceto, con la sola differenza che nel primo prevale l’@-tujone, nel secondo il 8, ma l'uno e l’altro sono nettamente caratterizzabili dai rispettivi semicarbazoni, ed in parte anche reciprocamente trasformabili. In conseguenza di ciò, deve sembrare ovvio che un alcool tanacetilico il quale provenga indifferentemente, dalla riduzione dell’a- o del -tujone, sia una miscela di almeno due alcooli tuilici, uno levogiro, l'altro destro. giro, senza tener conto che nella riduzione si viene a formare ancora un atomo di carbonio asimmetrico. A parer mio, già i caratteri fisici dell'alcool tana- cetilico di varia provenienza avrebbero potuto suggerire un'idea simile. Così, ad es., i diversi Autori non dànno numeri coincidenti per la densità e per il punto di ebollizione, e la discrepanza è specialmente notevole per ciò che riguarda la deviazione ottica, avendosi infatti per il potere rotatorio dell'alcool tanacetilico valori discordi, oscillanti da un minimo [a] = + 459,97 (Kondakow, Chem. Zig. 26, 721 (1902), a un massimo [@], = 69°,49' (Tschugaefî, Berichte 33, 3118, 1900). Un fatto simile deve subito indicare che i varî prodotti, se anche esattamente rispondenti alla formula C,oHis0, non sono del tutto puri, e l’impurezza potrebbe, con ogni probabilità, essere rappresentata p. es. da un alcool isomero, anch'esso otticamente attivo, ma sinistrogiro, o meno fortemente destrogiro. Del resto, anteriormente alla ricerca testè cennata di Wallach, il Semmler (*) aveva già osservato che per ossidazione dell'alcool tanacetilico non si ritorna al medesimo tanacetone di partenza, bensì ad un isomero fisico di esso, con potere rotatorio più basso. L'Autore interpretò la sua osserva- zione supponendo nel prodotto di riduzione del tanacetone la coesistenza di (1) Annalen, 386, 247 (1904). (®) Berichte, 34, 708 (1901). — 0600 — alcooli tanacetilici isomeri, e questa ipotesi ha ricevuto poco tempo dopo, da più lati, una conferma sperimentale, specialmente dalle ricerche di Tschugaeff (') sui tujeni. Facendo agire sul sale sodico dell'alcool tanaceti- lico (dal tanacetone) solfuro di carbonio e joduro di metile, Tschugaeff ottiene un derivato xantogenico, come sciroppo un po’ colorato in azzurro, che non si può avere allo stato cristallizzato, e che deve però costituire un miscuglio di due xantogenati, perchè nella sua distillazione secca prendono origine due diversi idrocarburi terpenici (in cui è rimasto intatto il nucleo tanacetonico), un tanacetone levogiro (a), ed un tanacetone isomero destrogiro (#). Ad onta di ciò, nella letteratura dell'alcool tujlico non si trova men- zionato alcun tentativo diretto alla separazione dei due alcooli isomeri dai quali, per lo meno, dovrebbe risultare il prodotto di riduzione del tujone (il chetone dall'olio di tuja) e, rispettivamente, del tanacetone (il chetone dall'olio di tanaceto). Come è noto dalle esperienze di Arth col mentolo (?), e di Stephan col geraniolo (*), un metodo particolarmente adatto alla depurazione degli alcooli terpenici è quello che si vale della loro eterificazione con anidride ftalica. Dai ftalati (acidi), per saponificazione, si ricavano gli alcooli puri. Ora è curioso osservare che questo metodo trovasi indicato in Semmler (4) anche per l'alcool tanacetilico: volendosi — dice l'Autore — depurare in modo spe- ciale l'alcool tanacetilico, lo si deve trasformare in ftalato acido, ecc. Tut- tavia un simile etere non viene più oltre menzionato, ed anzi, a proposito degli eteri composti dell'alcool tanacetilico, Semmler osserva che essi non possono ottenersi in modo così semplice, come ad es. pel mentolo, per riscal- damento, cioè, dell'alcool con le anidridi; «si verificano nel caso dell'alcool tanacetilico delle reazioni secondarie, in quanto che gli agenti acidi provo- cano rotture del nucleo, ed inoltre si verifica facilmente eliminazione d'acqua, e per questo motivo gli eteri composti dell'alcool tanacetilico sono stati poco studiati ». In verità, come ebbi subito ad accorgermi in alcuni saggi preliminari, i caratteri dell'etere, o meglio degli eteri, così come essi si ricavano diret- tamente dal prodotto di riduzione del tanacetone trattato con anidride ftalica, invitano poco allo studio: il prodotto grezzo si presenta dapprima come massa semifluida, appiccaticcia, che solo per lungo riposo sotto acqua gradatamente indurisce (p. f. 70-80°), e che nemmeno allora si presta alla cristallizzazione, essendo molto solubile nella maggior parte dei solventi organici. Ciononostante, io sono stato del parere che a questa inattesa quanto sgradita complicazione dovevano contribuire non solamente i motivi indicati (1) Berichte, 33, 318; 34, 2276; 37, 1481 (1900-1904). (?) Ann. Ch. Phys. VI, 7, 483. (8) Journ. f. prakt. Ch. II, 60, 248. (*) Die aetherischen Oele, III Bd. pag. 134, 187. — 768 — in tesi generale da Semmler, ma altresì, e forse in modo precipuo, il fatto che l'alcool tanacetilico di partenza non è una sostanza unica, bensì una miscela di almeno due alcooli tujlici isomeri. In conseguenza, il prodotto di reazione con l'anidride ftalica deve necessariamente costituire una miscela, e una miscela per lo meno altrettanto complessa, costituita, cioè, da almeno due ftalati, analogamente come il derivato xantogenico ottenuto da Tschugaeff è da riguardarsi come un miscuglio di due xantogenati. Ragioni di analogia fanno però supporre, nel miscuglio dei ftalati, una notevole preponderanza dell'etere destrogiro, e per ciò il trattamento, 2 cui nelle mie successive esperienze ho sottoposto i ftalati anzidetti, consisteva in una serie sistematica di frazionamenti, i quali, da principio, erano solo delle precipitazioni frazionate, e in seguito, quando il prodotto era già meno impuro, erano addirittura delle cristallizzazioni reiterate. In questo procedi- mento serviva poi da criterio, come è naturale, non soltanto il punto di fusione del prodotto depurato, ma ancora il suo potere rotatorio. Come sarà più minutamente descritto in seguito, io sono giunto così ad un etere destrogiro dal p. f. 120°, che, non solo nella sua composizione corrisponde alla formula di un ftalato acido di tuile HOOC.C H,.C00C,o Hm, ma che deve, inoltre, considerarsi come sostanza unica, giacchè, comunque ricristallizzato, non muta affatto il suo punto di fusione, nè il suo potere rotatorio specifico. Per saponificazione di questo etere doveva ottenersi allora un alcool d. tanacetilico puro, e difatti l'alcool che io ne ho ricavato (per trattamento con potassa alcoolica), e che si differenzia subito dall'alcool di partenza per il suo potere rotatorio notevolmente più elevato [a], = +114°,677, possiede i caratteri di sostanza unica. Da esso, per trattamento con anidride ftalica, si perviene, senza formazione di prodotti secondarî, direttamente allo ttalato acido suddetto, fusibile a 120°, e, per ossidazione con acido cromico, ad un prodotto chetonico il quale deve essere puro B-tujone, giacchè con semicarbazide fornisce direttamente il rispettivo semicarbazone puro. Il procedimento da me seguìto si presta dunque assai bene all’ isolamento di un puro alcool tanacetilico destrogiro, ed una prova ulteriore che con esso è veramente realizzata la separazione del detto alcool da un isomero ottico, la si ha nei caratteri dell'etere ftalico che mano mano si lascia indietro nella depurazione del prodotto grezzo, finchè non si ottiene lo ftalato fusibile a 120°. Difatti, eliminando tutto il solvente dalle acque madri riunite (di pre- cipitazione e di cristallizzazione) dello ftalato acido suddetto, e saponificando il prodotto residuale, ormai incristallizzabile, si ricava un liquido bollente a 206-209°, il cui potere rotatorio specifico non è solo diverso da quello del predetto alcool d.tanacetilico puro, ma più basso anche di quello pos- seduto dall’alcool tuilico di partenza. Ora, poichè in questo nuovo prodotto, avuto riguardo alla sua provenienza, deve in parte essere contenuto anche l'alcool d.tuilico di [a], = + 114°,67’, così il suo potere rotatorio tanto — N09 — basso deve interpretarsi ritenendo che nello acque madri suddette si sia ac- cumulato mano mano tutto l'etere ftalico corrispondente ad un alcool tuilico meno fortemente destrogiro di quello da me caratterizzato, se pure non addi- rittura levogiro. Questo risultato è poi in perfetto accordo con quello a cui giunse Wallach nella ricerca sul tuione dall'olio di tanaceto, avendo potuto questo Autore dimostrare che la parte bollente a 200-202° dà un semicarbazone, che, so- stanzialmente è il semicarbazone del $-tuione. Similmente, nell'alcool tuilico proveniente dalla riduzione del tanacetone, con [@]o mai superiore a 69°,49" predomina, secondo la mia ricerca, l'alcool d.tanacetilico di [a ]p =-+114°,67, che potrà chiamarsi anche -tuilico, e per ciò, nel trattamento sopra descritto ‘con anidride ftalica, e nella precipitazione o cristallizzazione frazionata del prodotto grezzo, l'alcool isomero (che si potrà chiamare @«, senza per ciò pronunziarsi sul segno della sua deviazione ottica) resta mano mano indietro, come ftalato, nelle acque madri. Io spero di potere ben presto caratterizzare anche questo isomero, ser- vendomi — se sarà il caso — anche di altre anidridi, e a questo fine mi propongo di utilizzare come materiale di partenza non più il chetone dall'olio di tanaceto, bensì quello dall’olio di tuja ('). Chimica. — Sopra alcuni derivati di un alcool d-tanacetilico. Nota del dott. V. PaoLINI, presentata dal Corrisp. A. PERATONER. Materiale di partenza. — Dall'olio di tanaceto (*) venne isolato, at- traverso il composto bisolfitico, del tanacetone (*) bollente a 201°, e da questo, per riduzione con sodio e alcool etilico (‘), ricavai un alcool tana- cetilico che aveva i seguenti caratteri: p. eb. 206-209°; d20°= 0,925; ls = 146908 [[Mh = N40 Ftalato acido di B-tuile. — Dopo svariati tentativi diretti alla pre- parazione di un prodotto possibilmente puro, trovai che il seguente procedi. (1) Come ho già indicato, secondo le esperienze di Wallach, l’olio di tuja contiene sostanzialmente e-tujone, e quindi, teoricamente almeno, un alcool tujlico con forte pre- ponderanza dell’isomero ottico sopra cennato, dovrebbe ricavarsi appunto riducendo la frazione chetonica dall’olio di tuja; in pratica si dovrebbe però escludere almeno la ri- duzione con sodio ed alcool, giacchè, secondo le osservazioni di Wallach, l’e-tujone con potassa alcoolica è in parte trasformabile in f-tujone, e, per l'appunto, riducendo l’e-tujone con sodio e alcool, si avrebbe, secondo Wallach, un alcool tuilico, che, ossidato (con Cr 0,) fornisce sostanzialmente f-tujone. Io mi riserbo per ciò di ridurre l’@-tujone secondo il metodo generale di Sabatier. i (*) della Casa Schimmel & C°. Leipzig. (3) Semmler, Berichte 25, 3343 (1892). (4) Semmler, ibidem p. 3344-5. RenpICONTI. 1911, Vol. XX. 1° Sem. 101 ' Ce a — 770 — mento è il più opportuno. Gr. 10 di alcool tanacetilico, sciolti in 40-50 cme. di etere petrolico (p. eb. 60-70°), si riscaldano a ricadere con un leggero eccesso di sodio metallico in nastri (gr. 2 invece di gr. 1,5), per la durata di 12-16 ore, e dopo questo tempo la soluzione di tujlato sodico, decantata dall’eccesso di metallo, si fa gocciolare sulla quantità teorica di anidride ftalica (gr. 9,6) che è sospesa in 300-400 eme. di etere petrolico. Si agita energicamente, finchè l'aggiunta è completa, e si lascia quindi in riposo. Dopo 48 ore, si tratta il prodotto della reazione con 300-400 cme. di acqua lievissimamente alcalina per idrato sodico, e in tal modo si asporta, in forma di sale sodico, la massima parte dell'etere ftalico acido, assieme @ una piccolissima quantità di alcool tanacetilico inalterato. Il liquido alcalino si lava perciò dapprima con etere petrolico, e successivamente sì acidifica con acido solforico diluito. Esso diviene allora lattescente, e lascia separare ben presto una sostanza oleosa, gialliccia, che solo dopo prolungato riposo sott'acqua (per lo più 24 ore) sì rapprende in massa solida, il cui punto di fusione si eleva gradatamente fino a un massimo di 70-30°. Questo derivato ftalico dell'alcool tanacetilico è evidentemente un mi- scuglio di parecchi eteri, e, analizzato tal quale, non mi diede nessuna volta numeri buoni, e nemmeno sempre coincidenti. Del resto, potei subito osser- vare, che, sottoponendo tale derivato ai soliti processi di depurazione, ed applicando più volte la stessa tecnica ai prodotti successivi, il punto di fusione si elevava di alquanti gradi da un prodotto all’altro. Stante la note- vole solubilità del derivato ftalico grezzo nel maggior numero dei comuni solventi organici, trovai però preferibile effettuare le prime depurazioni scio- gliendo il prodotto nella quantità strettamente necessaria di benzolo, ed aggiungendo poscia, alla soluzione benzolica, un forte eccesso di etere di petrolio. Ripetendo un paio di volte questo trattamento si ottiene già un pro- dotto con punto di fusione sopra 100°, e, cristallizzando quest'ultimo da etere petrolico bollente, si ricava infine una bella sostanza, a ciuffetti di aghi bianchi, il cui punto di fusione, sito a 120°, ed il cui potere rotatorio spe- cifico [e], = + 919,27, non sì alterano nò per trattamento della soluzione benzolica concentrata con etere di petrolio, nè per cristallizzazione ulteriore da quest'ultimo solvente, o ancora dall'alcool. Tale sostanza diede all'analisi i numeri teoretici per un ftalato acido di tujle: Gr. 0,1842 diedero gr. 0,1234 di H,0 e gr. 0,4822 di CO.. Trovato Calcolato per CigHs04 Quo 138 71,52 He 7,43 7,27 Gr. 1,0956, sciolti in 100 cme. d'alcool assoluto, diedero, in tubo lungo 9 dm., ap = + 29,00, donde [a]. = 919,27". — 771 — In armonia con la composizione di ftalato acido stanno anche i risultati da me avuti nell'analisi di parecchi sali. Fialato di tujle e argento. — Dallo ftalato acido di tujle, e nitrato d'argento, dopo di aver neutralizzata la soluzione acquosa con la quantità teorica di ammoniaca. Precipitato bianco, voluminoso, che, allo stato secco, si scioglie prontamente in benzolo, e se ne separa per aggiunta di alcool metilico P. f. 85-36°. Gr. 0,230 di sale secco diedero gr. 0,060 di Ag metallico. Trovato Calcolato per Ag 00C.C; Hi COOCx0 Hi: Ag °/ 26,08 26,40 Ftalato di tujle e calcio. — Con acetato di calcio, dalla soluzione dello ftalato acido neutralizzata con ammoniaca; precipitato, che cristallizza dall'acqua bollente in piccoli e soffici aghi bianchi. Gr. 0,5182 di sale diedero gr. 0,0466 di Ca0. Trovato Calcolato per ca00C. CsHy. COO10 Hai Ca °/ 8,99 8,72 Ptalato di tujle e stricnina. — Da quantità equivalenti di etere ftalico acido e di stricnina, sciolte in alcool assoluto, per aggiunta di molto etere. Grossi aghi lucenti. Ricristallizzato dall'alcool diluito, e seccato nel vuoto sopra acido solforico, mostra il p. f. 177-178°. Gr. 0,2268 di sostanza diedero gr. 0,1454 di H,0 e gr. 0,6018 di CO,. Trovato Calcolato per Cs Hi (COOC,0 H17) (COOH. Co: Hga Ni 0a) CAO 02 73,0 Boo e 6,77 Gr. 1,7664 di sale, sciolti in 100 cme. di benzolo, diedero, in tubo da 2 dm., ap = 19,18, donde [a], = 360,78". Alcool B-tujlico. — Gr. 15 di puro ftalato acido di tujle, fusibile a 120°, furono sciolti in 70 cme. di potassa alcoolica, e la soluzione venne riscaldata una mezz'ora a bagnomaria. Dopo aver distillato la massima parte dell'alcool etilico, si diluì il residuo con molta acqua, e si scacciò il pro- dotto distillando in corrente di vapore. Questo nuovo alcool tujlico fu ben disseccato con carbonato potassico, e sottoposto quindi alla distillazione. Passò interamente a 206°. Liquido oleoso, limpido, di odore caratteristico: d=0,9229; n,16°=1,4625; @» (in tubo da 1 dm.) + 105,50’, donde [ep == Meo Trattando tale alcool con anidride ftalica, nel modo sopra indicato per il prodotto di riduzione del tanacetone, si ottiene direttamente lo ftalato acido puro sopradescritto; infatti, acidificando la soluzione alcalina con acido sol- forico, si precipita in questo caso una polvere cristallina bianca, che, lavata — 772 —- con acqua, o seccata nel vuoto, mostra il p. f. 120°. Questo nuovo alcool tujlico destrogiro è da considerarsi dunque come una sostanza unica, e ciò è ulteriormente confermato —- come già rilevai — da ciò, che il corrispon- dente chetone, ottenuto mediante acido cromico nel consueto modo, fornisce un semicarbazone, i cui caratteri sono quelli trovati da Wallach (*) per il puro semicarbazone del -tujone. P. f. 174-175°. Gr. 1,0816 di sostanza, sciolti in 100 cme. d'alcool assoluto, diedero, in tubo lungo 2 dm, @p —= 4°,46', donde [a] = + 220°. Botanica. — Sulla fioritura autunnale nell'Olea Euro- paea L. Nota del dottor O. CamPBELL, presentata dal Socio R. PIROTTA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Botanica. — sperienze sulla disinfezione delle piante. Nota dei dott. L. Danesi e M. Tori, presentata dal Socio B. GRASSI. Durante le ricerche sulla fillossera in Sicilia, abbiamo continuate le esperienze sulla disinfezione delle piante, intraprese da molto tempo da uno di noi (Danesi) all'Elba, alle Tremiti ed in parte anche nel laboratorio antifillosserico di Fauglia. Gli scopi principali che ci proponevamo erano: 1) esperimentare l’azione dei varî metodi di disinfezione sull'uovo d'in- verno (tali esperienze non erano state potute eseguire precedentemente per mancanza di materiale adatto); 2) esperimentare l'azione insetticida dei vapori della piridina, sulla quale uno di noi (Danesi) aveva richiamato l’attenzione, ed esperimentarne in pari tempo i suoi effetti sulla vegetazione. I metodi di disinfezione usati furono : 1°. l'immersione per cinque minuti nell'acqua a 55° C.; 9°. l'immersione, pure per cinque minuti, in una soluzione di solfato di rame all’1°/, alla medesima temperatura (DE (') Annalen, 326, 267 (1904). (2) Ambedue questi metodi sono stati oggetto da parte di Danesi di replicate espe- rienze, ed i risultati furono in parte pubblicati in una recente Nota comunicata alla R. Accademia dei Lincei. La soluzione di solfato di rame è stata anche esperimentata dal prof. Ruggeri, di- rettore dei vigneti sperimentali di Messina, che ne pubblicò i risultati nel Bollettino ufficiale del Ministero d’Agricoltura. De 779) — 3°, l'immersione per 12 ore in una soluzione di solfocarbonato di po- tassio al 3 °/ e sapone nero all'1°/, consigliata dalla Stazione viticola di Losanna; 4°. l'esposizione ai vapori della piridina. Una prima serie di esperienze ebbe per iscopo di provare se alcuno di ‘ questi metodi avesse un'influenza dannosa sulla vegetazione delle talee 0 delle barbatelle. La disinfezione con l’acqua calda venne fatta con l'apparecchio ideato da uno di noi, e furono confermati gli ottimi risultati, già precedentemente ottenuti con questo apparecchio, semplice e pratico. Tanto con l’acqua calda quanto con la soluzione di solfato di rame l'at- tecchimento delle barbatelle disinfettate fu del cento per cento; le talee, come nelle esperienze precedenti, non mostrarono una resistenza così completa pur essendo attecchite, comparativamente a quelle che non subirono alcun trattamento, in percentuale elevatissima. Con la soluzione di solfocarbonato di potassio e sapone, l’attecchimento delle barbatelle fu pure ottimo; le talee invece attecchirono in piccola parte. Nelle esperienze pubblicate dalla Stazione viticola di Losanna, che ha con- sigliato il metodo, non risulta che siano state fatte esperienze con talee. I vapori della piridina si mostrarono affatto innocui per l'attecchimento delle talee e delle harbatelle; se però la loro azione si prolunga oltre le dieci ore, provoca un debole attecchimento, specialmente delle talee: tuttavia alcune talee attecchirono nonostante che fossero state lasciate esposte ai va- pori della piridina per due intere giornate. a) Disinfzzione dell'uovo d’inverno. — Nelle esperienze di disinfe- zione, quando trattasi di agire contro uova — specialmente se di queste non è prossima la schiusura, e la valutazione dell'efficacia di un dato metodo deve quindi limitarsi all'esame delle alterazioni che il metodo stesso produce sulle uova — devesi tener conto che le uova restano per un certo tempo apparentemente immutate. Si potrebbe così concludere che nessun trattamento riesce efficace, quando in realtà l'embrione potrebbe essere stato ucciso. L'uovo d'inverno mostra, a questo riguardo, una resistenza grandissima ad alterarsi. Nelle prove fatte nell'inverno dell’anno scorso, trattando con i varî metodi di disinfezione dei pezzi di corteccia carichi di uova d'inverno, ab- biamo notato che, in ambiente adatto (capsule di Petri), le uova si man- tengono turgide, brillanti ed apparentemente affatto inalterate, anche dopo un mese. D'altra parte, se si conservano all'aria aperta delle lamine di corteccia od anche dei ceppi tagliati — senza alcun trattamento — portanti uova —_ 7704 — d'inverno, queste non tardano a mostrare delle larghe depressioni e finiscono col disseccare. Ai primi di aprile, cioè all’epoca della schiusura dell'uovo d'inverno, esperimentammo con ceppi di Rupestris du Lot, tagliati al colletto e carichi di nova d'inverno (!). I ceppi, paraffinati sulla superficie di tagliatura, furono messi separatamente in appositi bottiglioni, turati con cotone. Una parte, per controllo, non ebbe alcun trattamento. Nei giorni successivi veniva esa- minato il cotone, che turava i bottiglioni, e ciascun ceppo. Sui ceppi testimonî furono trovate, a più riprese, numerose neonate. Sui ceppi trattati con acqua a 55° e su quelli trattati con la soluzione di solfo-carbonato e sapone nessuna neonata schiuse. Con la piridina furono fatte diverse prove, variando la quantità di pi- ridina adoperata e la durata dell'esposizione. La temperatura dell'ambiente era ‘di 169-1w0% La dose massima della piridina fu del '/» °/oo (cc. 3 in un vaso della capacità di 1. 6). Con le dosi inferiori a questa e fino ad un tempo massimo di due ore, si trovarono nei vasi neonate vive. Con la dose massima, dopo aver esposto i ceppi ai vapori della piridina per un'ora, si trovarono neonate vive; sui ceppi invece così trattati per due ore, furono trovate soltanto due neonate, che erano morte appena uscite dall’uovo. L'azione dei vapori della piridina non era stata dunque letale per tutti gli embrioni, ma, ciò non ostante, le pochissime neonate che uscirono dall'uovo non erano vitali. Le uova d'inverno, tenute esposte ai vapori della piridina per due ore, dopo qualche tempo sì depressero ed arrossarono; quelle espostevi per un tempo minore, in parte si conservarono turgide e brillanti o schiusero, in parte arrossarono. Concludendo: in queste esperienze si ebbe la totale distruzione dell'uovo d'inverno : 1°) con l’immersione in acqua alla temperatura di 55° per cinque minnti ; 2°) con l'immersione in una soluzione di solfocarbonato di potassio al 3 °/ e sapone all'1°/, per 12 ore. 3°) Con l'esposizione ai vapori della piridina per due ore al 50 coi risultato fu praticamente ottimo, ottenendosi, se non la completa distruzione dell’uovo d'inverno, la morte delle poche neonate schiuse. Queste esperienze ci avevano però lasciato il dubbio che, disinfettando in inverno, a distanza cioè dall'epoca di schiusura dell’uovo d'inverno, i risul- tati potessero essere diversi. (1) Questo materiale ci fu cortesemente favorito dal sig. Girolamo Proto, gestore della Ditta Zerilli-Lucifero di Milazzo, proprietaria di vasti vivaî di viti americane. — 775 — Abbiamo voluto perciò ripeterle quest'anno, esperimentando con piante di 5-6 anni di età, cariche di uova d'inverno (!). Disgraziatamente, per la difficoltà di procurarsi il materiale adatto, dovemmo limitarci ad esperimen- tare soltanto l'azione dell’acqua calda e su di un piccolo numero di piante. In seguito notammo la presenza delle galle tanto sulle viti disinfettate, quanto su quelle non disinfettate. Questa esperienza, che rende dubbia l'efficacia della disinfezione del- l'uovo d'inverno col metodo dell’acqua calda, ha però bisogno di ulteriori conferme, eseguite con un numero maggiore di piante ed in modo da poter escludere assolutamente qualsiasi causa d'errore. Aggiungiamo anche che la disinfezione è stata fatta con acqua a 53°: dalla recente pubblicazione di uno di noi risulta che si può, senza danno per la vegetazione, innalzare la tem- peratura dell’acqua fino a 56°-57°. Ulteriori esperienze potranno decidere definitivamente il problema. b) Disinfezione delle radicicole. — In estate esperimentammo l'azione dei medesimi insetticidi sulle fillossere radicicole. Furono adoperate radici di varie dimensioni, piene di fillossere in ogni stadio. Le radici, dopo il trattamento, venivano poste separatamente in tubi di vetro, riempiti parzialmente di terra umida e turati con cotone, nel quale sarebbero rimaste impigliate le radicicole che avessero abbandonato le radici ; i tubetti venivano infine avviluppati nella carta. Il 24 agosto fu esperimentata l’azione dei vapori della piridina, alla dose del !/, °/o. La temperatura dell'ambiente era di 27° C. Una parte delle radici fillosserate non ebbe nessun trattamento e fece da testimone. Alcune radici furono esposte ai vapori della piridina per mezz'ora, altre per un'ora, altre per due ore. Alcune radici vi furono lasciate fino ad ottenere l'immediato arrossamento delle uova di radicicola, che cominciò, alla tempe- ratura e nelle condizioni in cui operavamo, dopo cirea sei ore; ciò, s'intende non significa affatto, come del resto risulta dagli esperimenti, che occorra questo tempo per uccidere l’embrione. Le fillossere, esposte per mezz'ora ai vapori della piridina, non sembra- rono aver molto sofferto; esaminate immediatamente si notava un certo in- torpidimento nei loro movimenti, scarsa vivacità di reazione agli stimoli esterni. Nei giorni successivi riacquistarono però la loro piena vitalità. Le radicicole che ebbero lo stesso trattamento per un'ora, si mostrarono subito in gran parte arrossate; anche fra quelle che si conservarono gial- (1) Queste esperienze sono state eseguite dal sig. Nardinocchi, assistente della R. Cantina sperimentale di Milazzo, con l’aiuto e la cooperazione del direttore prof. Rug- geri, ai quali porgiamo i nostri vivi ringraziamenti. — 7760 — lastre, solo qualcuna — non neonata — reagiva con qualche leggero movi- mento delle zampe. Nei giorni successivi morirono tutte. Lo fillossere infine tenute ai vapori della piridina per due ore, divennero quasi totalmente, e subito, color feccia di vino. Le uova, come è detto sopra, si conservarono giallastre, ma non schiusero. Gli ottimi risultati ottenuti in questo esperimento, anche con la espo- sizione ai vapori della piridina per un'ora solamente, debbono probabilmente attribuirsi all'alta temperatura (27° C.), alla quale l'esperimento fu eseguito. Un secondo esperimento fu eseguito il 6 settembre. Venne sperimentata l’immersione in acqua a 55° per cinque minuti, l'immersione nella soluzione di solfocarbonato di potassio e sapone per 12 ore, l'esposizione ai vapori della piridina per un'ora, per due ore, per tre ore e mezza e per sette ore e mezza. In questo esperimento fu fatta attenzione che su tutte le radici si trovassero delle uova, e furono adoperate anche delle grosse radici, su cui le fillossere avrebbero potuto trovare miglior riparo contro l’azione dell’insetticida. La temperatura dell'ambiente era di circa 24° C. Immediatamente dopo il trattamento, nessuna alterazione si nota nelle uova, con alcuno degli insetticidi adoperati. Con l’acqua a 55° e con la soluzione di solfocarbonato e sapone, nep- pure le fillossere cambiano subito di colore. Con i vapori di piridina, dopo due ore le radicicole arrossate sono poche; dopo tre ore e mezza lo sono tutte le neonate e quelle nei primi stadî; dopo un tempo maggiore solo le uova restano giallo-verdastre. Riesaminati i tubetti e ciascuna radice dopo due giorni fu notato che sulle radici trattate con l'acqua a 55° le fillossere erano tutte arrossate, come pure la maggior parte delle uova; qualcuna di queste sì presentava ancora di un giallo torbido, opaco. Sulle radici trattate col solfocarbonato e sapone erano ancora gialle le fillossere e le uova, ma gl’'insetti erano immobili; le radici immerse in questa soluzione restano bagnate di un liquido saponoso, nonostante un brevissimo lavaggio in acqua, dopo il trattamento. Con i vapori di piridina, sulle radici che ebbero un trattamento di un'ora, vi erano fillossere vive e vitali; su quelle trattate per due ore lo fillossere erano arrossate solo in parte; quelle trattate per un tempo mag- giore lo erano in totalità; però anche sulle radici esposte ai vapori della piridina per tre ore e mezza, le uova si conservavano ancora gialle. Dopo quattro giorni dal trattamento, tutte le uova sulle radici immerse nell'acqua a 55° erano arrossate; quelle sulle radici immerse nella soluzione di solfocarbonato e sapone erano ancora gialle. Sulle radici esposte ai vapori della piridina per due ore, vi eran delle fillossere che, eccitate, agitavano le zampe; su quelle trattate per tre ore e mezza le uova erano ancora gialle. — 7707 — Dagli esami successivi risultò che, eccetto che con la esposizione ai vapori della piridina per un'ora, le fillossere furono tutte uccise e nessun uovo schiuse. È inutile aggiungere che sulle radici lasciate come testimonî e su quelle esposte ai vapori della piridina per un’ora solamente, si notavano anche il 22 settembre, fillossere vive in ogni stadio. Concludendo, dagli esperimenti risultarono pienamente efficaci: 1) l'immersione per cinque minuti in acqua alla temperatura di 55°; _ 2) l'immersione per dodici ore in una soluzione di solfocarbonato di potassio al 3 °/ e sapone nero all’1/,. 8) La esposizione ai vapori della piridina al !/» ®/so, con una tem- peratura dell'ambiente di almeno 20°, durante due ore, è sufficiente per ucci- dere, se pure non immediatamente, le fillossere che si trovano sulle radici. c) Esperienze sull'azione dei vapori della piridina sulla fillossera gal- lecola. — Richiamando l’attenzione sull'azione insetticida della piridina, uno di noi (') ha rilevato l’importanza che questa potrebbe assumere nella lotta contro certi parassiti. come i 7r%ps, le Cocciniglie ece., che infestano le più importanti piante coltivate. Abbiamo pensato perciò di fare alcune prove con la fillossera gallecola, al solo scopo, beninteso, di confermarne l’azione insetticida e di esperimentare la praticità della sua adozione. Premettiamo anche che, trovandosi la gallecola, ad eccezione delle neo- nate, racchiusa entro galle, l'azione dei vapori della piridina deve, per ciò solo, essere almeno più tardiva di quello che non sarebbe agendo su insetti vaganti sui rami e sulle foglie. Gli esperimenti vennero fatti capovolgendo un grosso vaso di vetro sulla parte superiore di tralci molto infetti; entro il vaso si poneva la piridina, in un piccolo recipiente; l'adesione al terreno era ottenuta con cotone. La piridina fu adoperata alla stessa dose del 1/» °/,0, variando il tempo della esposizione. Notiamo subito che i vapori della piridina, solo dopo un'azione di circa 20 ore cominciano a provocare delle scottature al margine delle foglie; ma agendo anche per sette od otto ore su tralci viventi, come nei detti esperi- menti, la vegetazione non ne è affatto danneggiata. Gli esperimenti furono numerosi, eseguiti a distanza di tempo l'uno dall’altro, per provare anche la efficacia dell’insetticida alle diverse tem- perature. Anche da questi esperimenti risulta la diversa efficacia dei vapori tossici a seconda che si agisca su uova o su larve. (*) Danesi, sperienze sulla disinfezione delle piante, in Rendiconti della R. Acca- demia dei Lincei (18 Nota). RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 102 i cen e \ o €€mrrcrpTrr +, _yvsir seo ego... — 178 — Operando su tralci vegetanti gravemente infetti di fillossera gallecola, dopo un'esposizione ai vapori della piridina di tre o quattro ore, a seconda della temperatura, si ha la morte, immediata o no, di tutte le larve: neo- nate, gallecole in via di sviluppo, madri. Gli effetti ottenuti contro le uova non furono sempre eguali: le diffe- renze dipendono dal modo di esperimentare, agendo cioè su tralci vivi o su foglie tagliate e poste entro il recipiente dove si sviluppano i vapori; @ seconda che si tratta di galle giovani o vecchie, cioè ben chiuse o semiaperte ; a seconda anche dello stato di sviluppo dell'embrione. Le uova prossime & schiudere arrossano, oppure si conservano brillanti e gialle ma non schiudono. Le altre invece non soffrono nemmeno prolungando l'esposizione fino a sei-sette ore; l'infezione sui tralci vegetanti è continuata per opera delle gallecole che sono schiuse da queste uova: entro le galle rimanevano infatti i cadaveri delle gallecole e le uova prossime a schiudere all'epoca dell'esperimento. Operando alla fine di ottobre su foglie con galle, staccate dalle piante, anche dopo una esposizione ai vapori della piridina per due sole ore, le larve morivano tutte e le uova non schiusero, rimanendo gialle, turgide e brillanti, come avanti l'esperimento, per molto tempo. Aumentando la durata della esposizione, il numero delle uova che rimanevano inalterate diminuiva. Dagli esperimenti fatti sui tralci vegetanti, risulta dunque: 1) che i vapori della piridina sono innocui per la vegetazione, anche se la pianta vi è esposta per sette od otto ore; 2) che i vapori della piridina sono letali per le larve, agendo alla dose del !/: °/» per circa tre-quattro ore; incompleta è invece la loro effi- cacia contro le uova, specialmente se queste trovansi ben riparate. Patologia. — Sulla presenza di Leishmanie nel liquido ce- falo-rachidiano di un bambino affetto da Kala-Azar. Nota preven- tiva del dott. Francesco La CAVA, presentata dal Socio B. GRASSI. Il caso di cui riferisco riguarda un bambino di quattro anni, Rocca Vincenzo da Bovalino, del quale fu fatta comunicazione da me al 20° Con- grosso di Medicina Interna (Roma 22 dicembre 1911). Questo bambino rico- verato poi nella Clinica Medica di Roma fornì materiale per la cultara delle Leishmanie al Visentini (*). Successivamente, essendo l’infermo tornato a Bo- valino, fu da me sottoposto a nuova puntura splenica il 5 marzo 1911, e il materiale estratto fu in parte innestato in tubi di agar Novy-Neal-Nicolle che furono inviati da me al Gabbi (*), e in parte servì ad allestire dei pre- parati per strisciamento. (*) Basile e Visentini, Rendic. Acc. Lincei, vol. XX, serie 5, sem. 1, fasc. 8. (9) Franchini, Malaria e Malattie dei Paesi caldi, marzo 1911. — 779 — Il numero dei parassiti che nelle prime punture era stato riscontrato veramente imponente, in seguito andò diminuendo, tanto che nell'ultimo esame (5 marzo 1911) i parassiti erano scarsi. Frattanto le condizioni dell’infermo andarono aggravandosi, e comparve nella sindrome morbosa un fatto nuovo, cioè l’ impossibilità di reggersi in piedi e di camminare. Fu perciò che io, dando pratica attuazione ad una idea del Gabbi, il 6 aprile 1911 eseguii la puntura lombare estraendo circa 7 centimetri cubici di liquido limpido. Non essendo io fornito di centrifuga ho lasciato riposare il materiale per 24 ore in tubo di vetro sterile ad estremità affilate e mantenuto ver- ticalmente. Col liquido raccolto dall'estremità inferiore del tubo ho eseguito dei preparati per strisciamento che ho fissati in alcool metilico e poi colorati col metodo di Giemsa. All'esame dei preparati ho osservato l’esistenza di numerose forme di Leishmania costituite da un protoplasma colorato in azzurro pallido più in- tensamente alla periferia quasichè ivi fosse ispessito. Il contorno del paras- sita talvolta è netto, tal'altra irregolare. Nell’interno si nota un nucleo for- nito di una massa cromatica più intensamente colorata, talora centrale e nel maggior numero dei parassiti eccentrica. In qualche forma però appare che questa massa cromatica stia per fuoriuscire dal nucleo, e in altre sembra addirittura staccata dal nucleo stesso. Nel protoplasma si osserva, nel maggior numero dei parassiti, un blefa- roblasto più intensamente colorato del nucleo; esso trovasi quasi costante- mente alla periferia del plasma, o più raramente fuoriuscito da questo. To credo opportuno richiamare l’attenzione sopra questo importante re- perto, la presenza cioè di Leishmanie nel liquido cefalo-rachidiano, in quanto esso può costituire un metodo diagnostico di grande valore specialmente quando la puntura splenica riuscisse negativa. È degno di speciale menzione il fatto che i parassiti, abbondantissimi nel succo splenico ai primi esami, nelle punture successive divennero sempre più rari, mentre erano abbondanti nel liquido cefalo-rachidiano. Sul significato di questa osservazione e sulla morfologia delle forme da me suddescritte io credo mantenere per ora un prudente riserbo; ricordo però che il Basile (!) tra le manifestazioni cliniche della Leishmaniosi nel cane ha segnalato una sindrome nervosa rappresentata da disturbi motorii del treno posteriore, che io credo di potere avvicinare ai sintomi presentati dal mio infermo. (') Basile, Rendic, Acc. Lincei, novembre 1910, — 750 — Fisiologia. — Sull’asione della lipasi pancreatica. Contributo alla biologia degli enzimi. Nota di Saparo Visco, presentata dal Socio L. LUCIANI. Tra gli enzimi attivi della digestione contenuti nel succo pancreatico, merita speciale importanza quello lipolitico, sia perchè è il meno conosciuto (*), sia per le difficoltà non lievi che presenta a chi ne voglia intraprendere lo studio a causa della sua estrema labilità, sia per l' impossibilità di poterlo isolare. La sua azione consiste nello scindere i grassi neutri in acidi grassi e glicerina, e quest'azione molto importante per il compiersi della digestione e dell'assorbimento del grasso, si esplica în vitro in misura molto notevole, e rapidamente. Ora, se si studia il modo di svolgersi dell'attività lipasica, dosando di tempo in tempo la quantità di acido grasso che si mette in libertà dal gliceride preso in esame, si nota ch'essa non si esplica in modo uniformemente eguale nel tempo, ma che (come nella maggior parte delle altre azioni enzimatiche) va gradatamente diminuendo, sino ad apparire com- pletamente arrestata; 0, per meglio dire, sino a non fare osservare più nel- l'emulsione del gliceride con la steapsina alcun aumento di acido grasso libero. Avendo avuto agio di osservare ripetutamente questo fenomeno ho cre- duto meritare il prezzo dell’opera lo studiarne più intimamente il meccane- simo e le leggi che lo governano. Il Naegeli (?) ed altri, che si sono occupati della natura dell'azione degli enzimi, ammettono che questa sia un'azione catalitica, nella quale le sostanze attive della digestione non avrebbero una partecipazione di natura chimica. Gli enzimi trasmetterebbero alle molecole delle sostanze dissociabili, in generale assai labili, delle vibrazioni tali da disturbare e distruggere l'equilibrio dei gruppi atomici che le costituiscono. La causa di ciò starebbe in una differenza nel numero o nella forma delle vibrazioni atomiche intra- molecolari della sostanza enzimatica e della sostanza disintegrabile, e in una tendenza ad equipararsi delle due specie di vibrazioni; per cui, gli atomi della sostanza decomponibile sollecitati dalle vibrazioni più rapide della sostanza dell'enzima, e coll’aiuto di una temperatura conveniente verrebbero a disgcegarsi prendendo un altro stato di equilibrio. (1) Bottazzi, Chimica fisiologica, vol. II, pag. 388, Milano 1902. (*) V. Naegeli, C. Theorie der Gihrung, Munchen 1878, citato da Bottazzi, Chimica fisiologica, vol. I, pag. 425, Milano 1902. — 781 — In altre parole, questa forma d’energia senza determinare vere combi- nazioni chimiche, scuoterebbero la struttura molecolare della sostanza, deter- minandone la scomposizione. Ora, se questa è, secondo l'ipotesi più accettata, la natura dell’azione degli enzimi, per quale ragione questa forma d'energia che scuote la strut- tura molecolare delle sostanze decomponibili, non potrebbe più esplicarsi in determinate condizioni? Molte ipotesi possono a questo proposito farsi. Anzitutto potrebbe supporsi che l'enzima lipasico il quale è estrema- mente labile, vada successivamente alterandosi sino a perdere completamente ogni sua attività. Infatti, già molti autori (') hanno dimostrato che basta una breve permanenza in termostato a 40° perchè la steapsina pancreatica perda ogni sua attività lipasica, ed io, in una precedente Nota (?) oltre che portare un ulteriore contributo alla conoscenza di questo fenomeno, ho fatto notare che la labilità dell'enzima lipolitico del succo pancreatico si mani- festa, sebbene più lentamente, anche a temperatura ambiente. Veramente nella stessa Nota dimostrai pure, che, similmente a quanto per la tripsina era stato dimostrato da Dastre e Stassano (*), quando il succo pancreatico sì trova ad agire sul gliceride, il suo enzima lipolitico appare protetto contro l'azione del calore; però, dato che le osservazioni si limitarono ad un tempo massimo di permanenza in termostato a 40° dell’emulsione del succo con olio, di 16 ore, non posso escludere che questa azione dissolvente del calore non si faccia sentire nell'enzima preso in esame, in modo da farcelo sem- brare privo di ogni attività digestiva dopo qualche giorno. Potrebbe anche supporsi che la perdita di ogni attività idrolizzante dell'enzima fosse soltanto apparente, perchè, raggiunto un certo stato di equilibrio nel sistema, la steapsina favorisca un processo inverso, sintesi dell'acido grasso con la glicerina, in modo da mascherare la fase di scissione (‘). E infine, come affermano alcuni (*) potrebbe ammettersi che l’accumu- (1) Beebe, On the influence of heat on Enzymes. American Journal of Physiology, 1902; Hanriot et Camus, Action de la temperature sur la lipase du sérum d’animaua è sang froid. Comptes rendus de la Société de Biologie, 1901; Dastre et Stassano, Sur les facteurs de la digestion teipsique. Comptes rendus de la Société de Biologie, 1903; Émile P. Terrain, Zur khenntnis der Pettspaltung durch Pankreassaft. Biochemische Zeitschrift, 1910. (?) Visco Sabato, Contributo alla biologia degli enzimi. L'azione del calore sulla lipasi ed amilasi del succo pancreatico. Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, vol. XIX, 1910, pag. 597. (°) Dastre et Stassano, Sur les facteurs de la digestion teipsique. Comptes rendus de la Société de Biologie, 1903. (*) Hauriot, Sur la réversibilité des actions diastasiques. Comptes rendus de la Société de Biologie, 1901. (5) Bottazzi, Chimica fisiologica, vol. II, Milano 1902; Emile P. Terroin, Influenza della reazione del mezzo sulla lipasi. Comptes rendus de la Société de Brologie, LXVIII, 1910. — 732 — larsi dei prodotti di scissione, impedisse all'enzima di sviluppare tutta la sua attività, por un semplice, por quanto oscuro, processo d'inibizione. Le ricerche che qui sotto espongo tendono a chiarire questo problema o a dimostrare quale delle due ipotesi sopra esposte sia la più atten- dibile. Tecnica. — Ponevo in termostato 2 40° un determinato numero di provette con 1 cm.e. di succo pancreatico e 2 cm.e. di olio di mandorle dolci (trioleina quasi pura) e seguivo poi passo passo l’azione dell'enzima lipolitico, misurando con soluzione alcoolica di Na 0H jg la quantità di acido grasso liberatosi, sino a quando questa non apparisse costante. Allora, ad un certo numero di provette aggiungevo nuovo olio (2 cm.c.) | e ad altre nuovo succo (1 cm.c.), fresco raccolto nelle stesse condizioni di prima, e dopo un certo numero di ore misuravo la quantità di acido grasso liberatosi. Riporto qui sotto due delle esperienze da me fatte. TavoLa I. E Ì Provette con 1 cm.c. di succo © Provette alle quali si è aggiunto Provette alle quali sono stati ag- { | Il 2 em.c. di olio (1) 1 cme. di succo fresco giunti 2 em.c. di olio DI o Potere Doro os di Potere | Dopo le seguenti ore | Potere | RITO lipolitico So lipolitico | dall’addizione di olio | lipolitico | 8 16.7 — — — —_ 6 15.5 — — — — 9 17.1 — — — — 20 23.0 = — -— _ 23 (3) 23.5 — È A De 26 22.1 3 28.2 3 26.5 32 24.7 io 24.7 9 26.7 44 25.1 21 38.5 21 32.5 49 23 26 _ 26 81 72 24 — — — = 93 25 _ — —_ — (*) Si mettono in termostato a 40°, 40 provette con 1 cm.c. di succo pancreatico, e 2 cm.c. di olio di mandorle dolci. (3) Dopo 23 ore ad alcune delle provette messe in termostato si aggiunge 1 cm.c. di succo pancreatico fresco, e ad altre si aggiungono 2 em.c. di olio di mandorle dolci. N. B. — Nel corso di questa esperienza tutte le provette sono state più volte scosse, affinchè i liquidi messi a contatto si trovassero sempre bene emulsionati. — 788 — TaAvoLa II, Provette alle quali è stato aggiunto 1cm.c.di succo fresco Provette alle quali sono stati aggiunti 2 cm.c. di olio Provette con l’aggiunta di succo alla quale se ne è aggiunto ancora 1 cm.c. Provette con 1 cem.c. di succo e 2 cm.c. di olio (1) Dopo le seguenti Dopo le seguenti Dopo le seguenti Dopo le seguenti ore ore di perma-| Potere ore dall’addi- | Potere ore dall’ addi- | Potere dalla 2% addizione Potere nenza intermo- [lipolitito] zione in nuovo |lipolitico| zione di nuovo lipolitico| di sneco lipolitico stato succo olio =-—,=--==*=@ leciti, | 2 Si E 16() | 22 Di sh da ca | SY Di 23 21.5 7 26.5 7 20.5 i De 40 26 24 32.5 24 26 - — 64 25.5 48 34.5 48 28 = - 90) | 26 74 37 74 30 sO - 114 28 de de 98 33.5 24 43 138 27.5 e se 122 34 48 45 162 = = ne 146 34 72 50 Dalle osservazioni fatte risulta che: 1) aumenta la scissione del grasso neutro quando si aggiunge nuovo secreto pancreatico fresco ad una di quelle provette nelle quali il primitivo secreto mostrava di non esser più capace di far progredire ulteriormente la digestione dell'olio di mandorle dolci ; 2) aumenta pure, ma non sempre, ed in misura limitata, la quantità assoluta di acido grasso libero, mentre diminuisce quella percentuale, quando nuovo olio si aggiunge ad un campione nel quale si era arrestato lo sviluppo dell'acido grasso. Da questi risultati si può concludere che: se non si riesce più ad av- vertire aumento di acidriti per opera del succo pancreatico agente su grasso neutro, dopo un tempo più o meno lungo di permanenza in termostato, ciò non dipende da che l'enzima siasi distrutto, e neppure perchè esso abbia condotto alla scissione alla quale potrebbe virtualmente condurre se conser- vasse sempre la sua energia eguale a quella che possiede in principio, ma perchè la sua attività è stata modificata. (*) Si mettono in termostato a 40°, 40 provette con 1 cm.c. di succo pancreatico e 2 cm.c. di olio, (®) Dopo 16 ore ad alcune delle provette tenute in termostato si aggiungono 2 em.e. di olio di mandorle dolci, e ad altre 1 cm.c. di succo pancreatico fresco. (°) Dopo 90 ore alle provette rimaste di quelle alle quali dopo 16 ore era stato aggiunto 1 em.c. di succo, se ne aggiunge ancora un altro cm.c. pure fresco. N. B. — Nel corso di questa esperienza le provette sono state spesso scosse, affinchè i liquidi messi a contatto si trovassero sempre bene emulsionati. — 784 — La seconda parte di queste mie ricerche si riferisce all’ influenza eser- citata dalla bile sul succo pancreatico. Molti autori si sono occupati di questo argomento specialmente dopo che Bruno (') dimostrò per la prima volta nel 1398 la proprietà della bile di attivare quantitativamente l'azione steatolitica del succo pancreatico (venti e più volte). E. A. Canicke (2) nel 1901 non solo osservò lo stesso fatto conferman- dolo, ma affermò pure che la bile contribuisce a diminuire la labilità della steapsina del pancreas. O. von Firth e J. Sehutz (*) affermarono in seguito che l'attività lipa- sica del secreto pancreatico può essere portata a 14 volte il suo valore quando si trova ad agire in presenza di bile, e A. S. Loewenhart e C. G. Souder (*) confermarono nel 1907 le osservazioni degli autori sopra citati. Negli anni 1908 e 1910 questi studî furono ripresi da Bonanno (°) e da E. P. Terroin (9), ed ambedue questi sperimentatori portarono un ulteriore contributo affermativo alle precedenti ricerche fatte sull'argomento. Non tutti però confermarono dal punto di vista quantitativo questi risultati. Glisser ad esempio vide che la bile (umana) aumenta di poco l'attività lipasica del succo pancreatico. Osservazioni di Bompiani eseguite in questo laboratorio @ che gen- tilmente mi sono state comunicate dall'autore, dimostrano, con ricchezza di dati, che la bile esercita un'azione molto cospicua, anche superiore a quella da altri avvertita, se messa a contatto di secreti poco lipasici, ed invece poco energica se messa @ contatto di succhi molto lipasici. Ora, stando così le cose, mi proposi di conoscere il grado di scissione del grasso neutro a cui può far giungere il solo succo pancreatico, sia quando esso può spingere la sua azione al massimo per un lungo contatto con le sostanze da scindere, sia quando dopo un certo tempo si aggiunge ad esso nuovo succo fresco, e di paragonare questo grado di scissione a quello che si può avere, sia dall'azione su qualche gliceride di un miscuglio di succo e bile, sia dall'addizione di bile ad un succo attenuato nella sua attività lipasica da una prolungata azione sul grasso neutro. (1) Bruno, Za dile comme, agent important de la digestion, Th. inaug. de Saint- Pétersbourg 1898. Arch. d. Se. biol. VII. 1 et 2 1899. (®) E. A. Canicke, Des conditions physiologiques de la destruction et de la conser- valion des ferments dans le suc panoréatique. Gazzette Chimique de Botkin, vol. XII, 1901. (*) O. von Firth und J. Schutz, Veber den Einfluss der Galle aus des fut und einwerspaltenden des Pankreas. Deutsche medicinische Wochenschrift, vol. IX, 1906. (4) A. S. Loewenhart and C. G. Souder, On the effect of bile upon the hydrolysis of estery hy pancreatic juice. Journal of biolog. chem. II, 1907. (5) G. Bonanno, Ricerche sperimentali su taluni fermenti della bilé. Archivio di farmacologia sperimentale e scienze affini, VII, 1908. & (6) Émile P. Terroin, Action des sels biliaires sur la lipase pancréatique. Comptes rendus de la Société de Biologie, LXVII, 1910. auaq eIdwas 0IOSSEAOI} IS 0]EZUOO © Isso Ipmbr] T quougge assoos ossods ogegs ouos aggosoId e] ezueriodso egsonb OuIoo 0}Ep oUUtI 210 96 odop aqeutwESa OTTO IP ‘o*wd g a 0oreasoued 0990nS Ip ‘outo g 1sseu1 ouoImz 27uewqeiziui menb OI ‘tp euoIrspumo Ip osto ION — ‘9 N ‘enmuso 10d 7 HO®N IP wo gg corpodi] 219904 eqpns 2904014 ong (e) ‘00S9IF 000Ns Ip “o'W9 ] aSunISTE IS oltq a 090ns orgo uoo olfenb è odwg 0ss09s OITON “aIIQ IP ‘o'uto T 21}]e pe ‘o}epuos 09saIJ 000ns IP ‘o*WU9 QIIe pe ‘orto Ip ‘o'w1o g cuosunISSE IS osso IP oumo]e pe a oro Tp ‘o'Wwo g © 099Ns Ip ‘o’u9 ] Uoo aqgoscid e] ouri]sid IS 210 8 odoq (,) *OITo Tp ‘o'wo g 9 ‘ejiq Ip ‘o'wo ] ‘oorquazoued 090ns Ip ‘O °UIO T U09 91] po ‘TO[Op e]TOpurwi Ip OI1O IP ‘otto g ® corqearoued 090ns IP ‘o'Wo ] uo9 eunoe ‘eggoac1d 07 09gISOWI99 UTI 0U0]ZOUI IS (1) <= GL Hr cL T6 S°8T 87 ct 87 SEG SI 140 86 76 (do GL 97 GL 87 TGS 87 76 S'66 76 oa 0GI = 96 = GL S°8T 87 SOT FG S'9I S — O3I 4 (e) 96 i SL SI (3) 87 9I #6 SI e oi HO 099ns cAOnU Dici 099ns cA0nu 07eISOU1199 di Tp euorzippeITep |OOIMIOAI] rp e10 quondes el odo | 919394 | ro 17 00INTOdI ID @uOIZIppE. 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XXXII (1911). — 793 — o più semplicemente 2 2 ca E i cos 2 n 2 2 zi di = d: sen Pot 7 {sen Sa 3 zi 3 —aime) | = sen e52%) sen uri Queste due equazioni fra le variabili V,, V2,0,,02,0,,0, e f stabi- liscono a quali condizioni i singoli loro valori debbono soddisfare perchè il moto sia effettivamente possibile. Esse possono considerarsi come la traduzione analitica delle condizioni fisiche che debbono essere verificate dalle variabili naturalmente offerte dal- l’indole del problema (cioè dalle larghezze assintotiche della vena d, = ca 1 IT Vi’ se si vuole che (per una data pressione assintotica della vena e per una pressione conveniente nel campo B) risulti nullo il flusso attraverso alla in- terruzione delle pareti, cioè non si verifichi nè derivazione del liquido che scorre in A, nè aspirazione del fluido che occupa la regione B. Se, come di solito si pratica, le larghezze di e d. della vena a monte di P, ed a valle di P, sono eguali, o, ciò che fa lo stesso, se V\.=V>, quelle due equazioni si riducono ovviamente ad una sola : e d,= dalle inclinazioni d, e d, e dalle distanze P, P', P"P., e P'P”) Pr Prati Oria 0 P d; sen 9 COS 9 sen 9 -— GOS 9 Pel Pa 0° + È 4A) sen 9 GOS 9 sen 9 COS | 77 9 la quale riesce, in particolare, identicamente verificata quando si ponga d,=0d, e O,=It—-0,, cioè quando si supponga il fenomeno geometricamente simmetrico rispetto all'asse delle y: ciò che deve avvenire sempre quando le pareti rigide am- mettono quell’asse per asse di simmetria ('). (!) Cfr. la mia Nota: Sopra un caso di emisimmetria che si presenta in certe questioni di idrodinamica, pubblicata in questi Rendiconti, pag. 322 e seg. (seduta del 5 marzo 1911). Si trova allora “OSE ) 0) (©) ; LG ig O \7 ve VE gf to Fissati pertanto ad arbitrio ìî valori delle variabili indipendenti, che nel caso della supposta simmetria si riducono a tre: d,,0, e f (ovvero d), le formule che precedono si prestano assai facilmente al calcolo numerico così della velocità all'infinito (epperò della larghezza) assintotica della vena, nonchè della corrispondente pressione limite), come dei singoli valori che la funzione è (e con essa la w=e7°) assume nei varî punti del solito semicerchio |Î| <=1,n=0. Noti i quali valori il problema può considerarsi come risolto se sì sa trovare il posto # di un generico punto P del piano del moto avente per immagine un qualsiasi punto di affissa { del semicerchio stesso. Ora è facile verificare che si ha 4 i ff — SOS Gli = f e af 40 [e ep en: In particolare pel punto Po intersezione della linea libera 4 coll’asse delle ordinate si trova Lo 0 Upea VA ed | TZ per © reale e funzione della sola n. : Pel punto P' in cui la linea libera 2 si stacca dalla parete rigida w, si ha invece iù 1 Ù Gre] x = 4% ( c080 7 L 1} — (205? dé per 9 reale e funzione della sola Sh — 795 — Con questo procedimento venne, a titolo di esempio, costruita nella figura 4, la vena definita dai valori i 10 d,= Nel calcolo delle coordinate dei singoli punti della linea di contorno sia rigida che libera, vennero, in via di approssimazione, sostituiti i varî integrali con convenienti somme di un numero finito di termini. Il trac- (4) A questo valore della costante è corrisponde per f approssimativamente il valore 86°50”. La lunghezza dell'arco di linea libera P'P, risulta conseguentemente misurata da log Ed =log9=2,1972. — 796 — ciamento grafico di tale linea di contorno venne poi, per ragione di simme- tria, limitato a quel solo quadrante per cui è 7 <0 ed y= 0. Nei qua- dranti adiacenti vennero invece disegnati in opportuna scala i diagrammi delle velocità delle molecole fluide nei singoli punti degli assi coordinati. I caratteristici risultati numerici che si trovano riportati nella seguente tabella bastano a chiarire completamente l'esempio ed a mostrare come, anche per piccoli valori di d, e di 0,, cioè per strozzamenti della vena assai meno pronunciati di quelli a cui si ricorre nella pratica, si possano ottenere non trascurabili variazioni di pressione e di velocità da un punto all’altro del campo. Coordinate Pressione Velocità 0 w E: | 7 p | infinito e — 0 = 3.70 Po + 0.139 0.849 nelapunto Ea ME — 2.81 3.70 po + 0.500 0 nel punto (Pie — 2.13 3.48 Po i nel punto Prose 0 3.26 Po 1 nell'origine... . 0. + > 0 (0) Po + 0.066 0.931 Dai numeri contenuti nell'ultima colonna di questa tabella, 0 meglio ancora, dai diagrammi della figura 4, si può facilmente desumere come la velocità di ciascuna molecola fluida cresca, in valor assoluto, quando la molecola in questione percorrendo una qualsiasi linea di corrente si avvicina alla sezione contratta OP, raggiungendo in corrispondenza di tale sezione un valor massimo variabile a seconda della posizione della linea di corrente, e precisamente tanto maggiore quanto più tale linea si trova vicina alla linea di contorno w, 4 p, del campo del moto. AI lettore non sfuggirà pertanto l'alto interesse che potrebbero assu- mere, così per la teoria come per la pratica, esperienze atte a rilevare con sicurezza e precisione simili caratteristiche in un cosiffatto fenomeno; in mancanza però di elementi costituenti un controllo quantitativo dei risultati sopra ottenuti, sembra non del tutto inutile rilevare che, almeno qualitati- vamente, tali risultati sono già stati, in varie occasioni, sperimentalmente verificati (*). (1) Basta ricordare 2 questo proposito le classiche ricerche di M. Bszin: Eapé- riences sur la contraction des veines liquides et sur la distribution des vitesses dans leur intérieur. Mémoires presentés par divers savants è l’Académie des Sciences de l’Institut National de France, t. XXXII, n. 4. Ivi si legge testualmente (pag. 43): « Si l’on étudie la répartition des vitesses dans «le plan méme de l’orifice, on constate qu'il existe un minimum. Pour les orifices cir- un — Meccanica. — Alcune formole analoghe a quelle del Vol- terra nella teoria delle distorsioni elastiche. Nota di Lurci GIu- GANINO, presentata dal Corrispondente A. GARBASSO. Fisica. — Zo studio sperimentale del fenomeno di Hall e la teoria elettronica dei metalli. Nota di 0. M. CoRrBINO, pre- sentata dal Socio P. BLASERNA. s Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Fisica terrestre. — Sopra una presunta periodicità secolare nella ricorrenza dei grandi terremoti. Nota di G. AGAMENNONE e A. Cavasino, presentata dal Socio E. MILLOSEVICA. In questi stessi Rendiconti il compianto dott. A. Cancani pubblicò una Nota (*) nella quale, prendendo in considerazione i più intensi terremoti cono- sciuti, che coll'epicentro nell'Adriatico avevano colpito la costa delle Marche e delle Romagne, intese dimostrare che esiste, almeno per i più disastrosi, un periodo secolare abbastanza distinto, periodo al quale più o meno vaga- mente aveva già accennato qualche autore del secolo XVIII. E più precisamente il Cancani, dopo essersi basato sopra 18 tra i più forti terremoti che ebbero luogo tra gli anni 873 e 1897, dei quali due, quelli del 975 e 1078, erano semplicemente supposti dover essere avvenuti, venne alla conclusione che la costa di Romagna e delle Marche viene scossa « culaires ouverts dans une paroi horizontale ce minimum est naturellement au centre. SA: Dès qu’on s'éloigne du plan de l’orifice, les vitesses s’égalisent rapidement dans «la veine issue de l’orifice circulaire horizontal et deviennent bientòt uniformes dans toute «l’étendue de la section transversale ». Le misure di Bazin si riferivano, è vero, alla vena fluente da un orifizio praticato in parete sottile: fenomeno essenzialmente distinto da quello di cui qui ci siamo occupati, ma che ha con quello, sotto certi punti di vista, un’analogia evidente; l'analogia dei risultati non potrebbe perciò essere più soddisfacente e significativa. (5) A. Cancani, Periodicità dei terremoti adriatico-marchigiani e loro velocità di propagazione a piccole distanze (Rend. Acc. dei Lincei, seduta del 22 gennaio 1899). ReNDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 105 ee = = MO, — a periodi di 100 = 14 anni con un'intensità media corrispondente al grado IX circa della scala De Rossi-Forel, e di più che a questi succedono con intervallo di 23 + 10 anni altri terremoti d’ intensità VIII; e faceva notare altresì che se l'intervallo di 23 anni, a cui succedono gli ultimi ai primi, è soggetto ad una grande variazione rispetto alla grandezza dell’ intervallo medesimo, non così può dirsi del periodo secolare con cui sì seguono ì mag- giori terremoti. Poi tornò sull'argomento in due Memorie (*) pubblicate nel Bollettino della Società Sismologica Italiana, accrescendo l'elenco precedente di altri 6 ter- remotì, dei quali due colmavano appunto la lacuna degli anni 975 e 1078 e gli altri quattro, ancor più remoti, estendevano l'intervallo di tempo, di- modochè egli venne a formare una nuova serie di 22 terremoti (dei quali però soltanto due terzi osservati ed un terzo presunti) e dai medesimi de- dusse un periodo medio di circa 102 anni, basato sopra un intervallo di 22 secoli. Senza dubbio è una questione della più alta importanza quella di poter sapere se l’intensità sismica obbedisce a qualche legge di variazione in funzione del tempo per ogni data regione; e ciò non solo perchè questa legge faciliterebbe la scoperta delle cause dei terremoti, ma arrecherebbe anche qualche sollievo nelle regioni soggette ai medesimi, pel fatto che, pas- sato un intenso periodo sismico, le popolazioni vivrebbero per un certo intervallo di tempo senza troppe preoccupazioni pel ripetersi del terribile flagello. Evidentemente dunque il precedente risultato del Cancani avrebbe avuto un'importanza straordinaria, se dei dubbî non fossero sorti intorno alla scelta da lui fatta tra i numerosi terremoti che in ogni tempo hanno fune- stato le Marche e le Romagne, tanto più che l’autore stesso faceva riflettere che un terremoto rovinoso, avvenuto nel 1741, non rientrava nel periodo secolare, ed aggiungeva in una delle sue Memorie (?) di non aver preso in considerazione molti altri terremoti d’intensità minore o tutt'al più uguale al grado VITI, i quali di quando in quando ed a periodi saltuarî avevano colpito quelle regioni. Ora, siccome dei 22 terremoti considerati nell’ inter- vallo di 22 secoli e sui quali si basò il Cancani, ben 7 non erano stati realmente osservati, ma soltanto presunti, e dei restanti 15 ben 9 (268 av. Cr., 150 d. Cr., 873, 973, 1087, 1180, 1387-88, 1582-84 e 1870-74) lasciavano qualche incertezza sulla loro straordinaria intensità — tanto che esaminandoli un po’ più da vicino si poteva loro atttribuire appena il (1) A. Cancani, ZI terremoto adriatico-marchigiano del 21 sett. 1897 (Boll. della Società Sism. Ital., vol. IV, pag. 202). Id. Id., Sulla periodicità dei grandi terremoti che colpiscono la costa delle Marche e delle Romagne (Boll. della Soc. Sism. Ital., vol. VII, pag. 205). (®) Il terremoto adriatico-marchigiano, ecc. — 799 — grado VIII, talora forse anche il VII — tutto ciò c' indusse a trattare più a fondo l’argomento, cominciando dal riesaminare il più esattamente possi- bile la cronistoria sismica delle Marche e Romagne. Già uno di noi (Agamennone) aveva cominciato dal compulsare varî scrittori, risalendo il più possibilmente alle origini, ed utilizzando in modo speciale la Memoria estesa del Baratta « / terremoti d'Italia», pubblicata appunto poco dopo il lavoro del Cancani. Le ricerche dell'Agamennone, come accade in tal genere di studî statistici, si protrassero più del previsto, spe- cialmente anche perchè spesso interrotte a causa d'altri lavori più pressanti; e così dopo diversi anni rimase accumulato il materiale poco a poco rac- colto e sempre coll'intenzione di utilizzarlo per lo scopo prefisso, tanto più che nel frattempo anche altri sismologi accennavano più o meno fugacemente alla questione, facendo riserve più o meno categoriche. Ora però abbiamo creduto opportuno discutere questo materiale, che comprende in tutto 106 terremoti più o meno importanti, compresi tra il 268 av. Cr. e il 1897 d. Cr., per vedere fino a qual punto possa essere accettata la legge di periodicità trovata dal Cancani. Crediamo di somma utilità compiere siffatte ricerche, le quali hanno per iscopo di sradicare false credenze che una volta infiltratesi tra gli scienziati, finiscono talora per so- pravvivere anche per varie generazioni ed intralciare così il progresso della scienza. Nel nostro caso speciale la revisione acquista un interesse non soltanto scientifico, ma anche pratico, nel senso che se. la periodicità è dimostrata ine- sistente, si viene a togliere alle popolazioni un'illusione funesta, circa la pretesa immunità per lunghi anni dopo una catastrofe patita. Da un primo esame nel nostro elenco risulta subito che se vogliamo tener conto dei soli 17 terremoti più o meno disastrosi (grado IX o IX-X) trascurando tutti gli altri, si ha in media un terremoto per ogni 119 anni c. Se poi si vogliono prendere in considerazione anche i rovinosi (grado VIII o VIII-IX) che ammontano a 36, unendoli ai precedenti 17 si forma un totale di 53 terremoti, che dànno una media di 41 anni c. per ogni terremoto più 0 meno rovinoso o disastroso. Se finalmente si vogliono considerare tutti i 106 terremoti di cui abbiamo notizia, oscillanti dal VII al X grado, allora la media generale discende a 21 anni c. Però, questo primo risultato è troppo incerto, a causa degli antichi terremoti, la memoria di molti dei quali è andata perduta. Basta infatti riflettere che nello spazio di ben quasi 22 secoli, preso in esame dal Can- cani, per i primi 16 secoli si ha notizia soltanto di 18 più o meno notevoli terremoti, mentre negli ultimi 6 secoli il loro numero diviene quasi quin- tuplo (88). Con ciò non si può naturalmente intendere che in tempi recenti sia aumentata la frequenza dei terremoti, bensì che difettano le notizie sismiche, specie nei tempi anteriori all'invenzione della stampa, e perciò abbiam fatto un altro tentativo. Lasciando in disparte i pochi terremoti di i — 800 — cui si ha notizia nei primi 16 secoli, abbiamo preso in considerazione soltanto quelli degli ultimi 6 secoli, a cominciare appunto dall'anno 1298. Rifacendo il medesimo calcolo di prima, abbiam trovato in media; un terre- moto più o meno disastroso ogni 56 anni c., un terremoto più o meno ro- vinoso o disastroso ogni 15 '/» anni c., e finalmente un terremoto più 0 meno disastroso o rovinoso o forbissimo ogni 7 anni c., risultati anche questi che non solo non confermano, ma non hanno la più lontana analogia con quelli ottenuti dal Cancani. Riuniamo i periodi sopra trovati nel seguente specchietto: PERIODI DI ANNI A CUI RICORRONO I TERREMOTI II E, ————T———@@——» Disastrosi VENGA SII o rovInosi IAA o fortissimi Per gli ultimi 22 secoli . . . |ogni 119 c. anni | ogni 41 c. anni | ogni 21 c. anni Per gli ultimi 6 secoli . . - » 056. » Ici ni nc Dal medesimo si scorge subito che i periodi si sono notevolmente accor- ciati per gli ultimi 6 secoli, ciò che starebbe appunto a provare — a meno di non voler ammettere che l’attività sismica siasi accresciuta enor- memente negli ultimi tempi, il che è assai difficile — che grandi lacune debbono esistere nella cronistoria sismica finora conosciuta anteriormente al secolo XIV, come dianzi è stato accennato. Stando così le cose, dobbiamo ritenere più probabile che il periodo medio col quale ricorrono i più gravi terremoti si aggira appunto dai 50 ai 60 anni, come ci è risultato dalla statistica degli ultimi 6 secoli, vale a dire un periodo quasi metà di quello trovato dal Cancani. Nè è da restare troppo stupiti del risultato affatto negativo trovato nelle superiori ricerche, seguendo il metodo stesso del Cancani, cioè di conside- rare un insieme di terremoti non tutti verificatisi nello stesso distretto sismico, bensì in molti focolari sismici i più disparati, quali potrebbero essere quelli disseminati nelle Marche e nelle Romagne ed anche sotto l'Adriatico. Basta, infatti, gettare uno sguardo sulla carta sismica del Baratta per convincersi del fatto. Orbene, se la causa dei terremoti può variare più o meno da un focolare sismico all’altro, ‘0 per lo meno, se non la causa, il modo di estrin- secazione dei medesimi — avuto riguardo alla diversa costituzione geologica e posizione geografica di ogni distretto sismico — come si può logicamente parlare d'una periodicità nei terremoti ? A nostro modo di vedere bisognerebbe dunque limitare l'esame ai soli terremoti (entocentrici) d'un ben determinato focolare sismico, ciò che rende — 801 — naturalmente ben più difficile la ricerca, specialmente pei terremoti d'antica data, per il fatto che occorrono molte ed esatte notizie che servono ad iden- tificare l'epicentro. Volendo, tuttavia, fare un tentativo in questo senso e per semplificare la ricerca, abbiamo pensato di dividere i terremoti in que- stione in tre gruppi, tralasciando per le ragioni dette tutti quelli anteriori al 1298. Il 1° gruppo comprende tutti quei terremoti (43) originati nell'interno delle Romagne. Il 2° gruppo comprende tutti quelli (27) che hanno di preferenza bat- tuto le città costiere delle. Marche e Romagne, e che quindi si ha ra- gione di ritenere provenienti da uno o più focolari sismici giacenti sotto l'Adriatico. Il 3° gruppo comprende tutti quelli (17) aventi il loro epicentro nelle Marche. Seguendo lo stesso metodo dianzi adottato, troviamo i risultati che sono consegnati nel seguente specchietto : fr——_——_—_____l12z21%1%2%z7©%@>@—@—@—ÈÈ@————_—1212121%412121@1%#@©@—@—@—@14#@—@1@1#1Àl@À" | PPP SSN" ZIA Numero dei terremoti dal 1298 ad oggi Periodi di anni a cui avvennero i terremoti z Ei E = A 4 disastrosi 5 3 a la A ; disast Su RR TANI Usi Hi & Gruppo I Interno delle Romagne . . . 3 | 16| 24 |43]| anni 143c.| anni 80c.|anni 133. Gruppo II Litorale delle Marche e Romagne | 4 SAOIS |127 Me Maroc alici 29. Gruppo III Interno delle Marche . . . . 3) Siglo 20 iibse| o are Da questa tabella risulta immediatamente, che ad eccezione dei terre- moti più o meno disastrosi i quali sono un po' più frequenti nel II gruppo, la frequenza degli altri di minore intensità va diminuendo dal gruppo I al III; e resta così provato, beninteso, entro i limiti delle osservazioni da noi posse- dute, che la ricorrenza dei terremoti è assai diversa dall’una all’altra regione considerata, e conferma il nostro sospetto, che cioè non sia logico di basarsi complessivamente sopra tutti i terremoti, presi in esame dal Cancani per de- dure una qualsiasi legge sulla distribuzione nel tempo dei terremoti più o meno importanti. Ci sembra dunque di poter concludere con tutta coscienza che non ha alcun’'ombra di fondamento la presunta legge di periodicità secolare, — 802 — trovata dal Cancani, e che quindi la questione deve ritenersi affatto im- pregiudicata. Terminiamo però coll’insistere, come già ha fatto da tempo uno di noi ('), che per procedere alla ricerca d'una periodicità nei terremoti, bisogna limi- tarla a quelli provenienti da uno stesso focolare sismico, e senza badare alla maggiore o minore intensità dei medesimi. Naturalmente per far ciò, è indispensabile possedere esatti cataloghi sismici ed estesi a lunghi periodi di tempo, ciò che non potranno fare che i sismologi futuri, grazie all’im- portanza che oggi si comincia a dare da quasi tutte le nazioni civili alla ricerca delle notizie macrosismiche, specialmente per l'impulso dell'Associa- zione Sismica Internazionale da pochi anni costituita. Avvertiamo intanto che una Memoria completa sull'argomento sarà quanto prima da noi pubblicata nel vol. XV del Bollettino della Società Sismologica Italiana, alla quale abbiamo aggiunto non solo una breve cronì- storia di tutti i 106 terremoti, dal grado VII al X, che ebbero luogo nelle regioni in esame, ma anche una tavola litografata, la quale riassumerà sche- maticamente tutte le scosse avvenute in un così lungo periodo d'anni e nel medesimo tempo permetterà a colpo d'occhio di rendersi conto della loro inten- sità relativa e distribuzione nel tempo. Fisiologia. — Contributo alla conoscenza dell’ereptasi del succo intestinale. Nota del dott. Gruserpe AMANTEA, presentata dal Socio L. LUCIANI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (1) A. Issel e G. Agamennone, /atorno ai fenomeni sismici osservati nell’ isola di Zante durante il 1893. — Capo III. Alcune considerazioni generali sopra i terremoti di Zante (Ann. dell’Ufficio Centr. di Met. e Geod., vol. XV, parte I, 1893. Roma 1894, pag. 169). — 803 — Chimica. — Zicerehe sugli idrazoni 0). Nota di R. Crusa e L. VeccHIOTTI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. In una Nota precedente uno di noi (Ciusa) ha mostrato come il metil- fenilidrazone della m-nitro-, e p-nitrobenzaldeide sieno capaci di esistere cia- scuno in due modificazioni cromoisomere (?). Tale proprietà non è speciale per questi idrazoni, ma come sarà più ampiamente detto in una prossima Nota, tutti gli idrazoni delle aldeide aromatiche nitrate possono esistere in due o tre modificazioni cromoisomere: alcune di queste modificazioni assai spesso man- cano, sicchè la maggior parte dei fenilidrazoni delle aldeide nitrate su accen- nate si conoscono in una sola forma. Per aver maggiori dati sull'argomento abbiamo voluto vedere se la pro- prietà di fornire dei cromoisomeri persiste quando negli aldeidofenilidra- zoni il gruppo nitrico entra nel resto fenilidrazinico. I nitrofenilidrazoni stu- diati furono, perchè più accessibili, i p-nitrofenilidrazoni. Nella letteratura sono descritti il p-nitrofenilidrazone del glucosio e del mannosio come capaci di esistere ciascuno in due modificazioni (dello stesso colore) (*). Noi però, almeno per ora, non abbiamo creduto occuparci di questi idrazoni, perchè la causa della loro isomeria, assai verosimilmente, è di un ordine completamente differente da quella dei p-nitrofenilidrazoni che formano oggetto della presente Nota. Inoltre E. Bamberger descrive tutta una serie di nitrofenilidrazoni ca- paci di esistere in due modificazioni cromoisomere. Tali idrazoni si ottengono per azione dell’o-, m- e p-nitrodiazobenzolo sull’etere benzoilacetico, e sono da considerarsi come i nitrofenilidrazoni dell’aldeide benzoilformica: CsH; COCH :NNH CH, NO,. Secondo Bamberger l’isomeria è dovuta al doppio legame carbonio- azoto (‘). È pure da ricordare che il p-nitrofenilidrazone della m-nitroanisaldeide quando è perfettamente secco è giallo: diventa invece rosso appena tolto dall’essiccatore (5). I p-nitrofenilidrazoni studiati da noi furono quelli delle aldeidi benzoica 0-, m-, p-nitrobenzoica e anisica. Tutti, ad eccezione del p-nitrofenilidrazone (!) Lavoro eseguito nell’Istituto di chimica generale dell’Università di Bologna. (*) R. Ciusa e M. Padoa. Questi Rendiconti, vol. XVIII, 2°, pag. 621. (3) W. A. van Ekenstein e I. I. Blanksma, Rec. trav., 22, 434. (4) E. Bamberger e 0. Schmidt, Berichte, 24, 2001. (5) R. Ciusa, Gazzetta chimica, 37, 2. Questi Rendiconti, pag. osa oe=i FS = ici 4 MIvA CCI — 804 — dell’aldeide anisica, furono ottenuti in due modificazioni, quello dell’aldeide benzoica in tre modificazioni. Il p-nitrofenilidrazone della benzaldeide fu preparato da Ellis Hyde (1) e descritto come formato da cristalli rossi fondenti a 190° (il punto di fu- sione dato è 90°, evidentemente per un errore di stampa). Più tardi Biltz Io descrive come formato da scagliette brune fondenti a 192°-193° (2). Il p-nitrofenilidrazone della benzaldeide si ottiene infatti sotto forma di aghi appiattiti giallo-bruni: se però il prodotto grezzo così ottenuto si cristallizza dall'alcool bollendolo con carbone animale fino a punto di fusione costante, si ottiene sotto forma di aghetti aranciati fondenti a 195°-196° (*). C;3H1102N3 Calcolato C:6472; H 4,56. Trovato C: 64,52; H: 4,50. Se questo idrazone sciolto în alcool vien precipitato a caldo con acqua sì trasforma nella modificazione gialla. Questa modificazione fonde a 195° e si presenta sotto forma di squamette gialle splendenti. C;3Hn0gN3 Calcolato C:64,72; H:4,56. Trovato C: 64,48: H: 4,73. Se la precipitazione della soluzione aleoolica della forma aranciata si fa a freddo si ottiene la forma rossa: anzi se non si raffredda troppo forte- mente si può osservare benissimo che il precipitato è, appena formatosi, giallo, e diventa rosso nello spazio di due tre minuti. Questa modificazione sì pre- senta sotto forma di aghetti o scagliette rosse: scaldata nel tubicino a 140° diventa gialla e fonde a 194°. C.3H,,0:N3 Calcolato C:64,72; H: 4,96. Trovato C : 64,86; H : 4,79. Per cristallizzazione dai diversi solventi della forma rossa o della gialla si ottiene sempre la forma aranciata. La rossa si trasforma però appena viene a contatto del solvente a caldo prima nella modificazione gialla; questa poi si scioglie e cristallizza nella forma arancio. Se la forma rossa si lascia a contatto dei diversi solventi alla temperatura ordinaria, si trasforma a poco @ poco nella gialla. La modificazione rossa si trasforma pure nella gialla se si (1) Berichte, 32, 1819. (®) Ann. 324, 321; vedi anche Rec. trav., 24, 33. () Avendo adoperato per la preparazione del p-nitrofenilidrazone in questione un campione di p-nitrofenilidrazina conservata in vaso non chiuso alla lampada da oltre due anni, abbiamo ottenuto una sostanza giallo-arancio fondente a 167° e che all’analisi dà dei numeri corrispondenti a quelli richiesti dalla formula CioH1:04Ns: C.0H1:04Ns Calcolato (6) 3 60,15 H 9 4,48 N 18,48 Trovato C:60,00 59,90 H:4,51 4,72 N 18,82 Tale sostanza CisHi:04Ns non è altro che il prodotto di addizione del p-nitrofenil- idrazone della benzaldeide colla p-nitroanilina contenuta come impurezza nella p-nitrofe- nilidrazina adoperata: C;,H110N3 + CeHe0O:N, = CisHi:04No. — 805 — riscalda all’ebullizione il liquido acquoso-alcoolico da cui sì ottiene, ed in cui per riscaldamento non si scioglie. La forma rossa sciolta rapidamente nei solventi, p. es. in alcool impartisce a questo una colorazione gialla più oscura di quella che si ottiene sciogliendo una eguale quantità della modificazione gialla: da una tale soluzione si separa la forma aranciata, ma alquanto più oscura e tendente al rosso di quella che si ottiene purificando l’idrazone grezzo con carbone animale. In alcool metilico si può osservare che la soluzione a caldo di una qua- lunque delle modificazioni è molto più intensamente colorata che non a freddo: comunque si operi l’idrazone cristallizza sotto forma di aghetti aranciati. Dalla formamide cristallizza esclusivamente la forma rossa. La modificazione gialla si può trasformare nella rossa precipitandone la soluzione alcoolica con acqua a freddo, oppure cristallizzandola dalla for- mamide: si può quindi trasformare una modificazione nell'altra a piacere. Il p-nitrofenilidrazone della benzaldeide esiste quindi in due modifica- zioni cromoisomere, una gialla ed una rossa: esiste poi una (o più?) modifi- cazione intermedia arancio, miscuglio, o combinazione delle due forme o so- luzione solida. Ellis Hyde ha ottenuto questo idrazone nella modificazione rossa assai probabilmente precipitandolo a freddo dalla soluzione alcoolica; oppure pre- parandolo aggiungendo a freddo la soluzione della p-nitrofenilidrazina in acido acetico al 50°/, alla soluzione dell’aldeide parimenti in acido acetico al 50°/, nelle quali condizioni si forma immediatamente la modificazione gialla che passa quasi subito alla rossa. Data la facilità colla quale una modificazione sì trasforma nell'altra non abbiamo creduto fare alcuna determinazione della grandezza molecolare. Il p-nitrofenilidrazone dell'o-nitrobenzaldeide è stato già descritto pre- cedentemente come formato da prismi rossi fondenti a 263° ('). Noi l'abbiamo ottenuto ricristallizzandolo dall’acido acetico glaciale sotto forma di aghi rosso-arancio. C;3H00,N, Calcolato C :54,54; H :3,49. Trovato C :54,09; H : 3,64. Questo nitroidrazone riscaldato nel tubicino diventa nettamente rosso a 190° e fonde a 2509-251°. Questa: forma sciolta in alcool e precipitata a caldo o a freddo con acqua si trasforma nella modificazione giallo-arancio. CisHi00,N, Calcolato C : 54,54; H :3,49. Trovato C: 54,48; Hi:'375: Fonde alla stessa temperatura 250°-251°. (*) Ann. chim. Phys. (8), 6, 408. RenpIcONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 106 — 806 — Questa modificazione gialla per cristallizzazione dell'acido acetico si tras- forma nella precedente. Per cristallizzazione della modificazione rosso-arancio dell'alcool si ottiene la modificazione giallo-arancio. Il p-nitrofenilidrazone della m-nitrobenzaldeide, già descritto da Hellis Hyde (1. c.), cristallizza dall’acido acetico sotto forma di cristalli rosso- aranciato fondenti a 250°-251°. C,3H;00,N, Calcolato C :54,54; H:3,49. Trovato C.: 54,460; Ho: 3,07 Sciolto in alcool e precipitato con acqua sì trasforma nella modifica zione gialla che fonde a 248°. C,3H,00,N, Calcolato C : 54,54; H:3.49. Trovato C: 54.88; H : 3,74 Questa forma per cristallizzazione dall’acido acetico glaciale si trasforma nella forma rosso-aranciata; riscaldata nel tubicino a 130° acquista una co- lorazione sempre più intensa: giallo-aranciato — rosso-aranciato — rossa. Per raffreddamento si ha la colorazione primitiva. Evidentemente qui si ha a che fare con un caso di fermocromzia (‘), che noi abbiamo osservato anche negli altri idrazoni, ma non così marcatamente come in questo caso. Il p-nitrofenilidrazone della p-nitrobenzaldeide fu descritto come for- mato da aghi appiattiti rosso-violetti lucenti (Ellis Hyde, l c.): noi l'ab- biamo ottenuto, cristallizzandolo dall’acido acetico glaciale sotto forma di scaglie rosso-mattone, fondenti a 247°. C.3H100,N, Calcolato C : 54,54; H:3,49. Trovato C: 54,16; lets SZo, Anche questo idrazone per riscaldamento acquista una colorazione più intensa. Precipitando la soluzione alcoolica con acqua, oppure per cristallizza- zione dall'alcool si ottiene la forma giallo-aranciata che fonde a 245° e du- rante il riscaldamento non cambia colore. C;3H1004N, Calcolato C :54,54: H :3,49. Trovato 0545505 HE1002 Per cristallizzazione di questa forma dall'acido acetico glaciale si ha la modificazione rosso-mattone. N p-nitrofenilidrazone dell’aldeide anisica sì ottiene sotto forma di aghetti rosso-violetti fondenti a 160°. C,,H,30zN3 Calcolato C : 61,99; H:4,79. Trovato C : 61,71; io DA Non siamo riusciti ad ottenerlo in un’altra modificazione. Sciogliendo l’idrazone in alcool, e per aggiunta di acqua sia a caldo che a freddo si riottiene sempre la forma rossa. La soluzione in acetone è gialla: per ag- (!) Ann. d. ch., 380, IT. — 807 — giunta d'acqua si ha un precipitato giallo che diventa immediatamente (in un minuto circa) rosso. Una classe di sostanze che manifestano il fenomeno della cromoisomerta, e colle quali i p-nitrofenilidrazoni sono assai simili, è rappresentata dalle mononitroaniline studiate recentemente sotto questo punto di vista da A. Hantzsch (?). H H ONU CH, N< ON. CHL NC R N:CH.Ar Per i p-nitroidrazoni in questione si potrebbero fare quindi delle con- siderazioni analoghe a quelle, colle quali A. Hantzsch ha così genialmente chiarito la causa della cromoisomeria delle nitroaniline. Però nei p-fenilidra- zoni, oltre che nel differente modo col quale vengono saturate le valenze se- condarie del gruppo nitrico, la causa della cromoisomeria potrebbe essere ricercata anche nella possibilità di esistere in una forma chinoide (DE NO,.CH,NH.N:CH.Ar= HO,N:GH;: N.N:CH.Ar. Bisognerà perciò prendere in esame i nitrofenilmetilidrazoni : 0,N ° CHL N . N s CHR | CH; nei quali il passaggio dalla forma benzoide alla chinoide è escluso. Lo studio di queste sostanze formerà oggetto di ulteriori ricerche. Chimica. — Sul glicerofosfato sodico Poulene, e sopra un acido glicerofosforico libero (°). Nota del dott. Y. PAOLINI, presen- tata dal Corrispondente A. PERATONER. L'importanza terapeutica che hanno assunto da qualche tempo i glice- rofosfati, specialmente dopo le ricerche di Portes e Prunier (4), ha attirato l’attenzione dei chimici non soltanto sui loro caratteri analitici, ma, più re- centemente, anche sulla loro fina struttura, e così, parecchi punti, prima oscuri, di questo interessante soggetto possono oggi dirsi ben chiariti. Quando il glicerofosfato di calcio cominciava ad entrare nel dominio della terapia, Petit e Polonowski (*) segnalarono, i primi, che i prodotti (!) A. Hantzsch, Berichte, 43, 1662. (2) Vedi a questo proposito le ricerche di Baly J., Chem. Soc., 89, 982. (®) Lavoro eseguito nell’Istituto chimico-farmaceutico della R. Università di Roma. (4) J. Pharm. 29 [5] 393 (1894). (€) J. Pharm. 30 [5] 193 (1894). 1 + SEGea St} a SZ DI nc == — 808 — messi in commercio sotto quel nome erano generalmente assai impuri, e talvolta anzi non risultavano che addirittura da miscele di glicerina e di fosfato calcico. Qualche anno dopo, Adrian e Trillat (), esaminando anche loro parecchi glicerofosfati di calcio commerciali, trovarono che la composizione chimica e la solubilità di questi prodotti variava spesso in grado abbastanza notevole. Una simile variabilità di composizione si spiega però bene dopo i lavori di Carrè (*), e, più specialmente, dopo le ricerche sistematiche di Power e Tutin (*): difatti, se nella reazione della glicerina sull’acido fosfo- rico si eccede la temperatura di 110°, anche senza oltrepassare 125-140°, si forma costantemente, accanto all’acido glicerofosforico, bibasico, (C3.H,0:)PO (OH)? anche un acido monobasico, l'acido biglicerin-fosforico O po4o> 0: Bs 0H \0H Ed è curioso anzi osservare a questo riguardo come la nostra Farmacopea, così poco esigente per il glicerofosfato di calcio (*), pretenda invece per il glicerofosfato di sodio che esso, dopo deacquificato in stufa, fornisca alla cal- cinazione rigorosamente la quantità di pirofosfato che si calcola in teoria per la formula Nas(C3 H70,)PO,. Vero è che dai lavori cennati di Carré, di Adrian e Trillat, e, soprat- tutto, di Power e Tutin, sono già note delle condizioni sperimentali in cui la formazione dell'acido suddetto, biglicerin-fosforico, può essere del tutto evitata; pur non di meno, in pratica, è ben raro trovare un glicerofo- sfato sodico che corrisponda al requisito della Farmacopea. Probabilmente nell'industria, allo scopo di accelerare la sintesi, si adottano temperature su- periori a 110°, e quindi, i prodotti sono sempre, più o meno, inquinati dal sale dell'acido bliglicerin-fosforico. Avendo avuto occasione, nello scorso anno, di analizzare un glicerofo- sfato sodico della casa Poulenc, io dovetti perciò accertare, non senza sor- presa, che la sua acqua di cristallizzazione oscillava solo dentro limiti molto (1) J. Pharm. 6 [6] 433 (1897). (2) Compt. rend. 37, 1070 (1903). (3) Journ. chem. Soc. 87-249 (1905). (4) Quanto al glicerofosfato di calcio la Farm. uff. ital. richiede solamente che il contenuto di acqua non ecceda il 15°/,, e non indica quanto pirofosfato debba ottenersi dalla calcinazione di 1 gr. di sale anidro. — 809 — ristretti, di poco superiori agli errori analitici, e che il prodotto reso anidro in stufa dava costantemente i numeri che esige la teoria per un glicerofo- sfato bisodico. Occorre qui dire che il nuovo processo, brevettato, Poulene, per la pre- parazione del sale in discorso, non è in fondo se non la vecchia sintesi di Pelouze (*), modificata principalmente in ciò, che all’anidride fosforica, 0 all’acido m. fosforico, è sostituito il fosfato monosodico (°). Scaldando nel vuoto, a 130-180°, una molecola di questo sale con due molecole di glicerina, si consegue una eterificazione pressochè quantitativa 2708 003 H;(0H)? PO4-0H + 20: H;(0H); =2H,0 + PO—0C; H;(0H); \ONa \ONa e, riprendendo con acqua e lisciva di soda, si ottiene con buon rendimento glicerofosfato bisodico: 2063 H;(0H)» 003 H;(0H). PO40C; H:(0H), + Na OH = C; Hs(0H)3 + PO_ONa \ONa \ONa Era dunque un risultato già degno di nota, questo, che il sale in di- scorso rispondesse esattamente alla formuta di un glicerofosfato bisodico Na?(C3H,0) PO, , laddove, le condizioni di temperatura tenute per la nuova sintesi sono mani- festamente quelle, nelle quali, allorchè la glicerina si faccia reagire con acido fosforico, si forma sempre, ed in proporzione notevole, l'acido biglicerin- fosforico monobasico. E perciò non era inverosimile supporre che amche per la sua struttura questo glicerofosfato Poulenc potesse discostarsi dal sale ottenuto secondo Pelouze, e discostarsene in questo senso, da costituire even- tualmente un individuo chimico. Bisogna infatti anticipare che nessuno dei glicerofosfati ottenuti per eterificazione diretta dell'acido fosforico, e non solo fra i prodotti industriali, ma anche fra quelli di laboratorio, può con- siderarsi come specie unica. Questo tema, alquanto intricato, dei rapporti che passano fra un glice- rofosfato sintetico e un altro, e fra questi diversi glicerofosfati e quelli ottenibili per idrolisi della lecitina dell'uovo, è stato approfondito recente- mente da Tutin e Hann (3), ed i risultati di questi Autori possono breve- mente riassumersi in questi termini. I glicerofosfati cosìddetti « naturali », (*) Compt. rend. 2,718. Journ. prakt. Ch. 36,257 (1845). (®) Chemiker Zeitung. Repertorium, 1907, pag. 256. (8) Journ. Chem. Soc. 89, 1749 (1906). Ì i f Ù oper Do 6 E TESE e assi Ain PESA NT 8 TE — 810 — ricavati cioè per idrolisi della lecitina dell'uovo, non sono identici, come Pe- louze (loc. cit.) e Gobley avevano erroneamente ritenuto, con i glicerofosfati dalla glicerina. Wilstatter e Liidecke (!), idrolizzando la lecitina dell'uovo con acqua di barite, a freddo, hanno ottenuto infatti un glicerofosfato che è indubbiamente diverso da quello « sintetico » di Pelouze, giacchè, al pari della lecitina di partenza, esso è otticamente attivo, sinistrogiro. Ma l’os- servazione di questi Autori che il loro sale baritico otticamente attivo de- rivi unicamente dall’acido @-glicerofosforico con 1 atomo di carbonico asim- metrico CH, 0H - CHOH-CH,0 PO(OH)° o è contestata da Tutin e Hann. Questi hanno ottenuto per sintesi, dalle due dicloridrine, due serie isomere di glicerofosfati (di bario, e di brucina), i simmetrici 8 (I), e gli asimmetrici @ (I1) CH, OH CH, 0H | | (I CHOPO(OMe') dI) »+CHOH | | CH, 0H CH,0 PO(OMe): ed hanno accertato che anche i sali racemi ottenuti dalla lecitina secondo le indicazioni di Wilstatter e Lidecke, non sono identici, come dovrebbero, con i corrispondenti glicerofosfati @, sintetici. Nemmeno i sali (di bario, € di brucina) corrispondenti all'acido sintetico di Pelouze sono identici, del resto, con i detti racemi dalla lecitina, nè con i puri @ 0 # glicerofosfati (dalle cloridrine), e così, dall'insieme di questi varî confronti, gli Autori in- glesi concludono l’esistenza di 4 serie diverse di glicerofosfati, i cui rapporti scambievoli sono da intendersi in questo senso: che tanto i glicerofosfati (di bario, e di calcio) di Willstàtter e Lidecke, quanto quelli ottenuti con la vecchia sintesi di Pelouze, non rappresentano ognuno un individuo chi- mico, ma sono invece, costantemente, miscele degli @ e 8 i quali coesistono in proporzioni varie. Questa conclusione di Tutin e Hann, benchè fondata sopra una serie sistematica di confronti, non appare più così evidente come a prima vista, quando si esaminano più da presso i caratteri dei glicerofosfati che gli Autori pongono a raffronto. I loro risultati sembrano allora, sotto più di un aspetto, difficilmente conciliabili col concetto che essi si formano dei sali sintetici dalla glicerina, e gli Autori medesimi non si nascondono infatti che essi « sono qualche volta anomali, e non consentono una spiegazione facile ». Oltre a ciò nell’accurato lavoro di Tutin e Hann manca la prova sperimen- tale che meglio converrebbe alla loro ipotesi: « malgrado, — essi dicono — (4) Berichte, 37, 3743 (1904). — 811. — «i due acidi glicerofosforici, naturale e sintetico, sembrino essere delle mi- «scele, non si ebbe mai alcun indizio che si potesse effettuare una sepa- « razione, cristallizzando i loro sali ». Avuto riguardo a ciò, mi è sembrato interessante approfondire l'esame del glicerofosfato sodico Poulene. Essendo esso ottenuto in condizioni di sintesi alquanto diverse da quelle che adottano Tutin e Hann per la prepa- razione dei loro glicerofosfati dalla glicerina, si poteva pensare che esso co- stituisse un individuo chimico, o in ogni modo che fosse possibile riconoscere in esso almeno uno dei due glicerofosfati isomeri, 1’ @ o il f. Nella lette- ratura degli acidi glicerofosforici, già così rieca di dati, non è finora descritto alcun glicerofosfato sodico puro, nè l'a nè il #, ma dal detto lavoro di Tutin e Hann sono invece bene assodati i caratteri dell’@- e del - glicerofosfato di brucina. lo ho cercato perciò di risolvere la questione preparando ed esa- minando i caratteri del sale di brucina corrispondente al glicerofosfato so- dico Poulenc, e a questo modo ho potuto nettamente riconoscere, in questo ultimo, uno dei due isomeri, quello simmetrico f. Questo risultato mi sembra specialmente notevole in confronto a quello avuto da Tutin e Hann con il loro acido glicerofosforico dalla glicerina, avendo essi ottenuto dal corrispondente glicerofosfato di bario un sale di bru- cina che, come già dissi, non è identico nè con l’ «- nè col #- glicerofosfato di brucina puri. Ma io credo inoltre di potere anche concludere dalle mie esperienze che il prodotto Poulenc, se pure non è interamente costituito dal sale simmetrico 8. deve almeno contenerlo in prevalenza. Difatti, dal sale sodico Poulenc ho potuto ottenere (attraverso il sale di argento) il corri- spondente acido libero, esente di acqua e di prodotti idrolitici, e da esso sono giunto con buon rendimento, e senza ricorrere nessuna volta a cristal- lizzazioni frazionate, direttamente al puro #- glicerofosfato di brucina. A proposito dell'acido glicerofosforico da me ottenuto allo stato libero, aggiungerò infine, che, recentemente, anche Carré (!) avrebbe avuto un acido glieerofosforico libero puro; tale prodotto si otterrebbe decomponendo con acido solfidrico il glicerofosfato di piombo, ed evaporando la soluzione acida nel vuoto su acido solforico. È però notevole che da questo acido Carré ha ottenuto un sale di bru- cina con 9 molecole di acqua di cristallizzazione, e con punto di fusione 181°, mentre, secondo esperienze posteriori di Tutin e Hann. all’acido glicerofo- sforico cosiddetto « sintetico » (ottenuto, cioè, da acido fosforico e glicerina) corrisponde un sale di brucina che contiene 7 molecole di acqua di cristal- lizzazione, e fonde a 158-159°. Questo sale si ottiene, identicamente, 0 che si facciano reagire glicerofosfato di bario e solfato di brucina, o che si neu- tralizzi con brucina una soluzione acquosa di acido glicerofosforico ottenuta (1) Compt. rend. /38-47. rie — cgil — 24 == c=—"— === lode gt — —— fp =""=="r === === ATI SERIO OA Da E a rea sc peu = ef => "=" a ona n E n — 812 — dal glicerofosfato di bario. Il risultato di Carrè sembra perciò oscuro, tanto più che il sale di brucina dell'Autore francese non è identico nemmeno con alcuno degli altri tre glicerofosfati di brucina, preparati e descritti da Tutin e Hann. L'acido glicerofosforico libero di Carré non costituiva dunque di certo un individuo chimico, e, molto probabilmente, non era nemmeno esente dalle impurezze che accompagnano sempre l'acido libero ottenuto con processi sì- mili (*) e che, a parer mio, possono farsi sentire sulla composizione del sale di brucina ottenuto da esso. Chimica. — Sulle soluzioni citrofosfatiche. — 1. L'equilibrio omogeneo in soluzione acquosa, studiato col metodo crioscopico (È). Nota di U. PraroLONGO, presentata dal Socio A. MenozZI. Nel concetto di sottoporre ad accurato esame sperimentale i risultati di alcune recenti indagini sulla natura delle soluzioni citrofosfatiche e le indu- zioni, che essi parvero giustificare, ho iniziato una serie di ricerche siste- matiche, vòlte allo scopo di portare più ampio contributo sperimentale alla soluzione del problema, studiato sinora solo in modo parziale, cercando di definire, col sussidio degli odierni metodi di indagine, e sulla traccia dei numerosi lavori sperimentali già compiuti per una serie di problemi affini, la natura degli equilibrî omogenei ed eterogenei, cui le soluzioni in istudio possono dar luogo. Lo studio dell'equilibrio omogeneo in soluzione acquosa venne condotto in duplice modo: col metodo crioscopico e con la misura della conducibilità elettrolitica delle soluzioni. Oggetto di questa prima Nota sono le determinazioni crioscopiche sinora eseguite, e che mi propongo di ampliare e completare in seguito; ad esse seguiranno tra breve le determinazioni di conducibilità elettrolitica e le ricerche sull'equilibrio eterogeneo. Furono oggetto di indagine in questa prima serie di ricerche, gli equi- librî omogenei, cui dànno luogo, in soluzione acquosa, l'acido citrico ed il citrato diammonico, con la serie dei fosfati calcici (mono, bi- e tricalcico) (1) Per es., glicerofosfato acido di potassio quando si decomponga con acido tarta- rico il sale bipotassico, 0, acido fosforico (e rispettivamente glicerina), quando si decom- ponga con acido solfidrico il glicerofosfato di rame 0 quello di piombo. Cfr. a questo riguardo Adrian e Trillat. (2) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Agraria, della R. Scuola Superiore di Agricoltura di Milano. — 813 — che, per una serie dei lavori, che ad essi si riferiscono (*), presentano dal punto di vista, onde sono mosso, il massimo interesse. Spero di potere in seguito portare le ricerche su qualche altro equilibrio analogo e specialmente interessante. Le ricerche vennero compiute con un comune apparecchio « Beckmann », munito di termometro al centesimo di grado, sul quale peraltro, l’uso di una lente permetteva di apprezzare i due millesimi di grado. Nelle deter- minazioni venivano seguite le norme comunemente suggerite per rendere minimi gli errori sperimentali, ponendo cura speciale nell'evitare i piccoli spostamenti dello zero, dipendenti dalle deformazioni permanenti del reci- piente termometrico, per le grandi oscillazioni di temperatura; la determi- nazione dello zero veniva, ad ogni modo, frequentemente rinnovata, nel corso delle ricerche. In una serie di indagini preliminarî mi sono proposto di fissare i limiti degli errori sperimentali e le costanti da introdursi nella correzione delle letture termometriche. L'errore probabile di una determinazione è risultato sempre inferiore ai due millesimi di grado, e le correzioni da introdursi, in parte di segno opposto, sempre trascurabili di fronte agli errori speri- mentali. Nelle ricerche definitive, le determinazioni venivano sempre compiute in doppio, riducendo così l'errore probabile della media a circa un millesimo di grado. Le soluzioni venivano preparate sciogliendo prima i prodotti di purezza controllata, e portando poi, di volta in volta, a volume. Il citrato diammo- nico era ottenuto saturando una soluzione di acido citrico con ammoniaca sino a neutralità. Le indagini compiute hanno condotto ai risultati raccolti nella seguente tabella; in essa, oltre ai valori sperimentali della depressione termometrica A , è dato un valore a;, calcolato in modo additivo, aggiungendo ai valori di A osservati sulle soluzioni corrispondenti di acido citrico e di citrato diammo- nico, la depressione da attribuirsi alla soluzione dei fosfati, trascurando, come primo grado di approssimazione, l'influenza perturbatrice della scissione elettrolitica. (®) Riservandomi di insistere, a lavoro finito, sui lavori sperimentali già compiuti sul- l'argomento e sulle tesi da essi derivate, credo utile dare qui l'indicazione dei principali di essi: — Grupe e Tollens, Ber. d. chem. Ges. /3, 1267 [1880]; Herzfeld e Feuerlein, Zeit. Anal. Ch. 20, 191 [1881]; Zulkowsky e Cedivoda, Die Chem. Ind. 26, 1-9 e 27-33 [1903]; Barillé, Ann. de Chimie Anal. /3, 264 [1908]; Jour. de Phys. et de Chimie [6] 27, 437 1908; Quartaroli, Le Staz. Sper. Agr. Ital. 43, 545-558 [1910]. RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 107 VES e "e it mesER y — 814 — I. — Soluzioni di acido cettrico. Numero Acido citrico (CH20 + Hs0) A d'ordine per litro Valori, sa CRE CEE = — 834 — Iridaceae Iris fimbriata, Vent. (fiori). Orchidaceae Laelia anceps, Lindl. (fiori). Ranunculaceae Aquilegia glandulosa, Fisch. (fiori). Ericaceae Zrica carnea, Linn. (fiori). Labiatae Nepeta glechoma, Benth. (fiori). Verbenaceae Clerodendron Balfouri, Hort. (fori). Caprifoliaceae Veigela rosea, Lindl., Veigela japonica, Thunb. var. rosea (fiori). ConcLusioni. — Dall'assieme dei fatti sopra esposti credo che si possano trarre le seguenti conclusioni, limitate naturalmente ai casi da me studiati: 1° L’antocianina è autoctona. 9° L'antocianina non si forma nei vacuoli comuni, nè deriva da sostanze preesistenti sciolte nel succo cellulare, ma sì forma invece entro un organo speciale da me chiamato Cianoplasta. 3° Il cianoplasta si origina direttamente dal protoplasma per neofor- mazione. 4° Il cianoplasta è privo di sostanze proteiche e presenta un involucro di natura chimica per ora ignota in cui trovansi racchiuse sostanze tanniche. 5° L’antocianina deriverebbe da sostanze appartenenti al gruppo dei tannini, poichè si accerta la presenza di tali sostanze nel cianoplasta in cui si organizza l’antocianina. 6° Certe sostanze esistenti nell’ involucro del cianoplasta si trasforme- rebbero in antocianina mediante speciali processi metabolici. 7° Gli agenti esterni possono sospendere la trasformazione in antocia- nina delle sostanze esistenti nel cianoplasta ed allora esso rimane incoloro. 8° Il cianoplasta presenta uno sviluppo determinato, finito il quale esso degenera ed il suo pigmento si spande nella cavità cellulare. 9° Il colore dell’antocianina è vario (rosso, violetto o turchino) prima di subire l'influenza del succo cellulare. Non si devono quindi considerare tutti questi pigmenti rossi, violetti e turchini come costituiti da un solo composto il cui colore varia secondo il grado di acidità del succo cellulare, ma come risulta anche dalle ricerche chimiche di altri autori, sì può asse- rire che le antocianine sono differenti tra di loro. Agnonomia. — Contributo sperimentale alla questione dei rapporti fra peso e volume delle sementi ed il rendimento ve- getativo al raccolto. Nota del dott. VirrorIio NAZARI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. — 835 — Patologia vegetale. — Za recettività del frumento per la carie in rapporto col tempo di semina. Nota del dott. O. Mune- RATI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Premessa. — La maggior parte dei patologi, che si occuparono dei funghi (Ti/letia) provocanti la cosiddetta malattia della carze nel frumento, sono propensi ad ammettere che le basse temperature dell'ambiente (e tanto peggio se il terreno sia insieme soverchiamente umido per pioggie od infil- trazioni) all'atto della germinazione del seme, diminuendo il vigore della piccola pianta, prolunghino lo stadio di suscettibilità da parte della pianta stessa a contrarre l’infezione; e che, viceversa, una temperatura relativa- mente elevata al tempo della semina, cui vada congiunta un'alta energia germinativa del seme, permetta alla piantina di sfuggire all'attacco del pa- rassita. Vi sono invece patologi i quali affermano come non vi sia un'asso- luta correlazione tra debole energia di germinazione (o intrinseca, o dovuta alle condizioni sfavorevoli dell'ambiente) e tendenza alla infezione: un'alta energia germinativa non sarebbe infallibile carattere per giudicare della resi- stenza al fungo e nessuna influenza sensibile eserciterebbe il tempo di se- mina sullo sviluppo della carie. Passando dal campo dei patologi a quello degli agricoltori pratici, ci- terò innanzi tutto una constatazione veramente tipica da me e dal prof. Lu- siani fatta sullo scorcio del giugno del 1909 in un podere dell'egr. sig. E. Bal- larin, sito a destra dell’Adige, verso il mare, nel Basso Polesine. Un vasto appezzamento di grano autunnale era violentemente colpito dalla carie: non meno del 60°/, delle spiche si presentavano invase dalla 7i/letza tritici (Bjerk.) Wint. (o 7. carzes Tul.) facilmente identificabile per le caratteri- stiche spore. Il seme era stato trattato con colaticcio di concimaia. Un'altra brillante dimostrazione della completa inefficacia del vecchio metodo di concia? Assolutamente no. Alcuni campi vicini portavano frumento tra il quale era malagevole scoprire qualche spica cariata, ed in essi era stato seminato grano dello stesso monte, trattato allo stesso modo! Una piccola inchiesta mi permetteva di stabilire che il frumento degli appezzamenti immuni era stato seminato ai primissimi di ottobre, mentre il campo for- temente invaso dalla carie (e, per giunta, in terreno più facilmente soggetto alle infiltrazioni dell'Adige) era stato investito una ventina di giorni dopo. Ricordo poi che qualche anno addietro un egregio agricoltore polesano, il cav. P. Ricci di Polesella, seminava due lotti di frumento marzuolo di una medesima partita, non trattata con solfato di rame, l'uno ai primi di febbraio, l’altro nella seconda decade di marzo: il primo alla raccolta pre- xx _——r= "7; TA III I II IZ SS CSI AREA — era SESSO] sony — 836 — sentava il 30°/, di spiche cariate, il secondo meno del 5 °/0. Il frumento marzuolo, che si tende a seminare prestissimo (in febbraio ed anche alla fine di gennaio, oppure nel tardo autunno) è appunto considerato dai pratici come più facilmente soggetto alla carie rispetto al frumento autunnale. Un altro appassionato agricoltore polesano, il Nob. dott. A. Perolari- Malmignati di Lendinara, da lunghi anni non pratica alcun trattamento al grano da semina, e non ha trovato mai, nei suoi tenimenti, anche ‘una sola spica cariata, ma egli ha l'abitudine di seminare prestissimo (agli ultimi di settembre o ai primi d'ottobre). Astrazion fatta dai sistemi di concia, le constatazioni della pratica hanno dunque posto in evidenza che il tempo di semina può esercitare una netta influenza sulla recettività del frumento per la Zilletia. Ed io avevo in ogni modo di fronte già sufficiente copia di osservazioni perchè non mi sentissi indotto ad iniziare alcune indagini precise. Con la efficace cooperazione del nob. cav. E. Petrobelli a Lendinara, del dott. Lusiani a Rosolina e del sig. G. Padovani (dell'Agenzia Co: Papado- poli) a Loreo, instituivo, nell'autunno 1909, tre serie di prove, seminando il grano, previamente infettato di spore di carie (7. carzes Tul., del rac- colto 1909) e quindi variamente trattato, in periodi successivi a cominciare dalla fine di settembre. L'esperimento dell'Agenzia Papadopoli non potè essere seguìto che parzialmente, ma tutti portarono, come andremo vedendo, a delle constatazioni sotto ogni rapporto dimostrative. Il decorso delle temperature durante il periodo delle esperienze (Osser- vatorio meteorologico di Rovigo) fu il seguente: 1909 Massima Minima 1910 Massima Minima centigradi centigradi Ottobre 1 21 14 Febbraio 1 6 2,5 LI 5) 23 16,3 ” 5) 5,9 1,5 ” 10 21,2 12 ” 10 10 3,2 ” 15 22 14 ” 15 8 0,2 ” 20 20 14 ” 20 9 9,1 ” 25 19,4 14 ” 20 11 6 ” 80 17,9 15,2 Marzo Il 10 1,5 Novembre 5 16,4 12,3 L) 5 12 2 7 10 14,2 10,4 ” 10 15,6 7 ” 15 13 8 ” 15 15,5 9 7 20 12 6 ” 20 15,9 6,2 ” 25 8 — 1,2 ” 25 14,5 6,5 ” 30 5) — 2,9 ” 30 18,2 11,5 Dicembre 5 65 — 2,0 Aprile 5) 12 6 E) 10 7 — 19 ” 10 13,5 6,9 ” 15 8,1 0,3 ” 15 17,5 9 MOSS 1° EsperiMENTO. — À Lendinara, presso il Nob. cav. Eugenio Petrobelli, in terreno di medio impasto tendente all’argilloso, ben sistemato e alto rispetto ai campi circostanti, precedentemente coltivato a barbabietole. Par- celle di 50 metri quadrati. La semina fu fatta in quattro tempi diversi, e precisamente il 29 set- sembre, il 15 ottobre, il 27 ottobre e il 10 novembre 1909. In tre parcelle contigue venne ogni volta distribuito rispettivamente seme infettato senza trattamento, seme infettato e conciato con calce (!), e seme infettato e con- ciato con solfato di rame. Per brevità ommetto ogni osservazione di cultura, diligentemente seguìta dallo stesso ben noto proprietario e dal prof. Malandra, e riporto in un pro- spetto riassuntivo le osservazioni fatte al momento della raccolta: Percento di spiche trovate infette: Semina DIO clan settembre ottobre ottobre novembre Seme infettato, senza concia . . . 0 2 4 8 ” ” conciato con calce . . 0 0 3 4 » ” conc. con solf. di rame 0 0 2 2 Osservazioni. — Con la semina relativamente tardiva si è avuta dunque un'infezione manifesta, mentre la semina precoce ha permesso alle piante in via di evoluzione di sfuggire all'attacco del fungo, anche se delle spore di questo fosse stato largamente cosparso il tegumento. Ho detto « relativa- mente » perchè, dal decorso delle temperature nell'autunno 1909, riportate più sopra, appare come la stagione sia corsa piuttosto mite sino ad oltre la metà di novembre. Il trattamento con la calce, se non ha agito con l’effi- cacia del solfato di rame, ha avuto nondimeno un’intluenza evidente. 2° EspeRIMENTO. — Nello stesso appezzamento (proprietà sig. E. Bal- larin) citato nella premessa, in prossimità dell'Adige, e quindi umidiccio, (1) Il cav. Petrobelli da lunghi anni, seguendo le abitudini paterne, non si serve per la semina che di frumento trattato con calce, senza avere mai lamentato nessun danno da parte della carie contrariamente all’opinione ammessa dalla pluralità degli studiosi, i quali, nelle loro prove comparative, hanno rilevato che la calce non ha un’azione speci- fica al riguardo (veggansi anche gli esperimenti 2° e 3° di questa nota). La evidente contradizione potrebbe forse trovare un termine di conciliazione nel fatto che, mentre i patologi, che negano ogni valore al trattamento con la calce, si sono limitati a compiere il trattamento stesso soltanto poco prima della semina, il Petrobelli mescola la calce (viva, in polvere) al grano da semina 40-50 giorni prima di affidare il seme al terreno: cioè trebbia, passa al cernitore e subito dopo concia e mette in monte. È appunto pre- sumibile che, a lungo andare, le spore, a contatto della calce, possano perdere in buona parte la loro vitalità. Non mi consta che si siano compiute indagini al riguardo. RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 110 == d — 838 — istituivo una seconda prova, un po' più complessa. Vi attesi direttamente, insieme col prof. Lusiani. Il frumento, previamente infettato di spore di carie, e variamente trat- tato, veniva anche qui ’seminato in piccole parcelle contigue con tutte le necessarie cautele: a) senza trattamento; b) conciato, come di solito, con soluzione di solfato di rame al 2%o5 c) conciato con colaticcio di stalla; d) conciato al momento della semina con immersione in acqua e suc- cessivo spolveramento con calce da poco spenta; e) conciato con soluzione di solfato di rame come in 2), ma distribuito su terreno disseminato di spore di carie ('). I periodi successivi di semina furono i seguenti : 11 ottobre a 21 ” » | frumento autunnale 10 novembre » \ (Cologna veneta) 22 n be] 10 febbraio 1910 ) frumento marzuolo 16 marzo » | (Americanorosso). Accurati rilievi al momento della maturanza portarono alle constata- zioni di cui al qui sottoriportato prospetto : Spiche trovate affette da carie. Trattato Infettato Spolverato Trattato MO Pon. Tempo di semina. senza con con SSR dar RARO trattamento calce colaticcio divano dino di spore 11 ottobre 1909 1° 1% 1%, 0% 0% 21 ” ” ò 7 2» 5» 0» 2 n 10 novembre » 10 » 3» 12 » 1» 5» 22 ” L) 90 » 60 > 70 » 4» 12 » 10 febbraio 1910 30 » 25 » 30 » 2 n 8» 16 marzo ” 5 » 4 > 2» 0 » 2» (!) Un certo numero di cariossidi cariate (raccolto del 1909) veniva schiacciato, e lo ammasso polverulento era mescolato accuratamente con sabbia umida e sparso uniforme- mente e con ogni cura sul terreno; si compieva una leggiera zappatura e quindi si se- minava. L'esperimento non poteva avere, evidentemente, un valore del tutto pratico: non mancano, tuttavia, indipendentemente dalle spore che nello stesso strato coltivabile pos- sano conservare la loro vitalità da un anno all’altro, dei casi di infezione di seme, già a regola d’arte conciato, per contatto con seminatrici, che abbiano le pareti della tra- moggia o delle canne distributrici cosparse di spore, ecc. — 839 — Osservazioni. — Forse perchè l’'appezzamento va normalmente sog- getto ad infiltrazioni del fiume, alla semina tardiva di grano infettato e non trattato ha corrisposto un attacco violentissimo di carie, mentre, nelle me- desime condizioni favorevoli alla propagazione del fungillo, il seme affidato alla terra assai presto non ha presentato che una quantità quasi trascura- bile di spiche eolpite ('). La concia con colaticcio deve, più che tutto, agire meccanicamente, cioè per asportazione di spore dal tegumento in conseguenza del subìto lavaggio. La calce spolverata sulle cariossidi ha alquanto attenuata la violenza dell'attacco (anche, probabilmente, per il precedente limitato lavaggio in acqua), ma non al punto da doversi attribuire alla calce, spolverata sul grano infetto all'atto della semina, un'azione bastantemente efficace. 3° EspeRIMENTO. — A Loreo, nell’Agenzia Co: Papadopoli. Terreno di medio impasto, fertile e fresco. Cultura precedente: frumento. Seme di fru- mento di varietà Cologna veneta, proveniente da raccolto normale. Non poterono raccogliersi che ì dati riguardanti una sola serie (semina: 11 no- vembre) in piccole parcelle di due metri quadrati. La cultura venne costan- temente seguìta dal sig. Padovani. A) Seme infettato distribuito in terreno normale. vi Spi e Semina: 11 novembre 1909 SIpicioo ora di epiche GorIaLe cariate cariate a) immerso in colaticcio e spolverato CONBCAICO E O i e, 178 620 28°/, 6) immerso in soluzione di sale da cucina e spolverato con calce. . . 136 648 20 n c) lavato con acqua semplice e spol- verato con calce . . 149 665 22 » d) trattato con soluzione di ‘solfato di rame (29/0) . MARRA HI, 36 755 4» e) senza trattamento . . . ..° 320 493 64 » B) Seme normaie distribuito în terreno cosparso di spore. a) immerso in colaticcio e spolverato con calce . . . 256 606 42 » b) immerso in ‘ soluzione di sale da cucina e spolverato con calce. . . 135 650 20 » c) lavato con acqua semplice e spol- verato con calce . . . 207 030 39 » d) trattato con soluzione di ‘solfato dii DO) Re 634 17» Osservazioni. — La semina relativamente non tardiva ha pur permesso alla Ty/letia di assalire con notevole violenza il grano non trattato. Il tratta- (1) Sarebbe il caso di verificare se, distribuendo nel terreno delle spore di Z'i/letia alcuni giorni prima della semina, si potesse provocare l’infezione anche con semine au- tunnali precoci. | \l — 840 — mento con soluzione di cloruro di sodio e con colaticcio con successivo spol- veramento di calce ha palesato un'azione sensibile nell’attenuare il danno del parassita, ma incomparabilmente meno manifesta di quella del solfato di rame. Anche in questa prova il frumento già trattato con solfato di rame e cadente in un terreno infetto non è sfuggito alla infezione. ConcLusioni. — Le seguenti conclusioni, per quanto rese più attendi- bili da un ripetuto uniforme responso dei fatti, non possono, nè vogliono, avere valore assoluto, riferendosi esse alle constatazioni di una sola annata (DE I. Indipendentemente da quegli altri fattori che possono più o meno favorire la propagazione e l’espandersi della Tilletia nei raccolti di fru- mento, il grado di temperatura all'atto della semina e nei giorni che coin- cidono con l'evolversi delle prime fasi di sviluppo della pianta esercita una decisa influenza sulla recettività del grano per la carie. II. La presenza di spore vitali di 7%//e/za (7. caries Tul.) sul tegu- mento del grano non è condizione sufficiente perchè il raccolto debba neces- sariamente andare soggetto ai danni della carie. Semi di frumento, anche fortemente infetti e tolti da un unico lotto, possono dar luogo a piantine capaci di sfuggire in totalità o in altissima percentuale all'attacco del fungo in alcuni casi, e ad altissima percentuale di piante infette in altri casì. III. Le semine precoci per i frumenti autunnali e piuttosto tardive per i frumenti marzuoli danno luogo generalmente a piante sane anche se la semente sia infetta, onde si spiega perchè agricoltori, che non fanno alcun trattamento (cowcia) al grano autunnale da semina, ma che hanno l’abitu- dine di seminare prestissimo, possano logicamente vantare culture sempre e assolutamente immuni. IV. Quanto più tardi si eseguisce la semina in autunno e quanto più presto in primavera, cioè quanto più lentamente — per la bassa tempera- tura ed anche per la normale simultanea eccedente umidità — sì compie l'evoluzione della prima fase di vita della pianta, tanto maggiore è la recet- tività del grano per la 7/letia. V. Con semine tardive in autunno 0 molto precoci in primavera, anche un seme a tegumento del tutto privo di spore vitali (immerso, ad es., în so- luzione di solfato di rame al 2°, per 10 minuti) può dare origine a spiche cariate se la cariosside subisca una reinfezione innanzi o nell'atto di essere affidata al suolo, oppure quando la piumetta venga a trovarsi a contatto di spore di 7/letza germinanti nel terreno. Sotto questo rapporto, una concia con la quale si giunga a rivestire il frumento di uno straterello di sostanza fungicida (trattando, ad es., il grano con una soluzione di solfato di rame e spolverandovi subito dopo della calce recentemente spenta) potrebbe, fino a un certo punto, salvare la cultura dall’infezione. (1) Altre prove ho in corso quest'anno. — 841 — PERSONALE ACCADEMICO ANGELO MOSSO COMMEMORAZIONE LETTA DAL CorrIsp. VitTtoRIO ADUCCO nell'adunanza del 2 aprile 1911. L'onore di commemorare, dinnanzi a voi, AnGELO Mosso doveva, piut- tosto che a me, toccare ad altri: ad altri che sapesse meglio comprendere la mente dell’uomo, che abbiamo perduto, e meglio sapesse prospettarvene la figura. Voi voleste dare a me questo còmpito, perchè sapevate quali vincoli di affetto reverente e devoto legavano, da anni, a Lui l'animo mio e, forse, sa- pevate pure che Egli contraccambiava, con altrettanta benevolenza, cotesti sentimenti. Mi sono accostato con reverenza a tutto ciò, che costituiva la personalità del mio Maestro: ho cercato di penetrare nella sua mente e nel suo cuore: ho indagato nell'opera sua: ho richiamato con profonda commozione i ricordi degli anni vissuti con lui: ho interrogato molti, che gli furono famigliari: ho interrogato me stesso: e son venuto, trepidante ancora e commosso, a par- larne dinnanzi a voi ('). Avrei voluto saper dare a questa nobile figura d'uomo e di scienziato quel rilievo e quel colore, che valesse a renderla per altri, quale fu per noi, ammonitrice ed incitatrice. Potesse almeno l'affetto, che ho messo in questa rievocazione, esprimere il tributo d'una riconoscenza imperitura verso la memoria del Maestro scomparso! Quando il Mosso cominciò ad occuparsi di ricerche sperimentali, era- vamo nel periodo in cui all'osservazione pura e semplice ed ai metodi, che permettevano solo un'analisi superficiale ed incompleta, per quanto accurata e feconda, si era da poco aggiunto il potente aiuto dei più delicati mezzi, che la fisica e la chimica potevano offrire allora. Mentre, pochi anni prima, Giovanni Miller affermava l'impossibilità di fissare la velocità dell'impulso nerveo, Helmholtz era riuscito a misu- rarla. Il metodo grafico era stato introdotto dal Ludwig, e, nelle mani del Marey, stava raggiungendo quella precisione e quella diffusione, che lo po- sero fra i più universalmente adottati nelle ricerche fisiologiche. (1) Ho avuto notizie intorno alla vita del Mosso dalla vedova, dalla sorella, dal prof. Pagliani e soprattutto dal prof, Kronecker, ai quali mi ero rivolto e che cortese- mente aderirone all'invito. gio) — Questo soffio innovatore nei procedimenti dell'indagine, dal quale dipese, in parte, la reazione positivista contro il vitalismo Miilleriano, non era an- cora entrato, in modo sensibile e proficuo, nel nostro paese, mentre altrove e specialmente in Germania, se ne erano già colti frutti copiosi. Per l'applicazione dei nuovi metodi allo studio delle funzioni, la ricerca biologica si fece più ardua e più minuta e pretese, da parte dello sperimen- tatore, maggiore preparazione e perizia tecnica speciale. L'analisi dei feno- meni divenne più sicura, più esatta e più penetrante, per cui, mentre la nozione di non pochi di essi si rischiarò di viva luce, quella di altri apparve, se non più oscura, certo più intricata. Nè poteva essere altrimenti, poichè, ad ogni passo del metodo, nuovi orizzonti si aprono all'investigazione e nuove conquiste si fanno nel regno dell’ ignoto. Angelo Mosso, al quale natura aveva largito un vigore morale ed un rigoglio intellettivo che nè gli anni, nè le sventure, nè le infermità avreb- bero logorati, fa parte di quel primo gruppo di fisiologi, da cui l'Italia, ap- pagata se non sazia la lunga aspirazione all’ Unità politica, aspettava, e non invano, il rifiorire di una scuola fisiologica nostra e l'instaurarsi di una vera tradizione scientifica. Nel campo delle scienze sperimentali un lavoratore isolato, fosse pur grande, avrebbe bensì potuto avere ancora un'influenza notevole sulla cultura e sul progresso scientifico del paese, ma non bastava più alle nuove esigenze, che lo spirito del tempo aveva fatto nascere e crescere. Il bisogno che l’indi- viduo sapesse trasfondere in altri, intorno a lui raccolti, attitudini, sapere, energie, ideali e metodi era sentito da tutte le menti, sollecite dell’ avvenire. Il Mosso aveva le qualità che di uno studioso fanno un maestro, che dànno all'attività personale quella forza espansiva per cui influisce sull'atti- vità degli altri e le imprime coscienza, ardore e direzione. Dalla sua com- plessa individualità emanava come un'essenza sottilissima, che agiva, per virtù dinamogena, su quanti gli stavano al fianco. Egli scrutò i campi della scienza con l’alacrità e la tenacia d'un volere inflessibile, col fervore di una fede sincera, con la perspicacia e la profondità d’uno spirito superiore, col successo, che sanno raggiungere le menti lucide e pratiche, e, perciò, è facile comprendere la grande e benefica influenza, ch’Egli esplicò intorno a sè, sia come uomo sia come sperimentatore. A Angelo Mosso si diceva cittadino di Chieri, sebbene nato a Torino il 30 maggio 1846. Ma la sua famiglia era di Chieri, e, quivi, fu portato, pochi giorni dopo la nascita, e, quivi, avendovi il padre aperto bottega da falegname, passò l'infanzia, la giovinezza e parte della virilità. Le prime scuole, compreso il Ginnasio, le fece in quella cittadina; il Liceo, mercè un sussidio, un po” a Cuneo, un po’ ad Asti. Non fu sempre — 843 — scolaro modello, ed una volta dovette la madre intercedere perchè, dalla bottega paterna, dove era stato messo a lavorare, fosse riaccettato nella scuola. È probabile che, in quelia bottega, Egli abbia acquistata od affinata l'abilità al lavoro manuale, che gli doveva esser così vantaggiosa nel Labo- ratorio. Così pure credo che la povertà dell'esistenza, di cui si ricordò sempre con fierezza, ed il veder quanto, in casa sua, fosse difficile gnadagnarsela, abbia presto associato nel suo cervello, vivace e pronto, l’idea di vita a quella di lavoro e di sacrificio (). Quest'esercizio di povertà diede all'animo suo, già sano e retto, la tempra che gli voleva; gli fu scuola di forza e di carattere, immunizzandolo contro la debolezza della volontà; gli instillò, a poco a poco, un alto desiderio ed un incoercibile proposito di elevazione, gli infuse nell'animo il virile sentimento della lotta e del sacrificio. Ad esso si deve, in parte, quella forza e quel- l'ardore, che furono le note fondamentali della sua vita. Ma nessuno potrà mai valutare quanto delle sue energie la povertà abbia disperso, deviandolo dal suo più diretto scopo: nessuno potrà mai dire quanto più agevolmente avrebbe conquistato il suo posto, se non fosse nato povero: « haud facile emergunt quorum virtutibus obstat Res angusta domi » (*). Fallitogli il concorso ad un posto del Collegio delle Provincie, si inserisse egualmente all'Università (*), essendo il padre deciso a qualunque privazione purchè il suo primogenito potesse continuare gli studî. Nè ebbe a dolersene, poichè il figliolo si accaparrò subito l'affetto e la stima del De Filippi e del Moris, i quali, compiuto il primo biennio, lo fecero incaricare dell’insegna- mento delle Scienze naturali nel Liceo di Chieri. Il che portò bensì un sol- lievo ai suoi, ma richiese da Lui uno sforzo maggiore, al quale, però, si sottomise volenteroso e lieto, attribuendo, anzi. un'influenza salutare alle gite che, attraverso la collina torinese, a piedi, qualunque fosse la stagione, (*) I semi di quest'idea fruttificheranno poi, e, molti anni dopo, nel 1877, nell’elogio funebre di Leopoldo Rovida, dirà: « per me non so fare degli uomini che due grandi divi- sioni, i buoni ed i cattivi, i laboriosi e gli inerti»: e, più tardi, in un discorso solenne ai Lincei (28 maggio 1887), inneggierà alla fatica « perchè rinfranca i muscoli e tempra l’anima a più dure prove n: ed, infine, ancora una volta, già infermo, nel libro Vita moderna degli Italiani (1906, pag. 331), scriverà: « è il desiderio e il culto della fatica che dobbiamo instaurare, perchè l’anima nelle fatiche si sveglia e si rinforza ». Non solo, ma egli proclamerà altamente che «la fatica è la base della creazione nelle scienze e nelle arti» (Za Fatica, 1891, p. 275) e che «la gloria è nella lotta e nel lavoro per conquistare la fortuna, non nel premio che può dare l’operosità, o nella ricchezza che si guadagna senza merito anche dagli audaci inetti», (Mens sana in corpore sano, 1911, pag. 162). (*) Giovenale, ITI, 164-165. (3) Novembre 1864. — 844 — doveva fare per recarsi, parecchie volte la settimana, a compiere il suo ufficio. A Torino abitò, con un amico, altrettanto povero, una soffitta, finchè, nominato nel 5° auno allievo interno nell’Ospedale Mauriziano, vi ebbe camera e mensa in comune con Luigi Pagliani, col quale si iniziò, così, quella fraterna amicizia, che non doveva più sciogliersi. È da notare che il Mosso, sia per naturale propensione, sia che le le- zioni al Liceo lo richiedessero, sia perchè, in quegli anni, avevano maggior grido alcuni insegnanti di materie biologiche, frequentò con predilezione, anche quando non ne aveva più obbligo, il corso di Zoologia comparata del De Filippi, il cui viaggio per le Indie era imminente, e fu assiduo, poi, nel Laboratorio del Lessona, che ve lo accoglieva affettuosamente, e si sentiva attratto dalle magistrali lezioni del Moleschott. Furono esse che, come quelle del Magendie, al dire di P. Bert (1), fecero per C. Bernard, gli « inspira- rono nell’animo giovanile l’amore dello studio ed il culto della scienza » (?). Anche in quegli anni la sua vita fu vissuta fra le angustie materiali. Tuttavia il suo inalterabile ottimismo (°), la disciplina a cui obbligava se stesso, il confronto con altre miserie, soprattutto con quelle che l'Ospedale gli metteva sottocchio, gli facevano giudicare bella l'esistenza e gli davano un senso di gaiezza, che si comunicava agli altri. Ebbe, però, un accesso di sconforto, forse l'unico, quando, d'un tratto, per non aver potuto adempiere l'obbligo del servizio nell’Ospedale militare, ricevette, verso la fine del 5° anno, l'ordine di partire soldato. Partì colla disperazione nell'anima, atterrito al pensiero che i suoi studî erano troncati. Ma l’esilio non fu lungo. Per l’in- tervento di persone autorevoli il decreto fu revocato: cosa enorme a quei tempi (*). Così potè laurearsi con lode (5), presentando come tesi i risultati di alcune ricerche intorno all'accrescimento delle ossa, ricerche che furono giudicate degne di stampa. Dopo la laurea fu medico di battaglione, ma per poco, giacchè, vinto un concorso di perfezionamento all'interno, si recò (1871) nel Laboratorio di Fisiologia di Maurizio Schiff, a Firenze, dove compiè le sue prime ricerche sperimentali, fra cui richiamarono l’attenzione quelle sui Movimenti dell'e- sofago (°). (1) Discorso di P. Bert in «C. Bernard, La science expérimentale n, pag. 17. (3) Lettera dedicatoria al Moleschott nella Memoria: La circolazione del sangue nel cervello dell’uomo. (3) A. Mosso, Vita mod. Ital., 1906, pag. 264. (4) Notizie avute dal prof. Pagliani. (5) Il 25 luglio 1870. (6) I lavori 2, 3, 4, 5, 6 furono eseguiti nel laboratorio dello Schiff. — 845 — Per queste Egli era già favorevolmente (*) noto agli studiosi, che lavo- ravano sotto la guida di quel mirabile Maestro, che fu Carlo Ludwig, quando, nel 1873, vinto il posto di perfezionamento all'estero, andò a Lipsia, dove convenivano d’ogni paese giovani, assetati di apprendere i metodi della ri- cerca fisiologica e del ragionamento scientifico. In quell'ambiente il Mosso si trovò a respirare un'atmosfera satura di insegnamenti. La scuola inarrivata del Ludwig, il corso di metodi fisiolo- gici del Kronecker, le indagini proprie (*), quelle di un manipolo di fisio- logi, a cui fu poi sempre legato da sentimenti di affettuosa stima, costitui- vano tale un complesso di lavoro, che il viverci dentro doveva dare alla sua mente ed alla sua futura azione un carattere indelebile. Il suo organo pensante, si come cera da suggello, Che la figura impressa non trasmuta (*), conservò il ricordo, segnatovi dalla vita attiva ed intensa di quei due anni, ma non perdette, però, le qualità proprie e specialmente lo spirito limpido, pieno di originalità e d’ iniziative. In quel periodo di contatto col grande Maestro, di convivenza con tanti spiriti eletti, di lavoro produttivo, di assimilazione intelligente ed assidua, lo sperimentatore si era maturato, il pensatore aveva trovato la sua via. Fin d’allora il suo spirito si orienta verso una concezione meccanica dei fenomeni della vita; ma la sua azione di fisiologo non ne sarà polarizzata, giacchè, in essa, la sua mente si muoverà, sempre libera da ogni vincolo dottrinale sistematico (4). Aveva acquistata tanta stima nel paese, che lo ospitava, che due Istituti di Fisiologia gli offrirono il posto d'assistente, ma Egli non accettò. Ritornò in patria, non senza essersi fermato alcuni mesi a Parigi per conoscervi Cl. Bernard, Marey e Ranvier. Intanto, negli anni del perfezionamento, andava spesso, durante le ferie, nel Laboratorio del Moleschott, che prese a stimarlo e ad amarlo (5). Il Les- sona lo aveva già caro; lo diventò anche al Govi, al Timmermans ed al Bizzozero. A metterne in luce, nell'Università di Torino, il valore contribuì la presentazione dei suoi primi lavori all'Accademia di Medicina ed a quella delle Scienze. (1) Così mi scrive il prof. Kronecker. (2) I lavori 7, 8, 9, 10 furono eseguiti nel laboratorio del Ludwig. (3) Purgatorio, XXXIII. (4) Vedi Za Paura, cap. IV, $ 8 e La Fatica, cap. III, $ 3. Vedi pure il n. 92 Necrologia di C. Ludwig, cd il n. 100 Materialismo e Misticismo. (5) Tanto da affidargli la correzione della seconda ristampa della Circolazione della vita. RenDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 111 — 846 — Ebbe allora l’incarico dell’insegnamento della Materia Medica e Tera- peutica sperimentale, di cui iniziò il corso (*) con una prolusione (?), che fu un dichiaramento di fede sul predominio che deve avere « il valore dei fatti su quello delle spiegazioni e delle applicazioni ». Il desiderio manifestatovi che « sulle ceneri di una cattedra si innalzi un laboratorio » era l’espressione sintetica del programma, che si era prefisso, e del metodo, che voleva seguire. Per poco tempo tenne questo insegnamento e quello della Tossicologia, che gli era stato pure affidato: ma quegli anni (°), quantunque una grave infezione tifica (‘) lo avesse costretto ad una lunga inerzia, sono contrasse- gnati dalla pubblicazione di ricerche (*), nelle quali tutte le doti, che fanno del Mosso un grande fisiologo, appaiono così armonicamente fuse da far ri- saltare, fin d’allora, in piena luce, la figura sua di lavoratore infaticabile, di osservatore profondo, di sperimentatore perfetto, di tecnico geniale, di forte ragionatore. L'opera sua indefessa e fruttuosa, sebbene si spiegasse, ancora, fra le strettezze del Laboratorio e le privazioni della vita, gli aveva guadagnato estimatori ed amici fra quanti miravano con intelletto e con speranza il sor- gere e lo svolgersi delle giovani energie, che avrebbero onorato la nuova Italia. Quintino Sella fu uno degli uomini, che lo ebbe in grande conside- razione e che gli si dimostrò benevolo ed affezionato, ricevendone in cambio riconoscenza pari all’ammirazione. Non fa quindi maraviglia se un concorso gli dette lo straordinariato (1877 ) ed un altro l'ordinariato (1878). Nè se l'Accademia dei Lincei gli fece onore col decretargli (1879), basandosi anche sulla relazione di un Helmholtz (*), il premio Reale per la classica Memoria Sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo ("), onore al quale, tre anni dopo (il Mosso ne aveva 36), seguiva la nomina a Socio nazionale (*). Nell’anno 1879, nel quale gli erano riserbate tante soddisfazioni, per- dette la madre e fu grande dolore, che lo « ferì nella parte più viva del cuore » (°). Ma, sdegnoso com'era di lasciar trasparire, oltre l'inevitabile, le sofferenze interiori, risentì più lungamente e più duramente il colpo cru- (1) Il 24 novembre 1875. (Oi (3) Dal 1875 al 1879. (4) Lo curò affettuosamente il Moleschott. (Da lano: (5) Questa relazione, scritta di proprio pugno dallo Helmohltz, fu donata dal Sella al Mosso, il quale volle dare un segno della sua riconoscenza allo Helmohltz dedicandogli il libro Za temperatura del cervello. Ciò risulta da una lettera del 22 luglio 1893, al Kronecker. (7) 25. (8) L’anno vrecedente (1881) era stato accolto nell'Accademia delle Scienze di Torino. (®) Lettera del giugno 1879 al Kronecker e La Paura, 4* ed., pag. 75. — 347 — dele. Volle allora tutti i suoi (il padre, la sorella ed il fratello) intorno a sè e fu lieto di poter procurar loro una modesta agiatezza e più lieto ancora di poter indurre il fratello a riprendere gli studî, da cinque anni abban- donati (*). Il nome del Mosso era già scritto nel libro della fama, quando, resasi vacante la cattedra di Fisiologia di Torino, per la chiamata del Moleschott a quella di Roma, Egli, dopo qualche mese d’incertezze burocratiche, e sebbene alcuni suoi colleghi preferissero (*) che tenesse quell’ insegnamento, in cui aveva infuso un alito di nuova vita, fu da una Commissione dichia- rato, in base all'articolo 69 della legge Casati, degno di succedergli. Conquistata (*) la Catteara, che si confaceva alla sua mentalità, alla sua preparazione ed alle sue aspirazioni, concentrò tosto tutte le sue forze verso uno scopo: quello di portare il Laboratorio di Fisiologia di Torino a tale com- pletezza da poter offrire agli studiosi ogni comodità ed ogni mezzo d'indagine. E ci riuscì così bene che, in breve, quell'Istituto era il primo fra i nostri e lo è tuttora, sebbene con minor distacco. Chi non ha lavorato in quel vecchio Laboratorio di via Pò, tirato fuori da un convento, dove la Cappella era diventata un’Aula, non può farsi una idea dell'operosità del Mosso e del suo entusiasmo per la ricerca. Fra i primi ad entrare, fra gli ultimi ad uscire, concedendo il minimo di tempo ai bi- sogni della vita, che non di rado obliava, capace di sacrificare notti e notti, sfidatore impavido del pericolo, quando l'indagine lo esigeva, sempre prodigo di sè, era di esempio e di sprone a quanti gli stavano intorno. Vederlo lavorare, aiutarlo nelle indagini, seguirlo nell’incessante elabo- razione mentale, che di sè dava segno nelle varie e molteplici forme degli avvedimenti, che Egli, via via, ideava per penetrare nel cuore dei fenomeni, sottoposti al cimento dell’osservazione e dell'esperienza, era la miglior ma- niera di trarre, dal nostro Maestro, profitto di cognizioni e dovizia d'am- maestramenti. Tale era essenzialmente la sua Scuola: insegnare con l'azione, più che con la parola: giacchè Egli pensava che, per tal modo, il discepolo, essendo costretto a metter maggior parte di sè nello sforzo dell’apprendere, potesse meglio sviluppare le qualità personali. E non pochi ebbero ospitalità in quel Laboratorio, e vi appresero a la- vorare e vi sentirono le vibrazioni di un'alta idealità, di uno sconfinato amore per la scienza e pel lavoro, di uno spirito d'abnegazione sempre desto. In quasi tutte le Università italiane vi è, ora, qualche insegnante, che ha bevuto a quella fonte e che ricorda con gratitudine i mesì, o gli anni, vissuti con quel Maestro, in cui il continuo lavorìo del pensiero era secon- dato da una ferma volontà, da una prodigiosa attività di sperimentatore e (*) Lettera del 28 ottobre 1879 al Kronecker. (3) Lettera del 25 sennaio 1879 al Kronecker. (3) Novemhre 1879. ———————————————z — 848 — da una singolare facilità a trovare, per sè e per gli altri, i mezzi adatti a risolvere un problema. Anche dall'estero alcuni fisiologi vennero a intraprendervi qualche ri- cerca, in cui la speciale competenza del Mosso rendeva necessario il suo consiglio od il suo aiuto. Egli, ad una grande coltura fisica e fisiologica, associava una rarà pe- rizia tecnica. Era poi insuperabile nell'uso dei metodi di registrazione gra- fica, sia per la conoscenza profonda che ne aveva, sia per la destrezza della mano, che gli permetteva di valersene con precisione, sia per lo squisito senso estetico, che dava a tutte le operazioni del suo lavoro una bella ar- monia di linee. Quantunque, nello sperimentare, il volto gli si componesse ad un'espres- sione di austerità e di raccoglimento, come dinanzi a cosa sacra, come a prepararsi ad un colloquio col mistero della vita, noi tutti si sentiva che non era mai freddo o indifferente. I fenomeni, che gli si svolgevano davanti, parlavano non solo alla sua mente, ma anche all'anima sua. Ma la commo- zione, che, in altri, avrebbe nociuto alla serenità dell’indagatore, in Lui era contenuta e temperata in modo che non esorbitava, bensì donava fervore all’intelletto. Era questa commozione, fluttuante nell'ambiente, che dava il tono al lavoro di quel Laboratorio, e che ci faceva partecipare con grande amore e con vigile zelo all'opera del Maestro. Questa stessa commozione gli palpitava, spesso, nella parola, dando alle sue lezioni ed ai suoi discorsi, un calore comunicativo ed una vita intensa; spesso si percepiva nei suoi scritti ('): sempre, compenetrava ogni suo atto ad ogni suo stato. ll lavorìo della mente intorno alle indagini lo assorbiva così completa- mente, che ne derivava una specie di isolamento, il quale escludeva ogni altra cura. che non fosse direttta a quello scopo, come se nel campo della visione distinta ci fosse posto soltanto per le immagini relative al problema, (1) Cito un esempio. Avendo trovato che l'allenamento rende nullo l'aumento di tem- peratura nelle ascensioni, esclama: « L'entusiasmo mio durante tali esperienze era così grande che, in questa economia maravigliosa dell’energia, mi sembrava di contemplare un sentimento morale della natura; e l’ispirazione poetica dell'ambiente mi lasciava credere d’aver scoperto una perfezione etica prodotta dall’esercizio » (L'uomo sulle Alpi, 1909, p. 189). Leggansi anche in Escursioni del Mediterraneo e gli scavi di Creta, 1907, le righe, in cui descrive l'emozione degli scavi (pp. 17-18). Finisce dicendo: « Più che l'intelletto è il cuore che deve palpitare per la febbre che dà la ricerca, ed è un fuoco sacro che inebbria; fino a che giunge la rivelazione di un sogno quasi sovrumano, nel quale si ve- dono, sotto la terra, i segreti della storia». E poi, a p. 23: « D’ogni trovamento conservo un'immagine viva ed esatta, perchè s'era svegliato in me come un esaltamento nella forza della percezione, per questo lavoro nuovo, al quale mi abbandonavo con entusiasmo giovanile ». li Di — 849 — che avvinceva la sua attenzione. Noi gli si parlava, ma, ben presto, ci sì avvedeva, da uno speciale aspetto degli occhi, che parevano rivolgersi a guardare interiormente, che non ci ascoltava più e che il pensiero dominante lo aveva riafferrato. Questa concentrazione spirituale dava luogo, è vero, alle sue distrazioni, ma acuiva anche le sue facoltà mentali e, distogliendole da ogni altro oggetto, conferiva loro una straordinaria penetrazione. Non solo, ma faceva sì che il problema fisiologico fosse da lui tentato da ogni lato con insistenza quasi veemente, che non poteva non condurre a risolverlo in tutto o in parte. Era così posseduto dal genio della ricerca che, non di rado, i doveri didattici gli parevano un sacrificio, perchè lo costringevano ad interromperla. Tuttavia metteva nelle lezioni, anche più comuni, una nota personale, che le rendeva efficacissime, quantunque dovesse reprimere la sua emotività, a cagione della quale era invaso, più che da preoccupazione, da vera appren- sione, specialmente quando doveva fare qualche esperienza ('). Ma, se la lezione riguardava un capitolo, dove aveva fatto studî spe- ciali, allora mente ed anima si impennavano a volo, e l’uditorio trepidava della sua commozione e sentiva di essere trasportato in alto, verso la fonte da cui erompono le nuove dottrine (°). Per un uomo d’azione, quale era il Mosso, non poteva la brama di fare essere soddisfatta tanto facilmente. In tutta la vita la sua operosità fu sempre rivolta a varî segni. Così è che, dal 1875 al 1879, divide il suo tempo tra le ricerche critiche sull'attività diastolica del cuore; quelle sui movimenti e sulla circolazione del cervello nell'uomo; quelle sull'azzone dell’aria compressa, sulle variazioni locali del polso, sul polso negativo, sui movimenti dei vasi sanguigni e sulla respirazione toracica e addomi- nale. Nei primi anni dopo assunta la Cattedra di Fisiologia, abbiamo le esperienze sulle funzioni della vescica, l'applicazione della bilancia allo studio della circolazione del sangue nell'uomo, le ricerche fisiologiche sulle ptomaine. Nel decennio dal 1884 al 1894 vediamo che gli studî sulla resp?- razione periodica e di lusso sì intrecciano con quelli sulle leggi della fa- tica, questi con le indagini sulla femperatura cerebrale, e queste con le molteplici osservazioni sulla morfologia del sangue e sulla pressione san- guigna, e con altre, che saranno riprese e proseguite in seguito, Anche potè attuare, allora, un progetto lungamente accarezzato. Durante la sua dimora ed i suoi viaggi all’estero, gli si era dimostrata la necessità di rendere accessibile agli stranieri quanto fra noi si veniva facendo nel campo della biologia. Gli parve dovere di buon italiano non lasciare nulla d'intentato per riuscire e non fu pago se non quando, superate molte diffi- (1) Za Fatica, 1891, cap. X p. 310, e Za Paura, Introduzione. (3) Za Fatica, 1891, cap. X, p. 318. —————=_rr—rT-_-.__re*rr—_0--—rrrrrrr—_—ts — 850 — coltà e provate non poche amarezze, potè incominciare, con l’Emery, inco- raggiato dal Tommasi-Crudeli e dal Bizzozero, la pubblicazione delle 47- chives italiennes de Biologie, che, per molti anni, furono l'unico e sono ancora un buon tramite, pel quale la produzione biologica nostrana fu ed è conosciuta all'estero (1). Una circostanza, che turbò per qualche tempo l’attività del Laboratorio di Fisiologia, fu il cambiamento di sede, che si effettuò nel 1893. La neces- sità di una sede più ampia, dove la distribuzione dei locali fosse conforme ai bisogni della ricerca, era preoccupazione vivissima del Mosso e di quanti avevano a cuore gli studî fisiologici. Il nuovo Istituto fu inaugurato con una mesta cerimonia: la commemorazione di Jacopo Moleschott (*), che si era spento pochi mesi prima (5). Nel nome del venerato Maestro il Mosso ne prese possesso, e fu con soddisfazione temperata da trepidanza. « Sarei felice, — scriveva — che invecchiando non dovessi persuadermi che era inutile ottenere un così grande Laboratorio dal mio paese » (4). Il Laboratorio era stato, per anni, la sua casa; quivi aveva dato al lavoro tutto sè stesso; quivi aveva ottenuto dalla ricerca le massime gioie. Tuttavia ne fu, fin d'allora, tratto fuori, talvolta, per alcune conferenze (*), nelle quali fece, per così dire, le prime prove della sua disposizione ad esporre in forma letteraria, al pubblico, i risultati delle altrui ricerche e delle sue. Non gli pareva, d'altra parte, che la ricerca scientifica dovesse chiu- dersi in sè stessa, come cosa intangibile ed impenetrabile. Desideroso di essere utile, pensò che lo scienziato aveva anche il dovere di far partecipi gli altri del gaudio, proveniente dal poter guardare nei fenomeni della na- tura e della vita, come in una regione non sconosciuta e non fantastica. Questo suo concetto e quella sua disposizione lo avviarono ad opera più vasta e meditò di comporre parecchi volumi, che formassero come un trat- tato popolare di Fisiologia (°). Nelle vacanze autunnali del 1883 scrisse il libro Za Paura, « figlio di una solitudine di tre mesi » (®), in una « casa nascosta fra gli alberi, dove non aveva altra ispirazione che la natura grandiosa e il silenzio dei monti » (E (1) Ho sott'occhio alcune lettere del Tommasi-Crudeli (agosto e settembre 1881), una del Bizzozero (agosto 1881), e le notizie che îl Mosso mandava frequentemente al Kro- necker. — Col Otto anni dopo pubblicò un nuovo volume, Za Fatica, che scaturiva da un altro ordine di ricerche. Entrambi furono accolti con grande favore in Italia e fuori. Le ricerche sue e degli allievi sul lavoro muscolare, ed il largo suc- cesso, arriso al libro della Fatica, spinsero l’attività del Mosso, da quel mo- mento in poi, in una direzione nuova, che, del resto, chi lo conosceva, facil- mente poteva prevedere. In essa doveva manifestarsi tutta la grandezza di animo ed il nobile entusiasmo di quell'uomo, il quale, sebbene rude nelle apparenze, e, apparentemente, non d'altro pensoso che di tradurre in esperimenti ed in idee il lavoro assiduo della mente, era profondamente buono e nutriva il generoso proposito di giovare al paese, ch' Egli amava d'un affetto vera- mente sano e virile. Per molti anni le sue inesauribili energie si appuntarono verso una meta, idealmente bella e santa: infondere negli Italiani la volontà di migliorarsi fisicamente, per rendere più sicuro e più pronto il miglioramento morale e per conservare intatto il tesoro intellettuale, insito nella stirpe. I suoi scritti sull'Educazione fisica della gioventù e sulla forma della ginnastica sono generose battaglie, dove lo spirito di combattività, che vi aleggia, è nobilitato da un caldo amor di patria, dall’ intento di far del bene e dall’aspirazione a scuotere l’ indifferenza dei più, contro la quale sì ribel- lava la sua natura fatta per l’azione. Si scagliò contro i sistemi, nei quali non si pensa che al cervello. « Tocca a noi di lottare contro la corrente e, per conto mio, accetto volontieri questo còmpito di gridare insieme con altri, assai più valorosi di me, che dobbiamo formare l'uomo tutto intero, fisicamente, moralmente, intellettualmente, e che nell'educazione moderna diamo troppa importanza all'educazione intel- lettuale, trascurando, con grave danno della patria, l'educazione morale e l'educazione fisica della gioventù » (?). Per lui era necessario il ritorno alla tradizione greco-romana dei giochi ginnici all'aria aperta; il penraZlon rappresentava l'ideale dei giochi, atti ad irrobustire la gioventù con gioia. Non poteva tollerare che, dopo esser stati i primi, si fosse gli ultimi nelle gare virili degli esercizî fisici. « Vogliamo ro- bustezza ed agilità di membra; vogliamo infondere una fede allegra nella gioventù con una ferma devozione agli ideali moderni della vita: vogliamo che sul vecchio ceppo torni a fiorire la civiltà nostra, perchè non siamo vaghi delle cose straniere e desideriamo riprendere la via, sulla quale ci fermammo inoperosi per tanti secoli » (?). Quanto abbia dato di sè a cotesto apostolato, quanto calore vi abbia trasfuso, con quanta tenacia vi abbia perseverato, quante lotte abbia soste- (*) Za riforma dell'educazione, Treves, 1898, pag. 178. (2) Za vita moderna degli italiani, 1906, pag. 331. 2} nute, quanti consensi abbia conseguito e quanti scetticismi abbia scosso ben pochi ignorano. È storia di ieri, ancora calda del fuoco con cui fu scritta, ancora vibrante del sentimento d'italianità da cui era circonfusa. E, mentre si prodigava cogli scritti ('), colla parola, prendendo parte ai congressi, accorrendo nelle palestre, avvicinando, in Italia e fuori, edu- catori della gioventù, istigando uomini di governo e di scienza, mettendo in moto ufficî e persone, perchè si concretasse qualche cosa, che corrispondesse al suo ideale d'educazione fisica, la mente sua era pur sempre, « come augel per suo richiamo », sollecitata verso il centro d’ogni suo pensiero, la ricerca scientifica, gioia e tormento della sua vita. Ed ecco le indagini sulla meccanica e sul chimismo e sull’ innerva- zione centrale del respiro, ea ecco quelle sulla respirazione nell'aria ra- refatta, sull'azione dell’ossido di carbonio, sui gas del sangue, sulla po- lipnea termica, tutte eseguite nella quiete e nell’ ambiente appropriato del Laboratorio, per quanto alcune non scevre di rischi, come quando, nella ca- mera pneumatica, sopportò che la depressione barometrica arrivasse a 192 mm. di Hg. (2), assai al disotto di quella in cui alcuni aeronauti avevan trovata la morte. Ma la sua attività sperimentale, diretta a risolvere i problemi fisiolo- gici, che gli fermentavano nella mente, Egli la portò, ogni qualvolta fosse necessario, anche in campi lontani, non badando nè a sacrificî, nè a fatiche, nè a disagi, nè a pericoli. L'amore per la montagna, che si era manifestato in Lui fin da studente, e che gli suggeriva alcuni fra i ricordi più felici della giovinezza (*), gli inspirò il disegno di compiere uno studio sull’ influenza che la vita nelle alte regioni esercita sopra le funzioni dell'organismo animale. Fu Quintino Sella, che lo iniziò allo studio della montagna (4). La prima sua spedizione scientifica fu al Monviso (m. 3850) (5), per studiarvi le modificazioni che la quantità d’aria respirata subisce, quando si soggiorna a grandi altezze. Successivamente, ne organizzò parecchie altre, sempre a scopo di studio, una delle quali, non poco arrischiata, fu al Monte Rosa e avvenne nell'inverno 1885 con Alessandro Sella. L'ultima è quella del 1903, con parecchi collaboratori, ed ebbe pure per mèta il Monte Rosa (m. 4560), dove la piccola carovana soggiornò molti giorni. (1) Indico solamente i numeri, rimandando all'elenco, degli scritti sull'educazione fisica e sulla riforma della ginnastica. Sono: 79 a 81, 84, 95-97, 99, 103, 105, 116, 118, 156, 166, e non credo di averli trovati tutti. (3) 171, pag. 429-482. (3) 171, pag. 221 a 324. (4) 171, pag. 162. (5) Nel 1877. — 853 — Le osservazioni e le esperienze, compiute in montagna, furono oggetto di molte memorie (*), le quali, integrate da quelle sull'azione dell’aria ra- refatta nella camera pneumatica (*), vennero poi riunite in un libro (3), di cui l’ultima edizione fu fatta nel 1909. Della spedizione invernale diede nel 1385 una descrizione (*), che è un gioiello letterario, offrendola a Maria Treves, la quale, l’anno dopo, doveva diventare la compagna della sua vita. Fin dalle prime spedizioni gli parve subito così promettente di risultati ogni ricerca sui fenomeni della vita in alta montagna, e così ampio il campo delle indagini, e, nello stesso tempo, così poco esplorato, che gli si fissò nella mente l’idea ardita e grandiosa di far sorgere, lassù, a tremila metri, nella solitudine immensa, un Istituto, aperto, alcuni mesi dell’anno, a tutti i volonterosi. Di questo Istituto, che doveva servire come stazione centrale per gli studî alpini, presentò il primo progetto al 5° Congresso internazio- nale dei fisiologi (*), da Lui mirabilmente organizzato. I lavori furono inco- minciati nel luglio 1905, finiti nell'agosto 1907, in cui si fece la solenne inaugurazione dell’ Istituto, al quale, per l unanime voto dei fisiologi, inter- venuti al 7° Congresso di Fisiologia, in Heidelberg, venne dato il nome di « Angelo Mosso », onore ben meritato, imperocchè, se quell’ Istituto esiste e funziona, lo dobbiamo all’incrollabile fede ed all’incomprimibile energia del nostro Maestro (°). A Lui, però, non poterono pervenire che l'eco lontano delle acclama- zioni, che, in Heidelberg, accolsero la proposta dei prof. Zuntz e Kronecker e, solo per un supremo sforzo di volontà, potè assistere alla festa inaugurale che, il 27 agosto 1907, dedicava al suo nome l'edifizio dei Laboratorii scien- tifici del Monte Rosa. Da parecchi anni il suo organismo, fino allora robustissimo, era stato crudelmente colpito. Proprio nell’anno 1904, in cui, Egli, rifuggente dal sol- lecitare onori, Egli, che aveva perfino vietata la dimostrazione che i disce- poli volevano dargli nella venticinquesima ricorrenza del suo insegnamento, era pur fiero della dignità senatoriale conferitagli, proprio in quell’anno, subito dopo il 6° Congresso dei fisiologi, avvenuto in Bruxelles, sì manife- starono i primi segni del male. (*) 42, 48, 125, 131, 134, 140, 141, 144, 145, 147, 158, 155. (®) 93, 123, 124, 139, 140, 142, 144, 146, 150, 151, 152, 155. (®) L'uomo sulle Alpi (101, 171). (4) 45. (9) Tenutasi in Torino nel 1901. (6) Anche la capanna « Regina Margherita », @ 4560 m., è in gran parte dovuta al Mosso. I « Laboratori scientifici A. Mosso », sorgono al Colle d’ Olen, a 3000 m. Vedi L. Pagliani ed A. Aggazzotti, Laboratori scientifici « A. Mosso » (Rivista d’ Ingegneria Sanitaria e di edilizia moderna, 1911). RenpicontI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 112 — 854 — Eppure il brio e l’attività del Mosso, in quei giorni erano stati così esuberanti che non poteva nascere neppure il remoto sospetto che una ter- ribile malattia lo minacciasse e fosse per farsi palese! Pochi giorni dopo ca- deva ammalato così gravemente da far temere per la sua esistenza. La sua fibra forte superò la crisi, e parve al nostro affetto ed alla nostra speranza che il male avesse fatto sosta e si cominciò a pensare, con sollievo, che non gli avrebbe impedito di toccare gli anni della vecchiezza. Ciò sarebbe forse avvenuto se, ascoltando il consiglio dei medici, della famiglia e degli amici, avesse adottato una vita di riposo. Ma pel Mosso il riposo era ozio e l’ozio era peggio della malattia. Secondò a modo suo il con- siglio, cioè cambiando lavoro. Aveva scavato un solco lungo e profondo nel suo terreno: deviò l’aratro e prese a solcarne un altro. La famiglia e noi sì trepidava continuamente, ma Egli era più forte ed appariva più sereno. Nè si lagnò mai dei suoi mali, nè mai volle essere circondato da quelle cure, che sono suggerite dall’affetto. Le lettere che scrisse commovono per la stoica serenità, con cui parla di sè e per il senso di gioia, che talora ne traspare e che Egli sa ancora spremere dalla vita, dal lavoro, dall'arte e dagli spettacoli della natura. Inibitagli la fatica dello sperimento, si mette a ristudiare nelle colle- zioni dei suoi tracciati ed a redigere osservazioni ed esperienze, rimaste, nei quaderni, allo stato di appunti. E pubblica, negli anni 1905 e 1906, una serie di note sui centri respiratorii spinali, sugli scambi gassosi, sull'apnea, sull’asfissta, sulla rigidità del cuore, sui muscoli lisci, sulla pressione sanguigna, sul mal di montagna. Cosigliatogli il vivere all'aria libera ed in luoghi a temperatura mite o calda, si stabilisce per mesi a Roma. Quivi partecipa alle sedute del Se- nato e contribuisce (') alle discussioni, che più interessano i suoi studî ed i suoi ideali; ma, soprattutto, utilizza la ricca biblioteca, dove passa gran parte del tempo, immerso nella lettura. A Roma, il suo spirito avido, vigile e squisitamente recettore verso tutto ciò, ove trepidi una nota di bellezza, trova vital nutrimento, non cura il male presente, e, forse in una visita al Foro romano, accoglie per la prima volta l’idea d'interrogare le tombe preistoriche per apprendere, da esse, il segreto della vita dei nostri antichissimi progenitori, della civiltà madre della nostra. Lo pervade una febbre di ricerca, che gli fa studiare i cranii più antichi dell’ Etruria e del Foro romano e poi lo spinge nell'Italia meridionale, a Creta, in Sicilia ed in altri luoghi, dove, in mezzo a difficoltà d’ogni specie, vittima d'un'infermità, che gli rendeva penoso l’uso delle gambe, costretto talora, scrive Egli stesso, a prepararsi i cibi ed « a vivere poveramente come nel principio della mia carriera », è pur lieto, soggiunge, (1) 156. — 859 — di passare « le giornate al sole a scavare la terra con gli operai, cercando se mi riesca trovare qualche ricordo della civiltà primitiva » ('). . La sorprendente forza d'animo ed il fervore dell'attività erano il far- maco che attutiva e, talvolta, annullava le sofferenze della psiche di quel- l’uomo, che era conscio del suo male, ma che non voleva piegare il capo indomito. Mentre scavava alla ricerca della metropoli neolitica al Pulo, presso Molfetta, gli morì improvvisamente, a Genova, il fratello (*), minore di 7 anni. Accorse, col cuore straziato e colle membra affrante, chiuse in se stesso il dolore dell'anima e del corpo, compose nel sepolcro la salma del caro perduto, e ritornò subito a quelle tombe lontane, quasi a chieder loro di restituirgli, in diversa forma, ciò che un'altra tomba gli aveva rapito: quasi volesse, nei segreti ad esse strappati, per gloria del sapere umano, trovare un compenso alla sua pena, un conforto al suo spirito. E scriveva: « Non è un lavoro molto adatto allo stato del mio animo addolorato: ma la pri- mavera e i mandorli fioriti, che lasciavano cadere i loro petali sulle tombe, che rivedevano la luce dopo cinquemila anni, mi convincevano della vanità della nostra vita » (5). In questa, come nelle altre domestiche sventure, che avevano angosciata la sua esistenza, è sempre il lavoro, che ne ravviva la tramortita virtù! Il suo cervello, però, non sente, neppur ora, paghe, in questi studî, tutte le sue energie. Le ricerche sui resti, tolti alla terra, che li racchiude da millenii, non gli impediscono di meditare pensosamente sulle condizioni, in cui vivono i suoi simili nei luoghi, che lo ospitano. Come alcuni anni avanti, nel vigore delle forze, chiamato a tenere al- cune letture (4) negli Stati Uniti, aveva accumulato osservazioni sulla vita degli Americani, facendone argomento d'un libro (*), dedicato alla moglie, così, ora, in uno stato di salute grama, mentre scruta nel remotissimo pas- sato, si occupa con amore di alcune delle più vitali questioni odierne della società nostra e le lumeggia in un altro libro, denso di pensiero e vibrante di commozione (5), offerto alla figliuola « perchè impari a conoscere il suo paese e ad amare i poveri ». (1) Lettera del 16 dicembre 1906. (?) 1908, marzo. (°) Lettera del 1° aprile 1908. La necropoli, preveduta, fu poi da lui scoperta l’anno successivo e ne vennero, rapidamente, in luce 49 tombe neolitiche (Ze origini della ci- viltà mediterranea, 1910, pag. 4). Lo stesso anno (agosto 1909) scopriva il dolmen di Bi- sceglie, in Provincia di Bari (idem, pag. 167). (6), LO LOS (5) Za democrazia nella religione e nella scienza, Treves, 1901. (6) Vita moderna degli italiani, Treves, 1906. — 856 — Stava preparando una nuova campagna archeologica, alla quale, paziens pulveris atque solis ('), avrebbe, come sempre, date tutte le sue forze; ed attendeva ad un altro libro (®?) e già ne aveva radunati i documenti e re- datto uno schema; anche aveva ricominciato le lezioni (*), quando fu assalito da un malessere che, dopo pochi giorni, assunse forma di crisi tabetica. Nulla valse a scongiurare il pericolo: rapidamente peggiorò, presentando indicibili sofferenze, che sopportò con eroica fermezza. Ebbe una lunga e penosa agonia, durante la quale, la sua mente, vaneggiante « nel crepu- scolo dei sensi », ripeteva parole ed espressioni, che gli erano abituali, quando sperimentava. Quella viva luce intellettuale si spense, quegli occhi scrutatori e pro- fondi si chiusero, per sempre, la mattina del 24 novembre 1910. Nella ri- gidità della morte il viso marmoreo aveva un'espressione di corruccio, come se, nel passaggio, avesse rivolto acerba rampogna alla cieca forza, che non gli aveva lasciata finire la sua giornata di lavoro. K x x Per più di trent'anni si estende l’attivita del Mosso nel campo della ricerca fisiologica. La sua infaticabile operosità, sebbene troppo presto tron- cata, gli permise di compiere un lavoro di tal mole, che a pochi è dato vantare l’eguale. Non che il suo spirito indagatore si sia spinto in tutte le regioni della nostra scienza; ma, colà dove si fissò, seppe addentrarsi profon- damente. Notò uno dei suoi allievi (4) che l’opera fisiologica del Mosso sì aggira essenzialmente intorno ai fenomeni di movimento, in relazione col sistema nervoso e colla composizione del sangue. Volendo essere più analitici pos- siamo dire che il sangue, i movimenti attivi e passivi dei vasi sanguigni, l’attività del cuore, la meccanica, il chimismo e l’innervazione del respiro, le funzioni dei muscoli volontarî e quelle dei muscoli lisci, i movimenti del cervello, la temperatura di quest'organo e di altre parti sono, non tenendo conto di altri piccoli lavori, la mèta verso cui si dirige assiduamente la sua indagine. Le modificazioni che il lavorio intellettuale, le emozioni, il sonno o la veglia, il riposo o il lavoro, la digestione o il digiuno, l’aria compressa 0 la rarefatta, la dimora in pianura o in montagna, i farmachi o i veleni, lo arrestarsi o il riprendere della corrente circolatoria inducono nella crasì san- guigna, nei moti cardiaci, vascolari e respiratori, in quelli di alcuni organi a fibre lisce, nella temperatura cerebrale e di altre parti del corpo, costitui- scono gli argomenti, che egli predilige ed a cui ritorna più spesso e più a lungo. (1) Orazio, Odi, I, 8. (2) Gli italiani dall'età della pietra alle prime colonie elleniche. (*) Il 9 novembre 1910. (4) Herlitzka in Archives ital. de biol.,, LIV, p. VI. — 857 — L'opera sperimentale del Mosso è contraddistinta da due particolarità, che fanno di Lui un ricercatore caratteristico. Egli, fornito com'è di rara maestria meccanica, inventa e prepara da sè gli strumenti, che gli devono servire all'investigazione. Gli apparecchi da Lui ideati risolvono in maniera semplice e pratica il problema propostosi e rispondono nel miglior modo allo scopo, per cui furono pensati: da ciò de- riva la sua rinomanza come tecnico di grande valore. Alcuni gli valsero come accorgimenti, coi quali rendeva chiari fenomeni delicati, altrimenti in- certi e fuggevoli, o sottoponeva a nuove prove questioni, già trattate ma non risolte in modo soddisfacente. Altri, nelle mani di suoi allievi, diedero risultati copiosi: altri entrarono, si può dire, in tutti i laboratorî e nelle cliniche. Col pletismografo (7, 10, 18, 25, ecc.), col quale si ottiene la misura assoluta dei cambiamenti lenti nel volume di una parte, senza modificare la pressione del liquido, in cui essa è immersa, risolve un arduo problema di fisica e dà ai fisiologi, ai farmacologi, ai clinici, uno strumento perfetto, superiore a tutti i congeneri. L'idrosfigmografo (22, 23), l’aerosfigmografo (32) ed il pletismografo gasometrico (32) furono ideati specialmente per ottenere la grafica dei cam- biamenti più rapidi di volume, dovuti al polso. Sostituendo recipienti di forma appropriata al cilindro che, nel pletis- mografo, accoglie l’antibraccio, ottenne apparecchi per lo studio dei movi- menti vasali della mano (32), della gamba (25), del piede (32). La 0ilawcia a letto (32) gli giovò per i grandi cambiamenti della distribuzione del sangue tra le parti cefaliche e le podaliche del corpo. Fece pure costrurre il suo sfigmomanometro (94) per valutare, nell'uomo, la pressione sanguigna. In esso il valore della pressione arteriosa è dato dalla contropressione esterna, che fa acquistare alle oscillazioni delle arterie il massimo d’ampiezza. Questo strumento, però, non ebbe, forse perchè di uso non tanto facile, la diffusione del pletismografo e dell’idrosfigmografo. L'introduzione, nella tecnica fisiologica, dell'ergografo (70, 73, 73 dés) fu felice, perchè aprì al fisiologo, allo psicologo ed al clinico campi inesplo- rati. Col pozometro (70) cercò di serivere la curva, con la quale cresce lo sforzo nervoso a misura che aumenta la fatica, e col miotonometro (102) ci procurò un congegno adatto per segnare, nell'uomo, le variazioni della to- nicità muscolare. Ho nominato i più conosciuti degli strumenti, di cui il Mosso ha do- tato la Fisiologia, ma si potrebbe fare ancora una non breve lista di avve- dimenti tecnici, destinati a soddisfare, volta a volta, le continue esigenze di quello spirito indagaiore e sperimentatore (DE (@) Tali sono: l’iride artificiale (9), il pneumografo tubulare (15), l'apparecchio per ricerche sul tono della vescica (29, fig. 5), lo sfigmografo a cinquantesimi di secondo (37, — 858 — L'altra nota, che contrassegna l'opera di A. Mosso da quella della mag- gior parte dei fisiologi, è il soggetto delle sue indagini, che spessissimo è l’uomo. Congiunti, amici, allievi, inservienti, alpinisti, soldati, guide, vecchi dell’Ospizio di carità, bimbi dell’Orfanatrofio, donne, individui con una brec- cia nel cranio, due casi teratologici, la propria persona gli servono come sog- getti di studio pel polso, pei movimenti dei vasi sanguigni, per la circo- lazione e per la temperatura del cervello, per la respirazione, per la fatica, per le funzioni della vescica. Non ch'Egli rifugga dall'esperienza sugli animali, tutt'altro: « La scienza della vita, dice Egli stesso (11), dovrà sempre, nei tentativi che mettono a repentaglio l’esistenza, esser paga di consultare le viscere dei bruti »; ma le ricerche, nelle quali si richiedeva l’immobilità spontanea e la cooperazione dell'intelligenza, non le poteva fare che sull'uomo e le fece in larghissima misura. A ciò lo spingeva un'altra ragione ed è che non tutti i risultati, ottenuti nei bruti, si verificano nell'uomo ("). Fra le ricerche, che sono come il punto di partenza di una serie di altre, che si elevano verso un problema sempre più ampio, sì devono met- tere quelle sopra alcune ruove proprietà delle pareti dei vasi sanguigni (1). In esse il metodo pletismografico rivelò, insieme ad altri importanti feno- meni, che, negli organi staccati (rene, fegato), i vasi sanguigni conservano lungamente la loro vitalità, e, quindi, reagiscono, modificando il loro ca- libro, alle variazioni del liquido circolante, e, specialmente, a quelle dei suoi gas. Essi, inoltre, possono presentare movimenti spontanei, dei quali, cioè, non si trova la ragione in un mutamento delle condizioni sperimentali, e, in seguito ad un'interruzione della circolazione artificiale, si dilatano per una diminuzione del tono, che, però, presto si ripristina. In queste ricerche notò che proprio quei veleni, dei quali si sa che di- latano la pupilla, dànno luogo, se mescolati al sangue circolante nel rene, ad una diminuzione del volume e che, viceversa, i veleni miotici ne produ- cono un aumento. Pensò, quindi, che molte variazioni fisiologiche del dia. metro pupillare fossero da ascriversi a movimenti dei vasi iridei, l'assetto 83, fig. 44), il miosfigmografo (171, fig 35), la maschera di caucciù (18, fig. 3), l’appa- recchio distributore d’aria compressa e rarefatta per la respirazione artificiale (186), quello per scrivere la rigidità del cuore (12), quello per le ricerche sulle diastole (12), quelli per studiare come i movimenti respiratorii influiscano sulla circolazione polmonare (25), il metodo per misurare la temperatura dell’orina (17), quello per fare agire, sotto forti pres- sioni, il CO, sul retrattore del pene (154), il pneumografo a leva (171, fig. 9), l'apparecchio per abolire, con l’aria compressa, l’azione del CO (109, fig. 68), i due apparecchi per l’uso dell'O, compresso contro l’avvelenamento da CO (111, figg. 85 e 86) ed altri. (!) Egli stesso dimostrò, ad es., che nell'uomo l’espandersi ed il restringersi del polmone non stimola le fibre centripete del vago, mentre ciò era stato accertato nel co- niglio da Breuer ed Hering (121, figg. 10 ed 11). — 859 — anatomico dei quali non faceva, del resto, che confortare tale idea. Le in- dagini sui movimenti idraulici dell’ iride (9) confermarono le previsioni e dimostrarono, con esperienze sull’iride artificiale, sul cadavere e sul vi- vente, l’esistenza di un nuovo meccanesimo capace di partecipare ai cambia- menti di ampiezza della pupilla. I risultati, ottenuti sugli organi staccati (7), lo eccitarono ad uno studio sui movimenti dei vasi sanguigni nel vivente e sulle variazioni volumetriche che, per essi, si effettuano. Il pletismografo, applicato all'uomo, mise in evi- denza che molti dei fenomeni, osservati nel rene isolato, si verificano anche nell’antibraccio dell’uomo e che gli atti respiratorî, la compressione dei grandi vasi, i cambiamenti di posizione degli arti (10), l’aria compressa (18), le inalazioni di nitrito d’amile (83 pag. 170), quelle d'ammoniaca (25, fig. 7) sono altrettante cause, che mettono in gioco la contrattilità delle pareti dei vasi arteriosi, determinando diminuzioni od aumenti nella quantità di sangue circolante in una parte e, quindi, nel volume e nella nutrizione di essa. Ma fra le cause, modificatrici dell’afflusso sanguigno ad un organo, quelle, che maggiormente destarono l'interesse del Mosso, furono le emo- zioni ed il lavorèo intellettuale. « Il problema dell'anima è così grande e sublime che il desiderio di cimentarvisi, anche senza la speranza di risol- verlo, è già di per sè cosa che rialza la mente » ('). Cogliere i rapporti fra la vita psichica e la vegetativa, spingere lo sguardo nei fenomeni, che sono la base fisica degli atti psichici, fu assunto, pel quale non lasciò occa- sione che gli si porgesse, di fare nuove osservazioni e nuove esperienze. Di guisa che raccolse tale somma di dati sperimentali, come nessun altro, e potè, nel difficile, oscuro ed intricato argomento, portare tale contributo di fatti e di interpretazioni da tracciare buon tratto della via, che speriamo venga ancora seguìta e prolungata. Le sue ricerche, in questo campo, rappre- senteranno sempre una copiosa fonte, alla quale dovranno ricorrere fisiologi e psicologi, quando vorranno comprendere e far comprendere i legami intimi, che intercedono fra le funzioni nutritive e gli atti più elevati e più com- plessi del cervello. E qui è da avvertire che, per quanto lo studio dei mutamenti, che l’at- tività cerebrale fa subire alla circolazione, sia irto di difficoltà, giacchè, da un lato, occorre distinguere le modificazioni proprie del cervello (*) dalle generali e da quelle d’altre parti, dall'altro, abbiamo che fare con un organo a cui non si può imporre quiete, e, quindi, le variazioni del circolo vi acca- dono piuttosto per un cambiamento nel grado dell'attività che per un pas- saggio dal riposo all’azione, tuttavia il Mosso, mercè la precisione tecnica e (1) La Paura, 1891, pag. 158. (3) Che il Mosso divide in cardiache (pulsazioni), respiratorie (oscillazioni) e vaso- motorie (ondulazioni). — 860 — la severità del raziocinio, riuscì a dare ai risultati sperimentali un significato veramente convincente. Le prime esperienze sugli effetti pletismografici dell'attività psichica furono fatte a Lipsia sul v. Frey, sul Pagliani e su se stesso (10). È facile immaginare il gaudio destato da quei primi responsi, quando l'emozione, prodotta dall’avvicinarsi del venerato Maestro, 0 il lavoro intellettuale d'una operazione aritmetica davano una diminuzione di volume delle antibraccia. Fenomeni identici osservò in altre occasioni (18, 22), e, non solo negli arti superiori, ma anche negli inferiori, nei quali la bilancia a letto, traboccando verso il capo, rivelò che, nell’attività cerebrale, si ha vasocostrizione (32). Dimostrò anche che la stessa origine emotiva hanno i movimenti vascolari nel padiglione dell'orecchio del coniglio (25, cap. VIII). D'altra parte gli studî sui movimenti del cervello di Caterina X (15, 25) e del ragazzo Thron (19 e 25) gli avevano già provato che gli atti psichici erano accompagnati da aumento di volume nel cervello. L'iscrizione contemporanea dei cambiamenti volumetrici del cervello e degli arti, in individui con breccia pel tavolato osseo del cranio [ Bertino (25), Cane (82 e 83), Delfina Parodi (82 e 83)] completò i precedenti risul- tati e dimostrò che, durante le operazioni intellettuali ed i processi emotivi, un certo volume di sangue, indipendentemente da variazioni respiratorie, è mandato dalle parti periferiche verso il cervello. Con ciò era data la prova sperimentale dell’esistenza di un legame fisiologico fra gli atti della psiche e le funzioni somatiche. Il legame guadagnò maggior evidenza dopo le ricerche sul polso cere- brale (15, 19, 25, 82 e 88), che dovevano naturalmente essere precedute da quelle sulle variazioni locali del polso dell’antibraccio (22 e 25, cap. III). Nelle quali il Mosso, per mezzo dell'idrosfigmografo, stabilì che molte forme del polso, ritenute come tipiche di alcune malattie, si possono ottenere con azioni locali diverse (') e che, perciò, le note caratteristiche del polso (escluso il ritmo) derivano dallo stato delle pareti dell'albero arterioso. Sta- bilì, pure, che il passaggio dalla quiete (relativa) all'attività cerebrale è sempre accompagnato da una modificazione del polso dell’antibraccio, che, se nella quiete è tricuspidale od anacrotico, diventa, nell'attività psichica, ca- tacrotico; se è già catacrotico, vi si presenta una nuova elevazione, che pre- corre la dicrotica. E poichè varie cause vasocostrittrici (inalazione di NH;, azione del freddo) trasformano il polso da tricuspidale in catacrotico, si ha la riconferma che, nell'attività psichica, i vasi periferici si contraggono. Se col polso dell'antibraccio sì inscrive quello cerebrale, si vede che, alle variazioni periferiche già dette, corrisponde, durante il lavoro psichico, un aumento d’ampiezza del polso cerebrale. (1) Azioni termiche, sospensione della circolazione, contrazioni volontarie, corrente indotta, aumento anche leggero della pressione sulla superficie dell’antibraccio. — 861 — Per opera di queste ricerche resta acquisito il fatto fondanfentale che, durante l’attività, specialmente emozionale, del cervello, si ha, verso que- st'organo, un afflusso maggiore di sangue, dovuto ad una contrazione dei vasi periferici. Si tratta egli d'un fenomeno concomitante o d’una condizione primitiva ed essenziale dell’attività psichica? Ecco quindi lo studio sulla (emperatura del cervello (78,82, 83), a cui il Mosso fu forse guidato dall'idea di poter trovare, come Helmholtz pei muscoli e come Ludwig per la glandola sotto- mascellare, che il cervello, nella sua attività specifica, sprigiona energia termica. Per più di sei anni si affaticò intorno a cotesto problema, adoperando il metodo più semplice e più esatto: l'immissione nella sostanza cerebrale degli animali, di termometri sensibilissimi, nei quali si poteva leggere per- sino !/soo di grado (91). Insinuò anche il termometro, e fu probabilmente il primo a farlo, nella scissura silviana d'una ragazza (1). Dalle indagini fatte risultò che, sebbene il cervello sia uno degli or- gani in cui sì produce più calore, tuttavia non sarebbero gli atti del pen- siero, non quelli della volontà, non quelli della coscienza che si associano alle maggiori elevazioni termiche di esso: l’attività psichica potrebbe, anzi, perfino ridestarsi, mentre il cervello continua a raffreddarsi. Uno dei fatti più interessanti, osservati in queste ricerche, fu il presentarsi, in condizioni svariate, all'infuori da ogni manifestazione psichica riconoscibile, di reazioni chimiche esotermiche con aumenti notevoli della temperatura dell'organo. Il Mosso le chiamò conf/lagrazioni organiche e ne attribuì la causa ad eccita- zioni interne od esterne, che avvengono al di là del campo della coscienza. Non si può non ricorrere col pensiero ad un’altra forma di reazione incon- sciente, alle ondwu/azioni spontanee del volume cerebrale (43, fig. 18), a cui fanno riscontro quei movimenti spontanei, che Egli descrisse nel rene iso- lato (7), nell’antibraccio del vivente (10), nella vescica orinaria (29), nel retto (29), nel retrattore del pene (154) e dimostrò col pletismografo (7, 10, 29), colla bilancia (32) e con altri strumenti (154). Lo studio dei rapporti fra atti psichici e circolazione cerebrale è reso difficile, come ho detto, dall’ impossibilità di imporre al cervello, nella veglia, un riposo assoluto. Le indagini del Mosso sul sorzo aspiravano, perciò, non solo alla ricerca della causa di questo stato, ma anche ad eliminare quella difficoltà. Riguardo ai movimenti vascolari aveva già assodato (11, pag. 27; 25 cap. V) che, nel passare dalla veglia al sonno, si ha vasodilatazione perife- rica: vasocostrizione nel passaggio inverso. Nel cervello (25, cap. V), a mi- sura che il sonno si fa più profondo, il volume diminuisce ed il polso di- (*) Delfina Parodi. RenpIcoNTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem 113 — 862 — viene men alto. Ma le più piccole cause, delle quali non rimarrà traccia nella memoria del dormiente, producono un aumento del volume e del polso, di cui si modifica anche il profilo grafico. Nel sonno si hanno, abbastanza spesso, quelle ondulazioni spontanee, che è lecito riguardare come indice d'un lavorio inconsapevole degli emisferi. Con ciò si erano trovati, nel campo dei fenomeni obbiettivi, argomenti, l quali rendono probabile che l’attività del cervello continui, come si afferma da alcuni psicologi, senza che la coscienza o la memoria ne abbiano sentore (25, cap. VI, $ 1)(). L'insieme dei fenomeni inconscienti, che si svolgono nel sonno per cause esteriori anche tenui, sarebbe, secondo il Mosso, un vero apparato di difesa, coordinato allo scopo di accrescere l'afflusso di sangue al cervello e prepa- rare, così, le condizioni atte a ridestarne l'attività (25, cap. VI, $ 3). Non ho fatto che spigolare alcuni dei risultati principali e più noti di questa parte dell’opera sperimentale del Mosso, che, se si prescinde dalle ri- cerche sulla temperatura cerebrale, riguarda essenzialmente la circolazione sanguigna. Ma non posso non accennare che, dal complesso di essa, appa- rirebbe anche che le circolazioni locali dipenderebbero da centre speciali autonomi: di guisa che in un organo, ad es., nel cervello, potrebbe avve- nire una vasodilatazione, mentre il volume d'un altro organo, il piede, resta inalterato (43, cap. V e fig. 18 del VII): in una mano potrebbe aversi una modificazione di tonicità vascolare, senza che altrettanto si verifichi nell'altra mano (43, cap. V, 2° capoverso). Così pure ricorderò le belle ricerche sul polso negativo (23), le quali, per mezzo di indagini grafiche e cronometriche di grande finezza, persuadono che i cambiamenti di volume del cuore, nelle fasi estreme del suo ciclo, sono l’unica causa sia dei fenomeni cardiopneumatici, sia di quei piccoli movi- menti degli spazî intercostali e delle pareti addominali, che son sincroni coll’impulso cardiaco, sia della pulsazione delle vene prossime ad entrare nella cavità toracica. Nominerò, infine, le esperienze sulla pressione sanguigna, che non sono poche (77, 94, 117, 132, 152, 171, cap. IV) (2), e quelle sul cuore, che si riferiscono all'attivita diastolica (13), alla rigidità nei batraci (13) e nei mammiferi (135), al modo di comportarsi verso l’ossido di carbonio (109, 111), nelle emozioni (Paura, cap. IV), nella fatica (171, cap. V, ecc.). (®) Il Mosso studiò anche la temperatura cerebrale dell’uomo e degli animali nel sonno naturale, nel risveglio, nell’ ibernazione e nel sonno artificiale (78, 83 cap. XIV). In Delfina Parodi vide che il sonno può incominciare e cessare senza modificazioni della temperatura del cervello, la quale può, durante il sonno, presentare talora elevazioni anche forti (conflagrazioni organiche). (2) Da esse risultò confermata e dimostrata in modo sicuro l’esistenza di oscilla- zioni interferenziali della pressione, cioè di oscillazioni che si producono meccanicamente per interferenza tra i movimenti del cuore e quelli del respiro (132). — 863 — Alle ricerche sul sangue dedicò circa tre anni di lavoro, più che intenso, febbrile. Chi non lo ha seguìto in quelle indagini non può immaginare quanti tesori d'energia e di pensiero vi abbia profusi! Era come rapito da quell'ar- gomento! Forse fu tale stato d'animo, che minorò la circospezione, che gli era abituale nelle interpretazioni, o forse fu un altro: fatto sta che alcune delle idee, che gli parvero emergere dalle sue osservazioni, e che, quindi, enunciò con calore, erano e sono in contrasto così assoluto con nozioni bene accertate, che Egli stesso, passato quel periodo di trasporto, non ci ritornò più. Ebbene: nelle molte Note (39, da 48 a 55, 57, 58, da 60 a 67, 72), che Egli pubblicò sul sangue, si trovano fatti importanti e muovi di cui la ematologia si avvantaggiò notevolmente. Alcuni raggiungono il valore d'una scoperta: tale è la dimostrazione della grande tossicità (') del sangue dei murenidi (*), che aprì la strada a molte ricerche successive. Altri lo con- dussero ad escogitare metodi, che diventarono d'uso generale. Fu, infatti, lo aver riscontrato che non tutti i corpuscoli rossi hanno un’identica labilità, l'origine del processo di valutazione della resistenza per mezzo di soluzioni variamente concentrate di cloruro di sodio. Di altri fatti degni di nota an- novererò lo spontaneo ridisciogliersi del coagulo sanguigno di Musfelus laevis ; la mancanza di leucociti nel sangue embrionale dello Scy/lwm ; le differenze fra sangue fetale e materno di quest'animale; l'azione anticoagulatrice del verde di metile; le alterazioni globulari nel digiuno prolungato ; l’azione emo- litica del siero d'anguilla e l’innocuità del solo siero omogeneo verso i cor- | puscoli rossi. Non tenterò di dare un’idea completa, sia pur concisa, degli studî del Mosso sul meccanismo, sul chimismo e sull'innervazione del respiro e sulla influenza dei movimenti respiratorî sopra la circolazione del corpo intero 0 su quella degli organi. La prima pubblicazione sul respiro porta la data del 1878 (23), l’ultima quella del 1906 (150). Accennerò soltanto ai fatti principali, messi in luce da un lavoro senza tregua, e ad alcune vedute ge- nerali, che ne derivarono. Esaminando i pneumogrammi simultanei del torace e dell'addome, si accorse che, nel sonno, i movimenti del respiro presentano: 1° un'inversione nella durata, giacchè l'espirazione, più lunga nella veglia (Vierordt), diventa più breve (19, 23, 33); 2° un'interferenza, venendo a mancare la coinci- denza degli impulsi ai muscoli toracici ed al diaframma (23); 3° un'alter- nazione, per cui aumenta l'ampiezza dell'escursione toracica e scema quella del diaframma, che può, perfino, divenire così inerte da seguire passivamente le variazioni della pressione endotoracica (23, 25 cap. VI, 33); 4° una ten- denza allo stabilirsi del ritmo periodico (23, 33, 43, Sea pSr0)3 (*) Cc. 0,02 per Chgr. (3) Anguilla, Muraena, Conger. — 864 — Facendo respirare attraverso un contatore, riscontrò che, nel sonno, si ha una diminuzione nel quanto d’aria respirata (23). Sulla respirazione periodica la sua attenzione si era già rivolta in al- cuni dei primi lavori (Nota 1 nel n. 5 e n. 7): successivamente ebbe ad osservarne, negli animali e nell'uomo (23, 43), varî tipi per cui credette distinguerla in remittente ed intermittente (43, cap. IV) (2). Avendo accertato che la periodicità sì palesa in varie condizioni normali, ma specialmente nel sonno e negli stati che ad esso si approssimano: che in montagna si presenta anche nella veglia, (155 S 3) (*); che non c'è stretto legame tra la durata delle pause ed i periodi di attività: che non sempre esiste compenso dopo un arresto nel respiro: che l'ossigeno o la respirazione arti- ficiale non modificano nè i periodi attivi nè le pause: ne inferì che la spie- gazione più semplice del fenomeno consistesse nell'ammettere « che le pause del respiro siano prodotte da una tendenza al riposo del centro respira- torio » (43), portando una grande semplificazione nella tuttora dibattuta questione dell'origine del respiro periodico (*). Dalle indagini sulla respirazione periodica, ma soprattutlo dall'aver as- sodato che sì può, per 10-15 minuti primi, ridurre, volontariamente, alla metà il volume d’aria respirato (43, cap. II) e che, in montagna, si introduce spesso un volume d'aria minore che in basso (43, cap. II, 42) (4), la sua mente fu condotta a formulare la teoria della respirazione superflua 0 di lusso, se- condo la quale il numero e l'ampiezza dei movimenti respiratorî non sono direttamente proporzionali all'intensità della respirazione interna, perchè noi, di solito, si respira più del necessario e la respirazione dipende non solo dai bisogni chimici dell'organismo, ma anche dallo stato fisiologico dei centri nervosi. Dottrina geniale, che, dal campo della funzione respiratoria e da quello del consumo di materia, pel quale era pur stata da altri formulata, doveva allargare il suo dominio fino a quello generale del bilancio energetico. Egli aveva già visto, nel sonno, che il meccanismo respiratorio del torace si può dissociare da quello del diaframma e dell'addome (23): osservò più tardi (43, cap. V, 121, 149) altri fenomeni, da cui emerge, come, in certe condizioni, possa venir meno ogni nesso tra i varî meccanismi del re- spiro. L'inspirazione può apparire prima nel torace che nel diaframma: il diaframma si può arrestare mentre continuano i movimenti toracici; l'inspi- (1) Al fenomeno della periodicità si collegano i movimenti concomitanti, osservati spesse volte dal Mosso (43, cap. IX, fig. 21, 121, 155). tanto nell'uomo quanto nei bruti, in coincidenza con l’inizio d’ogni periodo respiratorio successivo ad una pausa. (2) Però il respiro periodico, che si osserva, nella veglia, sul monte Rosa, non sa- rebbe della stessa natura di quello, che si ha nel sonno, in basso, alla pressione barome- trica normale (155 $ 3). :(3) Vedi il recente lavoro di C. Gordon Douglas, Periodic breathing at high alti- tudes (Journ. of physiol., 1910, xL, p. 454-471). (4) Od eguale, non ostante la rarefazione (147). — 865 — razione facciale può precedere la toracica; nella morte è il diaframma che cessa di contrarsi più tardi; sì possono avere periodi nel diaframma e non nel torace. Basandosi su codeste osservazioni, concluse che ì movimenti respi- ratorî della faccia, del torace, del diaframma e dell'addome costituiscono altrettanti meccanismi, dotati di centri nervosi loro proprii, posti sotto la egemonia del bulbo. Egli ammise, quindi, l’esistenza di centr: respiratorit spinali e ne diede varie prove sperimentali (128, 129, 133, 149), fra cui una delle più valide sarebbe la ricomparsa nei gattini, tenuti caldi, di atti respiratorî, dopo la separazione del bulbo dalla midolla spinale (128). Le variazioni d'attività dei centri respiratorî, che, secondo il Mosso, possono accadere indipendentemente dai bisogni chimici dell'organismo, e sono rivelate essenzialmente dall'istituirsi dei tipi periodici, si annunziano anche, tanto nell'uomo quanto nei brati, con oscillazioni della tonicità dei muscoli respiratorii, oscillazioni di cui Egli ci diede forse i primi esempî (43, tav. V, fiog. 27 e 28 e tav. VI, figg. 30 (1) e 32, 121, 156). Il diminuire. della tonicità avverrebbe, in generale, quando i centri respiratorî tendono al riposo (43, cap. VI), e, viceversa, un aumento di essa sarebbe foriero del risveglio di un centro paralizzato (121, figg. 27 e 28). Una prova evidente che i nervi respiratorî portano impulsi tonici ai rispettivi muscoli gliela fornirono gli effetti della recisione dei frenici (133, fig. 1) (?). I fenomeni della toni- cità non sarebbero sempre in relazione con quelli della frequenza e dell'am- piezza respiratoria, nè sarebbero necessariamente simultanei nei varî centri bulbari e spinali (121, figg. 14 e 15, 138). Agli studî sui centri respiratorî si connettono quelli sull'aprea (117, 119, 126), di cui aveva già notata l’azione depressiva sul tono vescicale (29). Contrariamente a quanto erasi affermato da altri Egli osservò che, nella pro- duzione dell’apnea, ci son differenze tra individuo e individuo, in rapporto forse coll'età; il che contrasta con l’idea del Loewy che i centri nervosi del- l’uomo abbiano un'eccitabilità costante (117, 121). Confermò, invece, in varî modi, che, nell'apnea, l’eccitabilità dei centri respiratorî si abbassa (117, 149), e lo attribuì allo scemare del CO, nel sangue (*), cioè all'acapria, di cui l'apnea vera sarebbe una forma, sebbene, in alcune condizioni, anche lO; possa produrla (126). Da queste ricerche emanò pure che l'arresto o la rarefazione del respiro, che si può avere passando un animale cloralizzato od (*) Questa figura ci offre una delle forme più belle di oscillazioni toniche dei muscoli respiratorî. Si tratta di un coniglio piridinizzato. (3) Vedi conferma, per altra via, in R. Dittler, Veber die Innervation des Zwerch- fells als Beispiel einer tonischen Innervation (Pfùger’s Arch., 1909, CXXX, pp. 400-443) e idem, Veber die Actionsstròme des Nervus phrenicus bei natùrlicher Innervation (idem, 1910, CXXXTI, pag. 581 588). (8) Già il Miiecher ed il Fredericq avevano detto che l’apnea è dovuta a difetto di COz. Dopo il Mosso, lo confermarono anche le ricerche di Haldane {Journal of physiol. 1905, XXII, pag. 224 e 1908, XXXVII, pag. 390). — 866 — un uomo dalla posizione orizzontale alla verticale, non dipendono da un'azione sui vaghi, poichè l'arresto si verifica anche a vaghi recisi, ma da una causa meccanica, quale è il peso dei visceri addominali (119, 121). Sono noti gli studî del Mosso sulle /wre60w% dei muscoli. Furono le classiche ricerche del Kronecker sui muscoli della rana, che gli suggerirono di studiare anche nell'uomo le leggi della fatica, sulle quali la sua atten- zione era già stata attratta durante alcune ascensioni. Costrutto lo strumento appropriato, l'ergografo (70, 73 e 73%is), verificò che la curva della fatica volontaria non ha un tipo fondamentale, raffigurante il modo di svolgersi del processo, ma che ogni persona dà un ergogramma a decorso caratteristico, che si conserva se l’ergogramma si ottiene collo stimolo elettrico del nervo (75, pag. 123, fig. 13), ma scompare eccitando direttamente il muscolo (75, pag. 121, fig. 12). Gli si palesò anche assai marcata l'influenza delle emo- zioni e del lavoro intellettivo sul decorso della fatica (75, cap. D:9b Le ricerche sulle leggi della fatica nelle più svariate condizioni, come pure quelle sulla tonicità dei muscoli striati, della quale tentò dare una teoria basandola sulla doppia innervazione (137), dopo averle avviate e, pei muscoli respiratorî, assai estese (133), le affidò ad allievi, che le ampliarono ed, in alcuni punti, le completarono. Riguardo ai fenomeni, dipendenti dalla fatica, si deve al Mosso la di- mostrazione che, sotto la sua influenza, sì deprime la tonicità dei muscoli, ad es., dei respiratorî (121, figg. 25 e 26), e gli si deve pure quella di una tossicità speciale del sangue, per sostanze (ponogene), che vi si versano durante la fatica (56, 75, cap. V, SV) (). Fanno parte del gruppo, riferentesi al sistema muscolare i lavori su alcuni organi della vita vegetativa, cioè le ricerche sull’esofago, sulla vescica orinaria, sull’ intestino retto e sul muscolo retrattore del pene. Nello studiare la /unzione esofagea (5) il Mosso scoprì che un movi- mento di deglutizione, iniziatosi nella faringe, si trasmette all'ultimo segmento dell'esofago, anche se, recidendone un lungo tratto, venga interrotta la con- tinuità di questo canale: e ciò lo indusse ad emettere un'idea nuova sul meccanesimo centrale della deglutizione. Verificò pure moti ritmici spontanei in pezzi d'esofago e contrazioni di esso perfino 30 ore dopo la recisione. Le esperienze col Pellacani sulle /un<20n2 della vescica (29) e sull'in- testino retto (30), e quelle, fra le ultimissime sue, sul muscolo retrattore del pene (154) confermarono fatti già noti (Sertoli), relativi alla fisiologia generale dei muscoli lisci, ed altri ne aggiunsero: dimostrando, anche qui, l'esistenza di movimenti spontanei (28, 29, 154) (*), il persistere della reat- (!) La dispnea prodotta dalla trasfusione di sangue, proveniente da un cane affati- cato col tetano, sarebbe la prova più diretta, data fino a quel momento, che le sostanze, generatesi nel lavoro muscolare, eccitano il centro respiratorio (Winterstein, in Pflùger's Arch., 1911, CXXXVIII, pag. 168). (£*) Credo che nei vasi sanguigni di organi staccati ed in quelli del vivente, nella — 867 — tività al CO, compresso persino sei giorni dopo l'estirpazione, quando era giù cominciata la putrefazione (154, parte IT), ed il facile rispondere agli ecci- tamenti psichici (29, 30, 154), da far considerare la vescica (29) come un estesiometro più sicuro della pressione sanguigna o non inferiore all'iride. Non solo, ma le esperienze sulla vescica (29), nelle quali si adducono prove sulla possibilità d'una contrazione volontaria di essa e sul passaggio delle sue fibre motorie nei cordoni dorsali e nell'estrema parte dorsale dei laterali, ci diedero anche una nuova teoria della minzione, rendendo proba- bile che lo stimolo a vuotare la vescica insorga in rapporto colla pressione e non colla quantità del liquido contenutovi, e che non esista tra il muscolo sfintere ed il detrusore l’antagonismo ammesso da molti fisiologi. Vi è ancora un ordine di ricerche, di cui il Mosso si occupò finchè la malattia glielo consentì, quelle sulla v?/a 4 grandi altezze 0 in ambienti ad aria rarefatta. Si può dire che quasi tutte le investigazioni, a cui aveva sottoposto uomini e bruti nel Laboratorio, le rifece in alta montagna o nella camera pneumatica. Non è possibile riassumere i risultati di queste indagini, che sì esten- dono alle funzioni tutte dell’organismo. Ma vi è una mira, verso la quale convergono: trovare la causa del mal di montagna. L'osservazione accurata dei fatti, una perspicace associazione di essi, il confronto con altri, fecero, fin dalle prime ascensioni, intuire al Mosso che la spiegazione, data dalla maggior parte dei medici, non poteva essere la vera. Troppi dei fatti da Lui rilevati, nel soggiorno in montagna o nella camera pneumatica, non potevano accordarsi con l’idea che l’anossiemia fosse la causa unica di quello stato morboso. Tali sono, ad es., il comparire di una pausa tra l’inspirazione e l’espirazione (171, cap. II); il verificarsi della respirazione periodica perfino nella veglia (155, 171, pagg. 5ò, 61, 63); il non raro diminuire dell'ampiezza e della durata del respiro (171, cap. III); il modo di comportarsi dell’apnea (171, pag. 301) e quello della resistenza alla sospensione del respiro (144, 171, pagg. 68 e 292); la mancanza, nel volume d’aria inspirata, di un aumento proporzionale alla rarefazione (42, 43, 171, cap. XIV); il presentarsi del vomito e della son- nolenza in scimmie, chiuse in un ambiente dove l’aria veniva rarefatta, con- servandovi però costante la pressione parziale normale dell'O, (146, 150 e 171, cap. XXII) ed altri. Ammettendo invece che il fattore preponderante del mal di montagna fosse un difetto di CO, nel sangue, non solo si potevano spiegare in modo soddisfacente quei fenomeni, ma diventavano possibili previsioni controlla- vescica orinaria e nel retto questi movimenti spontanei siano stati osservati per la prima volta dal Mosso. Legros et Onimus (1869) li avevano visti nel tenue Engelmann (1874) nell’uretere. — 868 — bili, come quella preconizzante un metodo efficace contro gli effetti della depressione barometrica. Così sorse la dottrina dell'acapnza, in favore della quale depongono sia i fatti sperimentali, che non trovano la loro spiega- zione in una diminuita tensione parziale dell'O», sia alcuni altri, che par- lano per una deficienza di CO, nel sangue. Di questi cito i principali. Anzitutto si può produrre una lunga pausa respiratoria od una respirazione periodica coll’infusione endovenosa di una soluzione capace di fissare il CO, (148): inoltre nell'aria rarefatta la ten- sione parziale del CO, è sempre minore del normale, come osservò l'Aggaz- zotti; in terzo luogo l'eliminazione di CO, da parte di una persona, respi: rante ad una pressione di meno di ‘/3 di At., può essere, in !/, ora, da gr. 1,5 a 2 più forte che alla pressione normale (ricerche con G. Marro, 123 e 171, pag. 446). Si aggiunga che l'uomo e la scimmia sopportano, con minor malessere, una depressione più grande, quando l’aria respirata contenga una maggiore quantità di CO, (153 e 171, cap. XXJI) e che l'au- mento di frequenza del cuore nell'aria rarefatta cede, introducendo CO, nel- l'ambiente (171, pag. 436-439). La dottrina dell'acapnia ebbe una felice applicazione nella proposta che il Mosso fece agli aereonauti di portare con sè grandi quantità di O, com- presso, contenente dall'8 al 10°/ di CO; (153 e 171 pag. 451), mescolanza che si mostrò già utilissima, come l'Os compresso, proposto pure dal Mosso contro l' intossicazione da CO (109, 111), della quale egli sostiene la rasso- miglianza col mal di montagna (110, 112). Questa, per sommi capi, è l'opera del Mosso nel campo della Fisiologia, ma non tutta, giacchè una grande parte non può apparire da questo cenno ed una parte non piccola è inedita e rimane, allo stato di materia prima, nelle carte lasciate dal Maestro, dalle quali Egli avrebbe tratto, come lo scultore del blocco di marmo trae la statua, nuovi documenti atti ad illu- minare il mistero della vita, da cui era affascinato. Ma la figura del Mosso riuscirebbe troppo incompleta se non sì tenesse conto di quanto Egli oprò per insinuare, anche nei profani, le nozioni bio- logiche, senza mai deformarle, col pretesto di renderle semplici e intelligi- bili ai più. Nei suoi libri di volgarizzazione la sostanza della ricerca scien- tifica rimane intatta: assume soltanto un'altra ed efficacissima veste ed ar- monicamente associasi a tesori di cognizioni, colte da ogni ramo del sapere. Il pensiero scientifico ed i fatti sperimentali vi prendono luce e tinte dalla bellezza dell’arte, che Egli possiede, vi prendono calore dalla bontà del sen- timento, che è nell'animo suo. Aveva espressa molte volte l’idea di serivere cinque libri: la paura, la fatica, il sonno, il veleno, la morte (*'). La base del libro sulla Paura, che è giunto alla settima ristampa, è sperimentale, ed è, in buona parte, frutto (4) Lettera 3 agosto 1887 al Kronecker. — 869 — dell'opera personale scientifica del Mosso. Molti dei dati sperimentali si tro- vano in Note già pubblicate da Accademie o da periodici, non pochi, però, come le esperienze sul cuore (cap. VI), sul nervo facciale (cap. IX, pag. 192), sulla fisonomia del dolore (cap. XI), sul tremito inspiratorio (cap. VIII), ecc. son nuovi affatto, e lo studioso di cose fisiologiche dovrà cercarli in quelle pagine. Anche il volume sulla Fazica non venne elaborato se non dopo aver messo insieme, in Laboratorio e fuori, i fatti, di cui il libro doveva essere materiato. Sono, invero, i risultati delle indagini con l’ergografo, le osser- vazioni sugli effetti delle marcie prolungate in pianura o in montagna, gli studî su animali affaticati con lunghe corse o con stimoli tetanizzanti, che ne costituiscono il sostrato fondamentale, a cui si raccolgono intorno osserva- zioni ed esperimenti originali, ad es., sulla rigidità cadaverica e sull’anemia cerebrale dopo la fatica (cap. I), sull'azione del lavoro psichico sopra l’ergo- gramma (cap. X), sulle sostanze ponogene (cap. V) e via dicendo. Gli altri tre volumi rimasero allo stato di progetto, quantunque il mate- riale per la loro costruzione non gli mancasse. Per uno, specialmente, quello sul Sorzo, i documenti radunati e quelli pubblicati in molte Memorie sono numerosissimi e sarebbero certo bastevoli a formare un ricco volume, nel quale la fisiologia del sonno avrebbe, in non pochi punti, perduto molto di ciò che vi è ancora di misterioso e d’'inesplicabile in essa. Le laboriose ricerche nell’àìmbito dell’Archeologia, che prima gli era quasi affatto ignota, gli procurarono la gioia di scoprire « documenti che par- lano dove tace ancora la storia ». Di esse si videro, con maraviglia ed am- mirazione, i frutti copiosi in molte pubblicazioni (157, 158, 160, 162 a 165, 164, 165, 167, 169, 170, 172), e, soprattutto, in due grossi volumi: « Escur- stoni nel Mediterraneo e gli scavi di Creta», in cui si propose di volga- rizzare la grandiosa civiltà minoica, e « Ze origini della civiltà mediter- ranea », destinato a far conoscere il periodo storico anteriore, quello dell'età neolitica. In questi scritti lo scopo finale, che domina sugli altri particolari, è uno: adunare prove su prove a dimostrazione che le civiltà della Grecia e del- l'Italia non possono essere di origine indo-germanica: ma che, piuttosto, la vita civile d'Europa s’iniziò con la cultura micenea. Tutti ammettono che in questi lavori il Mosso abbia avuto il grande merito di rendere chiara ed attraentissima una materia difficile, ed i com- petenti sono stupiti ed ammirati che la versatilità della mente e la vastis- sima cultura gli abbiano concesso di poter così presto addentrarsi nelle que- stioni archeologiche in modo da rendersele famigliari e da poterle trattare, mercè il concorso delle nozioni e dei metodi che erano in suo possesso, con criterî nuovi, originali e fecondi. ri L’opera scientifica del Mosso fu così varia e così vasta, così originale e così ricca di risultati, che di essa rimarrà un’incancellabile orma nella RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. ; 114 — 870 — Fisiologia e sarà ricordata anche nel campo, pur così lontano, dell’Archeo- logia. Soltanto un uomo, in cui ardesse alta la fiamma di un intelletto po- deroso ed inestinguibile il fuoco d'una grande attività, poteva compiere una tale somma di lavoro e dare alla scienza tanta messe di fatti e di dottrine. Ma la sua azione si irradiò utilmente anche in altre vie. Fu maestro ed ispiratore di scienza e d'energia: organizzò Istituti di ricerca sperimen- tale: col fascino dell’arte e del sentimento, infusi nei suoi libri di volgariz- zazione, fece amare ai profani la scienza della vita ed inspirò la fiducia nei suoi risultati: lottò con fede e con fervore d’apostolo per il miglioramento degli uomini, destando un così largo movimento intorno a sè, che, già, nel rifiorire dei giochi, se ne vedono i frutti. Con Lui si è spenta un’anima che, per tutta la vita, con impeto ga- gliardo di volontà e con lena infaticata, anelò a raggiungere l'ideale di la- voro, di scienza e di bellezza, verso il quale teneva fisso lo sguardo: scom- parve con Lui una di quelle menti, che si direbbero dotate di gioventù perenne, uno di quegli spiriti geniali, che hanno il dono di saper leggere in qualsiasi libro; un’alta, forte e nobile figura, insomma, d'uomo, di pensatore e di scienziato. Gli strumenti del lavoro, che gli furono levati dalle mani, tuttora va- lide a reggerli, saranno da altri impugnati, da altri utilmente adoperati. L'opera del ricercatore sarà continuata senza interruzione. La lotta per strap- pare o diradare i veli, che avvolgono l'ignoto, a cui miriamo, non subirà, pel cadere di uno dei suoi campioni, sia pur grande e possente, troppo lunga remora, poichè al-caduto ne sottentreranno altri, ed altri ancora, i quali non daranno tregua all’inimico, che li attrae con la sua malia. Ma, se nel campione scomparso ardeva il fuoco d'un’'idealità e d'una operosità senza pari, se il calore di esse si diffondeva, in largo àmbito, a quanti vivevano nell'atmosfera vivificatrice del suo spirito e del suo lavoro; se la sua vita era esempio ed ammonimento, giacchè, dal nulla, per virtù propria, lo aveva portato alle più eccelse cime; allora dobbiamo tanto più rimpiangere che ci sia venuta a mancare anzi tempo, questa grande forza morale. Essa avrebbe ancora potuto, con la suggestione emanante da chi non solo dice, ma opera, suscitare le energie latenti, risvegliare le sopite, rinfran- care le vacillanti o incerte; soprattutto in questi giorni, in cui pare vada, sempre più, sostituendosi al virile sentimento della lotta e del sacrificio, il concetto imbelle della conquista senza sforzo; obliando che lo sforzo è la molla, « che al sommo pinge noi di collo in collo » (*) e fa assolvere anche quelli, che non sono arrivati (?). (1) Dante, Paradiso, IV, 132. (3) Wer immer strebend sich bemuht Den kònnen wir erlòsen. (GOETHE, Faust, ultima scena). 16. 17. — 871 — NOTA DELLE PUBBLICAZIONI DI ANGELO MOSSO (1870-78). « Saggio di alcune ricerche fatte intorno all’accrescimento delle ossa ». Napoli, 1870. « L’irritazione del cervello per anemia ». L’Imparziale, anno XII, 1872, n. 17. « Sull’irritazione chimica dei nervi cardiaci ». Lo Sperimentale, anno XXIV, 1872, tomo XXX, pp. 358-368. « Sopra alcuni sperimenti di trasfusione del sangue ». Lo Sperimentale, XXIV, 1872, tomo XXX, pp. 369-375. «I movimenti dell'esofago ». Giornale R. Acc. di Med. di Torino, 1873. « Ueber die Bewegungen der Speiseròhre ». Moleschott’s Untersuchungen, XI, 1876, p. 326 - 349. « Sull’azione del tartaro emetico ». Lo Sperimentale, anno XXIX, 1875, tomo XXXVI, pp. 616-636. « Von einigen neuen Eigenschaften der Gefisswand ». Ber. d. K. Sachs. Ges. d. Wiss. zu Leipzig, 1875, pp. 305-371, con 22 fig. nel testo. — « Sopra alcune nuove proprietà delle pareti dei vasi sanguigni ». Giorn. R. Acc. di Med. di Torino, 1875. (In collab. con Schòn): « Eine Beobachtung betreffend den Wettstreit der Sehfelder ». Hering®s Beit. z. Physiol. — « Sull’alternarsi del campo della visione ». Giorn. R. Acc. Med. di Torino, 1875. « Sui movimenti idraulici dell’iride ». Ibid., 1875. « Sopra un nuovo metodo per scrivere i movimenti dei vasi sanguigni del- l'uomo ». Atti della R. Acc. d. Sc. di Torino, LX, 1875. « La farmacologia sperimentale. Ricerche sul cloralio ». Prolusione al corso di materia medica. Torino, 1875. (In collab. con Pagliani): « Critica sperimentale dell’attività diastolica del cuore ». Giorn. R. Acc. Med. di Torino, 1876. (Id.): « Intorno alla non esistenza dell’attività diastolica del cuore n. Ri- vista clinica, 1876. « Introduzione ad una serie di esperienze sui movimenti del cervello nel- l’uomo ». Archivio Scienze Mediche, I, 1876-77, pp. 216-244. (In collab. con Giacomini): « Esperienze sui movimenti del cervello nel- l’uomo ». Ibid., I, 1876-77, pp. 247-278, con 4 fig. nel testo e 2 tav. « Sull’indirizzo scientifico della clinica n. Elogio funebre di Leopoldo Ro- — vida. Giorn. R. Acc. Med. di Torino, 1877. « Sopra un metodo per misurare la temperatura dell’orina ». Transunti Acc. Lincei, I, serie 32, 1877. Sag) — 18. (1870-80). « Modificazioni che subisce la circolazione del sangue per l’ influenza del- 27. 28. 32. g2vis, ggier 33. 34. 30. . (1881-84). l’aria compressa ». R. Acc. d. Se. di Torino, XII, 1877; e Arch. per le sc. med., 1878, II, pp. 147-176, con 2 tav. e 3 fig. nel testo. (In collab. con Albertotti): « Osservazioni sui movimenti del cervello di un idiota epilettico ». Giorn. R. Acc. di Med. di Torino, 1878. (In collab. con S. Fubini): « Gemelli xiphoide junceti ». Ibid, 1878. « Gli effetti fisiologici del vino ». Conferenza, marzo, 1880. « Sulle variazioni locali del polso nell’antibraccio dell’uomo ». R. Accad. delle Scienze, XIII, 1877. « Die Diagnostik des Pulses und die localen Verinderungen desselben ». Leipzig, Veit u. C., 1879. « Sul polso negativo e sui rapporti della respirazione addominale e tora- cica nell'uomo +. Arch. per le sc. med., II, 1878, pp. 401-464, con 81 fig. nel testo « Ueber die gegenseitigen Beziehungen der Bauch- und Brustathmung ». Du Bois - Reymond's Arch. f. Physiol,, 1878, 461. (In collab. con Depaoli): « Sull’azione del freddo e del caldo sopra i vasi sanguigni dell’uomo ». Acc. dei Lincei, Transunti, vol. IV, pp. 85-86. « Sulla circolazione del sangue nel cervello dell’uomo ». Mem. R. Acc. dei Lincei, anno CCLXXVII, 1879-80, vol. V, pp. 237-358, con 7 tavole e 86 figure nel testo. — Riassunto in Arch. per le sc. med., 1882, 7, pp. 44-72 e 97-115. « Nuovo apparecchio del dott. Lesser per l’anestesia locale ». Giorn. R. Acc. Med. di Torino, 1881, anno XLIV, vol. 29, pp. 736-739, con una figura. « Nuovo apparecchio di Pettenkofer e Voit nell’ Università di Torino ». Ibid., pp. 814-318. (In collab. con D. Bajardi): « Ricerche sulle variazioni del tono nei vasi sanguigni dell’uomo ». Atti della R. Ace. dei Lincei, 1881. Serie 32. V. pp. 273-274. (In collab. con Pellacani): « Sulle funzioni della vescica ». Memorie Acc. dei Lincei, vol. XII, serie 82, pp. 3-64, con 7 tav. e 11 fig. nel testo; e Archives it. de Biol, I, 1882, pp. 97-128 e 291-324. « Ricerche sui movimenti dell'intestino ». Ibid. Fondazione delle « Archives italiennes de Biologie ». Il volume 1° esce nel 1882. « Applicazione della bilancia allo studio della circolazione del sangue nel- l’uomo ». Atti R. Acc. d. Sc. di Torino, 1881-82, vol. XVII, pp. 326-327, ovvero 534-535. « Sopra un nuovo metodo per studiare la circolazione del sangue nell’uome per mezzo della bilancia ». X° Congr. med. it. in Modena. « Application de la balance è l’étude de la circulation chez l’homme ». Arch. it. de Biol, V, 1884 pag. 130-143. «Il sonno sotto il rispetto fisiologico ed igienico ». Giorn. d. Soc. italiana d’Igiene, 1882, IV, n. 11-12. (In collab. con Guareschi): « Ricerche sulle sostanze estratte da organi animali freschi e putrefatti ». Atti R. Acc. delle Sc. di Torino 1881-82, vol. XVII, pp. 545-547, ovvero 793-795. (In collab. con Guareschi): « Recherches sur les ptomaines ». Arch. it. de Biol., II, pag. 367-402; III pag. 241-261. — 873 — 36. (1881-84). (In collab. con Guareschi): « Ricerche fatte sulla piridina estratta dal- l'alcool amilico del commercio n. R. Acc. di Med. di Torino, 1883, vol. XXXI, pag. 6. 37. — « Sopra un nuovo sfigmografo, che scrive i cinquantesimi di secondo nella curva stessa del polso ». Ibid., pag. 82. 38. — « Ricerche sulla fisiologia della fatica ». Ibid.. pag. 667., 39. _ « Ricerche sulla temperatura del sangue fuori dell’organismo e l'influenza dei bacteri sulla medesima ». Ibid., XXXII, pag. 268. g9vis, -— « La temperatura del sangue fuori dell'organismo ». Congresso internazio- nale di medicina a Copenhagen, agosto 1884. 40. (1884-85). « La paura n. Treves, 1884. 4Qris. — « Die Furcht ». Hirzel, Lipsia. 4l. _ « Le precauzioni contro il colera e le quarantene ». Nuova Antol., 1884, n. 18. 42. — « La respirazione dell’uomo sulle alte montagne ». R. Acc. di Med. di To- rino. Volume in onore di C. Sperino, 1884. 43. — « La respirazione periodica e la respirazione superflua o di lusso ». Mem. R. Acc. Lincei, serie 4%, vol. I, pp. 457-519, con 8 tavole e 21 figure nel testo; e Archives it. de Biol., VII, p. 48-127. 44, — « Le Università italiane e lo Stato ». Nuova Antol., 1884, n. 21. 45. — « Un’ascensione d’inverno sul Monte Rosa ». Treves, 1885. 46. (1886-87). « Fisiologia e patologia dell’ipnotismo ». Nuova Antol., 1886, n. 13. 47. _ « L'istruzione superiore in Italia ». Ibid., n. 23. 48. (1887-88). « Ricerche sopra la struttura dei globuli rossi ». R. Acc. di Med. di T'o- rino, anno L, vol. 35, p. 9. 49. _ « Alterazioni dei corpuscoli rossi e coagulazione del sangue ». Ibidem, pp. 77-81. 50. _ « Alterazioni dei corpuscoli rossi del sangue ». Nota 12. Rend. R. Acc. dei Lincei, vol. III, 1° sem., pp. 252-257. 51. i « Coagulazione del sangue ». Nota 2°. Ibid., pp. 257-264. 52. — « Alterazioni cadaveriche dei corpuscoli rossi e formazione del coagulo ». Nota 32. Ibid., pp. 315-322. 09. = « Come i leucociti derivino dai corpuscoli rossi del sangue ». Nota 4°. Ibid., pp. 822-328. 54. —_ « Formazione del pus dai corpuscoli rossi del sangue ». Nota 5%. Ibid., pp. 328-384. 55. — « Degenerazione dei corpuscoli rossi del sangue ». Nota 6%. Ibid., pp. 334-839. 56. — « Sulle leggi della fatica ». Discorso alla R. Acc. dei Lincei, 29 maggio. Ibid., pp. 425-431 57. = « Degenerazione dei corpuscoli rossi nelle rane, nei tritoni e nelle tarta- rughe n. Nota 72. R. Acc. dei Lincei, vol. III, 2° sem.. pp., 124-131. 98. — « Degenerazione dei corpuscoli rossi nel sangue dell’uomo ». Nota 8*. Ibid., pp. 181-138. 59. = « Quels sont les principes è recommander pour la rédaction d’un règlement international des épidémies ». Ber. i. d. VI. Internat. Congr. f. Hyg. u. Demogr. Vienna, 1887. 60. — « De la transformation des globules rouges en leucocytes et de leur néero- biose dans la coagulation et la suppuration ». Archives it. da Biol., VIII, 1887, p. 252-316. 61. (1888-89). « Applicazioni del verde di metile per conoscere la reazione chimica e la morte delle cellule ». Nota 9%. R. Acc. dei Lincei, vol. IV, 1° sem., — pp. 419-427; e Archives it. de Biol., X, p. 29-39. — 874 — 62. (1888-89). « Esame critico dei metodi adoperati per studiare i corpuscoli del sangue ». Nota 10%. Ibid., pp. 427-433; e Archives it. de Biol., X, p. 40-48. 63. _ «Il sangue nello stato embrionale e la mancanza dei leucociti ». Nota 112. Ibid., pp. 434-442; e Archives it. de Biol., X, p. 48-58. 64. — « Il sangue embrionale di Scyllium Catulus ». Nota 12. Ibid., pp. 489-497; e Archives it. de Biol., X, p. 59-68. 65. — «Un veleno che si trova nel sangue dei murenidi n. Nota 13. Ibid., pp. 665-673. 66. — « Azione fisiologica del veleno che si trova nel sangue dei murenidi ». Nota 142. Ibid., 1888, 1° sem., p. 673-685. 67. — «Il veleno dei pesci e delle vipere ». Nuova Antol., 1888, n. 14. 68. —_ « Necrologio di Salvatore Tommasi ». Archives ital. de Biol., 1888, X. 69. — «Un venin dans le sang de Murgnides». Archives it. de Biol., X, 1888, p. 141-169. 70. = « Le leggi della fatica studiate nei muscoli dell’uomo ». Memoria 1%. R. Acc. dei Lincei, 1888, serie 42, vol. V, p. 410-426 con 21 figure nel testo. 71. (1889-90). « L'espressione del dolore ». Nuova Antol., vol. XXIII. 72. « Ueber verschiedene Resistenz der Blutk6rperchen ». 62 Versammlung deutscher Naturforscher u. Aerzte in Heidelberg, 1890, p. 318. 73. — Les lois de la fatigue étudiges dans les muscles de l'homme ». Archives ital. de Biol., vol. XIII, p. 123-186, avec 64 fig. d. le teste. 730%s, — « Ueber die Gesetze der Ermidung ». Du Bois- Reymond's Arch. fir Phy- siol., 1890, pp. 89-168. 74. —_ « Travaux du Laboratoire de Physiologie de 1’ Université de Turin », année 1889, Turin, Loescher, 1890. 75. (1891-94). « La fatica ». Treves, Milano. nobis — « Die Ermudung ». Hirzel, Leipzig. 76. _ « La fatigue » Alcan, 1894, Paris. t0eL, —_ « Studî sulla pressione del sangue nell'uomo ». Atti dell’ XI Congr. med. internaz. di Roma, vol. II, Fisiol., p. 280. 78. — « Les phénomènes psychiques et la température du cerveau ». Philos. Transactions of the R. Society of London, t. CLXXXIII e Archives it. de Biol, 1893, XVIII, pp. 277-290, con 3 figure. 79. —_ « L'educazione fisica della donna n. Treves, 1892. 80. _ « L'educazione fisica e i giuochi nelle scuole ». Nuova Antol., vol. XXXVI, 81. _ « La riforma della ginnastica ». Ibid., 1892, n. 2. 82. _ « Die Temperatur des Gehirnes n. Veit. u. C. Lipsia. DI — « La temperatura del cervello ». Treves, 1894, Milano. 84. —_ « L'educazione fisica della gioventù ». Treves, 1893. 85. —_ «In onore di J. Moleschott ». Discorso pronunziato in occasione delle feste giubilari. (Nel volume: In memoria di J. Moleschott, Roma, 1894, Tipogr. delle Mantellate, pp. 103-127). 86. — « Commemorazione di J. Moleschott » nel giorno dell’inaugurazione del nuovo Istit. di Fisio]. di Torino. (Ibid., pp. 137-143). 87. — « Necrologia di Ermanno Loescher ». Archives it. de Biol., 1898, XVIII, pp. 333-395. 88. — « Institut physiologique de l’Université de Turin ». Public. faite è l’occasion du X Congrés internat. de Médec., tenu è Rome, 1894 (Turin, Bona, avec 11 figg.). 89. (1894-95). « Il freddo ». Conferenza alla sede del C. A. I. (Bollettino del Club Al- pino, XXVII). 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98, 99. 100. 101. (1894-95). (1896-97). 1012îs, a ole, — 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. (1897-98). (1898-99). (1899-1900). (1900-1901). (1901-1902). — 875 — « Brown-Séquard ». Illustrazione italiana, 1894, n. 19. « L'osservazione microscopica dei termometri ». Atti dell’ XI Congr. med. internaz. di Roma, vol. II, Fisiol., 1894, p. 229. « Necrologia di Carlo Ludwig ». Nuova Antol., 1895, n. 12; Die Nation, n. 38 e 89; Revue Scientifique, 27 juillet. « Studî sull'aria rarefatta n. Congr. internaz. di fisiologia, Berna. « Sphygmomanomètre pour mesurer la pression du sang chez l'homme ». Archives it. de Biol., 1895, XXIII, pp. 177-197 con 9 figure. « Ueber Turn und Spielplatze » Zeitschr. f. Turnen und Jugendspiel, IV, o OE « Urteil iber das deutsche Turnen». Zeitschr. f. Schulgesundheitspflege, VIII. « Die Evolution der Turnkunst n. Deutsche Turnzeitung. « Mesmer et les origines de l’hypnotisme ». Revue scientif., t. VI, p. 257. « Il passato e l'avvenire dell’educazione fisica ». Nuova Ant., 1° marzo 1896. « Materialismo e misticismo n. Discorso inaugur. nella R. Università di Torino. « Fisiologia dell’uomo sulle Alpi ». 1897, Treves, Milano. « Life of man on the high Alps ». Fischer Unwin. London. « Der Mensch auf den Hochalpen ». Veit e C., Leipzig. « Descrizione di un miotonometro per studiare la tonicità dei muscoli nell'uomo ». Mem. R. Acc. d. Sc. di Torino, 1896, serie 22, vol. XLVI, pp. 93-120, con 10 figure nel testo, e Archives it. de Biol., XXV, Pp. 349-384. « La riforma dell’educazione ». 1898, Treves, Milano. « Fisiologia dell’uomo sulle Alpi ». Nuova edizione, 1898. « L'educazione fisica dei Romani e della gioventù italica ». Nuova Antol., 1° novembre 1898, « La Conferenza internazionale per il catalogo della letteratuta scien- tifica ». Nuova Antol., dicembre 1898. « Pensiero e moto ». Conferenza all’ Università di Worcester (Stati Uniti). « Influenza del simpatico nei fenomeni delle emozioni ». Ibid. « La respirazione nelle gallerie e l’azione dell’ossido di carbonio ». Un volume in collab. con alcuni allievi. Contiene le seguenti Memorie di A. Mosso: « Azione dell’ossido di carbonio sul cuore » (pp. 238-265 con 10 figure nel testo; e Archives it. de Biologie, XXXV, p. 21-50). « La rassomiglianza del mal di montagna coll’avvelenamento per ossido di carbonio » (pp. 266-291, con 8 figure; e Archives it. de Biol., XXXV, p. 51-74). «La morte apparente del cuore ed i soccorsi nell’avvelenamento per ossido di carbonio » (pp. 292-306, con 2 figure; e Archives it. de Biol., XXXV, p. 75-89). « Come agiscono sui polmoni l’ossido di carbonio e l’aria rarefatta » (pp. 307-318, con 2 figure; e Archives it. de Biol., XXXV, p. 90-102). « Analisi dell’aria presa nel fumaiolo delle macchine durante la trazione nelle gallerie dei Giovi» (pp.819-320; e Archives it. de Biol., XXXV, p. 103-104). « La democrazia nella religione e nella scienza », Treves, Milano, « Commemorazione del prof. Alberto Gamba a Bologna ». « L'educazione della donna agli Stati Uniti ». Nuova Antol., marzo 1902. 117. (1902-1903). 118. — 118.8, — 119. — 120. = 121. (1903-04). 122. = 123. ni 124. = 125. = 126. = 127. = 129. = 130. = 131. —_ 132. — 134. — — 876 — « La fisiologia dell’apnea studiata nell'uomo ». Mem. R. Ace. Sc. To- rino, Serie II, vol, LITI, pp. 367-386, con 21 figure; e Archives Ita de Biol., XL, pp. 1-30. « Mens sana in corpore sano ». 1903, Milano, Treves. Traduzione francese di « Mens sana in corpore sano ». Alcan, Paris. « L'apnea quale si produce nei cambiamenti di posizione del corpo del- l’uomo ». Mem. R. Acc. Sc. Torino, Serie II, vol, LIII, pp. 387-395, con 11 figure; e Arch. it. de Biol., XL, pp. 31-43. « Travaux de l’année 1908 du Laboratoire scientifique international du Monte Rosa, tome I. «I movimenti respiratori del torace e del diaframma ». Mem. R. Acc. Se. Torino, Serie II, vol. LITI, pp. 397-435, con 43 figure; e Areh. it. de Biol., XL, pp. 48-98. « Di un politecnico a Torino ». Nuova Antol., dicembre 1903. (In collab. con G. Marro): « L’acapnia prodotta nell'uomo dalla dimi- nuita pressione barometrica ». Rend. R. Acc. dei Lincei, vol. XII, 1° sem., pp. 453-459, con 2 figure; e Archives it. de Biol., XXXIX, pp. 387-394 con 2 fig. (In collab. con Marro): « Analisi dei gas del sangue a differenti pres- sioni barometriche ». Ibid., pp. 460-465, con 1 fig.; e Archives it. de Biol., XXXIX, p. 395-401. (In collab. con Marro,: « Le variazioni che succedono nei gas del sangue sulla vetta del Monte Rosa». Rend. R. Acc. dei Lincei, vol. XII, 1° sem. pp. 466-77, con 1 figura; e Archives it. de Biol., XXXIX. pp, 402-416. « L’apnea prodotta dall’ossigeno ». Atti R. Acc. delle Scienze di Torino, vol. XXXIX, 1903-04, pp. 40-60, ovvero 95-114, con 9 figure; e Archi- ves it. de Biol., XLI, pp. 138-157. «La pausa dei movimenti respiratorî nell'asfissia ». Rend. R. Acc. dei Lincei, XII, 2° sem., pp. 535-543, con 5 figure; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 158-168. «I centri respiratorî spinali e le respirazioni che precedono la morte ». Rend. Acc. dei Lincei, XII, 2° sem., pp. 585-596, con 9 figure; e Archives it. de Biol., XLI, pp, 169-183. « L'estensione degli eccitamenti respiratorî a centri spinali ». Archivio di Fisiologia, 1894, I, pp. 143-170, con 21 figure. « E. J. Marey ». Necrologia in Archives it. Biol., 1904, XLI, pp. 439-498. (In collab. con Marro): « La respirazione dei cani e la polipnea termica sulla vetta del Monte Rosa. Analisi dei gas del sangue dopo un lungo soggiorno a 4560 metri ». Giorn. R. Acc. di Medicina, Torino, 1904, anno LXVII, vol. LI, pp. 65-82, con 6 figure; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 357-374, con 6 figure. « Le oscillazioni interferenziali della pressione sanguigna ». Atti R. Acc. delle Scienze di Torino, vol. XXXIX, 1903-04, pp. 393-406, ovvero 507-529, con 13 figure; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 257-270. « Azione dei centri spinali su la tonicità dei muscoli respiratorî ». R. Ace. di Med. di Torino, anno LXVI, vol. LI, pp. 755-781; e Ar- chives it. de Biol., XLI, pp. 111-137, con 14 figure. «Il male di montagna ed il vomito ». Atti R. Acc. delle Scienze di Torino, vol. XL, pp. 324-335, ovvero 432-443, con 3 figure; e Archives it. de Biol, XLIII, pp. 467-479. — 8377 — 135. (1904-1905). (In collab. con Pagliani): « I cambiamenti di forma del cuore per effetto 136. 137. 138. 139. 140. 141. 142. 143. 144. 145. 146. 147, 148. 149. 150. 151. 152. 158. (1905-1906). della rigidità cadaverica ». Scritti medici in onore di C. Bozzolo 1904, p. 1-10. Unione tip. ed. Torinese. « La ventilazione rapida dei polmoni per mezzo di un apparecchio che funziona con aria compressa e rarefatta ». Rend. R. Acc. Lincei, 1904, 1° sem., XIII, pp. 167-174, con 7 figure; e Archives it. de Biol., XLI, p. 192-200. « Teoria della tonicità muscolare basata sulla doppia innervazione dei muscoli striati ». Ibid., pp. 174-180; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 183-191. « A propos des observations critiques relatives è la note ‘Théorie de la tonicité musculaire etc.’ ». Archives it. de Biol., XLI, pp. 831-336. « Esperienze fatte sulle scimmie colla depressione barometrica ». Ibid., pp. 201-211; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 384-397. « Esperienze fatte sulle scimmie a Torino e sulla vetta del Monte Rosa ». Ibid., pp. 212-215, con 2 figure; e Archives it. de Biol,, XLI, pp. 897-401. « Come sulla montagna diminuisca Ja sensibilità per l’anidride carbo- nica inspirata ». Ibid., pp. 519-528, con 12 figure; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 426-488. « La rapidità dello scambio gassoso nei polmoni. Durata della reazione per 1’ CO, inspirata. L’espirazione attiva ». Ibid., pp. 529-534, con 4 figure; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 418-425. « Nella depressione barometrica diminuisce la sensibilità per l'anidride carbonica ». Ibid., pp. 591-597, con 3 figure; e Archives it. de Biol., XLI, pp. 438-445. « L’arresto del respiro e le modificazioni della sua durata nell'aria ra- refatta e sulle montagne ». Ibid., pp. 597-608, con 10 figure; e Ar- chives it. de Biol.,, XLI, pp. 446-460. « Esperienze fatte sul Monte Rosa respirando ossigeno puro e mesco- lanze di ossigeno e anidride carbonica ». Ibid., pp. 670-680, con 9 figure; e Archives it. de Biol., XLII, pp. 1-14. « La diminuita tensione dell'ossigeno non basta per spiegare il sonno ed altri fenomeni che produconsi nelle forti depressioni barometriche ». Ibid., pp. 680-687; e Archives it. de Biol., XLII, pp. 23-31. (In collab. con Galeotti): « L'azione fisiologica dell’alcool a grandi al- tezze». Ibid., 2° sem., pp. 8-12; e Archives it. de Biol., XLII, p. 32-42. « L’acapnia prodotta dalle iniezioni di soda nel sangue ». Ibid., 2° sem., pp. 407-418, con 11 figure; e Archives it. de Biol., XLII, pp. 186-199. « Dimostrazione dei centri respiratorii spinali per mezzo dell’acapnia ». Ibid., 1905, XIV, 1° sem., pp. 249-255, con 5 figure; e Archives it. de Biol., XLIII, p. 216-224. « Differenze individuali alla pressione parziale dell'ossigeno ». Ibid., pp. 255-264, con 5 figure; e Archives it. de Biol., XLIII, pag. 197-208. « Depressione barometrica e pressione parziale del CO, nell'aria respi- rata. Esperienze fatte sulle scimmie ». Ibid., pp. 291-296 con 1 fig.; e Archives it. de Biol, XLIII, pag. 209-215. « La pressione del sangue nell'aria rarefatta ». Ibid., pp. 296-307, con 7 figure; e Archives it. de Biol., XLIII, p. 341-355. « L'anidride carbonica come rimedio del male di montagna, e perchè RenpICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 115 154 164. 165. 166. 167. 168. 169 170. 171. 172. . (1905-1906). . (1906-1907). . (1907-1908). (1908). . (1909-1910). — 878 — nelle ascensioni aerostatiche questa debba respirarsi coll’ossigeno ». Ibid., pp. 308-316; e Archives it. de Biol., XLIII, p. 305-366. « Contributo alla fisiologia dei muscoli lisci ». Mem. R. Ace. Lincei, serie 52, vol. VI, pp. 570-594, con 27 figure; e Archives it. de Biol, XLV, pp. 301-384. «Ta respirazione periodica quale si produce nell’uomo sulle Alpi e per effetto dell’acapnia n. Mem. R. Ace. delle Scienze di Torino, 1905, se- rie 22, t. LV, pp. 27-68, con 22 figure; e Archives it. de Biol., XLIII, pp. 831-133. «La difesa della patria e il tiro a segno n. Due discorsi in Senato, 1905, Milano, Treves. « Crani etruschi ». Mem. R. Acc. delle Sc. di Torino, t. LVI, pp. 263-281, con 4 tavole. « Crani preistorici trovati nel Foro Romano ». Notizie degli scavi, 1906, fasc. 1°, pp. 46-54, con 5 figure e 3 tavole. « Vita moderna degli Italiani ». Treves, Milano, 1906. «Idoli femminili e figure di animali dell'età neolitica ». Mem. R. Acc. delle Scienze di Torino, t. LVIII, pp. 375-395, con 2 tavole. « Travaux du Laboratoire scientifique international du Mont Rosa », t. IL « Escursioni nel Mediterraneo e gli scavi di Creta ». Treves, Milano, 1908. « Vertebre di pesci che servirono come ornamento e come amuleti nei tempi preistorici». Atti R. Acc, delle Scienze di Torino, 1907 vol. XLII, pp. 674-677 ovvero 1162-1165, con 1 tav. «Femori umani usati come collane o amuleti». Ibid. pp. 663-667 ov- vero 1151-1161, con 1 tav. «Le armi più antiche di rame e di bronzo ». R. Acc. dei Lincei, Classe sc. mor., stor. e filol., serie 5%, vol. XII, anno CCCIV, 1907. « Discorso inaugurale alla Società ginnastica di Torino ». Il Ginnasta, Roma. « Una tomba preistorica a S. Angelo di Muscaro ». Memorie R. Acc. d. Se. di Torino, t. LIX, pp. 421-432, con 22 figure ed una tavola. «Le ricerche sperimentali sulle Alpi». Discorso nella Seduta Reale dell’Accademia dei Lincei, 7 giugno 1908. « Villaggi preistorici di Caldare e Cannatello presso Girgenti ». Monu- menti antichi dei Lincei, vol. XVIII. « La stazione preistorica di Coppa Nevigata presso Manfredonia ». Ibid. «L'uomo sulle Alpi ». 3* edizione. Treves, Milano. « Le origini della civiltà mediterranea ». Treves, Milano. — 879 — PERSONALE ACCADEMICO L'Accademia procede alla rinnovazione delle cariche dell’Amministratore e dell'Amministratore aggiunto. 1l Presidente comunica all'Accademia che il Socio DALLA VEDONA, fin qui Amministratore aggîunto, domanda di non essere confermato nella sua carica. Il risultato della votazione è il seguente: Per l'Amministratore: Votanti 43. GATTI voti 42. PirortA 1. Eletto GATTI. Per l'Amministratore aggiunto: Votanti 43. Prrorta 42. MATTIROLO 1. Eletto PIROTTA. Su proposta del Presidente BrAsERNA, l'Accademia approva unanime un voto di plauso e di ringraziamento all'Amministratore uscente senatore DALLA VEDOVA. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvicH richiama l’attenzione della Classe su alcune pubblicazioni del Corrisp. FANTÒLI, del sig. ScHwoERER e sul volume in- titolato: Description géométrique détaillée des Alpes francaises, inviato in dono dal sig. P. HELBRONNER, Il Socio VoLTERRA presenta in omaggio all'Accademia, a nome del Corrisp. GaRrBASSO, le seguenti due pubblicazioni: / progressi recenti della fisica teorica, sperimentale e applicata. — Nisica d'oggi, filosofia di do- mani, rilevando i pregi e l'interesse specialmente della prima pubblica- zione e mettendo in evidenza la grande utilità della iniziativa presa dal prof. Garbasso delle conferenze scientifiche che si tengono annualmente presso l’Università di Genova. CORRISPONDENZA Il Presidente BLASERNA presenta un piego suggellato trasmesso dalla signora dott. MARGHERITA TRAUBE MENGARINI, perchè sia conservato negli Archivî accademici. KE. M. eee ida PRESENTAZIONI DI LIBRI ‘Millosevich (Segretario). Presenta alcune pubblicazioni del Corrisp. Fantoli, dei sigg. Schwoerer SE: È n mul ” e Helbronner . Volterra. Fa omaggio di die sit dl DO do. e ne dicono Blaserna (Presidente). Presenta un piego suggellato inviato dalla signora dott. M. Mengarini, perchè sia conservato negli archivi accademici . CORRISPONDENZA _Blaserna (Presidente). Presenta un piego suggellato inviato dalla sig. dott. Traube Men- garini, perchè sia conservato negli archivi accademici. Fa ig oo DE SARI = ‘ae _zn.i RENDICONTI — Giugno 1911. i INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 3 giugno 1911. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Kòrner e Vanzetti. Ricerche sopra l’olivile (9). > . 0. 0... 0. 00. Pag Ciamician e Silber. Azioni chimiche della/luce (#). LL. Lauricella. Sopra î nuclei reiterati (**) a... : ; RITO, Colonnetti. Sull'efflusso dei liquidi fra pareti che i una iii e dal Socio Leo CM EI vienna MET) Giuganino. Alcune formole ile a | gie Li Volterra i i LI io ela- stiche (pres. dal Corrisp. Garbasso) (**) . . . 5 LA Corbino. Lo studio sperimentale del fenomeno di Hall e Sn teoria ai dei. metalli (pres. dal Socio Blaserna) (*) . . +00. I Agamennone e Cavasino. Sopra una presunta dii i ii ricorrenza dei grandi terremoti (pres. dal Socio Millosevich) + FI i fto Amantea. Contributo alla conoscenza dellla dui succo i e dal Socio Lui 3 PISA EI Ciusa e Vecchiotti. Ricerche di idronali ci dal Sidia ui SZ EIA Paolini. Sul glicerofosfato sodico Poulene, e sopra un acido ZE di (pres. dal Corrisp Peratoner) . RIE È ; SISI O Pratolongo. Sulle soluzioni citrofosfatiche. = È dii omogeneo in soluzione ACQUOsA,; studiato col metodo crioscopico (pres. dal Socio Merozzi) <<. . LELRIA Palazzo e Liverani. Sintesi di pirazoloni da un composto del y-pirone Mi dal Corrisp. PERGIONER I RE SRO en Clerici. Una trivellazione eseguita nil Tevere im St al bone Fabricio (pres. dal Socio poni SR) Porlezza e Norzì. Contributo alla conoscenza 0 ii Li cn e dal Socio Nasi) e 5 ; CRA) Politis. Sopra speciali corpi ui che tino ona i n ui 0A fi Nazari. Contributo sperimentale alla questione dei rapporti fra peso e volume delle sementi, ed il rendimento vegetativo del raccolto (pres. dal Socio Pirotta) (#). < . . ” Munerati. La recettività del frumento perla carie in rapporto col tempo di semina (esi Id. )» 8° 5 PERSONALE ACCADEMICO Aducco. Commemorazione del Socio senatore Angelo Mosso... . 5 i »o Elezione del Socio Gatti ad Amministratore dell'Accademia e del Socio “Pirdita sa a: StrAtore: ag p1IUMtoss*se co: Ro, CRE OO O ig A e dI (Segue in terza pagina) = (*) Questo lavoro sarà pubblicato nei volumi delle Memorie. (**) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d’ufficio, responsabile. Abbonamento postale. — Pubblicazione bimensile. Roma 18 giugno 1911. N. 12, ATTI DELLA REALB ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO CCOCVIII. 19155 SIRENE: QUINTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 18 giugno 4191. Volume XX. — Fascicolo 12° e Indice del volume. 1° SeMESTRE: /. ARIANO | AMG XA ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI. CAV.. V. SAIVIUCCI 1911 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serse guenta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei, Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti 1.1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè i) bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono nn volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispone denti nou possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 6 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci « vorrispondenti, e 50 agli estranei. qualora l’autore ne desideri wn vumero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a sno carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- . demia; tuttavia se i Soci, cha vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. I. 1. Le Note che oltrepassivo i limiti indi» cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci 0 da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com. - wissione la quale esamina il lavoro e ne rife risce in una prossima tornata della Classe. 2. Ta relazione conclude con una delle se guenti risoluzioni. - 2) Con una proposta di | stampa della Memoria negli Atti dell'Accade mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 2) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra ziamento all’ autore. — d) Colla semplice pro: posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell'Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall art. pre cedente, la relazione è letta in seduta pubbliea, nell ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5.L’Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 sr estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto, è mossa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 18 giugno 1911. F. D'Ovipio, Vicepresidente. MEMORIE kE NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Chimica. — Azioni chimiche della luce. Nota XX del Socio G. CIAMICIAN e P. SILBER. Durante uno studio così esteso come quello a cui attendiamo da parecchi anni, è quasi inevitabile che si vadano accumulando nei libri di laboratorio osservazioni staccate senza un nesso comune, provenienti da esperienze lasciate e poi riprese o da quelle fatte in un certo indirizzo, che non ebbe sèguito. Di tali frammenti si compone la presente Nota. Benzaldeide. Alcuni anni fa (Nota XIII)(') abbiamo studiato la composizione della resina che si forma per polimerizzazione della benzaldeide alla luce, ed abbiamo trovato che, insieme col trimero di Mascarelli, si produce segnatamente una sostanza resinosa, insolubile nell’etere petrolico, che ha la composizione di un tetramero. Nella purificazione della resina greggia mediante precipitazioni con etere petrolico dalia soluzione eterea, rimasero indietro in notevole quan- tità queste soluzioni etereo-petroliche, che furono abbandonate alla evapo- razione spontanea. Si ebbe così un residuo in parte sciropposo, ma in parte solido e bianco. Trattaudo tutto il residuo con alcool metilico a freddo, si sciolse lo sciroppo, ma rimase indietro la parte solida. A caldo, anche que- (!) Questi Rendiconti, vol. 18, I, pag. 271 (1909). RenpiconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 116 — 882 — st'ultima passò in soluzione, ad eccezione di una piccola parte, che venne riconosciuta per il trimero di Mascarelli, dal punto di fusione 247°-248°. Concentrando la soluzione metilica si deposero delle masse bianche, apparen- temente amorfe, che furono purificate dall'alcool metilico e poi dal benzolo. Il composto fonde a 144°-145° e si presenta in forma di aggregati micro- cristallini, di aspetto cretaceo. È insolubile nell'acqua: si scioglie invece a caldo nell’alcool metilico, etilico e nel benzolo: anche a freddo nell’etere e nell'etere acetico. Dalla soluzione alcoolica, l’acqua lo precipita in aghetti bianchi voluminosi. Esso è un polimero della benzaldeide, e con nostra sorpresa, si dimostrò isomero del trimero di Mascarelli, che fonde a 247°-248°. Non si combina colla semicarbazide. È probabile che i due trimeri della benzaldeide, dal punto di fusione 144°-145° e 247°-248°, appartengano allo stesso tipo e sieno forse isomeri geometrici. Aldeide cinnamica. Dopo una lunga esposizione di qualche anno, si ritrovò una massa re- sinosa, rossobruna e trasparente. Sciolta nell'etere e dibattuta con carbonato sodico, per togliervi l'acido cinnamico, ed in fine distillata con vapore per eliminare piccole tracce di aldeide inalterate, restò indietro una resina fragile e trasparente, che non si potè avere in forma cristallina. Venne purificata per ripetute precipitazioni della soluzione eterea con etere di petrolio. Il precipitato, quasi bianco, polverulento, venne seccato nel vuoto a 80°; fonde verso i 115°, rammollendo già a 103°. Ha la composizione dell’aldeide cin- namica, di cui è un polimero. In benzolo si ebbe un peso molecolare assai elevato, 1337; in acido acetico, da 523 a 606: ciò che starebbe fra le formole : 4 Cs Hs0 =528 e 5C,Hs0 = 660. La resina scolora rapidamente il permanganato in soluzione alcoolica. Probabilmente il nostro prodotto era un miscuglio; crediamo però che la condensazione avvenga, almeno in parte, per carbonio, rispettando i doppî legami, forse analogamente a quanto si verifica per il tetramero della ben- zaldeide (*). Benzofenone e benzaldeide. Già molti anni fa (*), ottenemmo, alla luce, da queste due sostanze, un prodotto di condensazione, dal punto di fusione 236°-237°, a cui attribuimmo allora con riserva la formola assai complessa C,, H340;. Avendo avuto occa- (3) loc. cit. (*) Vedi la Nota V in questi Rendiconti, vol. 12, I, pag. 238 (1903). — 383 — sione di ripetere quella vecchia esperienza, possiamo ora correggere la formola. Durante l'esposizione di 25 gr. di benzofenone in 58 gr. di benzaldeide (per sciogliere il primo) dal giugno al gennaio, la soluzione si era trasfor- mata in una massa resinòsa giallo-bruna, disseminata di cristalli bianchi. Trattando a freddo con acido acetico glaciale, questi ultimi restano indietro, mentre la resina si scioglie. La parte cristallina (6 gr.), lavata con carbo- nato sodico, venne fatta cristallizzare dall’etere acetico, da cui si separa in forma di aghetti bianchi e voluminosi, che fondono a 245°. Essi sono, na- turalmente, insolubili nell'acqua, e, in genere poco solubili, nei solventi or- dinarî; più facilmente li sciolgono a caldo l’etere acetico e l'acido acetico glaciale. Le analisi condussero questa volta, con un prodotto evidentemente più puro, alla formola C.,H:303, che corrisponderebbe ad un prodotto di addi- zione di due molecole di aldeide benzoica ed una di benzofenone: 20:Hs0 + Ci3.H100 = 070350; è Si potrebbe quasi pensare che questo composto avesse analogia coi tri- meri della benzaldeide, in cui una delle tre molecole di questa fosse sosti- tuita dal benzofenone. La parte solubile nell’acido acetico, messa nell'acqua e distillata con vapore, dà un po' di benzaldeide e di benzofenone; il residuo è una resina giallo bruna, che non abbiamo studiato ulteriormente. Bensofenone ed etere di Hantzsch. Lasciando per un anno intero esposto alla luce un miscuglio di una soluzione benzolica di benzofenone e di etere diidrocollidindicarbonico (etere di Hantzsch), i cristalli di quest'ultimo si vanno a poco a poco sciogliendo in un liquido giallo. Dopo avere eliminato il solvente, si ebbe un residuo cristallino che venne estratto con etere petrolico: la parte che restò indi- sciolta, era costituita dal benzopinacone; l'estratto petrolico fu a sua volta recato a secco e ripreso con acido cloridrico diluito. La soluzione cloridrica, sbattuta con etere per liberarla della parte non basica, dette, per svapora- mento, una massa raggiata cristallina, il cloridrato dell'etere colle4dindicar- bonico, che venne riconosciuto mediante il picrato, dal punto di fusione 164°, ed al contegno del cloroaurato e del cloroplatinato. Da 5 gr. dell'etere di Hantzsch, se ne ebbero 2,2 del suddetto cloridrato. Il benzofenone ossida lentamente alla luce l’etere diidrocollidindicarbo- nico, trasformandosi, come al solito, in pinacone. — 884 — Chinaldina ed acetone. Questa esperienza si accosta a quelle note e bellissime di A. Benrath (') che ottenne dalla chinolina e dalla chinaldina prodotti di addizione con l’al- deide benzoica. L'acetone invece non reagisce alla luce con la prima, ma dà invece con la seconda un interessante prodotto di condensazione, di cui non abbiamo ancora terminato lo studio. Alla luce rimase esposta per un anno intero una soluzione di parti uguali di chinaldina in acetone, 44 gr. in tutto. Il liquido, lievemente giallo, liberato dall'acetone a b. m. e dalla chinaldina per distillazione a vapore, lasciò un residuo, del peso di 9,2 gr. Questo può essere purificato facilmente dall'alcool e poi dal benzolo e si presenta in mammelloni formati da piccoli aghetti lievemente colorati in giallo, che fondono a 212°, L'analisi condusse alla formola C,; Hog Ns, che corrisponde ad un prodotto di condensazione formatosi da due molecole di chinaldina ed una di acetone con eliminazione d'acqua: 2C0HoN-+C:H:0=H:0 + C3Hsg No. Il composto è insolubile nell'acqua e nell'etere petrolico; gli altri or- dinarî solventi lo sciolgono, e meglio degli altri il benzolo a caldo, da cui cristallizza per raffreddamento. In soluzione di alcool assoluto riduce il per- manganato. La sostanza è una base biacida, che ha nn contegno singolare nella salificazione. Messa in contatto con l'acido cloridrico, essa si colora subito in rosso ranciato; ma, agitata con una bacchetta di vetro, si scioglie dando un liquido senza colore; se l'acido era concentrato, si separa il sale in aghetti bianchi. Portando a secco il liquido incoloro, si ha un residuo appena co- lorato in giallo, che a contatto dell’acqua diventa subito rosso ranciato, pro- ducendo una soluzione ugualmente colorata: per aggiunta di acido cloridrico fumante, il colore scompare. Questi fenomeni trovano la loro spiegazione nel fatto che i sali monoacidi della base sono colorati, mentre sono incolori quelli biacidi. Il dicloridrato, Cx3 Hs° Na.2 HCl, venne preparato facendo passare l’acido cloridrico gassoso nella soluzione della base in etere anidro. Da principio si produce un voluminoso precipitato giallo-ranciato, che per ulte- riore passaggio del gas cloridrico diventa bianco. Venne raccolto e seccato nel vuoto sulla calce. Stando all’aria, tende a colorarsi perdendo acido clo- ridrico. Coll’acqua e coll’alcool si colora subito in rosso ranciato. (1) Journal fir practische Chemie, (2) vol. 73, pag. 384 (1906). — 885 — n monoeloridrato, Cx3 Hss N . HC1, fu appunto ottenuto cristallizzando a caldo il sale incoloro dall'alcool assoluto. Si ottengono per raffreddamento mammelloni rosso ranciati, che, scaldati verso i 270°, sublimano senza fondere. Il cloroplatinato, Cx3 Hs,° N. HsPtCk, è un sale biacido, che si ot- tiene trattando la soluzione cloridrica, incolora, della base, con acido cloro- platinico; dopo qualche tempo si separa un precipitato cristallino rosso- ranciato. Venne lavato brevemente con acqua e seccato sul cloruro di calcio. Il cloraurato biacido è evidentemente quel precipitato che si ottiene dalla soluzione cloridrica, incolore, della base, con cloruro di oro; esso ha un delicato aspetto cristallino ed un colore giallo aureo: ma raccolto su filtro e lavato appena con acqua, si trasforma subito in una massa colorata intensamente in bruno, che si scioglie nell'acqua volgendo al violetto scuro. La massa bruna, seccata nel vuoto, dimostrò una composizione che sì avvi- cina a quella del cloroaurato monoacido, C33 Hss N,.HAuCl,. Lo studio di questa interessante base sarà continuato. Infine prendiamo da questa Nota l'occasione per ringraziare il laureando Fedro Pirani, per l’aiuto prestatoci in queste ricerche. Matematica. — Sopra è nuclei reiterati. Nota del Corrispon- dente GIusEPPE LAURICELLA. È noto che, data una funzione K(x,y) nel campo o=(a=x=5, a=y=), dicesi nucleo reiterato di ordine n di K(x,y) la funzione: K,(0 ,9)= f K(7,0) Kua(esy) de I nuclei reiterati hanno un ufficio molto importante nella teoria delle equazioni integrali: in particolare, di essi si è valso lo Schmidt (') per di- mostrare nel caso dei nuclei simmetrici l’esistenza degli autovalori, e delle corrispondenti autofunzioni. Ora si può domandare: data una funzione simmetrica H(x ,y) nel campo 0, e dato un numero intero e positivo n, può H(x , y) considerarsi come nucleo reiterato di ordine n? cioè, in termini più precisi x esistono funzioni simmetriche K(x ,y) tali che (1) K,(c,y)=H(0,9)? Darò qui la condizione necessaria e sufficiente, cui deve soddisfare la fanzione H(2,y) per ogni valore di n, affinchè esista una funzione K(4,9) (1) Zur Theorie der linearen und nichtlinearen Integralgleichungen, Matematische Annalen, LXIII. — 886 — soddisfacente all’equazione integrale (1), e darò ancora una espressione ana- litica di tutte le possibili soluzioni di tale equazione. Una quistione analoga, benchè di indole assolutamente differente, si propone e risolve il prof. Volterra per il caso di integrali a limiti varia- bili, nei paragrafi 4 e 5 della sua Nota: Contributo allo studio delle fun- zioni permutabili (1). Debbo aggiungere che per arrivare ai risultati menzionati, mi è ne- cessario premettere alcuni teoremi sulle autofunzioni dei nuclei reiterati ($ 1), sugli sviluppi delle funzioni di due variabili indipendenti in serie di funzioni ortogonali ($ 2), e sugli sviluppi dei nuclei in serie delle cor- rispondenti coppie di funzioni ortogonali di Schmidt ($ 8), i quali teoremi formano, indipendentementemente dal problema propostomi, un contributo alia teoria delle equazioni integrali ed alla teoria degli sviluppi in serie di funzioni ortogonali. S$ 1. — TEOREMA SULLE AUTOFUNZIONI E SUGLI AUTOVALORI DEI NUCLEI REITERATI. Sappiamo che se g(x) è autofunzione del nucleo K(x,gy) corrispondente all’autovalore Z, ossia se si ha: g(x) = 1 {le ;Y P(Y) dy , sarà g(x) autofunzione del nucleo K,(x , y) corrispondente all’autovalore 4? per n numero intero e positivo qualsiasi. Aggiungiamo che, nel caso di 7 pari, se il nucleo K(x, y), oltre all’autovalore 4, ammette l'altro — 4, cor- rispondente all’autofunzione g;(x), sarà anche g;(x) autofunzione di K,(x,7) corrispondente all’autovalore 4”. Aggiungiamo ancora che g(x) e ;(7) non possono essere identiche, perchè se fossero identiche, ossia se sussistessero le due equazioni b b ga =2 f K(2,y)9(y)dy , ge)=—1 | K(e, 4) (7) dy; si avrebbe, in tutto il campo ad, g(x)=0. Avuto anzi riguardo al fatto che le funzioni @(x), ,(x) sono determi- nate ciascuna a meno di un coefficiente costante arbitrario, si può dire che (x) e g,(x) devono essere linearmente indipendenti. Di qui risulta che se all’autovalore 4 del nucleo K(x , y) corrispondono j, autofunzioni linearmente (*) Rendiconti Acc. dei Lincei, seduta del 5 marzo 1911. — 887 — indipendenti, e all'autovalore — 4 dello stesso nucleo corrispondono v auto- funzioni linearmente indipendenti, queste 7, + v autofunzioni saranno linear- mente indipendenti tra di loro, e rappresenteranno quindi /,-+v autofun- zioni linearmente indipendenti dal nucleo K,(x ,y), corrispondenti all’auto- valore 4"; per cui il numero /, delle autofunzioni linearmente indipendenti del nucleo K,(x,y), corrispondenti all’autovalore 4,, dovrà soddisfare alla condizione: (2) la Job Nel caso di 7 dispari, si avrà invece, come è chiaro, (3) Me E noto ancora, dalla teoria di Schmidt, che se (x) è autofunzione del nucleo simmetrico K,(4,%y) corrispondente all’autovalore c, per n dispari sarà (x) autofunzione del nucleo simmetrico K(x,y) corrispondente all'au- tovalore {/c, dove {/c indica il valore aritmetico della radice n° di c; per n pari esistono invece due funzioni y(x), (x), delle quali una almeno deve essere non identicamente nulla, tali che: P(x) = xa) + W(2), (A) Me = {e | Kle,y) 29) dy. 6) u= {e | Ke, 9) 0) d. In questo modo, per n dispari dovrà aversi: in=i; e quindi, avuto riguardo alla (3), inez. Nel caso di r pari, se @1(x), 2(x),... sono le j, autofunzioni linearmente indipendenti di K,,(x ; y), corrispondenti all’autovalore e, esisteranno In fun- zioni y1(2), x-(x),... soddisfacenti alla (4), e j, funzioni y(2), Ws(2),.. soddisfacenti alla (5), alcune delle quali possono essere identicamente nulle, tali che: (6) xe) + (e) = 92) (= 102) Le 2Jn funzioni yxi(2),g:(2),...; wi(£), ws(x),... sono certamente autofunzioni del nucleo K,(x ,y) corrispondenti all’autovalore c; sicchè tra di esse devono sussistere almeno 7, relazioni lineari omogenee a coefficienti — 888 — costanti. Osserviamo che, oltre a queste /, relazioni, non può sussisterne alcuna altra della stessa natura; perchè altrimenti, in virtù delle (6), le (7), gs(x),... non sarebbero linearmente indipendenti, contrariamente alla ipotesi fatta. Quindi j,, e solo j, delle funzioni xi(2),x(2),...,Y(2), w,(x),... sono linearmente indipendenti; e perciò sarà: Jah +. Questa e la (2) ci dànno: int. Riassumendo, si ha il seguente teorema: le autofunzioni linearmente indipendenti del nucleo simmetrico K,(® , y) corrispondenti all’autovalore 2°, coincidono, nel caso di n dispari, con le autofunzioni linearmente indi- pendenti del nucleo simmetrico K(a , y), corrispondenti all’autovalore À; nel caso di n pari si possono fare coincidere con le autofunzioni linear- mente indipendenti del nucleo simmetrico K(@ , y), corrispondenti ai due autovalori A e — A insieme presi. $ 92. — SVILUPPO DELLE FUNZIONI DI DUE VARIABILI INDIPENDENTI IN SERIE DI FUNZIONI ORTOGONALI. Sia: (7) U.(x, Y) ’ Us(x 9 Y) DELL una serie infinita (numerabile) di funzioni ortogonali in un campo piano finito 0, di forma qualsiasi; siano cioè U(x ,y), Us(x ,9);-.. funzioni som- mabili insieme ai loro quadrati e ai loro prodotti due a due, tali che si abbia: È : __{lporu=p», Sele. 0) Vale = 0 he po Sia ancora K(c,y) una funzione del campo o sommabile insieme al suo quadrato ed insieme al prodotto di essa funzione per una qualunque delle U;(x , y). Posto: da = {ke 4) U;(2, 9) da dy, gi ha: m ua 2 o= ({k,)— Zali, da dy = |1K@.y{ dx dyj—-Y@, — 889 — 0 da cui risulta che la serie a è convergente. Allora, posto: Si P_ fo(% ’ Y) cn Da di U;(x ’ Y)» sì avrà che la serze (8) i) CAO) è convergente în media nel campo o. Infatti si ha: Sirolo ,9)— fp(2, y){ da dy= Li Di NCROa(€2 o @.9)ì de dy= at. pei Di guisa che, in virtù del teorema di Weyl ('), sarà possibile trarre (ed in infiniti modi) dalla serie (8) una serie parziale: fm(® 9) fa(£,9)» la quale converga uniformemente in generale nel campo 0, verso una unica funzione /(x,y) sommabile nel campo o insieme (?) al suo quadrato e al prodotto di essa per una qualsiasi altra funzione (4 ,y), pure sommabile insieme al suo quadrato nel campo o. In particolare si avrà: fre ,4) U;(e,y) de dy = lim f /#0(0,9) U;(a,y)dedy=lima:= ai; (i p=%0 (1) p=%0 e quindi sì potrà scrivere, per qualunque valore dell'indice 7: SIE) Ke, (U;le,9) de dy=0. Da questa formola risulta, se la serie (7) è chiusa, K(2,y)=/f(£,y) in tutto il campo o, eccettuati al più i punti di un insieme di misura nulla. Se la serie (7) non è chiusa, indicando con 0;(2,y) ; 0:(x,9),.. le soluzioni effettive comuni alle equazioni: S6,9) Ue, y) de dy=o0, (CE318 9300) (s) (!) Questo teorema (Mathematische Annalen, Bd. LXVII, 1909, pp. 225-245; vedi pure Michel Plancherel, Contridution à l’étude de la représentation d'une fonction arbi- traire..., Rendiconti del Circolo Mat. di Palermo, t. XXX, 1910) vale senza modificazioni essenziali (nè nel contenuto, nè nella dimostrazione) per le funzioni di due o più varia- bili indipendenti. (3) Cfr. Lauricella, Sulla risoluzione dell'equazione integrale di 12 specie, $ 3; pag. 533 (Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, seduta del 23 aprile 1911). RenpIconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem, 117 -— 890 — e supponendo che la funzione K(w, 7) soddisfaccia alle condizioni: (9) |K@,y)0@,y)dedy=0, ($=1,2,3,..) si avrà ancora, come è facile dimostrare ('), K(e,y) =/(@,9) in tutto il campo 0, eccettuati al più i punti di un insieme di misura nulla. Osserviamo che si può scrivere: f(@,4)= fn(£ 39) +} fns(C14) — fa;(0,9)| dn sr Vfns(® 39) — fn(@ Uta dra ossia: (10) Tuo) dy U.(c,4) + Da dy Un(e,g) +: Osserviamo ancora che, per la validità della (10), le condizioni (9) sono anche necessarie. Riepilogando, si ha il seguente teorema: se la funzione K(x,y) è som- mabile nel campo 0 insieme al suo quadrato, e se, nel caso în cui la serie (7) è non chiusa, soddisfa inoltre (come è necessario) alle condi- zioni (9), sarà sempre possibile, ed in infiniti modi, determinare una serie di numeri, interi positivi e crescenti indefinitamente, NM , Ma, Na g0-s in modo che si abbia la (10) e che la serie al secondo membro sta în tutto il campo o, convergente uniformemente in generale. Come conseguenza del teorema di Weyl si ha ancora, indipendentemente dal teorema precedente, che se in un campo 0° di misura non nulla, fa- (eo) cente parte di o, la serie DI ayU,(x ,y) converge, avrà per somma nei punti di o' la funzione K(x , y). $ 3. — SvILUPPO DI UN NUCLEO IN SERIE DELLE CORRISPONDENTI AUTOFUNZIONI. Sia K(x,y) una funzione sommabile insieme al suo quadrato nel campo o=(a pula 19) converge, st avrà 1 N nei punti di 0°: py(c) Wy(4) } K(x,9)= DI pa (1) Loc. cit., $ 8, $ 16. — 893 — Aggiungiamo ancora che, in virtù di un recente teorema di Egoroff (!), la serie > CORI pato) nel campo 0", nel quale per ipotesi è convergente, convergerà I in generale. Dal risultato contenuto nella formola (13), segue come corollario che: (a) se due funzioni K(x.y) , K'(2,y) (sommabili insieme coi loro qua- drati nel campo o e nel campo a=x <= per ogni valore di y, nel campo a=y=b per ogni valore di x) hanno le medesime coppie di funzioni ortogonali, corrispondenti alle medesime costanti, coincidono. Ciò premesso, sia 4,,4s,.. una serie di costanti, alcune delle quali (in numero finito) possono anche coincidere tra di loro, tale che la serie N sia convergente. Alla serie 4,,4»,.. si faccia corrispondere una 1 y qualsiasi serie di coppie di funzioni ortogonali: (14) Pi), Wi(4) ; Po), Wo(4); In virtù del teorema di Weyl e di quanto precede, si ha che: (#8) sé può determinare, ed in infiniti modi, indipendentemente dalle (14), una serie di numeri interi positivi e crescenti indefinitamente ni, ng, ..., în modo tale che la funzione f(x ,y), determinata dalla serie re n= SOLO È pl). ni+l À, abbia per coppie di funzioni ortogonali la serie (14), e per corrispondenti valori costanti le À,,4,,.. In virtù poi del precedente teorema di unicità (e), risulta che la funzione f(x ,y), così determinata, è la sola funzione (sommabile insieme al suo quadrato nel campo 0, e nel campo a =x = bd per ogni valore di y, nel campo a=y =D per ogni valore di x) la quale abbia per coppie di funzioni ortogonali quelle della serie (14) e per corrispondenti valori costanti le Rx ks, .. $ 4. — RISOLUZIONE DELL'EQUAZIONE INTEGRALE ('). Data una funzione simmetrica H(4 ,y), sommabile insieme al suo qua- drato nel campo 0, tanto superficialmente quanto linearmente, siano 4, , 43, ... ì suoi autovalori e (15) (€) , Pe(c) 600 (') Comptes rendus, t. 152, n. 5, 30 janvier 1911. — 894 — le corrispondenti autofunzioni normalizzate. Supponiamo che esista una fun- zione simmetrica K(x,y), sommabile insieme al suo quadrato superficial- mente e linearmente nel campo 0, tale che: (1) K,(x,9)=H(@,9). In virtù del teorema al $ 1, si ha che, se x è dispari, gli autovalori della funzione K(x ,y) saranno dati dalle serie VA: È VA: ,. (intendendo per V% la radice reale n° di 2;), e la serie delle corrispondenti autofun- zioni sarà la (15) stessa; se 7 è pari, le 2,,À,.. dovranno essere tutte positive, e gli autovalori della funzione K(x, 7) dovranno essere quelli di una delle co? serie, corrispondenti alla scelta dei segni, SEE VESS, e quindi, in virtù della disuguaglianza di Bessel, si avrà che, tanto nel caso di » pari, quanto in quello di n dispari, la serie: (16) Di a 1 dovrà essere convergente. Viceversa, si supponga la (16) convergente. Allora, se x è dispari, in virtù del teorema (8), dovrà potersi determinare, dipendentemente solo dalla serie 4,,4>,..., una serie di mumeri interi e positivi crescenti indefinita- mente 7, , #5, .., tali che la serie (17) POSSE CAICOS PA PAG) Ri. a sia convergente uniformemente in generale nel campo 0, € che la /(2,%), che essa rappresenta, abbia per autovalori le costanti Aa ; VA, Di © Der corrispondenti autofunzioni le gi(x), @2(2),...; quindi, in virtù del teorema al $ 1, Za funzione f(x, y) sarà una soluzione dell'equazione integrale (1), e, in virtù del teorema (a), sarà l’unica soluzione di tale equazione. Nel caso di » pari, indicate con Pj,+1 (€) ) Pj,+2(2) ee Pj+v(0) le w autofunzioni linearmente indipendenti del nucleo H(x , y). corrispondenti ai u autovalori uguali a Z,, e indicati con di Qi 0° dip da 422 +. dan Upi Uya o 0 App. — 895 — gli elementi della più generale sostituzione ortogonale di ordine w, ossia il più generale sistema di numeri 4, tali che si abbia A peu ssh Dadda =) 0 perr+s, sì ponga: L (2) = Dip Uro Pi+o() - l Le w(2), w:(x),... costituiranno un sistema di funzioni ortogonali ; e, in virtù del teorema (8), si deve poter determinare, ed in infiniti modi, indipendentemente dalle w,(x), una serie di numeri interi positivi e cre- scenti indefinitamente x, ,ws,.... tali che la serie vo Ye Vv © Vle) (9) 18 3 — Ian SEI ODI te rali sia convergente uniformemente in generale nel solito campo o e che abbia per autofunzioni le w,(x),ws(x),..., corrispondenti rispettivamente agli autovalori 21, > 7/43,... In causa dei segni + le possibili serie di autovalori sono co?. Per ogni Serie di possibili autovalori si hanno poi varî nuclei f(& , y), corrispondenti al varî sistemi delle 4, che si possono considerare. È da osservare, però, che non tutte le /(x , y) corrispondenti a due diversi sistemi di 4,, sono diverse. Così, ad esempio, nel caso in cui per sistema di autovalori si prende la serie VA: V/2:,... con i segni tutti positivi, si ha sempre, qualunque sia il si- stema delle a,;, un unico nucleo: infatti le autofunzioni corrispondenti ad uno stesso autovalore sono sempre una combinazione lineare delle P;(x) corrispondenti; sicchè, in questo caso, tutte le f(x, y), che per ipotesi hanno gli stessi autovalori tutti positivi, hanno ancora le medesime autofunzioni ; e quindi, in virtù del teorema (@), coincidono. Il medesimo fatto si verifica allorchè si prende la serie degli autovalori — 7/4; , — 4, .... Lo. stesso non si può ripetere però negli altri casi, nei quali alcuni autovalori si pren- dono positivi ed altri negativi; benchè anche qui in generale il numero delle funzioni /(x , y) distinte è inferiore all'ordine di arbitrarietà dei coeffi- cienti a,,. Comunque, poichè tutti i nuclei /(2,y), dati dalla formola (18), hanno per autofunzioni le Yi(x), wW:(z),..., i loro nuclei reiterati di or- dine x, mentre hanno per autovalori le 2,,4»,..., avranno per autofunzioni corrispondenti le w,(x),w>(7),...; ed ancora, poichè le wWi(x) corrispon- denti ad un certo gruppo di valori 4; uguali fra di loro, sono espressioni lineari ed omogenee, linearmente indipendenti, delle gi(x) corrispondenti — 396 — allo stesso gruppo di autovalori 2; uguali fra di loro, ne segue, in virtù del teorema di unicità (@), che tutti i nuclei reiterati di ordine n, dei puclei dati dalla formola (18), coincideranno con H(x,y). Per altro è evi- dente, in forza del teorema al $ 1, che qualunque nucleo, avente per rei- terato di ordine n la funzione H(x,y), deve essere incluso nella formola (18), Za quale dà quindi, per n pari, tutte le possibili soluzioni dell’equa- zione integrale (1). Riepilogando, si ha: condizione necessaria e sufficiente affinchè l’equa- zione integrale (1) ammetta una soluzione simmetrica, è che la serie (16) sia convergente; quando questa condizione è soddisfatta, se n è dispari, si avrà una sola soluzione rappresentata dalla formola (17): se n è pari, si avranno invece infinite soluzioni, contenute tutte nella formola (18). Chimica. — Za struttura degli azossicomposti (*). Nota del Cor- risp. A. AnGELI e di LUIGI ALESSANDRI. Ancora qualche anno addietro, a proposito degli eteri isomeri della nitro- sofenilidrossilammina e fonilnitrammina, venne posto in rilievo che queste due sostanze con tutta probabilità differiscono fra di loro per la diversa posizione che ha assunto l’atomo di ossigeno nell'etere metilico dell’ idrato di diazobenzolo dal quale si possono immaginare derivati (?): C.H,.N=N.(0CH3) C;H,.N=N.(0CH») | I 0 E siccome taluni attribuiscono all’acido diazobenzolico, ed altri anche alla nitrosofenildrossilammina, la struttura : CH;.N—N.(0H) No si vede subito che tali composti stanno in rapporto molto prossimo con gli azossicomposti aromatici ai quali pure, in modo arbitrario e senza nessuna base sperimentale viene assegnata la formola: CH;.N-N.CH; ia Nel caso dell'azossibenzolo, essendo la molecola perfettamente simmetrica, (!) Lavoro eseguito nel R. Istituto di Studî Superiori in Firenze. (3) Veber einige sauerstoffhaltige Verbindungen des Stickstoffs, Stuttgart, 1908. pag. 18. — 897 — prescindendo da isomerie dovute a diversa configurazione, cui sono dovuti molto probabilmente i composti ottenuti da Reissert (') per la facilità con cui vengono trasformati nei composti ordinarî anche per azione di piccole quantità di bromo, sarà sempre possibile una forma soltanto. È evidente che per portare qualche luce in favore dell'una 0 dell’altra ipotesi, sarebbe necessario studiare gli azossicomposti misti, i quali dovreb- bero esistere in una forma sola secondo lo schema usato, ovvero in due: R.N-=N.K BONNE | | 0 0 precisamente come nei casi prima considerati. Ma tutta la difficoltà risiede appunto nel fatto che gli azossicomposti misti sono sostanze difficilmente accessibili e poi perchè finora fu possibile ottenerli in una maniera soltanto, la quale in ogni caso condurrà di preferenza ad una sola delle forme pos- sibili. Il metodo di Bamberger, azione dei nitrosoderivati sulle corrispondenti idrossilammine, che si presta così bene ed è di indole così generale: R.NO + R.NH.O0H = H,0 + R.(N.0).R non si applica più quando sopra un dato nitrosoderivato si faccia reagire una idrossilammina contenente un radicale diverso; invece di ottenere l’azos- sicomposto misto si perviene al miscuglio dei due azossicomposti simmetrici, il quale fatto molto probabilmente è dovuto ad una precedente trasforma- zione che si potrà rappresentare con lo schema: R.NO + R.NH.OH *% R.NH.0H + R'.NO: Per queste ragioni ancora lo scorso anno uno di noi (°) ha cercato di stabi- lire un nuovo metodo generale che permettesse di preparare nettamente queste sostanze per altra via, e che precisamente consiste nel far reagire l’acqua ossigenata sopra gli azocomposti; per azione di tale reattivo queste sostanze assumono a temperatura ordinaria un atomo di ossigeno e forniscono gli azossicomposti purissimi. Così l’azobenzolo dà quantitativamente l'azossi- benzolo ordinario, senza traccia del prodotto descritta da Reissert. Ne segue perciò che per mezzo della nuova reazione anche gli azossicomposti misti sono diventati sostanze facilmente accessibili, giacchè gli azocomposti asim- metrici sono noti in grande numero. Abbiamo perciò incominciato le nostre esperienze determinando se un azossicomposto misto ottenuto secondo l’antico metodo è identico ovvero no con quello che si può preparare per mezzo della nuova reazione. (‘) Berliner Berichte, 42, pag. 1364. (2) Questi Rendiconti (1910), vol. XIX, 1° sem., pag. 793. ReNDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 118 ® — 898 — Se le sostanze contengono l'ossigeno a cavallo, come si è detto, ne era da aspettarsi uno solo; se invece differiscono fra di loro per avere l'atomo di ossigeno unito all'uno ovvero all’altro atomo di azoto, allora se ne pote- vano anche attendere due. Che metodi diversi di preparazione possano condurre due sostanze iso- mere e non identiche, è noto da lungo tempo. Noi ci limiteremo ad accen- nare ad un esempio soltanto. Supponiamo di avere ottenuto, per mezzo di una reazione, qualunque essa sia, l'etere di un acido ftalico della forma: R COO . C:H; COOH Saponificando l'etere si perverrà all'acido: R Î x 0008 fÈ- COOH che eterificato nel solito modo, alcool in presenza di acido minerale forte, come ha insegnato Victor Meyer, non ci condurrà più all’etere dai cui siamo partiti, ma bensì all isomero: R - COOH COO0 . C.H, Le due reazioni quindi hanno condotto a due prodotti che differiscono uno dall'altro per la diversa posizione dell’etile. Come si vede, nel processo di formazione della sostanza l’elile rimane; nel processo di eterificazione invece Ll'efile entra. Non era perciò da escludersi che un fatto analogo potesse anche ve- rificarsi nel caso della formazione degli azossicomposti misti, seguendo due metodi diversi, ammettendo sempre che ben si intende che queste so- stanze non contengano l'ossigeno a cavallo. Infatti nella formazione degli azossicomposti per azione p. es. dell'al- coolato sui nitroderivati, si vede subito che un atomo di ossigeno rimane: NZ CH; . NO CH 6el15 2 o: I N.0. CeH; . NO, CH — 899 — nell'ossidazione invece degli azocomposti per mezzo dell'acqua ossigenata wr atomo di ossigeno entra: CH SX Cor Come si è detto prima, nel caso dell'azobenzolo si perviene all’azossibenzolo ordinario. Per le nostre esperienze siamo partiti da uno dei più semplici e dei più facilmente accessibili degli azossibenzoli asimmetrici, fra i pochi che si conoscono, e precisamente il p-nitroazossibenzolo : CH; . (N30). CH, . NO; che preparammo seguendo le prescrizioni di Zinin ('); purissimo fondeva esattamente a 152° (Zinin 153°). Si trattava ora di ottenere la stessa sostanza od un isomero per altra via. E perciò abbiamo incominciato dal preparare dapprima l’azocomposto misto : CRE . N = N . (OShla . NO, seguendo il processo di A. von Baeyer, e che consiste nel far reagire i ni- trosocomposti sopra le ammine. La condensazione del nitrosobenzolo con la p-nitroanilina si compie facilmente in soluzione acetica: CoH; . NO + H.N ° Ce, . NO, == H:0 + CH; ° N (i N . CeH, ° NO; e così si perviene al p-nitroazobenzolo, che ancora non si conosceva, e che si presenta in lamine rosse, che rassomigliano all’azobenzolo e che fondono a 135°. Ottenuto così il composto di partenza, l'abbiamo successivamente trat- tato con acqua ossigenata in soluzione acetica, impiegando il peridrol di Merck. La reazione procede a temperatura ordinaria e conduce nettamente ad una sostanza che viene purificata prima da ligroina poi da benzolo. Il prodotto così ottenuto rassomiglia come era da aspettarsi a quello preparato da Zinin, ma d’altra parte presenta anche delle differenze. Fonde un poco più basso, 148° e non è da dubitarsi che non fosse perfettamente puro, perchè i numeri forniti dall'analisi coincidono quasi coi teorici. Il composto di Zinin è giallo chiaro, mentre il nostro è giallo aranciato; il nostro nei diversi solventi è meno solubile del primo; il prodotto di Zinin si separa sotto forma di aghi microscopici riuniti fra di loro in modo da costituire (1) Annalen, 114, pag. 218. — 900 — delle foglie; il nostro invece si separa sempre in prismi grossi e dotati di vivo splendore. Il miscuglio delle sostanze fonde a temperatura intermedia e ciò senza dubbio è dovuto allo spiccato isomorfismo che è da aspettarsi in due pro- dotti ai quali assegneremo le formole: CH; .N=N.CH,. NO: CHE SNE=INACIHZIANO; | | (0) La trasposizione di Wallach (trasformazione negli ossiazocomposti iso- meri) molto probabilmente ci darà mezzo di determinare in modo sicuro la loro struttura. Tali formole che contengono un atomo di azoto pentavalente (!) come lo scorso anno venne accennato, stanno in buon accordo anche col nuovo modo di formazione di queste sostanze, e rassomiglia perfettamente a quello che conduce agli ossidi delle ammine terziarie: (CH3) (CHx) eo, DEC Eno CéH:z7 CeH; CH. N CH. N i SN + Ho; — I YN0 + H.0. CH; CH; Comunichiamo con tutto riserbo i risultati di queste esperienze ancora preliminari allo scopo di poter proseguire indisturbati le nostre ricerche nel prossimo anno accademico. (?) In base agli studî da noi recentemente eseguiti sopra i così detti eteri N-fenilici delle ossime, queste formole spiegano bene anche le relazioni di isomorfismo scoperte da Bruni fra le due classi di sostanze. — 901 — Meccanica. — Calcolo delle azioni dinamiche esercitate da correnti fluide sopra pareti rigide. Nota Il di Tommaso Bogaro, presentata dal Socio T. LevI-CIvITA. 4. Caso di più correnti. — Il metodo esposto per ottenere la (8) è applicabile in casi molto più generali di quello considerato: ad esempio in quello in cui dall’ infinito provengono diverse correnti libere, le quali subi- scono eventuali deviazioni da parte di tubi (superficie rigide) che esse attra- versano; alcune, o tutte queste correnti, possono pure investire altre pareti rigide, suddividendosi in correnti parziali, che proseguono poi fino all'infi- nito a valle. Anche in questi casi generali è assai facile trovare la formula analoga alla (8), esprimente la risultante delle azioni dinamiche del sistema di cor- renti date, sul sistema delle superficie rigide che sono a contatto di esse. Se nessuna delle superficie rigide si estende sino all'infinito, si ha: R= 3; Qu Vi — 3; Qs; Voj è ove le Qu, Vi Qgj; Va; rappresentano le portate e velocità asintotiche delle correnti fluide, rispettivamente a monte e a valle. Poichè, in forza della (4), le densità asintotiche sono tutte eguali, anche le grandezze delle velocità asintotiche devono essere eguali, perciò la somma delle sezioni normali asintotiche £,; delle correnti a monte del moto, deve essere eguale a quella delle sezioni normali asintotiche £,; a valle. Fic. 3. In particolare, per una corrente libera liquida, di densità o (costante), che incontra una superficie rigida, suddividendosi in due correnti parziali (come nella fig. 3), risulta: (11) R= Qu Vi — Qu Vai — Qe2 Vas (0) (!) Nel caso di due dimensioni, questa formula è pure stata ottenuta dal prof. Ci- sotti nel lavoro: Sulla biforcazione di una vena liquida (in corso di stampa in questi — 902 — ed inoltre, fra le sezioni normali asintotiche passa la relazione (12) Q=L2, + L. La componente R, di R secondo una direzione 4, risulta perciò espressa da: (11’) R, = oVî(2,, c08d — L, così, — 3 cOSd»), ove d,d,,0, sono gli angoli che i vettori Vi, , Ver Vas formano rispettiva- mente colla direzione a. i Se gli angoli d,,d» sono eguali, si ha, ricordando la (12), R, = 02 ,Vî,(608d — cosd,), la quale concorda con quelle date dal Masoni (loc. cit., pag. 185) e dal Flamant (loc. cit., pag. 578) per il caso in cui una corrente investe una superficie piana. Se d=0, il valore di R, non è altro che la spinta subìta dall’osta- colo. In particolare, per una corrente che investe normalmente una super- ficie piana, sufficientemente ampia, in guisa che le due correnti parziali abbiano direzioni opposte (normali a quella della corrente unica), si ha d,=77:2, egperò la spinta ha per espressione: Ri= 02,1 Vî s questa formula — dice il Masoni (loc. cit., pag. 184) — è dovuta ad Eu- lero, ed è stata verificata sperimentalmente da Morosi, Savart, Bidone. Se invece la corrente unica colpisce una superficie avente la forma se- gnata nella fig. 4 (che è quella di una paletta delle ruote Pe/ton), in modo Fic. 4. che il liquido sia obbligato a ritornare indietro, parallelamente alla dire- { zione primitiva, si ha d, =, onde, per la spinta: R, = 202, Vi 3 ‘in tal caso il valore di R, è massimo. Rendiconti); egli mi ha pure gentilmente fatto sapere di aver stabilito tale formula, come pure quella già citata del Colonnetti, senza ricorrere alla teoria delle funzioni di variabile complessa, ma applicando un'immediata conseguenza del lemma di Green. — 903 — 5. Momento risultante. — Calcoliamo ora il momento risultante M, rispetto ad un punto qualunque O (polo), delle azioni dinamiche esercitate dal fluido in moto, sulla parete o del tubo (fig. 1). Esso è espresso da: Ma —{ (p — po) NA(P— 0) do. Poichè sulle superficie libere Z si ha p= po, sì può pure scrivere: Ma AO (0a Po) NA(P —- 0) do + n (p— po) NA(P— 0) d@, +f, (p— po) NA(P— 0) dQ:; trasformiamo il primo integrale col teorema della rotazione (*), e semplifi- chiamo i due ultimi integrali; si ha così: M= | rot[(p—po) (P—0)]48+ o Vi Va tr (MD) AS — 0) d2— (pp) 7 / (LP ZOO Occupiamoci anzitutto del calcolo di vafe—o4: conduciamo pel polo O il piano normale al cilindro asintotico della corrente a monte del moto, e diciamo , la sua sezione col cilindro, e P, la sua intersezione colla parallela alle generatrici del cilindro condotta per P; allora si ha: vi\(PT_0)=vw(P.- 0), perchè i vettori P— P, e v, sono paralleli. Ne segue: (13) vi f.P-Dde,=w A f.P-0)de,=2vA(0-0), ove G, indica il baricentro della sezione £,, 0, se si vuole, la projezione (ortogonale) del polo O sull'asse del cilindro asintotico considerato. Nell’ul- (®) Cfr. i già citati Z/éments de calcul vectoriel, pag. 105. — 904 — timo membro si può poi sostituire 2, ad £,, perchè queste due sezioni sono congruenti. Analogamente, indicando con Gs la projezione del polo O sull'asse del cilindro asintotico della vena a valle del moto, si ha: (13) veA f, (P— 0) 49,=v:A(G— 0). Sostituendo le (13), (13') nell'espressione di M, e sviluppando il primo ter- mine, risulta: V (14) M — [ gmapA(P—0) dS+ (pi. — Po) A y (Gi — 0) — 1 V — (P2 — Po) Lo n N(G» — 0). 2 Giova osservare, come già abbiamo fatto per la (5), che se il tubo o non si estende indefinitamente, gli ultimi due termini della (14) spariscono, in virtù delle (6); se invece il tubo si estende indefinitamente soltanto a monte del moto, sussistono le (6') e perciò sparisce solo l’ultimo termine. Se poi il tubo si estende indefinitamente così a monte che a valle, non ha luogo alcuna riduzione nella (14). Ciò premesso, trasformiamo il primo termine della (14). Dalla (3) segue: ‘dV fgradpA(P—0) s=—/(7 ev)\P-0) d8: ora il secondo membro può essere trasformato per mezzo della formula se- guente, che si deduce facilmente dalla (1) ponendo v/(P— 0) al posto di v: j) È u) A(P — 0) d$ = | (UXN)vA\(P— 0) do — —- f v/(P — O) div u d$ — fwau dS (1), DS /S e si ottiene così, ricordando anche la (2): 3) grad p\(P — 0) d8= (VX N) evA(P — 0) do; 8s Di... ma nei punti di o + 7 la velocità è tangenziale, perciò: f grad pA(P — 0) dS= f, , , (VXN) ev/(P —0) de, (*) Cfr. la mia Nota, già citata, dell'Istituto Veneto. DES0g5 —N ovvero, ricordando le (13), (13'): Jh grad p/\\(P ai 0) ds = Vi 2,Vv:(G, “n 0) Tan 02V:2:V2/\(G2 n 0) ° Sostituendo nella (14), e tenendo conto delle (7), si ottiene infine: (15) M=Q[viA(G — 0) — va (Gs. — 0)]+ + (pi — Po) A + A(Gi — 0) — (pe — Po) 2: 7 (Gs — 0). Questa formula mostra che il vettore M dipende, al pari di R, solo da elementi asintotici del moto (e dal polo O). I vettori v,A(G, — 0), v:A(G: — 0) non sono evidentemente altro che i momenti, rispetto al polo O di due forze aventi per vettori Vi, Ve © per linee d'azione gli assi dei due cilindri asintotici. 6. Casi particolari. — Se il tubo o non si estende indefinitamente, la (15) si riduce a: (15) M 3 Q [va A(Gi Safin 0) “Me N(Go TE 0)] fi Questa formula concorda con quella data dallo Zeuner (loc. cit., pag. 39) per tubi ad asse piano; però nella formula dello Zeuner i simboli vi, G,, Vv», G, indicano elementi relativi alle sezioni d'entrata e d'uscita del tubo (e non elementi asintotici). La formula precedente — dice lo Zeuner (loc. cit., pag. 90) — yowe un role capital dans la théorie des turbines. Se gli assi dei due cilindri asintotici giacciono in uno stesso piano t e si sceglie il polo O su 2, il momento M tende a far rotare il tubo intorno ad una retta normale al piano 7 e con una forza di intensità pro- porzionale alla somma 0 alla differenza delle distanze di O dai due assi. Se poi la forma del tubo o è tale che gli assi dei due cilindri asin- totici siano paralleli, si ha Vi==Vs, perciò la (15') si riduce ad M == Qvi/A(Gi ag GE quindi il momento è costante rispetto a qualsivoglia polo. Esso tende a far rotare il tubo intorno ad una retta normale al piano dei due assi e con una forza di intensità proporzionale alla loro distanza. Quanto alla risultante R, abbiamo già osservato che essa è nulla. i Se il tubo o si estende indefinitamente a monte, nella (15) sparisce l’ultimo termine, ed effettuando poi trasformazioni analoghe a quelle fatte RenpIcontTI. 1911, Vol. XX. 1° Sem. 119 — 906 — per ottenere la (10), si trova, nel caso di un liquido di densità 0: cd Si ge EI e M=gea:vi (+7) 71 0) 27: AG:—0) |. 7. Caso di più correnti. — Il metodo esposto nel n. 5 può essere applicato al calcolo del momento risultante delle azioni esercitate da più correnti sopra pareti rigide; supponendo ad es. che queste ultime non si estendano sino all'infinito, si ottiene: M=2Q@QViA(Gi— 0) — 3; Qyg Va; (Gg — 0), ove le notazioni hanno lo stesso significato che nel n. 4, e G,;, Gs; indicano le projezioni del polo O sugli assi dei cilindri asintotici delle varie correnti. Nel caso particolare della fig. 3, si avrebbe perciò: M=Q VuA(Gu — 0) — Qa Va1/\(Ga, — 0) — Qeo Vos A(Ges — 0) . 8. Moto non permanente. — ll metodo del n. 2 può essere applicato al calcolo della risultante delle azioni esercitate dal fluido sul tubo 0, anche nell'ipotesi che il moto non sia stazionario, e che sul fluido agiscano forze di massa, come ora vogliamo mostrare brevemente. Nel caso di moti non permanenti, le (2) (3) debbono esser sostituite rispettivamente dalle : (16) 2 4 div(ov=0, IV, dv oe (17) triuno io ove F è il vettore delle forze di massa (riferite all’ unità di massa). Chiamiamo 0, ,0, le sezioni (piane) estreme del tubo ed S lo spazio racchiuso dal tubo (fig. 5), il quale spazio risulta perciò limitato dal con- torno 0 + 0, + 03. Circa il tubo o, supporremo che esso non si estenda indefinitamente, e che inoltre la velocità nei punti P dell'orifizio d'entrata 0, si possa sen- sibilmente ritenere indipendente da P, e che lo stesso accada per la velo- cità nei punti dell’orifizio d'uscita 03; chiameremo V,,Vs queste due velo- cità, che supporremo inoltre normali rispettivamente a 0, e 02, e Vi, Va le loro grandezze. Si ha poi, per la risultante: R=- fw_)Ndo, — 907 — od ancora: R=— (sa! — po) N do +/.@ — po N do, +S,@ — n) Ndo., cioè : R= — f grad paS + —p) a — (pr se DIE ove pr°, pi indicano la media delle pressioni rispettivamente nei punti di 0, € 02. Trasformiamo l'integrale di grad p. Dalla (17) risulta: gu dm femapas= f ePd8- | Vas— D- V (ov) d8, ovvero, applicando la (1) e ricordando la (16): fenapas= f ePd8— feTas—fv De 484 + ia XN)evdo, che può ancora scriversi: ferapas= forest | ‘vas tom va), ove Q è la portata. — 908 — Sostituendo nell'espressione di R, si ha: R= ( eFus = 2 ( oVvdS+ QVi — Va) + S ds V V + (pi — po) da Vi — (p3î° — Po) 03 V. . Se le pressioni medie pr, 77 non sono sensibilmente differente da po, si può ritenere: (18) R= feP4as—t (evastomavi. Anche il Masoni (loc. cit., pag. 167) determina la risultante R nel caso del moto non permanente, ma la formula che egli ottiene non concorda colla (18), perchè mentre egli trova il primo e terzo termine della nostra (18), ottiene, invece del secondo termine, l’espressione completamente differente : ove G,,G, indicano i baricentri delle sezioni 0,,0,; 6 quest'espressione proviene dalle ipotesi non bene giustificate, introdotte dal Masoni nel corso dei suoi calcoli. Si può analogamente calcolare il momento risultante M, rispetto ad un punto qualunque 0; supponendo ancor qui che le pressioni medie pf° , p7° non siano sensibilmente differenti da po, si trova: M= feFAP_0)48-È [evi(e—0) ds + + Q[viA(G, — 0) — vs A(G.— 0)], ove G,, G. sono i baricentri delle sezioni 0, ,0,, riguardate come aree ma- teriali di densità @. — Meccanica. — Alcune formole analoghe a quelle del Vo terra nella teoria delle distorsioni elastiche. Nota di Luici Giu- canino, presentata dal Corrispondente A. GARBASSO. 1. In una Nota inserita nei Rendiconti dell'Accademia dei Lincei ('), il Volterra ha dato una formola che esprime con quadrature le componenti dello spostamento di un solido elastico isotropo, quando siano conosciute le sei caratteristiche della deformazione, cioè le tre dilatazioni lineari ed i tre scorrimenti. E fondandosi sopra quella formola, egli faceva osservare che in un solido a connessione multipla tali caratteristiche possono essere funzioni monodrome delle coordinate (deformazione regolare), mentre le componenti dello spostamento sono polidrome: e ne deduceva notevoli proprietà dell’equi- librio elastico dei corpi a connessione multipla. In questa Nota io stabilisco in modo molto semplice una formola ana- loga, in certo senso, a quella del Volterra, la quale esprime le componenti dello spostamento per mezzo delle componenti della rotazione elementare, e di tre funzioni armoniche determinate dalle condizioni al contorno: queste sei funzioni, che nei corpi semplicemente connessi sono necessariamente monodrome, nei solidi più volte connessi possono essere polidrome, senza che tali siano le componenti della deformazione. Si ottengono, per tal guisa, delle relazioni che generalizzano, ed esten- dono ai solidi elastici quelle che in meccanica razionale esprimono lo spo- stamento d'un solido rigido in funzione della rotazione e traslazione d'una terna mobile di assi. 2. Siano u,v,w le componenti dello spostamento in un punto qual- siasi del solido elastico, e siano dU dU dw dW dv o 1 0= — a penny xi cicca ( ) dI o Tap de dY de Q di dA dI dY la dilatazione cubica, e le doppie componenti della rotazione elementare : 2, indichino le costanti di Lamé. () Rend. Accad. dei Lincei, serie 5°, t. XIV e XV. 2910 — Abbiamo le identità ì RD 2Q Sy va wii LA 5R SHIT » ari (2) 29 ,9Q _93P_ Sii S + cc x DEA 00, dR Poichè le equazioni indefinite dell'equilibrio elastico si possono trasfor- mare in guisa da eliminare le forze di massa, è lecito ammettere che esse siano della forma Au + (A+) = (3) uaw + A+ 8) 35 = 0 Ag + (4+ wi) to = oppure (ie e Z)- 0 (3) (+20) Sea (2— D)=0 A+ 20) È —u(_T)_o. Dalle (3) ed (1) segue che 6, P,Q, R sono funzioni armoniche, e le identità (2) divengono Aslu—z(x0 — yR+ #Q)]=0 As[v —3(99 — A rispettivamente; e quando si conoscono 6, P.Q,R Ni DI X,Y,% in superficie la determinazione di v,v,w si può ricondurre senza altro ai problemi di Dirichlet e di Neumann. Anzi, le (4) e (5) permet- tono di determinare completamente v,v,w per mezzo di sole funzioni armoniche, quando siano dati i valori di X,Y,Z al contorno, come farò vedere in altra Nota. 3. Supponiamo che il solido sia doppiamente connesso intorno all'asse delle 2, e non incontri questo asse. Tale sarebbe il caso di un toro rispetto al suo asse di rotazione, v di un cilindro ellittico cavo avente le genera- trici disposte all’intorno e parallelamente all'asse delle 4. Allora per mezzo delle (4) si trovano facilmente infiniti spostamenti polidromi a deformazione regolare, in modo che siano soddisfatte le (3), e le costanti dei tagli, relative alle distorsioni del Volterra, abbiano dei va- lori prefissati: anzi tali spostamenti polidromi possono essere determinati in guisa che 0,P,Q,R siano indipendenti da 4, ed L, M,N siano fun- zioni lineari di 2. Questi varî spostamenti sono equilibrati da differenti sistemi di pres- sioni superficiali, dati dalle (5), e diversi, in generale, da zero. Per vederlo poniamo x 3P 0] = p(e8+'%) 9 — 912 — essendo g una funzione monodroma (almeno entro il solido elastico) della variabile complessa f +4 da. Imponiamoci dapprima che sia anche i= Og L'ultima (3') e l’ultima (2) sono soddisfatte identicamente: le due prime (8) indicano che wR è funzione armonica coniugata di (4-+ 2u) 0, e sono soddisfatte quando (44 2u) 0 + iuR è funzione della variabile complessa x + iy. Affinchè sieno soddisfatte tutte le (1) e (2) è necessario e sufficiente che sia DL REI 24 34 , AE, di (6) dI dY 2u(4 + 2u) dI 7 3a dM al A ei (A+ Dei | dx dY rage 20) dx QUA Siano L',M' le funzioni armoniche coniugate di L, M: moltiplicando l’ultima (6) per 7, e sommando con la prima (6) viene died 14 3# (e Lg) ze) e, d(a + iy) Zu(4 + 2w) d(e + ig) od anche ; d[L+iL'+<(M+:M)] (ei nni, 2430 pi (A+ 20) 04 da] Cl reo Possiamo determinare in infiniti modi delle funzioni monodrome di x+iy, Lo +iLo, Mo + Mi, (44 20) 6 + BR, in modo che sia Lpil'-—-_0+M)(+id+L+L M+ il =— 3 (m4- 00) (8 + ie) + Mo + Mi (24-20) 0+ iu =" (8+ ia) + (24 241) 00 + duo L'A e sia soddisfatta l'equazione (7), qualunque siano i valori di /, m,r (costanti dei tagli). Quando @ cresce di 2r, L,M, 4 R crescono rispettivamente di l.m,r; ed u,v, invece di riprendere i valori iniziali, aumentano rispet- tivamente di /—ry,m+- rx. Calcolando invece le sei caratteristiche della deformazione con le note formole di Cauchy per la trasformazione di coordinate curvilinee ortogonali dI dI dU da dU dl du “ar ae) * si vede che esse risultano monodrome in x,y. In questo caso le componenti dello spostamento sono dunque u = (20 — yR) +L (8) y =4(90-+oR)+M In secondo luogo poniamo 9=R=0. Le (3’) sono soddisfatte col porre dP__3Q 2Q_3P_0 o VAS e l’ultima (2) col fare DE dA bile complessa x + 2y. Per soddisfare la seconda e terza (1) basta in luogo di 4aD',zD è dP DI daN @= (9 —+aC)+ Ù, at? poli DE 22) PA =i(43, day Tae ws 7 5N i (9°) Sai 1 — +30 ji aearagied) Evidentemente le (9). (9) sono compatibili fra loro. RenpICONTI, 1911, Vol, XX, 1° Sem. : così Q+7P è funzione della varia- L,M porre 120 — 914 — Così N è funzione armonica di @,y sole: se N' è una funzione armo- nica coniugata di N, ed N, +%Nj una qualsiasi funzione monodroma di X+ éy, possiamo porre N4iN = (1+in)(8+ ia) +N + iN. Analogamente sia Qo + P, una funzione monodroma di cHKtiwy, e . 1 A Q+iP=-(p—ig)(8+i)+Q+iPe. Lo spostamento di componenti u = 4204 (10) v' =—-4zP+® = 4(-2Q+yP)+N è polidromo; e quando « cresce di 2, u",v",w", invece di riprendere i valori iniziali crescono di ge, — pe, n — gx + py rispettivamente. Invece le componenti della deformazione sono funzioni monodrome di BOTA Infine lo spostamento di componenti «+ u", 0 +0", w',w" è poli- dromo, e le sei caratteristiche della distorsione del Volterra sono VISSITIRATOA P,q,r. In un'altra Nota mi propongo di esaminare qualche caso particolare per confrontare i risultati della teoria con i dati dell'esperienza. Fisica. — Lo studio sperimentale del fenomeno di Hall e la teoria elettronica dei metalli. Nota di 0. M. CORBINO, pre- sentata dal Socio P. BLASERNA. 1. La interpretazione dei fenomeni galvano e termomagnetici secondo la teoria elettronica della conduzione metallica è abbastanza soddisfacente finchè ci si limita al loro studio qualitativo. Notevoli difficoltà sorgono in- vece quando dalla ricerca quantitativa, confrontata con le formole della teoria, si voglia risalire alle costanti primitive caratteristiche del metallo. Già il Drude tentò una simile deduzione; e dei risultati non sempre soddi- sfacenti attribuì la causa al fatto che i diversi valori sperimentali adoperati nel calcolo erano stati ricavati da esperienze che sperimentatori diversi avevano eseguito con materiali diversi. Ma quando lo Zahn (*), con una serie di misure veramente pregevoli, de- terminò i coefficienti sperimentali pei diversi fenomeni sullo stesso campione (*) Zahn, Ann. d. Physik; 74, pag. 905, 1904. — 915 — di metallo ben puro e di nota provenienza, e volle poi passare alla dedu- zione delle costanti, l’esito fu ancora men fortunato. Egli pervenne invero a un sistema di valori che era assurdo in se stesso; per esempio le mobi- lità degli ioni dei due segni venivano espresse da numeri negativi. Malgrado ciò difficilmente si può attribuire ai presupposti della teoria la causa dell’insuccesso. Nel sistema di equazioni che legano le quantità sperimentalmente misurabili e le costanti da determinare queste sono fram- miste nel modo più vario; e perciò basta che un solo dei dati sperimentali sia inesatto o mal sicuro, perchè ne venga inficiata, e gravemente, l’atten- dibilità dell'intera soluzione. E questo è purtroppo il caso, poichè qualcuno dei fenomeni è molto difficile ad accertare e a misurare con la esattezza che sarebbe desiderabile. Ma a parte le difficoltà sperimentali, che potranno superarsi raffinando ancora più i metodi di ricerca, un altro esame s'impone sin da ora; quello di alcune ipotesi accessorie poste per semplificare la teoria, e che non sempre son soddisfatte nella realizzazione delle esperienze. 2. Il caso più caratteristico è presentato, al riguardo, dalla teoria del fenomeno di Hall, pel quale il coefficiente R della teoria di Drude non può corrispondere a quello che si determina sperimentalmente. L'esperienza di- mostra che la differenza di potenziale V creata dal campo H tra due punti dei bordi d'una lamina percorsa da una corrente di densità ) è esprimibile con la formola NAERAIE 05 nella quale è misura la larghezza della lamina ed R è un coefficiente po- sitivo o negativo caratteristico del metallo. Il calcolo del coefficiente R, in funzione delle costanti della teoria, è fatto dal Drude supponendo che la lamina sia trasversalmente isolata, ter- micamente ed elettricamente, nel qual caso le equazioni che reggono il mo- vimento degli elettroni sono le seguenti, adottando le unità elettrostatiche : e (TO) dY AIAR o B-- 1-19) j 2 rn — 916 — Il significato dei diversi simboli è il seguente: c è la velocità della luce; 4 log N . . i i = di sd in cui @ designa la costante dei gas, T la tem- peratura del metallo, N, il numero dei ioni positivi per cm. cubo; a, è la grandezza analoga ad @, per gli ioni negativi; e rappresenta la carica elettrica comune agli elettroni dei due segni, presa col suo valore numerico ; IT 3T de dy longitudinale x della corrente elettrica e nel senso trasversale y; X e Y la forza elettrica nel senso «# e nel senso y; d d Da fio. AR: SR 5 e = le velocità degli ioni positivi e negativi, nel senso «; v, e vs le mobilità corrispondenti cioè le velocità assunte dagli ioni sotto la forza 1. sono i gradienti di temperatura lungo la lamina nel senso Queste equazioni permettono di dedurre due delle grandezze rt, gh È quando siano date le altre. Per il calcolo del coefficiente R del fenomeno Hall il Drude suppone DAL dA larghezza della lamina. Ma entrambe le ipotesi non corrispondono alle con- dizioni dell'esperienza. = 0, e identifica il campo Y con la f. e. m. di Hall per unità di È A OT È E infatti il gradiente 53m che comparisce nella formola non è quello che il solo campo produce, ma quello che in realtà si determina tra i posti d'entrata e d'uscita della corrente, risultante dall’effetto Peltier, dalle even- tuali differenze nell’effetto Joule ecc. Al gradiente di temperatura, effettiva- mente esistente, seguirà una differenza di temperatura trasversale (effetto SB RE È Righi) che altererà il >; e un campo elettrico (effetto Ettingshausen) che modificherà il valore di Y. La formola di Drude andrebbe quindi corretta in questo senso; e si può dimostrare che il nuovo valore di Y è dato, in i; CE SUE funzione di j e di —, da dI aci: A. _ c(Ni Vi + N, Vo) (2) + (04 ) .-%9Vi — Va ST xi; e + (a, N + @2 N») (01 e + 01 @2) 7 Y che si riduce alla formola di Drude per zi = 0. La correzione potrebbe essere tutt'altro che indifferente in certi casi. — 917 — Ma in un altro punto l'applicazione sperimentale della formola di Drude conduce a risultati non corretti. Il campo Y misura la f. e. m. per unità di lunghezza esistente nell’in- terno della lamina e agente perciò sugli elettroni in moto. Ma non è per- messo identificarla con la differenza di potenziale V che si constata ai bordi della lamina, anche ricorrendo @ elettrodi della stessa natura, o effettuando la correzione della forza termoelettrica aggiunta con le sonde di altro me- tallo come fece lo Zahn. E invero tra i bordi della lamina esiste una differenza di temperatura, per il gradiente trasversale Di E perciò lungo le sonde dello stesso me- tallo. fino all’apparecchio esploratore della differenza di potenziale, sì ag- giunge la differenza di potenziale propria della caduta di temperatura, cui è dovuto l’effetto Thomson. Questo campo supplementare Y' costituisce uma parte del campo Y esistente nella lamina e dato dalle (1) che tengono si T î conto di tutto, poichè nella lamina esiste il gradiente si ma mentre 1 suoi effetti sul moto degli ioni sono effettivamente esistenti, la sua osserva- zione ci sfugge ricorrendo alle sonde, ove se ne crea uno opposto, e si perviene perciò a una valutazione scorretta del campo Y. Analogamente può dimostrarsi che, per la stessa ragione, è insufficiente la correzione dello Zahn nel caso di sonde costituite da un metallo diverso, la quale ha solo per effetto di ricondurre la differenza di potenziale osservata a quella che si avrebbe con sonde dello stesso metallo. Si vede da tutto ciò che un confronto esatto della formola teorica coi risultati dell'esperienza è molto difficile, 0 richiede inoltre una valutazione r esatta di DS che a torto fu supposto nullo nella teoria di Drude. 3. Ben diverse sono le condizioni qualora, come ha fatto lo Zahn in una interessante ricerca ('), s' immerga la Jamina in una massa d'acqua che si rinnova rapidamente e che rende perciò in tutta la lamina costante la temperatura. Ma a tal caso non corrispondono più le formole (1) della teoria, le quali presuppongono invece che la lamina sia trasversalmente isolata anche termicamente. Per la trattazione di questo caso, che può chiamarsi col Zahn È ; iu Uh È caso isotermico, occorrerà introdurre le componenti ai > della velocità degli ioni nel senso y, e scrivere che la lamina è trasversalmente isolata (1) Zahn, Ann. d. Phys. 25, pag. 131, 1907. — 918 —- solo per la corrente elettrica. Si ottiene così, in unità elettromagnetiche, CIT + aLe Tp ev(X — Hev,Y) 14 H?evi dé, — 1 a) evo(X + Hew,X) 14 H'evi dani 1 A: a evi(Y 4 Hev,X) 1 Heoi co E: Y—- Hev x} e dp i TEL nep» dee, 3 je=e(N; n RE a Gr i dm Sa) al ji=e(N; ON) o. Da queste equazioni, posto (3) o,=e°N v ) o,=e°N,v, o=0, +0, sì deduce va AIA pa o Indicando poi con o’ la conducibilità elettrica della sostanza sotto l’azione del campo magnetico, posto cioè sl avrà ove E denota il coefficiente da cui dipendono le azioni elettromagnetiche di di 2 specie, che io ho chiamato momento ionico differenziale: 0,0, — 03 03 a to E — 919 — Adunque il coefficiente del fenomeno di Hall isotermico, il solo che possa senza ambiguità determinarsi con l’esperienza, non è dato dalla for- mola di Drude, ma si rilega col momento ionico differenziale E da cui di- pendono le azioni elettromagnetiche di seconda specie già da me considerate nelle antecedenti ricerche. 4. La teoria ci può essere d'altra parte di guida preziosa per rintracciare le condizioni sperimentali più favorevoli alla ricerca delle costanti del metallo. Abbiamo visto che nel caso isotermico la misura del fenomeno Hall ci fornisce il valore del coefficiente __ 00,0, — 00302 n È E Inoltre la misura della differenza di temperatura trasversale per una corrente termica longitudinale (effetto Righi) ci fornisce il coefficiente e — ila (Ol — 0 . S coi 2V1 VD) Infine se con l'apparecchio di Zahn, nel quale si può sovrapporre alla cor- rente elettrica longitudinale un flusso di calore nel medesimo senso, si creano due flussi tali da ottenere che sia Cia 0, allora le formole (1) di Drude ci dànno la relazione interessante Db: Hi da TANN) da cui si può dedurre N, — N; misurando Y che in questo caso si identifica con la differenza di potenziale trasversale. Chiamiamo R, il coefficiente di questo particolare fenomeno di Hall 3 QU dI . i osservabile quando è put e “I ha il valore conveniente perchè questo si ottenga a lamina isolata. Avremo le relazioni semplicissime che qui rias- sumo: RT 1 ce(Ni1— Na) E __ 00,0, — 00307 o S 100 DO 05 G. (0) le quali unite alle (3) ci permetteranno di determinare le quattro costanti più notevoli del metallo N, , N», v; e vs, in funzione di R,, E, S e della conducibilità o del metallo. — 916 — Il significato dei diversi simboli è il seguente: c è la velocità della luce; Spa: 4aT dlog N, TTT peratura del metallo, N, il numero dei ioni positivi per cm. cubo; a, è la grandezza analoga ad @, per gli ioni negativi; e rappresenta la carica elettrica comune agli elettroni dei due segni, in cui @ designa la costante dei gas, T la tem- presa col suo valore numerico ; dT DI o MIN - Soi na sono i gradienti di temperatura lungo la lamina nel senso longitudinale x della corrente elettrica e nel senso trasversale y; X e Y la forza elettrica nel senso # e nel senso y; di di v, e vs le mobilità corrispondenti cioè le velocità assunte dagli ioni sotto la forza 1. le velocità degli ioni positivi e negativi, nel senso «; Queste equazioni permettono di dedurre due delle grandezze rt. go - quando siano date le altre. Per il calcolo del coefficiente R del fenomeno Hall il Drude suppone DIL dX larghezza della lamina. Ma entrambe le ipotesi non corrispondono alle con- dizioni dell'esperienza. = 0, e identifica il campo Y con la f. e. m. di Hall per unità di i <& * dT 3 E infatti il gradiente sn che comparisce nella formola non è quello che il solo campo produce, ma quello che in realtà si determina tra i posti d'entrata e d'uscita della corrente, risultante dall’effetto Peltier, dalle even- tuali differenze nell’effetto Joule ecc. Al gradiente di temperatura, effettiva- mente esistente, seguirà una differenza di temperatura trasversale (effetto Righi) che altererà il di e un campo elettrico (effetto Ettingshausen) che modificherà il valore di Y. La formola di Drude andrebbe quindi corretta in questo senso; e si può dimostrare che il nuovo valore di Y è dato, in LARE 00 SS funzione di ) e di ida dI Sei; cita c(N, v+ N30) (a, + @&2) i _ T xi; ci NN) (01 @2 + 01 02) - che si riduce alla formola di Drude per a = 0. La correzione potrebbe essere tutt'altro che indifferente in certi casi. — 917 — Ma in un altro punto l'applicazione sperimentale della formola di Drude conduce a risultati non corretti. Il campo Y misura la f. e. m. per unità di lunghezza esistente nell'in- terno della lamina e agente perciò sugli elettroni in moto. Ma non è per- messo identificarla con la differenza di potenziale V che sì constata ai bordi della lamina, anche ricorrendo 2 elettrodi della stessa natura, o effettuando la correzione della forza termoelettrica aggiunta con le sonde di altro me- tallo come fece lo Zahn. E invero tra i bordi della lamina esiste una differenza di temperatura, T per il gradiente trasversale “i E perciò lungo le sonde dello stesso me- tallo. fino all'apparecchio esploratore della differenza di potenziale, sì ag- giunge la differenza di potenziale propria della caduta di temperatura, cui è dovuto l’effetto Thomson. Questo campo supplementare Y' costituisce una parte del campo Y esistente nella lamina e dato dalle (1) che tengono conto di tutto, poichè nella lamina esiste il gradiente È ma mentre l suoi effetti sul moto degli ioni sono effettivamente esistenti, la sua osserva- zione ci sfugge ricorrendo alle sonde, ove se ne crea uno opposto, e sì perviene perciò a una valutazione scorretta del campo Y. Analogamente può dimostrarsi che, per la stessa ragione, è insufficiente la correzione dello Zahn nel caso di sonde costituite da un metallo diverso, la quale ha solo per effetto di ricondurre la differenza di potenziale osservata a quella che si avrebbe con sonde dello stesso metallo. Si vede da tutto ciò che un confronto esatto della formola teorica coi risultati dell'esperienza è molto difficile, e richiede inoltre una valutazione esatta di i, che a torto fu supposto nullo nella teoria di Drude. 3. Ben diverse sono le condizioni qualora, come ha fatto lo Zahn in una interessante ricerca (*), s' immerga la Jamina in una massa d'acqua che si rinnova rapidamente e che rende perciò in tutta la lamina costante la temperatura. Ma a tal caso non corrispondono più le formole (1) della teoria, le quali presuppongono invece che la lamina sia trasversalmente isolata anche termicamente. Per la trattazione di questo caso, che può chiamarsi col Zahn . 5 STE - dn d : caso isotermico, occorrerà introdurre le componenti sa i della velocità degli ioni nel senso y, e scrivere che la lamina è trasversalmente isolata (1) Zahn, Ann. d. Phys. 25, pag. 131, 1907. — 918 — solo per la corrente elettrica. Si ottiene così, in unità elettromagnetiche, den 1 wii ev.(X — Hev,Y) TIP: PH°ed dENDÌ 1 37 ani ev2(X + Hew,X) 14 Heo dn, 1 n To evi(Y + Hev,X) 1 Heoi Ot gp DA de (o R% STEP din, la) je=e(N; tI Da queste equazioni, posto (3) o,=eNv, , c,=e2Niv, o=0, +0, sì deduce O,VU — G2V Y=< a 2? 6HX. Indicando poi con o’ la conducibilità elettrica della sostanza sotto l’azione del campo magnetico, posto cioè sì avrà Re ove E denota il coefficiente da cui dipendono le azioni elettromagnetiche di di 22 specie, che io ho chiamato momento ionico differenziale : i 2 ARnonei0108 (n) — 919 — Adunque il coefficiente del fenomeno di Hall isotermico, il solo che possa senza ambiguità determinarsi con l'esperienza, non è dato dalla for- mola di Drude, ma si rilega col momento ionico differenziale E da cui di- pendono le azioni elettromagnetiche di seconda specie già da me considerate nelle antecedenti ricerche. 4. La teoria ci può essere d’altra parte di guida preziosa per rintracciare le condizioni sperimentali più favorevoli alla ricerca delle costanti del metallo. Abbiamo visto che nel caso isotermico la misura del fenomeno Hall ci fornisce il valore del coefficiente __ 80,9 — @V209 Pe ° E Inoltre la misura della differenza di temperatura trasversale per una corrente termica longitudinale (effetto Righi) ci fornisce il coefficiente Infine se con l'apparecchio di Zahn, nel quale si può sovrapporre alla cor- rente elettrica longitudinale un flusso di calore nel medesimo senso, si creano due flussi tali da ottenere che sia A 0Y = 0, allora le formole (1) di Drude ci dànno la relazione interessante "dI Hj _ ce(Nj— N) | da cui si può dedurre N, — N, misurando Y che in questo caso si identifica con la differenza di potenziale trasversale. Chiamiamo R, il coefficiente di questo particolare fenomeno di Hall UA dI . : osservabile quando è i ai e > ha il valore conveniente perchè questo si ottenga a lamina isolata. Avremo le relazioni semplicissime che qui rias- sumo: 1 me RR ce(Ni — Na) E e eV01 — €020 o S |__| O Cc o le quali unite alle (3) ci permetteranno di determinare le quattro costanti più notevoli del metallo N, , N, v, e v», in funzione di Ri, E,S e della conducibilità o del metallo. — 920 — Una simile ricerca, presenterebbe il più grande interesse, poichè, mentre le formole sono senza obbiezione, ciascuno dei dati sperimentali è rilegato con un minor numero di costanti che non nelle formole di Drude. 5. Un esame analogo a quello eseguito per la teoria del fenomeno di Hall può anche farsi per la teoria degli effetti elettromagnetici di cui mi sono occupato in alcune precedenti Comunicazioni. Pel caso della corrente elettrica radiale, contro la condizione supposta che le linee di egual potenziale siano delle circonferenze, non c'è nulla da obbiettare; e così non c'è dubbio che quelle linee sono anche isotermiche. Occorre invece tener conto di un eventuale gradiente radiale di temperatura dovuto all'effetto Peltier o a quello Joule, non uguale al centro e alla peri- feria. Un flusso radiale di corrente elettrica appare perciò inseparabile da un flusso radiale di calore, cosicchè si sovrapporranno sullo stesso disco le correnti circolari di doppia origine che lo trasformano, come ho dimostrato, in una particolare lamina magnetica. Malgrado ciò l’azione induttiva sulla bobina che circonda il disco (18 Nota) non sarà modificata, poichè all'atto in cui s' invia o si interrompe la corrente radiale e si accerta l’azione induttiva, il gradiente di tempera- tura non si è formato, o resta invariato, per la sensibile capacità termica del disco. Invece questa sovrapposizione dei due effetti si potrà manifestare nella rotazione del disco percorso da corrente radiale; poichè la misura della coppia richiede un certo tempo, e può allora prodursi una eventuale dif- ferenza di temperatura tra il centro e la periferia, e quindi una rotazione del disco di origine termomagnetica. La correzione può essere facilmente apportata esplorando con gli stessi fili adduttori della corrente la differenza di temperatura creata da questa tra il centro e la periferia, desumibile dalla conseguente forza elettromo- trice termoelettrica (). (*) Desidero rilevare un lieve errore di calcolo in cui sono incorso nelle mie Note a pp. 424 e 569 di questo volume, quando mi occorse di valutare l'energia mutua del campo e del disco percorso da corrente radiale elettrica e termica. L'energia nel campo H d’un anellino di raggio » e larghezza dr, il quale si EHI : Ea eg comporta come se fosse percorso dalla corrente dar D > è solo metà di quella da me usata nel calcolo, poichè la corrente indicata non è costante ma dipende da H. In con- seguenza il valore di W è solo metà di quello dato dalla formola (5) di pag. 425 e vanno in conformità modificate le formole e i risultati numerici seguenti. Lo stesso può dirsi per quanto è contenuto nel $ 4 della mia Nota del 23 aprile (pag. 573); in esso per la stessa ragione e per correggere un secondo errore di stampa il d 1 i 1 coefficiente di W e di M deve leggersi 3— anzichè 3_. 5 87 dr — 91 — Chimica fisica. — Su /a diffusione degli elettroliti nei col- loîdi. Nota di Lurci RoLLA, presentata dal Corrispondente A. GaR- BASSO. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Cristallografia. — Studio cristallografico del p-tolilisosucci- nammato monoetilico (*). Nota di ARrIstIDE Rosati, presentata dal Socio STRUEVER. Il prof. E. Comanducci (*) della R. Università di Napoli ha preparato il p-tolilisosuccinammato monoetilico, rispondente alla formola C*° H!" 0°N, lasciando a sè le acque madri della diammide corrispondente. Egli ottenne dall'alcool grossi cristalli tabulari incolori e trasparenti, che mise cortese- mente a mia disposizione per lo studio, di cui è oggetto la presente Nota. Sistema monoclino a:b:c=3,4327:1:1,4716 ( 16894995 Forme osservate: 3100, }001} , {110(,}111{ che si riuniscono in un'unica combinazione. Cristalli trasparenti, incolori, tabulari secondo (001), dello spessore medio di 3 mm. circa. Sfaldatura perfetta parallelamente a (001). Su (001) si nota l'uscita di un asse ottico. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Roma. (*) E. Comanducci e R. Lobello, Azione dell'etere isosuccinico sopra anilina, p-to- luidina, e p-ammidofenoli. Rend. della R. Accademia delle Scienze fisiche e matematiche di Napoli, fasc. 1°, gennaio 1905. RENDICONTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 121 — 922 — Le facce dànno in generale buoni riflessi. —___ ——_ ——____—_—_———_m———-—m—_——F—er--===-===-=-=-==“=““* ANGOLI OSSERVATI | SPIGOLI ANGOLI MISURATI sta RAS | ste CALCOLATI (100). (001) 9 6848 — 68250 68.49 * (111). (100) 9 65.46 — 65,54 65.50 * (117) . (001) 7 70.80 - 71.5 70.44 * (110) . (100) 9 50.52 — 51.4 50.58 517% (110). (001) 7 7648 — 774 76.54 76.53 1/a (110) . (111) 9 32.10 — 32.40 32.27 32,22 !/» (111). (110) 2 70.48 — 70.53 70.48 70.40 Geologia. — Una trivellazione eseguita nel Tevere in Roma al ponte Fabricio. Nota dell’ing. ENRICO ULERICI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Dopo la memorabile piena del Tevere del 1900, nel ramo a sinistra dell’isola di S. Bartolomeo, che già da qualche tempo si era reso normal- mente inattivo, l'interrimento aveva raggiunto, in qualche punto, l'altezza di 8 m. sul livello di magra (!). Occorrendo riparare ai danni recati dalla piena ai muraglioni, ed essendo prevalso il partito di conservare l'isola, si fecero gli studî per le opere necessarie a ristabilire il corso del fiume nel ramo sinistro. La natura del suolo nei pressi del ponte Fabricio venne esplorata me- diante tre trivellazioni, una poco a valle, l’altra poco a monte, e la terza fu praticata nel fornice della pila del ponte. Quest'ultima riuscì di maggiore interesse perchè spinta alla profondità di ben metri 35,90. Debbo la serie dei campioni, la cui estrazione ebbi anche agio di pre- senziare, alla cortesia dell'ing. Luigi Cozza del R. Corpo del Genio civile, direttore dei lavori, che tanto felicemente conseguì la stabile riattivazione del ramo sinistro (?). L'esame dei campioni venne eseguito con lo stesso sistema usato in ‘altre simili occasioni ed i risultati sono qui esposti in modo riassuntivo. (1) Atti della Commissione nominata dal ministro dei lav. pubbl. per riferire sui danni ai muraglioni del Tevere e proporre i necessari provvedimenti. Roma 1901, tav. III. (®) Vedasi in proposito la bella monografia: Cozza L., La riattivazione del ramo del Tevere a sinistra dell'isola di S. Bartolomeo, e le riparazioni dei danni arrecati ai muraglioni dalla piena del 2 dicembre 1900. Roma 1907. — 923 — I. Da m. 0,00 a m. 4,11 [quote riferite allo 0 di Ripetta: 9,50 a 5,39]. Materiale giallo rossastro di aspetto tufaceo, contenente pezzi di tufo litoide aranciato, di lava, di calcinacci e minerali vulcanici isolati. II. Da m. 4,11 a m. 5,06 [5,89 a 4,44]. Come il precedente, ma di colore più chiaro. III. Da m. 5,06 a m. 9,00 [4,44 a 0,50]. Come al n. I. IV. Da m. 9,00 a m. 9,20 [0,50 a 0,30]. Materiale scuro, sciolto, a pic- coli grani, come sabbia di materie vulcaniche. V. Da m. 9,20 a m. 9,80 [0,30 a — 0,30]. Materiale color tabacco chiaro, effervescente agli acidi; con molta sabbia di minerali vulcanici. Con- tiene foraminifere e frammenti di grosse spongoliti. Fra i minerali pesanti, l’augite è il prevalente; in molto minor quantità si notano magnetite, biotite, melanite, olivina, apatite. VI. Da m. 9,80 a m. 12,20 [— 0,80 a — 2,70]. Materiale sciolto, sabbioso; nell'insieme di color cenere scuro: con pezzetti di scorie nere e rosse pozzolaniche, frammenti di lave, di tufo litoide, di calcare bianca- stro; sottili incrostazioni calcaree tubulose; grosse leuciti vetrose, molta augite, foraminifere e spongoliti. VII. Da m. 12,20 a m. 13,80 [— 2,70 a — 3,80]. Sabbia sciolta come la precedente, ma più grossolana. La parte sottile è bruno-giallastra. Frequenti ciottoli, bene arrotondati, di calcari bianchi, e bigi venati; scaglie di piromaca, pezzi di travertino, di lava compatta, di tufi varî, di terra cotta; qualche frammento di ossa colorate in verdognolo: foraminifere e spongoliti. VIII. Da m. 13.350 a m. 14,00[— 3,80 a — 4,50]. Sabbia sciolta, di color giallastro sporco, con piccoli frammenti e ciottolini di calcari, di lave, di tufi, di terracotta: augite, magnetite, feldspato vitreo e, fra i mine- rali pesanti, anche glaucofane e granato roseo rarissimi: frammenti di molluschi marini fossili (Cardium ed altri) e di sottili gusci di mol- luschi continentali (Cyclostoma elegans Mull., specialmente). IX. Da m. 14,00 a m. 15,00 [— 4,50 a — 5,50]. Sabbia sottile sciolta di color chiaro, molto effervescente agli acidi; con piccole incrostazioni calcaree, frammenti di molluschi marini (Mactra, Cardium, Pecten, Cerithiolum) e molluschi continentali (Helix, Cyelostoma elegans Miill., Carychium minimum Muill., Valvata piscinalis Muùll.), molte foraminifere, spongoliti. X. Da m. 15,00 a m. 16,00 [— 5,50 a — 6,50]. Sabbia come la prece- dente, con piromache e piccole concrezioni tubulose. XI. Da m. 16.00 a m. 17,00 [— 6,50 a — 7,50]. Sabbia sciolta come la precedente, chiara, ma a grana più grossa; molte incrostazioni cal- caree, molto quarzo e sanidino; piromache; molluschi marini (Mactra triangula Ren., Arca, Dentalium), opercoli di Bythinia, frammenti di Claustlia. — 924 — XII. Da m. 17,00 a m. 18,00 [— 7,50 a — 8,50]. Sabbia sciolta, come sopra, ma più scura per l'abbondanza di granuli scuri (augite, ecc.) e molto più grossa, con ciottoletti fino a 15 mm. di lave, calcari, scorie rosse, incostrazioni calcaree; frammenti di Cyclostoma ele- gans Muùll. XIII. Da m. 18,00 a m. 19,00 [— 8,50 a — 9,50]. Sabbia chiara e sot- tile come al n. IX. XIV. Da m. 19,00 a m. 20,00 [— 9,50 a — 10,50]. Sabbia come la pre- cedente. XV. Da m. 20,00 a m. 21,30 [— 10,50 a — 11,80]. Sabbia come le pre- cedenti, ma ad elementi più grossi e con ciottoletti di lave e tufi diversi; molluschi marini (Corbula gibba Olivi, Cardium Lamarcki Reeve, Pectenculus, Pecten, Turritella tricarinata Br., Turritella subangulala Br., Potamides, Nassa, Melanopsis nodosa Fer.), mol- luschi continentali (zio, Neritina, Limnaea palustris Lin., Valvata piscinalis Mùll., Cyclostoma elegans Mill.). XVI. Da m. 21,30 a m. 22,50 [— 11,80 a — 13,00]. Sabbia ul fram- mista a ciottoli, relativamente grossi, di calcari (28 mm.), di pomice nera (23 mm.), di tufo grigio leucitico (30 mm.), di lignite (38 mm.), lignite picea, peperino, ecc. XVII. Da m. 22,50 a m. 24,00 [— 13,00 a — 14,50]. Sabbia come la precedente, ma più grossolana; ciottoli di tufo peperinico chiaro, po- mici o scorie rosse e chiare, ciottoletti di arenaria rossa, calcari, pi- romache, un pezzetto di mattone con intonaco; resti di Vitis vini- fera Lin. (some), di Corylus avellana Lin. (guscio); fossili marini più o meno logorati (Cordula gibba Olivi, Venus multilamella Lmk., Cardium Lamarcki Reeve, Pecten, Nassa prismatica Br., Potamides tricinctum Br., Melanopsis nodosa Fer., Dentalium, Ditrupa, Ba- lanus): molluschi continentali (Helix, Clausilia, Bythinia fentacu- lata Lin., Valvata piscinalis Mùll, Cyclostoma elegans Mùll, Ve- ritina, frammenti di ZWn%0). XVIII. Da m. 24,00 a m. 24,30 [— 14,50 a — 14,80]. Sabbia argillosa cenerognola con ciottoletti silicei e calcarei e di roccie vulcaniche, frammenti di molluschi marini. XIX. Da m. 24,30 a m. 25,00 [— 14,80 a — 15,50]. Sabbia fina cene- rognola, leggermente agglutinata, di colore giallognolo se lavata; molto quarzo, feldspato, lamelle di mica; augite relativamente scarsa: calcare, frammenti di molluschi continentali; foraminifere, qualche frammento di spongoliti. Nella parte pesante, separata meccanica- mente, si notano, oltre l’augite, pallottoline e modelli di foraminifere di pirite (od anche narcasite), muscovite, biotite inalterata e cloritiz- zata, dolomite, apatite, melanite; orneblanda, tormalina e zircone, rari. — 925 — XX. Da m. 25,00 a m. 26,00 [— 15,50 a — 16,50]. Sabbia fina, un po’ argillosa, come la precedente e con grossi ciottoli calcarei. XXI. Da m. 26,00 a m. 27,00 [— 16,50 a — 17,50]. Sabbia argillosa compatta, di color cenere. XXII. Da m. 27,00 a m. 28,00 (— 17,50 a — 18,50]. Come il n.precedente. XXIII. Da m. 28,00 a m. 29,00 [— 18,50 a — 19,50]. Come il n. prece- dente, un poco più sabbioso. XXIV. Da m. 29,00 a m. 30,00[— 19,50 a — 20,50]. Argilla marnoso- sabbiosa con vestigia di molluschi continentali. XXV. Da m. 80,00 a m. 31,00 [— 20,50 a — 21,50]. Sabbia argillosa con resti vegetali carbonizzati. XXVI. Da m. 81,00 a m. 32,00 [— 21,50 a — 22,50]. Marna argilloso- sabbiosa, analoga alle precedenti. Nella parte pesante abbonda l’au- gite; frequenti pallottoline di pirite e modelli di globigerine. XXVII. Da m. 32,00 a m. 32,60 [— 22,50 a — 23,10]. Marna argilloso- sabbiosa cenerognola, con molti fusticelli e frammenti di rami ligni- tizzati e semi; ostracodi, opercoli di Bythin:a, Carychium minimum Mill., frammenti di Zimnaea. Colla separazione meccanica vi sì con- stata la frequenza dell’augite; pivite, tormalina, apatite, rutilo, glau- cofane, zircone, rari. XXVIII. Da m. 32,60 a m. 33,00 [— 23,10 a — 23,50]. Argilla marnosa cenerognola. Minerali come sopra. XXIX. Da m. 33,00 a m. 33.90 [— 23,50 a — 24,40]. Argilla marnosa con molta muscovite. Fra i minerali pesanti: tormalina, zircone, rutilo, glaucofane, pirite; vi si nota ancora l’augite, ma scarsa. XXX. Da m. 38,90 a m. 34,35 [— 24,40 a — 24,85]. Argilla marnosa cenerognola somigliante alla precedente, con foraminifere; minerali pesanti più abbondanti ed assortiti, granato roseo, tormalina, zircone, glaucofane, pirite, biotite, rutilo; augite ben rappresentata. XXXI. Da m. 34,35 a m. 35,90 [— 24,85 a — 26,40]. Come il prece- dente e con molte foraminifere e gli stessi minerali pesanti, fra i quali l’augite. I primi tre campioni appartengono evidentemente alla pila del ponte, il cui piano di fondazione è circa alla quota 0. I campioni V a XX sono tutti sabbie sciolte ad elementi di varia grossezza che dovrebbero talvolta definirsi come ghiaietta. Nel campione XXI la sabbia. già molto sottile, è resa consistente per la parte argillosa che l’accompagna e che, in vario grado, è presente in tutti i successivi campioni. Le altre due trivellazioni attraversarono dapprima l'interrimento recente e poi soltanto sabbie sciolte, più o meno grosse, perchè profonde l'una m. 15 e l’altra soltanto m. 10,15 (quota più bassa m. 0,85), essendosi incontrato — 926 — un ostacolo che la trivella non potè vincere, costituito probabilmente da un manufatto con smalti e forse una sbarra di ferro. La serie incontrata al ponte Fabricio si accorda in massima con quella osservata a Ripetta durante le escavazioni per il ponte Cavour, ove pure si constatò l'argilla con resti vegetali carbonizzati e molluschi continentali, ma a quota meno bassa. Le sabbie soprastanti contenevano ugualmente fram- menti di tufi di ogni specie. dal più antico peperinico al tufo a pomici nere, nonchè abbondanti incrostazioni calcaree fiuitate, ed erano affatto sciolte e perciò in condizione di essere facilmente rimosse, come certi scandagli hanno dimostrato che realmente avvenga in tempo di piena fino a quota molto bassa. Le conclusioni che ebbi a prendere per le escavazioni di Ripetta (?) valgono anche pei materiali della trivellazione al ponte Fabricio. Aggiungo soltanto che in parecchi scritti ebbi a combattere l'opinione del Portis (?) il quale tenacemente sosteneva che il letto del Tevere in Roma sia in pieno inciso dentro i terreni d'origine marina, e che gli strati torbosi ed i fossili marini in esso rinvenuti rispecchino le stesse condizioni di giacitura, di ori- gine, di età, della nota formazione di Acquatraversa. Ma in occasione di una mia Comunicazione alla Società geologica italiana (*), nella quale, riferendo sugli scavi fatti per le fondazioni del palazzo pel Parlamento, tornavo a contraddire a quella opinione, il Portis (4) dichiarò di trovare i dettagli e le conclusioni della mia Comunicazione in perfetto accordo con quanto aveva rilevato co’ suoi studî nel Foro Romano (5). Benchè il Foro Romano non sia il luogo più adatto per le ricerche geo- logiche, e benchè i fatti venuti in luce non abbiano contribuito gran che alle conoscenze che si avevano già sulla costituzione geologica del suolo di Roma, pure è da compiacersi che essi abbiano servito a dirimere la contro- versia. Dimodochè, essendo ora unanimemente esclusa l'origine marina delle sedimentazioni della pianura del Tevere, resta da delimitare meglio la forma- zione fluvio-lacustre profonda, della cui esistenza si hanno già parecchi dati, e delucidare se la ragione della sua profondità debba ricercarsi nella ante- riore erosione operata dalle acque correnti, o nei movimenti del suolo o anche in altri fattori. (*) Clerici E., Sui recenti scavi per il nuovo ponte sul Tevere a Ripetta in Roma. Boll. Soc. Geol. Ital., vol. XVIII. (3) Portis A., Contribuzioni alla storia fisica del bacino di Roma, e studii sopra l'estensione da darsi al pliocene superiore. Torino-Roma, 1893. (3) Boll. Soe. Geol. Ital., vol. XXVII, pp. XXVIII e 21. (4) Boll. Soc. Geol. Ital., vol. XXVII, pag. XXVII. (5) Il Portis li aveva riassuntì nel lavoro dal titolo: Stud? e rilievi geologici del suolo di Roma ad illustrazione del Foro Romano, pubblicato negli Atti della Soc. Ital. di scienze naturali, vol. 43, Milano 1904, lavoro che per la forma e per lo scopo, non si prestava a render chiara la nuova opinione dell'autore e la portata di essa in relazione al contenuto delle sue anteriori Contribuzioni. — 927 — Chimica. — ZMormazione di soluzioni solide metalliche per diffustone allo stato solido ('). Nota di G. Bruni e D. MENEGHINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. In una prima Nota, pubblicata recentissimamente in questi Rendiconti (*), abbiamo mostrato per mezzo dell’aumento di resistenza elettrica di un tilo di nichel ramato, dopo riscaldamento ad alta temperatura, che i due metalli si diffondono l'uno nell’altro, formando le relative soluzioni solide. La misura della resistenza elettrica era già stata impiegata a questo scopo da Masing (*) in un caso speciale (tallio-piombo). Il modo di operare di questo autore è però del tutto diverso dal nostro in ciò che riguarda la prepara- zione del filo, che viene formato per compressione a 4000 atmosfere di un miscuglio di polveri dei due metalli e successiva trafilatura. Inoltre, le va- riazioni di resistenza da lui osservate, sono assai minori di quelle avute da noi, e, a detta dello stesso autore, non era stata evitata l'ossidazione del filo. Era stata nostra preoccupazione quella di evitare l'intervento di forti pressioni durante il riscaldamento e la diffusione. Col nostro modo di operare, consistente nel deporre uno strato metallico attorno ad un nucleo di altro metallo mediante elettrolisi, si crea un sistema nel quale possono destarsi pressioni in determinati casi. Ciò potrebbe infatti avvenire quando il metallo formante il nucleo fosse più dilatabile di quello costituente l'involucro. Volendo renderci conto dell'ordine di grandezza di queste pressioni, ci siamo rivolti al prof. T. Levi-Civita, della nostra Università, il quale ha assegnata l’espressione generale degli sforzi (che possono essere secondo i casì pressioni o trazioni) in funzione dei coefficienti di dilatazione e delle costanti elastiche dei due materiali. Nel caso della coppia nichel-rame, già da noi studiata, e delle altre due coppie su cui riferiamo nella presente Nota, non abbiamo però bisogno di addentrarci in tali calcoli, perchè noi abbiamo avuto cura di porre all’in- terno il metallo meno dilatabile, cosicchè alla superficie di contatto non po- tranno, all'inizio del riscaldamento generarsi pressioni. Il calcolo mostra poi più precisamente che, in condizioni di equilibrio, anche ad alta tempe- ratura, si esercitano sforzi, che hanno carattere di trazioni e non di pres- sioni. (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica docimastica e tecnologica della Scuola d'applicazione per gli ingegneri della R. Università di Padova. (2) Vol. XX, pag. 671 (1911). (3) Zeitschr. f. anorg. Chem., 62, 304 (1909). — 928 — Infatti, il coefficiente di dilatazione lineare del nichel, che formava il filo interno, è, a temperatura ordinaria, circa 0,0000183 e a 1000°: 0,000018, mentre quello del rame è rispettivamente 0,000017 e 0,000020 (’). Abbiamo anzitutto sperimentato con le coppie oro-rame e oro-argento, por le quali erano da aspettarsi fenomeni analoghi a quelli avuti con le coppie nichel-rame. 1. Oro-rame. — Questi due metalli formano cristalli misti in tutti rapporti. La curva di solidificazione, determinata da Roberts-Austen e Kirke- Rose (*), e da Kurnakow e Zemcezu?nij (*), presenta un minimo a 880°. Anche la curva di conduttività mostra un minimo assai piatto per leghe da 40 al 60 °/, di rame (‘). Il coefficiente di dilatazione lineare del rame è maggiore di quello dell’oro, essendo, per quest’ultimo metallo, circa 0,000014. Prendemmo perciò un filo d’oro di circa 0,5 mm. di diametro e lo abbiamo ricoperto, seguendo il metodo descritto nella precedente Nota, di uno strato elettrolitico di rame fino ad ottenere un diametro esterno dì circa 0,8 mm. Il filo venne riscaldato a 800° e la sua resistenza veniva misurata al ponte doppio di Thompson su un tratto di 14 cm., ottenendo i risultati seguenti : prima del riscaldamento : resistenza 0,0074 ohm; dopo 7 ore di riscaldamento: resistenza 0,0135 ohm. » 14 » ” ” 0,0191 » » dd U) b,) n 0,0268 b) » 53 n ’ ’ 0,0300 » ” 76» ” ” 0,0324 » » 98» 1 » = 0,0336 » IO ” ’ 0,0356 » Fatte le misure, abbiamo analizzato un campione del filo: gr. 0,1608 della lega, hanno dato gr. 0,0844 di oro, ossia il 52,5 °/. Il valore minimo della conduttività del filo si calcola in 8,3.104 rec. ohm, del tutto concor- danti coi valori trovati da Matthissen. Questo dimostra che la soluzione so- lida si è anche qui completamente formata per diffusione. 2. Oro-argento. — Anche questi due metalli dànno cristalli misti in tutti i rapporti (*). La curva di solidificazione sale infatti senza alcuna dis- continuità dal punto di fusione dell’oro (962°) a quello del rame (1064°). (1) Landolt-Bérnstein, Physikal. Chem. T'abellen, 3* ed., pag. 199. (*) Proc. Roy. Soc., 67, 105 (1901). (®) Zeitschr. f. anorg. Chem., 54, 163 (1907). (4) Pogg. Ann., //0, 217 (1860); vedi anche Guertler. Zeitschr. f. anorg. Chem., 57, 407 (1906). (5) Roberts Austen e Kirke Rose, Proc. Roy. Soc. of London, 77, 162 (1908). — 929 — La curva della conduttività presenta un minimo assai piatto per leghe di 20 a 40°/ d'argento. Il coefficiente di dilatazione lineare dell'argento è, a temperatura ordinaria, circa 0,000019 e a 1000° : 0,000020, cioè maggiore di quello dell'oro, per cui, anche in questo caso, abbiamo preso un filo d’oro di 0,46 mm. di diametro e lo abbiamo coperto elottroliticamente di uno strato di argento, fino ad ottenere un diametro di 0,96 mm. La analisi del filo così ottenuto diede i risultati seguenti: da gr. 0,5380 di filo si ottennero 0,4486 gr. di Ag Cl, ciò che indica una composizione del 62,8 °/, in peso d’argento. Il filo venne riscaldato a 900°, e le misure di resistenza diedero i va- lori seguenti: prima del riscaldamento: resistenza 0,0042 ohm; dopo 5 ore di riscaldamento: resistenza 0,0060 ohm i o) ” ’ OO » 45 n ” ” 0,0173 » di 0 ” ” 0,0222 » "Sn ” ” 0,0242 » boo ” ” 0,0250 » O IUS ” 7 0,0250 » Resistenza in ohm {=} © DI N - S\ 0.01} | î den! nni i tru dr r P n uno, 20 40 60 80 100 120 140 ore Tempo Pre. 1. Tali misure vennero eseguite su un tratto di 20 cm. e la conduttività minima aggiunta si calcola perciò: 10,0.10* rec. ohm; si ha cioè un valore analogo a quello ottenuto dai precedenti autori (Matthissen, Roberts, op. cit.). Anche qui la diffusione ha avuto dunque luogo fino a formazione com- pleta della lega. Nella fig. 1 sono riportate le curve che rappresentano l'andamento della resistenza nelle coppie studiate: rame-oro e argento-oro. 3. Influenza delle superficie di contatto. — Era da presumersi che l'aumento della superficie di contatto fra i due metalli tra loro diffondentisi, dovesse avere una influenza sulla velocità di diffusione. Per studiare tale influenza noi cercammo di preparare un filo formato da molti strati alternati dei due metalli. RENDICONTI, 1911, Vol. XX, 1° Sem. 122 — 930 — Abbiamo preso perciò un filo di rame di 0,075 mm. di diametro e lo abbiamo immerso alternativamente come catodo in un bagno elettrolitico di rame ed in uno di nichel. In ogni bagno il filo veniva lasciato per 15 minuti e la elettrolisi si compiva con una corrente debolissima di circa 0,05 Ampère. Tolto il filo da un bagno, prima di passarlo nell’altro, esso veniva lavato a fondo. Operammo in tal modo fino ad avere 60 strati concentrici, e precisa- mente 30 strati di rame e 30 strati di nichel. Il filo così ottenuto era molto fragile ed aveva un diametro esterno di 0,625 mm. Un calcolo esatto dello spessore dei singoli strati non è possibile, perchè la struttura del filo era Fic. 2. — (prima del riscaldamento). molto irregolare: mentre gli strati esterni e quelli interni sì sono deposti in modo regolare l'uno suli’altro, quelli mediani si sono invece accavallati fra loro. Un pezzetto del filo venne infatti esaminato al microscopio, dopo inclu- sione in gomma lacca col metodo consigliato da Le Gris ("); la fig. 2 è la fotografia di una sezione (ingrandimento 140 diametri), nella quale si di- stinguono benissimo le divisioni fra gli strati di nichel e quelli di rame. Lo spessore degli strati più esterni si avvicina a circa 2,5 w. L'analisi chimica del filo diede per 0,1334 gr. di filo, gr. 0,074 di rame, cioè 55,02 °/, in peso di rame. (1) Rev. de Metallurgie, 8, 335 (1911). — 931 — La resistenza elettrica venne misurata, col metodo descritto, su un tratto di 14 centimetri di lunghezza, quindi il filo venne sottoposto al riscaldamento a 1000°. Si ottennero così i valori seguenti: prima del riscaldamento : resistenza 0,022 ohm; dopo 2 ore di riscaldamento: resistenza 0,256 ohm. ” 6» ” ” 0,268» 7 10» ” ” 0,269» Il risultato è quindi pienamente conforme alla nostra aspettativa: la conduttività della costantana era praticamente raggiunta nelle prime due ore ra Fi. 3. — (dopo il riscaldamento). di riscaldamento; gli ulteriori piccoli aumenti della resistenza devono ascri- versi al nucleo interno di rame. All’osservazione microscopica il filo, dopo il riscaldamento, presenta una struttura completamente omogenea, come ap- pare chiaramente dalla fotografia fig. 3. Abbiamo voluto compiere poi alcune esperienze anche a temperature più basse, e da ricerche tuttora in corso risulta che la diffusione avviene con una certa velocità a 500°. Noi abbiamo in corso esperienze su fili costituiti da un numero assai maggiore di strati di estrema sottigliezza. In queste esperienze siamo stati coadiuvati costantemente e con grande diligenza dal laureando in chimica Ugo Tagliavini, che vivamente ringraziamo. Un vivo ringraziamento dobbiamo anche ora al prof. F. Lori, direttore della nostra scuola e del gabinetto di elettrotecnica, che pose a nostra dis- posizione gli strumenti per la misura della conduttività. Chimica. — Concentrazione dell’emanazione radioattiva dei gas dei soffioni boraciferi mediante il carbone a bassa tempera- tura ('). Nota dei dottori C. PorLEzza e G. NoRzI, presentata dal Socio R. NASINI. La radioattività dei soffioni boraciferi di Larderello è stata oggetto di una estesa serie di ricerche compiute dai proff. Nasini, Anderlini e Levi (?) sui gas che si ottengono eliminando il vapor d’acqua che viene emesso dai soffioni stessi; già Nasini, Anderlini e Salvadori in uno (*) dei due estesi lavori sulle emanazioni terrestri italiane si erano occupati di tali gas ed avevano riscontrato la presenza di notevoli quantità d’elio nelle emanazioni gassose della Toscana; ma il lavoro successivo citato sopra si riferisce prin- cipalmente allo studio della radioattività dei soffioni boraciferi. Dalle ri- cerche fatte da detti autori risulta che la quantità di emanazione contenuta in un metro cubo di gas naturale è assai rilevante, tanto che fino da allora essi istituirono esperienze per concentrare l'emanazione dei soffioni ed ottenerla allo stato puro. Già nella suddetta Nota vien fatto rilevare come le ricerche promettano di riuscire fruttuose, sia per la facile eliminabilità della parte ingombrante del gas costituita da CO, e H.S (94 °/,), sia per la facilità di raccolta del gas già incondottato e uscente sotto forte pressione, sia infine per la costanza della composizione e radioattività dei gas stessi. Per ciò che riguarda il nostro studio appare dalla Nota citata come sia riuscito ai predetti autori di concentrare l'emanazione contenuta nei soffioni (emanazione che essi constatarono essere di radio) facendo passare il gas, già privato delle parti eliminabili coi comuni mezzi, attraverso a un tubo ad U di vetro sottile e immerso nell'aria liquida; il gas uscente dal tubo raffreddato era completamente inattivo, il che dimostra essersi tutta l’ema- nazione condensata nel tubo. Attratti dall’interesse che tale argomento presenta sia in sè, sia in vista di eventuali applicazioni pratiche, ci siamo accinti anche noi a studiare il problema basandoci sui metodi di separazione proposti da J. Dewar e fon- dati sull'assorbimento operato dal carbone a basse temperature. (!) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale dell’ Università di Pisa. (*) R. Nasini, F. Anderlini, M. G. Levi, Sulla radioattività dei soffioni boraciferi della Toscana, ecc. Rend. Accad. Lincei, vol. XIV, serie 5%, pag. 70. (3) R. Nasini, F. Anderlini, R. Salvadori. Memorie Acc. Lincei, serie 5%, vol. II, p. 375. — 933 — Precipuo nostro scopo fu il vedere.se e in quale misura si poteva otte- nere una concentrazione dell'emanazione usando temperature diverse; isti- tuimmo quindi due ordini di ricerche: l'uno per trovare la massima tempe- ravura assoluta alla quale si otteneva un assorbimento completo dell’ema- nazione per parte del carbone; l’altro per vedere quale concentrazione in emanazione si poteva raggiungere a questa temperatura. Le esperienze furono da noi eseguite a Larderello servendoci del gas fornito da uno dei più attivi soffioni (detto dell'ammoniaca), gas che senza alcun trattamento dà una dispersione di 12.000 volt ora coll’elettroscopio a campana da 9300 cm. (capacità elettrostatica dell'elettroscopio cm. 14.5). Il dispositivo sperimentale usato era assai semplice: un piccolo gasso- metro di circa 3 litri di capacità veniva collegato ad un apparecchio com- posto di un tubo ad U a cloruro di calcio seguìto da un altro tubo ad U contenente il carbone, il tutto collegato a sua volta con un elettroscopio a campana e con una pompa pneumatica a mercurio; il tubo ad U contenente il carbone poteva essere immerso in una miscela refrigerante. L'esperienza veniva condotta così: fatto il vuoto in tutto l’apparecchio e scaldato fortemente il tubo contenente il carbone onde questo abbando- nasse ì gas eventualmente occlusi, veniva introdotto lentamente il gas dal gassometro nell’apparecchio sino a che in questo fosse ristabilita la pressione ordinaria: si esaminava poi la radioattività del gas che riempiva la cam- pana dell’elettroscopio. Questo procedimento fu adottato tanto per il gas quale esce dal soffione, quanto per il gas residuo (ottenuto eliminando per gorgogliamento attraverso soluzione di potassa CO» ed H,S), il quale ultimo possiede, proporzionalmente alla concentrazione subìta, una radioattività di 200.000 volt-ora; solo che nel caso del gas naturale fu introdotto fra il gassometro e il primo tubo ad U una torre contenente una pasta di PbCl, + PbCO; per trattenere l'idrogeno solforato, e nel caso del gas residuo al posto di questa torre si mise una boccia di lavaggio a potassa. Immergendo il tubo ad U col car- bone nella miscela CO: solida + etere (— 77°) si ottenne in ambedue i casì nell'elettroscopio gas inattivo. Provando col gas naturale e adoperando diversi miscugli refrigerauti si ottennero i seguenti risultati : A temp. ord. il gas non perdeva nulla della sua radioattività ” 0° ” ” ” ” ” È) D) 2 10° ” ” n ” n » » — 16° » perdeva il 50°/, » » ’ , — 20° ” ” ” ” ” ” » — 77° » si dimostrava inattivo. — 984 — Dobbiamo a questo punto osservare che Rutherford in una lettera alla « Nature » 6 ottobre 1906 comunicava che l’aria caricata di emanazione per- deva la sua attività per passaggio sul carbone anche a temperatura ordi- naria (*); affinchè non appaiono contradittori con tale asserzione, rileviamo espressamente che i nostri dati sono stati presi appena il gas era entrato nell’apparecchio, e che il riempimento di questo era fatto, per quanto len- tamente, con una certa velocità in confronto a quella che si richiede per il verificarsi del fonomeno osservato da Rutherford; di più l’attività del nostro gas è tale (le misure venivano fatte col contasecondi) che piccole diminu- zioni di attività non sono riscontrabili, nè, d’altra parte, ciò era necessario per l'indole delle nostre ricerche. Stabilito così che delle temperature esperimentate quella di — 77° era la massima alla quale si verificava un assorbimento completo dell’emana- zione per parte del carbone, si passò alla ricerca della quantità di gas che poteva venire disattivato per passaggio sul carbone a — 77°. A tale scopo fu usato il dispositivo precedente, ma invece del piccolo gassometro se ne adoperò un altro contenente circa 25 litri di gas privato di CO, ed H,S. Operammo poi come precedentemeute solo che appena stabilita la pressione ordinaria nell’apparecchio si tolse la comunicazione colla pompa e si lasciò continuare l’efflusso del gas, verificando di litro in litro l'attività del gas che usciva. Al 17° litro si osservò che il gas possedeva il 50°/, della ra- dioattività iniziale, e ritenendo con ciò il carbone saturo, fu sospeso il pas- saggio del gas. Il peso di carbone impiegato era di circa 5 grammi. Se ora si pensa che il gas residuo da noi adoperato è costituito essen- zialmente da metano, idrogeno e gas nobili, tutti gas non molto assorbi- bili dal carbone e che la temperatura di — 77° non è molto hassa, si può fissare in 500 cm.* al massimo (?) la quantità di gas trattenuta dai 5 gr. di carbone a quella temperatura. Riscaldando quindi il tubo ad U conte- nente il carbone, noi avremmo otteuuto un gas che in confronto al gas re- siduo iniziale possedeva una radioattività 34 volte TE) maggiore, cioè di 1 0,5 34 X 200.000 = 6.800.000 volt-ora, e tale risultato appare abbastanza soddi- sfacente, quando si rifletta che esso può essere raggiunto con mezzi molto più comodi e meno costosi di quanto non si possa ottenere usando l’aria liquida. Non è poi detto, e questo sarà deciso da ulteriori esperienze che ci proponiamo di istituire, che anche a temperature un po’ più elevate di — 77° non si possa avere un buon rendimento nella concentrazione dell'emanazione e renderne quindi più facile l'ottenimento. (*) Vedere a questo proposito il lavoro di R. W. Boyle, Jour. Phys. Chem. XII, 484, in cui vengono confermati i dati di Rutherford. 3) Per avere un'idea del numero di cm.3 dei varî gas assorbiti alle varie tempe- rature, v. J. Homfray, Zeit. f. phys. chem., Bd. LXXIV, 129. — 935 — Chimica. — Sul tufo radioattivo di Piuggi - Gas ocelusi - Contenuto in radio ed uranio (). Nota dei dottori C. PORLEZZA € G. NorzI, presentata dal Socio R. NAsInI. Questo studio si riconnette in certo modo a un altro, compiuto dai pro- fessori Nasini e Levi (?) sulle acque di Fiuggi; dalle esperienze di questi autori risulta non solo che le acque stesse sono fortemente radioattive, ma che lo è grandemente anche il tufo tra cui le acque stesse scaturiscono ; anzi fu tentata una concentrazione del prodotto radioattivo contenuto nei tufi stessi. Si presentava quindi come assai interessante lo studio dei gas occlusi in essi tufi, nonchè del contenuto di questi in radio ed uranio, e noi lo eseguimmo su due campioni dovuti alla gentilezza del comm. Casalini, presidente della Società Fiuggi; di tali campioni, uno portava la indicazione : « Pozzolana presso lo Stabilimento », l'altro: « Pozzolana delle Cave » ; di- ciamo subito che essi si manifestarono in tutto e per tutto quasi identici, onde noi, nei risultati che esporremo, non faremo distinzione fra l'uno e l'altro. Gas ocelusi nel tufo. — Per ciò che riguarda questa parte delle nostre ricerche potevamo scegliere tra due vie: o calcinare la roccia in tubi di porcellana o di acciaio come hanno fatto Strutt (*) ed altri, ma questo me- todo l'abbiamo scartato perchè troppo sommario, non ottenendosi così che la metà circa del gas occluso; oppure potevamo ricorrere alla disaggregazione chimica della roccia. È di quest'ultimo processo che noi abbiamo usufruito ispirandoci al metodo seguito da Ramsay (‘) e che consiste nel disgregare la roccia mediante acido solforico. L'apparecchio da noi usato è, con qualche modificazione, quello di Ramsay: in un pallone della capacità di circa 1 litro venivano posti circa 200 gr. di tufo grossolanamente triturato, e il pallone stesso veniva chiuso con un tappo a due fori, nell’uno dei quali passava il tubo dell’imbuto (munito di robinetto a pozzetto di mercurio) adduttore del- l’acido solforico, nell'altro foro passava un tubo che congiungeva il pallone ad un altro palloncino più piccolo tenuto ratfreddato collo scopo di trattenere il liquido che distillava; il tutto era collegato ad una pompa pneumatica a mercurio. Prima di cominciare l'operazione il tufo veniva stottoposto nel (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale dell’ Università di Pisa. (*) R. Nasini, M. G. Levi, Studio chimico-fisico sulla sorgente di {Fiuggi presso Anticoli di Campagna. Gazz. Chim. Ital. 1908, I, 190. (8) J. Strutt, Melium et radioactivité dans les mineraua rares et communs. Le Radium, 1908, 202. (4) W. Ramsay, Proceedings of the Roy. Soc., vol. 58, pag, 82. — 936 — pallone stesso al trattamento con anidride carbonica onde eliminare la mas- sima parte dell'aria ad esso aderente. Il procedimento consisteva nel fare dapprima il vuoto in tutto l’appa- vecchio, e nel lasciare poi entrare dall’imbuto acido solforico concentrato e previamente bollito; si scaldava in seguito il pallone a circa 200° in bagno d'olio e si raccoglievano i gas sviluppati in una buretta a gas (') estraen- doli colla pompa. Il riscaldamento e l'estrazione del gas venivano prolun- gati fino a che si vedeva che nella buretta il gas non subiva più aumento. Questo gas, composto prevalentemente da anidride carbonica, residuo inassorbibile e traccie di ossigeno ammontava a circa 25 cm. per ogni 200 gr. di tufo. Passando all'analisi spettroscopica usufruimmo del metodo di Dewar (assorbimento con carbone alla temperatura dell'aria liquida) servendoci del seguente dispositivo: una buretta contenente il gas (già privato di CO, ed O) veniva congiunta con un tubo a calce sodata saldato ad un serbatoio con- tenente carbone di noce di cocco ed atto ad essere immerso nell’aria liquida; l'apparecchio terminava con un tubo di Geissler a elettrodi d'alluminio e il tutto era connesso ad una pompa a mercurio. Si seguì il procedimento noto: fatto il vuoto nell’apparecchio e scal- dato fortemente il serbatoio contenente il carbone, si introdusse il gas nel- l'apparecchio stesso, si immerse detto serbatoio nell'aria liquida e tanto lo sì mantenne in questa finchè non accennò a scomparire nel Geissler lo spettro dell’azoto (apparso in principio); a questo punto onde essere sicuri che l'assorbimento per parte del carbone non fosse troppo spinto, si staccò, chiudendolo, il Geissler dall’apparecchio e si lasciò scintillare per circa un'ora affinchè gli elettrodi assorbissero le ultime traccie d’azoto rimaste. Lo spettro fornito dal Geissler venne poi studiato sia servendosi di un comune spettroscopio, sia facendo fotografie con uno spettrografo a reticolo; però si dovette accertare che le righe costituenti quello spettro erano tutte dell'idrogeno e mancavano completamente sia quelle dell’ argo, sia quelle dell’ elio. Poichè però risulta dalle ricerche di Collie e Ramsay (*) sui miscugli di elio e d’idrogeno, che affinchè l’elio si manifesti occorre una piccola pres- sione e che l’elio stesso sia il 10 °/, almeno del miscuglio, noi, onde evi- tare il pericolo che l'idrogeno potesse mascherare completamente altri gas presenti, cereammo di togliere le cause della presenza di idrogeno nel gas usando Geissler senza elettrodi, curando oltremodo l'essiccamento, e inse- rendo nell'apparecchio che serviva all'esame ottico un piccolo tubo ad ossido di rame. Con apparecchi adatti a questo scopo si fecero parecchie esperienze (') Ramsay si serviva di un gassometro ad acqua. (*) Collie e Ramsay, Proc. Roy. Soc., 59, 257. — 937 — sul gas in esame, lasciando anche arrivare i tubi spettrali alla fluorescenza, permettendo cioè al carbone del serbatoio di esplicare tutta la sua azione, ma in nessun caso si ebbe indizio di elio; le ultime righe che restavano (appena visibili data la piccola pressione) erano quelle dell'idrogeno. Infine, per decidere intorno alla presenza dell'elio si fece una prova più in grande. A diverse riprese (da 200 a 300 grammi per volta) si disgregò, nell’apparecchio accennato in principio, circa 1 kg. di tufo, si raccolse tutto il gas in una buretta e dopo avere eliminato O e CO», lo si sottopose al tratta- mento con aria liquida e carbone; benchè nel tubo spettrale la pressione si manifestasse ancora abbastanza piccola, si ottenne in questo caso evidente lo spettro dell’elio; evidentissime la riga gialla 5875,87 e la verde 5015,73. Potrebbe a questo punto sorgere il dubbio che nelle ricerche precedenti non si fosse avuto indizio della presenza d'elio, perchè i nostri apparecchi non possedevano la sensibilità sufficiente per svelarne anche piccole quantità ; a ciò possiamo però rispondere che alcuni degli apparecchi adoperati erano già stati usati per altre ricerche e si erano mostrati di grande sensibilità ; di più due delle esperienze erano state fatte con un apparecchio costruito sul tipo di quello descritto dal prof. Piutti (!), apparecchio che ci aveva permesso di osservare la D; dell’elio in circa 4,5 cm. d’aria; esso posse- deva quindi una sensibilità abbastanza rilevante. Si conclude dunque che nel tufo di Fiuggi, pur così radioattivo, l'elio oceluso si trova in piccolissima quantità; questo forse trova la sua spiega- zione nel fatto che si tratta di una roccia porosa, facilmente disgregabile, sempre umida e quindi probabilmente lavata continuamente dall'acqua. La più gran parte dell’elio formatasi si libererebbe quindi facilmente; che del resto questo possa avvenire in molti casi è ammesso anche da Rutherford (5 Contenuto in radio ed uranio del tufo. — Per determinare la quantità di radio fu usato il metodo di Strutt (*), il quale si fonda, come è noto, sulla misura della quantità d’ emanazione fornita dalla roccia sciolta in op- portuno solvente o disgregata e lasciata a sè per qualche tempo. Il metodo generale consigliato da Strutt è di prendere 50 gr. di roccia, disgregarli con carbonato sodico-potassico e fare due soluzioni della massa: l'una ottenuta trattando questa con acqua, l’altra sciogliendo in acido cloridrico il residuo di questa operazione. Nel nostro caso questo metodo si dimostrò di non co- modo impiego e si seguì invece quest'altro: sì fecero bollire 50 gr. di tufo con HCI concentrato, si filtrò la soluzione ottenuta e il residuo, costituito prevalentemente da silice, si sottopose al trattamento con acido fluoridrico; ciò che rimaneva da questa soluzione si sciolse in gran parte in acido sol- forico diluito. Non si curò molto la completa soluzione del residuo del trat- (1) A. Piutti, Gazz. Chim. Ital., vol. XL, 447. (*) Radiovactive Transformations. London 1906, pp. 188-189. (3) R. J. Strutt, Proc. Roy. Soc., a. 1906, 472. RenpiconTI. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 123 — 938 — tamento con HCl perchè già dal citato lavoro dei professori Nasini e Levi risulta come tale residuo sia completamente radioinattivo. Le due soluzioni (cloridrica e solforica) vennero serbate in due palloni ben chiusi e lasciate a sè per circa 22 giorni, tempo più che sufficiente per ottenere praticamente il massimo d'emanazione. Per misurare la quantità d'emanazione prodotta, si usarono press'a poco il dispositivo e il procedimento di Strutt. Il pallone contenente la soluzione veniva stappato e attaccato il più rapidamente possibile (onde evitare per- dite di emanazione) all'estremità inferiore di un refrigerante la cui estremità superiore era collegata con un gassometro munito di bilanciere e pieno di acqua bollita; il gassometro stesso poi, mediante un tubo laterale (munito di robinetto a pozzetto di mercurio) cui era saldato un tubo ad anidride fosforica, comunicava con la campana di un elettroscopio nella quale era stato fatto il vuoto. Fatta bollire per un’ora la soluzione, si sospendeva, alla fine di questo tempo, la circolazione dell’acqua nel refrigerante, in modo che il vapore emesso dalla soluzione scacciasse tutto il gas dal pallone nel gas- sometro. Ciò ottenuto, si chiudeva la comunicazione del refrigerante col gas- sometro e si mandava il gas, dopo raffreddamento, nella campana dell’elet: troscopio; mediante aria si ristabiliva poi la pressione atmosferica nella cam- pana stessa. Dopo un intervallo di due ore, onde permettere al deposito radioattivo di formarsi, si faceva la misura di dispersione. Affinchè le misure fossero esatte, bisognava però prima campionare l'elettroscopio; a tale scopo ci servimmo di un campione di pechlenda esi- stente in questo laboratorio. Servendosi del metodo di Patera (1), si deter- minò l’uranio contenuto nella pecblenda e si trovò che essa contiene il 55 °/ di uranio metallico. Se ne pesarono allora gr. 0,01, si sciolsero in acido nitrico diluito, si pose la soluzione in un pallone ben chiuso e la si lasciò a sè per 20 ore; alla fine di questo tempo si determinò, operando nel modo e coll’apparecchio descritti, la radioattività del gas estratto dalla soluzione. Si ebbe all’elettroscopio una caduta di 250,3 volt-ora (?) (detratta la disper- sione normale). Assumiamo per quantità di radio collegata ad 1 gr. d'uranio nei mi- nerali il numero gr. 7,4 X 107° trovato da Rutherford e Boltwood (*), adot- tato da Strutt e rimasto invariato anche dopo le esperienze di Soddy e Pirret (‘) che trovarono per la pecblenda il solo 3 °/, di differenza. Con (4) Classen, Ausgew. Meth. der Anal. Ch., I, 659. (*) Strutt esprime la caduta delle foglioline in numero di divisioni all’ora; siccome però la curva di campionatura del nostro elettroscopio non è una retta, vale a dire ad ogni divisione non corrisponde una caduta costante del potenziale, noi abbiamo preferito esprimere i nostri dati in numero di volt per ora. (3) Am. Journ. Sc., 1905, 35. (4) Phyl. Magazine [6] 20, 345-49. — 939 — tale valore e ricordando che, giusta la nostra analisi, nei 0,01 gr. di pec- blenda pesati son contenuti 0,0055 gr. di uranio, si trova che a questa quan» tità erano associati gr. 4,07 X 10-° di radio. Ora, poichè nelle 20 ore in cui è stata lasciata a sè questa quantità di radio ha prodotto il 15,3 °/, circa della quantità di emanazione con la quale sarebbe stato in equilibrio ra- dioattivo, sarà 250,9 X I = 1636 volt-ora la caduta [di potenziale che si sarebbe avuta se la soluzione fosse stata lasciata a sè per un tempo in- finito. Da qui si calcola in gr. 2.437 X 10-1? la quantità di radio che pro- durrebbe al nostro elettroscopio la caduta di un volt all'ora. Per le soluzioni cloridrica e solforica sono stati ottenuti i valori (de- tratta anche qui la dispersione normale): Soluzione cloridrica . . . 95,4 volt-ora Id. solforico 5,1 volt-ora Totale . . . 100,5 volt-ora ; SL . 100,5 . Si ha quindi una caduta di dar 2,01 volt-ora per 1 grammo di tufo. La quantità di radio contenuta in un grammo di tufo è quindi DIN III 0712 opel grammi di radio, e questo contenuto è abbastanza rilevante se si pensa che una delle roccie più attive esaminate da Strutt, il granito del Capo, con- tiene: 7,15 X 10-!? grammi di radio per grammo. Volendo studiare in quale rapporto si trovavano nel tufo l'uranio e il radio, si cercò di fare una determinazione di uranio, operando ancora col metodo Patera. ma osservando le precauzioni suggerite da Borntriger (*). Secondo la nostra analisi, risulterebbe che in 250 grammi di tufo vi sono gr. 0,0019 di uranio, cioè 0,76 X 107? gr. di uranio per grammo di roccia; dalla soprascritta qualità di radio si calcolerebbe invece 0,676 X 1075, e la relativa discordanza dei due numeri (trovato e calcolato) ammontante a circa l'11°% starebbe a indicare come la roccia sia assai antica, sebbene ancora non si sia raggiunto l'equilibrio radioattivo tra uranio e radio. Data la enorme difficoltà dell'analisi, non vogliamo però dare a quest'ultimo dato troppa importanza. giacchè si tratta di quantità troppo piccola di fronte alla quantità di sostanza primitiva. (!) V. Classen, loc. cit. — 940 — Chimica. — Sulla disidratazione dei glicoli dell’anetolo e dell’isosafrolo. Nota del dott. V. PaoLINI, presentata dal Corri- spondente A. PERATONER. Nel 1906, Paolini, Luzzi, e Balbiano (!), applicando all’isosafrolo (CH:0,):C;H3. CH= CH. CH; la reazione con l’acetato mercurico, da Bal- biano e Paolini già studiata su parecchie olefine (?), osservarono che, a se- conda delle condizioni di esperienza, prendeva origine ora il glicole corrispon- dente (CH,0,):C;H;. CHOH . CHOH . CH; = C,0H30,, ed ora, invece, una anidride di questo, C10H1003. Un'osservazione simile venne anche fatta da Bernardini e Balbiano, e da Cirelli e Balbiano, rispettivamente, per il metil- isoeugenolo (*), e per l’asarone (4), con la sola differenza che qui i due pro- dotti, cioè il glicole e la corrispondente anidride, si formavano simultanea- mente, predominando ora l'uno (metil-isoeugenolo), ora l’altra (asarone). Questi prodotti anidridici, formati nell’azione diretta del solo acetato mercurico, vennero subito riconosciuti come composti carbonilici, e furono isolati infatti dai detti Autori principalmente in forma di semicarbazoni. Ma, successivamente, alcuni dei detti composti carbonilici poterono venire isolati, già come tali, da Balbiano e Paolini (*) nell'azione del cloruro di zinco sui puri glicoli, e questi Autori credettero allora di poterli caratterizzare come aldeidi, inquantochè i loro prodotti davano con l’acido benzol-solfo-idrossam- mico di Piloty la nota reazione Angeli-Rimini. Così, il liquido oleoso bol- lente a 135°-140îmm, da loro ottenuto nella disidratazione del glicole del- l'anetolo, fu earatterizzato come aldeide p.metossi-idrocinnamica: CH:0 . CH, . CHOH . CHOH . CH; DO DA N CH30 . CsH,. CH.CH.,.CH, — CH,0.CH,.CH;.CH,.CHO, ed i prodotti ottenuti, analogamente, dai glicoli dell’isosafrolo e del metil- 1 Gazz. chim. it., 36, 268 (1906). ci) 5 (1) (0) (9) (4) (0) n» » » 251 (1906). È) D) n» 276 (1906). 4 » n E) DINO SI (1906). b) n» » 291 (1906). — 9d4l — isoeugenolo, furono del pari interpretati come altrettante aldeidi idro-cinna- miche : (CH:0:):C:H: . CH». CH, . CHO (dall’iso-safrolo) (CH30),:CsH3. CH». CH.. CHO (del metil-isoeugenolo). A un simile modo di vedere è però contrario il risultato avuto più re- centemente da Tiffeneau e Daufresne (1) trattando il glicole dell’anetolo con acido solforico al 20°/,. Infatti, il prodotto di questa reazione è un che- tone. Ciò risulta in modo evidente dal fatto che i punti di fusione dell'ossima e del semicarbazone coincidono esattamente con quelli indicati da Wallach (8) per i corrispondenti prodotti dell’anisil-chetone CH30 . CH, . CH; . CO. CH, e, ulteriormente, ancora da ciò, che il prodotto di Tiffeneau e Daufresne, nella reazione di Lieben, dà jodoformio e acido metossi-fenil-acetico CH;0 . CH, .CH,. COOH, mentre, trattato con ossido d’argento, fornisce soltanto acido anisico, lo stesso acido, cioè, avuto da Wallach nell’ossidazione dell’anisil-che- tone con ipobromito sodico. Inoltre, il prodotto di Tiffeneau e Daufresne deve anche essere esclusivamente chetonico, giacchè non dà alcuna colora- zione col reattivo di Schiff per le aldeidi. Ora, a proposito di così stridente divergenza fra gli Autori francesi e quelli italiani sopra citati, occorre subito dire che Balbiano e Paolini (loc. cit., pag. 291) avevano anche considerata la possibilità che i prodotti di disidratazione dei loro glicoli fossero dei chetoni: p. es., che il prodotto dal- l’anetolo fosse etil-anisil-chetone (I) oppure anisil-acetone (II): CH0 . CH, . CHOH . CHOH . CH; Ps (0) AS (1) CH;0. CH, . CO. CH, . CH; CH;0 . 5H, . CH. CH. CH;< (II) CH30. CH, . CH; . CO. CHz Soltanto, si concluse allora per la natura aldeidica di quei prodotti, avuto riguardo al fatto che essi davano la reazione Angeli-Rimini, la quale, come è noto, appartiene esclusivamente alle aldeidi. Tale conclusione era però logicamente erronea, chè si estendeva più di quanto non consentissero i risultati delle esperienze. Il solo fatto di avere constatato la reazione Angeli-Rimini sopra prodtti con punto d'ebollizione com- preso per lo più fra cinque gradi, non poteva invero autorizzare a ritenere quei prodotti come pure aldeidi; e finchè sopra di essi non si fosse fatta altra ana- (1) Compt. Rend., 144, 1354 (1907). (2) Annalen, 332,317 (1904). — 942 — lisi che quella elementare, o altra reazione all'infuori di quella con l' idros- silammina o con la semicarbazide, è proprio evidente che la simultanea co- esistenza di chetoni (isomeri con quelle aldeidi) non poteva logicamente escludersi. Tanto meno sarebbe poi da parlarsi di un prodotto esclusiva- mente aldetdico, quando si consideri, da un canto, che la reazione Angeli- Rimini, applicata ai prodotti di disidratazione di Balbiano e Paolini, ne la- sciava sempre inalterata una quantità notevole, e dall'altro, che l'ossidazione, p. es., dei supposti prodotti aldeidici dall’ isosafrolo e dall’anetolo, lungi dal condurre ai corrispondenti carboacidi, con lo stesso numero di atomi di carbonio, ossi-metilen-idrocaffeicu, e, rispettivamente, p. metossi-idrocinnamico, forniva, inverosimilmente, solo gli acidi piperonilico e anisico, proprio quelli, cioè, che appunto si ottengono, secondo Wallach (loc. cit., pagg. 325 e 333), nell’ossi- dazione dei chetoni, isomeri con le aldeidi anzidette: CHs0,:CsH3 . CH, . CO.CHz —>(CH,0:):C;H; . COOH CH,0 ò CH, . CH, ° (0,0) . CH, TONE CH;0 . CEI . COOH. Avuto riguardo a tutto ciò, e tenendo altresì conto che le condizioni adottate da Tiffeneau e Daufresne per la disidratazione del glicole dell’ane- tolo (riscaldamento con acido solforico al 20 °/) non coincidono con quelle sperimentate da Balbiano e Paolini (riscaldamento a 130-140° con cloruro di zinco), l’idea più ovvia sulla natura dei prodotti ottenuti da questi ul- timi sarebbe quella che essi non rappresentino nè dei puri chetoni, nè delle pure aldeidi, ma soltanto delle mescolanze di composti aldeidici e di composti chetonici, sulle quali però, data la loro isomerìa, non può la sola analisi ele- mentare fare sorgere alcun sospetto. Viceversa, Balbiano, in risposta al citato lavoro di Tiffeneau e Daufresne, ha creduto (') di dovere insistere nella primitiva veduta di Balbiano e Paolini, sostenendo che il prodotto di disidratazione dei due glicoli, @ e f, dell'anetolo, anche se ottenuto mediante acido solforico al 20 °/,, è unicamente aldeide p.metossi-idrocinnamica. Egli muove finanche agli Autori francesi l'appunto di non avere applicato al loro prodotto la reazione Angeli-Rimini, giacchè allora essi « si sarebbero accorti che l’ interpretazione, da loro escogitata, della « reazione, non regge all'esperienza, perchè il prodotto di disidratazione non « è un chetone, ma un'aldeide ». Se, per le ragioni sopra discusse, io avrei già nel 1906 inclinato a con- siderare i prodotti miei e di Balbiano soltanto come miscugli di aldeidi e chetoni, tanto meno potevo ora condividere il modo di vedere di Balbiano, osservando, che il ragionamento su cui esso si fonda è logicamente difettoso, e che egli trascura d'altronde alcuni fatti, già resi noti da Wallach e dagli (1) Questi Rendiconti, XVII, 259 (1908). — 943 — stessi Tiffeneau e Daufresne, nei quali fatti si contiene la prova migliore che il suo prodotto (di disidratazione) dai glicoli dell'anetolo è sostanzialmente anisil-chetone. Così Balbiano, con i suoi recenti tentativi (loc. cit.). del resto infruttuosi, diretti ad ottenere sinteticamente l’aldeide p.metossi-idrocinnamica (che dovrebbe essere identica col suo prodotto di disidratazione), mostra di ignorare che quest'aldeide era stata già ottenuta da Fourneau e Tiffeneau ('). Ed è invece ben degno di nota che il semicarbazone di questa aldeide fonde a 184°, laddove il semicarbazone ottenuto da Balbiano dai suoi prodotti di disidratazione fonde solo a 175-176°. Tiffeneau e Daufresne non hanno man- cato di rilevare questa discrepanza, giacchè anche nel lavoro di Balbiano e Paolini si trovava indicato, per il semicarbazone suddetto, presso a poco lo stesso punto di fusione, cioè 174-175°; ed anzi, Tiffeneau e Daufresne ag- giungono che un tal punto di fusione è invece quello stesso indicato nella letteratura per il semicarbazone dell'anisil-chetone. Ma oltre a ciò, la p.me- tossi-idrocinnamaldeide di Fourneau e Tiffeneau, ossidata da Daufresne (*) con ossido d'argento, fornì il corrispondente carboacido a Cio, fusibile a 101°, e non acido anisico, mentre, nelle medesime condizioni, il prodotto di disi- dratazione di Tiffenean e Daufresne diede soltanto acido anisico. E soltanto acido anisico avevano parimenti ricavato Balbiano e Paolini nel trattamento analogo della loro supposta aldeide con ossido d'argento (loc. cit., pag. 295). A questi risultati sperimentali Balbiano non contrappone recentemente nè alcun fatto nuovo, nè alcuna parola di critica, e soltanto egli crede di poter concludere che «il prodotto di disidratazione dei glicoli derivanti dall’ane- «tolo è un aldeide, ed è l’unico prodotto che si forma », valendosi del se- guente ragionamento. Dopo avere applicato al suo prodotto la reazione Angeli- Rimini, rimane indietro una sostanza di natura carbonilica, la quale si può facilmente ricuperare sotto forma di semicarbazone. Questo semicarbazone ora ottenuto fonde identicamente a 175-176°, come quello che si ricava dal prodotto non ancora trattato con acido di Piloty, e per ciò, esso è, secondo Balbiano, il semicarbazone dell'aldeide. Infatti — egli aggiunge — anche l’olio, di natura carbonilica, che si ricupera, per estrazione con etere, dal liquido in cui avvenne la reazione Angeli-Rimini, anche quest'olio, che dà semicarbazone fusibile a 175-176°, se viene trattato con acido di Piloty, fornisce, pur esso, acido idrossammico. È però molto facile vedere dove si nasconde il sofisma. Supposto infatti che il prodotto di Balbiano sia in maggior parte anisil-chetone, e solo in piccola parte l’aldeide isomera, p.metossi- idrocinnamica; 6 ammesso, inoltre, che una parte dell’aldeide possa sfuggire una prima volta — specialmente per 1l modo di operare — alla reazione Angeli-Rimini, il risultato non sarebbe diverso da quello che infatti ottiene () Compt. Rend., /4/, 662 (1905). (2) Compt. Rend., 144, 1356 (nota). — 944 — Balbiano. Dopo che una parte dell'aldeide avrebbe reagito con l'acido del Piloty, rimarrebbe indietro tutto il chetone, ancora commisto tuttavia a una certa quantità di aldeide, e da questo olio residuale si avrebbe per ciò rea- zione tanto con la semicarbazide quanto con l'acido del Piloty. Il fatto che il semicarbazone di Balbiano, comunque preparato, o direttamente dall’olio di partenza, o da quello riottenuto dopo trattamento con acido di Piloty, e cristal- lizzato anche frazionatamente, mostra sempre ii p. f. 175-176°, che è quello del semicarbazone dell’anisil-chetone, non ha nulla di strano, se l’aldeide con- tenuta nel prodotto di Balbiano è solo in piccola quantità, e se il suo semi- carbazone non è così insolubile come quello dell'anisil-chetone. Ognuno vede che, per potersi venire alla conclusione che Balbiano ha già tratto dalle sue esperienze, la reazione Angeli-Rimini non andava appli- cata solo all'olio che si ricupera, per estrazione con etere, dopo un primo trattamento con acido di Piloty, ma, principalmente, al prodotto carbonilico ricavabile dall’idrolisi del semicarbazone fondente a 175-176°. Solo avendo reazione positiva su questo prodotto, sì sarebbe potuto legittimamente affer- mare che il composto carbonilico, a cui corrisponde un tal semicarbazone, è un’aldeide. Diversamente, non è affatto da escludere che nel prodotto di par- tenza, così come nell’olio ricuperato dopo trattamento con acido di Piloty, coesistano in ogni caso due diverse sostanze: una, aldeidica, che dà la rea- zione Angeli-Rimini, ed una, chetonica, che fornisce un semicarbazone fusi- bile a 175-176°. E poichè, dunque, la natura aldeidica del prodotto di Balbiano non può ragionevolmente fondarsi che soltanto sulla reazione po- sitiva con l'acido del Piloty, e non su quella con la semicarbazide (*), così, l'insieme dei lavori francesi e italiani anzidetti tenderebbe piuttosto a dis- creditare la reazione Angeli-Rimini; giacchè, in chi pensi che il prodotto di disidratazione avuto da Balbiano, e che egli considera come aldeidico in quanto reagisce con l'acido di Piloty, sia stato ottenuto dal glicole dell'anetolo proprio nelle condizioni nelle quali Tiffeneau e Daufresne hanno dimostrato, e inoppugnabilmente, che si forma invece anisil-chetone, può, seppure non formarsi la convinzione, almeno nascere il sospetto che la bella reazione di Angeli non sia esclusiva delle aldeidi, ma appartenga anche a qualche chetone. Essendo interessato alla presente quistione come antico collaboratore di Balbiano, e non credendo, dopo quanto ho sopra discusso, di potere integral- mente accettare la conclusione sulla quale egli di recente e da solo ha invece insistito, mi sono proposto il còmpito di esaminare più da vicino la natura dei prodotti carbonilici che, in varie condizioni, si ottengono disidratando i glicoli dell'anetolo e dell’isosafrolo. (!) Chè anzi — come ho sopra rilevato — il semicarbazone descritto da Balbiano fonde a 175° come quello dell’anisil-chetone, e non a 184° come quello dell’aldeide p. me- tossi-idrocinnamica. — 945 — Così, in riguardo alla validità della reazione Angeli-Rimini, come carat- teristica delle aldeidi, ho potuto completamente eliminare qualsiasi dubbio, e, in base ai risultati delle mie esperienze ('), posso senz'altro affermare che, nelle condizioni indicate da Tiffeneau per la disidratazione del f-glicole dell’anetolo, si ottiene un prodotto che è veramente da considerarsi come puro anisil-chetone. L'ossima ed il semicarbazone di questo prodotto mi fon- devano infatti, rispettivamente, 2 65-66° ed a 195°, vale a dire, esattamente ai punti indicati nella letteratura per i corrispondenti prodotti dell’anisil- chetone. Il prodotto, da cui io ottenni tali derivati, non dava la reazione Angeli-Rimini. Oltre a ciò, io sono in grado di chiarire la sorprendente discrepanza fra i risultati di Tiffeneau e Daufresne e le conclusioni di Balbiano. Essa è da spiegarsi semplicemente con ciò, che Balbiano, pur disidratando, come Tiffe- neau e Daufresne, il f-glicole dell’anetolo con acido solforico al 20 °/, do- vette, tuttavia, in fatto di femperalura, non trovarsi nelle medesime condi- zioni degli Autori francesi. Benchè le mie esperienze a questo proposito riflettano invece i derivati del glicole dell’isosafrolo, esse non sono, per questo, meno istruttive. Effettuando la disidratazione di questo glicole (15 gr.) con acido solforico al 20 °/ (50 cme.), ® riscaldando alcune ore (3-4) soZtarto a bagno-maria, io ho ottenuto un prodotto che è da considerarsi come pur0 piperonil-chetone (CH,0.): Cod CH, 00 CH;. Esso mon dà la reazione Angeli-Rimini, e, trattato con ‘drossilamina e con semicarbazide, fornisce due prodotti, fusibili, rispettivamente, a 37° e a 163°, cioè ai punti indicati (Wallach, loc. cit., pag. 317) per l’ossima e per il semicarbazone del piperonil- acetone. Il prodotto carbonilico rigenerato, per idrolisi, dal semicarbazone fondente a 163°, corrisponde inoltre in tutti i suoi caratteri al piperonil- acetone (°). Se, invece, il glicole dell’isosafrolo si disidrata per riscaldamento con clo- ruro di zinco a 130°, o per ebollizione prolungata con acido solforico al 20 °/o, allora, accanto al chetone ora detto, che in ogni modo prepondera, si forma anche, costantemente, dell'aldeide. Questa si riconosce sùbito dal fatto che il prodotto immediato della disidratazione reagisce, in questi due casi, con l'acido del Piloty: ma la sua scarsa quantità (5 °/ circa) si deduce anche sùbito dal bassissimo rendimento in acido idrossammico, il quale ren- dimento non è imputabile a una reazione incompleta con il detto acido di Piloty, bensì unicamente al fatto che il prodotto principale della reazione è, in ogni caso, il piperonil-chetone. Difatti, dopo avere applicato al prodotto grezzo la rea- (1) Queste verranno descritte estesamente nella Gazzetta chimica italiana. (3) P. eb. 151°10mm., Ce = 1,205, nn=1,5428 a 20°. Ossidato a bassa temperatura con ipobromito sodico, vale a dire nelle condizioni adottate da Wallach (loc. cit., pag. 333), fornisce con buon rendimento gli stessi prodotti indicati da questo Autore, cioè, acido piperonil-acetico fondente a 128°, e acido piperonilico fondente a 228°. RenpIcoNTI. 1911, Vol. XexelionSem 124 — 946 — zione Angeli-Rimini, per estrazione con etere si ricava, e in quantità assai vicina a quella del prodotto di partenza impiegato, un olio che non addiziona affatto il nitrossile, e che, nel suo contegno, corrisponde esattamente al piperonil- acetone. Un fatto simile deve certamente verificarsi anche nella disidratazione dei glicoli dell’anetolo, quando questa si effettui non per semplice riscalda- mento con H,S0, al 20 °%, ma per prolungata ebollizione con lo stesso acido, come Balbiano ha appunto fatto. E per ciò, ripeto, si comprende benis- simo come allora, accanto all’anisil-chetone, preponderante, da Balbiano erro- neamente scambiato per aldeide p.metossi-idrocinnamica, si formi anche una certa quantità di questa aldeide. Ghimica. — Apparecchio a lavorazione continua per distil- lazioni frazionate nel vuoto. Nota del prof. Lurcr FRANCESCONI e di EmrLio SERNAGIOTTO, presentata dal Corrisp. L. BALBIANO. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Botanica. — Sulla fioritura autunnale nell’Olea euro- paea L. Nota di C. CAMPBELL, presentata dal Socio R. PIROTTA. Da tempo la mia attenzione si è fermata a considerare numerose piante di olivo che in determinate località 6 quasi costantemente, dopo la fioritura e fruttificazione primaverile, presentano una fioritura autunnale, con allega- gione del fiore, e mancata maturazione del frutto per le contrarie condizioni della stagione. Il fenomeno in sè, se non strano, presenta un certo interesse, e la ne- cessità di seguirlo per qualche anno per studiarne la fenomenologia mi si presentò tosto, pensando che sarebbe stato utile estendere le osservazioni anche alle altre piante affini della famiglia delle Oleaceae. Ho potuto così accertare come la fioritura autunnale per quanto raramente, si presenti nel genere Phyllirea, e più facilmente nel genere Ligustrum, Ligustrum vul- gare L. Le prime notizie sulla fioritura autunnale nell’olivo devono indubbia- mente cercarsi nel Petagna (') che della 52 specie del genere Olea, dà la seguente descrizione : «5% Olea cafetana, fol. ovato-lanceolatis, floribus racemosis, nobis. (*) V. Petagnae, Institutiones Botanicae, Tomus II, pag. 19. Neapoli, 1787. — 947 — « Singalaris est haec Oleae spectes, quae in olivetis Venafranis occurit, appelaturque vulga: Ulivo gaetano. Arbor sempervirens, semperque florens. Inflorescentia racemosa, inque racemis conspiciuntur variae aetatis fructus 2 diverses florescentiae tempore provenientes; suntque turdorum esca ». Dopo il Petagna, se ne occupò il Lucenteforte (*) che delle 18 varietà di olivi di cui dà la descrizione, parla dell Oliva gaetana dicendola rara 2 Venafro, e poi di una varietà di S, Anna, ossia bifera, di cui così ne scrive: « Questa varietà fiorisce due volte l’anno, ed arreca due diversi frutti; il primo assai grosso e lungo, più doppio nella base dove termina con una spezie di capezzolo come nella rossuola, e sostenuto da fermo lungo e glan- duloso peduncolo, il quale matura nel dicembre: l’altro piccolo rotondo si- mile ad una bacca di ginepro, il quale matura in aprile. Questa varietà seb- bene curiosa non è di pregio nè per la quantità, nè per la qualità dell’ olio. Cinque alberi ne ho trovati ne’ Venafrani uliveti e tutti di aspetto misera- bile, forse perchè recando due diverse ulive, e quelle che dovrebbero matu- rare di aprile essendo meno facile a cadere nel dicembre, quando si fa l’or- dinaria raccolta, il colono colla sferza maltratta l'albero assai. Nella Roc- chetta, villaggio vicino alla sorgente del Volturno, dicesi esservene una pianta in un fondo del cavaliere Battiloro, ed un’altra ne ho veduta in Rocca d'Evandro villaggio vicino a S. Germano in un fondo del sig. Paglioli. Sa- pendo io che da Venafro era stata una pianta di siffatta maniera trasferita nel Real Orto botanico di Napoli, per cura del sig. Leopoldo Pilla, oggi professore di mineralogia nella Pisana Università, ne interrogai il signor cavaliere D. Michele Tenore, direttore di quell’Orto e presidente della Reale Accademia delle Scienze in Napoli, il quale mi onorò di sua risposta nei ter- mini seguenti: « Dopo che il ch. Vincenzo Petagna ebbe descritta come specie diversa dalla comune quella che egli dice O/ea cajetana, la nostra attenzione si rivolse a rintracciare questa pianta, per verificare se fosse realmente una specie, ovvero una semplice varietà della comune. Il signor Pilla riuscì a rinvenirla negli uliveti Venafrani, e noi demmo spesa perchè fosse innestata e trasferita nell’ Orto Botanico. Così ci siamo assicurati della identità della specie. L'essere bifera avviene come della vite, e di altre simili varietà ca- paci di fiorire e fruttificare diverse riprese in un determinato periodo ». Su di questa maniera di ulivo non saprei dare altro giudizio dopo quello del- l'illustre cavaliere, epperò ho esposto il fatto senza altra osservazione: sol- tanto ripeto non essere questa maniera tale da porvici molta cura perchè poco proficua. Esisterà poi l'ulivo di ogni mese? Nelle mie ricerche ho tro- vata una pianta in un oliveto della prebenda canonicale sotto il titolo di 9. Cristina, metà carica di ulive nere nel mese di dicembre, e metà carica (1) F. Lucenteforte, Gli ulivi di Venafro. Napoli, 1848, pag. 54 e 57. — 948 — di ulive verdi che anneriscono in aprile. In questa pianta le ulive eran di- verse da quelle dette di sopra, perchè l’una e l’altra sorta eran tonde; ma ciò non può far supporre altro che essere la una varietà, ma sempre biflo- rente ('). Nella solitudine di Piedimonte d’Alife vidi nel giorno 16 set- tembre 1839 una piantolina d'ulivo dell'età di circa anni dodici a quanto appariva, carica di ulive della fioritura di aprile, e le ulivelle dei fiori pochi giorni prima caduti, la quale pianta è la sesta in ordine a man sinistra Oliva Gaetana (da indolcire). IRIGEAZIO andando dal Convento di P. P. Pascalini al conventino. Dunque sempre mi è toccato vedere sopra la stessa pianta ulive e fiori, ulive ed ulivelle, ulive nere e verdi, ma non mai ulive ulivelle e fiori, ulive fiori e migna, e via discorrendo; lo che mi fa conchindere essere falso ciò che dicesi dell’ uliva d'ogni mese. E poi se l’uliva per maturare deve contare in questi luoghi almeno sei mesi, come un albero potrà mai più di due volte mignolare e fiorire? ». (1) È probabile che tale pianta fosse stata innestata con due varietà a maturazione diversa. — C. C. — 949 — Delle pubblicazioni citate dal Lucenteforte del dott. Sannicola negli «Annali Civili del Regno » e nel « Giornale economico di Lecce » non ho potuto avere visione. Il prof. M. Tenore così ne scrive nella sua « Sylloge » (2): « Olea B. bifera. Olca cajetana. Petagn., Inst. Bot., tom. Dos « In collibus maritimis sponte provenit; abunde al Bosco di Ginosa a Termiti, al Gargano, nel principato Citeriore: vulgo Oliv astro. SEI SIE Oliva per olio (coltivata nella regione dell'Olivo Gaetana e senza una speciale denominazione). Fi. 2. « B., in agro Venafrano. « Obs. Var. 13. B. bis vel ter quotannis floret, unde in eandem planta variao aetatis fructus a diverso florescentiae tempore provenientes conspi- ciuntur. Ceterum ‘foliis aliisque characteribus ab O. europaea specie hand differre vedetur. Repetiti vicibus per plures annos a me, et @ caeteris florae neapolitanae scrutatoribus frustra quaesita, singularis haec Oleae species vel : scientiarum cultori D. Leopoldo Pilla, pro- varietas, fortuito casu solertissimi ximo superiori autunno obviam Giorlano vocant. Quum ejusdem di venit, in pago Venafrano ditionis, quod (1) Tenore M, Sylloge plant. vascular. Florae Neapolitanae. Neap. 1831. lectissimi juvenis studio in Hortum Re- —950 — gium fuerit haec planta traslata, et cl. Petagnae de eadem observationes in posterum ad trutinum lévocare, nec non ejusdem characteres accuratori examini subjicere occasionem praebebit ». xi tx Dalle citazioni degli autori che ebbero ad occuparsi della fioritura au- tunnale nell’olivo, si vede chiaramente come del fatto non si avesse un con- cetto ben fisso e tanto meno sicuro, tendendo ad attribuirlo a natura indi- viduale piuttosto che a speciali proprietà, in dipendenza di speciali condi- zioni biologiche, e ritenendola piuttosto propria e costante in alcuni individui. Il Tenore pure paragonando la fioritura autunnale nell’olivo a quella che si avverte in altre piante, ritenne trattarsi di una varietà di olivo a fioritura autunnale costante. È strano però come tutti coloro che se ne occuparono, limitassero il proprio studio a poche piante di una varietà estesamente ed intensamente coltivata altrove. Infatti, mentre a Venafro si trovano poche piante di Oliva Gaetana, nel Circondario di Gaeta la varietà è più o meno diffusa dovunque, ed in alcuni paesi forma il principale e quasi esclusivo reddito, e tra i col- tivatori la fioritura autunnale viene da tempo designata col nome di « falsa fioritura ». Dalle notizie date dai citati autori, risulta come la fioritura autunnale non si manifesti esclusivamente nella varietà Gaetana, e tale constatazione, con osservazioni continuate, ho personalmente riscontrata esatta, per quanto essa si manifesti più intensa, e quasi esclusiva () nella varietà Gaetana. È naturale quindi assegnare all’ Oliva Gaetana proprietà che la differenziano dalle altre varietà coltivate nella stessa regione. Rat Le opinioni che si hanno sulle cause che possono determinare in una pianta l'emissione maggiore o minore di fiori e la stessa fioritura autunnale, sono poco concordi, per quanto sia generalmente ammessa l' influenza di speciali condizioni biologiche. Si sa, come lo stato di nutrizione abbia una notevole influenza, e come, per es., l'acido fosforico, o una diminuzione di azoto, conducano ad una fio- ritura precoce (Miller Thurgau, Beneke ed altri). Che le abbondanti fiori- ture siano dovute a concentrazione di zuccheri, per perdita nella pianta na- turale od artificiale dei frutti ancora acerbi dell'annata precedente (Loew). Che un irregolare andamento delle stagioni porti ad abbondante fioritura 0 a fioritura autunnale. Che mentre siccità e luce favoriscono la formazione (*) Nei Circondarî di Sora e Gaeta che ho avuto campo di lungamente ed attenta- mente studiare. — C. C. — 951 — dei fiori, umidità ed ombra favoriscano la vita vegetativa (Mobius). Che nella formazione dei fiori abbia prevalenza la nutrizione aerea (assimilazione) su quella radiale (acqua e sali) (Fischer); ciò che dimostrerebbe esatto il concetto che rotto l'equilibrio tra nutrizione organica ed inorganica, in fa- vore della prima, si abbia la formazione dei fiori (Beneke, Goebel), e presso a poco simile è l'opinione di altri biologi. Va notato come la rottura di equilibrio, che generalmente è addebitata a condizioni esterne ed interne anormali, possa talora essere dovuta a causa parassitaria, da determinare ancora la fioritura autunnale (Montemartini). Considerando ora ciò che si nota nelle piante e condizioni ove si mani- festa la fioritura autunnale nell’olivo, e precisamente: che essa non si manifesta nella stessa pianta tutti gli anni, ma solo a seguito di forti e prolungate siccità, nelle esposizioni di mezzogiorno, mentre in quelle nordiche il fenomeno non apparisce, o molto raramente; che generalmente e più specialmente si manifesta la fioritura autun- nale nelle piante coltivate negli orti, nelle vicinanze delle case coloniche, nella parte a valle delle vie rotabili (più raramente), e generalmente dove le condizioni di vita non siano eccessivamente grame ; che si nota quasi costantemente in piante con poco 0 punto prodotto primaverile, apparendo talora sullo stesso grappolino fiorale che porta il frutto primaverile; che nelle identiche condizioni le varietà che tendono a dare la fioritura autunnale sembrano quelle a frutto più sviluppato, che generalmente viene usato per salamoia. Apparisce così chiaramente come la fioritura autunnale sia in dipendenza di condizioni speciali per nutrizione e umidità del terreno, in quanto sia negli orti, lungo i torrenti, o sotto le vie, alle prime pioggie d'autunno il terreno si trova in condizione di assorbire una maggiore quantità d’acqua. Come spiegazione del fenomeno si può con probabilità ritenere che con la caduta precoce del frutto, nell'Oliva Gaetana più facile che in altre varietà, per la sua poca resistenza alla siccità, con l’accumularsi degli idrati di car- bonio nella pianta, venga a determinarsi la successiva abbondante fioritura, e che per un fenomeno di estivazione apparisce in autunno anzichè in pri- mavera. Resta così assodato come la fioritura autunnale nell’olivo non sia un fatto costante e tanto meno proprio di determinate piante, ma dipenda da speciali condizioni biologiche e di varietà, rendendo ancora evidente come una pianta cresciuta in condizioni diverse di nutrizione, rappresenti molto spesso un or- ganismo con proprietà distinte da considerarsi nei riguardi colturali. È interessante ancora notare, come nella fioritura autunnale avvenga la quasi completa allegazione del grappolino fiorale, ciò che ben raramente si nota in primavera, e che quindi nelle speciali condizioni della fioritura au- liu. La Li... ——‘’’—’——’vimcotettttà-tttrtetttitcd@((‘ett@otr@t’t eee — 952 — tunnale, si abbiano condizioni più favorevoli alla fecondazione e allegagione del fiore. Per Ja pratica è utile accertare l’ influenza di speciali condizioni sopra speciali varietà di olivo, e quindi l'utilità che le singole varietà vengano accuratamente studiate nei riguardi biologici oltre che morfologici, onde ri- trarne quegli ammaestramenti che possono essere guida sicura nella scelta di una varietà per una determinata contrada. Agronomia. — Contributo sperimentale alla questione dei rapporti fra peso e volume delle sementi ed il rendimento vege- tativo al raccolto ('). Nota del dott. Virrorio NAZARI, presentata dal Socio R. PIROTTA. La questione dei rapporti fra peso e volume dei semi, specialmente dei cereali, sia dal punto di vista colturale, che selettivo, ha da molto tempo attratto l’attenzione degli scienziati e degli agricoltori; per cui, senza risa- lire alle prime ricerche sperimentali e alle considerazioni pratiche e teoriche, a partire dal primo serio contributo del Marek (?), per non citare che le più notevoli, abbiamo quelle del Hellriegel (*), del Wolny (4), del Rimpau (?), del Ringelmann (°), del von Rimker (?), dell’ Edler (8), del Lyon (°), delle Stiegell (!°), del Quante ("). Tuttavia le eventuali correlazioni inerenti ai suddetti caratteri, non sono ancora così definite da escludere la necessità di ulteriori esperimenti e de- terminazioni per i singoli casi; tanto più che trattasi di caratteri biome- trici, cioè di natura statistica, l'accertamento fattivo dei quali è in ragione diretta della somma degli elementi raccolti. Infatti il peso ed il volume dei cereali costituiscono due caratteri, che possono servire tanto come dati colturali, quanto come criterî selettivi. K propriamente, essi costituiscono: a) caratteri correlativi di selezione; b) caratteri analitici di classificazione e coltivazione. (*) Campo sperimentale del Presidio di Roma. (*) Das Saatgut und dessen Einfluss anf Menge und Gite der Ernt. Wien, 1875. (*) Beitràge zu den naturwiss. Grundlagen des Akerbaus. Braumschweig, 1883. (4) Saat und Pflege der Landw. Kulturpflanzen. Berlin, 1885. (°) Jahrbuch der deut. Landw. Ges. 1890, 74 e segg. (5) Journal d’Agriculture pratique, II, 47. 735 e segg. (*) Fiihling*s Landw. Zeitung. 1898, 7-8. (3) Deutsche Landw. Presse, 1200, 99. (°) U. S. Dpt. of Agr., Bureau of Plant Industry, Bull. 78. ('°) Oest.-Ung., Zeitschr. fir Zuckerind. u. Landw., 1907, 677 e segg. (') Zeitschr. der Landwirtschaftskam. fiir die Prov. Schlesien, 1910, 29. — 959 — Bisogna però distinguere riguardo al peso: il peso assoluto, riferito di solito a 1000 grani, dal peso specifico e da quello di volume, riferito ad un litro. Per le nostre considerazioni basta tener presente il peso assoluto, il quale, del resto, solo ha importanza intrinseca teorica e pratica, perchè esso ci dà un criterio diretto sulla germogliazione potenziale e sulla quan- tità delle sostanze di riserva. Il volume si intende, a sua volta, riferito alla forma, cioè, in pratica, alla grossezza dei semi. Riguardo poi alla selezione, che esorbita dal presente studio, sì può dire, senz'altro, che il peso ed il volume formano due caratteri correlativi nello stesso senso (1), per i quali, tralasciando del valore pratico delle cor- relazioni in genere, si può dire col Naldron (?), che noi manchiamo di dati precisi intorno alla portata ed al valore comparativo loro. Invece, rispetto alla coltivazione è oramai entrato nel dominio della pra- tica agricola il concetto, fisiologicamente giusto, dell’ influenza favorevole dei caratteri, peso e volume delle sementi, sui raccolti dei cereali in parti- colare. Su tale concetto sono fondati due tipi di cernitori meccanici, che, più o meno perfezionati e complessi, operano la separazione dei semi secondo il volume o secondo il peso. Tipo dei primi è il cernitore ad alveoli, Marot N. 7; dei secondi, la centrifuga svedese modificata dal Fruwirth o quella Kaiser. Sul valore di tali apparecchi abbiamo le succitate esperienze del Ringelmann e del Quante, per il cernitore Marot e le centrifuga Kaiser rispettivamente. In un caso e nell'altro, l'effetto della cernita, in volume ed in peso, venne positivamente accertato, e ne venne determinata la portata ed il rendimento. Ciononostante, era interessante: a) stabilire ulteriori confronti sperimentali tra la cernita in volume ed in peso, confermando la superiorità di questa; 5) conoscere il comportamento alla cernita meccanica in volume ed in peso, di una semente tipica per l’Italia, come il frumento di Rieti. Queste le ragioni di alcune esperienze eseguite al Campo sperimentale del Presidio di Roma, nel 1910. PARCELLAZIONE. Parcella 1+3+5+7+9= mq. 587,99.= seminate con frumento di Rieti, separato col cernitore Marot. (1) Fruwirth, Die Zichtung der Landw. Kulturpflanzen, Zu. A., IV, 131. Berlin, 1910. (8) The American Naturalist, XLIV, 48 e segg. RenpiconTi. 1911, Vol. XX, 1° Sem. 125 Ie iti i. —’’’ ‘ol crt iceicete aitescoetio cina rar aiar — 954 — Parcella 2+-4+-6 + 8= mq. 477,795.= seminate con frumento di Rieti, separato colla centrifuga Kaiser. Terreno argilloso, compatto, povero. Lavorazione normale; Concimazione —» Semina ’ Vegetazione n Raccolta ” RISULTATI. Prodotti complessivi Prodotti per Ettaro Kg. Qi. totale = grano= paglia totale = grano = paglia Rieti cernito per volume (Marot) ee 490 110 380 83,81 18,70 64,61 Rieti cernito per peso (Kai- Se i ATO 102 368 98,36 21,30 77,02 Considerando il prodotto più importante, il grano, noi abbiamo che, per il Rieti, la cernita in peso (Kaiser) rappresenterebbe, in confronto a quella in volume (Marot), un maggior prodotto dell’ 11,5 °/,, con un errore minimo possibile di 0,5. Sarebbe ora molto interessante ed utile confermare questo risultato re- lativo ai limiti dell'esperienza, con altre prove su basi più estese; e dal- l'analisi di una serie completa ed omogenea di dati sicuri, poter dedurre da una parte le eventuali correlazioni per il frumento Rieti (!), dall'altra il rendimento pratico dei diversi trattamenti (?). (‘) Hedde, Landw. Versuchsstat., 1908.= Harper e Peter, Kentucky Agr. Exp. Stat., Bull. 113.= Rieth & Smith, Illinois Agr. Exp. Stat., Bull. 148. (2) Fruwirth, Wiekann sich der Landwirt Pflanzziichtung, Sortenvorsuche Und Saat- gutbau zu Nutze machen?, 44 e segg. Berlin, 1906.= Coupan, Machines des Récolte, dol e segg. Paris. — 959 — Patologia. — Sulla Leishmaniosi e sul suo modo di trasmis- sione. Nota VI preliminare (') del dott. CARLO BASILE, presentata dal Socio B. GRASSI. Nelle mie Note precedenti (*) ho già dimostrato, che la pulce serrateceps trasmette la Leishmaniosi (3); ed ho sempre avanzato la ipotesi che anche la pulce irritans possa propagare questa malattia. Recatomi recentemente a Bordonaro (Messina), per ragione dei miei studî, ebbi in quel paese notizia che un bambino era da qualche mese ammalato di Kala-Azar. Credo bene che questo sia il caso che dal medico locale dott. Mic- ciancio è stato dichiarato all Ufficio d'Igiene di Messina (*). L'abitazione dell’infermo è posta in località ove io, nell'ottobre 1910, potei constatare la presenza di cani con Leishmaniosi. La madre del bambino ha escluso, per diverse ragioni, che cimici abbiano potuto pungere il suo figliuolo; ha dichia- rato però d'aver visto spesso nella sua abitazione cani appartenenti alle fa- miglie vicine. Dietro mia richiesta ha raccolto diverse volte, in giorni conse- cutivi, fra le masserizie a contatto del bambino, delle pulci. Seguendo la tecnica di cui mi sono sempre giovato in queste ricerche, ogni pulce venne osservata al microscopio semplice per accertarne la specie, e subito da me dissezionata. Dall'intestino di ciascuna di esse, allestii un preparato per strisciamento, che fissai e colorai secondo il metodo di Giemsa. Le pulci furono tutte riconosciute irrifans; una di esse, all'esame microsco- pico, rivelò nell'intestino la presenza di parassiti con plasma piriforme colorito in bleu pallido, con nucleo rotondeggiante, rosso violaceo e blefaro- blasto, ora a punta ora a bastoncino. Queste forme sono identiche a quelle di Leishmania da me già descritte nella pulce serralzeeps. Un'altra osservazione a questa sì aggiunge: studiando gli ectoparassiti del cane, ho notato che la pulce 277245 è abbastanza frequente su di esso; in una serie recente di ricerche, da me fatte in collaborazione coi dottori La (!) Lavoro eseguito nell'Istituto di Anatomia comparata della R. Università di Roma. (3) Rend. Acc. Lincei, 1910-1911. (*) A proposito di una recente pubblicazione di Sangiorgi (Pathologica, Maggio 1911) ricordo che sin dal Nov. 1910 in una mia nota « Sulla Leishmaniosi del cane ecc. » ho studiato la sintomatologia, il decorso clinico e la trasmissione di quest’infezione spontanea o naturale del cane che da me per primo è stata segnalata in Italia. Sin d’allora per in- dicare la suddetta infezione spontanea, come appare dalle mie note, ho sempre scritto « Leishmaniosi », mentre in quei casi in cui ho dovuto accennare all'infezione sperimen- tale ho specificatamente scritto « Leishmaniosi sperimentale ». (4) Vedi la rubrica « Notizie » di Malaria e Malattie dei paesi caldi, Aprile 1911. — 956 — Cava e Visentini, e che verranno fra giorni pubblicate, noi abbiamo notato, in una famiglia di un bambino ammalato di Kala-Azar, la presenza di una cagna con Leishmaniosi; su questa cagna la percentuale delle pulci appar- tenenti alla specie 2rritans, come sarà specificato, era notevolissima, e, fra le molte osservate, in una abbiamo anche rinvenuto abbondanti Leishmanie. Queste ricerche confermano che anche la pulce 477/tans deve essere con- siderata come agente trasmissore dei parassiti di Leishman dal cane all’ uomo, dall'uomo al cane, dall’ uomo all'uomo, dal cane al cane. Riservandomi lo studio dell’epidemiologia della Leishmaniosi (umana e canina), non solo in rapporto alle condizioni climatiche ma anche in rapporto alle relazioni che passano fra la infezione nell'uomo e la infezione nel cane, io qui rendo noto che ho iniziato degli esperimenti per stabilire il periodo del l'incubazione della malattia e per determinare se le pulci possano in tutte le stagioni inoculare il parassita; in altri termini quindi, se il ciclo evolutivo di esso parassita nelle pulci sia o no in rapporto alle condizioni di ambiente (temperatura). Ho già pubblicato che pulci serraticeps ed 0-00 $ » 885 Angeli e Alessandri. La struttura deglivazossic@mposti. elfo «e 896 Boggio. Calcolo delle azioni dinamiche esercitate da correnti fluide sopra pareti rigide (pres. dal Socio. Levi-Givita). .. « Rep 901 Giuganino. Alcune formole analoghe a quelle del Volterra nella teoria delle distorsioni ela- ; stiche (pres. dal Corrisp. Garbasso)- co |. = È ie 9.091 Corbino. Lo studio sperimentale del fenomeno di Hall e la teoria elettronica dei metalli (pres. dal Socio Blaserna) i Re De E Rolla. Su la diffusione degli elettroliti net colloidi (pres. dal Corrisp. Gardasso) (*) . . » 921 Rosati. Studio cristallografico del p-tolilisosuccitiammato monoetilico (pres. dal Socio Stréver) » > Clerici. Una trivellazione eseguita nel Tevere in Roma al ponte Fabricio (pres. dal Socio Poternb). vasi di O RE CI » 922 Bruni e Meneghini. Formazione di soluzicni solide metalliche per diffusione allo stato solido (pres. dal Socio Ciamician) . Rd SS Ce Porlezza e Norzi. Concentrazione dell'emanazione radioattiva dei gas dei soffioni boraciferi mediante il carbone a bassa temperatura (jpYes. dal Socio Masini) . .. +. 2982 1 ‘Id. id. Sul tufo radioattivo di Fiuggi - Gas ucclnsi - Contenuto in radio ed uranio (pres. Zd.) n 935 Paolini. Sulla disidratazione dei glicoli dell'anetolo e dell'isosafrolo (pres. dal Corrisp. Pe- ratoner) LL i i Francesconi e Sernagiotto. Apparecchio a lavorazione continua per distillazioni frazionate nel vuoto (pres. dal Corrisp. Balbiazo) Os o TE a NO Campbell. Sulla fioritura autunnale nell’ Tea! europaea L. (pres. dal Socio Pirotta) . » © Nazari. Contributo sperimentale alla questioné dei rapporti fra peso e volume delle sementi | ed il rendimento vegetativo al raccolto \pres: INS DEA Sn, . » 952 | Basile. Sulla Leishmaniosi e sul suo modo d/trasmissione (pres. dal Socio Grassi) . . ». 995: Indice del vol. XX, 1° semestre 1911 . . A O f e o. (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. E, Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. ner antina. dà anna prete cia "_ a T_T Past nt. _ intra prarnantno een mie en air a x ” i ea LesLs® vata ca Ata inn = corrotta ustuuesi : resto IE dana goa n arrese tane menti ira ce a emer i ARMI ta ten n ln i 8 Aup Bara | LIBRARIES | I APREA MRRZIO na - | | | mp0 088 0135 $ niicitiiiniblilzli SMITHSONIAN INSTITUTION Il I